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alfabeta Mensile di intervento culturale Novembre 2012 Numero 24 – Anno III euro 5,00 Il primo mensile con un supplemento quotidiano 2 24 ILIBRI : 4 PAGINE DI RECENSIONI SUPPLEMENTO SPECIALE ALFACAGE – IL GRANDE EVERSORE IPERREALISMI politica e reality IPERCORPI paralimpiadi e postumano IPERGIOCHI un’addiction di massa IPERTV documentari e serial Roberto Barni LA PAZIENZA DI OCCUPY - GIÙ LE MANI DALLA 180 - TRAGEDIA GRECA POESIA FRANCIA - DESIGN IN CUCINA - RIPOLITICIZZARE LA DECRESCITA

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alfabetaMensiledi interventoculturaleNovembre 2012Numero 24 – Anno IIIeuro 5,00

Il primo mensile con un supplemento quotidiano

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ILIBRI : 4 PAGINE DI RECENSIONI

SUPPLEMENTO SPECIALE ALFACAGE – IL GRANDE EVERSORE

IPERREALISMI politica e realityIPERCORPI paralimpiadi e postumanoIPERGIOCHI un’addiction di massaIPERTV documentari e serial

Roberto Barni

LA PAZIENZA DI OCCUPY - GIÙ LE MANI DALLA 180 - TRAGEDIA GRECAPOESIA FRANCIA - DESIGN IN CUCINA - RIPOLITICIZZARE LA DECRESCITA

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Sommario■ EDITORIALI3. Carlo Formenti

Unificare una controegemonia3. Ida Dominijanni

Rottamiamo i rottamatori 3. G.B. Zorzoli

L’Iran con la bomba 4. Letizia Paolozzi

Siamo tutte femministe storiche 4. Paolo Fabbri

(spreg.) moderato4. Lucia Tozzi

Per una città ottusa

5. Rebecca SolnitLa pazienza di Occupy Il movimento compie un anno

■ IPERREALISMI6. Maurizio Ferraris

La presa della battigiaOtto punti per una discussione

7. Raffaele DonnarummaIperbolica modernitàCome raccontare la realtàsenza farsi divorare dai reality

8. Quentin MeillasouxAl di là del principiodi ragion sufficiente

8. Andrea CortellessaReality

■ IPERCORPI9. Antonio Caronia

Tendenza PistoriusLe diverse sirene del postumano

10. Enrico ValtellinaFare qualcosa col sopracciglioIl corpo non conformee i Freak studies

11. Carlo Antonio BorghiAspettando le Operaidi

11. Danielle PeersPazienti atleti, freaksCosa non ci dicono le Paralimpiadi

12. Arianna Bove e Erik EmpsonOlimpiadi 2012: Citius, Altius, FortiusCome produrre esclusioneusando la retorica dell’inclusione

■ IPERGIOCHI13. Marco Dotti

La posta in giocoAnatomia di un’addiction di massa

14. Giuseppe ZuccarinoAlea, ergo sumIl gioco e la vita, con Bataille e Blanchot

14. Mircea CartarescuLa roulette della nostalgia

15. (m.d.)«Monopoly is back!»Trash money & junk food

15. Francesco SaviniDall’Homo Ludens all’Homo Illudens

■ IPERTV16. Mario Sesti

Il significante al quadratoLe frontiere del documentario e del serial

17. Christian CaliandroThe Wire«Cinema espanso» e nuovo realismo sociale

18. Enrico MenduniNo, il dibattito no!Duelli in poltroncinavs Inchieste sul campo

18. Laura BusettaJe suis venu vous dire…Gainsbourg par Ginzburg

■ ROBERTO BARNI19. Intervistato dal suo doppio22. Alberto Boatto

Dove naturalmente va ogni cosa

■ GIÙ LE MANI DALLA 18023. Francesco Galofaro

Il futuro della folliaDagli Ospedali Psichiatrici Giudiziarial Manuale del Disturbo Mentale

24. Mario ColucciTacciano le sireneUn’analisi della proposta di leggi Ciccioli

25. Peppe Dell’AquilaLegge Basaglia, trent’anni di lavoroE i tentativi di delegittimarlo

■ TRAGEDIA GRECA26. Vassilis Vassilikos

Solo un dio ci può salvare?26. Manuela Gandini

L’arte del labirinto27. Dimitri Deliolanes

Lo spettro di Weimar27. Dimitri Mamaloukas

Crisi economica e editoria28. Haris Tsavdaroglou

La crisi siamo noiLotte sociali e beni comuni in Grecia

29. Kostas Th. KalfopoulosAlle spalle di Syriza

29. Letizia PaolozziL’esattore di Markaris

■ ACTIONS POETIQUES30. Henry Deluy

Cinquant’anni (e più) di militanzaIntervista con Sandra Raguenet

31. Eric SuchèreDel resto non esisteDodici note parziali

31. Luigi MagnoNote per una cartografiaSulla poesia francese dell’estremo contemporaneo in Italia

32. Francis PongeCognizione del periodoche annuncia la primavera

32. Andrea IngleseL’anomalia Ponge

33. Julien BlaineL’avanguardia non ha conclusoil suo primo secoloConversazione con Andrea Inglese

■ DESIGN IN CUCINA34. Aldo Colonnetti

Un viaggio durato trent’anni35. Alberto Capatti

Sistema degli oggetti: il moscardino35. Valentina Auricchio

Dietro le quinte

■ iLIBRI36. Andrea Cortellessa

su Carlo Emilio Gadda36. Angelo Guiglielmi

su Christian Raimo36. Gilda Policastro

su Francesco Targhetta37. Claudia Crocco

su XI quaderno di poesia37. Giorgio Mascitelli

su Biagio Cepollaro37. Francescia Borrelli

su Vladimir Nabokov38. Annaliosa Goldoni

su Kurt Vonnegut38. Francesca Lazzarato

su Juan Rulfo38. Maria Teresa Carbone

su Marius Szczygiel38. Clotilde Bertoni

su Massimo Fusillo39. Antonella Andedda

su Michele Cometa39. Stefano Chiodi

su Stefania Zuliani39. Alberto Burgio

su Aessandro Dal Lago

40. Marino Badiale, Fabrizio TringaliRipoliticizzare la decrescitaConsidrerazioni a partire dalla conferenza di Venezia

mensile di intervento culturale

alfabeta2Comitato storicoOmar Calabrese, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Pier Aldo RovattiRedazione Nanni Balestrini, Ilaria Bussoni, Maria Teresa Carbone, Andrea Cortellessa,Davide Di Maggio, Manuela Gandini,Andrea Inglese, Lucia TozziSegreteriaErica [email protected] editorialeSergio BianchiUfficio stampaNicolas [email protected] redazionepiazza Regina Margherita 27 00198 [email protected] graficoFayçal ZaoualiDirettore responsabileGino Di MaggioEditoreAssoc. Culturale Alfabeta EdizioniVia Tadino, 26 –20124 [email protected]

Autorizzazione del Tribunale di Milanon. 446 del 17 settembre 2010

Tipografia Grafiche Aurora S.r.l.via della Scienza 21 – 37139 Verona

Distribuzione EdicoleMessaggerie Periodici S.p.a,via Giulio Carcano 32 – 20141 MilanoDistribuzione LibrerieJoo Distribuzionevia F. Argelati 35 – 20143 MilanoDistribuzione AbbonamentiS.O.F.I.A. SRLVia Ettore Bugatti 1520142 Milanotel. 02 [email protected]

Comitato di indirizzoFranco Berardi Bifo, Paolo Bertetto, Achille Bonito Oliva, Alberto Capatti, Furio Colombo, Michele Emmer, Paolo Fabbri, Mario Gamba, Angelo Guglielmi, Letizia Paolozzi, Valentina Valentini, G.B. Zorzoli

laboratori αβTorino: [email protected]: [email protected]: [email protected]: [email protected]: [email protected]: [email protected]

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Progetto webJan ReisterRedazione Nicolas Martino, Giorgio Mascitelli,Stella [email protected]

Edizione digitale a cura di Jan ReisterProgetto e realizzazioneQuintadicopertinahttp://www.quintadicopertina.comebook: ISSN:2038-663X

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EDITORIALI alfabeta2.24

Recentemente, su queste pagine più voci hanno sollevato un interrogativo: perché in Italia non esi-stono movimenti come Occupy Wall Street? La risposta è stata, perlopiù, la stessa: colpa dell’egemo-nia che partiti e sindacati – benché in crisi – riescono ancora a esercitare sulle classi subalterne (GigiRoggero, in un articolo apparso su UniNomade, allarga il campo a Chiesa e famiglia, parlando di «te-nuta delle istituzioni della mediazione sociale»). A me pare che questo sia un escamotage che glissasulla vera domanda: perché l’egemonia tiene? Azzardo due risposte: 1) perché la nostra composizionedi classe è radicalmente diversa da quella americana; 2) perché da noi non esiste alcun progetto poli-tico capace di «contro egemonia».Occupy Wall Street nasce in un Paese dove la forza della classe operaia tradizionale è stata annientatada un pezzo, e in cui avevamo assistito (negli anni Novanta) all’insorgenza di un nuovo soggetto (po-tenzialmente) antagonista – i knowledge workers – che i teorici post operaisti (compreso chi scrive) ave-vano identificato come il (possibile) protagonista di un salto qualitativo di contenuti e forme organiz-zative della guerra al capitale. La crisi ha spento quella speranza perché, questa volta, il capitale ha po-tuto e saputo giocare d’anticipo: l’operaio massa fu annientato «dopo» avere espresso un grandiosociclo di lotte, i lavoratori della conoscenza sono stati annientati (attraverso licenziamenti di massa, de-centramento delle mansioni nei Paesi in via di sviluppo ecc.) «prima» che acquisissero consapevolez-za dei propri interessi e della necessità di organizzarsi politicamente. Occupy segna una fase nuova,che vede la convergenza di diversi strati sociali (proletariato tradizionale, working poors, lavoratoridella conoscenza, studenti senza futuro) in quella che, a mio parere, è ancora solo una lotta di resi-stenza (benché alcune delle sue parole d’ordine siano di attacco) agli effetti della crisi. In Italia lo scenario è diverso: la «vecchia» classe operaia esprime ancora un notevole potenziale di lotta

Unificare una controegemoniaCarlo Formenti

L’Iran con la bombaG. B. Zorzoli

Rottamiamo i rottamatoriIda Dominijanni

(se la Fiom conta ancora non è perché incarna inerzie «ideologiche», ma proprio perché può sfrutta-re questo potenziale), mentre da noi i lavoratori della conoscenza non hanno mai acquisito un pesosignificativo. Qui i soggetti in campo, a parte gli operai, sono gli studenti (vittime delle politiche dismantellamento di una scolarizzazione di massa che la ristrutturazione globale ha reso disfunzionaleal mercato del lavoro), i precari del terziario arretrato, i lavoratori intermittenti dell’industria cultura-le (Valle, Macao ecc.), le comunità territoriali colpite da processi di espropriazione violenta dei benicomuni (No Tav). Si tratta di movimenti che, pur avendo episodicamente raggiunto livelli significa-tivi di organizzazione e consapevolezza, faticano a confluire e generalizzarsi. Ha senso pensare di riunire questo arcipelago attorno alle parole d’ordine del reddito minimo garanti-to e della difesa dei beni comuni, contrapponendole alle rivendicazioni «lavoriste» del proletariato tradi-zionale? Io penso che sia un errore che conferma l’assenza di un progetto politico capace di contro ege-monia. Assenza che, a sua volta, rispecchia la specificità della nostra composizione di classe: mancan-do i «veri» lavoratori della conoscenza si tenta di inventarli, estendendo il concetto alle «moltitudini»soggette a vario titolo all’espropriazione capitalistica (ma il saccheggio sistematico di ogni forma di vitaè connaturato al capitalismo fin dalle origini, sia pure con modalità diverse, per cui non è possibile fon-dare una seria analisi di classe a partire da tale fenomeno). Alternative? Concordo con chi sostiene chenon si tratta di costruire «alleanze» fra resti della sinistra radicale e movimenti, ma resto convinto chela soluzione non stia nemmeno nel mettersi in fiduciosa attesa della proliferazione spontanea di sacchedi autonomia sociale, bensì nello sforzo di far confluire soggetti, esperienze e narrazioni in un’organiz-zazione unificata che incarni la composizione politica (e non tecnica!) di classe, e nell’elaborazione diun programma che non metta in contrapposizione i differenti strati di classe, ma li unifichi.

Spettri di Marx fu un libro profetico nel descrivere che cosa sarebbe accaduto nell’inconscio del mondounificato una volta finita, con il crollo del comunismo, l’illusione di una storia che procede verso il me-glio e una volta entrati nella temporalità disassestata, out joint come il tempo di Amleto, della globaliz-zazione, quando il presente sfreccia verso il futuro cancellando ogni attaccamento al passato mentre ilpassato lo invade e lo ossessiona con i suoi spettri ritornanti. «Imparare a vivere» in queste condizioni,scriveva Derrida, significa saper convivere con quegli spettri e praticare «una politica della memoria, del-l’eredità e delle generazioni», la giustizia non essendo altro che una relazione responsabile fra chi c’è, chinon c’è più e chi non c’è ancora, e l’identità non essendo altro che un percorso a rischio tra ciò che ab-biamo ereditato dal passato e ciò che è di là da venire nel futuro. Bisognerebbe tenere a mente queste considerazioni, assieme a quelle di Walter Benjamin su «l’appun-tamento misterioso fra le generazioni» che ci chiama ad agire nell’adesso, e recitarle ogni giorno, comeuna preghiera laica o uno scongiuro, contro il mantra della rottamazione che imperversa ovunque enon da oggi. Ben prima che dal sindaco di Firenze. A me capitò di sentirlo intonare anni fa dal ret-tore di un’università a proposito del prepensionamento di un docente: si trattava di un intellettualeletto e amato in mezzo mondo, l’università avrebbe dovuto congedarlo il più tardi possibile con unmonumento, invece lo scaricava in anticipo senza alcun rimpianto. Dopodiché è stato un diluvio.Rottamano gli ospedali, perdendo i migliori medici tanto il problema è dei pazienti. Rottamano lescuole, tanto un insegnante vale un altro anzi non vale niente. Rottamano le fabbriche, licenziandoin libertà. Rottamano i giornali, dove ti prepensionano per direttissima appena possono e pazienza sele redazioni si svuotano dei testimoni di com’era l’Italia nel ’68 o il mondo prima dell’89: la memo-ria di questi tempi è fuori mercato. Questo per dire che la rottamazione non è in mano ai rottamatori di professione che smaniano per so-stituirsi ai politici di professione, e non c’entra nulla con il ricambio generazionale che essi predicanocon le migliori o le peggiori intenzioni. È in mano a un dispositivo biopolitico e bioeconomico che li-

cenzia gli occupati per non assumere disoccupati e precari, e archivia competenti e spiriti liberi per me-glio manovrare inesperti e allineati. È in mano alla cultura del risentimento e del risarcimento ad perso-nam che a sinistra ha smantellato la critica del sistema, l’idea del presente e il progetto del futuro. È inmano alla debitocrazia imperante che mette i debiti monetari, pubblici e privati, al posto del debito sim-bolico che lega, o dovrebbe, le generazioni fra loro: «l’appuntamento misterioso» di Benjamin, la politi-ca della memoria e dell’eredità di Derrida.È infine un effetto, l’ennesimo, dell’ipnosi nuovista di cui l’opinione pubblica è preda in Italia da ventianni a questa parte. Sotto la quale ipnosi sono stati rottamati il Pci perché era fuori dal tempo, il Psi ela Dc perché rubavano, il sistema politico proporzionale perché non garantiva la governabilità, l’equili-brio fra Stato e autonomie perché era centralista, la Prima Repubblica perché era corrotta, pezzi dellaCostituzione perché era invecchiata, pezzi di Welfare perché era costoso. Tutte cose che andavano sì cam-biate radicalmente e risolutamente, ma all’inverso dei rottamatori che buttano il bambino per tenersil’acqua sporca. Sì che adesso ci ritroviamo con una sinistra senza nome e senz’anima, un centrodestrache ruba quanto e più di prima, un parlamento alla disperata ricerca di un ritorno al proporzionale pergarantirsi il Monti-bis, un federalismo più corrotto dello Stato centrale, una Costituzione delegittimata,un Workfare spietato, e la sensazione netta di avere sprecato un ventennio. Con in più l’aggravante dellarecidiva, visto che per rottamare la Prima Repubblica ci son voluti l’89, Mani pulite e Berlusconi, men-tre per rottamare il berlusconismo è bastato il loden sobrio di un governo tecnico. Le rottamazioni pas-sano, i fantasmi del passato si sommano e non smettono di incombere.Perciò rottamiamo i rottamatori e vediamo di cambiare quello che va cambiato senza nascondere le vereposte in gioco sotto la maschera di un finto conflitto generazionale. Che per essere credibile va giocatoin presenza, guardandosi in faccia e scontrandosi fra padri e figli e fra madri e figlie sulle idee, gli errori,i fatti e i misfatti ma non sulla conta anagrafica o sull’anzianità di servizio. E qualche volta perfino cele-brando un’alleanza, all’ora di un misterioso appuntamento.

Non tutti i regimi dove la democrazia non esiste o è limitata sono identici. Sotto la dittatura di BenAli la legislazione riconosceva alle donne tunisine parità di diritti, mentre senza la pressione interna einternazionale il governo di Hamadi Jebali, costituito da una maggioranza parlamentare regolarmen-te eletta, avrebbe introdotto discriminazioni anche formali fra i due sessi. L’Iraq di Saddam Husseinera un paese laico, dove il vicepresidente apparteneva alla minoranza cristiana, oggi costretta a fuggi-re dal paese. Su un gradino più basso si collocano pertanto i paesi dove l’oppressione è sia politica che religiosa, lostesso governo è sottoposto al controllo dei vertici della religione di Stato. A questa categoria appartieneindubbiamente l’Iran, anche se le libertà politiche e civili, soprattutto delle donne, sono ancora più con-culcate in Arabia Saudita, che nessuno però definisce «stato canaglia» (fin quando è rimasto al suo postodi cane da guardia nei confronti dell’Iran, anche il regime di Saddam Hussein non era fra i cattivi).Verso la prospettiva di un Iran dotato di ordigni nucleari provo quindi la stessa repulsione che nutri-rei se riguardasse l’Arabia Saudita. Di conseguenza non avrei dubbio alcuno a sottoscrivere iniziativedi contrasto da parte di una comunità internazionale che avesse le carte in regola per farlo. Anche per-ché non credo alle reiterate dichiarazioni di Teheran di volersi limitare all’arricchimento dell’uranio(pochi percento) necessario per il combustibile dei rettori nucleari. Ho abbastanza conoscenze tecni-co-scientifiche per rendermi conto che il numero crescente di ultracentrifughe installate in Iran ha giàsuperato quello sufficiente a tal fine e tende invece a quello necessario per produrre urano arricchito in-torno al 90%, cioè military grade.Guardo invece con sospetto alle iniziative in corso contro l’Iran per un duplice ordine di ragioni. In-nanzitutto la storia dell’ultimo secolo abbonda di prove inconfutabili sull’inefficacia delle sanzioni neiconfronti degli Stati che le subiscono, e sulla loro straordinaria efficacia nel provocare sofferenze (chearrivano alla morte per denutrizione e/o inadeguata assistenza sanitaria) alle popolazioni coinvolte.Inoltre, troppe vicende pregresse delegittimano chi minaccia l’Iran di ulteriori rappresaglie, che nonescludono l’intervento militare.Il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), sottoscritto nel 1968 da Usa, Regno Unito e Unione

Sovietica e successivamente anche da Francia e Cina, all’insegna di «chi ha avuto, ha avuto» aveva loscopo dichiarato di evitare l’ingresso di disturbatori nel club ristretto delle potenze nucleari (non ca-sualmente i cinque membri di diritto del Consiglio di sicurezza dell’Onu). Le cose non sono andatecosì. Al club si sono aggregati India, Pakistan e Israele (forse anche la Corea del Nord). I primi dueesplicitamente, senza mai dichiararlo (né smentirlo) Israele, anche se nessun addetto ai lavori ne du-bita (e la stima è intorno a ottanta testate). Non mi ricordo prese di posizioni altrettanto dure controquesti tre paesi. Gli Stati Unirti sospesero per qualche anno gli aiuti militari ed economici al Pakistan,che fu oggetto insieme all’India di sanzioni economiche sulla base della risoluzione 1172 del Consi-glio di sicurezza. Provvedimenti finiti presto nel dimenticatoio, tanto che George Bush jr. firmò unaccordo di collaborazione negli usi pacifici dell’energia nucleare con l’India, malgrado il divieto di sti-pulare intese del genere con paesi che si fossero dotati di armi nucleari. Né ci sono state richieste aIsraele per verificare in loco la presenza o meno di armi nucleari.Non regge nemmeno la distinzione fra Stati affidabili e infidi. Il Pakistan non è soltanto il paese dovehanno trovato e tuttora trovano ospitalità e supporto gruppi integralisti islamici, che lì hanno le basiper alimentare la guerriglia in Afghanistan; non è soltanto uno Stato che gioca in proprio una politi-ca contrastante con quella dei paesi occidentali in Afghanistan, ma anche altrove. Altrimenti non sispiegherebbe il trattamento riservato dai governi pakistani allo scienziato nucleare Abdul QadeerKhan, promotore del programma per l’arricchimento dell’uranio, che per oltre un decennio ha gesti-to una rete di vendita della tecnologia nucleare a Corea del Nord, Iran e la Libia. Gli fu infatti con-cesso di scontare la condanna agli arresti domiciliari all’interno di una lussuosa villa di sua proprietà.Siamo insomma in presenza di una sequenza di fatti gravi, mentre quelle dell’Iran contro Israele sonominacce certo più gravi, ma solo verbali. Eppure nessuno tratta il Pakistan come l’Iran, che oltre tuttoè l’unica delle principali potenze dell’Asia sudoccidentale a non possedere armamenti nucleari. Lo ribadisco: l’idea di un Iran con la bomba mi fa rabbrividire, ma nel contempo mi chiedo: perchéIndia, Israele, Pakistan sì e Iran no? Perché questi Stati hanno al massimo subìto ritorsioni di nonlunga durata e nessuno li ha mai minacciati di intervento militare?

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EDITORIALI

Succede a Paestum. Per la seconda volta, dopo 36 anni, compaiono inaspettatamente tantissime donne.Ottocento, per la precisione. Età media 45 anni, arrivate da cinquanta città. Da sole oppure impegnate neicollettivi, librerie, gruppi, associazioni. Un piccolo mondo, ma un mondo che (accolto senza sbavature dal-le promotrici locali del gruppo Artemide) deve cercarsi una sala più grande. L’auditorium costa molto. Pe-rò la cifra viene raccolta in una mattinata. Pure il blog (www.paestum2012.wordpress.com) continuerà afunzionare. Con materiali, testi, riflessioni, progetti, proposte. Siamo di fronte a un agire femminista. Esempio di quel pensare in azione che tiene insieme teoria e praticapolitica. Fuori da lì, vige la delega, la strumentalità dei rapporti, l’organizzazione piramidale. Non solo. Le donne hanno cinque minuti a disposizione. Esempio raro di tolleranza, si ascoltano reciprocamente.Niente preiscrizioni o relazioni. Non ci sarà il documento conclusivo. La presidenza è vuota. Invece di ap-plaudire, le mani sfarfallano in aria. L’ispirazione è tratta dagli indignadosdi Puerta del Sol. Tra cuore e men-te, tra voci e sguardi le parole volano dal microfono: come il famoso manico di scopa della strega? Una scelta di metodo importante. Nonostante il peso del vivere, è fatta in leggerezza.Per non restare schiacciate dalla crisi, dai piani di austerità, dal precariato, bisogna cambiare prospettiva.Spostare i confini, cercare pratiche del conflitto capaci di evitare la ripetizione. In effetti il femminismo hadetto che il suo, il nostro confine, è quello con l’altra/l’altro. Significa puntare su una politica delle relazioni.Averne cura. Peccato che gli uomini non la registrino. Il valore simbolico di quello scambio non lo vedono.E il risultato è squadernato davanti ai nostri occhi. A Paestum di uomini ce ne sono pochi, silenziosi. Nonerano invitati, non sono respinti. Nel ’76 si tenne in questo luogo il primo incontro femminista. Allora siscandiva «L’utero è mio e lo gestisco io». Adesso, per il logo, la disegnatrice Pat Carra ha sostituito la figuramaschile del reperto conservato al museo con la figura femminile della tuffatrice che si slancia nel mondo.

Siamo tutte femministe storicheLetizia Paolozzi

Per una città ottusaLucia Tozzi

(spreg.) moderatoPaolo Fabbri

Anche e soprattutto per rovesciare i film catastrofici ai quali assistiamo ogni giorno. Vicende di cupidigia,corruzione, competizione, egoismo. La sceneggiatura è sempre la stessa: separazione della produzione dal-la riproduzione, del lavoro dalla cura, dell’individuo dalla comunità. Niente happy end. La morale di questifilm? O la borsa o la vita. Paestum all’opposto dice: «Primum vivere anche nella crisi: la rivoluzione necessa-ria. La sfida femminista nel cuore della politica». Bisogna rimettere al centro la vita. Per tutti, donne e uo-mini. Puntando su tempi, modi e sul cosa si produce. La strada c’è, tracciata dalla soggettività femminile, dal sapere accumulato. Il femminismo non ha mai de-dicato il suo tempo a scrivere «ricette per l’osteria dell’avvenire». In effetti, accade «non per caso» che i fan-tasmi di contrapposizione tra femministe giovani e antiche qui si rivelino, appunto, una invenzione. Purappartenendo a diverse generazioni, «siamo tutte femministe storiche». Anche se, per le più giovani l’ansiadel precariato è tartassante. Ma la forza per modificare la realtà dipende, di nuovo, dall’essere in relazione.Piuttosto, se in passato le donne sono state attrici invisibili del cambiamento, oggi sono le attrici visibili diun progetto che consiste nell’introdurre la differenza femminile nella trama della storia. La crisi approfon-disce le gerarchie verticali. E la radice della gerarchia del maschile sul femminile non è scomparsa. Però, nonesiste un solo modo di affrontare l’eredità del patriarcato. Le modeste strategie, i conteggi sul numero paridi donne e uomini nei luoghi del potere e delle istituzioni, non tengono conto della differenza e che la dif-ferenza delle donne dagli uomini rappresenta un vantaggio e una ricchezza per la società. Piuttosto, dovreb-bero essere gli uomini a liberarsi da un modello virile ancora pesante. Qualcuno, forse, comincia a provar-ci. Ormai il rispetto degli equilibri vitali è diventata una rivendicazione di tutte/tutti.Quanto al femminismo, la sua radicalità e vitalità hanno dimostrato (ancora una volta) di essere in movi-mento. Non solo a Paestum, non solo nelle giornate dell’incontro.

Il gusto, si sa, è fatto di molti disgusti. Per conservare, a onta e dispetto delle circostanze, un qualche eminimo gusto per la politica vanno dichiarate le proprie allergie. Anche il fastidio, che l’etimo dichia-ra: ibrido tra il fasto e il tedio. È proprio quel che provo per il Moderato, che va o torna politicamen-te di moda. La scienza cosiddetta politica è interdetta: nei dizionari titolati – Bobbio-Matteucci-Pasqui-no, Utet 2004 – non figura. Si dubita se sia o se ne possa fare una categoria come Massimalismo o Mi-nimalismo – dove tra i socialisti si trovavano peraltro i centristi unitari («intermedi» o «mezzani»).Infatti. Il Moderato, diafano e versipelle, affiora nei tempi critici e burrascosi, dove può collocarsi alcentro, dopo aver atteso che tutti gli altri abbiano preso posizione. Soggetto politicamente modificato,col programma di non aver programmi salvo quello di far sembrare tutti gli altri attori politici indeco-rosi ed eccentrici. Si manifesta di preferenza in occasione di governi tecnici, balneari e di parcheggio,mentre le forze politiche s’impiegano a convergenze parallele. E tira la giacchetta a quanti gli promet-tono di aiutarlo a cambiare la sua.Sono i momenti in cui il Moderato vive il Parlamento come una camera di compensazione abitata dagruppi misti e a raggio variabile; una cassa integrazione per ammortizzatori politici; un’agenzia di col-locamento per chi può mettersi in mezzo – per mettere in mezzo gli altri e carpire i media. Lui si vuolemediocre, anzi inter-mediocre, ago d’ogni bilancia, e così addita tutti gli altri come opposti e pericolo-si estremisti. Figuratevi che anche i centristi sono superlativi – estremisti del mezzo – per lui che stasempre in equilibrio comparativo. Intermedio tra l’andante e l’allegro, sceglie sempre l’andante, ritmoideale per farla in barba agli altri e a gettar fumo negli occhi. È noioso e ridondante, ma ci vuole moltosforzo per mantenersi da par suo alla superficie dei problemi seri. Deve dar segni di Moderatezza, perché per lui est modus in rebus, verbis e signis. Parla quindi il linguag-gio ordinario e usa solo le parole di quelli da cui prende le (in)debite distanze. Parole stupite di trovar-si in bocca a lui e in compagnia di altre che non vorrebbero frequentare. Inutile domandargli di direqualcosa di sinistra – o di destra. Il Moderato non eccita discorsi fiacchi: come i moderatori televisivi,è lì per sedare le idee vive. Col PO-CO, cioè con il POliticamente COrretto, toglie il sapore e diffon-de il sopore. Artista della circonlocuzione, evita i discorsi diretti, le promesse da mantenere, i program-mi responsabili; parla per proposizioni condizionali, al congiuntivo; si ferma davanti a ogni sostantivoe fa lunghe pause. Tra le maggioranze silenziose e le minoranze vocianti lui è per le medie statistiche,sussurrate tra le falsarighe dei sondaggi. Se il problema fosse quello di prendere una ferma posizione, il

mondo potrebbe far a meno di lui. Ricordate il caso Salman Rushdie e i suoi Versetti Satanici? E aveteletto Joseph Anton? Da Carter a Bush fino a Obama tutti Moderati: non si offende l’Islam – e non eraproprio il caso! –, meglio sacrificare moderatamente la libertà di parola. (Ma Free speech non si tradu-ce «parola gratuita»!)La satira ha poca presa sul Moderato: per la caricatura ci vogliono tratti salienti e caratteri pregnanti,mentre lui ha i connotati sfuggenti del compromesso e del restyling. Sta davanti alle telecamere col sor-riso smorzato e l’intonazione sommessa. Non si riesce neppure ad affibbiargli ingiurie e oltraggi riser-vati, grazie a lui, agli opposti estremisti. Non funziona neppure il ridicolo che, se uccidesse davvero, iModerati li vorrebbe tutti morti. Ma loro sanno come fare: conoscono a puntino il Moderariato vinta-ge della Democrazia cristiana. Continuano infatti ad abitare il luogo comune – dove pagano l’Imu pa-recchi ex-luogo-comunisti –, sono geneticamente trasformisti e soprattutto opportunisti. Cioè, comeda etimologia, stanno fermi davanti al porto, (ob-portum) in attesa che il buon vento li porti. (E nonchiamateli immobilisti!).Il Moderato smussa e intanto ammassa. Parco a parole ma smodato in rebus, non è frugale quanto dicedi essere. Lui sa, di pratica e d’intuito, che i termini Comunità e Comunicazione provengono entram-bi da munus, il «regalo vistoso» che si trova anche in munificenza e remunerazione. Che è appunto quelche si aspetta e/o mette in opera il politico Moderato. Vorrei tradurre il mio fastidio con una proposta a tutti i curatori di dizionari ed enciclopedie. Nelleprime pagine del genere letterario detto Vocabolario, si trovano i sensi detti Alterati. In calce ai sostan-tivi sono registrate – abbreviate e in corsivo – le alterazioni e il loro grado: dim., vezz., accr. (diminuti-vo, vezzeggiativo, accrescitivo), eccetera. Propongo di premettere alla parola Moderato pegg. e spreg., perpeggiorativo e dispregiativo*. Una proposta modesta, lo riconosco, ma è il mio modo professionale ditradurre un sentimento a cui potrei dare una voce lirica all’altezza della tragica buffoneria del presentepolitico: «Moderati, vil razza dannata» (Rigoletto, atto II, scena IV).

Nota all’attenzione del linguista Gianrico Carofiglio. Sono le particelle che il dizionario premette a «Scribacchino», «che scribac-chia, scrivucchia o scrivacchia malvolentieri cose di poco conto», e a «Scribacchiatore». Per questi Barthes ha forgiato la categoria cri-tica di écrivant, per opporlo all’écrivain che traduciamo «scrittore» (e allo scribe, da rendere come «scrivano o scritturale»). Da di-stinguere da «imbrattacarte», davvero offensivo.

Pensavamo di esserci liberati delle città creative di Richard Florida e ci ritroviamo con le smart cities, leloro insidiose discendenti. Dopo innumerevoli dibattiti anche la sciura Pina intuisce oramai che non èuna cosa buona per tutti, ma solo per i peggiori attori del mercato immobiliare: quelli che attirano ar-tisti e giovani intellettuali in una zona malfamata per trasformarla in un quartiere trendy e poterli fi-nalmente sbattere via a calci insieme ai poveri di prima. Quando gli uffici stampa di politici e real esta-te companies hanno dovuto ammettere che l’equazione creatività-crescita urbana viene associata semprepiù al dannoso (per l’immagine) concetto di disuguaglianza, si sono buttati alla ricerca di un nuovo si-gnificante, il più possibile dissociato da un significato preciso. Hanno trovato la Smart City. Di cosa parlano i promotori delle «città intelligenti»? Essenzialmente si riferiscono all’incremento delleinfrastrutture TLC-ICT, alla diffusione della tecnologia delle telecomunicazioni e dell’informazione.Ma guai ad ammetterlo, se no si viene tacciati di superficialità e ignoranza. Non si tratta solo di posa-re cavi e inventare app, dicono: l’innovazione è al servizio della sostenibilità, del risparmio energetico,dell’efficienza dei trasporti, della trasparenza dei dati, della valorizzazione di reti sociali, della parteci-pazione e della governance. Gli esempi classici sono gli edifici a basso consumo, il rilevamento e la tra-smissione wireless di dati in tempo reale (per esempio il tasso di polveri sottili nell’aria), il controllo ecoordinamento dei mezzi di trasporto, la semplificazione burocratica, lo scambio di informazioni utilie di prestazioni tra gruppi di persone che condividono gli stessi interessi e necessità, ma anche tra com-mercianti o erogatori di servizi e clienti. La rappresentazione degli scenari urbani smart assomiglia in fondo a un videogioco: il protagonista, do-tato di uno smartphone-maggiordomo, attraversa in soggettiva la porta della sua passive-house e poi lestrade di una città luminosa e interattiva, facendo in pochi minuti ciò che a noi costerebbe file e stress

di mesi (documenti, pagelle, prenotazioni, acquisti: attenzione, ristorante vegano a trenta metri!).La cosa sembra talmente inoffensiva e soporifera che nessuno si preoccupa nel leggere che Milano oBari si stanno adoprando per diventare smart cities: è una boiata, si dice, male non farà. Ma perché mailo fanno? E come? I Comuni stanno competendo per intercettare i fondi dello Stato italiano (l’Agenda digitale) e quelli deiprogrammi europei, come l’European Initiative on Smart Cities, che destina allo scopo 12 miliardi dieuro. Per ottenerli devono sottoporsi a un ranking, investendo risorse a loro volta in politiche urbanesmart. Milano, ad esempio, ha deciso di puntare sulla tecnologia NFC, Near Field Communication,che permette di pagare col cellulare. Europa e governo nazionale costringono le amministrazioni a taglisanguinosi sul welfare, sulle scuole, sui trasporti, sulla manutenzione e sui servizi essenziali: perché im-porre uno spreco come l’irrilevante tecnologia NFC? Si chiudono ospedali, si licenziano infermiere, poisi destinano milioni al Fascicolo Sanitario Elettronico. Il visitatore dell’Expo non sarà così entusiasta dipagarsi un cappuccino con l’iPhone dopo essere stato stritolato nella metropolitana per l’insufficienzadi treni nel tragitto Rho-Pero. L’intero castello retorico delle smart cities al servizio di sostenibilità e coesione sociale ha l’unica funzio-ne di operare un banale trasferimento di denaro dalla collettività alle lobby associate delle TLC-ICT edel real estate – che non sa a che altro santo votarsi per la crisi. Per farsene un’idea, è sufficiente fare ilconto di quanti summit, eventi, padiglioni dedicati alle smart cities vengano promossi e finanziati daCisco, IBM, Telecom e altri. La fumosità del contenitore e la futilità dell’oggetto non devono ingan-nare: i soldi in gioco sono moltissimi, il denaro è politica, che la lotta abbia inizio.

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Occupy ha compiuto un anno.Un anno è una misura di tem-po quasi ridicola per tante coseimportanti: a un anno GeorgiaO’ Keeffe non era una grande

artista e Bessie Smith come cantante non valevagranché. A un anno dall’inizio del movimento peri diritti civili, il Montgomery Bus Boycott era an-cora in embrione, attivo grazie agli sforzi di unaignota segretaria della cellula locale del NAACP edi un predicatore di Atlanta, vale a dire Rosa Parkse Martin Luther King jr. Occupy, il nostro visponeonato, è nato nel travaglio e nella gioia un annofa ed eccoci qui, dodici lunghi mesi dopo.

Il 17 settembre 2011 Occupy non sembravauna cosa di particolare rilievo e non sono stati inmolti a prestare attenzione quando a dirigersi ver-so Zuccotti Park a Manhattan erano per lo piùgiovani. Ma il suo aspetto più notevole si è poi ri-velato la sua capacità di resistenza: non ha cantatovittoria, non ha dichiarato sconfitta e non è torna-to a casa, ha deciso che la casa era lì e ci si è stabili-to per due mesi cruciali. Tende e assemblee, cosìcome le azioni, gli strumenti e le idee di Occupy,sono esplosi in tutti gli Stati Uniti e nel mondooccidentale, dall’Alaska alla Nuova Zelanda, e an-che in alcune aree del mondo orientale (OccupyHong Kong andava forte fino a qualche giornofa). Per qualche tempo è stato facile rendersi con-to che questo bebè era qualcosa di grosso, ma poimolti degli accampamenti urbani – sebbene nontutti – sono stati evacuati e il movimento è diven-tato qualcosa di meno evidente. Ma non permet-tete a nessuno di dire che si è dissolto.

La domanda più sorprendente che mi è stataposta l’anno scorso è stata: qual è il piano di Oc-cupy per i prossimi dieci anni? Ma chi ha una pro-spettiva così ampia? Gli americani tendono a pen-sare all’attivismo come a una slot machine e se nonsaltano fuori subito tre banchieri in carcere o trevittorie schiaccianti, vuol dire che avete sprecatole vostre monete. Eppure pochi attivisti saprebbe-ro definire i termini di una vittoria: così, come sifa a sapere se ci arriveremo mai?

È capitato che abbiamo avuto tre vittorieschiaccianti, ma dato che ci è voluto un po’ di tem-po e nessuno prima sapeva in cosa consisteva la vit-toria, in pochi hanno capito che era tempo di cele-brare e a volte non se n’è accorto nessuno. Abbiamopiù vittorie di quante immaginiamo, ma sono di so-lito indirette e parziali, arrivano lentamente, in si-tuazioni dove la nostra influenza può essere presun-ta ma non provata. Eppure ognuna di queste vitto-rie merita di essere presa in considerazione. […]

Non bisogna tuttavia farsi intrappolare dai ri-sultati tangibili, se non come base per l’attività suc-cessiva. Lo spirito meno appariscente di Occupy edelle associazioni che ha generato è quello che contaper quanto verrà dopo: per il famoso piano decen-nale. Occupy è stato in primo luogo un grande ter-reno di incontro: persone che vivono troppo a lun-go nel mondo virtuale, con la sua inclinazione al-l’isolamento e alla separatezza, si sono incontrated’improvviso faccia a faccia in uno spazio pubblico.Qui hanno trovato il terreno comune della passioneper la giustizia economica e per la democrazia reale;per un riconoscimento della diffusa sofferenza che ilcapitalismo ha creato.

Si sono formati legami che hanno superato letradizionali divisioni di età e razza e classe, tra chi hacasa e chi non ce l’ha, chi lavora e chi è disoccupato,e alcuni di questi legami resistono ancora. Unagrande emozione si è creata: la gioia di scoprire chenon si è soli, la vergogna provata quando i prigionie-ri del debito sono usciti dall’ombra, l’intensa solida-rietà quando tanti di noi sono stati attaccati dallapolizia, la speranza vertiginosa che tutto potrebbeessere diverso. E il sentimento inebriante nei mo-menti in cui tutto è stato già diverso.

Tante persone hanno imparato come funzio-na la democrazia diretta; hanno gustato il potere;

water, su persone distrutte da spese sanitarie e sustudenti i cui debiti per l’istruzione nessuno sti-pendio futuro sarà in grado di coprire.

E questo è stato l’altro importante risultato diOccupy: abbiamo articolato chiaramente, ad altavoce, innegabilmente, quanto sia terribile e di-struttivo l’attuale sistema economico. Dirlo èun’azione potente. Affermare la verità cambia larealtà. E questo si collega alle ragioni per le qualile politiche elettorali si muovono tra eufemismi,bugie stupefacenti e fughe dalla realtà. L’astutoOccupy ha portato un cavallo di Troia carico diverità nella cittadella di Wall Street. Anche il torodi bronzo non è riuscito a farvi fronte.

Un piano decennale funzionerebbe come unamappa: potremmo vedere dove siamo stati, dovesiamo e dove vogliamo andare. A San Francisco, ipartecipanti alle celebrazioni dell’anniversario in-tendono bruciare i prestiti studenteschi e i con-tratti di mutuo per liberare simbolicamente i pri-gionieri del debito. A New York, Occupy si staconcentrando sugli scioperi del debito: verrannoannunciati obiettivi concreti ed è possibile che fradieci anni alcuni di questi obiettivi possano esserepienamente raggiunti. Questo richiederà una de-terminazione incrollabile anche quando non ci so-no risultati. Significa non amareggiarsi per vittorietemporanee e incomplete, così come per vere pro-prie sconfitte lungo la strada. Fra dieci anni potre-mo vedere cose eccitanti: il rovesciamento dellenuove durissime leggi sulla bancarotta, la trasfor-mazione dei prestiti per l’istruzione e forse anchel’annullamento del debito insieme a importanticambiamenti nelle leggi bancarie e sui prestiti.

Le vittorie, quando arriveranno, non sarannoperfette. Potranno anche non sembrare vitto-

rie o assomigliare a qualche cosa che non ci aspet-tavamo, e lungo il percorso ci saranno molti pas-saggi che i puristi etichetteranno come compro-messi. Così come qualsiasi cosa possiate fare, dauna torta a un libro, non assomiglia all’ideale pla-tonico nella vostra testa, le vittorie possono nonassomigliare ai loro modelli, ma voi dovete cele-brarle, per quanto imperfette siano, come passiavanti, senza mai credere che la strada finisca lì oche bisognerebbe fermarsi.

Se si parla di risultati, sono convinta che siastato per la pressione di Occupy e degli attivististudenteschi se il debito per l’istruzione è entratoa far parte della piattaforma democratica ed è di-ventato un punto centrale nella campagna diObama. E se tra dieci anni il panorama dei presti-ti per l’istruzione sarà cambiato in meglio, sareb-be triste che nessuno ricordasse come è avvenuto echi ha dato vita a tutto questo, perché nessunopotrebbe celebrare o sentire dentro di sé quantopossiamo essere potenti […].

Con Occupy sono già accadute cose impor-tanti e un cambiamento sistemico ancora più im-portante potrebbe essere davanti a noi. Non di-menticate che questo movimento si è diffuso inmigliaia di città grandi e piccole e perfino nei vil-laggi in tutto il paese e all’estero. Ricordate chemolti effetti di quanto è accaduto finora sono in-calcolabili e molto altro di quello che è stato fattosi chiarirà lungo il percorso.

Celebriamo dunque l’anniversario e comin-ciamo a sognare e a fare progetti per il 2021,quando – se saremo stati perseveranti e inclusivi,se avremo tenuto gli occhi puntati sull’obiettivo,se avremo riconosciuto i progressi che ci avvicina-no alla meta, ricordandoci da dove siamo partiti –potremo celebrare qualcosa di molto più grande.La strada da percorrere è lunga, ma ci possiamoarrivare.

Traduzione dall’inglese di Maria Teresa Carbone

Su gentile concessione di Rebecca Solnit, da www.tomdispatch.com.

La pazienza di OccupyIl movimento compie un anno

Rebecca Solnit

hanno trovato qualcosa in comune con degliestranei; hanno vissuto in pubblico. Tutte questecose erano e sono importanti. Sono una grandebase per il futuro, sono un grande modo per vive-re nel presente.

Forse Occupy è un marchio che ha avuto trop-po successo, dal momento che a volte ha offuscatoquanto questo movimento fa parte di insurrezionipopolari che emergono in tutto il mondo: la pri-mavera araba (incluse le tre rivoluzioni riuscite, laguerra civile in corso in Siria, le sollevazioni in Ye-men e altro ancora); le rivolte studentesche a Mon-treal, in Messico e in Cile, che hanno continuato asvilupparsi e ad allargarsi; le rivolte economiche inSpagna, in Grecia e nel Regno Unito; le manifesta-zioni in diversi paesi africani; perfino diverse azio-ni di resistenza (alcune delle quali imponenti) inIndia, Giappone, Cina e Tibet. Nel caso non l’ab-biate notato, infatti, di questi tempi una gran par-te del mondo è coinvolta in qualche forma di ribel-lione, insurrezione o protesta.

E le somiglianze contano. Se osservate tuttequeste cose insieme, vedrete una furia simile neiconfronti della cupidigia, della corruzione politi-ca, delle ineguaglianze economiche, delle devasta-zioni ambientali e di un futuro sempre più angu-sto e buio.

Per questo anniversario sicuramente i mediamainstream sono pronti a cercare di dimostrareche Occupy è stato solo un ammasso di tende or-mai ammainate, che è stato qualcosa di ingenuo eche è finito. Non credeteci, non siate ragionevoli,non siate realistici, non fatevi sconfiggere. Un an-no non è niente e i media mainstream dimentica-no dove sta il potere e come funziona il cambia-mento, ma questo non significa che dobbiate di-menticarlo anche voi. Gli stessi media diconoquanto siete impotenti e che tutto il potere appar-tiene a uomini in giacca e cravatta che hanno vin-to o comprato le elezioni. Ma anche a questo nondovete credere. Ricordate invece il terrore di Vla-dimir Putin nei confronti di tre giovani performercoi loro copricapo colorati e la paura che WallStreet ha avuto di noi. Loro ricordano qualcosache noi tendiamo a dimenticare: che insieme sia-mo capaci di essere molto potenti. Possiamo farela storia: l’abbiamo fatta e la faremo, ma soloquando teniamo gli occhi fissi sulla meta. Tiria-mo su una grossa tenda e non fermiamoci finchénon siamo arrivati.

Viviamo nell’età dell’eroismo, l’età di Aung SanSuu Kyi in Birmania, degli zapatisti in Messico, de-

gli organizzatori del movimento per i diritti civili edi tanti eroi e tante eroine senza nome, dall’Argenti-na all’Islanda. Spesso si cantano le loro lodi e il co-raggio, l’integrità, la generosità, la lungimiranza chehanno mostrato. Tutto questo conta, ma voglio par-lare di un’altra virtù alla quale non pensiamo abba-stanza: quella che chiamiamo pazienza quando cipiace, o ci sembra gentile testardaggine, quandonon è così.

Dopo tutto, Suu Kyi è stata perseverante du-rante i molti anni di arresti domiciliari e di

intimidazioni dopo che una giunta militare le ave-va scippato le elezioni del 1990 e solo quest’anno lasituazione è un po’ cambiata. Gli obiettivi dei te-stardi spesso sembrano impossibili, così come ap-parivano irraggiungibili gli obiettivi del movimen-to per i diritti civili o del movimento abolizionistanegli Stati Uniti all’inizio dell’Ottocento, che siprefisse di sradicare l’atrocità della schiavitù più ditrent’anni prima della vittoria, molto più veloce-mente di quanto il contemporaneo movimentodelle donne sia riuscito a ottenere diritti fonda-mentali come il voto. Il cambiamento avviene, maci vogliono decenni e ci vogliono persone che ri-mangano perseveranti, pazienti (o testarde) perquei decenni, insieme ad apporti di nuova energia.

Sospetto che la perseveranza degli eroi deigrandi movimenti del nostro tempo non sia statafrutto solo dei fatti ma dalla fede. Erano convintiche la loro causa era giusta, che questo era il modogiusto di vivere sulla terra, e che quello che faceva-no era importante. Credevano in queste cose de-cenni prima di vedere i risultati. Bisognava essereirrealistici per andare contro i generali birmani oil regime dell’apartheid in Sudafrica o lo schiavi-smo o cinquemila anni di patriarcato o secoli diomofobia, e gli irrealisti fra noi hanno attinto allaloro fede e non hanno fatto altro che questo – conrisultati stupefacenti.

Il realismo è sopravvalutato, ma è un dato difatto che il movimento Occupy ha già ottenuto ri-sultati straordinari. Abbiamo cambiato i dati del-la discussione nazionale e abbiamo portato alloscoperto quello che prima appariva nascosto, sep-pure in piena vista: la violenza di molte ferite e ildesiderio di comunità, giustizia, verità, potere esperanza da cui la maggior parte di noi è attraver-sato. Abbiamo scoperto qualcosa che è importan-te per chi siamo: abbiamo scoperto quanti di noisono furiosi per il lavoro forzato in forma di debi-to che pesa su milioni di proprietari di casa under-

Roberto Barni. Addosso - Paesaggio addosso, 2010. CoBrA Museum of Modern Art - Amsterdam

IPERREALISMIalfabeta2.24

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La presa della battagiaOtto punti per una discussione

Maurizio Ferraris

rifiuto della realtà, e al centro dell’idea della mito-logia postmoderna c’è l’idea che il mondo sia li-quido ed evanescente. Nella sua versione di sini-stra, c’è l’idea che la realtà, la sua nettezza e le sueregole, siano lo strumento dei forti contro i debo-li, quando è chiaramente vero il contrario. I fortinon hanno bisogno di realtà, così come non han-no bisogno di leggi. Sono i deboli che devonocontare sull’esistenza di giudici, di istituzioni, diregole, che a loro volta devono essere condivise elegittime. La cultura italiana, con un effetto dilungo periodo che è stato ampiamente studiato, èribellistica, e questo porta, del tutto naturalmen-te, all’antirealismo, al sogno, alla fuga dalle regole,sperando che il polverone e l’anomia si possa vol-gere a nostro vantaggio. Per questo uno slogan co-me «non ci sono fatti, solo interpretazioni» ha po-tuto incontrare un così grande successo, ed esserevissuto come emancipativo. Perché il senso diquello slogan era una sorta di «liberi tutti», sebbe-ne il suo risultato, come è del tutto ovvio, è «la ra-gione del più forte è sempre la migliore».

È qui che interviene il mio settimo punto, ecioè l’università. La ricostruzione e il riconosci-mento delle regole si inseriscono in un complessi-vo bisogno di sapere. In questi anni la sinistra hainteriorizzato l’anti-intellettualismo della destra.Fenomeni come l’abuso della cultura pop sono daquesto punto di vista illuminanti, perché fannopassare come culturale un atteggiamento che puòessere anticulturale e radicalmente mitologico. Lostesso vale per il culto del presente. E da questopunto di vista la riforma dell’università progettatadalla sinistra e attuata dalla destra in spiritorigorosamente bipartisan è un fenomenoclamoroso, il cui effetto principale è stato difavorire il pubblico e soprattuto di distruggere leélites intellettuali che tradizionalmente sono stateil sostegno della sinistra, se ammettiamo, comesuggerivo più sopra, la consustanzialità di sinistrae illuminismo. La riforma parte dunque dal-l’istruzione e dall’università, in cui abbiamo liber-tà di azione, in cui non ci si può appellare ai vinco-li e allo spread (perché una cattiva riforma costaquanto una buona). La stagione passata ha visto ilparlamento invaso dalla televisione. Non sarebbesbagliato che ora la biblioteca riprendesse il suoposto, magari anche in forma aggiornata e con e-book, e certamente con la consapevolezza cheavere cultura non significa essere intelligenti ogiusti, ma aiuta.

Infine – e questo ultimo punto potrebbe sinte-tizzare tutti gli altri – si tratta di riconoscere la

centralità del lavoro. Essere realisti non significain alcun modo considerare l’economia come ulti-ma istanza di riferimento. L’economia è una strut-tura con fortissimi elementi di immaginazione, etra populismo ed economicismo ci sono moltitratti in comune, in particolare il fatto che bastauna frase lasciata sfuggire in televisione o sul webper causare catastrofi o salvezze. L’ultima istanzadi riferimento, per una politica di sinistra, è alloraappunto il lavoro, come trasformazione concretadella realtà. A livello globale assistiamo alla realiz-zazione della dialettica signoria-servitù: chi pro-duce si sta impossessando della terra. A questonon si può rispondere con delle guerre di carta,ma con altro lavoro, che può certo essere anche la-voro intellettuale, ma deve essere lavoro, che pro-duce ricchezza (il beneficio secondario consiste-rebbe nel restituire dignità alle persone). E se unqualche neoconservatore eroico verrà a dirci chequesto è l’atteggiamento dell’ultimo uomo gli ri-sponderemo che sì, magari è così, e che lui se lodesidera può fare lo Zarathustra e il superuomo,ma a casa sua, come d’Annunzio alla Capponcina.

nuti di destra (vincenti sotto il profilo politico), ecome risultato si è avuto il fenomeno del neocon-servatorismo. Quest’ultimo ha fatto valere conmolta forza l’appello al conflitto, alla contrapposi-zione agonale e militare, al «non fare prigionieri».

Il mio quinto punto riguarda allora la ricostruzio-ne. Invece di proclamare astrattamente l’attuali-

tà (o l’inattualità, che ai fini della retorica è lo stes-so) di Marx, si tratta di esercitare una critica del-l’ideologia mettendo a fuoco gli elementi piùproblematici del postmoderno, ossia (come hoestesamente analizzato nel Manifesto del nuovo rea-lismo), l’ironizzazione, la desublimazione e la deog-gettivazione. L’ironizzazione è una presa di distan-za dalle responsabilità e soprattutto una messa travirgolette della realtà, sistematicamente impropriae manipolabile. La desublimazione è la convinzio-ne che le forze del mito e del desiderio siano vie diemancipazione più potenti e vere rispetto alla ra-gione. La deoggettivazione, proclamare la superio-rità della solidarietà sulla oggettività, è dimenticar-si che le cosche mafiose sono estremamente solida-li, e che l’oggettività (così come il sapere ingenerale, che non può essere abusivamente confu-so con il potere) è per l’appunto ciò che ci permettedi distinguere non solo il caldo dal freddo o il nerodal bianco, ma una cosca mafiosa da un parlamen-to. Nell’esaminare questi tre punti si tratta di tenerferme le istanze decostruttive avendo tuttavia benchiaro che nel momento in cui la confusione divie-ne una ideologia non c’è niente di più utilmentecritico del realismo e della ricostruzione, e che dun-que un obiettivo fondamentale è quello di rico-struire la decostruzione. È indispensabile che le ana-lisi decostruttive della critica dell’ideologia venga-no affiancate, in termini costruttivi, da indagini diontologia sociale. Nel mondo non ci sono solo glioggetti naturali, esistono anche gli oggetti sociali,come le crisi economiche e le guerre, le vacanze e imatrimoni, i parlamenti e la democrazia. Questioggetti non sono affatto evanescenti o liquidi, co-me spesso si legge. Sono solidi come alberi o case, eimportantissimi perché da loro dipende in buonaparte la nostra felicità o infelicità. Per questo la tra-sformazione è difficile, richiede pazienza e fatica, sipresta male ai colpi di bacchetta magica e alla fi-nanza creativa. In questo senso, l’apporto specificodi un realismo di sinistra starebbe nel condurre unaanalisi sulla genesi, la struttura e le proprietà dellarealtà sociale, che permetterebbe un intervento in-cisivo in quella realtà medesima.

Il mio sesto punto è il richiamo alle regole. Co-me abbiamo visto, al centro della mitologia c’è il

tempo l’attenzione Bobbio: sul piano dei valori(uguaglianza o differenza tra gli uomini), dellapolitica (autorità o libertà) e della prospettiva sto-rica (progresso o conservazione). Era così nell’Ot-tocento, al tempo delle destre controrivoluziona-rie, orleaniste e bonapartiste, ed è così anche ades-so. Ciò premesso, può capitare che la sinistragoverni con modalità di destra (si pensi a Stalin) eche la destra attui ideali di sinistra (si pensi ap-punto a Churchill nella Seconda Guerra Mondia-le). Inoltre, il mondo è pieno di persone che si cre-dono di sinistra e sono di destra (o più raramentesi credono di destra e sono di sinistra). Questonon significa che destra e sinistra non abbiano piùsenso, ma semplicemente che gli esseri umaninon sempre hanno le idee chiare. Mi ci metto an-ch’io nel novero, però c’è una cosa su cui sento dipotermi esprimere con certezza, ed è che coloroche si proclamano al di là della distinzione de-stra/sinistra sono, in effetti, di destra, perché è ti-pico della destra l’appello a una dimensione im-politica o metapolitica.

Il mio quarto punto riguarda il neoconservato-rismo. Se permane la differenza tra destra e sinistra,già sotto il profilo culturale non può essere privo diconseguenze il fatto che i riferimenti teorici dellasinistra siano stati, da almeno trent’anni a questaparte, di destra: Nietzsche, Heidegger, Schmitt.Che infatti hanno determinato le linee politichefondamentali: decisionismo, potere carismatico,fatalismo. Perché si sia imposto il neoconservatori-smo si può spiegare sociologicamente con le anali-si ancora valide di Lukács: gli intellettuali non ac-cettano le rinunce per il loro stile di vita che com-porterebbe il marxismo, e preferiscono larivoluzione mitologica e a costo zero di Zarathu-stra. Si obietterà che, da vent’anni a questa parte,dopo la caduta del muro, si è assistito a un potenteritorno di Marx. Però il ritorno di Marx è anch’es-so mitologico. Marx ritorna ma, d’accordo con lacaratterizzazione di Derrida che ha dato via al pro-cesso, ritorna come spettro. Nel momento in cui ilsocialismo realizzato esiste solo in Goodbye Lenin!,allora l’intellettuale non ha alcuna difficoltà a di-chiararsi marxista. La situazione è ben descritta daCartesio: il pio marito che piange sulla tomba del-la moglie non sarebbe poi così contento se costeiresuscitasse. Fuor di metafora, nell’arco di un qua-rantennio la sinistra ha visto, in successione, lapropria affermazione culturale sull’onda della ri-bellione giovanile, e poi il crollo del socialismo rea-le. In questa trasformazione, l’effetto più significa-tivo è che stili comunicativi di sinistra (vincentisotto il profilo culturale) hanno veicolato conte-

«Bisogna che non appenaquesta gente tenterà di sbarcare, sia congelatasu questa linea che i marinai chiamano

del bagnasciuga». Come sappiamo, il bagnasciugaera poi la «battigia», e si è anche visto come è an-data a finire. Churchill, invece, non si illudeva af-fatto che, in caso di invasione, i tedeschi sarebbe-ro stati «congelati» sul «bagnasciuga», ed è perquesto che disse: «Noi combatteremo sulle spiag-ge, noi combatteremo nei luoghi di sbarco, noicombatteremo sui campi e sulle strade, noi com-batteremo sulle colline», e non escludeva nemme-no che l’Inghilterra potesse essere completamenteinvasa. Ora, che cosa caratterizza il discorso delbagnasciuga? Semplicemente e banalmente il ri-fiuto della realtà, la sostituzione di quello che c’ècon quello che si vorrebbe che fosse, l’illusionespacciata per liberazione. Di discorsi del bagna-sciuga se ne sono sentiti tanti dopo quello, ed èper questo che alla presa della Bastiglia si trattaora di sostituire una più modesta presa della batti-gia, da intendersi come una politica del realismo,che chiami le cose con il loro nome. Per brevità,propongo otto spunti per la discussione.

Il mio primo punto riguarda la mitologia. Ilpopulismo è tradizionalmente mitologico, e aimiti dell’eroe e del «me ne frego» si è sostituita lafavola del milione di posti di lavoro che è statapagata cara quasi quanto quella degli otto milio-ni di baionette. Fin qui, tutto normale. L’anoma-lia è che durante il postmoderno anche la sinistraha inseguito delle mitologie, a volte cinemato-grafiche e televisive, ma mitologie. Rette magarida un equivoco di fondo, e cioè che il realismo,abusivamente confuso con la Realpolitik, sia didestra, e questo proprio nel momento in cui l’an-tirealismo e la mitologia erano i cavalli di batta-glia del populismo. Intanto, come si è visto a sa-zietà, la tendenza della destra populistica è forte-mente antirealistica. Inoltre, il realismo non è inquanto tale né di destra, né di sinistra, ma miglio-ra la politica tanto quanto l’antirealismo la peg-giora, per lo stesso motivo per cui si preferisce,potendo, andare da un buon medico invece cheda uno sciamano. Che poi possa essere declinatoa destra o a sinistra è un altro discorso.

Da questo punto di vista, una politica del rea-lismo richiede, in secondo luogo, una riflessionesulla politica. Non è affatto vero che siamo inun’epoca post-politica come si sente da trent’an-ni a questa parte. Anche l’antipolitica è politica,ed è una politica, per l’appunto, particolarmenteideologica e mitologica, basti dire che da noi èriuscita persino a costruire una entità fantasmati-ca come la Padania. Dunque, siamo in un mondoiper-politico, nel quale la politica è talmente dif-fusa, in forma capillare e microfisica, da apparireinvisibile e da risultare spesso ingovernabile. Ri-spetto ai tempi in cui De Gaulle si chiedeva «co-me si può governare un paese che ha più di 300tipi di formaggio?» la situazione si è ulteriormen-te complicata. Quello che emerge, per esempio,nello specchio dei social network, è spesso unaagonalità pura, un rifiuto delle mediazioni. Il cheè legittimo, ma proprio per questo lo spazio dellapolitica e della democrazia deve presentarsi comeil momento della sintesi, e ciò può avvenire soloridando centralità al parlamento e rispettabilitàalla politica.

Il mio terzo punto riguarda la sinistra. Non ca-pisco tanto i discorsi, anche quelli vecchi di de-cenni, secondo cui questa distinzione non ha piùsenso. Il senso c’è, eccome, ed è, grosso modo,questo: la sinistra è illuminista e punta per unaemancipazione dell’umanità attraverso la ragio-ne, mentre la destra crede che l’umanità debba es-sere comandata dal trono e dall’altare (e dalle loroversioni aggiornate). Di lì discendono tutte le dif-ferenziazioni ulteriori su cui ha richiamato a suo

Roberto Barni. Calchi innamorati, 1974

IPERREALISMI alfabeta2.24

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Goodbye, PostmodernismSembra che ormai se ne siano convinti tutti: lacultura e la letteratura postmoderniste si sonoesaurite. Le parole d’ordine di un trentennio ini-ziato con la metà degli anni Sessanta e spentoalla metà degli anni Novanta sono scadute, e leha sostituite il loro contrario: non più morte delsoggetto e dell’autore, ironia coatta, manierismo,autoreferenzialità, antistoricismo, scetticismosulla politica, vanificazione della verità, ma riabi-litazione dell’io, nuove forme di realismo, volon-tà di raccontare il presente, partecipazione civile,denuncia, fiducia in una qualche possibile veritàdella letteratura. Anche se l’impegno è imprati-cabile per la scomparsa delle strutture che lo so-stenevano e per la corrosione cui proprio il po-stmoderno l’ha sottoposto, il presente è diventa-to oggetto di investimenti e giudizi. La scritturarivendica oggi effettualità morale, efficacia prati-ca: ciò che, al contrario, il postmodernismo met-teva in mora o irrideva.

Eppure, il cambiamento di clima noncoincide affatto con un’eclissi del mondo dellavita postmoderna. I miti della fine della storia edello sciopero degli eventi sono stati sbugiardatianche prima dell’11 settembre; ma non assistia-mo certo né alla fine del tardocapitalismo e delneoliberismo (le loro crisi sono le febbri di cre-scenza del Leviatano), né all’archiviazione deicambiamenti con cui l’informatica ha riplasma-to il nostro immaginario. Il processo iniziato allametà degli anni Sessanta si è accelerato ed este-so: il suo secondo nome, infatti, è globalizzazio-ne. Ma non è più il tempo dell’anything goes edel laissez faire postmoderni – spade di plastica,o maschere troppo fragili per potersi difenderedalla furia del Nuovo Ordine Mondiale.

IpermodernitàChe nome dare a queste mutazioni, che stanno inun atteggiamento diverso rispetto all’arroganzadel tardocapitalismo, anziché in una sua trasfor-mazione radicale? L’assunto da cui partirei è che laliquidazione ironica della modernità proclamatadal postmodernismo si è rivelata illusoria. Sotto ilregime della modernità, siamo stati per tutto ilNovecento e siamo ancora: ciò cui assistiamo, eciò che già l’età postmoderna aveva messo inmoto, è semmai la sua continuazione unilaterale,parodica, impazzita. Se la modernità conosceva si-stemi di autocorrezione e di rivolgimento, oggi lacorrezione è appalto dell’etica più che della politi-ca, e il sole della rivoluzione non sorge più in nes-sun cielo. La storia procede, ma senza mete: piut-tosto che credere che sia già stato fatto e dettotutto, ci siamo abituati al regime forzoso delnuovo, senza avere fede nelle favole sul progresso.Il futuro è sempre qui, e ci dà stupori di routine:rischia di essere la nostra prigione distopica.

A questa modernità oltranzistica e compulsi-va, darei il nome di ipermoderno. Promossa inFrancia soprattutto da filosofi e sociologi comeGilles Lipovetsky (e in principio, forse, era Bau-drillard), questa categoria non è ancora statapensata come occorrerebbe. A chiarirla, sarebbe-ro utili quanti già negli anni Ottanta e Novanta,insoddisfatti della nozione di postmoderno, ten-tavano vie alternative: Beck con la società dei ri-schi, Augé con la surmodernità, Bauman con lamodernità liquida. È tutto lavoro da fare; ancheperché, a dirla tutta, in qualche banditore del-l’ipermoderno non mancano approssimazione emoralismo. Ma prima di tutto, è bene che il pre-fisso iper non crei equivoci: esso non ha alcunasfumatura celebrativa, e si rivela anzi ansiogenoe intimidatorio. L’iper è il dover essere della con-temporaneità, la sua ossessione prestazionale, lafebbre che la fiacca. L’abbozzo che si compone,allora, non è tanto o solo una rottura con il po-stmoderno (la cui egemonia, pure, è stata con-trastata), ma uno scivolamento e, dunque, la ri-

velazione che quel post non si era mai compiutodavvero.

In Italia, di ipermoderno si inizia appena aparlare. Il solo, recentissimo tentativo sistemati-co è appunto di un sociologo: in Ipermondo (La-terza 2012), Vanni Codeluppi propone Diecichiavi per capire il presente. Ma già prima, Massi-mo Recalcati è ricorso a questa categoria. L’uomosenza inconscio (Cortina 2010), con la giunta diCosa resta del padre? (Cortina 2011), è un tratta-to di antropologia contemporanea. Nelle patolo-gie emergenti e simboliche del presente (anores-sia, bulimia, crisi di panico, tossicomanie, di-sturbi psicosomatici) non emerge alcun rimossoe l’inconscio è fuori gioco. Sembra il ritratto dimolti personaggi contemporanei e di quei narra-tori che descrivono il disagio senza credere alprofondo e alla psicoanalisi: sono strumenti fattiapposta per leggere Easton Ellis o Coetzee, Ho-uellebecq o Littell, Nove o Siti.

Realismi ipermoderniMa allora, parlare di ipermoderno può servire afarci capire la cultura, le arti, e in particolare laletteratura che si sono imposte da metà anni No-vanta? Se scrittori come Bolaño o Foster Wallaceo l’ultimo DeLillo segnano una transizione dalpostmoderno a qualcosa che non lo è più, nesono già fuori, per limitarsi ai nomi più in vista,Saramago, Munro, Richler, Roth, Yehoshua,Coetzee, White, Cunningham, Franzen, Schul-ze, Houellebecq, Littell. In loro, non si sfugge alconfronto con la tradizione modernista; e comeil modernismo si opponeva alla modernità sinoal rifiuto e alla reazione, così questi scrittori pra-ticano una storiografia critica del presente che hapoco a che fare con l’historiographic metafictiondi Pynchon o Doctorow. Tuttavia, quello cheidentifica la loro scrittura è la conciliazione del-l’eredità modernista con le forme storiche delrealismo ottocentesco: conciliazione straordina-riamente produttiva e paradossale, se si conside-ra che, in tutti i modernisti storici, la polemicacontro le fotografie naturalistiche e le marcheseche uscivano alle cinque aveva sì la coscienzasporca, ma era frontale e spazientita.

Il nodo della letteratura ipermoderna è pro-prio il realismo; tanto più, perché con poche cosecome con quello il postmoderno ha avuto ildente avvelenato. Oggi, il realismo risponde perstatuto a un’angoscia di derealizzazione e si misu-ra con l’irrealtà o la realtà depotenziata prodottadai media. Come ha detto meglio di tutti Siti, ilrealismo è diventato un soufflé pronto ad afflo-sciarsi in una poltiglia di finzione, cioè vive co-stantemente nel dubbio di riuscire a fare presasulle cose e di essere credibile. La riduzione delmondo a favola, che il postmoderno dava per av-venuta, fomentava o con cui flirtava, è ciò chel’ipermoderno teme e contro cui resiste. Ipermo-derno è dunque quel realismo che sa che la real-tà è mediata dalle immagini e dalle costruzioniculturali (cioè, ci si presenta già sempre riprodot-ta); ma che cerca comunque di opporsi alla falsi-ficazione integrale. La questione (ci ha riflettutoDidi-Huberman) non è la realtà fuori o primadelle immagini: ma la verità delle e nelle imma-gini. Le forme del realismo ipermoderno – chespesso assume o costeggia i modi del reportage –sono perciò mediate da due istanze complemen-tari: quella documentaria, e quella testimoniale.

Documento, testimonianzaUna letteratura documentaria sa subito che la real-tà non è la cosa da rispecchiare, ma qualcosa che ègià stato messo in forma dal discorso sociale.Come ci ha spiegato Maurizio Ferraris, il docu-mento è vero solo se ha una sanzione pubblica,cioè solo se esibisce le marche della propria artifi-cialità: il realismo documentario pretende alla ve-rità proprio perché mette in tavola le carte. Se l’au-toreferenzialità postmoderna apriva il cannocchia-le infinito delle riscritture che rimandavano solo ase stesse, e al fondo del quale non c’era nulla, il rea-lismo documentario ipermoderno riscrive perchéla realtà è già scritta o raccontata o rappresentata,e non per questo è meno vera. Viene così inscena-ta quella necessità di un di più di lavoro interpre-tativo cui ci hanno abituato i media audovisivi(Pietro Montani, L’immaginazione intermediale,Laterza 2010). Proprio perché il documento ri-chiede un’assunzione di responsabilità da parte di

chi lo produce, la radice della sua credibilità non èpositivistica: al contrario, richiama una responsa-bilità etica e un impegno soggettivo. Perciò, il do-cumento invoca subito il correttivo della testimo-nianza (penso all’acutezza con cui Agamben ha ar-ticolato questa categoria in Quel che resta di Au-schwitz). Non esiste verità senza che qualcuno nonci metta la faccia e la parola. L’espansione e quasil’istituzionalizzazione delle scritture dell’io lo di-mostra in abbondanza, sia che colonizzi formenarrative date, sia che se ne crei nuove (e una dellepiù vitali, oltre al memoir, è il cosiddetto personalessay, per come l’hanno inventato Foster Wallace oSebald). Si prenda proprio il genere più sfuggente:quell’autofiction che, anche in Italia, ha conosciu-to una diffusione straordinaria. Se la consideriamocome forma simbolica della contemporaneità, ilsuo intento non è dimostrare che l’identità è fitti-zia perché impastata di menzogne; ma che ogniidentità si costruisce, e trova se stessa, anche nellemenzogne. Cosa dice Operation Shylock se non chealcune verità possono essere enunciate solo nell’in-venzione più divertitamente spericolata? Cosa faLunar Park, se non sfruttare un immaginario daB-movie per avere accesso al profondo? Cosa rac-conta Siti, se non che l’io è se stesso nelle sue mi-stificazioni?

Panorama italianoLetta sotto questa luce, anche la narrativa italia-na recente inizia a comporsi in un panorama.Senza un ripensamento del modernismo non sa-prei capire libri pur diversissimi come la trilogiadi Siti, Canti del caos di Moresco o Dai cancellid’acciaio di Frasca: l’opacità della forma, l’autori-flessività del racconto, l’esibizione dell’artificiali-tà della scrittura non sono i segni di uno scettici-smo rinunciatario, ma vogliono, ora ironicamen-te, ora in maniera spasmodica, strappare qualco-sa di vero alla proliferazione dei discorsi e delleimmagini. Oppure, ripensate in questa chiave ildibattito su Gomorra: chi come Saviano si con-fronta con una realtà già mangiata dai media? chicome lui vuole produrre, più ancora che docu-menti, una testimonianza la cui credibilità sifondi sull’«io c’ero» e su un’enfasi rappresentativache restituisca forza alle parole? Già questi titolisuggeriscono una caratteristica distintiva dellanostra narrativa rispetto a quella internazionale:mentre altrove l’ipermoderno ha coinciso anzi-tutto con un rilancio del romanzo fuori del ma-nierismo o del citazionismo postmoderni, da noiil meglio sembra voler sfuggire alla sua ombra,che copre invece, ma appunto come ombra, lamedietà o l’inanità dei bestseller stagionali. Gliscrittori italiani hanno un rapporto difficile conil romanzo. Siti ci si è avvicinato dopo aver scrit-to alcune delle più belle autofiction prodotte inEuropa; Moresco se ne è allontanato sempre piùvisionariamente correndo verso l’opera-mondo,salvo recuperarlo a modo suo negl’Incendiati;Frasca lo ha smontato e rimontato a forza di alle-goria e riflessione; Covacich lo costruisce con sa-pienza, ma è sempre tentato dall’autofiction; Go-morra ha imboccato tutt’altra strada; Pascale ciarriva dopo i racconti e dopo aver trovato nellaCittà distratta la sua mistione di saggismo e nar-rativa; Trevi può sognarlo nel Libro della gioiaperpetua, ma riesce davvero nei suoi personal es-says; Arminio pratica la paesologia in forme strut-turalmente analoghe, ma costruisce il libro permontaggio di pannelli… Dovrebbe bastare que-sto, spero, a sgombrare il campo dagli equivoci suquel neo-neorealismo o neo-naturalismo di cui siè sentito parlare in Italia negli ultimi anni. Certo,non è affatto esclusa una regressione a formegrezze; ma neppure quella regressione, per delu-dente che sia, è a rigore ingenua. Con l’ipermo-derno, nessuno potrebbe vantare di fronte al realeuna verginità che c’è da stupirsi qualcuno credasia mai esistita.

Iperbolica modernitàCome raccontare la realtà senza farsi divorare dai reality

Raffaele Donnarumma

Roberto Barni. Basamento, 2010

Ènoto che i termini «caso» (in fran-cese hasard, dall’arabo az-zahr) e«aleatorio» (dal latino alea) rinvia-no entrambi a etimologie vicine1:«dado», «lancio di dadi», «gioco di

dadi». Queste nozioni rimandano ai temi insepa-rabilmente connessi, e non opposti, del gioco edel calcolo, del calcolo delle possibilità inerente aogni gioco di dadi. Ogniqualvolta in un pensierodomina l’identificazione dell’essere con il caso, siprofila il tema del Dado-Tutto (ovvero la chiusu-ra inalterabile del numero dei possibili), quellodell’apparente gratuità del gioco (la vita intesacome gioco, il mondo riconosciuto come superio-re nella sua superficialità), ma anche quello delfreddo calcolo delle frequenze (il mondo delle as-sicurazioni sulla vita, dei rischi calcolabili e cosìvia). L’ontologia della chiusura dei possibili ci col-loca necessariamente entro un mondo che si rifiu-ta alla gravità nel momento stesso in cui prendesul serio solo le tecniche di conteggio.

Il termine «contingenza», al contrario, derivadal latino contingere: toccare, accadere. La contin-genza è ciò che avviene, ma avviene vicino a noitanto da toccarci. Il contingente è insomma qual-cosa che infine accade – qualche cosa d’altro che,sfuggendo a tutti i possibili già inventariati, ponefine alla vanità di un gioco dove tutto, compresol’improbabile, è prevedibile. Quando ci succedequalcosa, quando la novità ci prende alla gola, al-lora finisce il calcolo e finisce anche il gioco:siamo passati alle cose serie. Ma l’aspetto essenzia-le – che costituiva già una intuizione portante del-l’Essere e l’evento2 – è che il pensiero più vigorosointorno all’avvenimento incalcolabile e irrappre-

sentabile è ancora il pensiero matematico, e nonquello artistico, poetico o religioso. È attraverso lamatematica che giungeremo infine a pensare ciòche, per la sua potenza di novità, confonde lequantità e dà il segnale di fine della partita.

Alla luce degli sviluppi precedenti, si può infi-ne cogliere il senso complessivo dell’approccio fat-tuale. Possiamo offrire questa formulazione delnostro progetto: intendiamo sostituire alla disso-luzione contemporanea dei problemi metafisiciuna precipitazione non metafisica di questi stessiproblemi. Spieghiamo succintamente il senso diquesta sostituzione.

Cosa faranno molti filosofi contemporanei(sebbene sempre meno) posti di fronte al proble-ma di Hume, o alla domanda «perché vi è qualco-sa e non il nulla»? In generale, cercheranno ilmodo più efficace per fare un’alzata di spalle. Vidimostreranno che la vostra domanda non hanulla di enigmatico, perché essa non si pone nem-meno più. Caritatevolmente, ripetendo instanca-bilmente il gesto duchampiano-wittgensteiniano,tenteranno di farvi comprendere che non vi sonoenigmi, poiché non c’è nessun problema. Questifilosofi avranno la pretesa di dissolvere il vostroproblema «ingenuo» – metafisico, dogmatico, ec-cetera – svelando l’origine (linguistica, storica ecosì via) della vostra vana problematica. A rigore,ciò che davvero li interessa è di sapere com’è statopossibile (e lo è ancora: voi ne siete la prova) arri-vare a porsi «falsi problemi» di questo genere.

La fine della metafisica si identifica ancoraampiamente con questo tipo di approccio disso-lutorio: non si tratta più di porre domande meta-fisiche, perché queste hanno solo l’apparenza delle

domande, o domande irrimediabilmente sorpas-sate, ma piuttosto domande sulla metafisica o ri-guardo la metafisica. Ormai è comprensibile chela credenza contemporanea nella irresolubilitàdelle questioni metafisiche è solo l’effetto del perpe-tuarsi di una credenza nel principio di ragion suffi-ciente: perché solo colui che continua a credereche pensare speculativamente equivalga a scoprirela ragione ultima dell’esser-così crede anche che ledomande metafisiche non abbiano alcuna speran-za di venir risolte. Solo chi crede che l’essenzadella risposta a un problema metafisico consistanello scoprire una causa, una ragione necessaria,può ritenere – e ciò a buon diritto – che questiproblemi non verranno mai risolti. È il discorsodei limiti del pensiero, che ormai sappiamo di-pendere dal negato mantenimento della metafisica.La vera fine della metafisica ci si rivela comeun’impresa volta a liberare dalla dissoluzione ilprecipitato delle antiche domande, riconsegnateinfine alla loro sovrana legittimità. Via via che ri-solveremo le domande della metafisica, potremocomprendere la sua stessa essenza come produzio-ne di problemi che essa non poteva risolvere,senza abbandonare il suo postulato fondamentale:solo la rinuncia al principio di ragion sufficientepermette di dare senso ai suoi problemi.

Il fattuale consiste quindi nell’abbandonarel’approccio dissolutorio in quanto è anch’esso

divenuto superato. Perché il postulato della disso-luzione, secondo cui i problemi metafisici nonsono dei problemi ma dei falsi problemi, dellepseudo-domande costituite in modo tale che nonha alcun senso supporre che esse possano ammet-

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IPERREALISMI

Al di là del principio di ragion sufficienteQuentin Meillassoux

«Non abbandonate mai i vostrisogni!». È lo slogan («Never giveup!», in neolingua televisiva) che

grida a ogni pie’ sospinto Enzo, il simpaticissi-mo vincitore napoletano del Grande Fratello lacui fama improvvisa lo ha reso, agli occhi deiconterranei, una specie d’angelo del Paradiso(nella prima delle due scene di vera e propriaestasi che punteggiano il film, lo si vede lette-ralmente volare sopra la folla adorante, trainatoda tiranti durante una festa in discoteca). Ma èanche l’oracolo della sorte di Luciano, il prota-gonista di Reality di Matteo Garrone che tantogli assomiglia (a sua volta simpaticissimo, fa lasua prima apparizione travestito da drag queencon parrucca blu), e più ancora vorrebbe riper-correre il suo cammino (a lungo lo pedina, infat-ti, elemosinando raccomandazioni per loShow). Luciano resterà sino alla fine, infatti, pri-gioniero del suo sogno di fama: o meglio del-l’ultra-vita, dell’estasi rappresentata dalla Casadel Grande Fratello. Nonché, per sua scelta, pri-gioniero della rappresentazione in cui la suavita di tutti i giorni si trasforma: dal momento incui – superati i primi provini, il secondo dei qualisostenuto a Cinecittà – si convince che Emissa-ri della Televisione abbiano preso a spiarla, quel-la sua vita, onde verificarne la coincidenza conl’accattivante epitome realizzata in sede di pro-vino. Così che Luciano, gesticolante venditorein una pescheria in piazza, ma che in realtà traeil suo misero benessere da piccole truffe suvendite per corrispondenza, letteralmente la di-strugge, quella vita: onde farla coincidere il piùpossibile con l’astratto modello di simpatia chereputa idoneo alla Casa (la smette con le truffe,manda a monte il matrimonio con la moglie-complice, dilapida i beni di consumo nel frat-tempo accumulati per regalarli agli Ultimi dellascala sociale, i mendicanti prima schifati).

La metafora orwelliana e il procedimentofoucaultiano che, protervi, avevano irreggimen-tato il concept del format televisivo Big Brother(in Italia trasmesso dal 2001 alla primavera di

quest’anno; caduti gli ascolti dell’ultima edizio-ne, il programma risulta attualmente sospeso)vengono, così, ironicamente letteralizzati. L’Uo-mo Comune crede d’essere diventato davveroil protagonista di un Controllo continuo e os-sessivo, di essere costantemente sotto gliocchi di un Panottico che, dall’alto, lo sorvegliae giudica (del resto, fuori di metafora e di corni-ce, la mdp di Matteo Garrone – e con lei, dun-que, gli occhi di noi spettatori – davvero lo pe-dina di continuo; eccellente la prova del prota-gonista Aniello Arena, che è davvero un carce-rato: appartenente alla Compagnia della Fortez-za nata nel 1988 nel carcere di Volterra). LoSpettatore, condannato a sorvegliare la vita deiPrigionieri della Casa, si scopre (o si desidera),a sua volta, Prigioniero di una Super-Casa cheper tetto ha solo il cielo. (Già il precedente cine-matografico concettualmente più diretto – TheTruman Show di Peter Weir e Andrew Niccol,1998 – alludeva alla dimensione religiosa colnome del regista-demiurgo dello Show cheaveva per unica, inconsapevole vittima e starJim Carrey: Christo – grande empaqueteur al-tresì, come l’omonimo artista bulgaro, perchéin quel caso davvero il Cielo era posticcio, rico-struito in uno studio televisivo).

Dal Cielo infatti proviene, per al Cielo infinefare ritorno, lo sguardo dell’Autore (un po’come quello – così provocatorio nel letteraliz-zare la metafora dell’Artista-Demiurgo che oggitanto irrita gli avversari dell’Autorismo – delLars Von Trier di Breaking the Waves, 1996):che appunto dall’alto, nel favoloso piano-se-quenza iniziale, a lungo segue una carrozza acavalli decorata di stucchi e finimenti rococò,che incongrua percorre la viabilità dell’hinter-land partenopeo per fare infine trionfale acces-so a un tamarrissimo ricevimento di matrimo-nio. L’Elicottero – verosimilmente impiegatoper realizzare questa ripresa, e che poco dopoviene in effetti inquadrato prendersi Enzo,ospite d’onore della festa, e portarlo via con sénell’Empireo delle Star – inserisce Reality, così

come le musiche ninoroteggianti di AlexanderDesplat, nell’alveo di Fellini (l’elicottero, certo,che trasporta la statua di Cristo, nell’incipitdella Dolce vita): che è in effetti il nume tutela-re del côté meno sorprendente del film di Gar-rone, quello grottesco e satirico (i parenti obesidi Luciano, le facce mostruose degli invitatialla Festa, eccetera); così come non mancanoriferimenti compiaciuti all’enciclopedia delNeorealismo (specie nella lunga e un po’ trop-po macchiettistica parte centrale, quella della«recita» di Luciano in uno spazio chiuso-aper-to uscito dritto da una pièce di Eduardo De Fi-lippo), ovviamente a Bellissima di Visconti ec-cetera.

Ma non è, questo, gratuito collezionismoda cinéphile. Bensì, mi pare, consapevole epuntigliosa polemica con quanti avevano accol-to trionfalmente Gomorra (e oggi non a casostorcono il naso di fronte a Reality) in nome diun preteso «nuovo realismo». L’enciclopediadei Realismi che Reality compendia e parodia sifa così strategia, obliqua quanto ironica, di de-mistificazione: in vista di un altro-realismo, diun oltre-realismo o Iper-Realismo che è in effet-ti sempre stata la cifra di questo autore (alme-no dall’Imbalsamatore in avanti). L’ultima scenadel film (attenzione: spoiler!) fa infatti da perfet-to contraltare a quella iniziale. È Pasqua, e Lu-ciano si è recato a Roma per assistere alla ViaCrucis, seconda scena estatica del film (segnodi mimesi Cristica, certo; ma anzitutto, direi,mise en abîme del Passaggio, del Trasumanareche sta per compiersi, e al quale in precedenzaaveva alluso un piccolo sketch in Cimitero, condue Vecchie che Luciano, al solito, scambia permisteriosi Emissari e che parlano con lui dell’In-gresso in una Casa che è, invece, quella del Si-gnore). Misteriosamente (o meglio, misterica-mente), Luciano individua gli studi nei qualiviene ripreso il Grande Fratello; e altrettanto mi-steriosamente riesce a fare accesso nellaCasa. Prima percorre lentamente, con un sorri-so estatico stampato sulla faccia, i corridoi che

perimetrano gli ambienti spiati dalle telecame-re; poi s’intrude in una breccia ed effettivamen-te entra nella Casa.

A quel punto succedono due cose. Laprima è che nessuno lo vede. Non si accorgo-no della sua presenza gli altri partecipanti alreality né, per quanto ne sappiamo (lo sguardodegli Spettatori, in precedenza ripreso nellescene più dolenti del film, è ora lontano, forclu-so dalla rappresentazione), può essere vistonegli schermi televisivi. La seconda è che Lu-ciano, di ciò, non si duole affatto; anzi. Lo ve-diamo accomodarsi su una sdraio al limitaredella piscina, stendersi, bearsi, perdersi in lon-tananza – mentre la mdp riprende il volo. Il suosorriso, ultima citazione, è quello di Robert DeNiro nel finale di C’era una volta in America diSergio Leone. Luciano finalmente è uscitodalla sua vita «recitata» fuori: ed è entratonella «vita reale», quella in cui il suo modello diesistenza, e l’esistenza che davvero conduce,combaciano a perfezione. In Paradiso, cioè.

Non è un caso che il finale (almeno nellaparte in cui Luciano spia i ragazzi del GrandeFratello dagli specchi monodirezionali che cir-condano la Casa) riscriva con precisione unepisodio di Troppi paradisi di Walter Siti (insie-me al quale, del resto, per qualche tempo Gar-rone ha invano vagheggiato un film sulla resi-stibile ascesa di Fabrizio Corona): ossia l’auto-re letterario che – al prezzo di una puntigliosaSospensione del Giudizio, la stessa che con-sente a Garrone di evitare le derive, oppostema equivalenti, del Sarcasmo Complice daCommedia all’Italiana e del Corruccio Morali-sta da Apologo Sociale – meglio, in questianni, ha saputo reinterpretare la tradizione deiRealismi (sino a un pastiche pasoliniano, nelContagio, che ha la stessa funzione di quellorealizzato da Garrone nella parte centrale diReality) nella chiave di un Realismo della De-realizzazione o, appunto, di un Iper-Realismo.L’unico realismo, cioè, all’altezza dei tempi checi sono dati in sorte.

RealityAndrea Cortellessa

tere una soluzione, questo postulato cede via viache riusciamo a rinunciare al principio di ragionsufficiente. Al contrario, i problemi metafisici sirivelano come autentici problemi, e lo sono dasempre, poiché essi ammettono una soluzione.Ma solo a una condizione precisa e strettamentevincolante: occorre comprendere che rispetto alledomande metafisiche che ci chiedono perché lecose sono come sono e non altrimenti, la risposta«per nessun motivo» è una risposta autentica. Nonsi deve ridere o sorridere delle domande: «Dadove veniamo? Perché esistiamo?», ma occorre in-vece assimilare il fatto straordinario che le risposte«Da nulla. Per nulla» sono realmente delle rispo-ste. E occorre scoprire – a partire da questo fatto– che quelle domande erano davvero delle do-mande. Delle ottime domande, per giunta.

Non c’è più un mistero, non perché non ci siapiù un problema, ma perché non c’è più una ra-gione.

1. Un collegamento etimologico col termine italiano corri-spondente, «caso» è senz’altro possibile: l’essenziale nel giocodei dadi è proprio la caduta (casus) di questi ultimi, che si sup-pone regolata da vincoli causali operanti al di fuori della no-stra conoscenza e portata. Di fatto: il casus dei dadi è sinoni-mo di aleatorietà. [N.d.T.]2. Alain Badiou, L’Être et l’Événement, Seuil, Paris 1988 (tra-duzione italiana di Giovanni Scibilia: L’essere e l’evento, Ilnuovo melangolo, Genova 1995).

Testo tratto da: Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità dellacontingenza, cura e traduzione di Massimiliano Sandri, Mime-sis edizioni, Milano 2012.

alfabeta2.24IPERCORPI

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Da quando si mise in luce per laprima volta alle Paralimpiadidel 2004, Oscar Pistorius è di-ventato una figura di riferi-mento per l’immaginario del

cyborg e del postumano, per la tenacia che ha di-mostrato nella sua carriera agonistica, e il corag-gio e l’ostinazione con cui ha rivendicato il dirit-to a «uscire dal ghetto» partecipando anche allegare dei cosiddetti «normodotati». La combina-zione di spavalderia e di understatement con cuiha avanzato le sue richieste e si è presentato suimedia, ne ha fatto un personaggio in grado dicatalizzare pregiudizi e aperture, entusiasmi e ar-roccamenti. Era più facile, per i giornalisti e glisportivi che esprimevano consensi o dissensi allesue richieste (rivendicazioni? pretese?), fareemergere – anche inconsapevolmente – un di-scorso, per così dire, ontologico sulla disabilità.Dietro alle risposte alla domanda: è giusto o nonè giusto consentire a un disabile dotato di prote-si di gareggiare con gli atleti «normali», si legge-vano in filigrana concezioni della tecnica, delrapporto fra tecnologie e corpo, ingenue o scal-trite teorie dei rapporti fra natura e cultura. In-somma, tutta un’antropologia, non solo dellatecnica, ma un’antropologia tout court. Era ine-vitabile che tutto questo fiorire di commenti, dirisposte, di considerazioni, andasse a impattaresu un dibattito (appunto quello sul «corpo arti-ficiale», sul cyborg, addirittura sul postumano),che ha investito, sia pure con parzialità e con uncerto ritardo, anche la scena italiana.

Semplificando moltissimo, le argomentazio-ni che sostengono le due diverse risposte alla do-manda posta da Pistorius si possono riassumerecome segue. Le risposte positive esprimono ingenere una posizione favorevole alla «moderni-tà», all’integrazione fra corpo e tecnologia: chiesprime posizioni del genere si considera attentoa una «logica del cambiamento», e non ritieneche la diversa forma e il diverso funzionamentodelle protesi che sostituiscono gli arti inferioridell’atleta gli diano un vantaggio o uno svantag-gio particolari. Per costoro, insomma, la protesinon «snatura» l’essere umano, lo configura soloin maniera diversa dall’essere umano senza pro-tesi, ma non in modo tale da determinare unsalto qualitativo, la comparsa di una figura bio-logica e culturale diversa. L’inserzione della tec-nologia nel corpo, anche a livello dell’immagina-rio sociale, sarebbe in grado, insomma, di risol-vere in maniera spontanea – se non automatica– ogni problema di integrazione, tanto tecnicoquanto psicologico, tanto individuale quanto so-ciale. Il cyborg è già tra noi, non abbiamo altrapossibilità che quella di prenderne atto: ogni ri-fiuto è destinato prima o poi a essere superato,ogni squilibrio è condannato a essere assorbito.L’uomo artificiale non riesce a mutare significa-tivamente, insomma, l’omeostasi che regola ilrapporto dell’uomo col suo ambiente. Ne sianocoscienti o meno coloro che lo sostengono, que-sto discorso non è che una riedizione del tradi-zionale discorso sul progresso, anche se la retori-ca può essere cambiata rispetto a quella otto-no-vecentesca delle «magnifiche sorti e progressive».

Le argomentazioni di coloro che invece si di-mostrano contrari, o perplessi, sulla parteci-

pazione di atleti con protesi così complesse allecompetizioni dei «normodotati» sono più artico-late, e a prima vista sembrano addirittura espri-mere valutazioni diverse sul vantaggio che leprotesi apporterebbero all’atleta disabile. La ra-gione per la quale Pistorius era stato escluso delleOlimpiadi «regolari» nel 2008 era infatti l’ecces-sivo vantaggio che le sue gambe artificiali gliavrebbero dato rispetto ai concorrenti «non mo-dificati». Ma un tale vantaggio non era maiemerso nelle sue performance atletiche, né

prima delle Olimpiadi del 2008 (alle quali co-munque fu poi ammesso, ma fallì la qualificazio-ne), né dopo (alle Olimpiadi di Londra di que-st’anno non ha conquistato alcuna medaglia).

Ecco emergere allora un’obiezione di segnoopposto. Non sarebbe tanto un indimostrabilevantaggio degli atleti con protesi che sconsiglie-rebbe questa mescolanza, ma al contrario la con-ferma di un loro svantaggio: che li esporrebbe aumiliazioni, o potrebbe essere indirizzato versoun lagnoso pietismo. Questo, per esempio, ilcommento di un lettore su un blog: «La parteci-pazione di Pistorius alle olimpiadi dei normodo-tati ha rappresentato il trionfo della retoricadella “normalità dei diversamente abili”, che nonè meno nefasta di ogni altra. Io la finirei conquesta schifosa retorica. Questa gente ha biso-gno di aiuti concreti di strutture, di accompa-gnatori, e non di schifoso pietismo, e soprattut-to non hanno bisogno di nessun Pistorius per es-sere eroi, perché loro sì, sono autenticamenteeroi di tutti i giorni»1.

Al di là delle differenze che attraversano tuttequeste reazioni variamente ispirate al «senso co-mune», c’è però un atteggiamento di fondo chele accomuna. Questo atteggiamento è una con-cezione «fissista» o «sostanzialista» dell’essereumano: la convinzione, cioè, che sia possibilefissare una volta per tutte una definizione di«uomo», e quindi tracciare una linea di demarca-zione precisa fra ciò che è umano e ciò cheumano non è. Poi ci si dividerà fra coloro chenon reputano desiderabile (o forse neanche pos-sibile) superare questa linea di demarcazione, ecoloro invece che prendono atto che l’interazio-ne fra corpo e tecnologia conduce proprio al su-peramento di quella linea. Ma in entrambi i casiil processo che viene descritto (come impossibi-le o già in corso, deprecabile o desiderabile) èquello che conduce da una specie a un’altra, dauna specie nota a una ignota. La gran parte delleposizioni espresse sul cosiddetto «postumano» èfondata su questo presupposto. È altresì eviden-te che questo presupposto è accompagnato (al-meno implicitamente) da un’altra premessa: chenell’uomo ci sia un elemento irriducibile allealtre specie animali, che la specie Homo sapienssia un unicum nel regno animale, e che quindi,per una o un’altra ragione, la nostra specie abbiarealizzato una specie di «trascendenza del biolo-gico». Questo elemento trascendente è ciò cheusualmente viene indicato col termine «cultura».

Questa corsa a definire, a descrivere, a deli-mitare, a fissare una volta per tutte l’«essenza»

dell’umano, porta a risultati tanto più deludentiquanto più le intenzioni sembrano lodevoli (peresempio giungere a una definizione dell’uomoche non faccia uso in alcun modo di ipotesi dua-listiche). È il caso della cosiddetta «teoria dell’in-completezza», con la quale Arnold Gehlen tentadi sfuggire allo spiritualismo del fondatoredell’«antropologia filosofica», Max Scheler.Forse, a modo suo, Gehlen ci riesce, ma solo aprezzo di spostare il dualismo scheleriano dallaspaccatura fra «natura» e «cultura» all’internodella stessa natura. Carente di istinti e ricco dipulsioni, capace della raffinata strategiadell’«esonero», l’uomo di Gehlen obbedisce «auna legge strutturale particolare, la quale è lamedesima in tutte le peculiari caratteristicheumane, e va compresa muovendo dal progettoposto in essere dalla natura di un essere che agi-sce»2. La conseguenza è che la visione di Gehlennon supera affatto il dualismo: esso viene soltan-to assunto a dato empirico, e il carattere unitariodella nuova scienza dell’uomo, dell’antropologiafilosofica, dovrà dare conto di questo dualismo:«Sarebbe a mio avviso un risultato meritorioqualora si potesse dar fondamento alla generale epopolare opinione che definisce “animale” tuttociò che non è uomo, dal lombrico allo scimpan-zè, separandolo dall’uomo. Dove si fonda il di-ritto di questa distinzione? E si può continuare asostenerla anche se si ammettono i princìpi fon-damentali della teoria evoluzionistica?»3.

In effetti tutta la teoria di Gehlen è volta a fon-dare il «diritto» della discontinuità fra uomo e

animale, e ad adattare il punto di vista evoluzio-nistico a tale discontinuità. La prima e fonda-mentale mossa è quella di riprendere la visionedell’uomo come «essere manchevole», avanzata asuo tempo da Herder, e svilupparla alla luce delleconoscenze scientifiche disponibili (quelle deglianni Trenta nel Novecento). «A differenza ditutti i mammiferi superiori», scrive Gehlen, «dalpunto di vista morfologico l’uomo è determina-to in linea fondamentale da una serie di carenze,le quali di volta in volta vanno definite nel sensobiologico di inadattamenti, non specializzazioni,cioè di carenze di sviluppo: e dunque in senso es-senzialmente negativo». A questa condizione dicarenza, di inadattamento, di apparente para-dosso («in condizioni naturali, originarie, tro-vandosi, lui terricolo, in mezzo ad animali valen-tissimi nella fuga e ai predatori più pericolosi,l’uomo sarebbe già da gran tempo eliminatodalla faccia della terra»)4, l’uomo reagisce, secon-

do Gehlen, rovesciando i suoi apparenti svantag-gi in vantaggi: modifica l’Umwelt per trasfor-marlo in Welt (dall’ambiente, in cui vivono tuttigli altri animali, al mondo, che l’uomo costrui-sce per se stesso); si «esonera» dagli stimoli percostruire risposte più complesse, basate su «pre-stazioni di specie superiore»5 come il linguaggio,la ragione, la riflessione; si affida a una attivitàcollettiva di previsione e di pianificazione chenessun animale conosce. «Egli vive, per così dire,in una natura artificialmente disintossicata, ma-nufatta, e da lui modificata in senso favorevolealla vita. Si può anche dire che egli è biologica-mente condannato al dominio della natura»6.

In realtà tutta la costruzione concettuale le-gata alla teoria della carenza, al paradigma del-l’incompletezza, ha come unica giustificazionequella di fondare più efficacemente, separandolodalle ipotesi spiritualistiche, un presupposto me-tafisico che non solo è non dimostrato e non di-mostrabile, ma che si rivela il cavallo di Troia percui il dualismo, cacciato dalla porta, rientra dallafinestra: quello della separazione dell’uomo dalregno animale, quello di una «linea evolutiva»speciale e peculiare all’uomo. È in fondo questo«posto speciale» dell’uomo nel mondo che stadietro alle fantasticherie sul «superamento» dellaspecie umana a furia di interventi tecnologici sulcorpo (un «superamento» che diventa particolar-mente grottesco nelle teorizzazioni delle compo-nenti oltranziste dei sostenitori del postumano,come i cosiddetti «transumanisti»)7. Concezionidi questo tipo generano visioni meccaniciste epseudo-evoluzioniste, che identificano il «salto»oltre l’umano con una prospettiva puramentequantitativa di aggiunte tecnologiche a un corpobiologico ridotto a passivo campo di interventoda parte di un’entità (la mente? il soggetto?), ilcui legame con la sua base biologica risulta sem-pre più misterioso.

Non erano queste le pratiche a cui pensavaNietzsche quando formulava la prospettiva delsuo Übermensch; non era questo il quadro nelquale Foucault, chiudendo Le parole e le cose, di-chiarava che «l’uomo è un’invenzione di cui l’ar-cheologia del nostro pensiero mostra agevol-mente la data recente. E forse la fine prossima»,prevedendo poi con sorprendente anticipazioneuna possibile situazione in cui «l’uomo sarebbecancellato, come sull’orlo del mare un volto disabbia»8?

Se a qualcosa può e deve servire una culturadel postumano, è in primo luogo – io credo – ariconoscere correttamente l’origine concettualedi quelle pratiche che, in nome di presunti mo-delli, di presunte purezze, di presunte «essenzedell’uomo», hanno prodotto schiavitù, sterminiodelle razze, emarginazione del «mostruoso». Nonsono stati «incidenti di percorso» il fascismo e lostalinismo, non sono stati aberrazioni della civil-tà, ma coerenti e possibili esiti (possibili, certo,non necessari né automatici, ma cionondimenoperfettamente conseguenti) di un certo umane-simo, di un certo culto della purezza, di unacerta ossessione dell’«origine». Ogni altra visionedel postumano ci condannerebbe (forse ci sta giàcondannando) a una triste replica di quei dispo-sitivi di esclusione.

1. www.giornalettismo.com/archives/476777/oscar-pistorius/2. Arnold Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nelmondo [1940], trad. it. di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano1983, p. 55.3. Ivi, p. 37.4. Ivi, p. 60.5. Ivi, p. 93.6. Arnold Gehlen, Prospettive antropologiche. Per l’incontro conse stesso e la scoperta di sé da parte dell’uomo [1961], trad. it. diS. Cremaschi, il Mulino, Bologna 1987, p. 69.7. http://humanityplus.org/; http://www.estropico.org/8. Michel Foucault, Le parole e le cose [1966], trad. it di E. Pa-naitescu, Rizzoli, Milano 1978, pp. 413-414.

Tendenza PistoriusLe diverse sirene del postumano

Antonio Caronia

Roberto Barni. Quattro teste ed altre storie, 1980 - 2009. CoBrA Museum of Modern Art - Amsterdam

IPERCORPIalfabeta2.24

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«Can you do anything withyour eyebrow?». Sai farequalcosa col sopracci-glio?, domanda all’inter-locutore il principe Ran-

dian in Freaks. Il principe Radian, il «bruco uma-no», era nato privo di arti ed era una stella del circodi Phineas T. Barnum. Conosceva varie lingue, tracui hindi, francese, inglese e tedesco, era un amabi-le conversatore dotato di un pregevole senso del-l’umorismo, si sposò ed ebbe cinque figli1. Il princi-pe Randian era in grado di rollare e accendersi unasigaretta: quanti sanno farlo senza mani? Quando ilrassicurante schema corporeo caro a Merleau-Pon-ty e ai suoi eredi fenomenologi viene meno, il cor-po diventa pura risorsa, ogni sua parte si presta albricolage necessario alla relazione al mondo. «Cosapuò un corpo?», domandava Spinoza, e con luidobbiamo convenire che non lo sappiamo ancora.E questo affascina: l’eccedenza-mancanza-nonconformità del corpo è da sempre al centro dell’im-maginario dell’umanità, ciascuna epoca ci si è rela-zionata secondo le proprie forme, sacralizzandola odemonizzandola. O mettendola in scena.

Di quest’ultima modalità, la spettacolarizza-zione del corpo non conforme, si stanno occupan-do da alcuni anni ricercatori che si muovono nel-l’ambito dei cultural studies, concentrando la pro-pria attenzione su una sua forma specifica e unorizzonte temporale delimitato, i side shows, o freakshows: spettacoli itineranti, per lo più in nord Ame-rica dal diciannovesimo secolo al 1940, i cui gli at-tori mettevano in scena la propria deformità reale,«per divertimento e profitto». Liquidati da Dou-glas Biklen come «pornografia della disabilità», auno studio più approfondito si rivelano un oggettodi ricerca estremamente complesso e interessante.

Prima della critica vi si era dedicato il cinema:innanzitutto con l’unico film interno all’orizzontedei side shows, Freaks di Tod Borowning (1932),straordinario documento di un’epoca altrimenti ri-masta solo in fotografia. (Ora sarebbe impensabilerealizzare qualcosa di simile, infatti la ripresa del te-ma da parte di altri autori è avvenuta su registri dif-ferenti. Non di meno producendo capolavori: sipensi alla storia di John Merrick narrata da DavidLynch in Elephant man, alla Donna scimmia diMarco Ferreri o ancora, al di fuori della spettacola-rizzazione a pagamento, ad Auch Zwerge habenklein angefangen cioè Anche i nani hanno comincia-to da piccoli di Werner Herzog e Pro urodov i ljudejcioè Of Freaks and men di Aleksei Balabanov).

Ecco dunque come lo studio dei freak shows siè elaborato all’interno dell’analisi culturale delledisabilità, nei Disability Studies. A inaugurare laletteratura critica è stato un testo divulgativo e le-gato allo spirito della controcultura americanadegli anni Sessanta, in cui il termine freaks si eracaricato di una significazione specifica e differen-te, Freaks. Miti e immagini dell’io segreto di LeslieFiedler (Fiedler, 1978). Dieci anni più tardi vienepubblicato Freak show: Presenting human odditiesfor amusement and profit di Robert Bogdan (Bog-dan, 1988), libro che apre lo sguardo dei disabili-ty studies su uno dei capitoli rimossi della storiadella disabilità. A Rosemarie Garland Thomsonspetta poi il merito di avere articolato ulterior-mente il discorso in Extraordinary bodies e curan-do il volume collettivo Freakery.

Punto di partenza, e livello di base del discorso,è domandarsi cosa accomuni persone tanto diversecome le tipologie spettacolarizzate nei freak shows.Evidentemente null’altro che il discostarsi in modomacroscopico dall’ideale fittizio di una norma, ciòche Erving Goffman in un famoso passo di Stigma(Goffman 1963) così individua: «C’è solo un tipoumano che non debba vergognarsi di sé in Ameri-ca: giovane, sposato, bianco, di una città del nord,di giusti peso e altezza, di bell’aspetto e recente au-tore di un record sportivo». Il freak rassicura lospettatore sulla propria appartenenza al consorzio

umano in quanto – su questo gli autori concorda-no – la modernità è il tempo della costituzione del-l’uomo comune; individuare ciò che gli è antiteticoè funzionale alla sua affermazione, ma a un tempoasseconda la dinamica opposta di identificazionecon la divergenza, sia pure in forma estrema o estre-mizzata. Questa ambivalenza profonda caratterizzail fenomeno dei freak shows a ogni livello. La Gar-land Thomson richiama la categoria bachtinianadel grottesco2 materiale-corporeo rabelaisiano,corpo eccedente e aperto, corpo limite spinto al li-mite, l’uomo o la donna più grandi del mondo e ilpiù piccolo, come il celebre midget generale TomThumb. L’esagerazione era una delle modalità perinnescare meraviglia nello spettatore, e quandopossibile veniva aiutata con espedienti, quandonon creata ad arte tramite frode.

Un livello di interesse particolare delle analisiculturali dei freak shows è lo studio delle relazionitra la rappresentazione e le contingenze culturali,per esempio il legame tra l’esplosione dell’interes-se per il dawinismo e la messa in scena, per lo piùartatamente costruita, del missing link tra l’uomoe la scimmia. A inscenarlo erano (naturalmente?)afroamericani con microcefalia, presentati stimo-lando il dubbio e l’invito alla presa di posizionedel pubblico. Cosa è?: domanda che individuavaimplicitamente, come polarità della scelta, l’uo-mo e la scimmia.

Tra le tipologie disabili oggetto di meraviglia efascinazione erano i pin head, i microcefali, talvoltaagghindati con trecce rivolte verso l’alto a rimarcar-ne la forma del cranio, i gemelli siamesi, così chia-mati dal loro prototipo, Chang ed Eng Bunker, ori-ginari del Siam, ora Thailandia. Ancora una voltala meraviglia della specificità individuale si sommaalle suggestioni esotiche della provenienza: comenel caso dell’indiano Laloo, nato con un gemelloparassita, un corpo privo di testa ma con braccia e

gambe, innestato sullo sterno. Il colonialismo erauno sfondo sempre presente, come approfondisco-no alcuni saggi raccolti in Victorian freaks da Mar-lene Tromp, e come testimonia inoltre la prolifera-zione negli spettacoli di indigeni, dopo che gli Sta-ti Uniti conquistarono le Filippine togliendole allaSpagna alla fine del XIX secolo.

Negli anni del razzismo «scientifico», da Blu-menbach a Gobineau, il meraviglioso si

sommava all’esotismo e all’erotismo: come nel casodi Saartjie Baartman, la Venere ottentotta3 che si esi-bì in Europa fino alla morte per vaiolo e alcoolismonel 1815, il cui corpo venne sezionato e il cervello,gli organi genitali (rescissi e disseccati da Cuvier) elo scheletro furono esposti al Musée de l’homme diParigi fino al 1974. La particolarità della Venere ot-tentotta erano i glutei prominenti, la steatopigia o,come veniva definito allora, il «cuscino posteriore»(Ne trattò anche Cesare Lombroso: in Studi sui se-gni professionali dei facchini e sui lipomi delle otten-totte, camelli e zebù e Sullo stricnismo cronico, Tipo-grafia Celanza e Comp., Torino 1879). Una sortesimile toccò a Julia Pastrana, la «donna orso» alias«la donna più brutta del mondo», una messicanaaffetta da ipertricosi che resta la più celebre delledonne barbute. Alla sua morte per parto duranteuna tournée in Russia, il marito vendette i cadaverisuoi e di suo figlio a un taxidermista; il lavoro riuscìtanto bene che ne ricomprò i corpi imbalsamati. Lasua spettacolarizzazione continuò così postumaper più di cent’anni (ora il feticcio imbarazzante delsuo corpo impagliato giace in un istituto scientificodi Oslo). In questi due ultimi casi è evidente il lega-me con la dinamica di genere, approfondita dallaGarland Thomson. Agli antipodi, se non geografi-ci ideologici, della venere ottentotta sta la ragazzacircassiana, ideale del tipo caucasico originario.Non di meno oggetto di esposizione a sua volta.

Altro indecidibile da esposizione, che chiama-va lo spettatore alla decisione, complementare al-l’anello mancante e alla donna barbuta, è l’erma-frodito, tipologia affascinante per definizione, in-grediente altrettanto immancabile del freak show.

Il libro di Robert Bogdan sofferma l’attenzionesull’economia dello spettacolo, e se sia da censurarecome sfruttamento della più lurida specie o se nonfosse piuttosto, in molti casi, una scelta, forse senzaalternative, per trasformare una condizione diemarginazione in una possibilità di lavoro, o al li-mite di autosussistenza. Certamente le condizionidi vita dovevano essere agghiaccianti, ma per disa-bili come i microcefali, i pin head, o il principeRandian, l’alternativa unica sarebbe stata l’istitu-zionalizzazione in un frenocomio, tra psicotici e si-filitici. Il circo Barnum arricchiva certamente chisfruttava la condizione di necessità di chi si esibiva;non di meno riconosceva loro risorse economichecui in nessun modo avrebbero altrimenti avuto ac-cesso. Una volta di più, tutto ciò che gira intorno aifreak shows appare surdeterminato e complesso,uno specchio a un tempo fedele e deformante dellasocietà che li aveva generati.

Sulle ragioni che hanno portato all’estinzionedei freak shows intorno al 1940, le ipotesi di Rose-marie Garland Thomson non sono convincenti.La studiosa sostiene che ciò che era l’oggetto deglispettacoli venne territorializzato dalla scienza, ledisabilità risignificate come patologie e in alcunicasi, come i gemelli parassiti o siamesi, la soluzionefu la chirurgia. Forse si è trattato, piuttosto, di unsalto epistemico: semplicemente nel dopoguerraun simile spettacolo non poteva avere più corso, lafame di meraviglioso e bizzarro degli spettatori siera trasposta su altri livelli, il mostro è diventatol’extraterrestre, la fantascienza non ha più avuto bi-sogno del supporto di corpi reali.

Tempo fa mi è capitato di ascoltare quella chevoleva essere una barzelletta: «morto a Roma l’uo-mo più piccolo del mondo, verrà rimpatriato comebagaglio a mano». Non avendone capito il senso hoprovato a informarmi, venendo così a scoprire cheHe Pingping, ragazzo della Mongolia alto settantacentimetri, era a Roma per partecipare a una tra-smissione della televisione nazionale nella qualeappariva al fianco di Bao Xishun, l’uomo più gran-de del mondo, anche lui nativo della Mongolia.Credo ci voglia ancora qualche sforzo di interpreta-zione culturale per cercare di capire come sia statapossibile una simile regressione nelle attese delpubblico, se per fare audience si è dovuto riesumarelo spirito del circo Barnum.

BibliografiaBogdan, Robert (1988), Freak Show. Presenting Human Oddi-ties for Amusement and Profit, University of Chicago Press, Chi-cago.Fiedler, Leslie (1978), Freaks. Miti e immagini dell’io segreto, tra-duzione di Ettore Capriolo, Garzanti, Milano 1981 (ora Il Sag-giatore, Milano 2009).Garland Thomson, Rosemarie (1997), Extraordinary Bodies:Figuring Physical Disability in American Culture and Literature,Columbia University Press, New York.Garland Thomson, Rosemarie ed. (1996), Freakery: CulturalSpectacles of the Extraordinary Body, NYU Press, New York. Goffman, Erving (1963), Stigma. L’identità negata, traduzionedi Roberto Giammanco, Laterza, Roma-Bari 1970 (ora Ombrecorte, Verona 2003).Stephen Jay Gould (1985), Il sorriso del fenicottero, traduzione diLucia Maldacea, Feltrinelli, Milano 1987.Tromp, Marlene ed. (2008), Victorian Freaks: The Social Con-text of Freakery in Britain, The Ohio University Press, Colum-bus.

1. Informazioni da prendere col beneficio del dubbio. Intornoal corpo spettacolarizzato veniva costruita una biografia che nemettesse quanto più in luce possibile il meraviglioso e lo straor-dinario; i nomi propri venivano sostituiti dall’attribuzione di ti-toli arbitrari e da definizioni sintetiche, Principe, Generale, Ve-nere, e dall’attribuzione di abilità altrettanto meravigliose, qua-si doni carismatici, tra cui ricorrente la conoscenza di più lingue.2. Queste biografie fantastiche erano stampate su cartoline illu-strate e vendute agli spettacoli.Sul grottesco rimando al mio L’idea del grottesco in Kayser, Ba-chtin e Braibanti, http://tysm.org/?p=80363. La sua storia è raccontata in Gould 1985.

Fare qualcosa col sopracciglioIl corpo non conforme e i Freak studies

Enrico Valtellina

Roberto Barni. Trauma, 2011

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Aspettando le OperaiadiCarlo Antonio Borghi

Arte a Milano 1969-1980 (palazzo Reale) sonostate rimesse in luce tracce e impronte del passag-gio del corpo in movimento o in stato di immo-bilità. Il corpo punto di partenza e di arrivo comeprogetto e concetto di se stesso. Allora nel corpodell’artista trovavano unione di sensi e di intenti il

corpo fermo e disteso aspetta di essere indagato.L’indagine può procedere per via di pratiche amo-rose o per il tramite di accertamenti sanitari. Intutti e due i casi si ottengono corpografie riprodu-cibili in tutti i formati, meccanici e digitali.

A Milano nella mostra Addio Anni Settanta

Visione in 3 D: Disoccupazione,Devastazione e Disordine. Di-soccupazione dilagante e invali-dante. Devastazione imperante ericorrente dei luoghi della vita e

del lavoro. Tanto ricorrente da divenire perma-nente. Disordini psichici e sociali dietro ogni an-golo. I futuristi della prima onda avevano pensa-to alla Ricostruzione Futurista dell’Universo. Eral’11 marzo del 1915, per le firme di Balla e De-pero. Ora ci sarebbe urgenza di una Ricostruzio-ne psicofisica dell’universo postmoderno, inten-dendo l’universo come microcosmo personaleunito al macrocosmo globale. Tutta la realtà è ri-producibile in alta definizione. Tutto quanto ci èdato di vedere risulta in Blue Ray. La depressioneeconomica corre in pista gomito a gomito con ladepressione nervosa. La nervous breakdownviene definita immateriale ma è tangibile e mate-rica quanto la prima. Materica quanto l’arte scot-tata e bruciata di Alberto Burri, informe e infor-male. Con entrambe le forme di disagio toccafare i conti, in tasca e in testa. Il corpo spessoresta basito e impedito ad agire.

Una buona forma di azione è quella di autoin-chiodarsi in cima a tralicci, silos, ciminiere e cam-panili ad altezza variabile dal suolo. È una moda-lità usata da operai in lotta per mettere in mostralo stato di devastazione depressiva causato dalconnubio mefistofelico di disoccupazione + disor-dine. Nelle arti performative la condizione di im-mobilità del corpo dell’artista in pubblico è mani-festazione estetica e critica verso il moto perpetuodei villaggi globali e delle città verticali. La stessacosiddetta danza urbana spesso mette i suoi per-former fissi con le spalle al muro o con i piedi in-chiodati sull’asfalto. Più stai fermo più ti fai nota-re nella massa che non fa altro che andare. Il

«Atleta sconfigge i suoi genitali fem-minili per competere nella mara-tona per donne!». Stranamente

questo titolo non ha trovato spazio nei reso-conti giornalistici delle Olimpiadi di Londra.Non intendo sottovalutare la copertura media-tica alterna e spesso condiscendente nei con-fronti delle atlete, e quella piuttosto aggressi-va verso gli atleti trans e di altra collocazionedi gender, ma mettere in luce quanto sianostate ridicole e discutibili le più comuni titola-zioni paralimpiche. Basta cercare con Google«paralimpico» per trovare una infinità di storieche descrivono come un paralimpico sconfig-ga eroicamente la condizione tragica e mo-struosa del suo corpo per competere neglisport per disabili.

Se in queste storie si sostituisce la disabi-lità con il genere, emergono molteplici nodiproblematici. Il primo riguarda la logica: gliatleti non «sconfiggono» le disabilità diagno-sticate (o la collocazione di genere) per com-petere ai giochi paralimpici (o vincolati al gene-re), ma sono queste marche categoriali chepermettono agli atleti l’accesso alle rispettivecompetizioni segregate.

In secondo luogo, queste narrazioni distol-gono l’attenzione dai risultati atletici, per foca-lizzarsi su storie sensazionalistiche da freakshow di «super atleti» o «super uomini» chesconfiggono i loro corpi (ritenuti) tragici e mi-norati. Magnificando questi atleti in moditanto iperbolici e focalizzati sul corpo, si fini-sce per riprodurre l’idea che i corpi disabilisiano tragici, minorati e per lo più incapaci –perché altrimenti la loro mera partecipazionedovrebbe essere più «strabiliante!» di quelladi atleti senza disabilità?

Terzo punto, queste storie partono dal pre-supposto che la lotta più significativa affronta-ta da questi atleti sia con i loro corpi, inveceche con strutture sociali che li rendono moltopiù esposti alla povertà, all’abuso sessuale ealla violenza fisica, all’esclusione sociale e al-l’emarginazione (nello sport e in molti altri am-bienti). Focalizzandosi sulla differenza delcorpo, e dunque trascurando la disabilità so-ciale, storie simili sono parte delle forze socia-li disabilitanti.

Detto brutalmente, le tipiche storie para-limpiche hanno scassato. Naturalmente nonsono la prima a dirlo. Non è facile trovare unatleta o teorico della disabilità che non sollevi,interrogato, almeno una delle mie critiche.Sono stati pubblicati molti articoli, infatti, cheevidenziano come i media rappresentino e co-struiscano in modo inappropriato l’empower-ment del movimento paralimpico e i suoi atle-ti. È esattamente questo punto, comunque,che segna la mia divergenza dalla maggiorparte delle critiche culturali. Il movimento para-limpico e il suo supposto «empowering» nonè secondo me solo vittima di una rappresenta-zione mediatica da freak show. Le organizza-zioni paralimpiche e i loro capi hanno spessocolluso con un insieme di rappresentazioni epratiche che servono a depotenziare gli atleti,comprese pratiche derivate dai freak shows.

In un recente studio genealogico, ho di-mostrato come i leader degli sport paralimpicie le loro organizzazioni siano sempre stati in-fluenzati dallo sport istituzionalizzato, dalla ria-bilitazione medica e dal sensazionalismo dafreak shows, tre fattori che sono stati utili almovimento paralimpico: infatti le strutturesportive hanno garantito un accesso alle sov-

venzioni, alle tecnologie di allenamento e,entro certi limiti, alla credibilità; il rapporto conla riabilitazione ha giustificato le donazioni ca-ritative, il reclutamento – spesso al limite dellacoercizione – dei primi partecipanti e il tono dibenevolenza e competenza che accompagnal’«aiuto» concesso a questi corpi evidente-mente rotti; l’influenza dei freak shows infineha fornito le strategie rappresentative sensa-zionalistiche intorno alla disabilità in grado dicatalizzare la massima attenzione da partedelle persone con corpo abile e di conseguen-za il potenziale del fundraising, strategie chehanno funzionato tanto per i primi centri di ria-bilitazione come per le attuali organizzazionidegli sport per disabili.

È comunque importante notare che sport,riabilitazione e freak shows presentano cia-scuno dei pericoli. Ci sono interi ambiti acca-demici che analizzano criticamente i modi incui l’istituzionalizzazione sportiva spesso di-sciplina gli atleti secondo modalità non etiche,spesso riproducendo e giustificando le dispa-rità sociali. Analogamente, ci sono ambiti di-sciplinari che criticano la riabilitazione e altriapprocci medici alla disabilità, per quanto con-tribuiscono a imporre dinamiche di potere di-storte che legittimano gli esperti a parlare anome delle persone disabili e ad agire suicorpi non consenzienti dei «pazienti». Infine,sono state sviluppate analisi significative sulleraffigurazioni e pratiche abiliste e razziste deifreak shows del XIX secolo, e come questispettacoli (e spesso le loro star) venissero ri-levati da spettacoli medici itineranti, che incor-poravano simili pratiche per costringere edesporre la loro collezione di anomalie medicheper profitto.

Mi sembra interessante che questa criticagià consolidata di sport, riabilitazione e freakshows medicalizzati sia di rado applicata almovimento paralimpico e alle sue pratiche.Credo dipenda dal fatto che i miti dominantidella natura intimamente tragica della disabili-tà e del benefico empowerment del paralim-pismo lascino poco spazio alle critiche e allepreoccupazioni di atleti, attivisti e ricercatori:preoccupazioni fondamentali che riguardano ilvelo di silenzio calato sul dissenso degli atletie l’assenza delle voci degli atleti rispetto ailoro sport e ai modi in cui sono rappresentatidalle loro organizzazioni sportive

Se davvero vogliamo un movimento para-limpico capace di empowerment, dobbiamoavviare un confronto critico con gli aspetticontemporanei e storici del movimento para-limpico che agiscono contro questa presa dipotere. Dobbiamo volgere la critica non soloalle discutibili raffigurazioni dei media, maanche alle rappresentazioni e alle pratichedelle stesse organizzazioni sportive paralimpi-che. Solo coltivando la riflessione e uno sguar-do critico sarà possibile leggere titoli nuovi suimedia. Eccone uno che varrebbe la pena ve-dere: «Gli atleti sconfiggono l’empowermentparalimpico e assaporano le nuove possibilitàatletiche e politiche».

* Danielle Peers è campionessa del mondo e medaglia dibronzo olimpica nella specialità della pallacanestro su sediaa rotelle. Sta conseguendo un Ph.D. in Phys.Ed & Rec al-l’Università di Alberta, in Canada. Il suo sito è www.daniel-lepeers.com.

Traduzione di Enrico Valtellina

Pazienti, atleti, freaks?Cosa non ci dicono le Paralimpiadi

Danielle Peers*

corpo individuale e quello sociale, il corpo dell’in-tellettuale e quello del lavoratore metalmeccanicoo petrolchimico. Il corpo si era messo di mezzo espesso di traverso, fin dai tempi dell’amicizia traCage e Duchamp. Una amicizia a scatti e a scac-chi. Di seguito il corpo divenne Fluxus, flussoininterroto di matrice lunare, mentale e corpora-le. Quando Fabio Mauri proiettò il Vangelo secon-do Matteo sul petto di Pasolini seduto, tutto risul-tò ancora più chiaro, chiaro come la camicia bian-ca di lui. Appeso allo schienale della sua sedia ilgiubbotto di pelle poetica. Il resto del corpo den-tro ai jeans. Ci aveva visto bene Pino Pascali quan-do, alla fine degli anni Sessanta, ingravidò unabella tela bianca. Era una tela che desiderava un fi-glio d’artista concettuale. Gravidanza a rischio. Èancora lì appesa e ferma sui muri del Macro, conil suo pancione del settimo o ottavo mese. Stato digravidanza permanente. Avrebbe potuto partorireil futuro e forse un giorno lo farà.

Per il momento i corpi più attraenti, ripro-dotti dagli schermi Full Hd, sono risultati quel-li delle post Olimpiadi di Londra 2012. Corpi dipersone disabili variamente e spesso artistica-mente menomati ma determinati alla competi-zione agonistica. Con orribile dicitura il CONIle chiama Paralimpiadi. Varrebbe la pena dichiamarle Disabiliadi. Corpi d’oro, d’argento ebronzo. Avrebbero potuto gareggiare anche tantestatue greco-romane variamente mutilate o me-nomate o acefale, a cominciare dalla Venere diMilo e comprendendo anche Aurighi, Discobolie Pugilatori amputati. Corpi differenti. Corpidifferenziali. Corpi che fanno la differenza,molto più dello spread. Intanto, la forbice si al-larga. Sul podio la Triade capitolina con Giove,Giunone e Minerva, variamente amputati maben visibili a Montecelio sopra Guidonia.

Roberto Barni. Doppia, 2004

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IPERCORPI

Olimpiadi 2012: citius, altius, fortiusCome produrre esclusione usando la retorica dell’inclusione

Arianna Bove, Erik Empson

Un’iniziativa finanziata dal setto-re pubblico con 9 miliardi disterline1, che ha inizio con la vit-toria del bando di aggiudicazio-ne del 2005 e prosegue sotto la

direzione di tre Primi ministri di diversi governicomposti da tutti i principali partiti britannici, leOlimpiadi del 2012 sono un caso interessante dianalisi della democrazia in corso. La «sostenibili-tà» era ai primi posti sull’agenda politica del-l’Olympic Delivery Authority, che pubblica unadichiarazione di «Impegno per la riqualificazionesostenibile» lunga quaranta pagine dove affermache le Olimpiadi avrebbero rappresentato «lostandard di riferimento per la riqualificazionedella Lea Valley»2. Inoltre, dai discorsi del sindacodi Londra ai bollettini municipali, dai giganteschiposter pubblicitari alla pigmentazione delle stra-de di Londra con i colori olimpici ufficiali rosa earancione sgargiante, la partecipazione – il pren-der parte, e, cosa più importante, l’essere orgo-gliosi della Gran Bretagna – era la priorità. Conquesta ambizione, la Olimpic Delivery Authoritye la London Development Agency hanno prodot-to un «Codice di consultazione» lungo ventiquat-tro pagine3.

Il documento definisce una buona consulta-zione come un processo proporzionale, genuino,trasparente, inclusivo e sistematico, che riflettadiversità e uguaglianze, e la necessità di fare inmodo che si coinvolgano i gruppi sociali più diffi-cili da raggiungere. Il codice considera i «consul-tati» come stakeholder (azionisti) e li identifica inagenzie territoriali, imprese, la comunità, specia-listi, attori politici e il grande pubblico. Inoltredefinisce una serie di strumenti di ricerca di mer-cato per la raccolta delle loro opinioni, come son-daggi e interviste.

Un problema emerge già nella definizione de-gli stakeholders: a parte il grande pubblico, le cuiopinioni non potrebbero essere sondate da alcunodegli strumenti di ricerca proposti, gli stakeholderssono gruppi di interesse o lobby già esistenti eidentificabili, con le loro strutture di rappresen-tanza politica precostituite. Dirigenti di agenziegovernative, deputati, commercianti e proprietariterrieri, leader di gruppi religiosi: questa consul-tazione è solo a inviti, e gli invitati rappresentanoidentità politiche già formate che di per sé emer-gono da una qualche forma di processo di leader-ship, delega di autorità o trasferimento di dirittipolitici (un processo che può essere democratico enon). Nel documento viene posta molta enfasisull’importanza della «comunicazione», peresempio su come gestire le «esigenze alimentari»alle riunioni che vedano larga partecipazione diuno specifico «gruppo etnico». Insomma, il codi-ce di consultazione pare un manuale di galateo di-plomatico dell’Impero Britannico sugli incontricon rappresentanti di terre appena scoperte. Si av-verte che l’area di sviluppo coinvolge una comu-nità di residenti troppo diversificata per potervisirivolgere come a una «massa omogenea»4. Così,confrontati con tanta diversità, si consiglia di di-viderla in sezioni più piccole, possibilmente nonin dialogo tra loro, e affrontarle una alla volta.

Ma perché azionisti piuttosto che semplice-mente cittadini? Devota al discorso sulla respon-sabilità sociale delle aziende, l’idea di «democraziadegli azionisti» (stakeholder democracy) è già di persé alquanto dibattuta. Nella peggiore delle ipote-si, altro non è che una campagna di marketing mi-rata a sventare il dissenso e a prevenire il dibattito;al massimo, è una delle pie illusioni degli studiosidi management, impazienti di mostrare il poten-ziale di mercato di massa del loro ultimo prodot-to5. Ora, con i drammatici risultati della progetta-zione davanti ai nostri occhi, sfortunatamente ladomanda non è tanto se questa consultazione,inevitabilmente complicata, abbia avuto succes-so, ma ancor prima se essa sia mai veramente av-

venuta. E, se così è stato, come abbia potuto pro-durre ciò che ha prodotto.

Tra gli impegni per la riqualificazione sosteni-bile c’erano la «creazione di comunità sostenibilidotate di infrastrutture pubbliche e con profilimisti e bilanciati» e il «rafforzamento della coesio-ne delle comunità locali». Queste strategie sonostate effettivamente tradotte in pratica? Purtrop-po, ciò che è successo indica proprio il contrario.Grazie allo stato giuridico di eccezionalità che haconsentito l’esecuzione dei espropri in aree dovein precedenza sarebbe stato illegale privatizzareterre comuni, demolire vecchie case, costruire suorti comunali, sostituire campi verdi con par-cheggi, antichi acquitrini con campi di basket,sloggiare squatters, campi nomadi, zingari, so-spendere i diritti di navigazione e spingere lonta-no le comunità di barcaioli sul fiume Lea, uno de-gli effetti delle numerose rimozioni forzate è statoquello di creare attriti tra gruppi diversi: coloroche, con dure lotte, erano riusciti a difendere ilproprio diritto a uno spazio, sono stati cinica-mente trasferiti in aree contestate, forzando quin-di lo sfratto di altri gruppi in lotta6.

In effetti l’Olympic Park mostra come sia pos-sibile produrre una zona di esclusione usando laretorica dell’inclusione. Questa zona rossa di 200ettari è in vigore da sei anni e durerà per altri due.Fino al 2014 il parco e le sue strutture rimarrannochiusi al pubblico. Durante il processo di proget-tazione e sviluppo, non c’è stata alcuna consulta-zione pubblica sui bisogni e le esigenze che questoprogetto poteva contribuire ad affrontare7.

I l risultato: un’isola privata nel mezzo dell’Estdi Londra, un buco nella comunità, per lopiù vuoto, con tende bianche sparse sorrette

da metallo grigio, dall’apparenza di un campoprofughi aziendale, ufficialmente sponsorizzatodai campioni internazionali di devastazione am-bientale, sfruttamento del lavoro e persecuzionedei migranti, protetto dalle reti che siamo abitua-ti a vedere nei nostri porti, da tecnologie di sorve-glianza, polizia armata, elicotteri militari, e cir-condato da nuove zone in cui la polizia è autoriz-zata a disperdere gli adolescenti dei nostriquartieri8.

Quali lezioni possiamo trarre dalla débacleolimpica? Il fatto che, nonostante ci fosse un codi-ce di consultazione, ai cittadini non sia stata offer-ta parte alcuna nel processo decisionale, attesta ilcinismo di quello che si dice «lo Stato delle Pub-bliche Relazioni», il cui unico scopo è quello dieliminare il «rischio» dalla democrazia. Su unascala di massa, le Olimpiadi di Londra sono stateun esempio di quella che è l’esperienza della gente

che si confronta con urbanisti e consigli comuna-li. Utilizza le piccole aperture istituzionali deiprocessi di consultazione per farsi ascoltare, e inquei tre preziosi minuti di diritto alla parola difronte alla commissione urbanistica, cerca di pre-venire e opporre l’implementazione di progettiinsostenibili e tossici nei propri quartieri, di pro-porre piani alternativi ed esprimere i veri bisogni edesideri degli abitanti.

Possiamo parlare di un declino dell’impegnopolitico solo se continuiamo a pensare che le isti-tuzioni siano il luogo della politica. Ma in realtàl’ultimo luogo in cui la politica può darsi sembraessere proprio il governo. Sin dall’inizio il proget-to olimpico è stata la fantasia estrema di un’am-ministrazione che, per paura di perdere la sua pre-sa sul pubblico, ha intrapreso una massiccia operadi ingegneria sociale su una scala mai tentata pri-ma, la cui stessa condizione d’esistenza implicavala sospensione di ogni impegno significativo neiconfronti delle opinioni della popolazione. Da unpunto di vista puramente logistico, la creazione diun enorme cantiere edile dove solo le imprese ap-paltanti potevano entrare ha perfettamente senso.Ma se lo scopo primario era la creazione di comu-nità sostenibili, possiamo veramente immaginareche questo si potesse realizzare tramite l’esclusio-ne degli abitanti dal processo? Se il progetto Lon-dra 2012 non si fosse genuflessa di fronte alle fan-tasie imprenditoriali del Comitato Olimpico In-ternazionale, non avrebbe mai vinto lacompetizione. Il fatto che ci siano riusciti, e cheabbiano illustrato in ogni occasione la loro dispo-nibilità a sospendere i dovuti processi democrati-ci per soddisfarle, mostra l’estensione dell’abissotra istituzioni politiche e partecipazione politica.

Forse la partecipazione civica si dà in altri luo-ghi e in altre forme. Le persone si ritagliano il pro-prio spazio dove possono fare la differenza, e inve-stono le proprie energie e intelligenze dove la pro-pria vita politica può risultare qualcosa di più chemera protesta e dissenso. E forse gli amministra-tori pubblici questo lo sanno più di chiunque al-tro, credendo che, finché mettono su un bellospettacolo, i loro fallimenti possano passare inos-servati. In realtà le Olimpiadi potevano essere unavera opportunità di esplorare le diverse forme dipartecipazione politica, di usare i nuovi media co-me un modo per almeno calibrare l’opinione po-polare, se non addirittura usarla per cominciare aimparare come soddisfare diversi bisogni ed aspi-razioni nei processi decisionali.

Londra è la parte più ricca della Gran Breta-gna, con il più alto tasso di povertà e diseguaglian-za. Se i più poveri possono sopravvivere in unadelle capitali europee più costose, è solo grazie al-

la loro intelligenza e partecipazione alla loro eco-nomia, alla loro polis. Spesso l’unico punto dicontatto con il governo e le sue strutture formalisono la polizia e le istituzioni del welfare che inter-vengono su questa economia informale per gestir-la, bloccarla o sanzionarla. Un motivo di ottimi-smo è rappresentato dal fatto che questa vastamacchina statale, che attualmente si relaziona inmodo così negativo con alcuni dei più esclusi dal-la società, potrebbe, con un cambiamento diobiettivi, usare le sue risorse e straordinari poteriper aiutare le persone a costruirsi basi economichesolide, che le mettano in grado di cominciare apartecipare a pieno titolo alla società.

Le Olimpiadi di Londra pongono un dilemmache si trova al cuore del malessere democrati-

co. A Whitehall la percezione del governo è chel’iniziativa pubblica debba trovare partner privati.Il governo da solo verrebbe impietosamente sof-focato dalla burocrazia ed effettivamente dissan-guato dai sindacati, mentre le grandi imprese alcontrario controllano gelosamente la torta deicontribuenti. In questo modo, il peso della re-sponsabilità democratica può essere condiviso, oa volte si perde semplicemente tra gli uni e gli al-tri. Oggi questo rompicapo si risolve in un para-dosso per cui più le persone vengono apparente-mente sentite, meno vengono effettivamenteascoltate.

La democrazia rappresentativa viene attual-mente utilizzata come un modo per creare barrie-re che salvaguardino le istituzioni dai conflitticreati da queste relazioni di potere. Fino a quandoci saranno diseguaglianze così acute e disparitàeconomiche così ampie, coloro che sono struttu-ralmente svantaggiati verranno estromessi daqualsiasi potere decisionale che possa raddrizzaregli squilibri, e criminalizzati negli spazi pubblicirimasti loro disponibili. Per far sì che la politicadiventi democratica, le istituzioni pubbliche de-vono spingersi come prima cosa a riconoscere, ecome seconda cosa ad affrontare le diseguaglianzesociali; solo allora le persone inizieranno a lorovolta a investire in esse come mezzo di partecipa-zione al cambiamento della società.

La versione integrale del testo è su www.alfa-beta2.it

Traduzione dall’inglese di Davide Sacco

1. www.guardian.co.uk/sport/datablog/2012/jul/26/london-2012-olympics-money2. Sobborgo al nord-est di Londra [N.d.T.]. www.lon-don2012.com/mm%5CDocument%5CPublications%5CPlanningApps%5C01%5C24%5C07%5C69%5Ccommit-ment-to-sustainable-regeneration.pdf 3. www.london2012.com/documents/oda-consultations/co-de-of-consultation-final.pdf 4. «Le autorità pubbliche hanno il dovere di promuoverel’uguaglianza tra le razze. Per rispettare questo dovere, la LDA el’ODA intendono promuovere buone relazioni tra persone didiversi gruppi razziali. La popolazione dei cinque distretti cheospitano i giochi olimpici è una delle più diversificate nel pae-se. Il 42% proviene da gruppi etnici non-bianchi, rispetto lamedia del 29% a Londra e dell’8% nel paese. Un quinto dellapopolazione dei cinque distretti é musulmana, percentuale digran lunga più alta rispetto alla media del paese e di Londra. So-lo metà della popolazione dei cinque distretti si definisce cri-stiana, rispetto a più di due terzi nel paese. Inoltre, anche se c’èun alto concentramento di comunità non bianche nei cinquedistretti, ci sono anche molti gruppi minoritari bianchi (turchi,curdi, ebrei ortodossi, est-europei) e alcuni di questi gruppi dif-ficilmente vengono ascoltati» (Code of Consultation, p. 19).5. Dirk Matten-Andrew Crane, What is stakeholder democra-cy? Perspectives and issues, in «Business Ethics. A European re-view», XIV (2005), 1.6. The Olympic struggle of the London 2012 resisters. East Londonactivists write on their seven years of campaigning over the 2012Olympics development, www.redpepper.org.uk/olympic-struggle/7. Ian Blunt, Preparing London for the Corporate Games: the Doc-klands Planning Model, www.corporatewatch.org/?lid=4400 8. Zone in cui la polizia ha il potere di ordinare la dispersone digruppi di due o più persone e impedire la loro congregazione eritorno nell’area per 24 ore. Il rifiuto di seguire l’ordine portaall’arresto e a una pena fino a tre mesi di prigione e £ 5000 dimulta, secondo l’Anti-Social Behaviour Act 2003: www.legi-slation.gov.uk/ukpga/2003/38/part/4

Roberto Barni. Paesaggio con figure, 2011-2012. CoBrA Museum of Modern Art - Amsterdam

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sempre le cronache a dirlo – in Siberia le vecchiecarceri sono state trasformate in casinò, dove sigioca e si gioca ancora. Senza fine1.

9. Il gioco d’azzardo di massa come la speculazionein borsa – scriveva Proudhon – non dormono mai,non conoscono giorni di festa. Vladìmir F.Odòevskij, filosofo e letterato russo attivo neglianni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, a sua voltascrisse una Fiaba delle ragioni per cui il consiglierecollegiale Ivàn Bogdànovic Otnosen’e non riuscì aporgere gli auguri ai suoi superiori, nella DomenicaSanta: in cui descrive un gruppo di incallitigiocatori d’azzardo che, puntata dopo puntata,carta dopo carta, si trasforma in carte da gioco che,animate, continuano da sole la partita. I momentitrascorsi a giocare, scrive Odòevskij, «erano per lavita di Ivan i suoi momenti forti»: la sua vitaintensa, per dirla con Bontempelli; la sua post-batailleana, perché radicalmente fatta sistema,dépense. È forse questa, la posta in gioco?

10. Il gioco come labirinto empatico: una roulettetotale che continua anche al di là dei giocatori e,nei suoi specchi, riflette le loro vite già consumatee morte. Questo è il senso e il dramma di ognigrande seduzione: continuare, continuare sempree comunque. Come nel Quintet, che RobertAltman delinea ai limiti del mondo nel suo filmmeno compreso, dove la posta è proprio la vita deigiocatori stessi. I giocatori giocano la loro stessamorte e St. Cristopher, monaco ambiguo in unmondo in rovina, in una sua predica ribadirà: «vihanno insegnato che l’universo è delimitato dacinque lati e la vita non ha che cinque stadi.Primum, la sofferenza del nascere. Secundum, iltravaglio del maturare. Tertium, la colpa del vivere.Quartum, il terrore di invecchiare. Quintum,l’irreparabilità della morte. Rivelazioneincompleta, poiché i cinque lati richiedono unsesto spazio, il centro. Ed è a quello solo che doveteguardare. Che cos’è il sesto spazio? È l’oscurità, è ilvuoto, il nulla. […] Non combattete, non lottate,accettate. E quando pensate al numero cinque,ricordatevi che è sei. Se cercate una risposta,guardate molto oltre i fatti considerati eaggiungetene uno in più, l’imponderabile. Perchésoltanto quando voi considerate l’imponderabileavete una carta, una speranza di risolvere ildilemma».

1. www.businessweek.com/magazine/content/11_11/b421903510600.htm, consultato in data 14 febbraio 2012.

trasformando il vecchio sogno tutto weberianodel self-made-man – che cerca e raggiunge l’estasiintramondana attraverso il lavoro – in un incubooramai globale, più consono all’attualefinanziarizzazione delle esistenze: un uomo chetrascende la propria condizione di fatica con unpuro gesto magico. Con un clic, appunto. Il pokerbastardo dell’on-line, vero motore dell’addictiondi massa, è un reagente e, al tempo stesso, lachiave di volta di questo sistema. Il suo successonella variante on-line deriva da questa capacità diprodurre illusioni, in un mondo sempre piùdisilluso e a corto di storie.

7. Nel suo «romanzo di novembre», intitolato Ildèmone del giuoco, pubblicato su «Ardita» e poi nelvolume La vita intensa. Romanzo dei romanzi(1919), Massimo Bontempelli apre con uncapitoletto: «La trovata del maligno». Che cosapuò escogitare il maligno nel corso di una partitadi poker? Può ad esempio rendere ignota la postain gioco. Nessuno, nella partita descritta daBontempelli, sa se vincerà o perderà, poiché lacifra e i suoi segni, positivi o negativi, sono iscrittidai giocatori su foglietti che solo alla fine dellapartita verranno resi noti. Con un evidenterovesciamento di situazioni e ruoli, una volta chela posta viene rivelata, chi ha vinto può ritrovarsi aperdere. E chi ha perso a vincere. Restano altrevariabili: che tutti o nessuno perda, che tutti onessuno vinca. È l’hasard.

8. «Punta sul quinto». Tra i criminali recidivicondannati al fine pena mai nelle carceri russe,l’usanza di sparare sul quinto (pjatayj) uomocasualmente entrato in una stanza era tra le piùdiffuse. Vi si faceva ricorso quando, giocando acarte, non rimaneva nient’altro da puntare: nézucchero, né sigarette, né briciole di pane o buccedi patate. Spesso ci si giocava gli abiti altrui, ma ilquinto – la scelta era convenzionale, poteva infattiessere il terzo, il secondo, il primo e viadiscorrendo – era un’altra cosa. Il movimentodelle carte, condotto secondo regole condivise,che non decentra i giocatori rispetto allo spaziodel gioco ma esercita un’attrazione centripetasulle sorti di un altro, che inconsapevolmenteprende parte alla partita. Chi perde uccide. Chimuore non sa il perché, ma sapendo che là dentro,nella baracca dove si dovrebbe riposare, si gioca,sa anche potrà ritrovarsi inevitabilmenteimbrigliato in un gioco a cui la sua volontà –nemmeno quella di vittima – ha preso parte.Come tutto, nelle carceri siberiane, il gioco a carteera formalmente vietato. Come tutto, però, erapraticato e diffuso. Le carte (stirki), ottenute orealizzate nei modi più impensati,rappresentavano una sorta di supplemento dicrudeltà rispetto al sistema stesso. Oggi – sono

dal gioco del 9,9% rispetto allo stesso periodo del2011 (siamo a meno 516 milioni di euro dientrate), anche a fronte di un incremento dellaspesa pro capite per l’azzardo. Chi ci guadagna,allora? Di sicuro ci guadagnano i giochi on-lineche, in attesa della liberalizzazione sulle slot viaweb che avverà il 3 dicembre prossimo, con pokere roulette hanno registrato un incremento del1.746,5% nel 2012.

4. Domanda, domande che sottintendono unulteriore non-detto: che gioco è questo? E ancorauna volta torniamo da dove eravamo partiti: checosa ci si gioca, quando si gioca? Questioni cheritornano, potenti, nei versi – e tra i più noti – diBaudelaire che non a uno, ma a un «branco didemoni» e di «vermi» accenna quando, «come algioco, il giocatore ostinato» («Comme au jeu lejoueur têtu»), descrive quel doppio legame tralibertà e veleno, tra elevazione e carogna, tra ilvampiro e il suo stesso sangue, che attiene ancoraalla nostra, non meno ostinata domanda: che cosaci si gioca, quando si gioca? Orrore e attrazionesono da sempre un nodo inestricabile dellaquestione, e da sempre la questione è in bilico tradiseconomie mortificanti e un dispendioenergetico vitale (dépense) che il sistema tenda ainglobare devitalizzandolo. Come intuirono, sututti, Georges Bataille e Maurice Blanchot, dallacui riflessione converrebbe in qualche modoripartire.

5. Fin dagli anni Quaranta, sulla scia degli studidel matematico John von Neumann e OscarMorgerstern, autori del classico Theory of Gamesand Economic Behavior, il poker è stato assuntocome modello per l’analisi del comportamento inuna società di mercato e ha mostrato, a occhi beneattenti, ben più di quanto fosse nelle intenzioni digiocatori e interpreti dei tavoli verdi mostrare. Infondo, già nel 1950 il giornalista di «Fortune»John McDonald, autore di un esemplare e influ-ente volumetto in materia, Strategy in Poker,Businnes and War (non a caso citato da Ph. K.Dick in esergo al suo primo romanzo sulla post-political politics, ossia sulla trasformazione in sim-ulacro e la mutazione dei sistemi di parteci-pazione, «play», in puro «game» eterodiretto: TheSolar Lottery, 1955), ricordava che il poker ha nel-la sua natura il bluff, la dissimulazione e l’ingan-no, e il suo fine non sono «le carte» proprie o del-l’avversario, e nemmeno un banale e scontato im-pulso al guadagno o alla perdita (come invecevorrebbe Edmund Bergler, The Psychology ofGambling, 1958) ma la posta solo apparente-mente conosciuta, ma da sempre ignota, che è ap-punto in gioco. Un simulacro, cioè. Una postache solo per simbolizzazione chiamiamo«denaro» o potere sull’avversario. Il bluff in effetti,come rilevava Guy Debord (Notes sur le poker,1990), gode di un’esistenza puramente teorica.Altro problema.

6. Il gioco, in particolare il poker – nella suavariante diffusa e bastarda, così come si qualificaoramai nello pseudoambiente del web – è unpiccolo angolo di mondo, da cui osservareindisturbati il resto del mondo. Basterebberiguardare bene due classici del cinema americano– California Poker e Quintet – firmati nel 1972 enel 1979 da Robert Altman, per capire quale sia laconnessione non solo verticale, ma orizzontale,tra il cosiddetto deep play e la sua esteriorizzazionepost-postfordista, ossia tra impulso al gioco,impulso all’inganno e impulso al guadagnoindiscriminato in una società che ha trasformatotutto, dal lavoro all’economia, in un’azzardatamacchina del debito (cfr. Maurizio Lazzarato, Lafabbrica dell’uomo indebitato, DeriveApprodi,2012). Una società alla quale piace, nonostantetutto e tutti, continuare a «raccontarsela»:

1.Che cosa ci si gioca, quando sigioca? Domanda scontata, manemmeno troppo se, al di là ditanta brodaglia psicologica enon, è a fonti all’apparenza

«eccentriche» rispetto al tema del gioco cheancora si può e magari persino «si deve» ricorrerequando, seppur di sbieco, ci troviamo nellanecessità di inquadrare un problema non di oggi,ma che oggi le cronache segnalano come«urgente», «drammatico», «inquietante», e viadiscorrendo.Tra gli abbozzi di questa riflessione, LudovicoZdekauer – grande storico del diritto del XIXsecolo, amato e chiosato da Sciascia, che al lavorosul gioco pubblico nel primo Medioevo traVenezia, Siena e Firenze ha dedicato gran partedella propria insostituibile ricerca d’archivio –sosteneva che, a parte i dialoghi del Tasso (IlGonzaga secondo overo del Giuoco, 1582) ePetrarca (De remediis utriusque fortunæ, 1357), aparte il fondamentale Cardano che con itrentadue capitoletti del suo De ludo aleæ (1527circa), scampato al fuoco e pubblicato a Lionesolo un secolo dopo la redazione, pose le basi peruna teoria degli esiti casuali possibili, poco erastato scritto a riguardo del démon du jeu.Sappiamo che Zdenauker, nel frattempo entratoa buon diritto nel canone di questi classici (maitenuti per tali, peraltro, da chi si occupa digiochi), si sbagliava. Ciò non di menoindividuava un problema, inscritto in unadomanda di otto parole: Che cosa ci si gioca,quando si gioca?

2. Oggi tutto è gioco e per proprietà transitiva sipotrebbe sostenere che, ovunque e comunque sigiochi, ci si gioca, comunque e ovunque, tutto.Ma in un contesto mutato, in una deriva post-ludica e post-lavoro, caratterizzata da continuesovrapposizioni di contesti e ambienti, possiamoancora dire che il gioco sia solo e nient’altro che«gioco»? Nascondendola in una noticina pococonsiderata del suo Les jeux et les hommes (1958),Roger Caillois si chiedeva, ad esempio, se dinanzia una «machine à sous», una slot, o a un solitario(oggi diremmo a un web game) si possa davveroparlare di gioco, o non piuttosto di «altro». Èquesto «altro», oggi, a fare davvero problema nelgioco.

3. I dati – sono sempre le cronache a ribadirlo –sono «allarmanti». Recentemente, il SIIPAC (laSocietà italiana d’Intervento sulle patologiecompulsive), ha rilevato che il giocatorecompulsivo è prevalentemente di sesso maschile(72%), sposato o convivente (68%) e lavoratoredipendente (51%) di età compresa tra i 30 e i 50anni (32%), diplomato (69%). Il 33% deigiocatori compulsivi risiede al Nord el’Organizzazione Mondiale della Sanità hastimato che, in Italia, circa un milione e mezzo dipersone, ovvero il 6% dei giocatori, possarientrare tranquillamente nella categoria. Pur nonessendo «compulsivi» o a rigor di norma o decreto«patologici», va però considerato che sonoalmeno 35 milioni gli italiani abitualmente deditial gioco, con una spesa che negli ultimi sei anni èstata di oltre 200 miliardi di euro (pari al debitopubblico accumulato, nello stesso periodo, dallaGrecia). Anche qui, c’è da chiedersi, ma nonbanalmente: chi ci guadagna? Non le città, chevedono sempre più assottigliarsi quei luoghi diincontro e di scambio, e non di mero consumo,che erano negozi e persino centri commerciali ditipo tradizionale. Non lo Stato che, oltre a farsicarico della spesa per la cura dei giocatoripatologici (a dispetto della spending review che hatagliato su tutto, ma ha spalancato le porte altrattamento delle «ludopatie»), nei primi settemesi del 2012 ha visto ridursi le entrate derivanti

La posta in giocoAnatomia di un’addiction di massa

Marco Dotti

Roberto Barni. Antropomorfo, 1973

IPERGIOCHIalfabeta2.24

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Alea, ergo sumIl gioco e la vita, con Bataille e Blanchot

Giuseppe Zuccarino

Il saggio di Blanchot, datato 1958, ha per titoloL’attrait, l’horreur du jeu (L’attrazione, l’orrore del

gioco, nel numero 23 di «Riga» dedicato a RogerCaillois, a cura di Ugo M. Olivieri, Marcos y Mar-cos 2004). In queste pagine, si fa riferimento nonsolo ad Homo ludens, ma anche a un libro di Cail-lois allora recente, Les jeux et les hommes (I giochi egli uomini, Bompiani 1981 e successive ristampe,dal 2004 con introduzione di Pier Aldo Rovatti).Secondo Blanchot, l’opera di Huizinga «ha mo-strato con precisione come un’attività infantile, in-significante e irresponsabile sia vicina alle più altemanifestazioni della cultura. Le arti, il diritto, per-fino la saggezza, sono, all’origine, animati dallo spi-rito del gioco». In effetti, se si accetta la tesi dellostorico olandese secondo cui l’attività ludica si svol-ge in uno spazio e in un tempo separati rispetto allavita ordinaria, si coglie subito l’analogia rispetto al-le sfere religiosa e artistica. Ma occorre procederecon maggiore cautela, perché altrimenti anche il la-voro in fabbrica, cui ugualmente vengono assegna-ti precisi limiti spazio-temporali, rischia di apparirecome qualcosa di ludico, pur essendo tutt’altra co-sa. Neppure la presenza di regole basta a definire ilgioco, perché ad esempio una bambina che si di-verte con la bambola non sta seguendo regole, male sostituisce con la finzione, come ha notato Cail-lois. Quest’ultimo tenta di suddividere i vari giochiin categorie, a seconda dell’atteggiamento psicolo-gico che presuppongono: l’ambizione di trionfaregrazie all’abilità e al merito, l’accettazione ansiosa epassiva di ciò che decreta il caso, il piacere di assu-mere una personalità fittizia estranea alla propria, ilperseguimento di uno stato di vertigine. Blanchotapprezza questo sforzo di classificazione, ma altempo stesso ritiene che Caillois riesca a spiegaresolo in parte la maniera in cui il gioco, inteso comefenomeno di carattere generale, si collega ai quattromoventi psicologici citati.

Mentre Huizinga riteneva che uomini ed ani-mali fossero accomunati dal fatto di giocare, eSchiller considerava l’attività ludica una prerogati-va esclusivamente umana (Bataille, come abbiamovisto, la pensa allo stesso modo), Caillois opera

legati fra loro la competizione e il gioco, come sisostiene in Homo ludens, dato che il conflitto ar-mato, oltre a implicare un ricorso alla crudeltà,presenta anche precisi scopi politico-economici.Analogamente, il tentativo di far rientrare il sacronella sfera del gioco, con la motivazione che en-trambi sarebbero caratterizzati dall’ordine e dalleregole, non sembra convincente a Bataille. A suoavviso, il sacro, a differenza del gioco, presupponedegli interdetti che possono essere sia rispettati chetrasgrediti. È vero che non sempre l’attività ludicaesclude il rischio, ma «il limite dell’attrazione delgioco è la paura: il desiderio di conservare, di tene-re al riparo, s’oppone in noi a quello di sperpera-re». Benché talvolta l’audacia del giocatore vengapremiata, e ci appaia dunque ragionevole, occorretener presente che la ragione «è il principio di unmondo che è il contrario esatto del gioco: quellodel lavoro».

Secondo Bataille, attività ludica e attività lavo-rativa (entrambe specifiche dell’uomo) sono inaperto contrasto fra loro. Egli chiama in causa ladialettica servo-padrone esposta da Hegel nella Fe-nomenologia dello spirito, sostenendo che è la pauradi morire (per mancanza di risorse) che spinge ipiù ad accettare con rassegnazione il lavoro servile.Sull’altro versante, gli sembra necessario distin-guere fra loro un gioco minore, che svolge una fun-zione di rilassamento ed è ben compatibile col la-voro, e un gioco maggiore, che implica un drasticorifiuto dell’utile e una sfida alla morte. Bataille ri-conosce però, con tristezza, che questo secondo ti-po di gioco, attraverso cui si manifesta la «sovrani-tà», è ormai da considerare quasi un fenomeno delpassato, poiché la società borghese novecentescadestina la ricchezza alla produzione, sottraendolaal dispendio (improduttivo e distruttivo) che do-vrebbe caratterizzare il vero gioco. Non resta dun-que, a suo avviso, che fare appello a chi ancoraconservi una mente non uniformata né sottomes-sa: «È tempo che, dopo aver ceduto al lavoro, al-l’utile, la parte mostruosa che sappiamo fin troppobene, il pensiero libero si ricordi infine che, se èprofondo, è un gioco (un gioco tragico)».

Due importanti autori novecen-teschi, Georges Bataille eMaurice Blanchot, possonodirsi accomunati non soltantodall’amicizia, ma anche da una

notevole vicinanza sul piano del pensiero. Unodei temi che hanno affrontato in più occasioni,contribuendo ad evidenziarne la rilevanza teori-ca, è quello del gioco. Senza tentare di renderconto qui dell’insieme dei loro testi relativi al-l’argomento, ci riferiremo a due saggi che risulta-no correlati dal fatto di essere apparsi entrambinegli anni Cinquanta e di prendere spunto dallostesso libro, vale a dire Homo ludens di JohanHuizinga (saggio tradotto nel ’49 da Einaudi epiù volte ristampato, dal 2002 con introduzionedi Umberto Eco).

L’edizione originale di quest’opera risale al1938, ma Bataille ne recensisce nel 1951 la tra-duzione francese, in un ampio testo dal titoloSommes-nous là pour jouer ou pour être sérieux?(Siamo qui per giocare o per fare sul serio?, in L’al-dilà del serio e altri saggi, Guida 2000). Huizingasostiene che l’intera civiltà si sviluppa attraversoil gioco. A suo giudizio possono essere inclusenell’ambito ludico, almeno per qualche loroaspetto, tutte le attività umane (arte, religione, fi-losofia, diritto, guerra) tranne il lavoro. In lineadi massima, Bataille considera con favore questoapproccio al tema. Cerca anzi di stabilire un rap-porto tra le idee dello storico olandese e le pro-prie teorie economiche, volte a evidenziare il ruo-lo decisivo che spetta ai processi di dépense. Il di-spendio improduttivo, infatti, investepotenzialmente la stessa vastissima area che Hui-zinga assegna al gioco, e si fonda sul desiderioumano di agire in maniera «sovrana», ossia «perla gloria», ignorando l’utilità.

Il dispendio comporta però anche, secondoBataille, l’assunzione di due rischi: quello di impe-gnarsi in una pericolosa rivalità con gli altri e quel-lo di andare incontro a un esito distruttivo o auto-distruttivo. A tale proposito, l’esempio della guer-ra mostra che è sbagliato considerare strettamente

una distinzione più sottile: gli animali, pur prati-cando giochi di competizione, simulazione e verti-gine, ignorano quelli basati sull’azzardo, che van-no considerati specifici dell’uomo. Ne consegue,come fa notare Blanchot, che «giocare in modoumano è dunque essenzialmente “giocare a dadi”».Tuttavia egli non condivide la contrapposizionestabilita da Caillois tra l’atteggiamento attivo, chesarebbe proprio dei giochi di competizione, e lapassività fatalistica, che caratterizzerebbe quellibasati sull’alea. Per Blanchot, infatti, «il giocatoreche decide di giocare, di continuare a giocare e dipuntare con una scelta assolutamente astratta, èl’uomo che fa esperienza di ciò che significa la pa-rola “decisivo” e di quel salto che ogni decisionecomporta». Non è in causa, dunque, un’assenza divolontà, bensì un’ostinazione che è più logorantedel lavoro stesso, in quanto implica l’esigenza disopportare il peso della ripetitività e dell’insicurez-za spinte fino al limite.

Ma che ne è, allora, della leggerezza che, a pri-ma vista, caratterizza e definisce il gioco? Essa nonviene meno, secondo Blanchot, anzi coincide conl’attesa della fortuna, e poco importa che essa si ri-veli in molti casi sfortuna. Umani sono appunto ilfascino e l’apprensione suscitati dalla semplicepossibilità. E qui torna in scena Bataille, che nelcapitolo L’attrait du jeu del suo libro Le coupable(L’attrazione del gioco, in Il colpevole. L’Alleluia,Dedalo 1989) scrive: «Di poche cose l’uomo hapiù paura che del gioco». Blanchot, nel citare que-sta frase, la altera sostituendo alla parola «paura»quella ancor più forte di «orrore», ma la sostanzadel discorso non cambia. Atteggiamenti opposti(che, in termini logici, dovrebbero essere incom-patibili) si associano nell’attività ludica: attrazionee timore, caparbia decisione e apertura all’indeter-minato. Eppure, a ben vedere, la coesistenza di ele-menti contraddittori che Bataille e Blanchot scor-gono nel gioco basterebbe a spiegare perché, dasempre, quest’ultimo venga considerato una me-tafora della vita.

Nella letteratura del cosiddetto postmo-dernismo, i testi non hanno più unostrato profondo che può e magari

deve essere colto. Non c’è più nulla decifra-re. Quello che resta, è legato a tre tipi di at-teggiamento. Il primo è un atteggiamentoche potremmo chiamare erotico: anziché in-terpretare il testo, lo si accarezza. Il secondoatteggiamento è quello della mantica: si tira asorte, si indovina, si azzarda. Un coup dedés... Pensiamo a Finnegans Wake di Joyce.Contrariamente all’Ulysses, dove nelle gior-nate di Leopold Bloom è possibile leggere latraccia dell’antico viaggio omerico, qui nullapuò essere più decifrato. Perché? Semplice-mente perché manca la cifra. Si può solo in-dovinare, così come faremmo con le linee nelpalmo di una mano. In Finnegans Wake nonsi viene a conoscere nulla di Joyce, ma nelgioco della mantica qualcosa su noi stessiforse traspare. C’è poi un terzo atteggiamen-to, rispetto a questo indecifrabile del testo: èl’amore non condiviso, disperato per il passa-to. Pensiamo a Italo Calvino o Umberto Eco.La nostalgia e il desiderio di identificarsi con imondi del passato portano a comporre colla-ge con ciò che resta del passato stesso.

Nostalgia, ecco una parola densa e intrisaa sua volta di nostalgia. Ma che cos’è, la no-stalgia? Direi che la nostalgia è il nostro atteg-

giamento nei confronti del paradiso. Il paradi-so del grembo materno, il paradiso dell’infan-zia, il paradiso del primo amore. A tutte que-ste cose pensiamo, per dirla in tono romanti-co, «col cuore che sanguina». Allo stessomodo, possiamo scrivere un testo nostalgi-co. Credo che questo sentimento si percepi-sca anche nei racconti di un mio libro, non acaso titolato Nostalgia.

Roulette russa, il racconto che apre No-stalgia, fu il mio coup de dés come romanzie-re. La roulette ha la semplicità geometrica ela forza della tela di un ragno. Potremmo direche è stupida e attraente come ogni gioco.Come per ogni gioco, attrazione e orrore simischiano. Non c’è stato un progetto dinome «nostalgia» che ho seguito o persegui-to. Come tutti i miei libri, d’altronde, anchequesto si è fatto da solo. Al tempo, ero con-siderato un poeta e mai avrei pensato di po-termi confrontare con il racconto o il roman-zo. Frequentavo però un circolo letterario,dove si praticava narrativa. Accettai anch’io discriverne, in maniera del tutto occasionale –l’occasione fu l’anniversario di costituzionedel circolo – ma non per diventare narratore.Piuttosto per gioco. Sì, direi che è stato pro-prio per gioco. E così, scrissi il primo raccon-to di Nostalgia che aveva per tema proprio ilgioco. Non un gioco qualunque, ma la roulet-

te russa: un gioco di pura sorte, dove si azzar-da sulla vita stessa, sul destino. Scrivendo ilracconto, però, non avevo in mente unaposta in gioco – chiamiamola così – letteraria,quanto di ordine matematico. Stavo allorastudiando la matematica di Georg Cantor e lateoria degli insiemi infiniti. Da Cantor ho ap-preso la straordinaria forza del movimentoasintotico. Cosa voglio dire? Prendete un fo-glio di carta e piegatelo. Piegatelo ancora eancora e ancora. Quante volte va piegatoquesto foglio di carta affinché il suo spessorearrivi a toccare la luna?

La risposta è incredibile: cinquanta volte.Nessuno ci crederà mai, ma io dico che valela pena tentare. C’è un racconto che è similea questo, legato all’origine degli scacchi. L’in-ventore degli scacchi andò dal re e gli chiese,in segno di ricompensa, un chicco di riso perla prima casella, altri due per la seconda, altriquattro per la terza e così via. Il re rimase sor-preso dalla modestia dell’inventore degliscacchi, ma l’indomani il suo ministro delle fi-nanze gli disse che, se questa era la forma dipagamento, l’impero sarebbe andato in rovi-na perché tutti i raccolti di riso del mondo,nemmeno in migliaia di anni, sarebbero maiarrivati a pagare l’ultima casella della scac-chiera. Affascinato da questa storia, ho volutoinventare anche io una parabola.

In Nostalgia, descrivo una roulette russacon regole particolari. Immaginiamo un giocoin cui, a ogni giro di mano, si aggiunge unacartuccia al tamburo della pistola. Ogni voltache il giocatore rimette la pistola alla tempia,le sue chance di uscirne vivo diminuiscono.Quando tutte le camere da scoppio sono oc-cupate da proiettili, le sue chance sono nulle.Eppure, anche con tutte le cartucce cariche, il«mio» giocatore riesce a sopravvivere. Avevauna jella nera, quest’uomo. Non aveva maivinto a poker, mai una scommessa che vol-gesse al meglio. Solo nella roulette russaaveva trovato un modo per insinuarsi tra lepieghe della sorte. Mette una, poi due, poitre, quattro, cinque, infine sei cartucce nel re-volver. Il gioco smette di essere un gioco. Ilgioco viene distrutto da colui che, azzerandole chance, lo ha portato alla sua perfezione,scampando alla sorte – là dove l’impossibilesi muta nel possibile, nello spazio infinito,dell’infinito gioco dei possibili che chiamiamo«letteratura».

Intervento dell’autore nel corso della presentazione delsuo Nostalgia (a cura di Bruno Mazzoni, Voland 2012, pp.429, € 18). Torino, Libreria Golem, 11 maggio 2012. Tradu-zione di Oana Bosc-Malin.

La roulette della nostalgiaMircea Cartarescu

IPERGIOCHI alfabeta2.24

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«Monopoly is back!»Trash money & junk food

Cento dollari per una porzione dipatatine fritte. Anche sel’equivalenza tra valore nominalee reale non è stata rispettata, perdue soli giorni, nell’aprile del

2007 e limitatamente al Canada, le casse diMcDonald’s hanno accettato banconote delMonopoly. Banconote stampate e distribuite adhoc, va precisato, ma trattate come se fosseromoneta corrente, regolarmente spendibili neiristoranti della catena.

Troppo simbolicamente cariche per essereconsiderate semplici buoni pasto, pocoformalizzate per essere trattate tout court comedenaro, le banconote uscite dalle rotative percelebrare il legame nato dieci anni prima tra ilcolosso del fast-food e la Hasbro, attuale editricedel gioco, sembrano in qualche modo condensareun’ansia imprecisa e diffusa. Un’ansia che trova lapropria inscrizione in questo strano ibrido, sortadi post-legal currency che, sfuggita una volta di piùal suo gioco, sfonda nella vita ordinariatrascinandola con sé in una dimensione di apatiaparadossale che, pur simulando il conflitto, se nevorrebbe priva.

«Inventato» nel 1934 da Charles Darrow, uningegnere rimasto senza lavoro dopo la crisi del’29, Monopoly è in realtà una doppia edoppiamente celata mise en abyme di questoconflitto in un contesto radicalmente capitalista.Da un lato, il primo mascheramento è quello deldarwinismo economico e sociale che il giocoricalca dal reale facendone il proprio motore.Dall’altro, il peccato originale che sta alla base delgioco stesso e della sua contestata paternità,abilmente celato dalla prima concessionaria deidiritti, la Parker Brothers.

La disputa tra Darrow e l’attrice e attivistapolitica Elisabeth J. Magie Phillips, che nel 1903

depositò il brevetto per Landlord’s Game, un giocodidattico molto simile al Monopoly (il quale nonsarebbe se non un perfezionamento di Landlord’sGame), conferma la vecchia intuizione secondocui un gioco non può mai essere ridotto ai suoi solistrumenti. La Magie era seguace di Henry George,un economista che aveva vissuto sulla propria pellele contraddizioni disastrose della «gold rush» e nelbestseller Progress and Poverty (1879) si chiedevacome mai, a un grande progresso «macro»,conseguisse una non meno grande povertà socialesul piano microsociale. Landlord’s Game era ungioco didattico innovativo che aveva come scopofar comprendere, svelandole e non celandole, lelogiche dei rapporti di forza, di scompensocompetitivo e di monopolio. Il gioco di Darrowrovescia interamente questa prospettiva. Retoricavuole che come nella realtà sociale, anche nelmovimento ludico che la mima si parta tutti dallestesse condizioni1. Saranno l’abilità e la sorte – silascia intendere – a stabilire povertà e ricchezza,ascesa e caduta, vincitori e vinti, neutralizzando difatto gli antagonismi e naturalizzando il vantaggiocumultativo. Il che è esattamente il contrario,rispetto alle intenzioni della Magie.

Il riflesso dell’ideologia di questa tabula rasa,che a ogni riapertura del gioco riallinea le pariopportunità competitive, abbaglia e distorce lapercezione del giocatore, docilmente colto dallafebbre della speculazione. Poi tornerà al suoruolo, nella vita, ma conservando la memoriaimplicita di un’esperienza di guadagno e perditasenza conseguenze apparenti sulla vita reale2. Èimprobabile, scriveva Roger Caillois nel suo LesJeux et les hommes (la cui prima edizione risale al1958, nella «collana bianca di Gallimard»3)«che sisia aspettata l’invenzione dell’automobile, pergiocare alla diligenza». Allo stesso modo ilMonopoly, secondo Caillois, «riproduce il

funzionamento del capitalismo», ma non vienenecessariamente dopo il capitalismo. Per ilgiocatore, il gioco è l’unica realtà che lo trascende.Il gioco ha uno spazio e un tempo suoi, inscrittinell’immaginario, ma per starci dentro ilgiocatore deve erodere spazio materiale e liquefaretempo reale, poiché il ritmo di questa «vita» ècadenzato sul continuo riprodurre un debito chetende a farsi senza fine. Non è insignificante che idue poli entro i quali si inscrive l’invenzione delgioco – la «caccia all’oro» sperimentata da HenryGeorge, il crack del ’29 vissuto da Darrow – sianosegnati da due crisi di sistema.

Il giocatore replica nel gioco, e in dosiinizialmente blande ma oramai sempre piùscriteriate, euforia e ragione, panico e calcolo. Ilgioco diviene per lui sia mezzo che fine di speranzemagiche, misteriose, totalizzanti e oscure. Nel 1989il sociologo americano Leonard Beeghley ha messoa nudo lo schema e per illustrare il dislivello iniziale– il cosiddetto «effetto San Matteo»4 – harealizzando un Monopoly che prevede condizionidi partenza diseguali. A ogni giocatore sono datecarte e denaro in diversa quantità5. È come se ilgioco si fosse aperto, svelando ai giocatori la suaintima natura e un non detto che, conosciuto,cambia la natura stessa del gioco.

Il Monopoly è un gioco interamente inscrittonel capitalismo, che partecipa e ha già da tempodisatteso i confini del proprio spazio. Proprio aquesto sconfinamento deve la propriapersistenza. Oltre al caso-Mc Donald’s, adesempio, da 9 settembre al 9 dicembre 2009 èstato possibile giocare non più sull’usuale cartoneverde, ma direttamente su Google Maps; e leversioni attualmente più diffuse del Monopolysono l’Electronic Banking Game, che si giocasulla rete, e Millionaires su Facebook.

Il Monopoly rimane una potente autorap-

Al tavolo da gioco o dinanzi a unamacchinetta il tempo rompe gli indugi,si ferma o accelera, ma non rispecchia

mai quello delle lancette che procedono dasinistra a destra. In un qualsiasi casinò non sitroveranno orologi, eppure il tempo scorre.Verso dove? Ma scorre davvero o anche iltempo, come i dadi sul loro tavoliere,«cade»? È forse questa un’altra forma diquella duplice passione, di quell’attrazione-or-rore di cui già parlava a proposito del giocoMaurice Blanchot? È forse da questo patto in-fernale col tempo, immortalato da Baude-laire, che i giocatori traggono la loro forza?Nelle Fleurs du mal, Baudelaire descrive ilgiocatore come un uomo che corre con inna-to «ferveur» verso un abisso spalancato. Nelgioco, prosegue, si intravedono «sopra tap-peti verdi, occhi che non hanno labbra / labbrasenza colore, mascelle senza denti»: animatiperò da una passione ferma («passiontenace») e da una disperata vitalità che nonpuò che generare invidia nell’osservatore.

Sia come sia, dado deriva dal latinodatum, gettato, lanciato; parimenti, caso deri-va da casus, ossia cadere. Il dado è ciò checade, ma una linea arrischiata e sottile, sug-gerita da Georges Bataille, lo approssima aun’altra parola dal doppio taglio: debito.Come un debito, infatti, scade anche se dàl’illusione di non scadere mai. I terminifrancesi chance (fortuna, occasione, più ba-nalmente: opportunità) e échéance (scaden-za, termine), derivano entrambi dal latino ca-dentia. L’antica grafia francese caanche loavvicina a excadere, da cui cadere, scadere,ma anche eccedere, creando asimmetriemultiple e profonde tra la sensazione di

potenza che investe il giocatore e la sua effet-tiva e impotente presa sul reale.

Al tramonto del XII secolo, nel suo Li Jusde saint Nicholai (Le Jeu de Saint Nicholas), ilpoeta e giullare Jean Bodel attesta «caan-che» per indicare proprio la caduta dei dadinel gioco dell’hasart o azar, diffusissimo nel-l’Europa del tempo. Come Cadentia, anchealea era termine originariamente riservatoalle pratiche della mantica, indicando i dadi ogli ossicini usati per la divinazione. Il gioco sa-rebbe allora la risultante profana di una situa-zione originariamente sacra, legata agli atti le-gati al sacrificio di un animale, le cui ossa tar-sali non lavorate – gli astragali – rimanevanoin possesso del sacerdote che ne faceva stru-menti divinatori di presa sul tempo.

Nella sua Historia rerum in partibus trans-marinis gestarum – redatta in lingua latina, inSiria, nella seconda metà del XII secolo –Guglielmo di Tiro parla di un castello, nei pres-si di Aleppo, denominato Hasarth. Guglielmoracconta della discordia tra Rodoane e uno deisuoi sottoposti, governatore del castello. Lamano anonima che, tra il 1220 e il 1223, vol-garizzò in francese l’Historia decretandonediffusione e successo, vi aggiunse però delsuo. Il castello di Hasart divenne così il luogo«dove fu trovato il gioco dei dadi»:

Il avint ne demora pas que Rodoans li siresde Halape ot contenz et guerre a un suenbaron qui estoit chatelains dun chastel quiavoit non Hasart. Et sachiez que la fu trovezet de la vint li jeus des dez qui einsint a non.

Dal nome di un castello in Siria, sotto lapenna dell’interpolatore di Guglielmo da Tiro,

hasard passò a indicare uno specifico gioco adadi, di cui ignoriamo le regole, praticato inquel castello.

Il gioco si diffuse rapidamente tra i crocia-ti e tramite loro in Europa, dove la parola «az-zardo» finì per assumere il significato che an-cora oggi le riconosciamo, ma in un sensopossibilmente ancor più radicale, poiché nullasappiamo delle regole di quel gioco. Possia-mo solo supporre che quel gioco fosse tal-mente prossimo a un’esperienza totale diperdita, perdizione e caduta da compromet-tere ogni residua possibilità di intervento daparte di abilità, volontà e destrezza. Un’espe-rienza così integrale della perdita di ogni rife-rimento e referenza da far sospettare che ilgioco praticato nel castello non potesse inalcun modo avvicinarsi a tutto ciò che gli uo-mini avevano fino a allora praticato.

Nel XIX secolo fu l’imprenditore FrançoisBlanc (1806-1877) soprannominato il mago diAmburgo, progettista dei più importanti casi-nò europei tra cui quello di Montecarlo, amettere d’accordo tutti costruendo i suoi, dicastelli. Fu lui infatti a intuire che togliendo gliorologi dalle sale da gioco lo spazio-tempodel gioco si sarebbe dilatato in una sospen-sione irreale, alterando o invertendo i mecca-nismi di azione e reazione. Il tempo diventavacosì un’estensione ludica del giocatore edelle sue endorfine e dopamine, direttamen-te collegate al tavolo verde o alla macchina,all’epoca ancora azionata da circuiti idraulici omeccanici e non da chips.

Non a caso fu sempre lo stesso Blanc a«esportare» la moderna «roulette francese»,con lo zero singolo e non doppio (come neicasinò americani). Quando nel 1843, aiutato

dal fratello Louis, riuscì a introdurla nelle abi-tudini dei tedeschi, si diffuse la notizia cheBlanc fosse un nuovo Faust e, proprio comeFaust, avesse venduto la sua anima al diavo-lo in cambio del segreto delle cifre. Cifre,quelle della roulette di Blanc, che se som-mate danno infatti il ben noto «666». Nelmondo del gioco, dove tutto è superstizione,questo fatto ha avuto per lunghi anni un suopeso perverso. Ma oggi?

Il gioco, osservava Eugen Fink nei Grun-dphänomene des menschlichen Daseins(1955), è libero dal vincolo del tempo ma, alcontrario degli altri quattro fenomeni fonda-mentali in cui si articola la vita umana – il la-voro, la lotta, la morte e l’amore – non godedi uno spazio autonomo. Il gioco pervade lavita poiché, scrive Fink, «mischiato conl’amore, la morte, il dominio e il lavoro e inesso si rispecchiano i grandi contenuti dellanostra esistenza: il gioco li abbraccia tutti».Per Iohan Huizinga il gioco ha luogo in untemporaneo annullamento della vita ordina-ria. Gioco «non è la vita “ordinaria” o “vera”»,è piuttosto un allontanarsene per entrare «inuna sfera temporanea di attività con finalitàtutta propria».

Il tempo veniva così incorporato nel gioco,ma abbiamo buone ragioni – dinanzi al dilaga-re dell’azzardo di massa – per supporre cheoggi sia il gioco a essere incorporato neltempo. Siamo passati dal tempo della festa (edel lavoro) a un tempo senza festa (né lavoro).Dall’homo ludens – «der spielende Mensch»come lo poteva ancora chiamare il teologoHugo Rahner – all’homo illudens, integralmen-te schiacciato e autocentrato su un presenteeterno perché senza tempo?

Dall’Homo Ludens all’Homo IlludensFrancesco Savini

presentazione del sistema capitalista, ma non è piùautosufficiente: il gioco deve appoggiarsi su unesterno e l’esterno si affida al gioco affinché la presasul giocatore si allarghi. Ecco allora che un giocooramai confinato nell’archeologia dell’imma-ginario può legittimanente tornare d’attualità, edunque «Monopoly is back!»6. Così strilla – oggi,ottobre 2012 – l’apertura del sito web diMcDonald’s. Il rapporto è nuovamente rovesciato,rispetto all’esperimento canadese: acquistandojunk food con moneta corrente si ottengono «peels»,pezzi di carta da staccare e aprire per scoprire unavincita immediata – per l’Italia si va daun’autovettura a una confezione di patatine medie– o da rigiocare on line. Una confezione da 20 pezzidi «Chicken McNuggets», che fanno 850 calorie,sul mercato Usa rende due peels. Le «carte» sonolimitate a certi prodotti, diversi da paese a paese, e si«giocano» con due modalità: quella cosiddetta«instant-win» e quella «scopri e vinci»7.

(m.d.)

1. Daniel Rigney, The Metaphorical Society. An Invitation toSocial Theory, Rowman & Littlefield Publisher 2001. 2. Walter Benjamin, Il gioco, in Id., Strada a senso unico, a curadi Giulio Schiavoni, nuova edizione accresciuta, Einaudi,Torino 2006, p. 111.3. Roger Caillois, Les Jeux et les hommes. Le masque et le vertige,Gallimard, Parigi 1958: una «édition revue et augmentée» èapparsa nel 1967. Un’edizione italiana, accompagnata da unanota di Giampaolo Dossena, è stata pubblicata nel 1981 e piùvolte ristampata da Bompiani (dal 2004 con prefazione di PierAldo Rovatti). 4. Daniel Rigney, The Matthew Effect, Columbia UniversityPress, New York 1968, p. 6.5. Leonard Beeghley, The Structure of Social Stratification inthe United States, Allyn & Bacon, New York 1989.6. www.mcdonalds.com/us/en/monopoly.html, consultatoin data 4/10/2012.7. https://monopoly.mcdonalds.it/regolamento, consultatoin data 4/10/2012.

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Di cosa parliamo quando parlia-mo di documentario oggi? Diqualcosa di fondamentalmen-te differente da ciò che conquesto nome si chiamava

negli anni Cinquanta o Settanta. Se alla finequesto articolo avrà convinto qualcuno che«fare documentari» non è più qualcosa che sipuò fare solo con i documentari e che, per glistessi motivi, i documentari esibiscono oggi unavocazione narrativa che era fino a qualche annofa oggetto di una interdizione severa e, per certiversi, incondizionata, allora avrà fatto il suo la-voro. La «registrazione», come sosteneva in ma-niera suggestiva e rivelatrice l’ultimo SergeDaney, è quanto rimane al cinema che gli siapiù autenticamente proprio e specifico: è evi-dente che il cinema che registra la realtà ancorprima di metterla in scena, lo qualifica con untratto di radicalità e purezza che è difficile tro-vare altrove – soprattutto oggi che il linguaggiodel grande schermo è continuamente emulsio-nato insieme a grandi quantità di realtà ripro-dotta digitalmente che è il contrario stesso della«registrazione». Tuttavia il digitale, che pure tec-nologicamente registra la realtà con una traspa-renza maggiore dell’emulsione chimica, non haperò necessariamente bisogno di un mondoreale da registrare: se vuole, è in grado di mani-polarlo all’infinito. È una sorta di significante alquadrato, in grado di caricare di «realtà», regi-strata e/o manipolata, ogni enunciato.

Un esempio di scuola. Forbidden Lies, diAnna Broinowski, Australia 2007, 108’ (presen-tato in anteprima internazionale al Festival diRoma, sezione Extra). È la vera storia di NormaKhoury, autrice del bestseller Forbidden Love,racconto di un delitto d’onore, in un paesearabo, di cui fu vittima la sua migliore amica,morta per mano del padre e del fratello (per averavuto una storia d’amore con un militare di fedecristiana). La pubblicazione del libro le ha frut-tato fama e denaro e ha anche decretato la suacondanna a morte da parte degli estremisti isla-mici. Ma un’inchiesta giornalistica rivela chel’autrice del libro potrebbe non essere quello chedice. Esule giordana o truffatrice senza scrupoli?Moglie fedifraga o madre amorevole? Da unaparte si tratta di un docu-thriller serrato e distur-bante, tratto da un fatto di cronaca di grande ru-more internazionale (anche la stampa italiana glidedicò grande spazio) i cui colpi di scena sor-prendono in continuazione lo spettatore. Dal-l’altra si tratta di un cinema che usa le armi dellafinzione (la storia di Norma, soprattutto nellaprima parte, mette in scena la storia come se ciòche racconta Norma fosse vero, un autentico re-soconto di finzione, con le risorse e l’efficacia diuna regia personale e smaliziata – che certo nonmancherebbero di essere notate anche in unconcorso di film di finzione).

Non è il caso di entrare adesso nel merito dicomplesse dispute teoriche e filologiche (il docu-mentario ha diritto a ricostruire delle realtà? Te-stimonianze ambigue devono essere tenute a di-stanza e severamente processate oppure il mi-glior modo per smascherarle è mostrarne la fortedensità e seduttività narrativa? Ovvero, la loroflagranza finzionale?). In realtà è più importanteannotare sul proprio taccuino che il mondo deidocumentari, oggi, non è semplicemente quellodell’obiettività, dell’intransigenza, della fedeltà elealtà a un metodo di osservazione neutro e invi-sibile, della rigorosa sincronia di immagini eaudio (come nel cinema verità) – ma che al con-trario i documentari più interessanti sono pro-prio quelli che giocano col romanzesco (ilmondo è pieno di storie di gran lunga più inte-ressanti di quelle inventate, perché il documen-tario non dovrebbe usare alcune armi o lo stiledella finzione per rappresentare e registrare con

più potere e intelligenza la verità?). La realtàdella realtà non è mai neutra. Parafrasando gliepistemologi degli anni settanta («le percezionisono cariche di teoria»), questa Nouvelle Vaguedei documentari sembra dire che, proprio graziealla trasparenza analogica del significante digita-le (che ossimoro incantevole), non c’è sguardoche non sia carico di un racconto: proprio per-ché il digitale, a differenza del cinema classico,dà sempre quanto dia l’occhio, o di meno, pro-prio per questo l’inserzione brutale, porosa, libe-ra e indecifrabile della realtà impone il raccontodel mondo come un continuum a priori di ognisguardo.

Qualche corollario a cascata: i film documen-tari non sono più il luogo dell’uniformità masono oggi degli interessantissimi focolai di rottu-re linguistiche strategicamente programmate; ildigitale non è necessariamente l’arma esclusivadell’immaginazione e del meraviglioso (come ladittatura della postproduzione nel cinema main-stream ha indotto a credere) ma anche un intra-prendente strumento per l’analisi infinita dei fatti(un effetto che potremmo definire come sindro-me di Blow Up). Che tutto questo non sia sempli-cemente frutto di una speculazione accademicama possa effettivamente mettere a fuoco un mo-vimento profondo nelle dinamiche del linguag-gio delle immagini e dei suoni, e faccia capo auna traumatica ridefinizione della tradizionaleopposizione verità/finzione (feature film/ docu-mentari), lo dimostra la sorprendente prolifera-zione, nel mainstream cinematografico, di un usofinzionale del linguaggio documentario: da BlairWitch Project a Cloverfield, da Rec a Diary of theDead, da District 9 a Paranormal Activity.

Un’autentica epidemia. La domanda, a que-sto punto, è: come mai, visto che dalla fine

degli anni Settanta filmaker del calibro di Ro-bert Zemeckis, George Lucas, Francis Coppola,Steven Spielberg hanno posto il massimo del-l’enfasi sulla liberazione che le tecnologie digita-li avrebbero garantito al cinema (non c’è più bi-sogno di mettere la camera di fronte al mondo,ovvero, non è più necessario registrare, per fare ifilm e raccontare: la tecnica delle CGI – Compu-ter Generated Images – consente di riprodurre ilmondo e le immagini della realtà come le tra-sformazioni in laboratorio consentono la crea-zione di composti sintetici) – come mai, se que-sto è vero, il cinema di maggiore consumo (lafantascienza, l’horror) non riesce fare a menodell’effetto di realtà più smaccato, una videoca-mera digitale con la quale dilettanti o operatoritelevisivi dilagano senza limiti nei film?

Stacco veloce. Cambiamo radicalmentescena. The Wire, ideato da David Simon (2002-2008, cinque stagioni). È un serial scritto da unex cronista di nera (David Simon) e un ex inve-stigatore dell’Omicidi (Ed Burns: che, in servi-zio, fu talvolta la fonte degli articoli di Simon)ed è, secondo me, il fronte più avanzato della se-rialità televisiva ma anche un esempio impressio-nante di come la tv, il mezzo che per Pasolini eradi gran lunga il più lontano di tutti da ciò chechiamiamo realtà, si possa usare in senso oppo-sto. «Un romanzo lungo sessanta ore e suddivisoin cinque serie», lo definiscono i suoi autori. Laverità è che alla fine degli anni Novanta, quandoha ufficialmente inizio quella che gli specialistihanno chiamato la seconda Golden Age della te-levisione dopo quella fondativa degli anni Cin-quanta, qualcosa è cambiato profondamente.Non c’è nulla che somigli di più a un romanzoche il cofanetto dei Sopranos o quello di MadMen: la visione ci accompagna per un tempoprolungato, possiamo iniziare e interromperne lafruizione quando vogliamo, la durata può corri-spondere a un numero sterminato di ore (l’equi-valente necessario a leggere Guerra e Pace o It).

In un celebre saggio David Forster Wallacedenunciava come la televisione ci avesse privatoanche del sarcasmo su se stessa appropriandose-ne, e come avesse metabolizzato alcuni tratti ca-ratteristici della letteratura pop e postmoderna(il pessimismo annoiato, l’assoluta indifferenza,il materialismo autoironico ecc.), svuotandolisenza riscatto. L’esatto contrario di ciò che la gol-den age sembra aver affermato e celebrato: la na-tura piena, articolata, sinfonica di questa nuovanarrazione televisiva, capace di creare mondi difinzione che danno vita a intere epoche, società,universi. Cosa fa di questi serial la cosa più vici-na alla letteratura che abbia abitato il nostro spa-zio domestico, da molto tempo a questa parte?Innanzitutto la capacità di produrre personaggipoderosi e a tutto tondo come quelli di un ro-manzo ottocentesco. James Gandolfini (Sopra-nos), Terry O’Quinn (Lost) o Marcia Cross (De-sperate Housewives) non esistevano neanchecome attori particolarmente popolari prima dientrare a far parte del cast di un serial di grandesuccesso; ora per tutto il pianeta sono una pre-senza familiare, un intreccio inconfondibile ditratti distintivi (direbbe Chatman) o un centroincandescente di informazioni sul testo (direbbeGosser). Da questo punto di vista, lavorare su unpersonaggio avendo a disposizione molte ore diracconto – che è il vero potere dei serial – signi-fica avere a disposizione una sorta di alta defini-zione narrativa sulla quale i più grandi narratoridel cinema, da Ford a Welles, da Lang a Kurosa-wa, da Fellini a Truffaut, non hanno mai potutocontare. Cosa c’entra tutto questo con l’essenzadel documentario, della registrazione, dell’irru-zione ingovernabile della verità e della realtà nellinguaggio del cinema che abbiamo cercato diresocontare all’inizio?

Riprendiamo David Forster Wallace. La seraprima di togliersi la vita, come ha raccontato inun toccante resoconto la moglie, si è rivisto perl’ennesima volta alcuni episodi di The Wire, ilsuo serial preferito. Cosa racconta The Wire? Ilserial passa a raggi X una società, una città, unmondo, quello della città di Baltimora, cam-biando, a ogni stagione, il focus (lo spaccio delladroga, la corruzione del porto, la burocrazia, ilsistema scolastico, la politica, i media): se la po-lizia rimane il centro di gravitazione, un’interapopolazione di personaggi passa, a turno, dalprimo piano allo sfondo. Non c’è una comunitào un’area che non sia influenzata da ciò che fal’altra, non c’è azione individuale che non abbiaconseguenze incontrollabili e infinite rifrazioni,non c’è istituzione che non sbandi violentemen-te dal rigore alla criminalità, dalla repressionealla corruzione, dal potere alla disperazione. Solochi racconta e lo spettatore hanno consapevolez-za della totalità, un modello complesso fatto diinfinite relazioni reciproche come la società e lalingua (proprio la lingua è un’altra delle ossessio-ni della serie: il realismo del gergo è tale chenegli Usa e in Inghilterra gli spettatori si lamen-tano di non comprendere molte delle parole; aproposito di realismo: uno dei personaggi è uncriminale che l’autore ex poliziotto ha fatto con-dannare a più di trent’anni grazie alle intercetta-zioni – la pratica che dà nome alla serie – qual-cosa di molto vicino alle pratiche documentariee neo-documentarie che hanno scosso tutte lenouvelles vagues: dal neorealismo al free cinemaalla nuova hollywwod degli anni Settanta).

Insomma, da una parte un cinema fluido epastoso che fonde in modo inedito scrittura edocumentazione (direi più precisamente, rispet-to ai termini di partenza, scrittura e registrazio-ne), commedia umana e precisione sociologica;dall’altra una ballata metropolitana, trascinatada una folla di assoli di comprimari, che ha l’un-derstatement, l’allegria sarcastica e lo stoicismodel blues. The Wire ha fatto citare Dickens e Sha-

kespeare e si dice che sia il serial preferito diObama ma ciò che racconta The Wire è proprioquella complessità delle cose, quell’infinità inde-rogabile del senso, quell’inesaurbilità delle rela-zioni tra informazioni, oggetti e viventi che chia-miamo, con impotente approssimazione, realtá.Detto più rozzamente: la realtà è sempre più in-casinata di qualsiasi nobile tentativo di governar-la: la realtà è sempre troppa. I torti sono sempretroppo numerosi e odiosi per non alimentaresenza sosta il crimine, le istituzioni degeneranoper frustrazione non meno che per immoralità;ma c’è sempre qualcuno che – per decenza o os-sessione, intelligenza o intransigenza – riesce afare la differenza.

Qualche corollario finale: il documentario ele serie tv, figli minori del grande cinema,

sono oggi i focolai di irradiazione di novità cheè sempre più raro avvistare nel cinema in sala. Ilcinema, inteso come grande codice della sintas-si e del racconto delle immagini dei suoni è oggi– nella sua forma tradizionale, il consumo insala – in forte crisi, sia come istituzione del mer-cato che come programma estetico. Ma, comelinguaggio, è ancora un sorprendente dispositi-vo: tra i pochissimi, nel sistema dei media, ingrado di dimostrare come si possa istruire senzasensi di inferiorità, un rapporto positivo tra cul-tura e tecnologia. È la seconda che è al serviziodella prima: nella ricerca di ciò che chiamiamorealtà, nella sua comprensione, nel suo raccon-to. È la prima che è presa nel fascino di poteredella seconda: come estensione di percezioni epensiero in grado di creare rappresentazioni delmondo che ne rendano leggibile, improvvisa-mente, il senso.

Il significante al quadratoLe frontiere del documentario e del serial

Mario Sesti

The Wire«Cinema espanso» e nuovo realismo sociale

Christian Caliandro

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del «Baltimora Sun», e da Ed Burns, ex detecti-ve della Omicidi, scandaglia un’intera città: Bal-timora.

Il «carotaggio» è talmente calibrato e «scien-tifico» (nel senso proprio del romanzo sperimen-tale di Zola: un senso aggiornato attraverso latradizione noir, reso pop, ma che ricorda moltoda vicino l’operazione mastodontica dei Rougon-Macquart) da scavare letteralmente strato dopostrato del tessuto sociale, economico, politicodella città più pericolosa e degradata d’America.Così, a ogni livello corrisponde una stagione: iltraffico di droga per la prima; il porto e i legamicon la criminalità macro e micro nella seconda;le intersezioni tra crimine e sistema politico-bu-rocratico per la terza; il ruolo del sistema educa-tivo nel determinismo sociale urbano, per laquarta; e infine, il dispositivo mediatico e i suoiaddentellati con tutti gli altri livelli, nella quintae ultima stagione.

Questo processo, oltre a modificare sensibil-mente i parametri e i paradigmi che rego-

lano la nostra percezione del mondo in cui vivia-mo (il massimo risultato a cui possa aspirare unoggetto culturale) ha trasformato la realtà stessain cui è intervenuto. Attraverso questa operazio-ne di scavo dolorosa, traumatica, e l’indagineimpietosa delle proprie disfunzionalità struttura-li, la comunità di Baltimora (l’amministrazione,la polizia, i giornalisti e i cittadini) ha iniziatonello spazio vero – e non presunto – un percor-so di riemersione, di miglioramento dei proprispazi e delle proprie condizioni di vita collettiva:ciò che abbiamo imparato a conoscere, neltempo, come rigenerazione (o riqualificazione).Il fatto che ciò sia partito da un’opera finzionale,da una narrazione, ci può insegnare moltissimosu noi stessi.

Provate infatti a immaginare per un attimol’applicazione della stessa strategia spettacolareall’Italia: ai suoi scandali locali (regioni, città) enazionali, ai molti punti oscuri e rimossi dellanostra storia recente (terrorismo, Tangentopoli,stragi mafiose), agli intrecci tra Stato e crimina-lità organizzata. Che altro senso aveva, d’altron-de, un’operazione pioneristica e senza eredicome La piovra (1984) di Damiano Damiani,che rappresentava il punto d’arrivo e al tempostesso la traduzione in termini fruibili e popola-ri del suo grande cinema d’inchiesta, in grado difondere abilmente impegno, indagine sociologi-ca e azione esplorando le zone indicibili dellaRepubblica (Confessione di un commissario di po-lizia al procuratore della repubblica, 1971,L’istruttoria è chiusa: dimentichi, 1972, e Perchési uccide un magistrato, 1974)?

Il rischiosissimo e per questo interessantegioco di rispecchiamenti tra realtà e finzione cherende The Wire un’opera così completa e semi-nale, lontano anni-luce dalle nostre comode esmorte agiografie portatili, in Italia verrebbe conogni probabilità congelato prima ancora di esse-re reso visibile al grande (o anche piccolo) pub-blico, o al massimo dopo i primi episodi. Forse,il fatto che le serie televisive che si occupanodella nostra identità, della nostra attualità e delnostro passato siano concepite in maniera cosìesplicitamente innocua, stilisticamente e narrati-vamente rudimentale (con l’unica, parziale ecce-zione di Romanzo criminale, in cui però gli ele-menti storici risultano quasi sempre piuttosto«decorativi») – al punto da non essere spesso ne-anche definite «serie» ma, ancora e sempre, «sce-neggiati» – non è un elemento estraneo alla con-dizione di paralisi, immaginativa e sociale, chestiamo vivendo.

Se si vuole avere un’idea piuttosto pre-cisa di che cosa possa essere il reali-smo oggi – inteso come approccio etensione che informa un’opera com-plessa, che poteva essere prodotta

solo all’inizio del XXI secolo e non prima – oc-corre guardare alle serie tv statunitensi dell’ulti-mo decennio. Gli anni Zero – tragici e lugubriin quasi ogni aspetto, sotto la facciata luccicantedei Suv, della celebrity culture e della nascentecultura 2.0 – verranno giustamente ricordatianche per queste opere, in grado di agganciare ecatturare lo spirito di un tempo.

Si fa effettivamente un gran parlare, in que-sti mesi e in questi giorni, della nuova forma di«complessità» introdotta da questi oggetti cultu-rali: una complessità e una maturità che si inne-stano sul «tempo reale» della nostra esistenza,accompagnandola e modellandola attraversoqueste narrazioni mitologiche, e superando iconfini angusti del cinema tradizionale (non acaso, ridotto per lo più da una parte a dispositi-vo infantilizzante attraverso l’uso massiccio emolto poco fantasioso del 3D, dall’altra ad as-semblaggio archivistico, ipernostalgico di figuree immaginarii).

Questa complessità, inoltre, oltre a influen-zare le nostre modalità di fruizione, intervienedirettamente sulla rappresentazione del reale. Inquesto senso The Wire è probabilmente la piùambiziosa e riuscita serie mai realizzata dalla eper la televisione, prodotta ça va sans dire daquella formidabile fucina di idee e di talenti cheè stata ed è il canale HBO (che ha sfornato, trale altre serie-spartiacque, I Soprano, BoardwalkEmpire e la recente saga fantasy Game of Thro-nes). In cinque stagioni (dal 2004 al 2008) TheWire, ideata e sceneggiata da David Simon,scrittore ed ex-giornalista di cronaca giudiziaria

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Roberto Barni. Paesaggio con figure, 2011-2012. CoBrA Museum of Modern Art - Amsterdam

Roberto Barni. N.S.C. 2007

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Idibattiti politici sono nati molto primadella televisione. Un libro di Neil Po-stman che ormai nessuno legge più1,ma che contiene un pensiero originale,racconta che nell’America di metà Ot-

tocento Abramo Lincoln e il suo competitorealle presidenziali, Stephen Douglas, si sfidava-no in duelli verbali davanti ai cittadini-elettoridelle varie città e cittadine degli Stati Uniti. Ildiscorso di ciascuno durava parecchio, anchetre ore e mezzo, e non c’erano interruzioni pub-blicitarie. Una volta si era fatto tardi; quandovenne il suo turno Lincoln disse ai presenti:«Andate a casa a mangiare, ci vediamo dopo».Dopo la pausa il dibattito ricominciò, e nessu-no aveva cambiato canale.

Fra i testi che si studiavano per chi, comeme, si laureava in storia del risorgimento, c’era-no i vari successivi discorsi di Agostino Depretisagli elettori di Stradella (con lui la sinistra va alpotere nel 1876). Gli aventi diritti al voto delcollegio di Stradella (pochi, maschi, scolarizzati,benestanti), poi immortalato in una canzone diPaolo Conte2, si riunivano in un’osteria per unbanchetto al termine del quale il notabile Depre-tis pronunciava i suoi discorsi, rimasti famosi.Di contraddittorio con altri candidati, o di «que-stion time» fra i presenti, non vi è traccia; né ci èdato sapere chi pagò il conto della cena, ma pro-babilmente non furono i fondi di qualche grup-po parlamentare.

Da un lato i dibattiti televisivi Nixon-Ken-nedy, dall’altro le poltroncine bianche di Porta aporta e i discorsi di Berlusconi in videocassetta.È forse eccessivo ricondurre a queste due diversemodalità originarie del discorso pubblico le dif-ferenze – enormi – fra la trattazione della politi-ca nella televisione americana e in quella italia-na. Forse non c’entra solo la riforma protestante:gli elettori del New England sapevano leggere laBibbia senza bisogno dei preti e quindi, con ana-logo pragmatismo, potevano vagliare i program-mi dei candidati. Tuttavia spiega abbastanza lareverenza verso i politici italiani, unico poterecastale sovraordinato rispetto a tutti gli altri, no-nostante il disprezzo universale di cui sono

ormai circondati. Una reverenza che è preludio ecifra interpretativa dell’impunità, e che contami-na anche un figlio degenere della tradizione ita-liana: il giornalista tribuno, fustigatore spietato eun po’ impotente delle patrie scelleratezze.

Ho assistito qualche sera fa a un dibattito te-levisivo con Franco Fiorito, il «Batman di Ana-gni» poi arrestato, protagonista dello scandalodei fondi ai gruppi consiliari alla Regione Lazio.I giornalisti (Luca Telese e Nicola Porro, siamo aIn onda su La 7)3 non possono essere accusati dideferenza o di scarsa aggressività. Fiorito a ognibuon conto è arrivato accompagnato dal suo av-vocato, quel Carlo Taormina deputato Pdl cheavevamo già visto in un’altra saga italiana, il de-litto di Cogne, parimenti celebrata nei salotti te-levisivi. Nonostante la virulenza delle accuse, pe-raltro assai documentate, Fiorito se l’è cavataegregiamente. La villa al Circeo è un modestobicamere invaso dai rovi, che lui si è impegnatoa restaurare; la casa in affitto da un ente nel cen-tro di Roma, via Margutta, rappresenta un’ope-ra di bene per rimpinguare il bilancio di unaonlus che opera a favore dei ciechi. Le spese alsupermercato rimborsate dalla Regione si riferi-scono a qualche bottiglia di acqua minerale, epanini imbottiti, per riunioni che si prolunganofino ad ora tarda.

Le argomentazioni dei suoi oppositori gior-nalistici scivolavano sulla corazza di Fiorito senzaferirlo. Le sue vaghe giustificazioni apparivanocredibili, verosimili, sorrette da un primitivobuon senso; il sorriso sicuro di sé faceva il resto.Naturalmente ai giornalisti tribuni non giova lacontinua confusione tra ciò che è un reato e ciòche è moralmente discutibile, o semplicementeinopportuno, magari in nome di una morale unpo’ bacchettona che poi trasmettono al popolodella rete. Una disamina dei post su Facebookrelativi alla sfilata in costume da bagno cui hapartecipato la consigliera regionale lombarda Ni-cole Minetti rivela questa continua confusione;la Minetti appare nei commenti di Facebookcome la meretrice di Gerico anche quando svol-ge un’attività lecita, quella di modella (che lei,alla stregua di Fiorito, indica come un contribu-

to all’economia nazionale), anche se opinabile.Se in rete ci fosse un referendum per stabilire sela Minetti è bella o brutta tutti la definirebberoorribile, devastata dal silicone, perdendo così ilsenno e l’equilibrio e dimenticando l’eventualegenuina bruttezza di loro mogli e accompagna-trici. Ma la colpa non è loro, bensì del diffonder-si di una fustigazione giornalistica impotente, oautosufficiente, che è l’altra faccia della deferen-za: e non fa scendere di un solo punto lo spread.

Quando la stampa (con le sue evoluzioni te-levisive) non è un potere indipendente, c’è infat-ti spazio solo per la deferenza per i politici e peril suo opposto, la fustigazione scandalizzata. Na-turalmente anche nella tv di altri paesi, Americacompresa, ci sono ogni giorno tentativi di pres-sione e di corruzione per addormentare la stam-pa, che spesso vanno a buon fine. Il «cane daguardia» della civiltà caro a Henry James4 è unacreatura del Novecento ora abbastanza invec-chiata, anche se ancora abbaia.

La televisione avrebbe altri strumenti, chenon usa come dovrebbe. Penso all’inchiesta: se Inonda avesse mostrato la villa di Fiorito lo spetta-tore avrebbe avuto più elementi per determinare– come un antico elettore del New England – setrattasi di bilocale inagibile o di villone costiero.Se fosse andata a chiedere ai consiglieri Pd delConsiglio regionale del Lazio quale strana erbaavevano fumato, per non accorgersi dell’enormefiume di soldi che scorreva a vantaggio dei parti-ti. E, a proposito, come avevano speso i loro?

Sono convinto che l’inchiesta televisiva è oggiil principale genere che dovrebbe giustificare

il servizio pubblico televisivo. Di talent show o digiochi con i pacchi, di gossip e pseudo-notizie cene sono fin troppo al punto che spesso solo unmarchietto in un angolo dello schermo ci sa direse si tratta di un canale pubblico o commerciale.È l’inchiesta che sfugge alle logiche commercialiperché costa troppo, e qualche volta finisce in unvicolo cieco, non riesce a trovare le prove diquello che vorrebbe dire, e gli avvocati consiglia-no di lasciar perdere. Ci vuole un certo coraggiopersonale per sfidare omertà e minacce, per stu-

diarsi quintali di carte, per penetrare fra le ma-glie strette delle varie burocrazie. Ma i frutti sivedono e si chiamano Report, Presa diretta e iloro fratelli minori.

È un genere televisivo di solide tradizioni:coinvolge persone come Mario Soldati, GuidoPiovene (alla radio, però), Liliana Cavani, SergioZavoli, Alessandro Blasetti, Giovanni Salvi, UgoZatterin5. Scrittori, registi, giornalisti e qualchenome meno noto a chi non si occupa di televi-sione, ma capace di grandi prove: penso all’arri-vo della tv in uno sperduto paese molisano, Roc-camandolfi, raccontato da Giuseppe Lisi. Ci ver-rebbe voglia di includervi Pier Paolo Pasolini, seil suo straordinario Comizi d’amore (una inchie-sta sulla sessualità in Italia, 1965) fosse stato ac-cettato dalla Rai: cosa che naturalmente non av-venne.

Vale più un’inchiesta di mille salotti televisvi;vedeteli pure, ma sono scene da un balletto,un’educata quadriglia fra i poteri. La realtà deifatti sta altrove, non siede su quelle poltroncine.

1. Cfr. Neil Postman, Divertirsi da morire. Il discorso pubbli-co nell’era dello spettacolo [1985], Venezia, Marsilio, 2002,pp. 62 sgg.2. Paolo Conte, La fisarmonica di Stradella, 1974. «È grigiala strada ed è grigia la luce / e Broni, Casteggio / e Vogherason grigie anche loro / c’è solo un semaforo rosso quassù /nel cuore, nel cuor di Stradella…».3. Si tratta della puntata del 23 settembre 2012, che è possi-bile rivedere a questo indirizzo: www.la7.tv/richplayer/index.html?assetid=50282188.4. Così dice Howard Blight nel racconto lungo The Papersdel 1903 (tr. it. I giornali, Macerata, Liberilibri, 1990).5. Ecco una breve antologia: Viaggio nella valle del Po alla ri-cerca dei cibi genuini, di Mario Soldati (1957); La donna chelavora, di Ugo Zatterin e Giovanni Salvi (1958); Di sera aRoccamandolfi, di Giuseppe Lisi (1961); La casa in Italia, diLiliana Cavani (1964-65); Storie dell’emigrazione, di Alessan-dro Blasetti (1972); La notte della Repubblica, di Sergio Za-voli (1989-90).

No, il dibattito no!Duelli in poltroncina vs inchieste sul campo

Enrico Menduni

Ritratto, documentario, autobiografia im-maginaria, biopic, autoritratto. La faticanel trovare una stabile definizione di

genere per Je suis venu vous dire… Gain-sbourg par Ginzburg di Pierre-Henri Salfati,emerge fra recensioni e parole intorno al filmcomparse nel territorio del web. Difficoltànon casuale, in grado di intercettare – proba-bilmente in modo inconsapevole – la com-plessità che caratterizza ogni testo filmico, ar-tistico o letterario che si confronta con la que-stione della soggettività.

Je suis venu vous dire…, presentato al-l’ultimo Milano Film Festival, ricostruisce la fi-gura di Serge Gainsbourg attraverso la ricom-posizione di interviste, dichiarazioni, sequen-ze di film, parole e canzoni del cantautorefrancese. E l’utilizzo di un’unica voce per tuttala durata del film, quella dello stesso Gain-sbourg, che raccorda i materiali di archivio.Come se fosse davvero lui a raccontarsi, acommentare le immagini che vediamo, a co-struire la propria storia. Je suis venu vousdire, come recita una sua celebre canzone,diviene l’intento programmatico di un filmche sembra scorrere in prima persona. Ma achi fa riferimento in realtà il je che apre il tito-lo? Je, lo ricordava già Rimbaud, è natural-mente sempre un autre. E Gainsbourg è undoppio impossibile, diviso fra Gainsbourg(come lo conosciamo) e Ginzburg (nome ana-

grafico). Diventa necessariamente anche unalter ego del regista Salfati, che firma il pro-getto filmico: nonostante questi rimanga rele-gato sullo sfondo, nascosto dietro la masche-ra dell’artista al quale il film rende omaggio.

Mentre si crede di esprimere una certa in-dividualità, si sta in fondo già parlando d’altro.Gainsbourg by Ginzburg esplicita un’inversio-ne grafica in cui la lettera Z è speculare e in-vertita rispetto alla S. Come nella Sarrasine diBalzac riletta in un saggio di Roland Barthes,la Z diventa la lettera della deviazione, allu-dendo a una dimensione interiore duplice,controversa e irrazionale. La relazione conBrigitte Bardot, il grande amore con Jane Bir-kin, le immagini della piccola figlia Charlotte simescolano con le note e i sospiri di Je T’ai-me, Moi Non Plus e si confondono con ilvolto intermittente di Gainsbourg, copertodalla coltre di fumo dell’ennesima sigarettaaccesa.

Il montaggio cinematografico consente inquesto caso una personale associazione diimmagini, materiali inediti e non, suoni e mu-sica, in un grande collage che vale anchecome rispecchiamento soggettivo/generazio-nale, costruito su una memoria spettatorialenutrita da miti societari e modelli di consumo.L’identificazione nei confronti della figura deldivo funziona come ritrovamento di un’imma-gine emblematica in cui riconoscersi e rispec-

chiarsi. L’icona agisce come una formula ste-reotipa, in cui ricercare un modello di stabilitàindividuale. Nel carattere straordinario incar-nato dalle celebrità – la cui esistenza coincidecon il simulacro – si individua la ricetta per di-segnare la propria interiorità. L’essere del divoè l’icona: niente più anima, ma solo uno sta-tus effettivamente immaginario, come scrive-va Barthes a proposito dell’operazione rivolu-zionaria operata dalla pop art sulle immaginidi Marilyn o Elvis.

L’immagine soggettiva è attraversata dalserbatoio di ricordi, frammenti e riferimentiche fanno parte della nostra cultura e si inscri-vono sul corpo individuale come ulteriori su-perfici di rispecchiamento identitario. È un cir-cuito in cui l’alterità è necessaria nella defini-zione del soggetto. Lo scambio di piani fra chiracconta e chi è raccontato testimonia inmodo lampante la difficoltà, nella ricomposi-zione dell’immagine di un soggetto/individuo,che si verifica in tutte le arti, dalla letteraturaal cinema, dalla fotografia alle arti visive. Èquesta la principale caratteristica delle nuovepratiche soggettive che emergono nel con-temporaneo, e che trovano negli audiovisiviuna forma di articolazione congeniale. La sin-golarità si confonde nell’interscambio di sog-gettività e proiezioni collettive, che dissolvonol’immagine unitaria del soggetto e ne disper-dono le tracce. Del me non rimane che una

scia. L’io si disperde e si moltiplica, si disse-mina nell’immagine di un altro, da cui è indi-visibile. L’intimità che il film costruisce, la sen-sazione che sia lo stesso Gainsbourg a guida-re le immagini, l’apertura fra i piani della nar-razione è in questo senso efficace e si inseri-sce in una questione più ampia e complessa,che trovava nella confusione terminologica dacui siamo partiti – ritratto, documentario, au-tobiografia immaginaria, biopic, autoritratto?– un riscontro empirico.

Anche questo film, come ogni redazionebiografica, ci ricorda il grande paradosso dellascrittura soggettiva: da un lato non esiste ro-manzo biografico da cui il narratore riesca a ri-manere escluso, come fosse un osservatoreneutrale o esterno. E d’altra parte l’autobio-grafia non può mai avere una fine, è un per-corso per forza incompiuto perchè è affidataalla persona che racconta la propria vita (an-ch’essa incompiuta). Nel gioco tra te dire in-terpersonale della canzone d’amore, in cui sidice addio alla persona amata, e il vous direplurale del titolo del film si gioca infine la dif-ferenza fra la fine di una storia d’amore e lafine di una vita. Je suis venu te dire, continua-va a cantare Gainsbourg nel suo testo citan-do la Chanson d’automne di Paul Verlaine,que je m’en vais. Sono venuto per dire cheme ne vado via.

Je suis venu vous dire... Gainsbourg par GinzburgLaura Busetta

Roberto BarniIntervistato dal suo doppio

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Per te quando ha avuto inizio?Potrei dire da sempre, da bambino disegnavo sulla terra e con la terra facevo lesculture.

Ma quando ti sei preso la responsabilità di fare l’artista?Lentamente, ma il momento decisivo è stato quando alla fine degli anni Cinquantacominciai a fare grandi quadri monocromi di materia rossa incisa con la mano. Nerimasi prigioniero. Questa fu la scelta e a suggello feci l’impronta interna della miamano e della mia bocca. Feci anche delle sculture di filo di ferro da poter indossaree mi fotografai con un imbuto in capo come uno speranzoso Don Chisciotte.

E poi come mai solo due anni dopo, nel 1962, ti è potuto venire in mente di farti ilnecrologio e di esporlo alla galleria Numero di Firenze?Pensai che solo attraverso quel gesto sarebbe stato possibile testimoniare il senso diperdita che minacciava l’arte in quegli anni e il profondo senso di inutilità cheancora oggi respiriamo. Il soggetto romantico cedeva il posto all’oggetto.

E dopo la morte?Con la sparizione del soggetto diventai un oggetto anch’io lavorandomaniacalmente a una serie di particolari di topografie di città esposte nel 1963 aRoma.

E quando dipingevi atleti, paesaggi, immagini d’arte, oggetti industriali, treni, stradecol traffico eri anche lì un oggetto?In qualche modo mi facevo oggetto proiettando queste immagini con una lanternadi mia costruzione. Era un modo di creare una iconografia più consona agli anniSessanta e al mondo industriale. Sui paesaggi, che esposi a Revort 1° nel 1965,Laurence Alloway scrisse, non a caso, della loro capacità di oggettivare la visionedella natura.

E i quadri successivi dipinti con ferruggine e minio sono dunque una variazione sultema?Sì ma anche un ulteriore passo in questa direzione giocando con la ambiguità dellasuperficie per farne uscire la tridimensionalità. La ferruggine e il rosso minio, coloriantiruggine, erano i più adatti a dare un’idea di concretezza lontana dalle belle artie vicina alla realtà dell’industria, dei tubi Innocenti e delle lamiere. Sulla superficiebianca della tela la forma rossa di Creve 1968 poteva esser letta concava o convessae allo stesso modo il cancello dipinto a minio di Ora e qui si affermava comeoggetto concreto.

In che modo dopo hai fatto uscire le tue opere nello spazio?In Orizzontale-verticale 1970 le colature rappresentano di fatto la verticale sullaparete e le gocce l’orizzontale sul pavimento, e su queste due dimensioni giocavanoanche le sculture mobili in ferro Anatema, Viticcio e Costellazione 1970. Con questeidee avevo progettato interi ambienti. Idee che tornano spesso a ripresentarsi anchenei lavori recenti sia in pittura Paesaggio addosso sia in scultura Addosso. In In-stabile, collocato ad angolo retto tra parete e pavimento, la verticale e l’orizzontalepossono essere scambiate e infatti Passi, esposto nel 2008 da Mudima, haaddirittura scambiato la parete per il pavimento.

E l’uso della fotografia che riappare in quegli anni che valore aveva per te?Si lo ammetto, è una strana periodica necessità di testimoniarmi dentro le mieideazioni. Intorno al 1970 mi sono misurato con un barbone, con le miedispersioni sulla parete e sul terreno, con le geometrie di Piero della Francesca e direcente con la moltiplicazione di me stesso in colonne bisbetiche.

A proposito, perché nel 1972 ti sei fotografato davanti alla resurrezione di Piero dellaFrancesca con la data 11.5.1972 ?Per celebrare simbolicamente la mia resurrezione nel decennale dell’annuncio dellamia morte. E curiosa e casuale coincidenza a 33 anni. Anche qui l’immagine ècostruita sulla orizzontale e sulla verticale indicanti rispettivamente il tempo el’eternità.

Che significato hai dato a questa resurrezione, che cosa ha comportato per il tuo lavoro?È stata la resurrezione di un nuovo soggetto ancora più disposto alla molteplicità,convinto come ero allora e come sono oggi che l’arte in quella fase non si potevaabbracciare con una sola modalità. Lo stile non è qualcosa per farsi riconoscerebensì per conoscere. Ho costruito sculture componibili, ho fatto Kronos a pezzi el’ho dipinto con ferruggine ossidata «la fine del tempo». Ho inciso direttamente sulcolore con la luce del sole Divinità della luce. Ho dipinto alberi con la clorofilla, eho profumato paesaggi, disegnato enormi calendari con dentro i capolavori degliartisti preferiti. Ho usato elementi dell’architettura, della pittura e della scultura

antiche disegnati con un esile tratto a cera bianca su fondi ferruginosi e disposti adangolo retto tra parete e pavimento come nelle mostre Riluttanza a Roma e Humusda Schema a Firenze con ancora nuovi modi di sporgersi nello spazio ancheattraverso calchi del mio corpo. Sotto una spinta analoga si corrugano abassorilievo le superfici dei miei cartonage degli anni Novanta.

E dopo tutto questo come si arriva a Divinità della luce che esponesti a Roma allaGalleria La Salita insieme alla biografia di un misterioso Rupertius?Dopo aver immaginato la morte e la resurrezione ho immaginato la vita in un altroartista. Rupertius è in sostanza un mio alter ego attraverso il quale ho volutorivendicare una libertà ulteriore svincolata da qualsiasi condizionamento e sottrattaal dominio del tempo.

Lo sviluppo successivo del tuo lavoro rappresenta una evoluzione di questa tematica one costituisce una frattura? Come si collegano Rupertius, i terremoti degli anni Ottantae gli uomini con la benda sugli occhi?Il sovvertimento temporale è diventato anche un sovvertimento spaziale che generacataclismi non esenti dalle suggestioni degli sconvolgimenti paesaggistici dell’Italia.In questo mondo sconvolto, la vista, il principe dei sensi, ha perso la suasupremazia e deve fare ricorso anche ad altro. È così che nasce l’uomo bendato chesi muove e si orienta guidato da una nuova sensorietà che è anche contestazione esfida. È una figura che si predispone ad aggirarsi in una realtà a più dimensionidove non esistono né sopra né sotto, né destra né sinistra quale appare nei mieilavori dagli anni Ottanta in poi.

Dunque, se interpreto bene il tuo pensiero, la costante presenza della figura umana nonsta a rappresentare una centralità dell’uomo nel mondo ma un suo spaesamento. Sì, hai capito benissimo.

Allora sembra paradossale che proprio in quegli ultimi anni Ottanta il tuo interesse perla scultura divenga sempre più forte. Come hai risolto la contraddizione tra latradizionale staticità della scultura, in particolare della figura umana, e il tuo uomosenza suolo e senza peso?Le mie figure sono degli archetipi inespressivi e seriali, mossi da un’inquietudineche si manifesta solo nel loro passo e le spinge in tutte le direzioni, in divergentiarabeschi verticali come in Impresa, Gambe in spalla o in esili Colonne bisbetichefatte di individui sempre sul punto di prendere una direzione opposta all’altro.Queste figure vanno a infilarsi in situazioni imbarazzanti e in articolazioni spazialiacrobatiche. In un certo senso la scultura, per la sua replicabilità diventa per me ilmodo di mostrare più concretamente possibile l’assenza e il vuoto. La scultura haperso il basamento come lo ha perso il mondo: può esserci in realtà solo unCondominio.

È per questo che nella tua scultura si incontrano spesso queste grandi cavità in forma direcipienti?Sì, e per di più gli uomini che camminano, senza potersi fermare, sul sottile bordosi mantengono in realtà in bilico tra due precipizi. Anche i clandestini cheguardano dentro il vuoto di una gabbia da Bagnai a Firenze sono a loro voltaimmersi in un vuoto ancora più grande mentre in «Capogiro» 2012 l’uomo ne èaddirittura risucchiato. E lo sciatore di Base con la testa al contrario èinesorabilmente trascinato in un vuoto a lui invisibile.

D’altro canto però le tue sculture paiono avere una fisicità tattile molto forte, o sbaglio?È vero, sulla pelle della mia scultura si legge sempre l’impronta della mia mano; èquesta la mia resistenza al vuoto. Del resto, come ti ho già detto, la mia primascultura è stata, nel 1960, il calco dell’interno della mia mano.

Dopo la nascita di una quantità enorme di nuovi mezzi espressivi qual è il tuorapporto con la pittura e la scultura?Non le ho mai abbandonate perché sono sicuro della loro capacità di rinnovarsi.Dalle grotte fino a oggi queste arti sono morte molte volte per resuscitare semprearricchite pur mantenendo il loro contatto con le origini. La loro importanza inmezzo a tutte le novità espressive è simile a quella della stella polare o dellameridiana. La loro fissità le fa diventare anche un importante mezzo diorientamento.

Come ti sei trovato in questa conversazione con il tuo doppio?Chiedilo a Sara.

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Roberto Barni Roberto Barni. Capogiro, 2008 - 2012

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Dove naturalmente va ogni cosaAlberto Boatto

L’opera di Roberto Barni, in pitturae in scultura, rinnova con visiona-ria originalità la superba linea del-l’arte italiana impegnata, lungo ilNovecento e oltre, ad affrontare la

difficile, improrogabile esigenza di dareun’espressione visiva alla figura dell’uomo, nongià dell’uomo eterno, ma proprio dell’uomo mal-messo dei nostri giorni. Per questo nella sua operal’uomo ha cessato di possedere il privilegio diun’individualità, di una fisionomia riconducibilea una persona singola, per presentarsi col profiloassottigliato di un emblema anonimo costante-mente affaccendato e in cammino, senza apparte-nere alla quantità, alla folla accalcata delle grandimetropoli, alla massa manipolabile degli utenti.Così è destinato a raddoppiarsi, a proliferare, adare origine a folte concatenazioni e sequenze, fi-no a comporre delle colonne umane formate daun gruppo di uomini sovrapposti gli uni sullespalle degli altri (Colonna bisbetica).

In scultura, la fusione nel bronzo rappresentala scelta funzionale di una materia e di una tecni-ca metallurgica che consente la moltiplicazionedel modello nei confronti dell’inclinazione delmarmo verso l’unicità aristocratica.

Questa figura ha abbandonato i solenni e cosìfacilmente enfatici piedistalli per collocare conumiltà i suoi piedi sulla durezza del terreno (Attomuto) o, con maggiore frequenza, per fissarsi so-pra bizzarri attrezzi che finiscono per condiziona-re ogni gesto e movimento. Ecco i gradini di unaslitta (Passione) quelli di una scala curva somi-gliante a un dondolo (Continuo), oppure i bordidi una serie di larghi recipienti dalle fogge dispa-

rate (Solidali, Vacina, Rimorsi). Poiché gli uominidi Barni, come sosia o individui clonati di recen-te, cambiano di poco il loro aspetto scialbo, men-tre cambiano in misura considerevole le situazio-ni, al tempo stesso eccentriche e comuni, in cui sitrovano coinvolti.

Si tratta di situazioni egualmente difficili eprecarie, contrasti e dispute stizzose con i propriconsimili, colleghi e condomini, oppure percorsiin equilibrio instabile sugli orli di un abisso casa-lingo quanto può essere il fondo di recipientid’insolite dimensioni. In queste scale e in questicontenitori prende corpo il tema che sta al centrodell’invenzione dell’artista: il tema del vuoto edella vertigine che mettono a dura prova l’esisten-za umana. Non ci troviamo di fronte a spaccatirealistici ricalcati sull’ambiente quotidiano, ma ascene scaturite direttamente e poi fissate in unflash visionario dell’accesa e umorale immagina-zione dell’artista.

Nelle ultime sculture, l’iconografia di Barniregistra un ennesimo scatto inventivo, con un ri-sultato d’approfondimento, se non di conclusio-ne pur sempre provvisoria. L’uomo in marcia che,passo dopo passo percorre la sua intera opera, ri-badisce la sua estraneità nei confronti del roman-tico Homo viator, così sovraccarico d’illusioni e diaperture verso un improbabile e dorato là bas.Dove ha finito per condurlo il suo meccanicomarciare è dentro il cestino dei rifiuti (Capogiro2012). La vertigine di cui ha sofferto di continuoe che pure ha sfidato da «Eroe domestico», e ilvuoto che lo ha attratto, lo hanno condotto infinenel luogo «Dove naturalmente va ogni cosa».

Anche la morte, più volte rappresentata dal-l’arte e dall’immaginario come un personag-

gio armato di falce, che sorprende l’uomo dal-l’esterno, viene raffigurata come una presenza checi appartiene da sempre, un ospite ingrato: la falceè collocata ora sotto i nostri piedi, nel posto dovesi è sempre trovata Condominio. Queste figureplastiche segnano un luogo, occupano un punto,ma non conferiscono alcuna misura allo spazio.Con maggiore particolarità della scultura, la pit-tura testimonia ciascuna tappa del lungo itinera-rio di Barni. Nei suoi recenti quadri, le stesse sa-gome umane, inflazionandosi, danno vita a cen-trifughe colorate fra l’imitazione della giostra e lavertigine del mulinello. Le teste e i piedi toccanoogni punto della cornice, in una volontà d’esauri-re la totalità dei luoghi spaziali, conferendoun’importanza relativa, ma non affatto un valorea ogni punto contrassegnato. Nella sua lucidità,Barni sa bene che qualsiasi opera creativa nonpossiede più sede, adeguato luogo d’accoglienza.Il museo odierno, che si affanna a tenere testa allefiere ubiquitarie dell’arte, non offre certo una so-luzione. Nel frattempo, la figura dell’uomo, as-soggettate com’è fatalmente all’erranza e all’erro-re, anche nel caso che sostasse immobile, perchénon piazzarla già travolta dalla distrazione genera-le, rovesciata per terra? È ciò che ha fatto Barni«scaraventando per terra la sua scultura Sadovaso-maso, come racconta lo stesso autore, nello spaziopubblico della centralissima piazza della Repub-blica di Firenze «come altri scaraventano per terrauna lattina di Coca-Cola».

Pessimismo mischiato a una dose amarad’acutezza cinica? Ma l’assurdo, che resta la quali-

tà spiccata di quest’opera, consente l’impiego del-l’incongruo paradosso. Ecco un’esemplificazione:sul quadrato del ring, un solo pugile solleva ilbraccio al termine dell’incontro: il vincitore.Questa è la norma, la «dossa». In Barni, il vincito-re e il vinto sollevano assieme un unico bracciocon un unico guantone in segno di trionfo. Siamoall’anormalità; siamo penetrati nel paradosso.

Di tutta l’opera di Barni colpisce la spiccataoriginalità dell’iconografia – che costituisce unanovità nella storia della scultura – dove, accantoalla effigie umana, occupa la medesima importan-za l’oggetto, l’attrezzo impiegato che, pur presen-tandosi «spaesato», appartiene pur sempre al-l’universo domestico. Che cosa ci può essere dipiù ordinario di un secchio o di una scala?

Si direbbe che Barni, nato nella bella città me-dievale di Pistoia, e dunque erede diretto dellagrande tradizione d’arte e di cultura della Tosca-na, si sia proposto di chiudere in un fascio di si-tuazioni esemplari la difficoltosa e conflittualecondizione dell’uomo contemporaneo, logoratodallo stress quotidiano e dal sentimento dell’inu-tilità di qualsiasi sua occupazione.

L’accostamento fra queste opere, col loro spic-cato senso della mimica e del gioco scenico, e ilteatro di Samuel Beckett rimane l’accostamentomaggiormente illuminante.

Intervengono con grande peso l’espressivaqualità formale della sua scultura, che porta anco-ra le tracce visibili della mano del modellatore, e lapatina rossa con cui si presenta. Essa non ha il va-lore di un superficiale rivestimento, ma quello diuna manifestazione cromatica dell’energia dellamateria plastica.

Roberto Barni. Clandestini, 2007

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GIÙ LE MANI DALLA 180 alfabeta2.24

Aquanto pare, i grandi manicomicriminali non chiuderanno affat-to. Il titolo del decreto svuotacar-ceri è roboante: «Norme per il de-finitivo superamento degli ospe-

dali psichiatrici giudiziari». Ma in realtà unemendamento dei senatori al decreto prevede chele attività che vi si sono svolte finora si tengano inaltre strutture sanitarie. Riguardo alle loro carat-teristiche, poi, esse sono da stabilirsi attraverso unulteriore decreto – con mossa politica tipicamen-te italiana. I luoghi saranno gestiti esclusivamenteda personale sanitario, salvo prevedere una attivitàdi vigilanza esterna. Cosa cambia dunque? Nientedisumanità, incuria, aguzzini, sporcizia, sofferen-ze gratuite, indifferenza; ma l’istituzione totalita-ria non è vincolata a una determinata forma ar-chitettonica, a certe dimensioni, o alla limitazio-ne della capacità di movimento: è piuttosto quellache impone una disciplina, come la caserma e ilconvento. Come fa notare il testo di una petizio-ne, promossa da www.stopopg.it e www.conf-basaglia.org, non cambierà in nulla il codice pe-nale, basato sempre su concetti privi di basi psi-chiatriche come «folle reo» e «pericolositàsociale»; per l’imputato non viene prevista alcunagaranzia; non si risolve il problema di porre untermine certo alla detenzione.

Così, quei liberali, di destra e di sinistra, cheproclamano di aver risolto il problema degliOPG, rivelano solo la propria ipocrisia: si dannoal problema della sicurezza per spostare in avantiil mantenimento della loro ideologica promessadi libertà: vorrei ricordare che i detenuti degliOPG non sono i crudeli mostri dei film di Holly-wood, omicidi incalliti che ti torturano con unsorriso sulle labbra. Accanto a reati più gravi quic’è anche chi ha reagito male al controllo di unpoliziotto; chi ha tentato di dar fuoco all’aziendadel padrone che lo ha licenziato; chi ha rubato.Secondo Umberto Raccioppoli, direttore del-l’OPG di Napoli, la metà degli internati ha com-messo «reati generati da maltrattamenti in fami-glia, espressioni del disagio lacerante, che la ma-lattia mentale porta nella famiglia, e delfallimento degli interventi della società civile». Lostereotipo sociale (e legale) diffuso è al contrariobasato su una dicotomia manichea tra ordine e ca-os chiaramente paranoide e fascista. E ancora unavolta assistiamo all’interferenza tra l’ordine cheregge il discorso medico, inteso a curare, e quellolegale e securitario, inteso a contenere, di cui misono già occupato in Etica della ricerca medica edidentità culturale europea (CLUEB 2009).

Occorrerebbe che il Governo dei supertecnicie la maggioranza di destro-sinistra che lo sostieneriflettessero su qualcos’altro: sul modo di evitarela costruzione di quelle che Goffman chiamavaistituzioni totali, organizzatrici della vita dell’in-dividuo che ne è parte in ogni suo aspetto fino al-l’eliminazione del seppur minimo spazio di auto-determinazione e di libertà. Dopo la legge Basa-glia, lo sappiamo, i manicomi sono stati chiusi.Ma questo equivale alla scomparsa dell’istituzio-ne totale?

Nel suo noto articolo Des espaces autres, Fou-cault sostiene che le case di riposo, le clini-

che psichiatriche, le prigioni, sono altrettantiesempi di eterotopie di deviazione, dove collocareindividui il cui comportamento non è riconduci-bile alle norme imposte. A differenza di una uto-pia, luogo virtuale e non connesso con il mondo,l’eterotopia è un luogo reale dove la società si tro-va in connessione con ogni luogo. In esso, la rap-presentazione utopica della società si trova effetti-vamente realizzata. Foucault indica anche una se-rie di criteri che definiscono una eterotopia. Inuna mia recente ricerca, nata da una collaborazio-ne tra il Centro Universitario Bolognese di Etno-semiotica (CUBE), il dipartimento di salute

mentale di Pordenone, l’associazione di volonta-riato delle famiglie AITSAM–DDN e la RegioneFriuli Venezia Giulia, ho notato che perfino alcu-ne esperienze all’avanguardia di Social Housingpossono ritornare a essere eterotopie di deviazio-ne. In queste case protette, piccoli gruppi di pa-zienti psichiatrici vivono insieme dopo percorsiterapeutici a volte anche molto lunghi. Sono se-guiti dal personale sanitario ma si autogestiscono,con l’aiuto di una assistente familiare. Nonostan-te si tratti di spazi aperti verso l’esterno e gli uten-ti siano liberi di condurre una vita lavorativa e so-ciale, se il rifiuto della società respinge queste per-sone entro la casa a trovarvi un rifugio, in essa simanifestano nuovamente almeno due caratterieterotopici: un tempo ciclico, scandito dai turnidella cura della casa e del sé, si sostituisce al tempobiografico lineare (eterocronia); un ordine perfet-to fa apparire caotico agli utenti il mondo esterno.Da qui la necessità di progetti che favoriscano ul-teriormente la responsabilizzazione delle reti so-ciali intorno agli utenti e che restituiscano loropienamente il diritto di cittadinanza: fortunata-mente, gli operatori e le istituzioni sanitarie concui ho avuto a che fare mostrano grande sensibili-tà al riguardo.

Le microstrutture che sostituiranno gli OPGcondividono i due caratteri eterotopici che ho in-trodotto, e ne sommano altri: ad esempio la giu-stapposizione di due luoghi incompatibili comelo spazio della repressione e quello della cura;l’isolamento ovvio verso l’esterno. Foucault è sta-to anche il primo ad accorgersi della tendenza, ne-gli ultimi decenni, a eliminare le grandi istituzio-ni, perché i dispositivi di controllo si sono fatti

più capillari e diffusi. Sono più efficienti, e più at-traenti per il privato che si già si candida a gestirli.Già in Inghilterra la chiusura dei manicomi, permere ragioni di liquidazione della sanità pubbli-ca, ha portato al risultato di spostare l’interna-mento dal manicomio al carcere, come denunciaColin Gordon sul numero 351 di «aut aut». Eccoche la scelta delle piccole dimensioni, nel caso del-le alternative all’ospedale giudiziario, non discutedavvero la struttura del potere che relega questepersone ai margini della società, ma finisce para-dossalmente per rappresentarne i rapporti econo-mici e di classe. Invece di un unico grande mani-comio, avremo tante piccole ed economichestrutture disciplinari e contenitive disperse sulterritorio: una galera distribuita. Il prossimo pas-so sarà prevedere in ogni fabbrica alcune piccolecelle in cui ospitare criminali comuni, definitiva-mente assoggettati alla produzione.

Eallora, quale futuro per la follia? Oggi, pochitra gli assistiti dei servizi psichiatrici riescono

ad avere delle relazioni sociali, superando la stig-matizzazione; alcuni di loro mi hanno raccontatodi come siano gli sguardi della gente a riportarlialla loro condizione di esclusi. Qualcuno limita leproprie passeggiate al circondario, a un andirivie-ni dal centro diurno, o le relega in orari in cui pos-sono evitare brutti incontri, ossia incontri conpersone «normali». Nessuna azienda vuole assu-mere queste persone, preferendo pagare le penalipreviste dalla legge. La cronica mancanza di dena-ro porta alla stigmatizzazione: i prezzi delle vetri-ne sono proibitivi, e così vestono come possono;affollano le macchinette automatiche dove i gene-

ri di conforto costano meno. Non è chiaro se sonopoveri perché pazzi o pazzi perché poveri. Comeconseguenza, pochi tra loro esprimono una pro-gettualità, pochi immaginano un lavoro, una fi-danzata, una casa popolare. È ovvio che ogni ri-forma delle istituzioni psichiatriche dovrebbecomportare, se volesse essere efficace, maggiorispese, e non risparmi – lo scrivo perché i prece-denti del Governo attuale sono noti.

E che dire degli altri, i «sani di mente»? Secon-do Allen Frances, che supervisionò la redazionedel Manuale dei disturbi mentali (DSM) IV, lanuova versione del manuale, la quinta, ci renderàfatalmente tutti soggetti alla cura psichiatrica.Sotto la spinta delle case farmaceutiche, l’astinen-za da caffeina o il dolore da lutto diverranno nuo-ve sindromi psichiatriche. Il giro di affari è enor-me e già oggi il 25% della popolazione Usa si vedediagnosticare questo tipo di problema. Occorreriflettere sulla reale portata della psichiatria dimassa. Dettato da motivazioni economiche,l’abuso di antidepressivi e di droghe legali diventasenz’altro un nuovo strumento di controllo, an-cora una volta capillare e diffuso, come aveva benveduto Foucault. Ci siamo sbarazzati dei manico-mi perché i farmaci li hanno resi antieconomici eora, paradossalmente, una società che non riesce aincludere tutti nell’insieme dei sani e dei normali,risolve il problema spostando tutti nel novero deimalati – e dei regimi delle diete, dei farmaciomeopatici, del fitness – cui assicurare con unapillola quella felicità che l’economia, il lavoro, lerelazioni affettive non possono più dare.

Il futuro della folliaDagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari al Manuale del Disturbo Mentale

Francesco Galofaro

Roberto Barni. Sadovasomaso, 2006

Nel libro XII dell’Odissea la magaCirce ammonisce Ulisse: sevorrai ascoltare il canto delleSirene senza essere da loro se-dotto e ucciso, dovrai farti lega-

re all’albero maestro dai tuoi compagni dopoaver tappato loro le orecchie con la cera; verraistregato e ti troverai nella condizione in cui latua volontà sarà vinta e allora li implorerai di li-berarti; per questo devi impegnarli in anticipo anon ascoltare le tue parole, qualsiasi cosa tu dica,anzi a stringere i nodi ancora più forte se chiede-rai di essere sciolto.

Forse si tratta del primo esempio di «diretti-ve anticipate», ossia di una di quelle dichiarazio-ni rilasciate preventivamente a qualcuno cheavrà il compito di tutelarci nel momento in cuinon saremo più in grado di scegliere in autono-mia: tema di scottante attualità sul fronte dellabioetica – vedi il dibattito sul cosiddetto «testa-mento biologico» – che fa riferimento a tuttequelle situazioni nelle quali, a causa di malattiao di traumi improvvisi, la persona perde la capa-cità di esprimere il proprio consenso o dissensoa un trattamento medico al quale potrebbe esse-re sottoposta.

Per alcuni, questo accordo potrebbe esserestipulato anche tra il paziente psichiatrico e ilmedico durante i periodi di remissione sintoma-tologica di tutti quei disturbi psichici di gradosevero che abbiano un andamento ciclico o reci-divante. Esso dovrebbe dare al curante preciseindicazioni su quali trattamenti e su quali even-tuali restrizioni della libertà personale (limitazio-ne della capacità di agire, coercizione del com-portamento, ricovero obbligatorio) sia possibileadottare nel momento in cui intervenga unanuova crisi o un periodo di scompenso. È statochiamato «contratto di Ulisse»1: nome suggesti-vo, non c’è che dire, tanto che il deputato delPdl Carlo Ciccioli, promotore dell’ennesimotentativo di revisione della legge 1802, lo adottanella sua proposta del 15 gennaio 2009. Il fattoche la denominazione appartenga da tempo allaletteratura psichiatrica anglosassone, non puòperò esimere da una certa cautela critica, perchéquesta immagine, ancorché metaforica, si atta-glia comunque male a una proposta di leggesulla salute mentale. Con quale spirito, infatti, sipuò fare riferimento alla storia di un uomo lega-to e attorniato da persone sorde, in un paesecome il nostro dove la psichiatria è dolorosa-mente segnata dalla presenza di reparti chiusiospedalieri, i Servizi Psichiatrici di Diagnosi eCura (SPDC), in cui troppi pazienti vengono le-gati a letto e troppi operatori non prestano ascol-to alle loro invocazioni?

Si può poi rilevare che il fatto di sottoporre adirettiva anticipata una condizione di scompen-so quale interviene durante un disturbo psichicoe di equipararla a situazioni drammatiche di finevita, ha suscitato perplessità a livello internazio-nale sin dalla prima formulazione del «contrattodi Ulisse». Nel primo caso si tratta di una condi-zione temporanea di crisi in cui il soggetto restacomunque capace di esprimere e comunicareuna volontà autonoma, altresì nel secondo casosi tratta di stati comatosi o vegetativi persistentiin cui c’è la perdita irreversibile di coscienza daparte del malato.

Affidarsi in psichiatria a un documento pre-liminare rischia di invalidare il soggetto nel mo-mento della crisi – che invece è da decifrare per-ché ad alta significatività esistenziale nella storiadi vita di una persona – a meno che tale docu-mento non nasca da un percorso delicato e tena-ce di dialogo, confronto, scambio, negoziazione,che è il lavoro stesso della salute mentale3. Nellaproposta Ciccioli, invece, si è soltanto interessa-ti a vincolare il malato a un contratto cogente dicura e a sgravare il medico dalla responsabilità di

un lavoro di persuasione e ottenimento del con-senso terapeutico, lasciandogli le mani libere perun intervento sbrigativo e senza contestazioni.

La cultura che permea lo spirito del legislato-re nel presente disegno di legge è chiara-

mente una cultura medica, interventista e distampo ospedaliero, in cui le sirene della psichia-tria sono quelle delle ambulanze: la malattia èvista nella prospettiva dell’emergenza, attraversole stimmate dell’evento improvviso e potenzial-mente pericoloso, e il malato è oggetto di sceltedirettive, non negoziabili, perché di fatto ritenu-to incapace di poter esercitare una libera volon-tà riguardo alla sua salute nel momento dellacrisi. Basti considerare l’insistenza con la quale sivogliono modificare le procedure di interventosanitario che si spinge fino al cambiamento delloro nome: il trattamento sanitario da obbligato-rio diventa necessario, la sua durata da sette passaa quindici giorni all’interno di un SPDC ospe-daliero, e addirittura a sei mesi rinnovabili fino aun anno in comunità accreditate o residenzeprotette extraospedaliere (articoli 4 e 5).

Ancora una volta non si coglie l’importanzadelle parole: come già sottolineato in ambitogiuridico e psichiatrico4, quando si parla di ob-bligatorietà si fa riferimento a una scena di rela-zione fra soggetti, portatori di diritti e di doveri,a un riconoscimento dell’altro che rientra in unoscambio simbolico, a una contrattazione fra ra-gioni divergenti da ricomporre. Altresì, la neces-sità pertiene a decisioni ineluttabili, determinateda esigenze di legge, che devono essere eseguitecon una perentorietà che esclude qualsiasi nego-ziazione con l’altro: è il provvedimento d’urgen-za che per il suo carattere di cogenza e di ecce-zionalità fa a meno del tempo del dialogo. Ilconflitto viene silenziato e la situazione di ri-schio «messa in sicurezza». Peraltro, in più puntidel disegno di legge viene evocato lo spettro delpericolo all’incolumità delle persone: è evidente

che non si tratta tanto di una sollecitudine neiconfronti dell’integrità dei soggetti sofferenti didisturbo mentale, che nella realtà sono semprepiù spesso vittime invece che autori di violenza,quanto di un tentativo di strumentalizzare leloro famiglie, che continuano a essere illuse dallasuggestione dell’intervento risolutore, capace disciogliere d’incanto il carico dell’assistenza almalato attraverso un’espulsione dello stesso dal-l’ambiente domestico. Gioco irresponsabile – acui per fortuna non presta fede la quasi totalitàdelle associazioni dei familiari del nostro paese –perché criminalizza gli utenti e schiaccia i fami-liari stessi sotto indicibili sensi di colpa dietro ilpretesto di una loro salvaguardia5.

Il disegno di legge Ciccioli riscrive con qual-che astuzia assunti già visti all’opera in preceden-ti proposte di revisione apparse negli ultimianni, seguendo un identico copione, fatto di fu-rore ideologico contro il consenso culturale «disinistra» attribuito alla 180 e di misconoscimen-to di tutte quelle pratiche di cura che funziona-no bene nel nostro paese6. Il canto delle sireneche cerca di ammaliare l’opinione pubblica èsempre lo stesso: ci vogliono più procedure dicontrollo del malato, cioè unità ospedaliere «adalta protezione», comunità accreditate per lalungodegenza e trattamenti sanitari più restritti-vi e più lunghi, perché la malattia è obnubila-mento della coscienza, incapacità di giudizio e discelta, comportamento inadeguato e pericoloso,cronicità e carico assistenziale.

Se è vero che tale visione è stata purtroppo fa-vorita dalla crescita disomogenea e dall’inadegua-tezza della rete dei servizi di salute mentale in Ita-lia, soprattutto in regioni che si sono rese respon-sabili di disastri organizzativi e gestionali e spre-co di denaro pubblico, tuttavia oggi si sa – grazieanche al percorso di deistituzionalizzazione sug-gellato dalla 180 – quali sono le buone pratichenel campo della salute mentale, quali servizi pos-sono essere costruiti e quali errori devono essere

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Tacciano le sireneUn’analisi della proposta di legge Ciccioli

Mario Colucci

evitati: ad esempio, garantire una risposta solleci-ta e qualificata nel territorio, non significa piega-re la logica della cura a un modello emergenziale,né potenziare un SPDC, con le sue consuete vio-lenze istituzionali di reclusione e contenzione, néallestire équipe mobili «castigamatti»7 o stabilireper legge il tempo di un intervento8.

Il problema sta a monte, nell’incapacità ditroppi tecnici e amministratori di uscire dalla

cultura ospedaliera e di concepire un modelloterritoriale di salute mentale che possa cambiarele pratiche misere di Centri di Salute Mentale fa-tiscenti, aperti poche ore al giorno, prevalente-mente ambulatoriali, ad alto tasso di medicalizza-zione e con una «cronica allergia» sia al lavoro do-miciliare che all’integrazione sociosanitaria. Biso-gna puntare sulla capacità di accogliere e di ri-spondere con continuità ai bisogni quotidianidella persona e della sua famiglia in Centri di Sa-lute Mentale aperti possibilmente nell’arco delleventiquattro ore: servizi di prossimità, resi traspa-renti e a bassa soglia, proattivi, ad alta mobilitàterritoriale, con una conoscenza dettagliata dellacomunità di appartenenza e integrati a rete con lealtre realtà socio-assistenziali che vi lavorano.Non si tratta di utopia, ma di realtà già attive nelnostro paese che permettono di affrontare e dismontare, giorno per giorno, la crisi nel contestodi vita della persona sofferente, di contrastare lacronicizzazione e di porre le basi per un percorsodi ripresa e spesso di guarigione: esperienze inno-vative e disseminate, già riconosciute a livello in-ternazionale, spesso in sofferenza ma vitali, chenon si meritano certo né ulteriori ritardi nellapiena applicazione della 180, né l’ennesima avvi-lente proposta di revisione legislativa.

1. T. Howell-R.J. Diamond-D. Wikler, Is there a case for vol-untary commitment?, in Contemporary issues in bioethics, acura di T.L. Beauchamp e R.L. Walters, Belmont, Wad-sworth Publishing Company, 19822, pp. 163-168. 2. Il testo unificato del Disegno di Legge Disposizioni in ma-teria di assistenza psichiatrica, è stato approvato dalla Com-missione Igiene e Sanità della Camera il 17 maggio 2012. Adesso si riferiscono gli articoli di legge citati.3. Per questo motivo tale disegno di legge non ha niente ache vedere con l’interessante proposta di «testamento psi-chiatrico» quale quella avanzata dalla Rete Regionale Tosca-na Utenti Salute Mentale che promuove percorsi di autono-mia ed emancipazione per gli utenti favorendo il protagoni-smo e l’empowerment. In tale proposta la dialettica delle po-sizioni nel rapporto fra utenti e operatori è proprio il fruttodi una negoziazione, nella quale la volontà dell’utente è fon-damentale per misurare l’azione dell’operatore e tutelare ade-guatamente i propri diritti: questo potrebbe avvenire ancheattraverso la nomina di fiduciari che rappresentino degli in-termediari preziosi nel momento della crisi della persona, ca-paci di impedire interventi sanitari inadeguati (come le tera-pie elettroconvulsivanti) e di fornire sostegno personalizzatoall’utente in caso di TSO. Si rinvia al sito www.rete-toscanausm.org.4. Daniele Piccione, Dottore di ricerca in Teoria dello Statoe Istituzioni politiche comparate presso l’Università «La Sa-pienza» di Roma e Consigliere parlamentare del Senato dellaRepubblica, avanza forti riserve sotto il profilo della legitti-mità costituzionale nei confronti del presente disegno dilegge. Cfr. sito del Forum Salute Mentale (http://www.news-forumsalutementale.it/brevi-note-di-un-costituzionalista-sul-ddl-ciccioli/). Cfr. anche P. Dell’Acqua in «Fogli d’infor-mazione», XXXIX, 218, luglio-dicembre 2010. 5. «Nei casi in cui la convivenza con la persona affetta da di-sturbi mentali comporta rischi per l’incolumità fisica dellapersona stessa o dei suoi familiari, il dipartimento di salutementale, in collaborazione con i servizi sociali del comune diresidenza del malato, trova una soluzione residenziale idoneaalle esigenze della persona nell’ambito degli alloggi di edili-zia residenziale pubblica» (art. 10).6. Si fa riferimento fra gli altri ai DDL del deputato BuraniProcaccini (n. 174 del 2001), dei senatori Carrara, Bianconie Colli (n. 348 del 2008) e del deputato Guzzanti (n. 1423del 2008).7. «Le regioni e le province autonome istituiscono, inoltre,équipe mobili per le aree metropolitane, nonché per inter-venti urgenti, garantiti ventiquattro ore su ventiquattro, a li-vello territoriale e domiciliare» (art. 3).8. Si veda l’art. 8, sull’obbligo del medico psichiatra del ser-vizio pubblico di recarsi al domicilio del paziente entro cin-que giorni dalla segnalazione.

Roberto Barni. Solidali, 2006

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Era il 1979 quando Olcese, parla-mentare repubblicano, presentò ilprimo disegno di modifica dellaLegge 180. Non era passato nean-che un anno, da quel 13 maggio

1978. Il 5 settembre di quell’anno «la Repubbli-ca» pubblicò in prima pagina un lungo commen-to di Franco Basaglia: Il fascino discreto del mani-comio. Da allora sono passati trentatre anni; du-rante i quali si sono avvicendate circa cinquantaproposte di modifica della Legge. Abbiamo do-vuto avere la pazienza di leggerle: nelle premessetutte elogiano il valore della svolta che si è consu-mata nel nostro paese, ma poi si smentiscononegli articoli che seguono. Tutte le proposte au-spicherebbero in sostanza un altrove distante peri matti e un potere assoluto per lo psichiatra: untrattamento della malattia mentale ancora più ar-caico della Legge n. 36 del 1904, che la 180mandò in soffitta.

Ma il Disegno di legge di Ciccioli ha supera-to tutti gli altri in spudoratezza: dispositivi perprolungare all’infinito la sottrazione di libertà,cancellazione di soggettività, di storia, d’identità.La vita delle persone con disturbo mentale vieneprivata di ogni significato, nella convinzione chela malattia stia nel cervello. Le recenti e innovati-ve scoperte delle neuroscienze e della geneticanelle mani degli psichiatri, una sorta di psichia-trizzazione delle conoscenze ad uso dei profittigià ingentissimi dell’industria del farmaco, sem-brano sostenere ormai oltre ogni ragionevoledubbio il paradigma biologico. Una pericolosaderiva eugenetica!

Non riesco a entusiasmarmi alla «campagna»di difesa della 180. So bene quanto tutto il «po-polo» della salute mentale sia stato letteralmenteterrorizzato dalla discussione della commissioneparlamentare intorno all’infelice proposta Cic-cioli. E quanto la partecipazione delle personeche vivono l’esperienza del disturbo mentaleabbia completamente trasformato in una dimen-sione di impensabile futuro il dibattito intornoalla «questione psichiatrica».

Eleonora, una giovane donna di Perugia cheha vissuto e sta vivendo l’esperienza, scrive alForum Salute Mentale raccontando del suo rab-berciato percorso di cura, del rischio quotidianodi perdere la sua identità e la sua storia. Denun-cia sconnessioni, attese, distanze. S’interrogasulla natura della cura. Alla fine, sconsolata, sichiede: a trent’anni dalla chiusura dei manicomi,cos’è cambiato?

Si è concluso da poco il processo per la morte(l’assassinio) di Giuseppe Casu. Come pochi ri-cordano, il sessantenne fruttivendolo di QuartuSant’Elena, marito e padre di 5 figli, muore nelgiugno 2006 dopo sette giorni legato al letto nelServizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Ca-gliari. Il processo è durato circa sei anni. I fattimessi in evidenza sono agghiaccianti. Tutti i sani-tari coinvolti sono stati assolti. È in corso al Tri-bunale di Vallo della Lucania, Salerno, il proces-so contro medici e infermieri di quell’ospedaleche, secondo l’accusa, concorsero alla morte (al-l’assassinio) del maestro sessantenne FrancescoMastrogiovanni. La morte avvenne dopo quattrogiorni di contenzione, disattenzione, malnutri-zione, disidratazione, abusi farmacologici.

Pochissimi sanno di queste storie. Non fosseper l’impegno delle associazioni di utenti familia-ri e cittadini, non se ne saprebbe nulla. Quelliche sanno spesso preferiscono non parlarne. LaSIP, Società italiana di psichiatria, se parla è perdifendere indignata gli psichiatri sotto accusa.Eppure questi danni e questi rischi, sono pauro-samente estesi.

Ecco, forse per questo la campagna a difesadella 180 non mi entusiasma. Ma guai se la 180non ci fosse! C’è e ritengo che resterà ancora permolto. Il problema non è, come stupidamente si

dice, la sua applicazione «a macchie di leopardo».La 180 rappresenta la riforma più radicalmente ediffusamente realizzata. Il problema è quanto ac-cade in tante volgari e cattive pratiche quotidianedelle psichiatrie del farmaco e della diagnosi. Lacolpa è delle rozze amministrazioni locali. Del si-lenzio di tanti che, peraltro, si dichiarano ostina-ti difensori della 180.

Carlo Falcone, ingegnere napoletano e fratel-lo amoroso di Pietro, che da anni vive l’esperien-za del disturbo mentale, con sua madre Lina ealtri familiari napoletani ha messo in piedi unacooperativa sociale, Arte, musica e caffè. Hannoaperto un ristorante, pasticceria, rosticceria, Sfiz-zicariello al centro di Napoli, dove lavorano unadecina di persone che hanno conosciuto e cono-scono la malattia mentale. In cucina e nel localelavorano anche alcune mamme. Tra servire ai ta-voli, catering e forniture, l’impresa va avantibene. Carlo, la mamma Lina e altri familiari sonodiventati instancabili difensori della 180 che ri-conoscono come la garanzia per i loro «ragazzi» arestare nel contratto sociale. Quando hanno sa-puto che, nella seduta dello scorso 17 maggiodella Commissione Affari Sociali della Camera,era passato (coi voti della Lega e del Pdl) il Dise-gno di legge Ciccioli, hanno deciso di scrivere alPresidente della Repubblica. La risposta del Pre-sidente non si è fatta attendere. Ecco il testo:

Roma 26.7.2012 «Oggetto: Esposto […] in mate-ria di Riforma dell’Assistenza Psichiatrica con laProposta di Legge Disposizioni in materia di Assi-stenza Psichiatrica.Con riferimento all’esposto […] per quanto dicompetenza, si forniscono i seguenti elementi in-formativi. Premesso che la Commissione Affari Sociali dellaCamera dei Deputati nella seduta del 17/5/12 nonha approvato il Disegno di Legge in oggetto, maha solamente deliberato di adottare, quale testobase per il seguito dell’esame, la proposta di testounificata elaborata dall’On.le Carlo Ciccioli, si fapresente che l’intero impianto della proposta diLegge è, di fatto, già normato da Leggi vigenti e gliorientamenti sono già ampiamente indicati daiProgetti Obiettivo e dalle Linee di Indirizzo Na-zionali, nonché da documenti internazionali(OMS e Commissione Europea) sottoscritti dalnostro Paese.Le garanzie oggi offerte dalla nostra legislazione inmerito all’obbligatorietà delle cure sono considera-te, a livello europeo, altamente qualificanti. Intro-durre, quindi, meccanismi che diminuiscono latutela dei diritti dei pazienti e prolungano le dura-te per motivi di sicurezza personale e sociale, ri-schia di farci fare passi indietro.Tutti gli studi, nazionali e internazionali, dimo-strano, in ultimo, che l’efficacia delle cure è diret-tamente proporzionale all’adesione ad esse». Tali dichiarazioni confermano che sarà difficileche la 180 venga manomessa. Il problema è unaltro e di altro bisognerebbe parlare. […]

Tuttavia, il Disegno di legge va conosciuto. Iltesto Ciccioli mette in fila luoghi comuni accat-tivanti (e manipolatori), che alla fine svelano ilvero obiettivo di questo strampalato testo: con-fermare la fragilità dei servizi, rafforzare politichelocali di salute mentale fallimentari, accreditare lepeggiori psichiatrie farmacologiche, delle case dicura, delle residenze senza fine, dei reparti blin-dati dove si muore legati, posti letto che aumen-tano, dovunque, negli ospedali, nelle clinicheuniversitarie, nelle case di cura private (soprattut-to in queste!). I trattamenti riabilitativi devonoessere prolungati di sei mesi in sei mesi obbliga-toriamente, anzi necessariamente, per contenerela cronicità dei malati di mente che non sanno diessere cronici e rifiutano le cure. Nella prescrizio-ne del trattamento sanitario necessario prolungato

risulta coinvolta una ragnatela di soggetti istitu-zionali (sindaco, giudice tutelare, amministratoredi sostegno, dipartimento di salute mentale, psi-chiatra responsabile, familiare, privato sociale eprivato mercantile): la confusione, l’approssima-zione, l’incompetenza diventano parossistiche esvelano il fine: spostare ingenti risorse al privatoper tempi infiniti.

Su questi punti, il sottosegretario Cavalieri hadovuto ricordare alla Commissione che si sta

discutendo di legge di rango primario e che scel-te di politiche sanitarie e di dettagli amministra-tivo-organizzativi spettano alle regioni. Se i parla-mentari guardassero veramente quello che accade,coglierebbero la ricchezza del cambiamento. Po-trebbero valorizzare e comprendere la forza diesperienze che hanno costruito possibilità ina-spettate per migliaia e migliaia di cittadini. Po-trebbero capire che esistono servizi e programmi,semplici nella loro articolazione, per niente co-stosi, ricchi di risultati inimmaginabili. Se i par-lamentari volessero, scoprirebbero che, malgradola persistenza di ostacoli e pregiudizi, la riformaha fatto il suo corso. Le ricerche condotte negliultimi dieci anni dall’Istituto Superiore della Sa-nità sull’assetto dei servizi sembrano confermareclamorosamente il percorso positivo avviato nel’78. Le indicazioni del secondo Progetto Obietti-vo nazionale per la tutela della salute mentalesono state in buona misura realizzate. I Diparti-menti sono diffusi in tutte le regioni. Sono pre-senti 289 servizi ospedalieri per acuti con circa3.000 posti letto. Esistono strutture residenzialiin tutto il territorio nazionale, che ospitano circa20.000 persone. Anche il dato relativo alla pre-senza dei Centri di salute mentale sembra essereconfortante: uno ogni 80.000 abitanti. Coopera-zione sociale e associazioni completano il quadro.Volendo, potrebbero finalmente accertare che iltanto temuto aumento del numero di suicidi,omicidi e violenze di ogni genere che avrebberodovuto seguire la chiusura dei manicomi non si èverificato. Il nostro paese, in ordine a questi even-ti, vanta tassi molto bassi e irrisori se confrontaticon altri paesi che si fondano su sistemi ancoramanicomiali e ancorati alle logiche del controllo,del rischio, della pericolosità.

Guardando veramente, i parlamentari scopri-rebbero insomma differenze di funzionamento edi pratiche tra le diverse regioni, tanto più intol-lerabili quando queste differenze rendono dise-guali i cittadini.

Oggi si possono raccontare molte storie. Sto-rie di persone che, malgrado la severità della loromalattia, mai hanno subito restrizioni e mortifi-cazioni. Hanno potuto attraversare Centri di sa-lute mentale aperti 24 ore e orientati alla guari-gione, capaci di accogliere e accompagnare nelpercorso di ripresa fino a trovare la propria stra-da. Esperienze esemplari e pratiche diffuse intutto il territorio hanno dimostrato che è possibi-le costruire percorsi di ripresa e nuove opportu-nità di partecipazione. Esperienze che privilegia-no il territorio, le reti, la prossimità, la domicilia-rità, contrastando di fatto il rischio dell’abbando-no e del rifiuto, la cronicità e la pericolosità.

La bellezza di quanto accade rende ancorapiù insopportabile la cecità delle psichiatrie edelle accademie, sempre più ferme sul nesso cer-vello-malattia. Davanti agli occhi di tutti le catti-ve pratiche persistono fino all’indecenza, dacchéEleonora a Perugia, il maestro Mastrogiovanni aSalerno e il fruttivendolo Casu a Cagliari gridanola vergogna della loro dolorosa testimonianza.Abbiamo imparato che non esiste nessuno chenon possa essere curato. Che non esiste soggettosenza storia e storie senza persone.

Il Centro di salute mentale aperto 24h, e nonpiù l’ospedale, è la struttura organizzativa forteche orienta la domanda e sostiene il lavoro tera-

peutico-riabilitativo. Molte Regioni hanno avvia-to programmi e investimenti in questa direzione,attivando reti di servizi di salute mentale integra-ti che possano operare sulle 24h, 7 giorni su 7. Lepolitiche della crisi e incomprensibili riassetti or-ganizzativi attentano quotidianamente allo svi-luppo ulteriore dei servizi comunitari territoriali.In molte Regioni, dove generosi Presidenti di-chiarano la loro fedeltà alla Legge 180, accadono«crimini di pace» nel silenzio di un’ovattata quo-tidianità.

Ospedali, cliniche, case di cura e «politichedel farmaco» devono lasciare spazio al territorio,ai progetti personalizzati, all’abitare assistito, allacooperazione sociale. Quanto più il territorio di-venta luogo concreto dell’inclusione e della riabi-litazione tanto più il farmaco, la diagnosi, la ma-lattia assumono diversa visibilità e il sapere psi-chiatrico deve ricollocarsi in questa nuova di-mensione: la malattia non può che essere in rela-zione alla persona. Cos’altro dovrebbe essere laLegge 180, se non questo?

Se i parlamentari (e gli psichiatri, e gli ammi-nistratori e i giornalisti) prestassero più attenzio-ne, scoprirebbero il bisogno di «inventare istitu-zioni» capaci di garantire la permanenza dellepersone nel contratto sociale, fronteggiando il ri-schio della marginalizzazione. Altro che tratta-menti necessari e prolungati!

Basterebbe riflettere sulla parola necessario alposto di obbligatorio. «Obbligatorio» signi-

fica prima di tutto che l’altro esiste. Posso «ob-bligare» qualcuno con un’ordinanza o unanorma quando ho riconosciuto la sua autono-mia e la sua possibilità di rifiuto. La parola èuna tensione alla negoziazione. Obbligare qual-cuno a qualcosa ha a che vedere anche conun’assunzione di responsabilità: un sentirsi ob-bligato nei confronti dell’altro che sto obbligan-do, limitando la sua libertà, invadendo il suospazio intimo e personale. «Necessario» nega in-vece l’esistenza dell’altro. Nega la presenza delsoggetto in ragione di qualcosa che trascende icontesti, le relazioni, le storie, gli individui.Sposta l’attenzione su ciò che si deve ritenere diassoluto bisogno: non c’è trattativa perché la ne-cessità rimanda a un oggetto, a un cervello, allamalattia mentale, che rientra nella naturalità,nell’ineluttabile accadere delle cose.

Necessario è, nella radice del suo significato,«non cedere», difendere una posizione. Necessa-rio attiene alla forza «naturale» che la normalitàdeve esercitare sulla follia, dopo averla ridotta amalattia. Nel rapporto con chi vive l’esperienzadel disturbo mentale non si può cedere: fare onon fare un trattamento significa, per chi eserci-ta il potere, vincere o perdere.

Il malato di mente è un cittadino come tuttigli altri? È un cittadino che può godere a pienotitolo del diritto costituzionale? Del diritto allacura e alla salute nel rispetto della libertà, delladignità e dell’inviolabilità del corpo come recital’articolo 32 della Costituzione?

I malati di mente non sono mai stati cittadi-ni fino a quando in Italia, alla fine degli anni Set-tanta, un manipolo di bravi legislatori capitanatoda Tina Anselmi ha reso per la prima volta i ma-lati di mente cittadini, persone, individui. La tu-tela della soggettività e del diritto alla cura dellapersona che rifiuta assumono assoluta priorità.Questo è il Trattamento Sanitario Obbligatorio.Questa è la Legge 180.

Testo, in parte, tratto da un articolo già pubblicato da «IlSole24ore-Sanità» del 17-23 aprile 2012.

Legge Basaglia, trent’anni di lavoroE i tentativi di delegittimarlo

Peppe Dell’Aquila

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TRAGEDIA GRECA

Solo un dio ci può salvare?Vassilis Vassilikos

L’arte del labirintoManuela Gandini

alla fine portano alla sempre antica catarsi. Èproprio questa catarsi che si aspetta il popologreco, quella che solo un deus ex machina puòportare – anche se i nostri antichi antenati, i tra-gediografi, sono defunti da 2500 anni. Ma ildeus ex machina che ci hanno lasciato in ereditàle loro opere rimane ancora la soluzione cheporta alla salvezza.

P.S. Molti amici stranieri mi rivolgono domandesu Alba Dorata. Come ha fatto la malapianta acrescere? Io rispondo che, nei periodi più diffici-li della nostra storia, c’era sempre un 5% chesvolgeva lo stesso ruolo svolto ora dai baldi gio-vani di Alba Dorata. Nel 1931 c’era l’organizza-zione EEE, che attaccava gli ebrei greci. Duran-te l’occupazione delle potenze dell’Asse, c’eranoi Battaglioni di Sicurezza e il gruppo X. Duran-te la dittatura dei colonnelli avevamo i delatorisenza nome. E ora abbiamo Alba Dorata, che ècresciuta nei quartieri più sensibili grazie alle sue«opere caricatevoli» e all’assenza dello Stato. Se laprendono con i pachistani, i srilankesi, quelliscuri di pelle. L’unica differenza rispetto al KuKlux Klan è che loro dispongono di seggi nelParlamento degli Elleni, nel paese in cui è nata lademocrazia. Involontariamente però svolgonoanche quella funzione di cui parlavo prima, dideus ex machina: risvegliando l’elleno dal letargoin cui era caduto per ben 35 anni di benessere inprestito e di un’apparente agiatezza ad altissimitassi d’interesse.

Traduzione dal greco di Dimitri Deliolanes

ka) si è concentrata ai tori. Notoriamente c’è untoro da monta, o anche un gallo, ogni cento muc-che o galline. Costoro, i grandi capitalisti (perchiamarli col loro vero nome), hanno spostato iloro soldi all’estero, in particolare al paese di Gu-glielmo Tell, altrimenti detto Svizzera. Ignoti de-positanti greci tengono in Svizzera settanta miliar-di di euro: due volte il deficit del paese.

Prima però di arrivare a un accordo tra la Gre-cia e la Svizzera per tassare questi depositi, comeha fatto due anni fa la Germania, lor signorihanno già iniziato a spostare i loro capitali dallaSvizzera verso altri paradisi, magari asiatici. Inquesto modo, se ci saranno ulteriori ritardi nellaconclusione dell’accordo, al prato fiorito svizzerorimarranno solo ortiche e cardi spinosi, che,com’è noto, vanno bolliti per ottenere un decottoche dà grande sollievo alle disfunzioni epatiche ead altri malanni del corpo umano. Ma solo a loro.

Divento mio malgrado ironico perchè soquello che noi tutti sappiamo, cioè che il denaronon ha patria. Ma quando la patria non ha il de-naro necessario per rimanere patria, allora a cheserve la parola «patriota» (a meno che non si rife-risca ai missili Patriot), a che servono la bandiera,l’inno nazionale, la lingua, la Chiesa ortodossad’Oriente e tutto quello che è compreso nella pa-rola «greco»? Arriviamo così a quello che disse ilpoeta premio Nobel Giorgos Seferis: «Hellas vuoldire disgrazia» (hélas in francese, con una sola l).

Ed è veramente questa la situazione in cui citroviamo: nella «disgrazia». Quello che si sentecontinuamente nelle tragedie antiche: ahimè eahinoi! Uccisioni, incesti, stragi, che comunque

C’è un’antichissima espressio-ne greca che rimanda ai re-sponsi di Pizia ed è difficil-mente traducibile. Que-st’espressione suona così: H

kαtαvstαsis epedeinoumevnh βeltiouv-

tαi. Che si potrebbe tradurre: «Più le cose vannomale, meglio vanno». In questa battuta, che sem-bra tratta da un atto unico di Ionesco, c’è la sin-tesi della situazione attuale del mio paese.

Per dirla in altre parole: i tagli a stipendi epensioni sono arrivati al punto estremo, al«muro della vergogna», con la diminuzionedelle indennità, l’aumento di due anni dell’etàpensionabile e con l’invenzione di soluzioni al-ternative a problemi altrimenti insolubili, comequello di evitare la scure sugli stipendi di giudi-ci, generali e poliziotti.

Parallelamente l’Europa ha dato segni di ri-sveglio. In primis con la mossa di Draghi (che sefosse stata fatta, com’era giusto, due anni fa, orale cose sarebbero molto diverse) e secondaria-mente domando la bisbetica frau Merkel. Per ilmomento, questa svolta al timone della BCEnon porterà alla Grecia i vantaggi immediatidell’Italia e della Spagna. Ma l’onda lunga giàpartita dagli altri paesi mediterranei arriverà traun paio d’anni anche nelle nostre spiagge. Que-sta è una prospettiva che crea quell’ottimismofinora mancato.

Nel nostro paese, ora che le mucche nonhanno più latte da offrire al mungitore/esattore,l’attenzione dei veterinari incaricati della salvezzadel paese (cioè i nostri creditori attraverso la troi-

Matteo Fraterno, con In-differenziati Atene2012, ha filmato i percorsi dei cingalesi che raccol-gono dai cassonetti tutto il materiale possibile dariciclare, per 15 euro al giorno. Rame, ferro, allu-minio, cartone. Riempiono ciascuno il propriocarrello da supermercato e, in coppia per non esse-re aggrediti, percorrono la città secondo una topo-nomastica precisa. Alla fine, tutti convogliano aOrfeo, la strada di un ex quartiere industriale chetrabocca di criminalità. Questa non è un’opera didenuncia ma di indagine, è un flash su un organi-smo urbano pieno di metastasi, è una ricognizionedelle forme nascenti di microeconomia. In questeesperienze di attivismo artistico tutto si rende piùevidente: il piccolo contrapposto al grande, il pub-blico al privato, lo straniero all’autoctono. Se dauna parte è in corso una violenta repressione per-petrata dai nuovi poteri, che mira a distruggere le-gami e relazioni tra parti della popolazione; dall’al-tra, sul piano comunitario, vi è un tentativo di ri-fertilizzazione dell’umanità, di riscoperta delladignità esistenziale e di ripartenza da forme di con-divisione e di conoscenza del territorio. Ma i rap-porti sono estremizzati e il terreno è tremenda-mente pericoloso. Le manifestazioni sino a qual-che mese fa avevano una natura eterogenea einclusiva, mentre oggi – con il processo di fram-mentazione sociale in atto – il movimento si com-pone piuttosto di minoranze compattate. Gay,emigrati, disoccupati si accorpano per far frontealle violente aggressioni cui sono sottoposte. Lavulnerabilità della situazione non consente alcunaconclusione. Atene è un campo di battaglia in unaparvenza di quotidiana normalità dove, mentrestai bevendo un caffè al bar, ti può arrivare improv-visamente una scarica di pugni.

pluripiano abbandonato, sequestrato dalle bancheprima che ne venisse ultimata la costruzione, Maryha trascorso mesi per ricostruire l’allegoria dellacontemporaneità, tra carne morta (il muso di untoro legato come un salame) e l’acqua putrescentedel tetto che affaccia sul Partenone. Perché siamoarrivati sin qui? Quali sono stati gli errori, le causeche ci hanno ridotti così? «La crisi greca – affermaZygouri – ha generato la sensazione claustrofobicadi vivere con qualcosa che è già morto. Bullmarketinterpreta il presente alla luce della mitologia grecadel labirinto, del toro, della matassa, dove il toro è aun tempo il divoratore della crisi e il simbolo del-l’energia economica, sociale e culturale perduta.Questa simbiosi con un cadavere agisce come unoshock che induce a una reazione collettiva, l’estre-ma natura dell’attuale situazione socio finanziarianel paese, dissolve il senso di ciò che è reale rimpiaz-zandolo con un senso di intrappolamento».

Le opere non si espongono quasi più, ci sonopoche gallerie attive. L’arte è sparsa orizzontal-

mente nelle strade e negli edifici occupati, ha unafunzione immediata, estrema, è la lingua condivisadella sopravvivenza e della lotta, lontana anni lucedall’High Art del sistema finanziario. È minimali-smo portato all’eccesso che coinvolge tutti e parladel presente con un linguaggio minuto, spicciolocome le vite che si spendono nei quartieri. Breakingthe borders (walking through the historical center ofAthens) è un film realizzato da Nomadic Architec-ture sulla città. Atene è ripresa a frammenti, assem-blata e ricomposta ed è portatrice di storie. Storie disolidarietà, di sostegno agli immigrati, di musicagreca, di cene alle quali chiunque può partecipare eportare una carota, un sedano, dei pomodori, met-tendo insieme le piccole risorse di tutti.

grande creditore universale, sono tutti debitori,colpevoli e responsabili».

Un’ondata di nefasto nazionalismo, che esaltala famiglia e la normalità, s’è abbattuta sulla socie-tà greca. I militanti di Alba Dorata, ragazzoni pale-strati, organizzano ronde per aggredire gli extraco-munitari e, nei bar di Metaxurghio frequentati dagay, minacciano epurazioni. In alcune stazionidella Croce rossa sono esposti cartelli con scritto:«sangue di greci per i greci». Ai musulmani, in al-cune mense ecclesiastiche, viene negato il cibo.Durante le ultime manifestazioni, gli esponenti diAlba Dorata erano al fianco della polizia per aiu-tarli nelle cariche. Intanto, il comune di Atene, inun’operazione di pulizia urbana, ha chiuso il giar-dino autogestito di via Asomaton, coltivato da ar-tisti e da abitanti del quartiere per sfamarsi, sradi-cando gli alberi e murandolo. La stessa dinamica siè ripetuta in altri orti urbani. «Ma noi non ci fer-miamo, – afferma Eleni Tzirtzilaki del NetworkNomadic Architecture – pensiamo di continuarecon altri terreni e altri giardini autogestiti in cen-tro». Gli edifici abbandonati, i vuoti, i luoghi di ri-sulta, sono terreno di resistenza. I collettivi stannomappando la città, penetrando nei nuovi scenariurbanistici, studiando le trasformazioni in corso.

«Nell’esperienza greca – scrive Kostis Stafyla-kis – stiamo attivando forme di protesta collettiva,autorganizzazione e partecipazione. Modi di vitaalternativi, l’alternativa anticonsumista, l’exit versouna vita rurale». Ma per far ciò è necessario percor-rere il labirinto, l’interno, il buio, attraverso mostriintimi e mostri pubblici. È per questo che MaryZygouri ha girato Bullmarket, un video introspetti-vo che ci scaraventa nelle viscere della crisi con evi-dente riferimento al toro di Wall Street e al Mito. Ilsuo viaggio è una strada senza uscita. In un garage

L’entusiasmo critico della scorsaprimavera, generato dalla reattivi-tà degli artisti greci alle insosteni-bili condizioni imposte dalla troi-ka, è sceso come un sipario, come

un uccello abbattuto. Al bar Smile, nei pressi del-l’Acropoli, arrivano un po’ di artisti. Chi ha mani-festato mesi in piazza Syntagma, chi dallo scorsonovembre occupa il teatro Empros e chi ha giratola città filmando luoghi, persone, pozzanghere,negozi vuoti. Si discute, si fuma, si beve caffè. Iracconti si susseguono, però si parla al passato, co-me se i progetti di prima dell’estate fossero conge-lati, finiti. Come se, ai tentativi di coesione e au-torganizzazione di artisti, architetti, registi, emi-grati, disoccupati, indignati, fosse seguita unaparcellizzazione, una separazione forzata volutadal governo per disperdere le energie che si stava-no costituendo dal basso. Da quando Alba Dora-ta è in parlamento, da quando cioè le forze xeno-fobe neofasciste sono legittimate e godono di cre-dibilità, il clima già cupo degli scorsi mesi è saturodi angoscia, depressione, paura. «Siamo in preda aun panico morale. La parola che circola con mag-gior frequenza qui ad Atene è asfalia, insicurezza»,afferma Mary Zygouri. C’è immobilità e impo-tenza, ma c’è anche chi continua a parlare di uto-pia, di micro-utopie da realizzare nell’immediato,di utopie del quotidiano, di azioni comunitariecontro l’immiserimento fisico e psicologico dellemoltitudini a vantaggio della malvagia oligarchiatransnazionale. I componenti finanziari di quel-l’Unione europea a cui è stato conferito il Nobelper la Pace!

«Di fronte al capitale – scrive Maurizio Lazza-rato nel suo libro La fabbrica dell’uomo indebitato,DeriveApprodi 2012 – che si presenta come il

Roberti Barni. Orizzontale verticale, 1973

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TRAGEDIA GRECA alfabeta2.24

Lo spettro di WeimarDimitri Deliolanes

Tradendo gli impegni elettorali, Samaras avevapreparato un pacchetto di nuove misure di au-sterità, le «ultime», ha assicurato, per complessi-vi 11,9 miliardi. Questa volta sono presi di miragli impiegati pubblici (abolizione di tredicesimee quattordicesime, blocco totale del turn over).Ma alla troika tutto questo non basta. Vuole li-cenziamenti in massa (150 mila entro il 2015),riduzione di quello che rimane dello stato socia-le e un nuovo abbattimento del costo di lavoro,anche nel settore privato. Una mina sotto i piedidel governo greco. Non solo e non tanto per imal di pancia degli alleati di governo, quantoper l’insostenibilità del fronte sociale, già ingrandissima ebollizione. Basta dire che NuovaDemocrazia ha perso i suoi sindacalisti a settem-bre, mentre da quasi un anno il Pasok ha vistotutte le sue organizzazioni sindacali e giovanilipassare in massa a Syriza. Chi potrà contenere ilvulcano che scoppia?

L’ultima carta rimasta in mano a Samaras èquella espressa in termini espliciti durante la visi-ta della Merkel ad Atene il 9 ottobre. Ci vuole unintervento politico della leadership europea. Farein modo che il nuovo vento che (timidamente)ha cominciato a soffiare a Bruxelles, trovi corri-spondenza nella politica della troika verso la Gre-cia. Non è possibile incassare continue assicura-zioni sulla volontà di garantire la permanenzadella Grecia nell’eurozona e poi lasciare liberi i trecontrollori del Fmi, della Bce e della Commissio-ne a destabilizzare il paese. Bisogna contenere itagli, concedere almeno due anni per l’adegua-mento a tassi «tedeschi» e finalmente cominciarea parlare di sviluppo. Altrimenti c’è il caos.

Il sospetto è che la «denuncia» preconizzata agiugno da Tsipras non fosse in fondo una cosamolto differente da quello che sta facendo oraSamaras. Ma da posizioni arretrate, deludendo isuoi elettori, con un partito tuttora tentato dapratiche clientelari e con una credibilità semprein bilico. Forse a Bruxelles e a Berlino qualcunodovrà cominciare a lasciare da parte i vecchi pre-giudizi e ascoltare con più attenzione quello chedice la Sinistra radicale greca.

daggi, la terza forza politica del paese e le suepercentuali sono in crescita».

Samaras ha ragione. I neonazisti di Alba Do-rata hanno sfruttato il loro insperato ingresso inParlamento per scatenare in tutto il paese un’on-data impressionante di aggressioni squadriste erazziste. I seguaci del «duce» Michaloliakos ac-quistano sempre maggiori consensi dando unarisposta alla richiesta di ordine.

Già prima dello scoppio della crisi, infatti, ivari governi socialisti e conservatori aveva-

no permesso che regnasse nel paese un clima dif-fuso di anomia, di indifferenza verso la legge,che favoriva la corruzione e le clientele. A questosi è aggiunta una posizione del tutto ideologica eslegata dalla realtà della sinistra verso il graveproblema dell’immigrazione. Non tutti sannoche dal confine, terrestre ma soprattutto maritti-mo, della Grecia con la Turchia passa, secondo laCommissione Europea, circa l’80% degli immi-grati clandestini diretti in Europa. Ora questimilioni di povera gente si trovano intrappolati inun paese immiserito, le cui risorse bastano appe-na per i suoi cittadini. Molti immigrati, special-mente quelli balcanici, si sono pienamente inte-grati. Altri però sono alla fine costretti a relazio-narsi coi fuorilegge greci e a scatenare un’impres-sionante ondata di criminalità.

La polizia non è in grado di affrontare que-sta sfida. Grazie ai tagli imposti dalla troika, leforze dell’ordine sono numericamente insuffi-cienti, malpagate e senza mezzi. I cittadini, spe-cialmente al centro della capitale, si sentono ab-bandonati a se stessi. E si rivolgono alle «milizie»di Alba Dorata.

Ma le squadracce non sono l’unico problema.Il giorno prima dell’intervista, circa 300 manife-stanti del cantiere navale Skaramangas, senza sti-pendio da mesi, hanno invaso il ministero dellaDifesa e lo hanno occupato per circa tre ore.Senza incontrare resistenza. Uno shock per unpaese con seri problemi di sicurezza con la vicinaTurchia, e che spende miliardi per gli armamenti.

Il premier ha potuto quindi toccare conmano il pericolo di un’esplosione di rabbia po-polare, cieca e distruttiva. Fino alle elezioni soloTsipras metteva in guardia verso i limiti di resi-stenza della società.

Come se non bastasse, la famosa rinegozia-zione ha mostrato la corda fin dalle prime battu-te. La troika non solo non ha voluto sentirneparlare, ma ha anche alzato la posta in gioco.

Sono passati un bel po’ di mesi dalleelezioni greche di giugno. Come si ri-corderà, alla fine furono vinte –anche grazie alla massiccia campagnaallarmistica condotta da esponenti di

primo piano della Commissione Europea e daigrandi media europei – da Nuova Democrazia, ilpartito di centrodestra di Antonis Samaras. Allo-ra si scontrarono due tesi, ambedue fondate sullacomune constatazione che la politica di «svaluta-zione interna» imposta dalla troika fin dal 2010,era stata un totale disastro non solo sul pianostrettamente economico, ma aveva provocatoconseguenze gravissime sul anche piano sociale.

Per la Sinistra Radicale Syriza di Alexis Tsi-pras, tale politica economica andava «denuncia-ta». Il che, in termini politici, significava unacosa semplice a dirsi ma difficile a farsi: convin-cere i creditori della Grecia e i partner europeiche era necessario un radicale cambio di rotta.Bisognava puntare sullo sviluppo più che sul-l’austerità. Se questo cambio non fosse avvenuto,diceva Syriza, allora la Grecia avrebbe inevitabil-mente fatto default, provocando danni inimma-ginabili a tutta l’eurozona.

Lo schieramento moderato portava avantiun’altra proposta: rinegoziare da capo tutta lapolitica della troika, senza provocare rotture edevitando di evocare il default, ma conservandogli «elementi positivi» come, ad esempio, le pri-vatizzazioni. Su questa base si è raggiuntoanche il successivo accordo di governo traNuova Democrazia e i socialisti del Pasok diEvangelos Venizelos e la Sinistra Democraticadi Fotis Kouvelis.

Ora, a distanza di pochi mesi, quel dilemmaelettorale si ripresenta di nuovo. E il paradosso èche è stato proprio il premier di centrodestra ariproporlo. In un’intervista al giornale tedesco«Handelsblatt» del 5 ottobre, Samaras ha evoca-to lo spettro della Repubblica di Weimar e il ri-schio di una disgregazione del tessuto sociale,che sfoci verso soluzioni di tipo fascista: «La de-mocrazia greca si trova di fronte a una delle sfidepiù critiche, che riguarda la nostra coesione so-ciale – ha detto –. Questa è minacciata dalla di-soccupazione, come è successo con la Repubbli-ca di Weimar. Tutta la società si trova in perico-lo a causa dei populisti di sinistra e di una cosaassolutamente inedita nel nostro paese: l’emer-gere di un partito di estrema destra che si po-trebbe anche definire di tipo fascista e neonazi-sta. Questo partito neonazista è, secondo i son-

Da quasi tre anni la Grecia vive sotto ilpeso asfissiante della crisi economica.Lentamente ma inesorabilmente la

crisi ha colpito anche l’editoria, sebbene igrandi editori avessero affrontato le prime av-visaglie di tempesta con sangue freddo.

In tutti questi mesi abbiamo avuto la chiu-sura di una grande e storica casa editrice, «El-linika Grammata», in contemporanea con lagrande catena francese FNAC, che era sbar-cata nel nostro paese con grandi aspettative.Altre due grandi catene di librerie affrontanoda tempo difficoltà nei loro rapporti con glieditori e i loro scaffali sono letteralmentevuoti. Uno spettacolo sorprendente maanche desolante per gli amici del libro. Altre li-brerie, di pari dimensioni, riempiono gli scaf-fali con oggetti da regalo e gadget vari. Nellostesso tempo, anche in Grecia, come in tuttoil mondo, cresce costantemente il mercato

dell’ebook e la vendita via Internet, che è ar-rivata a pareggiare, e talvolta anche a supera-re, le vendite in libreria.

Ovviamente, durante gli anni 2011 e 2012anche la produzione editoriale ha subito unaforte riduzione. Non vengono più pubblicatitanti libri come negli anni 2007 e 2008. Nonè che gli scrittori abbiano smesso di scrivere,al contrario: tutti i seminari di scrittura creati-va sono sold out. Si vede che il prestigio del-l’etichetta di scrittore è arrivato alle stelle eraggiunge livelli che superano anche l’attualeprezzo dell’oro. Sono gli editori che cercanodi evitare il fallimento e limitano la loro produ-zione. Empiricamente, direi che è scesa a piùdella metà. Se uno considera però la produ-zione editoriale dell’anno 2008 comprendeche allora eravamo agli stessi livelli di paesicome la Germania, con una popolazione ottovolte maggiore e un numero molto più alto di

lettori. In poche parole, in Grecia c’è stato unelemento di esagerazione anche in questocampo.

Oltre al calo dei titoli prodotti e la drasticalimitazione degli stock librari (purtroppo nelnostro paese gli stock di magazzino sonosoggetti a imposte e questo comporta la rapi-da riduzione di migliaia di libri in carta ricicla-ta), gli editori hanno anche ridotto il persona-le, gli stipendi e non sono pochi i casi di im-piegati rimasti da mesi senza stipendio.Gente che lavora gratis pur di mantenere invita la casa editrice e preservare il proprioposto di lavoro. Dai tagli non è uscito incolu-me neanche l’ultima ruota del carro, lo scrit-tore, (che, è utile ripeterlo, è quello che scri-ve il libro e produce il prodotto dal nulla) e lasua percentuale parte già in negativo (cioèpaga per veder pubblicato il suo libro) per ar-rivare al 10-15% e in rari casi al 20%. Anche

queste già misere percentuali sono state ri-dotte. Oppure, quando non ci sono stati ritoc-chi, in un impeto di arroganza, gli editorihanno riformulato in peggio le altre clausoledel contratto, come la sua durata oppure lacondizione di versare i diritti solo dopo il saldoda parte delle librerie.

In questo modo l’unica arma in mano alloscrittore, cioè il libro stesso, fatalmente si ri-volgerà verso altre forme di realizzazione,come le case editrici minori, specializzate inedizioni autoprodotte o distribuite in proprio,oppure nella distribuzione diretta del prodottoattraverso il web, per esempio attraversoAmazon.

Il libro è troppo tosto per morire. Finché cisaranno bibliofili che ogni sera trovano la gioiae il coraggio di continuare la lotta per la vitaimmergendosi tra le pagine di un libro, alloraci sarà sempre speranza.

Crisi economica e editoriaDimitris Mamaloukas

Roberto Barni. Colonna bisbetica, 2008

TRAGEDIA GRECAalfabeta2.24

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La crisi siamo noiBeni comuni e lotte sociali in Grecia

Haris Tsavdaroglou

miglia mediterranea sostiene le giovani coppie eche molte relazioni tendono, o almeno ci prova-no, a restare fuori dalla circolazione del capitale,ma allo stesso tempo è vero che la percentuale dilavoro nero tra gli immigrati e quella del lavoroprecario tra i giovani continua a crescere. Secondol’analisi marxiana, il punto chiave nel circuito delcapitale è che l’unica merce in grado di generareplusvalore è la forza-lavoro. Perciò valore e plusva-lore vengono prodotti attraverso il processo lavo-rativo e non nel processo di scambio, o nel furtodell’accumulazione originaria. In tal modo, al-l’interno del paradigma della crisi greca, possiamosupporre che il rapporto capitalistico abbia la ten-denza a modificare la situazione antecedente at-traverso nuovi sistemi di enclosures, e attraverso lapermanenza dell’accumulazione originaria, ovve-ro attraverso espropriazioni, furti e tagli.

L’obiettivo di questi processi è quello di toglie-re all’uomo i propri mezzi di sussistenza, e

renderlo dipendente dal lavoro salariato. A soste-gno di questa tesi, basti mettere a confronto il tas-so di occupazione con quello dei proprietari diimmobili nei vari paesi dell’Unione Europea. Neipaesi in cui il tasso di occupazione è basso la per-centuale dei proprietari di immobili è alta, e vice-versa. Ad esempio, secondo l’Eurostat, nel 2009in Germania la percentuale dei proprietari di im-mobili era del 46% e il tasso di occupazione rag-giungeva il 72,5%, mentre nello stesso anno, inpaesi del Mediterraneo come Spagna, Italia, Gre-cia e Portogallo, la percentuale dei proprietari diimmobili superava il 73% mentre il tasso di occu-pazione era inferiore al 60%. Come se non bastas-se, per aumentare la competitività dei paesi del-l’Unione, la Commissione Europea ha postol’obiettivo di far aumentare il tasso di occupazio-ne di tutti i paesi membri fino al 75% entro il2020, percentuale che si può ben supporre potràessere raggiunta soltanto attraverso processi per-manenti di accumulazione originaria.

Poiché «la crisi siamo noi», direi che l’ultima,grande questione su cui dovremmo interrogarci ècome possiamo sopravvivere e riprodurci fuoridalla teoria del valore e dal processo lavorativo. Einoltre: queste iniziative fondate sull’auto-orga-nizzazione, queste nuove composizioni sociali,collettive e alternative, possono essere consideratedelle nuove forme di bene comune e «micro-co-munismo», in grado di porsi al di fuori della circo-lazione del capitale? O la cattura di queste nuovestrutture è il terreno propizio per nuove «recinzio-ni» e il principale motore per una nuova e più vio-lenta circolazione del capitale?

Inoltre, come sapranno difendersi questi mi-cro-comunismi, senza dover creare sistemi dicommoning chiusi, in materia di razza, sesso e clas-se? Dal punto di vista dell’emancipazione sociale,ritengo che ciò che dobbiamo fare in Grecia siaelaborare ed esaminare più a fondo l’articolazionedella triade: capitale, lotte e beni comuni.

Per finire concludo, in linea con il pensiero dide Angelis, che «il capitale genera se stesso attra-verso enclosures, mentre i soggetti in lotta genera-no loro stessi attraverso i beni comuni. Quindi “ri-voluzione” non significa lottare per i beni comu-ni, ma attraverso i beni comuni, non per la dignità,ma attraverso la dignità».

La distinzione tra lotta per e lotta attraverso ibeni comuni è di cruciale importanza per il buonesito delle lotte. Perché i beni comuni siano partedi questa forma emergente di comunismo, do-vrebbero sempre fare generare delle lotte. In altreparole, i cittadini dovrebbero trovare dei modicollettivi di esaminare, contestare, aderire, lotta-re, insorgere e ribellarsi contro ogni eteronomiache tenti di appropriarsi dei beni comuni.

Traduzione dall’inglese di Maddalena Bordin

mentali sul piano pratico: la prima è la riduzionedrastica, del 40% circa, dei salari, delle pensioni,dei fondi all’educazione e al sistema sanitario; alcontempo, nuove recinzioni si sono insediate an-che in campo ambientale e in quello dei cosiddet-ti «beni pubblici»: come la privatizzazione, lasvendita e la mercificazione di infrastrutture pub-bliche, ospedali, università, proprietà pubbliche;la terza conseguenza è stata l’aumento, dal 30%fino al 50%, delle tasse sui trasporti, gas, benzina,acqua, elettricità, e sugli immobili.

C’è poi la beffa di tasse come l’haratsi (termi-ne di derivazione ottomana che significa testatico,meglio noto come Poll Tax), applicata sulla bollet-ta della corrente elettrica, già di per sé sottopostaad aumento; in tal modo, se questa tassa non vie-ne pagata, si procede al taglio della corrente, an-che se l’importo riguardante la corrente elettrica èstato saldato!

Ma soprattutto le tasse sugli immobili hannocostretto sempre più persone a vendere la propriacasa ed emigrare per riuscire a trovare un lavoro emantenersi. In Grecia, la disoccupazione è au-mentata dal 7% nel 2010 al 23% nel 2012, cosache ha spinto molti greci a emigrare verso il NordEuropa, il Medio Oriente e l’Australia. Tutti que-sti fattori indicano la permanenza di un tipicoprocesso di accumulazione primitiva, ossia diquel processo ininterrotto che separa l’uomo daimezzi di produzione, riproduzione e sussistenza,così da costringerlo a diventare un lavoratore su-bordinato, instaurando in tal modo il rapportocapitalistico.

Secondo il pensiero di autori come Caffentzis,Federici, De Angelis, Bonefeld, Holloway e altri,l’accumulazione originaria non è un semplice fe-nomeno circoscritto all’epoca precapitalistica, maun tratto costante del capitalismo, o meglio anco-ra, è la condizione e il presupposto dell’esistenzadel capitale. In linea con un’impostazione critica eautonoma del marxismo, io credo che la crisi e ilprocesso permanente di accumulazione primitivasiano la risposta capitalistica al precedente ciclo dilotte sociali e politiche, attraverso le quali si è ten-tato o si è riusciti a reimpadronirsi dei propri mez-zi di riproduzione. Di conseguenza, più che di ac-cumulazione del plusvalore, questa crisi andrebbemeglio interpretata come una crisi di disobbe-dienza sociale alla teoria del valore. A legittimarequesta tesi intervengono diversi elementi, come ilfatto che negli ultimi trent’anni, attraverso lottedi vario genere e strategie di commoning, i greci – enon solo – sono riuscito a conquistare alcuni fon-damentali mezzi di sussistenza, come l’istruzionepubblica, la sanità pubblica, una casa, un’auto-mobile, e negli ultimi anni perfino una secondacasa vicino al mare; conservando altresì un deboletasso di occupazione e un alto tasso di proprietàimmobiliare. Inoltre, è ben noto che la tipica fa-

pulci, punti di scambio, di studio individuale ecollettivo. Inoltre, si sono formati organizzazionisindacali di base, reti di disoccupati, reti di immi-grati, collettivi e cooperative come forme alterna-tive di impiego, reti di produttori, forme di auto-organizzazione sociale e agro-alimentare qualiconsultori, asili e mercati alimentari.

Tutte queste forme di organizzazione possonoessere interpretate come articolazioni dei beni co-muni, anche se occorre tenere presente come essestiano nel mezzo fra commoning di «destra» e di«sinistra», nazionalista e multiculturale, omofo-bico e queer, e moltre altre classificazioni createsial loro interno.

Ma dopo questo straordinario periodo diesperimenti di (ri)produzione, di lotte di massa escioperi contro le misure di austerità, il secondosegnale simbolico di polarizzazione socio-politi-ca, nonché di «commoning ibrido», si è avuto con irisultati delle elezioni parlamentari del giugno2012. I partiti di centro-sinistra e della sinistra ra-dicale hanno conquistato più del 35% dei voti, eper la prima volta negli ultimi quarant’anni AlbaDorata, partito di orientamento fascista e neona-zista, ha conquistato il 7% dei consensi, entrandocosì in Parlamento, grazie anche al contributo del50% delle forze dell’ordine che l’ha votato.

La retorica di entrambi gli schieramenti si èconcentrata sul tema della riproduzione sociale,ed entrambe le parti stanno tentando di usurparee manipolare lo sviluppo di nuovi processi di com-moning e relazionali.

D’altra parte, entrambi i gruppi hanno riferi-menti populisti, Syriza (la coalizione delle sini-stre) ha come modello il presidente venezuelanoChávez, mentre Alba Dorata segue il paradigmadel partito palestinese Hamas. La sinistra affermadi voler salvare la Grecia attraverso il ripristino diuna regolamentazione statale a partire da un mo-dello keynesiano, insieme a forme di collabora-zione sociale partecipativa (New Social Deal),mentre la destra fascista dichiara che lotterà per ladeportazione degli immigrati e dei cittadiniLGBT, al fine di garantire la purezza e l’integritàdel popolo greco, e non è un caso che pogrom instile nazista siano già diventati routine, special-mente ad Atene.

Per questo la questione fondamentale non sigioca più soltanto sul terreno della lotta contro loStato e il neoliberismo, ma anche sul modo in cuipossiamo negoziare i diversi processi di commo-ning (la razza, il sesso, la classe sociale) all’internodelle lotte.

Il secondo punto riguarda l’emergere di nuo-ve forme di enclosures (recinzioni), e il processopermanente di accumulazione primitiva. In Gre-cia, i programmi di aggiustamento strutturale e lemisure di austerità adottate nel corso degli ultimidue anni hanno portato a tre conseguenze fonda-

Benché negli ultimi anni il dibattitosui beni comuni sia sempre più dif-fuso tra i militanti e gli studiosi radi-cali, raramente è stato messo in con-nessione all’idea di crisi. Secondo

un’analisi che potremmo far risalire alla tradizio-ne del marxismo critico e autonomo, pensare ilconcetto di bene comune significa tenere a mentetre cose allo stesso tempo: le risorse comuni, la co-munità e il commoning, ossia il «mettere in comu-ne», il mettere in pratica l’idea di bene comune.

I beni comuni non esistono in sé e per sé, mavengono creati in fasi di lotta sociale, e si costitui-scono attraverso un processo sociale di commo-ning. Da questa prospettiva, le risoluzioni e le rea-zioni del capitalismo possono essere interpretatecome una risposta al potere del social commoningdei cittadini. Il capitalismo può sia distorcere checircoscrivere un bene comune, in modo da preser-vare la continuità della cosiddetta accumulazioneprimitiva, la (ri)produzione della merce e del plu-svalore. Seguendo questi criteri, la crisi può essereinterpretata anche come una fase critica per la cir-colazione del capitale rispetto alla circolazionedelle lotte per il controllo dei beni comuni.

Vediamo ora come si articola questo discorsoall’interno del paradigma della crisi in Grecia, at-traverso l’analisi di due pratiche fondamentali chesono state sviluppate negli ultimi due anni.

La prima riguarda il rapporto tra bene comu-ne e polarizzazione socio-politica. In questo pe-riodo di crisi, il commoning, la cooperazione so-ciale e la (ri)produzione sociale sono il nodo cru-ciale dei conflitti politici in Grecia. Come è noto,gli ultimi due anni sono stati caratterizzati dalgraduale tentativo di smantellamento e demoli-zione della classe media e degli assetti del WelfareState. Questo ha portato alla nascita di un grannumero di processi (ri)produttivi e di pratiche le-gate al commoning, sviluppatesi a partire da pro-spettive anche assai diverse fra loro, come il puntodi vista della sinistra radicale e quello anarchico, ilpunto di vista del neoliberismo creativo, quellodella sinistra patriottica, o quello dei fascisti-con-servatori.

La prima massiccia apparizione, anche inchiave simbolica, del carattere plurale del socialcommoning si è avuta nell’estate del 2011 con ilmovimento degli indignados. Syntagma, piazzacentrale di Atene, è stata «il» luogo, ossia il benecomune prescelto dalla comunità degli indigna-dos. La piazza, a ogni modo, è stata suddivisa indue arene: la parte superiore, di fronte al Parla-mento, contraddistinta da slogan patriottici e fa-scisti, sventolii di bandiere greche, inni nazionali-sti, e via dicendo; e la parte inferiore della piazza,occupata dai raggruppamenti democratici di va-rio tipo, come i socialisti, gruppi della sinistra ra-dicale, anarchici, mentre la maggior parte dei ma-nifestanti si spostava da una parte all’altra dellapiazza. La stessa divisione socio-spaziale si è poiripetuta in tutto il resto della Grecia.

I l processo di commoning a cui stiamo assisten-do qui potrebbe essere definito un processo di

«commoning ibrido». Entrambe le zone della piaz-za erano «indignate», auto-organizzate, e lo slo-gan principale di entrambe inneggiava a «bruciareil Parlamento». Il movimento degli indignados èdurato circa due mesi, ed è stato poi represso daun duro e brutale intervento delle forze dell’ordi-ne. Dalla sconfitta di questa occupazione simbo-lica degli indignados sono comunque scaturite di-verse iniziative e movimenti in tutta la Grecia, ilobiettivo è stato anzitutto quello di cercare dellerisposte alla questione fondamentale della ripro-duzione sociale. I raduni si sono via via decentra-ti, spostandosi dalle piazze e ripartendosi in unacinquantina di raduni diversi ad Atene e un centi-naio nel resto della Grecia, dove sono stati orga-nizzati orti e cucine collettive, mercatini delle

Roberto Barni. Vacina, 1995

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Alle spalle di SyrizaKostas Th. Kalfopoulos

Questa egemonia dell’ideologia di sinistra nonha nulla a che fare con l’«egemonia» di cui

parlava Gramsci. Una divisione del lavoro, infor-male ma efficace, prevedeva la gestione istituziona-le dello stato da parte del Pasok, il dominio del Kke,in quanto espressione autentica dell’ideale veterocomunista e, infine, una politica opportunista del-l’area della sinistra più vasta, che di solito venivaschiacciata in termini elettorali e ideologici tra ilPasok e il Kke, vedendo vanificato ogni suo sforzo astrappare percentuali a questi due partiti.

Con la profonda crisi esplosa negli ultimi treanni in Grecia, Syriza ha tratto vantaggi da due fe-nomeni: il crollo del Pasok sotto il peso della sua in-capacità nel gestire efficacemente la crisi per favori-re rapporti clientelari già instaurati, perdendo la di-namica elettorale degli impiegati statali e del ceto

in special modo attraverso l’eurocomunismo ber-lingueriano e i movimenti ambientalisti, subirà uncalo della sua forza elettorale e perderà definitiva-mente la battaglia ideologica. Nel 1989 la Grecia,già membro a pieno titolo dell’Ue, non si ristrut-tura seguendo le indicazioni provenienti dall’Eu-ropa, ma ripiega in una fase di «introspezione»,perdendo tempo prezioso (incassando però im-mancabilmente i fondi europei destinati alla mo-dernizzazione dell’economia, della produzione edei trasporti, dilapidati invece per alimentare i bi-sogni del sistema clientelare) e continuando pervi-cacemente a sprecare risorse e a consumare grandibattaglie elettorali sotto l’insegna ideologica dellaguerra civile (1946-1949): destra reazionaria ver-sus sinistra progressista, sempre rappresentata inprimo luogo dal Pasok.

L’irragionevole successo elettorale diSyriza (Coalizione della Sinistraradicale) alle elezioni greche del 17giugno, e l’emergere di questo par-tito come leader dell’opposizione,

hanno provocato reazioni contrastanti in Grecia eall’estero. Come un atleta che sorprendentementespinge la sua asta così in alto da far segnare al suosalto un nuovo record, così Syriza si trova ora a go-dere compiaciuto di nuove percentuali e nuovi in-carichi, sfruttando il crollo elettorale dei socialistidel Pasok che, da partito istituzionale e governati-vo, per tre decenni al centro di ogni manovra po-litica, si trova ora di fronte allo spettro della disso-luzione. L’aggettivo «radicale», che i media stra-nieri impauriti traducono nel senso di «radical» edi «militant», in verità è fuorviante. In sostanza sitratta di un’aggregazione ideologico-politica cheporta dentro di sé tutte le patologie della sinistraellenica e nessun progetto. Per comprendere peròil fenomeno Syriza dobbiamo richiamarci allastoria del movimento comunista greco fin dallacaduta dei colonnelli nel 1974.

La storia moderna della sinistra greca inizia – efinisce – nel 1968, cioè nel primo anno del regimedei colonnelli (1967-1968), con la scissione tral’Ufficio dell’Interno e l’Ufficio dell’Esterno delPartito comunista della Grecia (Kke), nel suo ten-tativo di sganciarsi da Mosca come centro decisio-nale sulle vicende del movimento comunista na-zionale. Questa rottura avrebbe lasciato un’im-pronta così profonda da condizionare ancora, aquasi cinquant’anni di distanza, gli sviluppi ideolo-gici e politici del movimento popolare.

Nel 1974 la sinistra, contrariamente alle aspet-tative, si trovò inchiodata a un risultato elettoraledel 10%. La collaborazione elettorale del Kke conil Partito comunista dell’Interno non aveva porta-to i risultati sperati e dalla metà degli anni Settantafino al 1989 (quando crolla il blocco dell’Est) vie-ne portata avanti un’accesissima lotta ideologica,spesso senza princìpi, avente come obiettivo il pri-mato nel movimento comunista. Questo venten-nio è stato caratterizzato da due fenomeni: il pri-mo, e più importante, è stato l’assimilazione ideo-logica, elettorale e politica della sinistra da partedel Pasok. Durante gli anni di governo socialistal’ideologia di sinistra diventa quella dominante, ilpartito «si fa Stato» e la sinistra offre i suoi quadriall’amministrazione pubblica (in mancanza diquadri socialisti, in un primo momento) e, soprat-tutto, ai Meccanismi Ideologici dello Stato (perdirla con Althusser). Secondo: nello stesso perio-do, il Kke mantiene il suo primato elettorale eideologico nell’area comunista, mentre il Pc del-l’Interno, malgrado i suoi sforzi per collegarsi aiprocessi che si svolgono parallelamente in Europa,

TRAGEDIA GRECA

Da tempo, ormai, nella letteraturapopolare l’eroe del «giallo» è uncommissario di polizia. Prendia-mo Charitos, il protagonista (e ionarrante) dei libri di Petros Marka-

ris. Servitore dello Stato in attesa della pro-mozione mentre gli alti papaveri, i burocrati,i politici spadroneggiano e combinano pastic-ci, è un povero Cristo che si muove sullascena del crimine senza parco macchine omezzi supertecnologici alla CSI. Piuttosto,nella sua malinconia esistenziale, somiglia aJack Malone, il capo della squadra specialeFbi di Senza traccia.

Lo scenario in cui agisce è quello dellaGrecia alle prese con la vigilanza della Troika.Non c’è da scegliere tra la miseria (studiosicome la storica Elena Nicolaidu pubblicano Lericette della fame) e il «quanto basta» che èpoco, anzi pochissimo.

La protesta attraversa Atene in lungo e inlargo. A riprova, il nostro commissario statali-sta, aggrappato al proprio mestiere, devesfruttare intelligenza e intuizioni soprattuttoper evitare i blocchi stradali in una città quoti-dianamente percorsa da manifestazioni, inpreda al caos. Il che rende ancora più pesan-te, per il commissario, l’inseguimento nellestrade di Atene di un assassino diventato«l’esattore nazionale»: che è stato in grado, indieci giorni, di far restituire alle casse dell’era-rio quasi otto milioni di euro. Restituzione ot-tenuta grazie a Internet (che nel noir funzionada moderno «coro greco») e per mezzo di de-litti «anticapitalistici» perpetrati con iniezionedi cicuta, arco e frecce. Certo, si tratta di stru-menti antichi usati per lavare una colpa mo-derna. «Finché si piantò davanti alle navi, escoccò la prima freccia dall’arco. Un ronzioterribile mandò l’arco d’argento» (nel canto I,versi 43-52 dell’Iliade).

Lo scivolamento da Fidia, Socrate, Pericleagli attuali discendenti farabutti – medici, pa-lazzinari, quanti ingannano non pagando il do-vuto – è paradossale. Eppure, da noi, in Gre-cia, commenta nella sua personalissima lezio-ne di economia il commissario «chi non si facorrompere aiuta la recessione». Il libro rendequesto scivolamento attraverso vittime chesono colpevoli e un omicida che si presentanel ruolo di vendicatore dei torti subiti dal po-polo. Veramente, una incredibile confusionetra buoni e cattivi. Persino la moglie di Chari-tos, Adriana, si comporta (assieme a schieredi indignados) da fan dell’assassino.

Quanto al linguaggio del «giallo», non rap-presenta il principale interesse dello scrittore.Si capisce. Se nel suo lavoro Markaris ha col-laborato a molti film di Angelopoulos, qui ac-cetta il principio di una leggibilità un po’ bruta-le per non perdere il meccanismo narrativo, ilquadro sociologico dell’attualità. In fondo, in-

tercettare l’immaginario collettivo significaanche nutrire i sogni vendicativi dei lettori,quei lettori stremati dal diktat europeo del«pareggio di bilancio».

Tsipras, segretario di Syriza, ha detto chel’Ue, il Fmi e la Bce vogliono trasformare laGrecia in un «cimitero sociale». Tuttavia, ri-spetto all’intrigo in chiaro-scuro dell’Esattore,la realtà supera la fantasia: da due mesi l’As-sociazione di poliziotti dell’Attica scende inpiazza per protestare assieme ai disoccupati,ai pensionati, agli studenti «indignati». QuestoAdriana, la moglie del commissario, di sicuronon l’aveva previsto.

Petros Markaris L’esattore. Una nuova indagine del commissario Charitos Traduzione di Andrea Di GregorioBompiani, pp. 341, € 18,50

L’esattore di MarkarisLetizia Paolozzi

medio, nonché l’incapacità del Kke di adattarsi allenuove e inedite condizioni sorte. Syriza (molti deicui quadri provengono dal Kke e dal Pasok) si èadattato con grande facilità allo spirito dei tempi: ilverbalismo e l’opportunismo di una formazionebasata su teorizzazioni contraddittorie e persino ca-tastrofiche, e composta da irrilevanti correnti-fos-sili, ha sfruttato in pieno il vuoto creatosi e la reto-rica della «rottura». Abbandonando per strada ilconflitto all’interno della sinistra, si è presto tra-sformato in un «nuovo Pasok». Il vino vecchio nel-la botte nuova però è diventato subito aceto e ilpaese rimane ancora prigioniero di fronte allo spet-tro del fallimento.

Traduzione dal greco di Dimitri Deliolanes

Roberto Barni. Passi d’oro in Olanda, 2005

Questo è dunque l’ultimo numero di «Actionpoétique». C’è una ragione particolare perquesto «finale di partita»?No, nessuna ragione particolare. Né finanziaria(le nostre casse stanno bene, con un’eccedenza.La rivista è in salute, gli abbonamenti siconfermano compresi quelli, numerosi, cheabbiamo di università e biblioteche all’estero,specialmente negli Stati Uniti; le vendite inlibreria, deboli è vero, hanno tendenza aprogredire) né ideologica (non ci sono conflittiquanto alla linea della rivista) né personale(non ci sono conflitti all’interno del Comitatodi Redazione).Molto semplicemente mi sembra che, proprioin tali condizioni, sia venuto il momento difermarsi, dopo più di sessant’anni dipubblicazioni e di attività. D’altra parte unarivista trimestrale, con un numero di paginespesso superiore alle 200, implica un grossolavoro materiale che mi spetta, dal momentoche me ne assumo una buona parte […], ed èun lavoro che faccio da sessant’anni (lo so, sonosenza dubbio responsabile di non essere statocapace di condividere questa massa di lavoro!).Un’altra cosa ancora: le condizioni difabbricazione, di diffusione e di raccolta deitesti hanno tendenza a complicarsi e, a dire ilvero, le tollero sempre meno.

Si tratta di una decisione presa dal Comitato diRedazione? Alcuni si rammaricano di una non-trasmissione, una sorta di «dopo di me ildiluvio»…Nel Comitato2, in effetti, si è manifestata unaresistenza: perché non continuare con qualcunaltro per l’animazione e la direzione dellarivista? Una discussione che abbiamo già avutoa più riprese nel corso degli anni […] e che sichiudeva sempre con la medesimaconstatazione: nella buona e nella cattiva sorte,AP rimane in gran parte l’avventura di HD (ilche non diminuisce per nulla il ruolo di altripoeti e scrittori, come Paul Louis Rossi eFranck Venaille, che, per fare un esempio, sipresero carico della rivista durante il mio lungosoggiorno in Cecoslovacchia, verso la metàdegli anni Sessanta […]).Un’avventura personale molto ampia, come sivede, ma anche in questo rimane un’avventurapersonale. Nel momento in cui incontroGérald Neveu, nel 1951, dal litografo Joe Berto[…], una pubblicazione di nome «ActionPoétique» esiste già. È un foglio, poi ungiornale politico fatto da poeti (Gérald Neveu eJean Malrieu in modo particolare): due numeripubblicati in quattro anni. Dietro miainiziativa, questo giornale diventa una rivista.Un rivista sulla quale s’imprimono le svoltedella mia vita e dei miei coinvolgimenti.Questa identificazione AP/HD-HD/AP rimaneinseparabile dalla rivista. Porre la domanda,significa già sottolineare questa identificazione.Quindi non «dopo di me il diluvio», ma «dopodi me qualcos’altro», e sotto un altro nome.Poiché spetta alle nuove generazioni crearenuovi strumenti.

Puoi dire di più sull’origine della rivista, sulruolo di Gérald Neveu, su quello di JeanMalrieu?Gérald Neveu, taciturno, sprovvisto di ognitipo d’autoritarismo e di legittimità, dà unsenso fondamentale alla creazione di AP. Èintorno a lui, alla sua aurea di poeta autentico,e di poeta «maledetto», ossia non riconosciuto,e a margine rispetto alle attitudini, ai modi divivere dei più, è attorno a Gérald che si crea ilnucleo sensibile, il nucleo sentimentale e ancheimmaginativo, di ciò che diverrà AP. Si eranell’immediato dopoguerra, in un clima di

«surrealismo rivoluzionario» che era il nostro.[…] Jean Malrieu era, con Jean Todrani, quellodi noi che aveva maggiore presenzanell’ambiente della poesia. Frequentavaregolarmente i «Cahiers du Sud», era amico diJean Tortel e dei surrealisti, soprattutto diAndré Breton. […] Eravamo una buonadozzina alle riunioni che si svolgevano in unasala del Bar de la Gaieté, nel quartiere Vaubansulle alture di Marsiglia. È lì che comincio aconoscere Gérald, Jean Malrieu e Jean Todrani,Joseph Guglielmi e gli altri. E da questocontatto tra di loro e con loro, poi un po’ piùtardi con altri, Jean-Jacques Viton, GérardArseguel…, che è nata la rivista.

Che cosa vi legava?La poesia. Eravamo lettori di poesia,all’infinito. E pensavamo con Lautréamont che«La poesia deve avere come fine la veritàpratica». Ammiratori di tutti i surrealismi, ditutti i futurismi, ammiratori di Neruda, diMajakovskij, di Ritsos, di Nezval, di AttilaJozsef, di Nazim Hikmet, di Bertold Brecht, diTristan Tzara, di Paul Éluard…, della loroscrittura e anche, per ciò che ne sapevamo,della loro resistenza e del loro coraggio nellavita.La politica. Eravamo tutti e tutte comunisti,membri del PCF, e molti di noi militanti attivi.Un gusto pronunciato per le erranze nei bar,per gli incontri che si facevano di notte comedi giorno. Per l’alcool, per le lunghe ore discambi e di chiacchiere. Le nostre origini, il nostro lavoro. Eravamoquasi tutti di origini modeste, e molti di noierano maestri di scuola (Malrieu, Guglielmi, iostesso…), promozione sociale, allora ambita,per i figli «bravi a scuola» delle famiglie operaie.E la nostra gioventù, la nostra determinazione,la nostra sicurezza, la nostra volontà di metterein rapporto la parola d’ordine di Marx«Cambiare il mondo» con quella diLautréamont «Cambiare la vita».

AP fin dall’inizio ha fatto la scelta delladiversità. Alcuni vi hanno persino rimproveratola vostra «porosità».Dal XIX secolo, le riviste letterarieaccompagnano e sostengono la vita dellaletteratura. Da una parte, riviste senzaorientamenti estetici definiti, aperte allamolteplicità delle scritture, dall’altra, rivisteconcepite intorno a una tendenza, o addiritturaintorno a uno scrittore, riviste che difendonoobiettivi di scrittura e d’impegno precisi,muovendo spesso da posizioni ideologichemarcate. Tra questi due estremi, unamolteplicità di varianti. Non volevamo fare unarivista «comunista» né una rivista al servizio diun tipo di scrittura. «Les Cahiers du Sud»erano il nostro modello, senza dubbioinconscio. Avevamo gusti diversi e abbiamoampiamente aperto la rivista. A un punto tale,che hanno tentato di accusarci: concedevamo a«chiunque» le nostre pagine. L’accusa non mipreoccupa; abbiamo sempre condiviso, tra noi(non tutti, lo si vedrà), una certa diffidenza perle «teorie d’insieme» e altre fabbricazioni che sipretendevano teoriche. Bisogna ricordarsi chegli anni in questione sono quelli dello«strutturalismo», della fabbricazione di modellie tipi di analisi rapidamente diventati, inambito artistico, riduttivi. La nostra attenzionesui pericoli di tali «teorie» era stata suscitatadalle ricadute politiche che le scoperte, semprepiù pregnanti, degli effetti dello stalinismomettevano chiaramente in luce. Vigilanza,volontà egemonica, impoverimento… Dunquediversità, nelle scritture e nelle concezioni dellescritture. «Porosità», il termine non mi allarma.

Sono persuaso che una rivista come la nostradeve tendere a fornire un panorama il piùampio possibile di quanto accade nell’ambitodelle scritture di poesia. In Francia, ma anchenel mondo.

AP si è posizionata contro quel teorizzare cheha finito per produrre per diversi anni unasorta di effetto perverso, ossia l’abbandonodello sforzo critico, che pare solo oggi ritornare.Contrariamente a molte riviste di creazione, APha sempre mantenuto questo sforzo, in formadi cronache, di recensioni di libri, d’inchieste,di dossier…I dossier, che noi chiamiamo «frontoni», sonouna delle forme quasi permanenti che prende lapresentazione delle poesie nella rivista, e piùspesso in apertura di numero. Sono d’altrondefrequenti in tutte le riviste. I frontoni ci hannopermesso di pubblicare poesie e altri testiraccolti intorno a: un tema (Il verso nel 1989,Della Sestina, La Cucina…), un movimento (IGrandi Retori, L’altra poesia, Die WienerGruppe…), un dibattito («Il verso, la poesia, laprosa, una diatriba?», «La forma poesia può,deve scomparire?»…), una casa editrice(Burning Deck), un omaggio (DanielleCollobert, Christophe Tarkos, HuguetteChamproux…), un autore o un gruppo diautori del patrimonio letterario (Jean de laFontaine, I Troubadours…), un poeta stranieroparticolarmente significativo (Ernst Jandl,Gertrude Stein, Kurt Schwitters…), una poesianazionale (Palestina, poeti d’oggi, Brasile, nuovegenerazioni…). Dossier e inchieste sono unamaniera diretta di aprire la rivista a numerosecollaborazioni, di alimentare il nostro sapere eil nostro piacere. Le cronache, spesso tenutedalla stessa persona con una libertà totale (chepuò sollevare problemi, quando chi le scrive sela prende con un amico della rivista),permettono di moltiplicare gli accenti personalie di non allontanarsi troppo dall’attualitàpoetica. Sono una delle specificità di AP, moltoapprezzate dai lettori. Sono il luogo di unariflessione sulle pratiche, inseparabile dagliesercizi della poesia e necessaria. Sostenevamo(un po’ troppo seriosi) che non c’è poesia senzariflessione sulla poesia. La critica dei poeti suipoeti, le recensioni, possono favorire lacompiacenza. Ci siamo decisi a sopprimerle daqualche anno, ma è vero che le abbiamo alungo pubblicate.

È vero che il panorama è molto vasto. Ciònonostante ci sono degli assenti nel paesaggio.Penso a Ghérasim Luca, per esempio, che èanche assente dalle antologie di poesia cheavete realizzato. E per quanto riguarda la poesiasonora e visiva, l’interesse è piuttosto recente…È sicuro che ci sono degli assenti, tra gliscrittori e le scrittrici. Ho avuto la fortuna diascoltare Ghérasim Luca: ne sono statoaffascinato, poi deluso in seguito alla lettura deitesti. Per essere precisi, Ghérasim Luca èpresente nel numero 147, L’altra poesia, del1988 (non così di recente), interamenteconsacrato alle poesie visive e sonore e curatoda Julien Blaine e Liliane Giraudon. E PierreLartigue consacra un «frontone» alla «Poesia-Performance» (numero 88, nel 1982). Questepoesie non sono quindi del tutto assenti (peresempio, abbiamo anche pubblicato diversevolte Julien Blaine, e Bernard Heidsieck, dal1988), ma sono incontestabilmente menopresenti delle poesia «di scrittura», come si diceun po’ alla buona. La poesia visiva e sonora milascia spesso insoddisfatto. Sono un lettore,amo i libri, l’oggetto libro; quando ho ascoltatoe/o visto un poeta visivo e/o sonoro e leggo ilibri che ha pubblicato, rimango spesso deluso.

È indubbiamente, per quanto mi riguarda, unlimite (per lungo tempo non sono stato il soloa reagire in questo modo). E abbiamo cercatodi uscirne, con difficoltà ma non senza risultati,basta leggere la composizione del Comitato diRedazione attuale…

AP è anche un interesse, si potrebbe dire unapassione, per le poesie straniere, che per lungotempo sono state assai mal conosciute inFrancia.Una passione, sì, ed è senza dubbio il terrenosul quale la storia di AP diventa più fortementela storia di HD. Sono un appassionato dilingue straniere, pratico diverse lingue europee,non smetto mai di tuffarmici e di apprendernealtre, più lontane. Sono anche un appassionatodi viaggi, e di viaggi all’estero. Dal 1954, APpubblica un opuscolo, «Poeti dei Paesi Bassi»,tradotti da Anna Maria van Soesbergen e me e,nel numero 1 della nuova serie, nel 1958,pubblichiamo traduzioni delle poesie diUmberto Saba, nel numero 2 di William Blake,nel 3/4 sempre nel 1958 di Ignazio Buttitta edel catalano Jordi Pere Cerda, che è appenamorto. E si prosegue: poeti stranieri sonotradotti e pubblicati in ogni numero e, moltopresto, all’interno di dossier collettivi. […]Tutti questi dossier di poeti venuti dall’esterosono il frutto di un lavoro di lungo respiro,realizzato da poeti, traduttori e specialisti dellelingue in questione; un lavoro che, dal 1991,viene sostenuto in collaborazione con laBiennale Internazionale dei Poeti in Val-de-Marne, creata da me nel 1990 e diretta sino al2005. Numerosi poeti hanno saputo giovarsi diqueste possibilità di traduzione e dipubblicazione. Anche il rapporto dei francesicon le lingue straniere è migliorato durantequesto periodo. Un numero molto maggiore dicittadini e poeti francesi conoscono oggi lelingue straniere e viaggiano lontano. Questetraduzioni e questi incontri sfociano inpubblicazioni sulla rivista, ma anche nellapubblicazione di libri3 […]. Bisogna aggiungereche zone importanti sono rimaste al di fuoridelle nostre ricerche: l’Australia, l’Indonesia,una gran parte dell’Africa, la Finlandia, laSvezia, per esempio… E, nel caso della maggiorparte dei paesi presi in considerazione (e alcunidi questi paesi sono autentici continenti: laCina, l’India…), non abbiamo potutoabbordare che una piccola parte delle scrittureche erano in quel momento in corso.

Traduzione dal francese di Andrea Inglese

1. I passaggi qui tradotti fanno parte di una lunga intervistapubblicata sull’ultimo numero di «Action poétique»(primavera 2012). Henri Deluy, nato nel 1931, poeta etraduttore, ha diretto la rivista a partire dal 1955. 2. Il Comitato di Redazione, quale risulta al momento delnumero di chiusura, comprende: Claude Adelen. JulienBlaine, Yves Boudier, Bruno Cany, Jérôme Game, IsabelleGarron, Liliane Giraudon, Jospeh Julien Guglielmi, AlainLance, Christophe Marchand-Kiss, Florence Pazzottu, PacelPetit, Véronique Pittolo, Éric Suchère, Bernard Vargaftig eJean-Jacques Viton.3. In seguito all’invito alla Biennale Internazionale, nel2010 veniva pubblicata per le edizioni Action Poétiques laversione francese, a cura di Andrea Raos ed Éric Suchère,dei Quattro quaderni di Giuliano Mesa.

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ACTIONS POETIQUES

Henri DeluyCinquant’anni (e più) di militanza

Intervista con Sandra Raguenet1

5.Nel 1988, apparve L’Art poétic’ d’Olivier Cadiot,autentico choc per tutta una generazione. Mesco-lanza di voci, di stili, di tipi di testo, di giochi ti-pografici… non propriamente poesia, né roman-zo, né teatro, né nulla di riconoscibile. Questolibro atipico sembrava suonare la fine della ricrea-zione postmoderna per un ritorno alla sperimen-tazione testuale, salvo che L’Art poétic’ è un libro diavanguardia sbarazzatosi del pensiero politicodelle avanguardie e la sua mescolanza di voci è, indefinitiva, postmoderna nella capacità di tutto ci-tare e riciclare.

6.La posizione estetica di Olvier Cadiot troverà –per così dire – una sua formulazione teorica neidue numeri di una rivista esemplare: «Rivista diletteratura generale». Questa rivista magica, co-struita come un’antologia, con una teoria da met-tere in atto seguendo gli esempi, attaccherà il liri-smo – oggetto considerato non essenziale allapoesia – in un primo numero apparso nel 1995,poi la partizione dei generi nel suo numero del1996. Eccone un estratto:

«Altri problemi: come produrre rilievi diretta-mente dalla superficie dello scritto? Come lascia-re certe linee di fraseggio – descrittivo, teatrale,narrativo, poetico – avanzare di volta in volta inprimo piano di un medesimo testo, poi retrocede-re dietro altre linee fino a quel momento nascoste?(…) L’opposizione tra il linguaggio unico, autar-chico, lineare della poesia e il dialogismo che rela-tivizza ed è discontinuo del romanzo non è più invoga. Potremmo chiamare prosa, in un senso cheincluderebbe certa poesia, una voce intrecciata ilcui ideale sarebbe l’integrazione e nel contempo lacontinuità estrema: diverse voci in una»1.

7.Non si trattava di un manifesto, ma di una con-statazione di quanto stava accadendo, poiché diseguito a Cadiot – o nello stesso tempo – unaquantità di nuove voci con un’idea differente dellapoesia erano emerse e avevano pubblicato dei testiil cui contorno restava incerto – né propriamentepoesia, né qualcosa d’altro –, avvalendosi del-

l’elenco, del cut-up, del missaggio, del montaggio,dello svisamento come mezzi della loro articola-zione e sfruttando tutte le risorse tipografiche pos-sibili, se non addirittura l’inserzione d’immagini,diagrammi, collage… Tra queste nuove voci: Pier-re Alferi, Suzanne Doppelt e Pascalle Monnier –che sono della stessa generazione di Olivier Ca-diot – o Jean-Michel Espitallier, Charles Penne-quin, Nathalie Quintane, Christophe Tarkos, chevengono dopo…

8.Altra particolarità, questi scrittori attingerannodalla musica, ma anche dall’etnografia, dalla gene-tica testuale, dalla sociologia… i mezzi tecnici eteorici per scrivere i loro testi. Altra particolarità,l’impronta estremamente forte della arti plastiche.Dalla litania di Bruce Nauman, passando per lalista dei verbi di Richard Serra o per le costruzio-ni verbo-visuali di Robert Fillou, fino ai quadri diparole di Rémy Zaugg e agli enunciati di Lawren-ce Weiner… gli artisti plastici sono spesso presen-ti e i loro dispositivi, idee, procedure, concettisono massicciamente utilizzati.

9.Se la letteratura poetica francese attingeva alle artiplastiche, le arti plastiche ricambiarono generosa-mente dal momento che molti dei «poeti» emer-genti alla fine di questi anni Novanta erano statiformati nelle Accademie di Belle Arti o vi inse-gnavano. Il loro orizzonte non sarà per forza co-stituito dalla poesia – che conoscono spesso abba-stanza male. Del resto, se pubblicano in riviste ocase editrici di poesia, è perché altri editori non lihanno voluti, eccezion fatta per alcuni meno con-venzionali come Verticales, ma anche perché lapoesia concepita come luogo di mescolanze èmolto attraente per persone che rivendicano og-getti testuali ibridi.

10.Verranno così situate, incluse o sequestrate sotto iltermine di poesia persone che se ne infischianobellamente della poesia o che rompono con l’ideadi poesia: la lettura di elenchi con campionaturedi Anne-James Chaton, le improvvisazioni musi-cali di Christophe Fiat, le istallazioni di Jean-

Charles Massera – con Thomas Hirschhorn peresempio –, le letture con video di Emmanuelle Pi-reyre, le cine-poesie di Pierre Alferi… – e, secon-dariamente, ciò che ritornerà con forza assieme aquesti scrittori è la poesia sonora, la poesia visivao la performance.

11.Da allora la poesia tende a dissolversi in testi chepossono essere in prosa o in versi o in… ? E il ter-ritorio poetico finisce per essere contaminato daquesti autori – il che non significa che altri nonscrivano o non continuino a scrivere poesia digrande qualità come Philippe Beck o StéphaneBouquet. Dunque non più, a dire il vero, dellapoesia, ma una post-poesia i cui rappresentantipiù emblematici sono, oltre ad alcuni degli autorigià citati, Caroline Dubois, Frédéric Forte, ÉricHouser, David Lespiau, Cécile Mainardi, JérômeMauche, Sandra Moussempès, Anne Parian, Pa-scal Poyet ou Olivia Rosenthal…

12.Se si riprende la definizione della poesia che dàJacques Roubaud in un articolo polemico2, «lapoesia esiste in una lingua, si fa con delle parole;senza parole, non c’è poesia; una poesia deve esse-re un oggetto artistico a quattro dimensioni, ossiadev’essere composto simultaneamente per una pa-gina, per una voce, per un orecchio, e per una vi-sione interiore. La poesia deve leggersi e dire», do-vremo per forza convenire che con una tale defi-nizione, la poesia non esiste o, allora, esiste quasiovunque, ovunque vi sono libri composti da au-tori sensibili alla dimensione sonora dello scritto.Allora, dove sta il problema? Che il genere sia inpericolo o che alcuni possano aggiungervi unaquinta dimensione?

Traduzione dal francese di Andrea Inglese

1. Pierre Alferi e Olivier Cadiot, Digest, in «Revue de littéra-ture générale», 96/2 digest, maggio 1996.2. J. Roubaud, Obstination de la poésie, in «Le Monde diplo-matique», gennaio 2010.

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ACTIONS POETIQUES

Del resto non esisteDodici note parziali

Eric Suchère

Sembra che la poesia francese contem-poranea in Italia sia ancora quella deiBonnefoy, dei Du Bouchet, dei Jaccot-

tet…, poeti che hanno alle spalle oltre mezzosecolo di una consolidata produzione, autoristudiati e ampiamente tradotti (anche in Ita-lia), e che rappresentano il versante ufficialedella poesia francese (di) oggi, o della Poesiatout court. A bene vedere, la ieratica ufficiali-tà di questo establishment poetico nascondesolo apparentemente un paesaggio tutt’altroche statico.

Si pensi ai Roubaud, o anche ai Deguy ealtri difensori di un pensiero forte ma dinami-co della Poesia. Jacques Roubaud, ad esem-pio, rivendica apertamente la sua veste diPoeta così come ascrive la sua produzione (inversi) al genere della Poesia, ma difende le ra-gioni della Poesia attraverso un’idea di essacome ridefinizione permanente o reinvenzio-ne continua (seppur ancorata alla specificitàdel verso). Egli è insomma contro eppur den-tro. Ebbene, di questo dinamismo si perdonoquasi le tracce nella ricezione di Roubaud inItalia, dove la critica sembra troppo spesso ca-dere nelle maglie di un’ermeneutica apoditti-

ca, preferendo la parte versificata – iper-for-male, ludica o oulipiana – della sua opera, ta-cendo nel contempo l’aspetto più interessan-te della sua scrittura poetica costituito da alcu-ne sue prose (penso ai volumi del grand in-cendie de londres, vero e proprio ciclo diprose pubblicate tutte dal poeta Denis Rochenella collana Fiction & Cie).

Esplorando il lato meno ufficiale di questapoesia si osserva come le contraddizioni insitedalla ricezione italiana di Roubaud diventinonorma o discrasia sistematica nel caso di altrenebulose dell’estremo contemporaneo poeti-co francese. In merito a molti scrittori e poetisi nota infatti come all’importante sforzo tra-duttivo – che circola ancora, il più delle volte, inmodo sostanzialmente confidenziale, divisotra siti web che ospitano inattese traduzioni epiccole realtà editoriali – non faccia riscontroun altrettanto nutrito lavoro critico, teorico edermeneutico (fortunatamente in fieri, ma anco-ra ampiamente insufficiente). Per capire me-glio questa situazione, si pensi alla ricezione dilavori fondanti come quelli di Emmanuel Hoc-quard, Claude Royet-Journoud, Anne-Marie Al-biach, Jean-Jacques Viton, Jean-Marie Gleize,

Pierre Alféri, Olivier Cadiot, Nathalie Quintane,Manuel Joseph, Christophe Tarkos, Chrosto-phe Hanna, per citare, in ordine sparso e gros-solanamente cronologico, solo alcuni dei nomichiave del paesaggio poetico dal 1980 ad oggie circolanti in Italia ancora in maniera disconti-nua e frammentaria.

Questo scollamento tra traduzioni e inte-resse critico, insieme alla scarsa circolazionedi questa produzione e alla presenza di ampiezone d’ombra (assenza di traduzione e di fer-mento critico insieme), è indissolubilmente le-gata a una persistente ignoranza. In Italiaresta infatti avvolta da un assordante silenziol’opera di Francis Ponge, opera quasi secolare,entrata in Francia da oltre un decennio nelsancta sanctorum della collezione Pléiade, an-cora poco letta in Italia (se si eccettua il Parti-to preso delle cose) o forse solo taciuta.Ponge in Italia resta ai margini del poetico, omeglio la critica si mostra incapace di percepi-re la sua opera come poetica. Con Ponge lacritica italiana ha accantonato, archiviandolosenza nemmeno aprirlo, il dossier di tutta lalinea letterale, oggettivista e critica della poe-sia, che potremmo disegnare, per la Francia,

con l’asse Ponge-(Denis) Roche-Hocquard-Gleize-Tarkos-Quintane-Alféri-Cadiot-Hanna…

Una ragione di questa situazione mi parevada cercata in logiche e sovrastrutture di na-tura eminentemente economica (nel sensopiù ampio del termine) e che inevitabilmentenutrono, per dirla con Ponge, una critique éco-nomistique. Un altro motivo risiede nell’inve-terata autarchia che spinge la critica italiana aguardare distrattamente a quello che accadefuori dai confini nazionali, dove per esempio lalinea letterale, oggettivista e critica ha avutoesiti paralleli nell’opera di Ponge in Francia e inquella dei poeti oggettivisti negli Stati Uniti,ambedue a lungo e tutt’ora ignorate in Italia.Una terza ragione, di tipo transnazionale, misembra sia da ricercare nella mancanza distrumenti critici per leggere parte della poesiafrancese da Ponge a oggi. Nozioni consolida-te e strumenti di lettura storicamente produt-tivi rivelano innegabili limiti che possono esse-re superati solo attraverso la fabbrica di nuovistrumenti, creati ad hoc, non necessariamen-te ancorati a schemi o griglie che hanno forsefatto il loro tempo.

Note per una cartografiaSulla poesia francese dell’estremo contemporaneo in Italia

Luigi Magno

1.Ci si ricorderà che negli anni Sessanta e soprattut-to Settanta, in Francia e altrove, alcuni scrittori ri-fiutavano che si scrivesse «romanzo» o «poesia» sulfrontespizio dei loro libri e preferivano il terminepiù neutro e aperto di «testo». Si trattava, eviden-temente, di uscire dalle categorie, e dalle soggia-centi storie e ideologie che le irrigavano.

2.Ci si ricorderà che nel 1968 Denis Roche pubbli-cava nella rivista «Mantéia» un testo intitolato Lapoesia è inammissibile, del resto non esiste, nel qualeesprimeva l’idea che scrivere poesia volesse diresfigurare le convenzioni che ne permettono il ri-conoscimento.

3.Ci si ricorderà che all’inizio degli anni Ottanta lapoesia ritornò con forza e che si volle farla finitacon le avanguardie e le loro sperimentazioni steri-li e vane, e che il termine «poetico» fece furore. Sividero persino alcuni eroi di questo periodo rin-negare il loro glorioso passato e rivendicare uncerto classicismo – questa sconfessione fu genera-le e la si riscontrò sia nella arti plastiche che nel-l’architettura. È in questo momento che la lette-ratura divenne una forma di consumo culturale eche si vollero abbandonare posizionamenti etici,politici e ideologici.

4.Per quanto riguarda la poesia contemporanea, percoloro che avevano nostalgia delle sante avanguar-die, delle loro sperimentazioni fiammeggianti edelle loro rivoluzioni estetiche, gli anni Ottantafurono un grande deserto dove si era sommersi dauna valanga di poesia-poesia e quando si vedeva-no, di tanto in tanto, libri che si distinguevanodalla massa, ciò avveniva nell’indifferenza genera-le – così per Jean Daive, Dominique Fourcade,Emmanuel Hocquard, Liliane Giraudon, Michel-le Grangaud, Anne Portugal, Claude Royet-Jour-noud, Jean-Jacques Viton… e nonostante tuttipubblicassero per editori rinomati come P.O.L. oGallimard, le loro voci erano minoritarie – soloJacques Roubaud beneficiava di un pubblico piùampio.

Inizio della poesia del periodo che annuncia laprimavera

Qui, dove l’uomo, riportato alle sue giuste propor-zioni… Come un paiolo abbandonato, in un angolo delpaesaggio, una città, una grande capitale non fapiù rumore d’un paiolo in mezzo ai rifiuti. Di fortezze volanti, ne possono passare a nugoli. Diloro resterà solo uno sbuffo d’aria. La natura, congli uomini, è impassibile, e voi, a lamentarvi, sietesolo ridicoli (Lamartine, Vigny, Hugo). Per portarsi a casa soldi e fama, adesso, questa cosa,la stanno ancora dicendo tutti (i «Giusti», i… que-sto e quello). Fortuna, però, che lei è impassibile! Meglio così!Anche certi uomini diventano impassibili, perché cel’hanno dentro al cuore. D’altronde, in Francia, siete ancora voi la natura:industrializzata, commercializzata; giardini, pa-tii, campi coltivati, fabbriche di legname. Eppurela libertà e il vento e gli uccelli ci sgambettano inmezzo, ci ballano dentro comodi; Salta fuori da tutti i pori (da tutti i rubinetti), lalibertà.

Les Fleurys, 8 aprile 1950. Ad averci attirato nel Pc erano state per prima co-sa la rivolta contro le condizioni riservate alla vitadegli uomini, la preferenza per la virtù e la smaniadel dedicarsi a una causa sufficientemente gran-diosa. E poi c’era il disgusto per i sordidi riguardidei socialisti (S.F.I.O.)1, per i loro belati umanita-ri, per la loro verbosità, per i loro compromessi,La sensazione che alle prevaricazioni del capitali-smo si dovessero opporre metodi energici e insiemeflessibili, realisti, senza illusioni. Cose che trovava-

mo, o credevamo di trovare nei bolscevichi. Genteemancipata e seria, ecco come ci sembrava (eman-cipata e con la barba corta) (quella di Lenin). I mezzi dell’arte… (in vista della perfezione). Abbiamo pensato che la critica marxista potessefornire la chiave per spiegare la storia passata epresente. Nelle sezioni e nei singoli iscritti al partito, abbia-mo trovato esempi meravigliosi di virtù, di dedi-zione, di entusiasmo e di capacità di lavorare, diefficienza, di disinteresse, di emancipazione. An-che la freddezza e la critica impietosa ci attirava-no. E anche i sacrifici richiesti al gusto e ai senti-menti, perfino all’intelligenza di ciascuno. Trova-vamo parecchio seducente il fatto di criticare aposteriori le conclusioni a cui l’intelligenza e i no-stri propri «testi» arrivavano. Ci sembrava che fos-se un po’ come la critica dei testi che faceva ilTemps. Era solo una delle prospettive dell’artistache siamo (L’artista non rifiuta nessuna prospetti-va critica). Poi però ci siamo accorti di parecchie cose: chequesta critica ad hominem (critica economistica)non era meglio della critica psicologica, che gene-rava una presunzione grottesca e criminale, cheallontanava l’istinto e l’intelligenza dal cuore. 1° Uccideva, il desiderio, lo slancio. 2° Creava una presunzione che inaridiva, un rigo-rismo ridicolo e mortale.

Les Fleurys, 8 aprile 1950. Non cercheremo niente di «significativo» (da di-re) sulla nostra epoca (verrà comunque da sé; co-me potrebbe essere altrimenti, ne siamo fin trop-po impregnati). Cercheremo (al contrario) quello che non sembrasignificativo, quello che non rientra nei suoi sim-

boli (nella sua simbolica): quello che appartiene altempo seriale (o all’eternità). Dobbiamo ridire la «muta natura che ci attorniain schiere profonde»2, che ci riprende alle spalle,che ci ammantella, che ci copre la testa e ci incra-vatta, dobbiamo ridire aprile (oppure ottobre). Ed eccomi tornato ai sentimenti che mi hannofatto scrivere Ad litem, meno la disperazione. Tut-to questo, tutte queste forme prese dalla naturamuta, è tutto terribile e insieme assurdo, scorag-giante, e però vive, si abbellisce, continua. E allo-ra: tanto meglio (e tanto peggio); il problema nonè questo.

È qui, oh solitudine ingombra di muti elementifissi tutti al proprio posto senza sguardo, paraliti-ci, è qui, dove tutto un paesaggio mi incravatta emi prolunga le spalle a destra e a sinistra, dove peresprimersi c’è solo la mia voce (dove non mi devotroppo difendere da animali pericolosi), è qui chesento la mia ragion d’essere. Il Paesaggio ∞ grandi nodi colorati di bistro, rat-trappiti e paralitici (infermi) sotto i rabbruna-menti bluastri, sotto i voluminosi pensieri prove-nienti da ovest.

Les Fleurys, 8 aprile 1950. Le arti e le lettere si concepiscono, nascono e vivo-no solo grazie all’illusione della comunicazione edella simpatia. Tutto questo (questa illusione(questo giglio) è solo vegetazione e fioritura, lo sipuò concepire solamente nella pace (cfr. Lucrezio,quinto canto). La simpatia e la comunicazione si «trovano» solonell’amore e nella festa, nel rapimento, nell’illu-sione stessa che permette alla vita di continuare (ilcoito).

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ACTIONS POETIQUES

Cognizione del periodoche annuncia la primavera

Francis Ponge

Parrebbe che nella ricezione della poesiastraniera gli automatismi intellettuali, lelimitatezze di corporazione, le miopie

critico-teoriche si palesino ingigantite e faccia-no «sintomo». Per questo vale la pena di deci-frare questo particolare sintomo: l’assenza ol’estrema scarsità di pubblicazioni di FrancisPonge nell’editoria italiana. Sì, perché è benstrano che un autore morto alla fine degli anniOttanta del secolo scorso, la cui intera operaè stata raccolta in due volumi nella Pléiade tra1999 e 2002, non conosca a oggi un’ampiatraduzione nella nostra lingua. Quando appa-re, la traduzione di un poeta ha come premes-sa il variegato interesse che la sua opera hasuscitato presso altri poeti, specialisti dellaletteratura in questione, critici militanti. Perconseguenza la mancata traduzione indica unvasto fronte di disinteresse. Ed è senza dub-bio questo il destino di Ponge, in Italia.

Henri Michaux, ad esempio, belga natura-lizzato francese, anche lui nato come Pongenel 1899, comincerà ad essere tradotto nelcorso degli anni Sessanta, e grosso modo co-noscerà un’attenzione costante, dimostrataanche di recente dalle case editrici Quodlibete Adelphi, che hanno proposto la traduzione didiversi libri ancora inediti in Italia. Nel caso diPonge bisogna attendere una prima traduzio-ne in volume nel 1971. Ironia della sorte, ne èresponsabile uno dei capofila dell’ermetismofiorentino, Piero Bigongiari: che dimostra, dabuon conoscitore della letteratura d’oltralpe,di apprezzare un’opera ormai imprescindibilenel panorama della poesia francese, nono-stante sia molto lontana dalla sua sensibilità diautore. La traduzione successiva, a firma diJacqueline Risset, appare solamente otto annidopo. E mentre in Francia, a partire dagli anniOttanta, l’interesse anche accademico perl’opera di Ponge cresce in maniera costante,

producendo un numero sempre maggiore distudi critici, convegni e monografie, in Italianon accade più nulla di significativo, se si ec-cettua l’uscita di due volumetti tradotti dalloscrittore Daniele Gorret per la piccola casaeditrice l’Obliquo: Testo sull’elettricità (1997) eIl sole in abisso (2003).

Il misconoscimento di Ponge sembra an-dare di pari passo con l’entusiasmo per YvesBonnefoy, intronizzato nel 2010 nei Meridiani.Non è qui in discussione la considerazioneche l’opera di Bonnefoy riscuote in Francia,ma da noi essa acquista l’ulteriore vantaggiodi confortare una certa idea di poesia comeantitesi del pensiero concettuale, aspirazionealla pienezza e all’unità dell’essere, culto dellabellezza. Bonnefoy insomma, grazie al suo ta-lento e alla sua fama, permette di perpetrarela fede in una poesia dai confini ben riconosci-bili: la poesia come altro sia dal linguaggio or-dinario che dal linguaggio scientifico. In que-st’ottica, non si può negare che un autorecome Ponge risulti particolarmente indigesto.(Lo è ovviamente già in Francia, prima ancoradi esserlo per noi). Ponge pretende, infatti, didismettere il titolo di «poeta» e, simultanea-mente, il genere «poesia». Non si tratta di unvezzo né di una provocazione, ma dell’inevita-bile conseguenza di una pratica di scrittura,ancora prima che di un partito preso teorico:egli si sente più familiare con l’universo dellaricerca scientifica che con quello della medita-zione metafisica o della trasfigurazione poeti-ca. Più che all’opera, come traguardo di com-piutezza formale, è interessato al processo dielaborazione di una forma. In esso, infatti, simanifesta appieno la postura a un tempo po-sitiva e scettica del ricercatore, che avanza pertentennamenti e prese parziali.

Ponge ha portato alle estreme conse-guenze due princìpi del modernismo nelle arti

e nella letteratura: l’idea della convenzionalitàdei generi e l’attenzione per i mezzi espressi-vi specifici di ogni forma d’arte. La convenzio-nalità delle forme poetiche non è da lui sem-plicemente sovvertita, ma abbandonata comeobsoleta e inadeguata, a fronte di un lavorocostante di messa in forma imperativamentegovernato dall’oggetto che si tratta di evocare:«Ogni oggetto deve imporre alla composizio-ne poetica una forma retorica particolare»1.Questa tensione verso la materialità e l’ogget-tività del mondo rende Ponge estraneo ai gio-colieri della forma, quali i seguaci dell’Oulipo oi neometrici di ascendenza avanguardista.D’altro canto, l’attenzione per il linguaggio nonsi limita a considerare la dimensione materia-le delle parole, il loro funzionamento autono-mo nella realtà del discorso scritto (autonomiadel significante), ma accoglie di esse anchel’eredità storica ed etimologica. Tra la sensibi-lità individuale del poeta e l’idioletto a cuitende la sua espressione, s’inserisce un com-plesso dispositivo, in cui entrano a far partecome sue estensioni anche l’enciclopedia, idizionari (il Littré), i trattati scientifici, oltrechécerta letteratura, preferibilmente latina, ossiapre-cristiana (Lucrezio e Tacito). Anche il lin-guaggio quindi è percepito nella sua oggettivi-tà, come prodotto di sedimentazioni successi-ve, in cui si esprime il genio collettivo delle ci-viltà. E se lo scrittore lotta contro il linguaggioereditato, lo fa non in nome di una mitica inte-riorità individuale, che il parlare comune con-dannerebbe all’inespresso, ma in nomedell’«insurrezione delle cose contro le imma-gini che imponiamo loro»2.

Ciò che rende Ponge tanto anomalo nelcatalogo dei poeti novecenteschi, è in definiti-va questo partito preso non solo ateo e mate-rialista, ma propriamente anti-cristiano, che lospinge a spogliare l’umanità di ogni privilegio

all’interno dell’universo naturale («L’uomo nonè il re della creazione. No, per niente. Piutto-sto il suo persecutore. Persecutore persegui-tato»3). Di qui il suo disinteresse per la «rap-presentazione letteraria» delle vicendeumane, di cui già esistono nutritissime biblio-teche, e l’enorme sforzo, invece, per esprime-re le qualità particolari dei singoli oggetti, apartire dai più futili e ordinari. L’oggetto, quin-di, non è il mero supporto, l’occasione per ri-velare la sublime e insondabile soggettivitàdel poeta. Il soggetto, e il suo linguaggio, fun-gono piuttosto da cassa di risonanza dell’og-getto, colto nella sua estraneità originaria.

Bisognerebbe misurare, poi, la portataanche politica di tale strategia di Ponge, cheopera simultaneamente diversi spostamenti:spostamento dal paradigma formale e liricodella poesia, verso una forma di ricerca in con-tinuità con l’impresa scientifica; spostamento,d’altra parte, nei confronti della scienza, inquanto per Ponge la ricerca della definizione-descrizione degli oggetti implica l’accettazio-ne della dimensione corporea ed «erotica»del ricercatore, che non si pone quindi nellapostura spassionata e neutrale dello scienzia-to tradizionale; spostamento, infine, rispetto aqualsiasi residua gerarchia dei soggetti dellarappresentazione letteraria: dal sapone al bic-chier d’acqua, dal fico secco al geranio. Ciòche esige di essere tratto dal silenzio e dall’in-significanza, è appunto tutto quanto la nostraassuefazione allo spettacolo considera banalee irrilevante, proprio perché cade ogni giornosotto i nostri sensi.

1. F. Ponge, Méthodes, Gallimard 1961, p. 37.2. Ivi, p. 304.3. Ivi, p. 202.

L’anomalia PongeAndrea Inglese

Non nella critica o nel giudizio (nella guerra, ideo-logica o materiale, nel terrore). Quindi, legittimamente, POSSIAMO comunicaresoltanto il rapimento, per il resto non facciamoche uccidere. Soltanto il rapimento si comunica.E comunque, comunicare collera e giudizi nonappartiene al nostro gusto… Adesso, supponendo di perdere questa illusione (edi arrivare al suicidio), l’unica forma legittima disuicidio che rimane è la devozione (gioiosa),l’amore, la conquista della parola, la lode. E que-sto chiude il cerchio e riporta alla parola, alla suaarte: alle lettere.

Brano estratto da Nioque de l’avant-printemps (Gallimard1983) e tratto dalla prima traduzione integrale di questo testo inItalia, a cura di Michele Zaffarano e di prossima pubblicazionepresso la casa editrice Benway.

1. La Sezione Francese dell’Internazionale Operaia (S.F.I.O.)è il partito politico che nel 1905 riunificò le forze socialistefrancesi, disperse in diverse formazioni concorrenti. Nel1969, confluirà nel nuovo Partito socialista.2 Questa citazione è tratta da un testo dello stesso Ponge, inti-tolato Ad litem e raccolto in Proêmes (1948). Lo stesso testoviene citato subito dopo.

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ACTIONS POETIQUES

Julien BlaineL’avanguardia non ha concluso

che il suo primo secoloConversazione con Andrea IngleseÈ difficile collocare Julien Blaine in qualche

settore ben definito della sperimentazionepoetica: poesia visiva, poesia sonora, eccetera.Tutte queste sono soglie oltrepassate da Blainealla ricerca di una poesia che potremmochiamare d’azione, incentrata sul ritornocontinuo del corpo sulla lettera, sulla presenzadella lettera come corpo: fisico, sonoro,gestuale. In una battaglia contro l’astrazione ela smaterializzazione della nostra esistenza,Blaine ha trasformato la Poesia, regnodell’interiorità e della mente, nelle ArtiPoetiche: laboratorio perpetuo di poesieconcrete, visive, di performance, di mail art, dilibri d’artista, di fotocopie, di fotografia, dimonumenti sabotati ecc.

Julien Blaine, cominciamo subito con unesercizio noioso. Come definirebbe la suaattività nei paraggi di ciò che viene chiamata«poesia»? (In Italia, la parola poesia indica perlo più una persona che scrive tranquillamente esilenziosamente nel suo angolino, e a voltelegge in pubblico il frutto di questo sforzosolitario).Io non sono né silenzioso né tranquillo: tutto è(ri)cominciato con la pubblicazione di unmanifesto firmato assieme a Alain Schifres eJean-Claude Moineau dal titolo La poesia fuoridal libro, fuori dallo spettacolo, fuori dall’oggetto,apparso su «robho» (numero 5/6 del 1970). Èun elemento chiave per comprendere la miadigestione del gesto poetico come performance.Lo è anche per comprendere il ruolo di certimovimenti poetici o artistici che sonosoprattutto movimenti strategici per ottenere ilpotere sul mondo letterario e artistico: su quelghetto di gotha culturale made in France che èsoprattutto a Parigi, e più precisamenteall’interno del quartiere latino.I futuri decenni proveranno che avevamoragione… Per quanto ci riguarda, in effetti,dopo lo scacco formidabile, spaventoso del1968, abbiamo considerato che lo scopo dellaperformance fosse un atto rivoluzionario, unmodo magnifico, utopico, di far sperimentare atutte e a tutti il cammino dell’autonomia edella libertà, per poi trovarlo e infineimboccarlo. In effetti i dossier di «robho»furono dedicati essenzialmente all’interazionedei corpi: Lygia Ciark, il gruppo Gutai, l’ArtGuérilla, la Poesia e tutto il resto, alla fine, erafrutto di arte corporea in azione e spessosovversiva.

Come il suo percorso s’iscrive nelle correntidella poesia visiva e sonora della seconda metàdel XX secolo? Lei è attivo già a partire dallafine degli anni Cinquanta. Nel 1962 c’era qualche rara attività neo- osemi-Fluxus intorno a Robert Filliou, adesempio, qualche incontro legato alla Poesia-Azione con Bernard Heidsieck, qualche attivitàin stile Poesia Sonora con la rivista «OU» ec’erano coloro che superavano o oltrepassavanoil lettrismo, come Gil Wolman o FrançoisDufrène, gli Happening giunti dagli Stati Uniticominciavano a diffondersi con il marchiomade in France grazie a Jean-Jacques Lebel…Io mi sentivo distante da tutto questo. Come molti artisti isolati, avevo deciso di averedei progenitori. Dal momento che nonesistevano, ho partorito io alcuni padri defunti:quelli del futurismo (più i Russi che gliItaliani), di Dada (più Kurt Schwitters eGeorges Ribenont-Dessaignes o Francis Picabiache gli altri), del cubismo (GuillaumeApollinaire e Pierre-Albert Birot). Molti di loroall’epoca erano sprofondati nell’oblio ogalleggiavano come relitti… E quelli di Cobra(Christian Dotremont). Senza tralasciare la

lezione del Livre di Stéphane Mallarmé! Potevonascere! Su questo argomento ho scritto molto(troppo!). Tutte le avanguardie storiche degliultimi anni del XIX secolo, di tutto il XX e deiprimi anni del XXI sono nate per iniziativa dipoeti.

In Italia, fino almeno agli anni Ottanta, siaveva l’impressione che il termine poesiaindicasse modalità e percorsi anche moltodifferenti. Inoltre, da noi, la poesia sonora evisiva conosceva una tradizione importante, cherisaliva evidentemente ai futuristi. In seguito,c’è stato come un ritorno all’ordine. E, nelfrattempo, la maggiore novità a cui abbiamoassistito su questo fronte è stata la diffusionedello slam-poetry. Che cosa è accaduto inFrancia nel corso di questi anni? C’è stata unaricerca in continuità con gli autori della suagenerazione? C’è stato un rinnovamento? Lamia impressione è che oggi le frontiere tra poetidella scrittura, poeti dell’oralità e poetidell’azione tendano piuttosto a cancellarsi…Penso ad autori come Cristophe Tarkos ouVincent Tholomé, ad esempio…La poesia ha almeno tre dimensioni:pronunciata, mostrata e scritta, e il poeta deveprestarsi alla scrittura calligrafica e stampare,dire e articolare, esporre ed esporsi.La sua utopia è di voler cambiare il mondoignobile nel quale viviamo, la sua ingenuità è difar credere e di credere che si tratti di un lavorospirituale!Per tornare alla Francia, dopo gli anni Tapie(Bernard), gli anni Ottanta, quelli della riuscitasociale, gli anni dello scacco proclamato dellapoesia e dell’inutilità rivendicata delleespressioni contemporanee, gli anni dellabarbarie e dell’incultura – che fannonuovamente capolino in questo inizio dimillennio –, i poeti si sono nuovamenteaffermati, numerosi e vivaci, in carne e ossa,con grande strepito attorno ad alcuni piccolieditori disseminati ovunque in Francia… L’elenco è impressionante: Julien d’Abrégeons,Nadine Agostino, Édith Asam, Jérôme Bertin,Philippe Boisnard, Hervé Bruneaux, GillesCabot, Claude Chambard, Anne JamesChaton, Michel Collet, Valentine Verhaeghe,Sylvain Courroux, Olivier Desmarais, PatrickDubos, Antoine Dufeu, Jean-Michel Espitallier,Christophe Fiat, Jérôme Game, FrédériqueGuétat-Liviani, Christophe Hanna, ÉricHouser, Christian Jalma, Manuel Joseph,Claudie Lenzi, Laure Limongi, Vanina Maestri,Christophe Manon, Carpanin Marimoutou,Joachim Montessuis, Florence Pazzottu, AnneParian, Charles Pennequin, Nathalie Quintane,Stéphane Bérard, Emmanuel Rabu, AndréRobèr, Jacques Sivan, Eric Suchère, LucienSuel, Nicolas Tardy, Christophe Tarkos, PierreTilman, Vincent Tholomé, Colette Tron,Véronique Vassiliou, […] (tra le centinaia). Nondimeno, nel corso degli anni Ottanta eNovanta, vanno prese in considerazione eascoltate e viste (in video) le «letture» diChristophe Tarkos o di Charles Pennequin ealtri «inclassificabili» come CarpaninMarimoutou, quelle e quelli del gruppo Boxon,Joachim Montessuis e Yvan Étienne, FrédériqueGuétat Liviani, Marina Mars, i Dépannemachine, Claudie Lenzi, Philippe Boisnard,Hortense Gauthier ecc.E i futuri sessantenni, ma sempre presenti,come Joël Hubaut o Arnaud Labelle-Rojoux(autore di un’altra bibbia sulla performance:L’acte pour l’art, un possibile seguito a Poésie enaction)…Ma è pur vero che gli anni Sessanta e Settanta

sono finiti e che molte di queste nuoveperformance possono essere definite secondotale o talaltro post script Uom.

Esiste in Francia un circuito significativo per lepoesie dell’oralità e dell’azione ? Quali sono iluoghi, le occasioni, i festival, la case editriciche permettono la diffusione e la vitalitàpubblica di queste pratiche? Tra i festival : actOral a Marsiglia, le Voix de laMéditerranée a Lodève, Ritournelles a Bordeaux,Expoésie a Périgueux, Inton’action a Sète,Manifesten a Limoges e numerose Case dellaPoesia, come quella di Nantes o di Parigi, piùalcune gallerie e librerie fedeli alla causa,numerose in Francia e sull’intero territorio. Ungrande (per la sua taglia) editore come P.O.L.,una collezione mingherlina da Flammarion emedi e piccoli editori dappertutto: Al Dante,Dernier Télégramme, le Bleu du Ciel, Le Cloudans le fer, Nous, Voix, e una sfilza in tutto ilpaese senza mezzi, ma coraggiosi e dalla vitaeffimera. Senza dimenticare la grande quantitàdi riviste, dalla longeva e defunta «Actionpoétique» (un percorso esemplare) alla nuova«Invece» (in uscita nel novembre 2012 per leedizioni Al Dante), passando per le storiche«Doc(k)s» o «If» o «Po&sie» e molte altre:«Confluences», «Poésie Première», «Fusées», «IlParticolare», «Inuits dans la jungle»,«Anartiste», «Nioques», «Nu(e)», «Ouste»,«Traces», «22», «montée des poètes» e altreancora, tante altre… E per concludere su rivisteo blog in rete: Sitaudis, Un nécessaireMalentendu, Tapin, Diapo, Inferno ecc.

Nel suo Corso minimo sulla poesiacontemporanea1, Lei propone una visione di«lunga durata» dell’avanguardia, che non può innessun caso essere circoscritta al XX secolo.Sanguineti voleva fare dell’avanguardia un’arteda museo. E oggi abbiamo degli universitaridediti con grande zelo allo studio dei più oscuritra i lettristi. Mi sembra che Lei abbia unavisione un po’ diversa dell’avanguardia, piùprospettica che retrospettiva… Può dirci qualcosain proposito?Volentieri. Vi propongo direttamente alcunipassaggi:

« […] Avanguardia e durata:Per cambiare, far veramente muovere il mondo,le cose e i comportamenti, per dare vera vita,cosa equa, comportamento giusto, e mondodell’uomo,c’è stato bisogno di tempo e ci sarà bisogno ditempo…– T’ang, 618-907: 3 secoli, in Cina.– i troubadours: più di due secoli tra ilPortogallo e il Veneto, e in Provenza.– l’avanguardia, movimento lento e anchemeditato, ed entusiasta, non conclude che ilsuo primo secolo… […]Lettura Cortile: Se Tizio, visitatore del XX secolo, considerasulle cimase di un museo un bel dipintomoderno, non finirà per esclamare:«Ancora un paesaggio!»o «Ancora della natura morta!»Se Caio, passeggiando per un giardino pubblici,si fermasse un attimo per ammirare una statua,non finirà per esclamare: «Ancora una donnanuda!»Ma questi due, come la gran maggioranza deglialtri, non mancheranno di dire e di esclamare, allalettura dei nostri testi, alla visione delle nostreopere e all’ascolto delle nostre poesie:

«Ancora dell’avanguardia!»Ma è una cosa molto vecchia, davvero moltomolto vecchia: ha più di un secolo, alloravogliate per favore considerare i nostri lavoricome guardate un paesaggio, un nudo di donnao una natura morta.[…]L’avanguardia non fa che chiudere il suo primosecolo (il Lancio di dadi di Mallarmé e il suoLibro; Pound: il pittogramma e i carattericinesi; futuristi, dada, cubisti, cobra, lettristi,concreti, fluxus e noi: gli elementari). È giuntoil momento di Rifabbricare la nostra memoriaridotta in ceneri dai cani di Dio. (l’inquisizionedel cattolicesimo)[…]– la spiritualità degli Hopi e degli Zunie le loro bambole Kachinas(cfr. Marcel Duchamp)Bambole rituali degli Indiani hopi e zuniDuchamp spiegato ai bambini grazie alleKachinas.Bisogna di tanto in tanto cercare dicomprendere le cose più semplici e sapere chegli Indiani hopi e zuni, e molti altri tra i lorofratelli e sorelle – anche – avevano uno spirito(un’anima).Non soltanto gli avi, gli antenati, o gli animali!Ma anche gli alberi, le piante e gli ortaggi!Mamma-corvo e l’orco e l’uomo dal nasoturchese e il vecchio zio, la donna e le ragazze,il guerriero e lo stregone, il tasso e il leader, ilsuonatore di flauto e la vecchia donna, ilcorridore e il clown, l’aquila e la tartaruga, illupo e lo scoiattolo, la volpe e la cicala, l’ape eil granduca, la civetta e il falco, il serpente e ilmuflone, la beccaccia e l’anitra, la farfalla e ildaino, l’ape e il gatto, la mosca e la lince, ilregolo e la mucca, la lucertola e il codirosso, ilmimo e il fustigatore, gli zii e i nonni e levecchie madri, Dio e gli déi…Tutti questi insetti, tutti questi uccelli, tuttiquesti mammiferi, tutti questi animali, tuttiquesti umani, tutti possiedonoLo spirito, l’anima, il soffio vitale.Ma la possedevano anche: la nuvola e la stessa,la neve e le comete, il torrente e la meteora!Ma anche: il fango e i fagiolini, la zucca e ilcactus, il mais e il fiore, gli spinaci e la senape.Allora si capisce perché Marcel Duchamp, unodei grandi inventori del secolo, scoprì leKachinas moderne e occidentali:la ruota di bicicletta (lo spirito della ruota dibicicletta), la vanga (lo spirito della vanga), iltappo di lavandino (lo spirito del tappo dilavandino)e tanti altri, e tanti altri…Ora risulta facile capire come mai l’inventariodello spirito (ri)nascente nelle cose collezionò:I’she senape verde e Ma-Alo canna da zucchero,e Angak’China dai capelli lunghi e Hemsonatagliatore di capelli, e Kau-A che viene daiNavajo,e Konin Kachin’Mana ragazza supaï, e KwasusAlektaka la tartaruga, e Lenang il flauto, eTuskiapaya il serpente pazzo, e Sio Shalakol’uccello gigante, e Sotuknangu cuore di Dioceleste.Ha dovuto cercare qua e là, per verificare la suapotenza e per completare la sua collezioneaccanto a I’She senape verde e Ma-AloKachinas col bastone: Patung Kachinas-Zucca eYung’A Kachinas-Cactus.Che il soffio vitale sia con voi…

1. J. Blaine, Cours minimal sur la poésie contemporaine(poésie visuelle, poésie sonore, poésie-action, & autresperformances), Al Dante 2009.

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Il viaggio è partito a metà degli anni Ot-tanta nella sede della Cooperativa Intra-presa, a Milano, dove si pubblicavano ri-viste come «alfabeta» e «la Gola» e si orga-nizzavano iniziative come Milano Poesia;

e arriva oggi, in compagnia di alcuni degli stessiamici di allora – in questo caso Alberto Capatti –,alla realizzazione di un libro, Design in Cucina, in-sieme a Valentina Auricchio. Questo viaggio diquasi trent’anni ha attraversato un Paese che nelfrattempo certamente è cambiato, ma è anche ca-pace di mantenere certi fili rossi che superano lacronaca e soprattutto tutti i dilettanti-guru che inquesti anni hanno discettato di cultura materiale,cibo, design e architettura. Forse ci tocca farecome i grandi filosofi del primo Medioevo: primaun po’ di patristica, ovvero mettere in ordine lecose, poi un po’ di scolastica, nel nostro caso com-prendere dove finisce la cronaca e dove comincia-no vera innovazione, progetto, produzione. Indi-viduare i paradigmi, al di là del marketing.

Il lavoro ancora da completare, il viaggio è an-cora lungo e anzi non finirà mai. Ma nello stessotempo vogliamo affermare con forza che il cibocome il design, senza radici e modelli culturaliforti, sono destinati a lasciare tracce deboli nellastoria di un paese. E invece, come è accaduto dallafine degli anni Settanta in avanti, bisogna tenerelo sguardo rivolto alla vita di tutti i giorni e, con-

temporaneamente, costruire modelli interpretati-vi in grado di farci capire la vera storia materiale.

I tre autori del libro sono diversi, fra loro,per generazione e provenienza culturale: Valen-tina Auricchio è una giovane studiosa di designdi cultura italiana e nordamericana e da poco èdivenuta condirettore della rivista «Ottagono»;Alberto Capatti, francesista, è uno dei più im-portanti studiosi della cultura alimentare, fon-datore del primo mensile al mondo dedicato alcibo, «La Gola», e primo rettore dell’Universitàdi Scienze gastronomiche di Pollenzo; chi scriveinfine è filosofo, allievo di Gillo Dorfles, tra ifondatori dell’Istituto europeo di design e diret-tore di «Ottagono». Ma soprattutto, in queilontani anni Ottanta, sono stato prima frequen-tatore militante e curioso, poi collaboratore de-sideroso d’imparare, di quello straordinario la-boratorio che erano gli spazi della CooperativaNuova Intrapresa. Lì ci si incontrava con Gian-ni Sassi, Nanni Balestrini, Gino Di Maggio,Antonio Porta, Umberto Eco e il giovane Mau-rizio Ferraris, artisti, musicisti, cuochi all’iniziodella carriera, grandi intellettuali mescolati ascrittori, filosofi ancora alla ricerca della propriaidentità, giornalisti come Folco Portinari e altriancora, in un tourbillon di lingue, discipline,competenze, saperi accademici e stimoli cultu-rali provenienti dalla «strada»; o nelle serate al

Lucky Bar di Bolzoni in viale Umbria, primaperiferia milanese. Ecco, credo che la fucina dacui nasce il nostro libro tragga la propria fonda-mentale identità da questa pratica del confron-to, nel segno del rispetto e della libertà, senzamai barare.

Il cibo come il design allora ci apparivano di-scipline borderline: non tanto perché non cono-scessero esperti e cultori (gli anni Ottanta sanciro-no il valore non solo economico del design italia-no; mentre l’enogastronomia stava uscendo dallafalsa cultura del «vino del contadino» per appro-dare progressivamente, con Capatti & company –da Carlin Petrini a Massimo Montanari, attraver-so Slow Food – al trionfo di Eataly di Oscar Fari-netti) quanto per una difficile trasmissione dei sa-peri: ci apparivano soprattutto attività produttivee commerciali, nelle quali la dimensione del mer-cato e del consumo prevalevano su quello della di-mensione culturale ed «epistemologica».

La nostra ricerca per ora è approdata al volu-me Design in cucina, oggetti, riti luoghi, che faparte della collana «Ottagono» di Giunti, inaugu-rata nel 2010 col volume a mia cura Design in Ita-lia. L’esperienza del quotidiano. E si offre comecontributo, certamente d’impianto divulgativoma fermo su alcuni punti fondamentali, uno inparticolare: gli oggetti sono per noi una straordi-naria sedimentazione simbolica e conoscitiva per

parlare di persone, territori e tradizioni culturali.Da qui la ragione di un lavoro veramente colletti-vo, e di una scrittura che pur nelle differenze de-sidera mantenere fermo il rispetto delle fonti ma-teriali: l’unità nella diversità. La stessa strutturadel volume si articola nei Luoghi del quotidiano(casa, lavoro, corpo, città), e in un Atlante di circa150 oggetti che, in ordine cronologico, illustranole diverse azioni del «fare cucina». Non mancanopoi aspetti di carattere più comunicativo; perchécon questo lavoro davvero ci pare di tornare in-dietro nel tempo, alla sede della «Gola» in via Ca-posile, nella periferia milanese, dove, accanto alsaggio di Baudrillard o all’ultimo frammento diHeidegger da correggere, nella stanza accantosotto a una tavola di Daniel Spoerri, GualtieroMarchesi discuteva di cucina e musica contempo-ranea con Gianni Sassi e Alberto Capatti, mentrea Linate stava per atterrare Gregory Corso conaltri problemi… E noi, un po’ più giovani ma an-cora legati a una tradizione culturale dove ogni di-sciplina doveva rispettare codici e percorsi propri,ascoltavamo e prendevamo appunti, anche perchéun maestro e amico come Gillo Dorfles ci avevainsegnato a essere rigorosi, sempre però nel segnodell’eclettismo. Ecco, il nostro libro è anche tuttequesto: sono tante le voci che parlano, e che inogni pagina ci dicono di andare avanti così. Fare-mo del nostro meglio.

Un viaggio durato trent’anni Aldo Colonetti

Roberto Barni. Condominio, 2007

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Sistema degli oggetti: il moscardinoAlberto Capatti

Dei due modi di osservare gli og-getti d’uso alimentare – l’unorivolto al loro passato, l’altrodal passato verso il loro diveni-re fino a oggi – nessuno può

dirsi migliore. Il primo tende a scoprire, per viadi analogie formali e funzionali l’esistenza di an-tecedenti che fondano il nostro modo di proget-tare la vita, riassunto in un neologismo, «de-sign»; il secondo ritiene che ogni oggetto ali-mentare abbia un’origine e serva da modello aquello che lo sostituirà, o si affiancherà a essocon varianti formali e funzionali. Ne nasce inentrambi i casi una serie di documenti dispostiin ordine cronologico, la quale si presta aun’analisi comparativa e prospettica. Allo storicodell’alimentazione è generalmente attribuito ilruolo di descrivere il sistema degli oggetti che,nel passato recente o remoto, ha fondato tutte levarianti attuali. Con l’aiuto dell’Invenzione dellaforchetta di Pasquale Marchese (Rubbettino1989) si fissa una tipologia diacronica, proce-dendo a raffronti e tirando conclusioni. Il risul-tato permette di valutare «storicamente» la pro-posta dei tre e dei quattro rebbi di Gio Ponti(per Krupp Italia, 1951-56), la sua scelta di unmetallo e di un’impugnatura.

Davanti a progettazioni più recenti e menoconvenzionali, l’approccio non cambia. Si pren-da il moscardino di Iacchetti e Ragni per Pando-ra design (1999): combinare la forchetta e il cuc-chiaio in un solo strumento con la duplice fun-zione di infilzare e raccogliere, potrebbe sembra-re una invenzione d’oggi, nata da modi di nu-trirsi irrituali e da cibi di diversa natura prepara-ti e accostati per un consumo rapido (il moscar-dino presuppone che il cibo sia stato tagliato enon sia troppo liquido). Senza una precisa ricer-ca degli antecedenti, il moscardino posata usa egetta, cucchiaio e forchetta da impugnare da unaparte alla volta, non ripassando dall’una all’altra(per non sporcarsi), sarebbe nato da comporta-menti alimentari tipici degli aperitivi e dei buf-fet in piedi, dell’assaggio ripetuto e volante. Auna sociologia dei consumi, più che ad una sto-ria, parrebbe limitarsi l’apporto documentario.

Eppure non è così. L’esistenza di un cuiller-fourchette in legno è attestata dal settecento inFrancia (Objets civils domestiques, Paris, Impri-merie Nationale, 1984, p. 252). Forchetta a trerebbi con cucchiaio, era prodotta in un materia-le che rivelava un uso non domestico, adatto altrasporto e al consumo occasionale di un pastocaldo o freddo. È da escludere che venisse getta-ta dopo l’uso. L’interesse del cucchiaio e dellaforchetta pieghevoli era ben noto ai viaggiatori eagli ufficiali in campagna, ma questo strumentoleggero presentava facilità d’uso ulteriori e unamaneggiabilità superiore, per un’assunzione dicibo veloce. L’invenzione del 1999 consiste piùnella scelta del materiale plastico e nell’usa egetta che nella duplice funzione strumentale.L’interesse del cuiller-fourchette non è solo di co-stituire un antecedente ma di attirare l’attenzio-ne sul passaggio dal legno alla plastica, sul rap-porto evolutivo fra la mano e l’utensile, e di apri-re una indagine sui cibi che richiedono il mo-scardino. Un approccio storico limitato all’ogget-to è privo di tutte le sue applicazioni nutritive, eil cibo rappresenta non un corollario ma l’obiet-tivo finale della ricerca sul design.

Che l’analisi proceda in un senso o nell’altro,retrospettiva o prospettica, il vero proble-

ma non è l’oggetto in sé ma la rete di significatiche esso investe e da cui è connotato. La forchet-ta, comparata a due bastoncini, ha senso rispet-to a un modo di tagliare, cuocere e servire ilcibo, quindi di alimentarsi. Da qui ad asserirel’esistenza di un design dell’oggetto alimentare edel cibo, il passo è breve. Oggi si parla di un

cuoco che è un designer, quando mette a puntopiatti che hanno forme, colori e consistenze ori-ginali, comparabili a quelle che ritroviamo inaltri ambiti ritenuti creativi, quali l’oggettisticafirmata e la moda. Il suo piatto, senza essere tu-telato da un marchio o dalla proprietà artistica,viene ritenuto opera d’autore come il moscardi-no. Ed egli va fiero della sua trovata che, da effi-

mera come tutto ciò che si mangia, diventa du-revole e prende posto in un’ipotetica collezionedei nuovi oggetti alimentari.

In realtà è tutta la cucina, domestica oltre cheprofessionale, a essere la matrice del food design.Un piatto di spaghetti o uno spezzatino di carnepresuppongono strumenti idonei e per il primo ilmoscardino è assolutamente inadatto, avendo i

rebbi larghi e corti, mentre per il secondo un paiodi bacchette andrebbe bene a condizione che nonci fosse troppo sugo, il che richiederebbe una for-chetta a rebbi stretti per raccogliere un po’ disugo. Fare cucina e scegliere gli strumenti permangiare appartengono allo stesso sistema. Suquesto presupposto, e non sull’esistenza di cuo-chi-designer, si fonda il Design in tavola di Auric-chio, Capatti e Colonetti (Giunti 2012).

L’esistenza di un sistema alimentare in cui ri-troviamo utensili e cibi, corpi e arredi, riti e pa-role per designarli, impone una doppia analisi: inun’analisi complessiva viene focalizzato uno stru-mento, un cibo e tutte le loro relazioni possibili,analizzabili con molteplici indagini di pertinenzadel design, della storia, della linguistica e dell’an-tropologia; l’analisi distributiva mette a fuoco lespecificità di ogni singolo oggetto preso in consi-derazione, puntando a evidenziarne l’origine, ilprogetto, la funzione e il significato. Tutti gliutensili e i cibi rientrano in questa doppia anali-si che ha il vantaggio di non isolare i singoli re-perti e di non enfatizzare l’esistenza di tipologie edi categorie in se e per se significative. Dopo que-sta duplice indagine, potremo divertirci con leanalogie e i simboli dei linguaggi alimentari.Anche il nome del moscardino – in cui convivo-no un mollusco e una forchetta-cucchiaio; e an-drebbero ricordate pure le pasticche odorose espeziate in uso nel Cinquecento – fa parte di essi.

Settembre 2011: il primo di innumerevoli in-contri in un percorso durato più di un anno,un confronto tra mondi e generazioni diversein cui si è parlato di tangibilità e intangibilità,inclusione ed esclusione, temporalità, italia-nità, oggetti, strumenti, ricettari, design, in-novazione radicale e paradigmi, icone, riti,modello antropologico francese, contempo-raneità e rivisitazione del passato, finalizza-zione alla commestibilità, imprese, moderni-tà utilizzata, classificazione, la messa in tavo-la alla francese, usa e getta, distretti, designanonimo, antropologia dell’oggetto, conta-minazioni culturali, cronologia, corpo, casa,cucina, lavoro, città. Eccetera.Design in Cucina è prima di tutto una ricer-ca che è nata da una riflessione condivisa

che integra una profonda conoscenza stori-ca delle usanze italiane in cucina con una vi-sione sull’evoluzione futura della produzionedi utensili. Un viaggio nel tempo e nel terri-torio che restituisce una fotografia soggetti-va (nata proprio dall’interazione tra tre sog-getti muniti del proprio bagaglio culturale:Capatti, Colonetti e Auricchio) di un fenome-no popolare che appartiene alla quotidianitàdegli italiani.

Valentina Auricchio, Alberto Capatti, AldoColonettiDesign in cucina. Oggetti, riti, luoghiGiunti, pp. 224, € 39

Dietro le quinteValentina Auricchio

Roberto Barni. In-stabile

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Carlo Emilio GaddaQuer pasticciaccio brutto de via Merulanaletto da Fabrizio GifuniEmons Audiolibri, cd mp3, 13h 34’, € 18.90

«Colleghi di alta statura» definì una volta, Gianfranco Contini,Gadda e Joyce. Ma – al di là della considerazione, inconfutabile,della rispettiva altezza entro le letterature che hanno avuto la ven-tura di fregiarsi di simili campioni – una quantità di voci criticheillustri hanno tentato di definire tale superiore colleganza (a parti-re da Contini stesso: che li accomunava nella cifra d’un «manieri-smo espressionistico» capace di mostruosamente miscelare «ele-menti linguistici disparati, maneggiati con estrema sapienza, voltaa rendere, con effetti di grottesco enorme […], il caos d’una cul-tura e d’un mondo in crisi»). Un vettore di ricerca comune va senz’altro indicato nella compo-nente orale: nella colossale partitura vocale (e ovviamente plurivo-ca, oltre che plurilinguistica; e insomma, epica) cui i due autorigiungono col rispettivo opus ultimum, Finnegans Wake e Quer pa-sticciaccio brutto de via Merulana. Forse proprio in quanto memo-re del terrore esaltato che i frammenti del Work in progress aveva-no fatto serpeggiare negli anni Venti e Trenta, nel 1957 all’appa-rire del Pasticciaccio – e dell’impegnativo paragone – il semprecauteloso Gadda si schermì, nei confronti degli «esperimenti in-tellettualistici e disperati» del collega. Ma se è vero che il Pasticciaccio rappresenta un vero e proprio saltodi piano, rispetto a quanto lo precede, è proprio per la smaglian-te quanto frastornante messa in scena dell’oralità, e anzi della vo-cabilità, della parola narrativa: un universo tutto verbale, nelquale ogni evento sulla pagina figura riportato, pronunciato avoce alta, tutto viene insomma «cinguettato» dai tanti merli can-terini che affollano la strada del titolo – «questi che vien fatto dichiamare gli indigeni», come scrisse Manganelli. E se è vero, comeha mostrato Gabriele Frasca nel grande saggio archeologico sullanarrativa occidentale come messa in scena della voce (La letterache muore, Meltemi 2005), che proprio quello di Joyce è l’esem-pio di «testo che non si rassegna alla pagina» ma tende a una di-mensione acustica e grammofonata (Ulisse grammofono s’intitolònel 1984 una conferenza di Jacques Derrida, in Italia pubblicatadal melangolo nel 2004: alludendo al monologo del grammofo-no, appunto, nel capitolo «Circe» di Ulysses), è proprio qui cheandrà ricercata la radice più fonda della colleganza in questione. Sta di fatto che non a caso nel 1929, a Cambridge, Joyce volle re-gistrare una propria lettura del capitolo finneganiano «Anna Livia

Plurabelle» (ora ascoltabile anche su YouTube), mentre per il Pasticciaccio ci

dobbiamo affidare a interpreti se-condi, che abbiano più o meno

approfondito la testualità diGadda. E chi vi si è de-

dicato senza ri-

sparmio, negli ultimi anni, è stato senz’altro Fabrizio Gifuni: giàstrepitoso interprete (per la regia del compianto Giuseppe Berto-lucci) dell’Ingegner Gadda va alla guerra – remix intelligentissimodel Giornale di guerra e di prigionia e di Eros e Priapo (nel dvd mi-nimum fax Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione) – cheora realizza l’incredibile pièce de résistance della lettura integraledel Pasticciaccio. Il risultato è non meno che straordinario: senza mai cedere allafoga demoniaca della precedente prova gaddiana, ma anzi sceglien-do una lettura lenta e ruminante – quasi a voler misurare carnal-mente lo spessore di ogni singola parola – Gifuni fa riverberare ogniminima screziatura tonale, ogni ispessimento fonico del testo; nepantografa ogni crescendo, ne cesella plasticamente ogni clausola.E (seguendo in qualche modo la strada già indicata da Luca Ron-coni, con la storica riduzione teatrale del 1996) evidenzia magi-stralmente il «poliglottismo interno» (come Contini chiamavaquello di Joyce) che – come in Joyce e più che in Joyce – fa del Pa-sticciaccio il luogo unico della «dissipazione della voce narrativa»(Stefano Agosti): quella per cui il narratore sin dal titolo (Quer…de…) incista nella diegesi i dialetti iperbolicamente convocati dallamimesi dei discorsi diretti. All’intero, rutilante «sogno del carabi-niere» dell’ottavo capitolo, per esempio, Gifuni imprime dunquela cadenza piemontese del brigadiere Pestalozzi, e quando s’imbat-te in una locuzione romanesca è costretto a dar vita a uno straor-dinario impasto fonico dei due dialetti. Per questa via si giunge al-l’urlo burino e lancinante dell’Assunta, a quella conclusione «No,sor dottò, no, no, nun so’ stata io!» che – me ne rendo conto soloora, con un brivido – risponde perfettamente, come in uno spec-chio oscuro, allo «Yes I said yes I will Yes» di Molly Bloom.

Andrea Cortellessa

Christian RaimoIl peso della graziaEinaudi, pp. 455, € 21

Ho letto il romanzo di Raimo forse senza capirlo. Dicono che è unromanzo sull’amore. Certo, come negarlo; ma l’amore è la formaoccasionale della realtà che, per quanto la riguarda, sta altrove. ERaimo in questo romanzo si mette sulle sue tracce e la trova dovenon c’è. Se ponete attenzione scoprite che tutti i momenti realisti-ci del romanzo sono pretestuosi e difficilmente credibili: l’incontrodel protagonista con Fiora in un pronto soccorso (dove si discutedi Omero, Monet e Borges); la scusa della restituzione della tesse-re di sanità perché il flirt possa avanzare e diventare amore; l’inci-dente capitato a Fiora in Africa (è accusata di avere travolto con ilsuv un bambino) per giustificare (quando scopre di essere incinta)l’improvviso fuga dal protagonista disperato; e, massimo dei mas-simi, il ritrovamento di Fiora attraverso il riconoscimento dellatarga della sua auto, che l’innamorato orami sfinito girovagando acaso per la città legge nel camioncino che lo ha superato e ora loprecede. E ne potrei indicare molti altre, pretestuosità e menzogne,sicuro di non essere contraddetto.

È su questo fragile supporto di eventi che poggia, facendo-li crollare (togliendogli significato), la realtà

(chiamiamolo pure il vero contenuto)del romanzo. La realtà del

romanzo è la

distrazione del protagonista. È un giovane fisico precario impe-gnato in una ricerca che lui per primo avverte improbabile: misu-rare la velocità delle fiamme turbolente (le prime analisi le azzar-da in un laboratorio in Finlandia dove per un mese intero nonpuò uscire di casa perché il mondo intero è sepolto dalla neve). Èlui stesso a dire: «è come se cercassi un liquido di tipo asciutto».Invitato a un incontro di selezione alla ricerca di un posto di la-voro più stabile, l’argomento che sceglie (e sul quale sarà giudica-to) è il fallimento, affascinato dalla voragine che si apre sotto co-loro che falliscono, in cui (pur smarrendosi) sperimentano tensio-ni ignote. Vaga per i quartieri e le strade della città, senza meta: «mi piace[...] fare turismo umano, osservare le facce delle persone». In qual-siasi situazione si trovi o qualsiasi cosa stia per fare avverte l’urgen-za di allontanarsene e pensare ad altro. È continuamente distrat-to, spinto da uno scavallamento ininterrotto verso ciò che in quelmomento non è utile e non c’è. Infinitamente disponibile si in-contra (e li aiuta) i barboni della città (in particolare i poveri po-lacchi sempre ubriachi) e a un certo punto, già avanti negli anni,si fa cristiano; anche perché (io sospetto soprattutto perché) «ilcristianesimo è una religione che cerca di convincerti soprattuttodel contrario di quello che pensi. Che dice le cose brutte sonobelle. Che i morti non sono morti. Che richiede di amare gli in-grati e i malvagi». E di questo la sua esperienza gli dà continueprove: anche per lui realtà non è mai lì dove è, ma sempre al di làdelle occasioni quotidiane nelle quali si scontra e scortica: «Io nonsarei felice se non potessi perdere le cose».Questo personaggio è il più (direi il tutto) del romanzo, impagi-nato in una storia d’amore con una donna per parte sua stramba(è una nomadelfina), che tuttavia funge da sponda per aprire agliocchi del lettore la figura del personaggio centrale. Del continuodilatarsi e traboccare, come una bottiglia di liquido effervescente,siamo stati spettatori (anche ammirati). A questo punto il proble-ma per l’autore era riuscire a gestire una struttura narrativa capa-ce di tenere dritta in piedi questa supermagmatica materia. E quiho qualche dubbio che ci sia riuscito: il romanzo si sfarina, tendead affondare dentro se stesso, perde vita (pure beneficiando deglisforzi della suspence) e procura al lettore più di un momento dinoia. Frantumandosi ai margini rischia di diventare una macchia(come una turgida goccia di inchiostro male asciugata).

Angelo Guglielmi

Francesco TarghettaPerciò veniamo bene nelle fotografieIsbn, pp. 248, € 15

Innanzitutto il genere (al di là dell’indicazione paratestuale): ro-manzo in versi, poema in prosa, epica del quotidiano, epopeadell’eroe precario? Denotativamente: 248 pagine di versi irrego-lari (con atteso predominio dell’endecasillabo) che però costitui-scono solo il primo motivo, e il più superficiale, di interesse dellibro di Targhetta. Non è solo la perizia metrica, difatti, la suacifra, ma una virtù poetica intrinseca, erede tanto della consape-volezza primonovecentesca delle piccole cose quanto della poeti-ca del fatto vero delle seconde avanguardie, o forse oltrepassantel’una e l’altra. Il protagonista (l’io-lirico-narrante) è un precario scolastico e uni-versitario, e dei due mondi restituisce con fedeltà fotografica (ma

anche con vero coraggio, considerando le cortesie obbliga-torie nell’ambiente e le gerarchie insormonta-

bili) la folle sopravvivenza, entroun orizzonte comples-

iLIBRI

Disegni di Roberto Barni

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sivo in costante mutamento («i Pernod in quei convegni di noia /a Urbino a Siena a Perugia a Bologna / […] e interventi sui prez-zi dei cereali / nella Toscana del milleseicento»). Pure, quella mo-bilità non è dato sperimentarla nel quotidiano, dove invece sibrancola nella condizione di bisogno materiale a tempo indetermi-nato, fissi nell’eterno presente dello studentato, con i coinquilini,le bollette, le cene, le marche scadenti («e ci fossero mai due bic-chieri uguali»; «coi crampi ovunque e il sudore Hugo Boss»).La poesia di Targhetta è così: tanto nell’insieme (epica dei vinti, odi quelli che non possono nemmeno combattere, perché le arminon esistono più, le hanno confiscate i padri: la politica, il parti-to, la dimensione sociale del fare: «insegnare, sì / insegnare cosa?»)quanto, e soprattutto, nel dettaglio, così come nell’attitudine ex-tradiegetica in servizio permanente: l’io che narra è dentro le cose,ma le racconta o ritrae come da fuori, con l’occhio disincantatoche però non si compiace del cinismo in voga (l’altra faccia delnarcisismo è il nichilismo, stando al Todorov della letteratura inpericolo). Probabilmente perché nel quadro rientra attraverso ildestino comune di sacrificio, rispetto alle certezze dei padri («que-sto crollo di prospettive, / questo sentirsi offesi, mentre / infondo, si tratta di lavoro, / e di un lavoro di due mesi»), pur nel-l’ambiguo incremento attuale delle possibilità professionali («pro-lungando gli anni di formazione / fino a saperne, poi, talmentetanto / da non poterci più fare niente»), oltre che nella sorveglia-ta consapevolezza dei propri mezzi, che limitatamente si concedealla posa dei narratori coetanei (ostentazione letteraria, artificioesibito, io sono un altro). Targhetta poi a conoscerlo, dalle interviste e dalle presentazioni, èesattamente come uno dei suoi personaggi: un precario, uno stu-dioso, un ex studente con le camicie a quadri (tanto per rigirarglila mania del dettaglio). Dunque, fotografia o addirittura autoscat-to? No, perché quello che ci rappresenta di sé e del mondo preca-rio rimanda all’extratesto dei nostri tempi e, più in particolare, delmutamento antropologico nelle relazioni umane, se non sentimen-tali, a partire dall’insorgere di problemi nuovi connessi al predomi-nio delle tecnologie. L’amore precario è l’amore che si inscena nellestanze in affitto e si esprime coi post del social network, ma con piùironia, il tutto, che elegia: perciò veniamo bene nelle fotografie.

Gilda Policastro

Yari Bernasconi, Azzurra D’Agostino, Fabio Donalisio, Vincenzo Frungillo, EleonoraPinzuti, Marco Simonelli, Mariagiorgia UlbarUndicesimo quaderno italiano di poesia contemporaneaa cura di Franco BuffoniMarcos y Marcos, pp. 285, € 17

Negli ultimi sette anni non sono mancate antologie poetiche fon-date su nuovi principi metodologici. Se il racconto a tesi «dall’al-to» dell’antologia d’autore non è più in grado di indagare la poe-sia dal ’75 agli anni Zero, forse questa stessa analisi può essereportata avanti in modo nuovo, dialogico e collegiale; con una pro-spettiva più ristretta, ma non per questo criticamente più debole.Un esempio importante sono i Quaderni che Franco Buffoni curada più di vent’anni. Questo Undicesimo comprende sette sillogipoetiche, ognuna preceduta da una breve prefazione critica. Come ricorda spesso il curatore, queste sue raccolte non sono néantologie di tendenza né tentativi di restaurare l’antologia d’auto-re. Tuttavia superano i limiti di una contrapposizione molto dif-fusa a partire dagli anni Novanta: quella fra una selezione con unalinea critica debolissima o assente, nella quale la giovane età dei

poeti era presentata come garanzia della novitàdella loro poesia; e una crestomazia «di

scuola», che ipostatizzava tendenze epigonistiche soprattutto indirezione neo-sperimentale. Nelle raccolte Marcos y Marcos nonc’è un orientamento poetico dominante. Al contrario, spesso inuna stessa antologia convivono ricerche diversissime: in questocaso, i due poli sono forse rappresentati da Donalisio e D’Agosti-no-Ulbar. Alla base della selezione c’è un vincolo cronologico-ge-nerazionale, a determinarne i confini: gli autori hanno fra i venti-cinque e i trent’anni, e solitamente hanno già pubblicato un libro.Le scelte sono prese in modo collegiale da un comitato di cinquelettori (oltre allo stesso Buffoni vi figurano Umberto Fiori, FabioPusterla e gli editori Claudia Tarolo e Marco Zapparoli). La coe-sistenza di autorialità e responsabilità critica, da un lato, e di plu-ralità nelle decisioni per la selezione e nei risultati documentati,dall’altro, sono un elemento nuovo per l’antologia di poesia.Le poesie dell’Undicesimo Quaderno sono molto eterogenee: i versilunghi e narrativi di Simonelli si alternano ai giochi verbali palaz-zeschiani di Pinzuti, passando per il poemetto filosofico di Frun-gillo e per il blues di Donalisio. Il tono complessivo è stato defi-nito di «svolta sociale». Questa considerazione poggia su alcunidati testuali: le «cartoline» di Bernasconi; il Coro dei dispersi e losguardo sui rifugiati di Frungillo,; le «sessantottesche non vissute/ immaginarie fantasie di rivoluzioni» di Simonelli; la rabbia ge-nerazionale di Donalisio. Più che di poesia sociale o civile, però,parlerei di poesia che si pone all’interno del mondo, e non a partesubjecti – e questo, per la poesia contemporanea, non è affattoscontato. Se c’è una cosa che accomuna le sette raccolte, è chesono immerse in una dimensione tutta terrestre e fisica, anchequando si parla di «antimateria» (Pinzuti), anche quando si tendeesplicitamente al soprannaturale (Frungillo). Il frequente ricorso a un esplicito riuso della tradizione poeticanon è mai sterile citazionismo; al contrario, i versi del passatosono riusati cercando (e non sempre riuscendovi) un rinnovamen-to del linguaggio poetico attuale. La poesia sociale non è affattosemplice, anzi è sempre rischiosa; ed è resa ancora più difficile dallessico elaborato dalla tradizione italiana. I versi di questo Undi-cesimo quaderno fanno pensare, piuttosto, a una nuova consapevo-lezza, a una minore chiusura della poesia in un universo (anchelinguisticamente) separato. Pur con realizzazioni tecniche e stili diversissimi, questi sette au-tori usano i versi per raccontare i mondi in cui sono immersi: sto-rie, incontri, vite incrociate per caso, oppure soltanto osservate.La «condizione della poesia moderna», di cui parla Buffoni. Inquesti testi si concretizza nello stare nel mondo, osservarne ogniparte, raccontarne le storie, commentarle attraverso i versi.

Claudia Crocco

Biagio CepollaroLe qualitàLa camera verde, pp. 120, € 20

L’ultima raccolta poetica di Biagio Cepollaro mette in scena ilcorpo: non semplice soggetto tematico, ma personaggio vero eproprio. Questa trovata di gusto quasi cavalcantiano appare deci-siva per l’effetto straniante dell’articolazione retorica del discorsopoetico. Le poesie delle Qualità hanno infatti prevalentemente untema privato – crisi e dissoluzione di un amore e nascita di unamore nuovo – trattato però con attitudine rigorosamente feno-menologica, grazie alla quale ogni impressionismo psicologico,nella descrizione dei sentimenti, viene sospeso. Il corpo è dunque colto come soggetto delle azioni, degli statid’animo e delle riflessioni che accompagnano le diverse fasi dellesituazioni: «il corpo ripercorre le procedure del desiderio / ne co-nosce a memoria le grammatiche e nel tempo / ha composto nonsolo milioni di frasi / ma anche inventato intere sintassi per for-mare / diversi periodi con accenti ora elitari / ora francamente vol-

gari ma tutti puntanti / ad un piacere intenso e nel possibile con-diviso / ora in assenza di contenuto a rivelarsi / è il meccanismodella frase girando nel vuoto a vuoto». La rigorosa eliminazione diqualsiasi ridondanza emotiva conferisce al testo un tono di messaa punto dell’esperienza personale, che viene così collocata in unaprospettiva più ampia. L’uso di un lessico curato, ma privo di ogniintarsio bellettristico, l’associazione contenuta e tuttavia efficacedi termini appartenenti a registri linguistici differenti («…senzasecernere un po’ / di gentilezza…») e infine la preferenza nelle fi-gure di comparazione per referenti provenienti perlopiù dallaquotidianità provocano in molti snodi del libro effetti di diminu-zione autoironica del discorso, rendendo così impossibile qualsia-si addensamento di nubi da psicodramma.Ora, questa complessa articolazione del discorso, alla quale labrevità della descrizione rischia di fare torto, non è rivolta al con-seguimento di una superiore lucidità analitica o addirittura gno-mica, ma è connessa con quello che sembra essere il nodo centra-le nella traiettoria di Cepollaro ossia la questione dell’autenticitàdella voce poetica. In particolare di fronte all’urgenza della mate-ria autobiografica, l’autore è consapevole del rischio della codifi-cazione del discorso entro le rassicuranti rappresentazioni dell’iopoetico, magari psicologicamente sincere, ma impraticabili per-ché troppo parlate da un’imponente tradizione lirica. Così la ri-cerca di questo libro va verso la costruzione di uno spazio lingui-stico che non solo sfugga a questa trappola, così come a quellapsicologistica, ma diventi strumento di elaborazione culturale edetica dell’esperienza.

Giorgio Mascitelli

Vladimir NabokovGuarda gli arlecchini!Traduzione di Franca PeceAdelphi, pp. 293, € 19

Con una di quelle immagini che corteggiano con supremo snobi-smo il kitsch, Vladimir Nabokov fa dire al narratore del suo ulti-mo romanzo, scritto in inglese e pubblicato nel 1974, che traquelle pagine «mogli e libri si intrecciano a guisa di monogram-ma, simile al disegno di una filigrana impressa sulla carta o di unex libris». Il nome del protagonista è Vadim Vadimovic�, romanzie-re di considerevole successo ora impegnato nella stesura di una«autobiografia obliqua», dove almeno tre o quattro mogli (l’incer-tezza sul numero è sua) si avvicendano a riscaldargli la vita. Aognuna Vadim ha creduto doveroso comunicare, quando era sulpunto di dichiararsi, quale dote egli porti con sé, «un’ombra fu-nesta» cui dà il nome di Dementia, un disturbo nervoso che rasen-ta la follia e spesso gli si presenta al risveglio improvviso di unsonno durato non più di un’ora. Nello sforzo di descrivere la suamalattia, essa gli appare come una incapacità di padroneggiare lospazio, qualcosa di profondamente alterato nel suo percepire la di-rezione: fatto sta che quando prova a ripercorrere una qualchescena memorizzata cercando di riavvolgere il nastro, la mente si ri-bella alla inversione di marcia, si rifiuta di riportarlo nella situa-zione dalla quale era partito, e l’inceppo conduce Vadim a unacrisi di nervi tale da farlo ritrovare «temporaneamente pazzo».Nello stendere le sue memorie, datate dal 1922, si descrive comeun giovane «misterioso», che ha scontato un’infanzia «atroce, in-tollerabile», tale da invocare qualche legge di natura contro «esor-di tanto disumani». Di quel passato, o meglio delle sue fantasie,fa parte anche una amata prozia – «eccola scendere lentamente inobliquo, in obliquo, i gradini marmorei del porticato del ricordo»– che per fargli passare il broncio gli ripeteva la esortazione oraeletta a titolo del romanzo: «Guarda gli arlecchini!», ossia inventala realtà, impara a stabilire nessi imprevedibili tra le cose e vedrai

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che anche gli alberi, le parole, le situazioni possono apparire comealtrettanti arlecchini. A dispetto del suo triste passato, non sono estranei a Vadim pro-positi di felicità, sebbene provveda assai poco a coltivarli e spendapiuttosto il suo tempo dannandosi sulle traduzioni dei suoi libri,che ha prima scritto con la matita e poi corretto fino a ridurrel’originale a un groviglio di sgorbi, e poi ancora redento in una se-quenza di stesure successive, tutte più o meno diligentemente dat-tiloscritte dalle mogli che si succedono al suo fianco. Tra i dubbiche lo assillano il più tremendo gli si insinua sotto forma disogno, una notte in cui Vadim si vede impersonare la vita altempo stesso gemella ma non identica di un altro scrittore, in-comparabilmente più grande di lui, del quale si sente la varianteminore, quasi una ridicola parodia. Romanzo beffardo, che il narratore concepisce come una sorta dicatalogue raisonné delle immagini prese dai suoi romanzi, Guardagli arlecchini! autorizza la sovrapposizione con la vita di Nabokovtanto quanto lo stesso scrittore avrebbe concesso, almeno standoa quanto disse in una intervista a Vogue del ’69: «io solo possogiudicare se certi particolari che sembrano pezzetti del mio Io“reale” immessi in questo o quel romanzo siano autentici come lacostola d’Adamo nella più famosa delle scene di giardino».

Francesca Borrelli

Kurt Vonnegut Guarda l’uccellino. Racconti inediti traduzione di Vincenzo MantovaniFeltrinelli, pp. 249, e 18

L’annuncio dell’uscita di ben quattordici racconti inediti in Italiadi Kurt Vonnegut porta gioia e curiosità. Riemerge uno scrittoreamatissimo, compagno di grandi avventure narrative insieme aSaul Bellow, John Barth, Richard Brautigan, Ken Kesey e tantialtri protagonisti di una stagione incredibile di contaminazionetra fervore iconoclasta ed esultanza creativa e propositiva, quandoper un breve respiro tutto sembrò possibile: anche che la lettera-tura avesse un ruolo alla pari con la vita individuale e collettiva;anzi, che ne facesse parte integrante. Dei fertili anni Sessanta deglieccellenti romanzi scritti da Vonnegut resta (e resterà sempre) unlibro di culto Mattatoio n. 5 (Slaughterhouse 5, 1968), in cui l’au-tore si affaccia in prima persona per dire «io c’ero» nel raccontarel’esperienza vissuta dal suo personaggio-alter ego durante la Se-conda guerra mondiale quando, prigioniero dei tedeschi a Dre-sda, dal sotterraneo di un mattatoio assiste al bombardamento daparte degli Alleati della città, «la Firenze dell’Elba», bruciata finoalle radici di persone e di case. Anche tempo e spazio esplodono

in frammenti in un racconto con incursioni nella fantascienza.Pubblicati postumi, questi racconti appartengono alla primaproduzione dell’autore e ne portano già la firma nella misceladi tragico, satirico-umoristico di un realismo così profondo darisultare più che surreale, unico. Pubblicati all’inizio degli anniCinquanta su riviste per famiglie, per un pubblico moderato

dunque, non costituiscono esattamente altrettanti nuclei dei ro-manzi a venire, dei quali comunque sono meno elaborati, ma in

compenso sono più diretti, limpidi e a un tempo taglienti ecompassionevoli, costruiti in modo impeccabile. Vonne-gut gioca con la distorsione delle dimensioni spaziotem-porali – come è quasi d’obbligo per la satira fin dai tempidi Luciano e più vicino a noi di Swift e oltre – e toccaanche l’amarezza senza riscatto di un Orwell, il terroredel totalitarismo, nella fattispecie stalinista (Le formi-che pietrificate). Lo stravolgimento delle proporzionifavorisce la satira e apre alla fantascienza, che sarà pre-sente nel Vonnegut più tardo come produzione diuna mente sconcertata fino allo straniamento affinealla follia (qui splendido Il tagliacarte). Accortissi-mo e asciutto il dialogo, frequente e abbondante,si direbbe quasi un Raymond Carver ma con im-pennate immaginifiche e divertenti. In questiracconti quando si parla d’altro si parla molto

d’amore e persino di buoni sentimenti, ma-gari a contrasto con una società sovraccari-

ca di avidità e di corruzione. La suspensenon manca, condotta magistral-

mente e sciolta quasi

sempre con una sorpresa finale da umorismo nero; e include,come nella stragrande maggioranza dei film americani, una fortedose di poetic justice, anche quando è il caso il deus ex machina(Parola d’onore). Vonnegut è un moralista, non c’è che dire.

Annalisa Goldoni

Juan RulfoLa pianura in fiammeTraduzione di Maria NicolaEinaudi, pp. 161, € 18

Pubblicata per la prima volta nel 1954 da Fondo de Cultura Eco-nómica, El Llano en llamas riunisce diciassette racconti brevi diJuan Rulfo (1917-1986) e rappresenta il suo libro d’esordio, quel-lo che annuncia e precede Pedro Páramo, seconda e ultima operapubblicata in vita da colui che non si può fare a meno di conside-rare il più importante scrittore messicano del novecento, capace dirivoluzionare una letteratura e di diventare un classico leggendariograzie a due libri soltanto, che però lo pongono allo stesso livellodi maestri come Kafka o Faulkner. La nuova traduzione di MariaNicola per Einaudi, accompagnata da una brillante nota di Erne-sto Franco, ci consente oggi di rileggere con l’attenzione che meri-ta un testo in cui si concentrano i principali temi rulfiani: la lotta

per la terra, i contadini poveri, la vio-lenza, la colpa, il sacro come estre-

mo ed inutile rifugio degliemarginati, la prepo-

tenza di una classepolitica crudele ecorrotta, un pae-saggio e una naturainesorabili che nonvanno consideratisemplice fondale maautentici co-prota-gonisti, e soprattuttoil vagare terreno diquelle che già in vita sono anime in pena, fantasmi impotenti e so-litari sull’orlo di una morte senza storia, di un viaggio obbligatoverso il nulla. Profondamente messicano nel suo dar conto di unimmaginario antico e di una tragedia nazionale che, pur in termi-ni assai differenti, sembra ancora oggi non avere fine, Rulfo è tut-tavia universale in ogni sua pagina, e attraverso una scrittura scar-na, potente, che rielabora l’oralità e possiede una intensa qualità vi-siva – l’autore, non va dimenticato, fu anche un grande fotografo–, ci induce a considerare superflua l’etichetta di «realismo magi-co» che spesso ne accompagna l’opera, inquadrandola in uno ste-reotipo familiare ai lettori europei, ma definitivamente superato.

Francesca Lazzarato

Marius SzczygielFatti il tuo paradisotraduzione di Marzena Borejczuk nottetempopp. 340, € 17,50

Marius Szczygiel è un giornalista polacco. E i suoi libri – in Italiane sono usciti tre, tutti da nottetempo, Gottland (2009), Reality(2011) e questo Fatti il tuo paradiso – si inscrivono all’interno delledue coordinate: giornalismo e Polonia. Detta così, non si capirebbeil successo italiano di reportages nei quali si incontrano personaggie luoghi ignoti alla gran parte dei lettori. Il fatto è che il giornali-smo come lo pratica Szczygiel – erede di una scuola che ha in Ka-puscinski il suo nome più noto, ma che conta altre figure di ecce-zionale carisma, come Hanna Krall – è qualcosa che da noi possie-de il fascino dell’oggetto sconosciuto: un mestiere fondato su unasolida preparazione, un costante lavoro di verifica sul campo, unascelta consapevole della prospettiva adottata di volta in volta, una

ricerca stilistica che non diventa mai sterile ostentazione dellapropria bravura (e che, con opportune modifiche, accom-pagna il testo nel suo passaggio dal giornale al libro). Convinto che sia essenziale non inventare niente («certo, avolte è difficile coniugare la bellezza del racconto con la ve-

rità, che è piena di spazi vuoti, ma l’arte del reportage consi-ste appunto nella capacità di riempire gli spazi vuoti senza

mentire – o a volte di lasciarli vuoti», ha dichiarato in una in-tervista), Szczygiel segue gli insegnamenti dei suoi maestri, po-nendosi di fronte ai propri interlocutori senza giudicarli e senzagiustificarli, senza occupare il centro della scena e senza tentareun’impossibile «disincarnazione». Così è anche in Fatti il tuo pa-radiso, dove Szczygiel torna al tema già indagato in Gottland,

l’esplorazione di un universo a lui contiguo e tuttavia – nellavisione comune – diametralmente opposto, quello della

«Cechia» (essendo i cechi – nella visione comune,

appunto – pragmatici, irridenti, refrattari a qualsiasi fede e i polac-chi invece idealisti e impregnati di religiosità). Scegliendo, a secondadei casi, di raccontare la storia dei personaggi che gli sfilano davan-ti, di dialogare con loro o di calarsi nei loro panni, il giornalista com-pone un doppio ritratto, della Cechia e della Polonia, che non espel-le gli stereotipi ma li smonta, ne ricostruisce la genealogia, li inseri-sce in un quadro più ampio e più mosso: un quadro dove il polaccoSzczygiel può, senza rinnegare se stesso, dichiarare il proprio amoreper una cultura deliberatamente paradossale, il cui emblema potreb-be essere Jára Cimrman, un personaggio inventato per scherzo unacinquantina d’anni fa e diventato poi una sorta di eroe nazionale, cuisi attribuiscono gesta di ogni sorta. («Ma come potete credere inqualcuno che non esiste?», chiede Szczygiel, e pronta arriva la rispo-sta: «Non è esattamente quello che fate nella Polonia cattolica?»).

Maria Teresa Carbone

Massimo FusilloFeticci. Letteratura, cinema, arti visiveil Mulino, pp. 205, € 20

Dalla palla dorata delle Argonautiche alla pallina da baseball diUnderworld, dagli orecchini della Locandiera a quelli dei Gioiellidi Madame de..., dalle fruste di Sacher-Masoch alla pistola di Dil-linger è morto, dai materiali dell’arte povera alle icone della popart: l’ultimo libro di Massimo Fusillo mostra i tanti ruoli di cuivengono investiti gli oggetti (strumenti di seduzione, sacrariodella memoria, trouvailles maniacalmente accatastate), attraversoun arco vastissimo di epoche e culture, grandi classici e spigolatu-re peregrine; rivela le sterminate competenze dell’autore quanto la

sua spregiudicata apertura (argomentata nelsuo lavoroprecedente,E s t e t i c adella lette-ratura) alle

sfide della con-temporaneità, alle

ibridazioni dei linguaggi. L’eterogeneo, vertiginoso avvicenda-mento degli oggetti si traduce in un avvicendamento di testi ete-rogeneo e vertiginoso a sua volta, che però non ha nulla dell’accu-mulo collezionistico fine a se stesso, perché denso di riflessione,saldato da robusti fili conduttori.Innanzitutto, numerose teorie agilmente ripercorse, come il di-scorso di Marx sul valore di feticci attribuito alle merci, l’interpre-tazione freudiana del feticismo, la fine della separazione netta tracoscienza e cosa sostenuta dalla fenomenologia, le osservazioni diBenjamin sull’approccio metropolitano ai beni di consumo, lostudio di Orlando sugli oggetti non funzionali. Teorie su cui si in-nestano vivide intuizioni d’insieme: alcune subito enunciate,quali l’attacco alla visione riduttiva del feticcio come surrogato diun’autenticità perduta, o la connessione del suo potere, in gradodi schiudere nuove dimensioni, con quello della creazione artisti-ca; altre più implicite ma non meno significative.In particolare, Fusillo mostra che sono spesso i feticci a mettere inluce i sensi più ambigui o repressi delle opere: intorno agli abiti eaccessori del teatro di Goldoni converge una carica di desiderioenigmatica, in contrasto con l’armonico razionalismo di facciata;nelle Grandi speranze dickensiane il culto di un corredo intonsosprigiona nostalgie regressive opposte alle mitologie progressisteallora imperversanti; nell’Imperatrice Caterina di Sternberg lo sfar-zo folle dell’apparato decorativo allude all’opprimente insensatez-za del potere; nel Museo dell’innocenza di Pamuk l’allestimentomuseale è fulcro, più che di una storia d’amore, di una pervicacenegazione del tempo; in Melük di Achim von Arnim e nel DorianGray wildiano il fascino degli oggetti determina una scomposizio-ne dell’identità che è insieme lacerazione perturbante e liberazio-ne di potenzialità alternative (ambivalenza già indagata da Fusilloin uno studio appunto sul tema del doppio, L’altro e lo stesso, orariproposto in un’edizione ampliata – Mucchi, pp. 392, € 23).Ancora, il libro intreccia il piano tematico e quello stilistico, indican-do via via che le divagazioni delle Argonautiche su oggetti frivoli mi-nano surrettiziamente la forma epica, che l’indugio di Flaubert suidettagli sconvolge la classica dialettica tra descrizione e vicenda, chenella Recherche la resistenza delle cose alla comprensione trasmettequella del racconto a un’interpretazione coerente, che le narrazionipostmoderne ruotano sovente intorno allo spessore mitico acquisitodagli oggetti; che dunque il protagonismo dei feticci può, oltre a de-stabilizzare la realtà, sovvertire i generi, riconfigurare i testi. Questa profusione di percorsi, che sa persino sollecitarne altri(varrebbe la pena di analizzare il ruolo dei feticci nella produzio-ne umoristica, dai dada di Sterne in poi), è quindi contraddistin-ta tanto da un raffinato eclettismo quanto da una straordinariaricchezza di senso: lontano dalle consacrazioni ossessive di autorio metodi, come dagli assemblaggi caotici di materiali, questo sag-gio sui feticci trae la sua riuscita, e la sua forza, proprio dalla ca-pacità di evitare ogni tentazione di feticismo critico.

Clotilde BertoniDisegni di Roberto Barni

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Michele CometaLa scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visualeCortina, pp. 374, € 29

Forse uno dei modi di leggere il libro di Michele Cometa è guar-darlo nella sua concretezza, prendere letteralmente atto del suopeso. Intorno all’idea che l’ékfrasis, la descrizione di un’opera d’ar-te, «lungi dall’essere un orpello decorativo» sia tanto profonda-mente coinvolta nei testi letterari da non poter essere trascurata danessuna «futura» teoria, Cometa costruisce un vero e proprio og-getto, fitto di citazioni addirittura stordenti ma capace di sterrareautentiche radure di pensiero. A partire dalle Immagini di Filostrato – che presupponevano lapresenza di giovani interlocutori e avevano dunque una funzionedidattica – l’intrinseca tendenza dell’ékfrasis è quella di superarese stessa. Guardare un quadro e descriverlo significa parlare peraggiunte e sottrazioni, trasformando, traducendo e spesso sugge-rendo. Ogni descrizione ha mille fessure da cui possono entrare(e uscire) il non-detto e, se non il non-visto, almeno il non-vistodel tutto. Scrivere di un’immagine, forse, comporta anche unasovra-scrittura, una sovrapposizione che mette a nudo lo sguar-do di chi scrive. Una delle descrizioni più affascinanti è quelladella Corsia dell’ospedale di Arles di Van Gogh da parte del dram-maturgo svizzero Michel Mettler: e Cometa (citando Kafka eThomas Bernhard) ci mostra come quel mondo ospedaliero parlidel nostro mondo moderno, sia anzi il nostro mondo moderno.Una simile riflessione tornerà nel capitolo Lo sguardo sull’assente,a proposito della follia di Goya letta da Foucault. Nume indi-scusso del «pictorial turn» contemporaneo – ma anche insupera-to maestro ekfrastico, come testimonia il celebre testo su Las Me-niñas di Velasquez – Foucault lascia rintoccare nella sua descri-zione delle opere di Goya il suono delle parole di Artaud e delleimmagini di Van Gogh. Difficile in questo poco spazio rendere conto dei tanti altri sen-tieri del libro, da Hopper-Mark Strand a Vermeer-Gustav Her-ling, cui si potrebbero aggiungere Tiziano-Zbignew Herbert (ilcui A barbariain in the garden è uno dei capolavori ekfrastici delNovecento) o Raffaello-Vassilij Grossmann o Joseph Cornell-Charles Simic.Nella pagina finale del primo capitolo troviamo le istruzioni perl’uso del libro: il quale si soffermerà su ékfrasis così cruciali da tra-scinare con sé «questioni che vanno ben al di là della retorica». Èil caso del Lacoonte, protagonista del capitolo Vedere il dolore: nelquale Cometa ci mostra lo statuto agonico tra parola e immaginee in qualche modo la loro difficoltà di «misura» nei confronti deldolore. È possibile descrivere un grido?, rendere la disperazione diun padre che muore perdendo i due figli? E come rendere la penadi un corpo morso dal veleno di un serpente? Una simile «materialità» attraversa anche un altro importantetesto del libro: La Madonna del pensiero, dedicato alla MadonnaSistina di Raffaello. La definizione di «icona della modernità» po-trebbe sorprendere, ma i percorsi di sguardi tracciati da Dostoev-skij a Heidegger, attraverso una mirabile pagina di Ernst Bloch, cirivelano quanto il modo di trattare lo spazio dell’opera da parte diRaffaello contempli l’antimimetismo di Cézanne e anticipi addi-rittura il Cubismo. Cometa è consapevole non solo del compito infinito dell’ékfrasis,ma anche del suo infinito enigma: «l’angelo dell’ekfrasis non apresolo la porta del Paradiso ma anche la chiude». Chi descrive vedenon solo la bellezza, ma il dolore. Se l’ékfrasis può animare e puòbloccare, se può dare istruzioni al quadro a venire (come nel Ca-polavoro sconosciuto di Balzac) e posare lo sguardo sull’assenza, essacontiene in sé, pure, il dono avvelenato della non-sottrazione. Chiguarda e descrive non può fuggire da ciò che ha visto se non –come il protagonista di Antichi maestri di Thomas Bernhard –estinguendo parola e sguardo nella musica. Descrivere ci ferisceanche nostro malgrado: lo sguardo è il coltello che colpisce perprimo chi lo usa.

Antonella Anedda

Stefania ZulianiEsposizioni. Emergenze della criticad’arte contemporaneaBruno Mondadori, pp. 136, € 12

«Quello che sta emergendo in questi anni è che effettivamente ilsistema sta diventando il vero protagonista, il vero elemento didrammaturgia: gli artisti trovano spazi, ma trovano spazi all’inter-no di una costruzione è sempre di più appunto la fiera, il merca-to, l’istituzione. Il sistema sta assumendo un’importanza maggio-re della produzione stessa». Questa considerazione di AntoniMuntadas, artista e acuto osservatore dei meccanismi sociali e po-litici contemporanei, ben descrive la condizione del «mondo del-l’arte» del nostro tempo: un sistema che partecipa di alcune dellelogiche profonde del tardo capitalismo – a partire da quella «eco-nomia creativa» fatta di velocità e continue ibridazioni che inner-va i processi di consumo, obsolescenza, visibilità ecc. –, che intrat-

tiene un’ambigua relazione con il potere, istituzionale o finanzia-rio (ammesso che si possano distinguere), ma che nondimeno col-tiva una distanza, una volontà di salvaguardia delle proprie inter-ne ragioni che ha sin qui resistito agli assalti di quanti – sociolo-

gi, attivisti, radical thinkers –ne ha variamente pre-

detto l’estinzione.Questo panorama è

il recalcitrante

oggetto di indaginedel volume di Stefania Zuliani, che af-

fronta le complesse relazioni tra istituzionimuseali, teoria e critica d’arte, incuneandosi nell’in-

terstizio tra campo artistico e campo sociale senza cederealla tentazione di annettere il primo al secondo, sino a rendere laquestione dell’opera d’arte, del suo spazio discorsivo ed esperien-ziale, superflua o pateticamente attardata. Se il punto di vista è ri-solutamente attuale – ricorrono nel libro riferimenti a mostre,eventi e testi recentissimi –, si tratta per Zuliani non tanto di co-struire un’ennesima tassonomia critica, quanto di far emergere einterrogare la problematicità di figure e istituzioni che del«mondo dell’arte» costituiscono oggi di fatto l’ossatura fonda-mentale: il museo e il curatore. A quest’ultima figura in particolare, «un artista radicalmente seco-larizzato» secondo l’acuta definizione di Boris Groys, Zuliani de-dica alcune delle pagine più efficaci del libro, mettendo in lucel’irrisolto groviglio in cui si muove l’azione curatoriale, soprattut-to quando praticata direttamente dagli artisti. Figura emblemati-ca dell’epoca che attraversiamo, nel curator si riassume in effetti lacontraddittoria convergenza tra l’aspirazione a rinnovare in per-manenza le possibilità di lettura e apprezzamento estetico e l’ine-vitabile effetto di asseverazione che ogni «cura» esplica nei con-fronti del sistema di riferimento entro cui si muove e prendesenso. È la ben nota aporia postmoderna: se ogni forma critica fi-nisce per rafforzare il sistema che cerca di modificare o abbattere,quale spazio rimane per la differenza? Una questione, come sotto-linea a ragione l’autrice, che interroga direttamente il ruolo del-l’arte nella società attuale e si proietta dal piano estetico a quellopiù propriamente politico.

Stefano Chiodi

Alessandro Dal LagoCarnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltàCortina, pp. 220, € 13.50

La questione che sin dal titolo questo agile saggio critico pone èuna delle più complesse fra quelle lasciate in eredità dal Novecen-to, «secolo armato» che, come Dal Lago annota, ha prodotto conle sue guerre più vittime di quelle causate da tutti conflitti prece-denti. Carnefici e spettatori, quasi una citazione di un celebre stu-dio di Raul Hilberg: e il problema riguarda soprattutto il ruolo deisecondi, posto che la funzione dei primi pare di per sé inequivo-cabile.Il libro snocciola un’enorme massa di interrogativi. Questo è unmerito, benché non a tutte le domande sia data una compiuta ri-sposta. L’impressione èche l’autore abbia av-vertito il bisogno dichiarire, intanto a sestesso, la nuova formache i temi della sua ri-cerca, da anni incentratasulla guerra, sono venutiassumendo nel corso del-l’ultimo decennio (apartire dalle «guerredemocratiche» control’Afghanistan e l’Iraqdi Saddam Hussein),man mano che l’im-piego delle armi daparte dei paesi occi-dentali veniva defi-nendosi in base aun nuovo para-digma ideolo-gico, politicoe giuridico.

Come se si trattasse ora di prendere congedo da uninsieme di ipotesi per avviare il disegno di unnuovo quadro di riferimento.Qui è possibile appena nominare alcunidi questi interrogativi, giusto perfarsi un’idea della loro porta-ta. Si tratta del rap-porto tra

guerra e cultura occidentale (del«fondamento bellico» di quest’ultima); del rapporto tra principimorali e concrete pratiche sociali (in relazione alla cui contraddit-torietà Dal Lago parla di «dissonanza cognitiva»); degli effetti dellasecolarizzazione (del «ritirarsi della presa del sacro sulle istituzioniumane» che determina la sacralizzazione delle istituzioni laiche e ladenegazione della loro crudeltà); delle conseguenze della metamor-fosi novecentesca della guerra, a seguito della sua mondializzazio-ne. E, soprattutto, della ricostruzione del processo di neutralizza-zione e occultamento della guerra, connesso alla sua esternalizza-zione (la guerra si combatte ormai in luoghi remoti, lontani dallanostra quotidianità) e al suo divenire «una normale caratteristicadelle società occidentali».Il paradosso di questa progressiva «rimozione» (lemma ricorrentenel testo) è che essa culmina proprio quando la guerra diviene to-tale, pervasiva, illimitata. Dal Lago spiega, nelle sue pagine piùriuscite, come invisibilità, afasia e indifferenza trionfino al cospet-to di un fenomeno non circoscritto e quindi «indefinibile» e «ine-sprimibile»: un’intuizione che circola già nelle ultime riflessioni diFoucault, autore a lui caro, e che qui egli approfondisce.Che cosa ne emerge? Un fermo atto di accusa «intellettuale e mo-rale» verso la complice indifferenza degli «spettatori», cioè dell’opi-nione pubblica, cioè di noi tutti, a cominciare dagli intellettualidemocratici fautori delle «guerre umanitarie». Così torniamo altema di apertura. Centrale resta la complicata questione di checosa significhi essere spettatori nella «società dello spettacolo», e diquali responsabilità morali e politiche a questo ruolo si leghino.

Alberto Burgio

Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in Abbonamento Postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1, Comma 1, LO/MI

Que

st’a

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la C

onfe

renz

a in

tern

azio

nale

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dec

resc

ita, o

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izio

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Ital

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Ven

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bre.

Sen

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nizi

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cipa

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47

paes

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ersi,

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eno

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arte

cipa

zio-

ne s

ia a

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ssem

blee

ple

nari

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tre

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circ

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pers

disc

ussi.

Tut

to c

iò, u

nito

alla

cap

acità

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ostr

ata

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aniz

zato

ri, p

rova

che

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hein

Ita

lia il

mov

imen

to d

ella

dec

resc

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elle

sue

var

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ompo

nent

i, è

orm

ai u

na r

ealtà

ben

cons

olid

ata.

Un

risu

ltato

di q

uest

a po

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a co

mpo

rta

anch

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ome

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vio,

una

gra

nde

resp

on-

sabi

lità:

que

lla d

i far

cre

scer

e e

frut

tific

are

le p

oten

zial

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he il

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imen

to h

a di

mos

tra-

to d

i ave

re, r

iusc

endo

a in

cide

re e

ffett

ivam

ente

sul

la r

ealtà

pol

itica

, a li

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sia

naz

io-

nale

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inte

rnaz

iona

le.

Il pe

nsie

ro d

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dec

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a ce

rtam

ente

la p

ossib

ilità

di s

pari

glia

re le

car

te d

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a po

litic

a tr

adiz

iona

le, i

mpo

nend

o un

’age

nda

non

ridu

cibi

le a

gli s

chem

i con

cett

ua-

li ch

e ha

nno

segn

ato

gli a

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onism

i del

Nov

ecen

to, i

n pa

rtic

olar

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ello

fra

des

tra

esin

istra

. Ma

affin

ché

la d

ecre

scita

pos

sa s

vilu

ppar

e le

sue

gra

ndi p

oten

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ità, è

pro

ba-

bilm

ente

nec

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rio

un u

lteri

ore

sfor

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i foc

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zazi

one

di a

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i nod

i con

cett

uali.

È

ver

o, in

fatt

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e il

mov

imen

to d

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dec

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ppar

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gi g

ià b

en a

ttre

zzat

o pe

run

’azi

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effic

ace

su q

uest

ioni

con

cret

e e

loca

li (b

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pra

tiche

di v

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ifesa

dei

ben

ico

mun

i), e

que

sto

è se

nz’a

ltro

uno

dei s

uoi a

spet

ti m

iglio

ri, c

he lo

ren

de m

olto

div

erso

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tant

i gr

uppu

scol

i se

mpr

e pr

onti

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finir

si «r

ivol

uzio

nari

»ne

lle i

nten

zion

i e

negl

islo

gan,

ma

mai

cap

aci d

i ess

erlo

nel

la r

ealtà

del

la v

ita.

Ed

è al

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tant

o ve

ro c

he a

ll’in

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o de

l mov

imen

to si

sta

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oran

do u

na r

ifles

sio-

ne, d

iffic

ile e

im

pegn

ativ

a, s

ugli

aspe

tti

filos

ofic

i e

antr

opol

ogic

i di

fon

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he s

tann

oal

la b

ase

del n

ostr

o m

ondo

«gl

obal

izza

to»

e de

lla s

ua d

eriv

a ve

rso

l’aut

odist

ruzi

one.

C

iò c

he s

embr

a m

anca

re, i

n pa

rtic

olar

e tr

a gl

i att

ivist

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telle

ttua

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liani

, èun

a te

oriz

zazi

one

di li

vello

, dic

iam

o co

sì, i

nter

med

io f

ra le

pra

tiche

con

cret

e, d

a un

apa

rte,

e la

pro

blem

atic

a de

l sup

eram

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deg

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hem

i gen

eral

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pen

siero

del

nos

tro

«Occ

iden

te g

loba

le»,

dal

l’altr

a.

Una

teo

rizz

azio

ne«i

nter

med

ia»

di q

uest

o tip

o è

quel

la c

he r

uota

att

orno

alla

no-

zion

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«ca

pita

lism

o» (

o m

agar

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mod

o ca

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listic

o di

pro

duzi

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). N

on c

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ue-

sti t

emi s

iano

del

tutt

o as

sent

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le ri

fless

ioni

«de

cres

cist

e», t

utta

via

spes

so a

ppai

ono

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’sfo

cati

o ad

diri

ttur

a so

vrap

post

i a

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Occ

iden

te o

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Mod

erni

tà.

In q

uest

om

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si co

rre

il ri

schi

o di

per

dere

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ista

gli s

nodi

sto

rici

e t

eori

ci d

a cu

i ori

gina

no le

tras

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ni d

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soci

età

capi

talis

ta, t

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sem

pio,

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assa

ggio

, avv

enut

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vallo

tra

la fi

ne d

egli

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tant

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l’ini

zio

degl

i ann

i Ott

anta

del

Nov

ecen

to, d

al c

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mo

«rifo

rmist

a-ke

ynes

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»de

l do

pogu

erra

a q

uello

«ne

olib

erist

a-gl

obal

izza

to»

dell’

ultim

o tr

ente

nnio

. N

on c

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iam

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punt

ando

su

uno

sfiz

io t

eori

co.

Stia

mo

sott

olin

eand

o ch

e la

mes

sa a

fuo

co d

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rag

ioni

e d

egli

effe

tti d

i que

l pas

sagg

io n

odal

e as

sum

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gi f

onda

-m

enta

le i

mpo

rtan

za p

er l

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mpr

ensio

ne d

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ram

mat

ici

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lem

i ch

e ab

biam

o di

fron

te. I

nfat

ti, è

con

l’in

stau

razi

one

del c

apita

lism

o «n

eolib

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a»e

«glo

baliz

zato

»ch

eil

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tale

, pr

essa

to d

all’e

sigen

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i au

tova

lori

zzaz

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e i

ncap

ace

di s

oddi

sfar

la n

elle

form

e tip

iche

del

tre

nten

nio

prec

eden

te, a

vvia

una

din

amic

a in

cui

, da

una

part

e, s

vi-

lupp

a fo

rme

sem

pre

più

perv

asiv

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fina

nzia

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azio

ne (

sia p

er t

rova

re n

uovi

impi

eghi

prof

ittev

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er s

oste

nere

con

il c

redi

to u

n ce

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livel

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i con

sum

i), m

entr

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ll’al

-tr

a pa

rte

inva

de n

uove

sfe

re s

ocia

li (la

scu

ola,

la s

anità

, lo

spor

t ve

ngon

o fo

rzat

i, in

un

mod

o o

nell’

altr

o, a

sot

tom

ette

rsi

a un

a lo

gica

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azie

ndal

e),

fino

a co

nfig

urar

sico

me

«cap

italis

mo

asso

luto

»1 : la

soc

ietà

, cos

ì com

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ura,

son

o in

tera

men

te s

ussu

n-te

alle

esig

enze

di a

utov

alor

izza

zion

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l cap

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. Ciò

ne

alte

ra in

evita

bilm

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, spe

ria-

mo

non

irre

vers

ibilm

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, gli

equi

libri

vita

li. S

i tra

tta,

cer

to, d

i din

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he c

he e

rano

già

pote

nzia

lmen

te p

rese

nti n

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fasi

prec

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ti da

l cap

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mo,

ma

che

appu

nto

solo

neg

liul

timi

dece

nni

hann

o po

tuto

disp

iega

rsi

com

piut

amen

te,

con

forz

a de

vast

ante

, se

nza

che

ness

una

real

tà a

ntag

onist

a sia

sta

ta c

apac

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opp

orre

form

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res

isten

za e

ffica

ce e

sopr

attu

tto

visio

ni a

ltern

ativ

e su

ffici

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men

te e

labo

rate

e c

redi

bili.

Un

altr

o liv

ello

con

cett

uale

«in

term

edio

»ch

e se

mbr

a no

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cora

mes

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cone

lla ri

fless

ione

inte

rna

al m

ondo

del

la d

ecre

scita

, è q

uello

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rigu

arda

lo S

tato

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sue

istitu

zion

i.A

Ven

ezia

si

è vi

sto

con

chia

rezz

a qu

anto

que

sto

mon

do o

ffra

un p

atri

mon

io d

iid

ee e

d es

peri

enze

vas

tissim

o pe

r qu

anto

rig

uard

a la

par

teci

pazi

one

dem

ocra

tica,

lo sv

i-lu

ppo

dei m

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dal b

asso

, la

crea

zion

e di

lega

mi p

arita

ri d

entr

o di

ess

i, lo

sfo

rzo

di p

resa

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arol

a da

par

te d

i sog

gett

i ai q

uali

la v

oce

è st

ata

a lu

ngo

sott

ratt

a. M

a qu

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a gr

ande

ricc

hezz

a pr

atic

a e

teor

ica

sem

bra

aver

e qu

alch

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ffico

ltà a

trad

ursi

sul p

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della

lott

a po

litic

a, d

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rap

pres

enta

nza,

del

le is

tituz

ioni

dem

ocra

tiche

. Si

tra

tta,

com

pren

sibilm

ente

, di u

n am

bito

che

è g

uard

ato

con

sosp

etto

da

quan

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ttan

o pe

r il

cam

biam

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, dat

o ch

e og

gi, i

n tu

tto

l’Occ

iden

te e

non

sol

o in

Ita

lia, i

lsis

tem

a po

litic

o-ist

ituzi

onal

e è

occu

pato

da

un c

eto

polit

ico

ripu

gnan

te, d

edito

solo

alla

cura

dei

pro

pri i

nter

essi

e to

talm

ente

pro

no a

lle r

ichi

este

del

le é

lite

dom

inan

ti de

ll’ec

o-no

mia

. R

esta

tutt

avia

il fa

tto,

inel

udib

ile, c

he p

er p

rodu

rre

cam

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real

i allo

sta

to d

ico

se p

rese

nti,

le b

uone

pra

tiche

del

la d

ecre

scita

dev

ono

pote

rsi t

radu

rre

in b

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legg

ige

nera

li e

in b

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istit

uzio

ni p

oliti

che.

Q

uest

o re

lativ

o di

sinte

ress

e ve

rso

l’org

aniz

zazi

one,

il fu

nzio

nam

ento

e le

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uzio

-ni

del

lo S

tato

, è ta

lvol

ta m

otiv

ato

con

l’arg

omen

to c

he la

real

tà d

ella

glo

baliz

zazi

one

ha

reso

inef

ficac

e e

obso

leto

il p

oter

e de

llo S

tato

-naz

ione

trad

izio

nale

. Si t

ratt

a pe

rò d

i un

argo

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to c

he è

faci

le r

oves

ciar

e: è

pro

babi

le c

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essu

no, n

ei v

ari m

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anti-

si-st

emic

i, ab

bia

l’ing

enui

tà d

i rite

nere

la «

glob

aliz

zazi

one»

un d

ato

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atur

a, u

na r

ealtà

sort

a pe

r in

evita

bile

nec

essit

à.

La g

loba

lizza

zion

e è

la fo

rma

attu

ale

che

ha a

ssun

to il

pro

gett

o po

litic

o de

i cet

i do-

min

anti

inte

rnaz

iona

li, fi

naliz

zato

a m

ante

nere

il lo

ro p

oter

e an

che

dopo

i m

utam

enti

nelle

con

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oni e

cono

mic

he, s

ocia

li e

geop

oliti

che

inte

rven

uti n

egli

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Set

tant

a (q

uisi

vede

com

e il

tem

a pr

esen

te si

col

legh

i a q

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pre

cede

nte

sulla

nec

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à di

met

tere

afu

oco

la d

inam

ica

inte

rna

del c

apita

lism

o ne

lla s

econ

da m

età

del N

ovec

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). E

se

tale

prog

etto

ha

biso

gno

dell’

inde

bolim

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del

lo S

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-naz

ione

trad

izio

nale

per

pot

ersi

di-

spie

gare

, que

sto

dovr

ebbe

ess

ere

un b

uon

argo

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to in

dife

sa d

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sov

rani

tà n

azio

na-

li. P

er m

uove

re o

vunq

ue le

loro

mer

ci e

i lo

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li, s

enza

inco

ntra

re b

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o lim

i-ti,

i ce

ti do

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anti

abba

tton

o le

fron

tiere

(pol

itich

e ed

eco

nom

iche

) e sc

aten

ano

la c

on-

corr

enza

a li

vello

pla

neta

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spi

ngen

do u

na c

orsa

al r

ibas

so d

ei d

iritt

i dei

lavo

rato

ri e

dei l

ivel

li di

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dei

cet

i med

io-b

assi,

e fi

nend

o pe

r ap

plic

are

una

ripu

gnan

te d

ivisi

one

del

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ro a

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int

ero:

reg

ioni

adi

bite

all’

iper

-pro

duzi

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a ba

sso

cost

o, a

ltre

alco

nsum

o os

sess

ivo-

com

pulsi

vo, a

ltre

anco

ra re

lega

te a

l ruo

lo d

i disc

aric

he d

i rifi

uti t

os-

sici,

e co

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a.D

i fro

nte

a tu

tto

ciò

la re

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ne d

i chi

vog

lia o

ppor

si ai

cet

i dom

inan

ti e

al lo

ro c

a-pi

talis

mo

necr

ofilo

dov

rebb

e es

sere

, a n

ostr

o av

viso

, la

stre

nua

dife

sa d

ello

Sta

to-n

azio

-ne

, non

com

e va

lore

ass

olut

o e

asto

rico

, ma

com

e co

ncre

ta, f

attu

ale,

bar

rier

a po

litic

aca

pace

di e

sser

e, in

que

sta

fase

,ost

acol

o al

pie

no d

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gam

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del

cap

italis

mo

asso

lu-

to, e

, nel

la p

ross

ima,

cul

la d

i una

nuo

va f

orm

a di

dem

ocra

zia

part

ecip

ata

e ar

mon

ica

con

la n

atur

a.D

el r

esto

, uno

dei

pila

stri

del

pen

siero

del

la d

ecre

scita

è la

dife

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ei b

eni c

omun

ie

la lo

ro d

e-m

erci

ficaz

ione

. Ma

per

sott

rarr

e l’a

cqua

, lo

sfru

ttam

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del

ter

rito

rio,

lasa

lute

, i t

rasp

orti,

alle

logi

che

del p

rofit

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cono

mic

o è

nece

ssar

io u

n se

ttor

e pu

bblic

o,st

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e, d

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cono

mia

che

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ne f

acci

a ca

rico

. Il m

ovim

ento

per

l’ac

qua

pubb

lica

nato

in o

ccas

ione

dei

refe

rend

um d

el g

iugn

o 20

11 h

a in

segn

ato

a tu

tti n

oi c

ome

sia p

ossib

i-le

pro

tegg

ere

un b

ene

com

une

man

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ndon

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ges

tione

all’

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del s

etto

re p

ubbl

i-co

, spo

glia

ndon

e og

ni fo

rma

di p

ossib

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ttiz

zazi

one

o m

erci

ficaz

ione

gra

zie

a ge

stio

-ni

ape

rte,

tra

spar

enti

e pa

rtec

ipat

ive.

Purt

ropp

o in

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ovim

ento

del

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scita

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tazi

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o m

ovim

ento

pon

e di

vent

ano

irre

aliz

zabi

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ensia

mo

per

esem

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alla

dim

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ione

del

tem

po d

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ato

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opp

ure

all’a

bbas

sam

ento

del

la d

oman

da d

ien

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alla

sos

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ione

del

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i e in

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quel

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vabi

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pot

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sov

rani

tà n

elle

pol

itich

e ec

onom

iche

e m

onet

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, lib

eran

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coli

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sti d

all’a

ppar

tene

nza

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Infin

e, p

er fa

re u

n es

empi

o co

ncre

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i un

appr

occi

o po

litic

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e po

treb

be e

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-re

in

siner

gia

col

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resc

ita,

citia

mo

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ropo

sta

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ta d

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le e

Bon

tem

pelli

qua

lche

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po f

a in

alc

uni s

critt

i) di

por

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Cos

tituz

ione

del

la R

epub

-bl

ica

Ital

iana

com

e el

emen

to d

i bas

e di

una

pos

sibile

forz

a po

litic

a an

tisist

emic

a in

Ita-

lia. P

erch

é la

Cos

tituz

ione

? Per

ché

essa

rapp

rese

nta

un ri

sulta

to d

i alto

live

llo d

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tem

-pe

rie

cultu

rale

nel

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nas

ce, e

pro

prio

per

que

sto

espr

ime

una

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val

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ista

n-ze

in to

tale

con

tras

to c

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real

tà d

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lism

o at

tual

e. I

n so

stan

za e

ssa

prev

ede

fort

iel

emen

ti di

lim

itazi

one

del p

ieno

disp

iega

rsi d

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logi

ca c

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listic

a, p

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é, p

er e

sem

-pi

o, a

ssum

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e l’o

rgan

izza

zion

e de

l set

tore

pri

vato

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ebba

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unqu

e ri

-sp

onde

re a

fina

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soci

ali.

Nel

dop

ogue

rra

tali

aspe

tti v

eniv

ano,

ovv

iam

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, dec

linat

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chia

ve d

i rifo

rmism

oso

cial

dem

ocra

tico:

svilu

ppo

econ

omic

o e

aum

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dei

con

sum

i. C

iò n

on to

glie

che

ess

ipo

ssan

o og

gi e

sser

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lett

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una

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iver

sa, a

ppun

to q

uella

del

con

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to a

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nodi

spie

gam

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del

la lo

gica

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cap

italis

mo

asso

luto

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uind

i, in

sos

tanz

a, i

n un

’ott

ica

antic

apita

listic

a.N

on a

cas

o le

pro

post

e di

mod

ifich

e de

lla C

arta

che

att

ualm

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em

ergo

no d

alm

ondo

pol

itico

sono

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da ri

met

tere

in d

iscus

sione

que

i pri

ncìp

i (pe

nsia

mo,

per

ese

m-

pio,

agl

i att

acch

i all’

artic

olo

41),

oltr

e a

quel

li re

lativ

i alla

div

ision

e de

i pot

eri.

Si c

ompr

enda

ben

e: la

nos

tra

Cos

tituz

ione

, all’

epoc

a in

cui

fu sc

ritt

a, a

veva

poc

o o

nulla

di a

ntic

apita

listic

o. E

ssa

si ac

cord

ava

mol

to b

ene

con

la lo

gica

del

cap

italis

mo

«ri-

form

ista-

keyn

esia

no»

del

«Tre

nten

nio

dora

to»

segu

ito a

lla S

econ

da g

uerr

a m

ondi

ale.

Ma

quel

la fo

rma

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o è

stat

a tr

avol

ta d

alla

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si de

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nni S

etta

nta

ed è

sta

taso

stitu

ita d

all’a

ttua

le c

apita

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o «n

eolib

erist

a-gl

obal

izza

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In

ques

ta n

uova

situ

azio

-ne

, gli

spun

ti co

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zion

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ll’ep

oca

sem

plic

emen

te tr

aduc

evan

o ist

anze

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rmist

i-ch

e po

treb

bero

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enta

re o

ra, s

e us

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a un

mov

imen

to p

oliti

co c

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apes

se s

frut

tarn

equ

esta

val

enza

, lev

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r la

mes

sa in

cri

si de

ll’at

tual

e or

gani

zzaz

ione

soc

iale

.M

a un

tale

tipo

di c

apac

ità p

oliti

ca d

i uso

del

la le

gge

fond

amen

tale

del

lo S

tato

può

esse

re a

ssun

toso

lo d

a un

mov

imen

to p

oliti

co c

he r

iesc

a a

foca

lizza

re c

on p

reci

sione

ite

mi c

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mo

qui a

ccen

nato

. So

no q

uest

i, no

i cre

diam

o, a

lcun

i dei

tem

i che

la r

ifles

sione

teor

ica

del m

ovim

en-

to d

ella

dec

resc

ita d

ovre

bbe

pors

i.

Ripoliticizzare la decrescita

Considerazioni a partire dalla Conferenza di Venezia

Mar

ino

Bad

iale, F

abrizi

o Tr

inga

li

alfab

etaM

ensi

ledi

inte

rven

tocu

ltura

leN

ovem

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o m

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to q

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LEM

EN

TO

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LEA

LFA

CA

GE

– I

LG

RA

ND

EEV

ER

SOR

E

IPERREALISMIpolitica e reality

IPERCORPIparalimpiadi e postumano

IPERGIOCHIun’addiction di massa

IPERTVdocumentari e serial

Rob

erto

Bar

ni

LAPA

ZIE

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DA

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IAG

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FRA

NC

IA-

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SIG

NIN

CU

CIN

A-

RIP

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TIC

IZZ

AR

ELA

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CR

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ITA