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Luigi Tartagli Alla macchia! Memorie di vita partigiana

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Luigi Tartagli

Alla macchia!Memorie di vita partigiana

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© 1996 – TraccEdizioniC.P. 110–57025 Piombino (LI)

Tel e Fax – 0565/35259Tel – 0565/33056

ISBN 88-7205-050-2

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“La ricostruzione da me fatta degli episodicontenuti in questa pubblicazioneè stata realizzata nel corso degli anni 1984-1986,ed è stata aggiornata, per migliore documentazione,nel 1996, stampandola in tipografia,sulla base di memorie personali,con ripetuti riscontri con altri partecipantia quegli avvenimenti e considerandole documentazioni disponibili.Ringrazio il mensile ‘L’ALTRAVOCE’per l’aiuto che mi ha dato nella pubblicazione.”

Per non dimenticare

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Ringraziamento al Prof. Rinaldo Bartaletti

Non ho inteso né fare della retorica né della storia.Il mio intento è semplicemente

quello di ricordare memorie vissute,in momenti che non devono più tornare,

per la loro drammaticità orribile,perché possano servire alle future generazioni;

questo, come Tu giustamente dici, non vuole esserel’esibizione dello scrittore che non sono,

consapevole dei miei limiti intellettuali e sintattici.Proprio per questo il Tuo contributonella rilettura e nella correzione

ha reso più chiara la mia intenzione:far conoscere la vita di un giovane alla macchia,

con i suoi sentimenti, le sue verità interiori,con quei momenti di guerra che lo rendevano più adulto,

ma anche più duro, precoce e cosciente di vivere in quella realtà.Grazie, amico e compagno,

per avermi aiutato in questa iniziativa, da me ritenuta interessante.

Luigi Tartagli

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PRESENTAZIONE

Questo non è un saggio storico: Tartagli non ha le compe-tenze, ma neppure le intenzioni, di scrivere un’opera del ge-nere. Luigi è un uomo semplice, che non ha potuto studiare,anche se la sua è stata una vita di impegni a vari livelli e invari contesti, nella lotta per la giustizia e per la libertà. Senon ha la dimensione dottrinaria dello storico, Luigi ha peròuna qualità importante, che gli permette di parlare con com-petenza della Resistenza: l’ha vissuta. E proprio questa sua e-sperienza ha voluto raccontare, perché anche questi fram-menti di passato (di storia non accademica) fossero conse-gnati alla passione di chi non vuole dimenticare e non è di-sposto ad accettare le mistificazioni e le riletture che dellaResistenza (che crediamo meriti ancora la maiuscola) ven-gono da più parte proposte (specie dalla nuova cultura didestra). Sono “Memorie di vita partigiana” scritte in modosemplice e schietto, con partecipazione, ma senza faziosità,con orgoglio per la scelta fatta, ma anche con la sofferenzaper i lutti e le amarezze che quelle vicende provocarono an-che in chi stava dalla parte giusta. Uno stile piano, asciutto,simile a quello di un racconto parlato, in cui mille piccole vi-cende, quelle della quotidianità, si intrecciano con le grandivicende della Storia. Si scoprirà che la Resistenza non è sta-ta una marcia trionfale, ma un cammino difficile, impervio,con successi e sconfitte, con atti nobili e meschini, riscattatitutti, comunque, dalla consapevolezza, questa mai venutameno, di battersi per un’Italia migliore.Mi auguro che molte persone, specie i giovani, (visto chespesso nella scuola questi temi restano di fatto non trattati)leggano queste pagine e riflettano.

RINALDO BARTALETTI

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UNA TESTIMONIANZA

In quel settembre del 1943 sembrava che un abisso senza fi-ne si fosse aperto per il nostro Paese. Sì, vi era stata la batta-glia di Piombino e con essa poche altre fiammate qua e làper l’Italia, ma la parola d’ordine non scritta, e che sembra-va prevalere, era “tutti a casa”. Ma non tutti l’accettarono.Non l’accettarono gli antifascisti che alla spicciolata, durantei 45 giorni di Badoglio, erano usciti dal carcere; non l’accet-tarono gruppi di soldati rimasti allo sbando per la dissolu-zione dell’esercito; non l’accettarono gruppi di giovani; nonl’accettò Luigi Tartagli.Poche migliaia allora, una minoranza esigua, che poi diven-terà una solida avanguardia, forte dell’appoggio della mag-gioranza del popolo, che volle trasformare la tragedia checolpiva in nostro Paese in “tragedia ottimistica”, cioè batter-si fino in fondo per risalire la china, sognando un domaniprofondamente diverso.Gigi racconta la sua esperienza, l’esperienza di un giovanedi venti anni. Una storia la sua simile a tante altre storie cheinsieme hanno fatto la Resistenza. Storia minore si dirà, e sipuò convenire; ma ci sovviene la polemica di Giorgio A-mendola diretta agli storici (e l’occasione fu la pubblicazio-ne della Storia del P.C.I. di Spriano), quando egli sottolinea-va con grande forza che la storia non è fatta solo di docu-menti ma anche - e soprattutto - dell’esperienza vissuta daisingoli e dalle classi sociali. E il racconto di Gigi, in qualchemodo, contribuisce ad arricchire la Storia con la “S” maiu-scola.Con la Resistenza l’antifascismo cessa di essere un fatto disparute, anche se coraggiose avanguardie, e diventa un fat-to di massa. I giovani che non accettano l’occupazione nazi-sta, che negano la Repubblica di Salò, che intendono “fare

P A R T E P R I M A

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qualche cosa” si incontrano con i vecchi antifascisti e conquesti costruiscono quel grande movimento che sarà la Re-sistenza. Ed i giovani piombinesi, che come Gigi scelgono lavia della lotta armata, hanno alle loro spalle l’esperienza sto-rica di una cittadella operaia come Piombino.La Piombino prima anarchica, repubblicana, poi socialista,che subisce poi il fascismo senza mai accettarlo, neanche neimomenti del consenso intorno al regime; quella Piombinoche sta diventando comunista.L’avventura comincia con la battaglia del 10 Settembre chepeserà sugli occupanti fino al momento della loro cacciata.Questo insegna che ci si può battere e nei lunghi mesi suc-cessivi quei giovani della IIIª Brigata Garibaldi dimostreran-no di sapersi battere. E in quei giorni, in quelle notti, si com-batte con volontà di tradurre nei fatti la speranza di un’Italiaradicalmente rinnovata. Oggi, pensando al sogno di allora,constatiamo il divario fra questo e la realtà; ma come giusta-mente dice Bobbio, non possiamo, non dobbiamo parlare diResistenza tradita bensì incompiuta.E in questo senso la Resistenza continua.

On. NELUSCO GIACHINI

Presidente Provinciale dell’A.N.P.I., Livorno

Luigi Tartagli

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INTRODUZIONE

Più volte avevo pensato di ricostruire in uno scritto i giornitrascorsi alla macchia, ogni particolare dell’intenso anche sebreve periodo della mia vita partigiana.Di ciò che è stata la Resistenza hanno dato un quadro abba-stanza esauriente i lavori degli storici, lavori più o meno im-pegnativi, sviluppati secondo vari orientamenti di ricerca. Sisono misurati con gli episodi, con i fatti morali e umani del-la Resistenza, giornalisti e scrittori. Poche mi sembra sianostate le testimonianze dall’interno delle formazioni partigia-ne, offerte da coloro che vi hanno operato. A me sembra chetale carenza abbia fatto mancare alla ricerca il peso di tantifatti, piccoli e grandi. Qualche volta è mancato il giusto equilibrio tra quanto è do-cumentato e documentabile (importante anche è quando undocumento sia eccepibile), e quanto non lo è, ma può an-cora divenirlo attraverso le testimonianze di molti protago-nisti e i riscontri tuttora possibili.Non nascondo che in passato ho avuto dei dubbi, delle per-plessità a scrivere. Avevo il timore di accostarmi troppo e-motivamente alla descrizione dei fatti, o che su di essi pe-sassero troppo le ragioni dell’oggi. O, peggio, di apparire co-me qualcuno che voglia esaltare i propri meriti, che sembririvendicare l’unica ed esatta interpretazione di fatti che sonostati vissuti in prima persona. O il timore di dare un’immagi-ne eroica, senza pecche e contraddizioni, di persone che al-lora seppero essere di esempio, dare e rischiare tutto, mache furono comunque semplici esseri umani che dovevanomisurarsi con compiti eccezionalmente difficili, tante volteoltre le loro possibilità.Negli episodi che ho qui voluto ricordare forse potrà essereindividuato qualche errore. Forse il racconto, in passato, a

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distanza di anni, potrà non essere completamente obbietti-vo; potrò aver cambiato involontariamente qualche nome oavere dimenticato dei particolari, forse ancora più importan-ti di quelli da me descritti.La mia volontà è stata quella di non modificare, nel mio rac-conto, lo svolgimento e il significato dei fatti avvenuti, di sof-fermarmi maggiormente su quelli che più direttamente hovissuto nella pur modesta attività svolta dalla Terza BrigataGaribaldi, che fu un vivo punto di riferimento per tanta par-te della popolazione dei territori di confine fra le province diLivorno e Grosseto.Negli episodi da me descritti credo di aver dato, in modocorretto, la portata e la dimensione dell’opera della nostraFormazione. Questa era di buona consistenza numerica, manon possedeva un armamento e mezzi nemmeno lontana-mente adeguati alle necessità. Fu tuttavia presente costante-mente nella battaglia contro l’invasore nazista e ostacolò i fa-scisti repubblichini, rimasti sempre una forza marginale no-nostante l’aiuto dei tedeschi.Credo che la Resistenza nella espressione delle formazionipartigiane, seppure limitata nella disponibilità delle armi edei mezzi, non possa essere giudicata solo o principalmentecome una specie di azione svolta dal braccio militare dei Co-mitati di Liberazione Nazionale.La formazione partigiana era tenuta insieme da una fortetensione morale e politica che, sola, poteva farci accettare leregole di una disciplina molto rigida. Profondamente sentitoera il rapporto con la popolazione. Non poteva che esserecosì.L’impegno di uomini e di donne, il loro continuo aiuto, an-che il rischio della vita, sono stati la condizione che ha resopossibile la Resistenza. Vi sono stati molti combattimenti. Manon è stata solo combattimento. È stata anche presa di co-scienza, una drammatica condizione umana che ci ha pla-smato nell’aspirazione ad un mondo migliore. Anche se alla

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fine della guerra, per quanti hanno operato nelle campagne,nelle città, nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, non ci so-no stati riconoscimenti ufficiali, è giusto sottolineare che laresistenza ha avuto il suo retroterra e il terreno fertile in mez-zo alla gente, nella parte migliore della nazione, nella gran-de maggioranza di essa.Espressione di questo è stata la nascita e la diffusione dei Co-mitati di Liberazione Nazionale che prefiguravano un nuovoassetto statuale, unitario e democratico, mentre tutta l’orga-nizzazione dello stato fascista, l’organizzazione economica, isettori produttivi, tutti i pubblici servizi erano andati in fran-tumi. Questo faceva sentire come ormai possibile un nuovopotere, un nuovo stato. I C.L.N. furono in realtà i primi or-gani di governo diffusi in tutti i centri dopo la liberazione.La mia testimonianza su quei giorni vuole essere un contri-buto alla ricostruzione dei fatti della Resistenza, della vita diogni giorno nella formazione, ricordando particolari che for-se non saranno di grande rilievo per la “Storia”, ma possonoaiutare a far comprendere come tanti giovani vissero la lororesistenza contro un esercito invasore, come quell’atto signi-ficò rottura con il fascismo.Tra quei giovani si affermò lo scopo per il quale lottare: ri-sorgere come popolo unito, conquistare nella democrazia u-na vita più civile, riscattare il nostro Paese dal fascismo e dal-la sua guerra, dal suo asservimento all’invasore, riconquista-re la dignità di popolo civile, pacifico, libero.

Alla macchia!

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Foto scattata alla macchia nel mese di marzo 1944. Si riconoscono: i duefratelli polacchi (in basso vestiti con divisa nera), il comandante della for-mazione maggiore Mario Chirici (al centro con gli occhiali), accanto a luiil tenente Eros Zazzeri. Io sono il più giovane, col fucile (in basso dietro ilpartigiano con la mitraglia).

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LA MIA SCELTA DI PARTECIPARE ALLA RESISTENZA

Molte volte, nei miei ricordi relativi al periodo dell’ultimaguerra, mi accade di riflettere su quale può essere stata laspinta che mi condusse a scegliere la via della macchia, del-la lotta armata contro fascisti e tedeschi. Subito mi viene amente che proprio in quel periodo dovevo svolgere il servi-zio militare. Avevo già da tempo scelto di essere renitente al-la leva.Ricordo le pressioni fatte dai fascisti, con manifesti e procla-mi, con i quali si minacciavano non solo i renitenti, ma, nelcaso della loro mancata presenza alla chiamata, si minaccia-vano i loro genitori, prospettando arresti immediati e penedetentive molto lunghe.Quella situazione sembrava che non lasciasse vie di uscita.Molti, anche per queste minacce, si presentavano ai distrettimilitari e, pur avversando la guerra fascista al fianco dei te-deschi, dovettero subire l’arruolamento.In uno dei loro proclami, i fascisti un giorno pubblicaronoun ultimatum, affinché ogni cittadino, appartenente alle clas-si 1924-1925, sottoposto al servizio militare di leva ed anco-ra a casa, si presentasse entro un data precisa. I renitenti a-vrebbero subito conseguenze in base alla legge di guerra.Ciò poteva significare anche la fucilazione. Molti giovani pa-garono con la vita e molti genitori furono arrestati in quel pe-riodo.Con i miei genitori, concordai una mia strategia per affron-tare il problema, anche se mio padre non era d’accordo per-ché voleva che restassi a casa. Mi proposi di recarmi al di-stretto militare e dopo aver firmato a testimoniare della miapresenza, alla prima occasione che si fosse presentata, sareifuggito per recarmi alla macchia con i partigiani. Fu così chenel mese di gennaio 1944, l’ultimo giorno fissato dall’ultima-

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tum, mi recai a Pisa al distretto militare. Quel giorno erava-mo in molti sul treno; ognuno aveva aspettato l’ultimo mo-mento.La stazione di Pisa aveva subito costantemente dei bombar-damenti, perciò i passeggeri venivano fatti scendere qualchechilometro prima. Di lì, per raggiungere la città, bisognavacamminare a piedi alcuni chilometri. Ci trovammo a fare ilpercorso assieme, alcune centinaia di persone. I più eranocome me: destinazione distretto. In quella occasione avven-ne un fatto particolare. Davanti a noi, tra i passeggeri, c’eraun noto squadrista di Piombino, certo Novelli, aderente allarepubblica di Salò. Lo cominciammo ad apostrofare, inveen-do contro il fascismo e gli squadristi; lui si rivoltava e ci guar-dava con fare minaccioso, ma non aveva il coraggio di rea-gire apertamente. Per questo fatto ho avuto delle conse-guenze, quando quello in seguito mi ricercò con accani-mento e ripetutamente, molestando anche i miei genitori.Appena ci presentammo al distretto, fummo subito traspor-tati alla caserma dell’Ardenza, presso Livorno.A guardia di quel campo, oltre che la milizia fascista, c’era-no i tedeschi. Passammo due giorni in quel luogo. Nelle ca-merate per riposare avevamo solo della paglia, che brucia-vamo per riscaldarci dal freddo. In quel periodo, special-mente la notte gelava. Dopo due giorni ci caricarono su deicarri bestiame e, passando dalla linea ferroviaria di Collesal-vetti, ci condussero a Firenze presso la caserma “Tripoli”. Al-l’interno di questa caserma comandavano ufficiali dell’eser-cito, ma alle porte c’erano i tedeschi; le pattuglie esterne e-rano formate da militari italiani.Appena arrivati constatammo quale era il trattamento. Il pri-mo rancio era costituito da una ciotola di brodaglia imman-giabile ed un uovo sodo. Subito ci furono rimostranze e de-cidemmo di spaccare tutte le ciotole di terracotta. Ai giova-ni, che non avevano il coraggio di farlo, toglievamo a forzala ciotola e la rompevamo. Entro breve tempo ogni parte

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della caserma era piena di cocci. Questo fatto ci entusiasmòe la protesta si ampliò; andammo di sopra nelle camerate edincominciammo a gettare dalle finestre tutti i castelli con i lo-ro pagliericci. Fu a questo punto che si verificò la reazionedegli ufficiali: due di essi, dal sottostante piazzale, incomin-ciarono a sparare contro le finestre con la rivoltella. Fu suo-nata l’adunata e in quella occasione fummo tutti ammoniticon minacce nei confronti degli insubordinati. Ma le vociche correvano all’interno della caserma erano poco rassicu-ranti. I più anziani, già vestiti in divisa militare, ci dicevanoche a Calenzano, paese del territorio vicino a Firenze, dovec’era una grossa caserma, in quei giorni erano stati fucilatidei giovani di leva, accusati di diserzione. Doveva servire co-me lezione per tutti. Inoltre le voci affermavano che noi era-vamo destinati al fronte di Cassino a scavare trincee. Avevofatto amicizia con altri tre piombinesi, Mauro Guerrieri, Giu-seppe Grilli, ed un altro di cui non ricordo il nome. Comin-ciammo a parlare della nostra fuga, anche perché oltre quel-le voci, un giorno, da una finestra del primo piano, vedem-mo un numeroso gruppo di donne in strada. Ci imploravanodi fuggire e di farlo presto; ci avvertivano che i soldati pas-sati di lì prima di noi li avevano chiusi in carri bestiame edinviati in Germania.Dentro la caserma, a piano terreno, c’era un ufficio doveprendevano nota delle nostre generalità, assegnandoci i nu-meri per le nuove divise. Per noi era indispensabile fare pre-sto a segnarci, per lasciare traccia della nostra presenza; mac’era un problema da superare. Di fronte all’ufficio, una lun-ga fila di reclute aspettava il proprio turno. Un soldato in di-visa le smistava, facendole entrare un po’ alla volta. Noi e-scogitammo un sistema per passare avanti alla fila; andam-mo tutti e quattro vicini alla porta e poi cominciammo a farfinta di litigare e, prendendoci a spintoni, una spinta di quauna di là, ci trovammo dentro l’ufficio senza fare la fila. Unsoldato provò a fermarci, ma nel frattempo altri entrarono e

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lui dovette rinunciare al suo tentativo e correre ad arginarela marea.Nel pomeriggio decidemmo di saltare dalla finestra. Al cen-tro della caserma si incontravano le due sentinelle che tran-sitavano lungo il marciapiede esterno (a fianco della caser-ma era proibito il transito pedonale). I civili camminavanosul marciapiede opposto, lungo l’Arno; poco era il trafficoper la strada. Al disotto della finestra c’era un grosso corni-cione che permetteva di calarci appoggiandovi i piedi e ri-ducendo il salto che dovevamo fare per arrivare a terra. Ilproblema era quello di convincere le sentinelle a non osta-colarci. Incominciammo a raccomandarci, dicendo loro chenoi quattro avevamo parenti a Firenze e, prima di partire peril fronte, avevamo intenzione di andarli a salutare; si chiede-va loro che facessero finta di non sentire il rumore delle no-stre cadute. Non fu facile convincerli, ma ci riuscimmo. Cosìci gettammo e con l’aiuto di alcuni passanti, che ci preserole valigie e ci condussero fino alla stazione, riuscimmo a tor-nare a casa, dopo aver passato una notte nascosti in un tre-no in sosta a Livorno.Ricordo ancora quella notte di paura. In continuazione unapattuglia di tre tedeschi marciava avanti e indietro, lungo ilmarciapiede della stazione; la nostra preoccupazione finì so-lo quando, ai primi albori del giorno, il treno si mosse por-tandoci a casa. Questa mia avversione alla guerra fascista,che mi faceva prendere decisioni molto pericolose, non po-teva essere frutto solo di stati d’animo. Anche in seguito,quando feci la scelta del fucile alla macchia, c’era una con-vinzione, che via via, in quegli ultimi anni, si era maturata inme, per una serie di fattori che mi avevano coinvolto e resoprotagonista.Nel 1942, dopo due anni che lavoravo nelle imprese, all’in-terno dello stabilimento ILVA, fui assunto come dipendentedi quella azienda. Mi iscrissi quasi subito ai corsi serali di ad-destramento meccanico. Gli istruttori erano due ingegneri

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dello stabilimento, l’ing. Salvatore Spanò e l’ing. Ristagno. E-ra un corso interessante; ci spiegavano i processi chimicidella produzione dell’acciaio, il disegno meccanico ed alcu-ne nozioni di fisica. Più interessanti furono le conoscenzeche feci in quella occasione. Ricordo alcuni di quei parteci-panti; Aramis Bennati, Nerio Signorini, Angiolino Bartoli edaltri. Con loro cominciai a prendere passione a leggere deilibri proibiti dal fascismo; alcuni, portati da Aramis, erano diLondon e Mariani. Mi entusiasmò molto il primo che lessi:“Martin Eden”. Quella nuova esperienza mi faceva parteci-pare a discussioni sull’antifascismo.Tutti noi condannavamo i fatti violenti che avvenivano inPiombino, per opera degli squadristi, i quali picchiavano cit-tadini che dai più erano stimati come brave persone. Nonapprovavamo che venti o cinquanta individui aggredisserouna sola persona. Questo avveniva oltre che in città, anchedavanti alla portineria della nostra fabbrica. A queste ondatecriminali mi sono trovato presente varie volte, quando col-pirono Alfio Formaioni, Foresto Gargalini, Giacomo Menari-ni, l’ing. Annunziata e altri.In città ero presente quando picchiarono Volturno Macchi,Adriano Vanni e dentro la fiaschetteria di Tofano, in Corso I-talia, in presenza anche di mio padre, colpirono Adone Ri-coveri. Inoltre quando tentarono di aggredire, senza riuscir-ci per la reazione incontrata da parte degli interessati, Alfre-dino Salvadori e Ilio Salvadorini.Questi due tentativi falliti sono episodi che fanno conoscereappieno quale era il coraggio di questi fascisti facinorosi.L’aggressione ad Alfredino fu il primo caso in cui vidi tantisquadristi tentare di linciare una persona: lo rincorsero findentro il bar Nazionale, dove allora io lavoravo come came-riere. Egli riuscì, dopo aver messo a terra due di loro, a gua-dagnare il dietro banco; i fascisti occuparono tutto il locale.Alfredino si affrettava a trasferire molte bottiglie dallo scaffa-le al banco, davanti a sé. Il fascista Giovanni Bellosi capeg-

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giava questa quarantina di squadristi, ognuno di loro tenevaa mostrare al Salvadori il manganello e la pistola; minaccia-vano di non farlo uscire vivo dal locale. Il Bellosi era il piùfacinoroso; Alfredino rispondeva senza perdere la propria si-curezza, invitandoli a farsi avanti, assicurandoli che sarebbe-ro morti loro prima di lui.Dante Mazzei, padrone del locale, preoccupato per i danniche avrebbe potuto subire, si rivolse al comandante la piaz-za militare di Piombino, Capitano di Corvetta Giorgio Ba-cherini, che era suo cliente ed in quel momento si trovavanel bar accanto al Nazionale, anch’esso di proprietà del Maz-zei. Fu così che questo comandante di marina chiamò unaronda di passaggio e intimò agli squadristi di abbandonare illocale ordinando loro che non facessero aggressione alcuna.Questi non opposero resistenza; anzi, uscirono subito comese quell’ordine li liberasse da una situazione sconveniente.Gli ammiccamenti con le bottiglie fatti per circa mezz’ora daAlfredino avevano avuto ragione; le parole che continua-mente aveva rivolto loro smascheravano la loro viltà, egli ri-cordava che il loro motto era sempre stato quello di aggre-dire in molti una sola persona.Salvadorini, un antifascista attivo, quando fu scoperto fu an-ch’egli inseguito, ma gli squadristi non riuscirono a prender-lo. Nel correre Ilio riuscì a distanziare i fascisti, e quando siaccorse che dietro a lui c’era un solo fascista, si fermò e loabbatté con i pugni. Questo gesto lo ripeté varie volte. An-che se i fascisti erano armati di manganelli, Ilio riuscì ad a-vere ragione su di loro.Fu vicino alla Cassa di Risparmio, in Via R. Fucini, che udiichiaramente le parole che disse all’ultimo degli aggressori,dopo averlo abbattuto; “ora vado a casa e ritorno; se avetecoraggio aspettatemi, delinquenti!”Un altro episodio che capitò al Salvadorini è noto a tutti.Quando fu di nuovo aggredito nei pressi del Municipio, altentativo degli squadristi di circondarlo, egli riuscì a farsi lar-

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go e di nuovo a fuggire all’aggressione. Questa volta un fa-scista, un certo Daddi, rimase ferito da arma da fuoco.Le cronache ricordano che quell’episodio provocò la venutaa Piombino di un grosso gerarca; in occasione della visita al-l’ospedale fatta al Daddi, esso dichiarò che l’azione squadri-sta era stata un atto eroico.Il Salvadorini non fu preso. In seguito fu componente delComitato di Concentrazione Antifascista a Piombino, quelcomitato che promosse la resistenza contro i tedeschi, l’ottosettembre del 1943, che preparò e costruì la Resistenza allamacchia, fino alla liberazione del nostro territorio, nel giu-gno 1944. Ricordo inoltre le discussioni tra noi operai nellafabbrica; si allargava la condanna della guerra. Notizie pro-venienti dalle città del nord, ci informavano dei bombarda-menti con le loro conseguenze. Incominciavano ad arrivarele prime cartoline che annunciavano la morte dei soldati neivari fronti.Dall’inverno del 1942, quando ebbero inizio le prime azionidi resistenza dell’esercito sovietico, si accentuò, tra i cittadi-ni, la preoccupazione dei genitori, dei parenti e degli amicidei soldati. Molti di loro erano in marina, ed anche in quelsettore la forza navale degli alleati angloamericani si dimo-strava superiore alla nostra. Per questo si accentuò l’abitudi-ne a seguire i notiziari di Radio Londra e di Radio Mosca. Es-si erano ogni giorno motivo di discussioni e questa conver-sazione si allargava a tutta la città.Nel febbraio del ’43, in seguito alla disfatta di Stalingrado daparte dei tedeschi e all’inizio della controffensiva sovietica,si diffusero notizie disastrose per le sorti dei nostri soldati.Nel ragionare di queste cose, magari inconsapevolmente, cipreparavamo anche noi a casa a divenire protagonisti diquel processo storico. Sempre più nella gente maturava lacoscienza che responsabile di tutto ciò era il fascismo e cheper questo bisognava liberarsene. Ognuno sempre più si in-terrogava; perché questa guerra? Perché si doveva soffrire la

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fame? Mancava ogni cosa; tutte le speranze e le illusioni dif-fuse dal fascismo fra la popolazione, la promessa di unaguerra lampo, la pretesa superiorità delle nostre armi, allaprova dei fatti si dimostrarono solo propaganda ingannevo-le. Quella era una guerra impari.Sempre più si dimostrava che quella era la guerra del fasci-smo e i cittadini esprimevano il loro dissenso, sperando chefinisse presto. A Piombino seguivamo le vicende che si veri-ficavano a Torino, dove molti piombinesi erano andati, damolti anni, alla ricerca di lavoro e per sfuggire alle persecu-zioni del fascismo. Così apprendevamo delle centinaia ecentinaia di morti per i bombardamenti; sapevamo di prote-ste, del fatto che ogni sera, nei rifugi, i cittadini torinesi si e-sprimevano contro il fascismo e contro la guerra. Anche danoi incominciarono a verificarsi atteggiamenti di ribellione.Per questo i fascisti cercarono di farsi sentire con scritte suimuri (“imboscati”, accusandoli con un detto: “armiamoci epartite”), parole d’ordine di minaccia contro qualsiasi ribel-lione, passando, - come dicevo sopra - a pestaggi contromolti antifascisti. Si stavano accorgendo che la loro credibi-lità e la loro autorità venivano meno e perciò cercavano diriconquistare con la violenza quella posizione che ormainon avrebbero più avuto. Questo clima di risentimento edavversione al regime si andava sempre più accentuando. Aifatti disastrosi della guerra si univa la protesta contro la man-canza di cibo.Solo il mercato nero permetteva la presenza di alcuni gene-ri essenziali; il tesseramento non garantiva più le quantità dicibo necessario per vivere; per questo i prezzi andavanosempre di più alle stelle e in noi cittadini maturava l’esigen-za di chiedere più soldi, più merce controllata.In questo clima si arrivò al Marzo ’43. Nella fabbrica dell’Ilvasi arrivò alla fermata. Ricordo che non si parlava di un verosciopero, ma una mattina incominciò a spargersi la voce chealle dieci si doveva fermare il lavoro per protestare contro

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quello che stava avvenendo nel paese. Questo atto vennechiamato fermata bianca; furono trovate alcune scuse, ma sifermarono anche i treni di laminazione. Tra la gente non c’e-ra troppa convinzione; ognuno guardava l’altro.I gerarchi presenti in fabbrica cominciarono a correre di quae di là, ma la loro reazione dimostrava che in essi era su-bentrata la paura. L’atteggiamento dispotico venne ad untratto a mancare. Alcuni operai assicuravano che una ugua-le protesta avveniva contemporaneamente nelle fabbrichedel nord.Circolavano parole d’ordine, come “vogliamo la garanziache ci sia merce indispensabile nelle botteghe”; “più soldiper comprare quella che si trovava a mercato nero”; “bastaal fatto che solo i ricchi mangino e che noi lavoratori muo-riamo di fame”.Ricordando quegli episodi e giudicando oggi, con una co-scienza politicamente superiore, è giusto dire che quel pri-mo atto collettivo, avvenuto all’interno della fabbrica, non siespresse apertamente con parole contro il fascismo; ma eraimplicito che quelle rivendicazioni, quegli stati d’animo didissenso, avevano un significato di protesta contro il fasci-smo e contro la guerra fascista.Il 25 luglio trovò a Piombino una coscienza già preparata trala popolazione. In fabbrica, al turno spezzato, quando lamattina alle 7.30 mi accinsi ad entrare, davanti alla portine-ria si trovarono persone stese a terra per i colpi avuti da chivoleva rifarsi delle ingiustizie ricevute. Nella mattinata, sullavoro, parlavamo, domandavamo, prendevamo contattocon ogni gruppo di operai. Apprendemmo come nella notteera caduto il governo di Mussolini; ognuno riferiva cose chemagari non erano in gran parte veritiere, ma nelle discussio-ni si notava come era finita la paura di mettere sotto accusa,in maniera esplicita, il fascismo. I gerarchi sparirono dal po-sto di lavoro. Si diceva che il segretario del fascio GiovanniLorenzini era scappato. Si aggiungevano altri nomi noti di

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gerarchi piombinesi; ognuno di questi aveva preferito sce-gliere la fuga.Ad ogni ora che passava, in quella mattina, le notizie si ac-cavallavano, riportando gli sviluppi di ciò che avveniva in al-tre città. Gli squadristi ed i gerarchi che non erano scappati,si erano chiusi nelle loro case, oppure si erano nascosti pres-so parenti. Proprio in quel periodo una mattina fu trovato,morto suicida, nella propria casa, contornato da quattro ce-ri, il caporione Giovanni Bellosi, fervente cattolico, già gran-de picchiatore con manganello. Si era sparato con la sua ri-voltella.Nei primi giorni si sviluppò nella città una serie di manife-stazioni spontanee. Furono prese d’assalto le sedi fasciste,furono divelti gli emblemi del fascismo; inoltre chi ancoraveniva trovato con il distintivo all’occhiello veniva malme-nato. C’erano anche manifestazioni di giubilo. Ricordo quan-do alcuni di noi ragazzi facemmo crollare l’emblema di ungrosso fascio. Era su in alto, occupava la facciata della Pre-tura, che allora si trovava in quella che è l’attuale PiazzaGramsci, era ornato da lampadine pitturate; ad ogni ricor-renza fascista veniva acceso. Ebbene, Alfredo Calonaci, unoche viveva sul porto come marinaio, andò a prendere unagrossa e lunga fune di canapa; noi facemmo una catena u-mana. Arrampicandoci sulle tende della bottega di cappelle-ria, che era a piano terra, riuscimmo ad imbracare questo fa-scio. Dopo, con la presenza di centinaia di persone, (ognu-no voleva avere la sua parte di cima) tirammo ad ondate rit-mate. Dopo alcuni strattoni il fascio precipitò nella piazza. E-ra caduto quello era stato il simbolo della dittatura fascistanella nostra città.La stessa sorte toccò ai fasci posti su altri edifici. All’entratadello stadio “Magona”, salimmo a turno, con mazze e mar-telli distruggendoli. In ogni portone, nel numero civico, erastato imposto il simbolo del fascio: anche lì ognuno per pro-prio conto cancellò quell’effigie. Non tutto però filava liscio.

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Nei giorni susseguenti fu imposto il coprifuoco, anche nelleore pomeridiane. I carabinieri cercavano di far rispettare gliordini, che venivano da Roma, ma non vi riuscivano. Quelledisposizioni risultarono controproducenti per il potere chel’aveva emanate. Ognuno doveva rendersi conto che le for-ze predisposte a far rispettare quegli ordini non erano in gra-do di assolvere al loro mandato. Molti erano i giovani checolloquiavano con i pochi carabinieri, comandati dal mare-sciallo Amedeo Rigoldi. Nella strada, durante il coprifuoco,discutevamo con loro domandando il perché di quell’ordineassurdo. Era necessario rendere la libertà a coloro i quali permolti anni era stata negata, si diceva; invitavamo i carabinie-ri a non eseguire quegli ordini.Il maresciallo diceva, rivolgendosi a noi, di non metterlo indifficoltà, di stare buoni; non voleva adoperare la forza, manon si doveva costringerlo a farlo. Di fatto il coprifuoco aPiombino, in quel periodo, non venne mai rispettato, ancheperché, malgrado il caldo, la popolazione ogni sera era inpiazza a manifestare e ad inneggiare alla libertà, chiedendola fine della guerra.Così con questo entusiasmo arrivammo all’8 settembre ’43.Alle decisioni del governo Badoglio, e al tradimento dellamonarchia. Le autorità annunciavano un armistizio mai ri-spettato. Per l’impreparazione e il tradimento di capi milita-ri, venne lasciato ai subalterni, soldati ed ufficiali intermedi,il compito di rispettare quell’ordine, abbandonando così lapopolazione, costringendola a subire l’invasione dell’eserci-to tedesco, con una occupazione che durò per quasi altridue anni.A Piombino la resistenza all’invasione dal mare delle navi te-desche, riuscì, aiutata dalla sincera partecipazione di tantaparte della popolazione. Fu essa che sollecitò alcune forzedell’esercito a far barriera contro i tedeschi. Certi ufficialipresenti nella zona, quelli delle batterie ed alcuni soldati conmezzi corazzati, furono stimolati da questa volontà di batter-

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si manifestata da tutta la popolazione piombinese. Un grup-po di alti ufficiali venne ad incontrarsi con il Comitato Anti-fascista, che si era costituito nella nostra città. Purtroppo daquel colloquio risultò che il loro orientamento era quello dinon intervenire. Di questo loro atteggiamento si diffuse lavoce tra la popolazione e quando essi uscirono dall’albergo,dove si era tenuta la riunione, li prendemmo a spintoni, de-finendoli traditori e venduti. Sembra che tra di loro ci fossestato il generale De Vecchi, che era stato uno dei fedelissimidi Mussolini.Ci rivolgevamo verso di loro invitandoli a seguirci; noi avre-mo opposto resistenza ai tedeschi; li spronavamo a non ab-bandonare i loro soldati che volevano battersi, per il rispet-to della dichiarazione di armistizio.Il giorno dopo vedemmo arrivare a Piombino una colonnadi carri armati; erano molto piccoli, ma la loro presenza da-va una maggiore sicurezza a tutti, per la partecipazione allaresistenza. Dopo una sosta lungo la strada d’accesso allacittà, fino a Corso Italia, sulla sera questa colonna fu schie-rata nelle zone di Portovecchio fino al porto, sotto il se-maforo.Noi giovani eravamo a gruppi; facevamo la spola fra questestrade fin sotto le batterie; era un andirivieni di giovani chevolevano rendersi utili, se fosse stato necessario. L’entusia-smo non mancava, e così arrivammo ai primi colpi; proietti-li traccianti illuminavano il cielo; subito dopo si videro indarsena lingue di fuoco: erano gli zatteroni dei tedeschi chevenivano incendiati; fu colpito anche un piroscafo da carico.In seguito si venne a sapere che anche una nave da guerrasi era allontanata in fiamme verso l’Isola d’Elba.Molti furono i caduti tedeschi e diverse decine furono fattiprigionieri. Tutto questo durò un giorno e mezzo. In segui-to mi sembra la mattina del 12 settembre, alle prime ore del-l’alba, trovammo le truppe tedesche che occupavano, conmezzi corazzati, Piazza Verdi e Piazza Gramsci. Si accaser-

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marono nelle scuole industriali; ogni deposito di viveri esi-stente in città fu occupato e piantonato. Così finì il primoscontro con i tedeschi.È certo che quegli anni, vissuti con vicende che furono fon-damentali esperienze di vita, prima e durante la guerra, miaiutarono molto a formarmi una coscienza politica. Credoche siano state anche queste drammatiche esperienze chemi hanno fatto decidere di scegliere la via della macchia,prendendo parte alla lotta partigiana.

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TESTIMONIANZE DI VITA ALLA MACCHIA

DOPO L’OTTO SETTEMBRE

L’OCCUPAZIONE DELL’ITALIA DA PARTE DEI TEDESCHI

Dopo la dichiarazione d’armistizio del governo Badoglio, ilnostro Paese subì una occupazione militare accelerata delleforze tedesche. L’esercito tedesco venne potenziato, il co-mando germanico trasferì una serie di divisioni provenientidal fronte orientale, occupando tutto il territorio italiano. Itedeschi non solo dovevano sostenere il fronte da soli (gliangloamericani ormai erano già sbarcati nel continente), madovevano presidiare ogni paese, ogni città che venivano adoccupare; perciò dovettero interessarsi anche dei gangli vi-tali ed amministrativi dello stato ex alleato. La loro presenzasi avvertì anche nelle attività industriali. Nello stabilimentodove lavoravo vennero affiancati ai nostri dirigenti aziendaliuna serie di tecnici tedeschi. Scoprimmo subito cosa si cer-cava di realizzare; ci furono direttive per recuperare partedel materiale industriale che in quel momento risultava inat-tivo, con lo scopo di trasferirlo in Germania.Furono emanate disposizioni per una verifica del personalepresente in fabbrica. Nel mese di dicembre 1943 fui chiama-to, assieme a molti altri, dal capo del personale Giulio Paci-ni. Ci informò che il comando tedesco di occupazione, gli a-veva dato precise disposizioni affinché tra il personale di-pendente di quel momento, non ci fossero persone che perla loro età e condizione, dovessero militare nelle forze ar-mate. Qualora venissero trasgredite quelle disposizioni, i te-deschi minacciavano tutti i membri della direzione dello sta-bilimento di inviarli a lavorare in Germania. Per questo ci an-nunciò il capo del personale, noi tutti che ci trovavamo inquella condizione dovevamo considerarci licenziati in tron-

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co. Il 12 settembre Mussolini era stato liberato dalla sua de-tenzione sul Gran Sasso, dove era stato trasferito dopo la ca-duta del regime fascista. Un gruppo di S.S., assieme a dei pa-racadutisti del Reich, lo liberarono e lo trasferirono nellaPrussia Orientale. Dopo un incontro con Hitler, emanò unaserie di ordini del giorno che avevano lo scopo di ripristina-re il suo potere politico in Italia. Nominò subito AlessandroPavolini alla carica di segretario del Partito Nazionale Fasci-sta. Proclamò il nuovo nome dello stato, chiamandolo Re-pubblica Sociale Italiana; costituì la nuova milizia fascista;presentò un nuovo governo e organizzò nuove forze arma-te, con l’intento di ricostruire un esercito.Il nuovo stato fu chiamato “Repubblica di Salò”, dal luogodove quel governo si era insediato. Molti dei militari sban-dati dell’8 settembre che si trovavano sul territorio italianonon se la sentirono di aderire alla Repubblica di Salò. Pur-troppo la decisione di ricostruire un esercito sotto l’effigiedel fascismo ebbe conseguenze gravi per i nostri soldati al-l’estero. Ognuno di questi che si rifiutava di inquadrarsi nel-l’esercito repubblichino venne considerato dai tedeschi pri-gioniero di guerra e molti di essi furono deportati nei campidi concentramento, dai quali la maggior parte non tornò più:di quelli che tornarono molti erano minati nella salute, per-ché in quei campi vigeva il terrore.Come raccontavo in precedenza la mia decisione di presen-tarmi al distretto con l’intenzione di portarmi, alla prima oc-casione, alla macchia con i partigiani maturò in quel conte-sto. Nel febbraio 1944, assieme ad altri, mi diressi nelle zoneche confinavano con le due province di Livorno e Grosseto,dove si sapeva che operavano alcune forze partigiane. All’i-nizio fummo consegnati a dei contadini, in un cascinale nel-la zona di Montebamboli. Dopo vari giorni ci unimmo ad ungruppo partigiano, appartenente alla 3ª Brigata Garibaldi. Intutto non superavamo la dozzina; nel gruppo era presente ilcomandante della Brigata Mario Chirici. Il grosso della for-

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mazione aveva subito un rastrellamento nella zona del Fras-sine: una parte di quel gruppo veniva dall’esperienza delloscontro con la milizia repubblichina. Quei nostri compagnierano tutti dei veterani. Già da diversi mesi erano stati pro-tagonisti di varie battaglie, anche esaltanti, ma che avevanoprovocato dolorose perdite tra i loro compagni. In questonostro primo impatto non subimmo una buona impressione.Questa prima testimonianza non corrispondeva alle notiziesulla Resistenza che si erano diffuse nei paesi, dove si dice-va che i partigiani alla macchia avevano armi e vettovaglia-menti tali da poter competere contro l’esercito tedesco; essiaspettavano il momento opportuno per insorgere assiemealle popolazioni. Forse anche per questo avvenne un episo-dio, che non ho mai dimenticato.Erano passati una decina di giorni dal nostro arrivo al cam-po, quando fu comandato di montare la guardia a me ed adun altro, tutti e due venuti da poco. Ci portarono vicini allastrada che conduceva a Montebamboli, consegnandoci unfucile che doveva servire a turno a quello che montava diguardia. Quello di turno doveva arrampicarsi su una grossaquercia; di lì, oltre che il fucile, aveva un cannocchiale perperlustrare la zona. L’altro partigiano si riposava a pochi me-tri in una piccola baracca. Ogni due ore avveniva il cambio.Montammo alle quattro del mattino. Il primo turno fu desti-nato al mio compagno; doveva chiamarmi alle sei; aveva l’o-rologio che serviva ad ogni squadra per controllare l’orario.Quando mi resi conto che non ero stato svegliato e che nelfrattempo era sorto il sole, mi precipitai a verificare il motivodel ritardo, ma trovai solo il fucile con un biglietto scritto dalfuggitivo, che voleva giustificarsi del suo ritorno a casa; glimancava il coraggio di continuare! Mi precipitai lungo lostradello che portava all’accampamento, che distava circadue chilometri, per dare l’allarme spiegando quello che eraaccaduto. Il comandante preoccupato mandò subito a chia-mare Nello Bezzini, nostro informatore e staffetta di forma-

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zione, ordinandogli di partire cercando di ritrovare il fuggia-sco. Nonostante avesse una moto, Bezzini non riuscì a tro-varlo sulla strada. Con l’aiuto dei nostri collaboratori diPiombino lo ritrovò nella sua casa. Il padre di questo assi-curò che per garantire la sicurezza della formazione, sareb-bero partiti subito da Piombino, andando a stare nella pro-vincia di Pisa, da dove provenivano e dove avevano vari pa-renti. Nel frattempo dentro la formazione ci fu una specie direquisitoria anche nei miei confronti in quanto amico delloscomparso; notai nei giorni che seguirono una certa diffi-denza che poi passò.Ricordo le regole del campo imposte da Chirici, quale co-mandante esperto di queste cose, dopo quel rastrellamento.Ordinò al gruppo un lungo periodo di isolamento, senza u-scire assolutamente dall’accampamento e di osservare ilmassimo silenzio, evitando qualsiasi rumore. Stavamo in u-na capanna costruita con zolle con pelliccia d’erba; all’inter-no c’erano, per dormire e ripararsi dal freddo e dall’acqua,due “rapazzole”, giacigli costruiti con stecche di rami, consopra foglie secche.Ci sentivamo dei braccati. I nostri vettovagliamenti eranoquasi nulli; alcune coperte si adopravano a turno; per bere emangiare avevamo barattoli di latta; come cibo poche deci-ne di scatole di latte condensato, alcune decine di chili di fa-rina gialla di granturco, due grossi barattoli di vetro pieni disottoaceti; poco era il sale, pochi i fiammiferi. L’acqua riusci-vamo a trovarla scavando fosse profonde, formando dellepolle. Per una ventina di giorni mangiammo polenta e sot-toaceti. Quei giorni furono molto lunghi.Il comandante, con i suoi racconti sulla vita trascorsa al con-fine fascista, riempiva quel tempo; ci parlava di quale dove-va essere la futura società riscattata dal fascismo con la resi-stenza. Essa, diceva, doveva assicurare una maggiore giusti-zia per tutti, a ogni cittadino doveva essere garantita la pro-pria libertà. Per gestirla dovevano essere chiamati uomini o-

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nesti e capaci di saper distinguere il bene dal male. Io credoche anche quel periodo servì a tutti noi, oltre che a formarcicome combattenti, a farci essere protagonisti; ci insegnò, af-fratellandoci, a sentirci untiti come una famiglia per una stes-sa causa.Ogni giorno c’era l’ora destinata all’istruzione con le armi, al-la tattica partigiana, al modo in cui ci dovevamo presentarealle popolazioni dopo la liberazione. Doveva essere il con-trario della prepotenza esercitata per venti anni dal fascismo;non mancavano momenti nei quali sottovoce cantavamo lenostre canzoni della resistenza. Ma il cibo ben presto si ma-nifestò nocivo per tutti noi; in ognuno provocò forti doloriintestinali. Anche per questo fu necessario rompere l’isola-mento. Il comandante decise di inviare due di noi a procu-rare della carne. Si proposero come volontari Mauro Tanzinie Pietro Bianconi. Ritornarono dopo tre giorni; avevano consé un agnello e una pecora. Il Chirici li aveva consigliati diportarsi lontano dal campo per sviare le loro tracce; essi sipreoccuparono di non essere notati anche quando preleva-rono gli ovini. Fu dopo venti giorni al campo che mangiai laprima carne.

UN DURO COLPO PER LA FORMAZIONE:IL RASTRELLAMENTO DEL FRASSINE

Questo è il racconto fatto dai testimoni di quella orribile tra-gedia perpetrata dalle bande fasciste. Erano le cinque delmattino del 16 febbraio 1944, quando uno dei partigiani det-te l’allarme, rendendosi conto che da ogni parte brulicavanomiliti repubblichini. Era un numeroso gruppo provenienteda quasi tutta la Toscana: Siena, Livorno, Grosseto, Pisa eMassa Marittima; si erano dati appuntamento in quella zona.Occuparono la frazione del Frassine, bloccarono ogni stra-da, circondarono una serie di poderi: “Le Stallette”, “Fonte

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Larda”, “Poggio a Rocchino”, “Campo al Bizzi”. In due diquesti poderi, quella notte, avevano dormito una ventina dipartigiani. La loro formazione era dislocata a circa quattrochilometri all’interno del bosco. Erano gli addetti a costruirenuovi capanni. Trovandosi distanti dalla base della forma-zione, alcune volte rimanevano a dormire nei fienili o nellestalle di queste cascine.Quando la ronda dette l’allarme, i fascisti avevano già presoposizione. Probabilmente avevano ricevuto delle informa-zioni precise da qualche spia, che aveva riferito di queste a-bitudini. Di fatti negli ultimi giorni della nostra attività allamacchia scoprimmo l’informatore, che confessò il propriomisfatto. Il gruppo partigiano che si trovava nel cascinale diCampo al Bizzi fu subito attaccato dal fuoco nemico; la ri-sposta dei partigiani non si fece attendere. Finite le munizio-ni ed ormai lambiti dal fuoco che era stato appiccato dai fa-scisti, i partigiani dovettero arrendersi uscendo con le manialzate. Solo Canzio Leoncini, malgrado una ferita, riuscì afuggire dalla finestra che si trovava dalla parte della macchia.Silvano Benedici, 23 anni, nato a Volterra; Pio Fidanzi, 19 an-ni, nato a Massa Marittima; Otello Gattoli, 35 anni, nato aMassa Marittima; Salvatore Mancuso, 23 anni, nato a Catania;Remo Meoni, 27 anni, nato a Montale, furono assassinati nel-l’aia del podere, dopo essere stati ripetutamente seviziati edeturpati.Nell’altro podere, quello di Poggio a Rocchino, distante oltreun chilometro, un gruppo di partigiani riuscì a sganciarsi; al-cuni in un secondo tempo furono fatti prigionieri assiemecon altri. Rimasero feriti: Guido Mario Giovannetti, che gui-dava il gruppo, Fosco Montemaggi e Mario Guarguaglini.Con loro furono fatti prigionieri: Aldo Campana, Libero Cor-rivi, Giuseppe Fidanzi, Dino Gentili, Fortunato Granelli, ErosGranchi, Nimo Gualersi, Fulvio Guarguaglini, Fosco Soresi-na. Subirono la stessa sorte tutti gli uomini presenti nel ca-scinale, tra i quali Angelo Galgani e Armido Mancini, che e-

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rano i contadini nel podere. Vennero legati e trasportati alFrassine; di lì a Massa Marittima, dove furono fatti sfilare nel-le strade del paese.La visione di quella scena tragica provocò una reazione tra icittadini. Alcune decine di donne richiesero il rilascio dei pri-gionieri. Furono condotti alle carceri di Grosseto e dopo al-cuni giorni portati alle “Murate” di Firenze.Nel racconto che ci fecero, i nostri compagni spiegarono ilmotivo dell’esiguo numero di partigiani presenti: la forma-zione in quella località era composta da oltre un centinaio dipartigiani, la cui collocazione era molto addentro nella mac-chia. Subito essi si resero conto del numero preponderantedei fascisti presenti; inoltre gli spari dimostravano che il loroarmamento era composto essenzialmente da armi automati-che. Per questo il comando di formazione, dopo un breveragionamento su come si doveva agire di fronte a quellarealtà, decise che si sganciassero a gruppi. Una parte di essiandò sulle Carline, altri su Monte Arsenti, altri nel Volterranoe nel Pratese. Dopo un certo periodo la maggioranza di essisi ricongiunse con la formazione. In quei giorni di isolamen-to continuarono a farci conoscere come era nata la forma-zione.I primi nuclei partigiani si formarono sin dal 25 settembredel 1943, nella zona del Romitorio; il primo gruppo era co-mandato dal partigiano Renato Piccioli. Nel mese di ottobrese ne formò un altro comandato da Elvezio Cerboni. I duegruppi si unirono trasferendosi nella zona dell’Uccelliera, di-venendo una forza considerevole. Di lì partirono le prime at-tività contro il ricostituito fascio repubblichino.Questo gruppo era in contatto con il C.N.L. di Massa Maritti-ma, che provvedeva già a fornirgli una certa quantità di vet-tovagliamento in pasta, pomodoro in scatola ed altri generialimentari, assieme ad altre cose. Al momento dell’unifica-zione furono informati dal C.N.L. che quanto prima sareb-bero stati raggiunti da Mario Chirici, proponendolo come

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nuovo comandante. Chirici era stato un ex ufficiale degli ar-diti nella guerra 1915-18 e già ex comandante dell’Avan-guardia repubblicana di Massa Marittima. In seguito avevaconosciuto le carceri fasciste, internato nell’isola di Lipari,poi costretto ad esiliare nella zona dell’Istria, vivendo là conla famiglia sino alla caduta del fascismo.Il Comitato di Liberazione di Massa Marittima, saputo che ilChirici, in quell’epoca, si trovava nascosto nella città di Sie-na, provvide, dopo averlo contattato, a proporgli il coman-do della banda del “Massetano”. Dopo il suo consenso fu tra-sportato con un’autoambulanza in località Ghirlanda, ed ac-compagnato al podere Montoccoli. Con il consenso di tutti ipartigiani divenne il loro comandante nella zona dell’Uccel-liera.Con l’arrivo di Chirici, raccontavano quei veterani del miogruppo, si intensificarono le azioni. Era necessario provve-dere ai rifornimenti della banda. Il primo attacco fu fatto nel-la zona della miniera delle Capanne Vecchie, dove trovaro-no oltre che i viveri, anche diverse armi scoperte nella stan-za dell’ingegnere, nascoste, murate nella parete.Ho voluto fare delle ricerche per sapere quanti e chi fosseroi primi partigiani del Romitorio e della Marsigliana. Erano ol-tre una ventina; c’erano Renato Piccioli, Elvezio Cerboni,Mauro Tanzini, Guido Mario Giovannetti, Asdrubale Radi,Rolando Giannoni, Mario Roccabianca, Giorgio Verniani,Roberto Santini, Fulvio Guarguaglini, Mario Vecchiarelli, Tul-lio Paradisi, Franco Venturi, Alfo Cerbai, Enrico Filippi, Giu-seppe Martellini, Canzio Leoncini e Bramante Berrettini. Labanda era discretamente armata, disponeva di vari fuciliMod. 91, mitragliatori “Beretta” e “S. Etienne”, con abbon-danti munizioni per tutte le armi ed una grande quantità dibombe a mano.Queste armi erano state recuperate a Massa Marittima du-rante lo sfaldamento dell’esercito, l’otto settembre, nella se-de di un distaccamento di bersaglieri. Furono un gruppo di

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giovani i protagonisti di quella azione: li chiamarono “i ra-gazzi della torre”. Mi sembra giusto soffermarmi ancora suquesti episodi che riguardano il periodo della fondazione,perché sono testimonianza di come già subito dopo la di-chiarazione d’armistizio fatta dal governo Badoglio, tra lapopolazione, in special modo tra i giovani, vi furono mani-festazioni di risposta alla mancanza di responsabilità degliuomini rappresentanti del governo e delle forze armate.Questi giovani dimostrarono i loro propositi, indicando cosaera necessario fare, prevedendo la necessità di prepararsi al-la resistenza contro i tedeschi e i fascisti. Quelle armi nasco-ste, messe da parte, permisero la nascita di una resistenza ar-mata in questo territorio.Sempre nel mese di ottobre 1943, fu attaccata la caserma DI-CAT a Massa Marittima; dopo pochi giorni ci fu l’attacco allacaserma dei carabinieri di Boccheggiano. Arrivò il primo ra-strellamento contro la formazione nella zona dell’Uccelliera.Non ci furono perdite; la tempestiva segnalazione della pre-senza fascista nella zona permise lo sganciamento, evitandol’accerchiamento.Nel novembre ci fu l’attacco alla caserma dei carabinieri diMonterotondo, dove furono prelevate tutte le armi. Un cara-biniere riuscì a raggiungere un telefono esterno ed avvertì lacaserma di Massa Marittima, che con un autobus mandò unaquindicina di militi dell’arma. Furono intercettati fuori delpaese, sulla strada che li doveva portare a Monterotondo; e-ra stato predisposto un servizio di vigilanza. Dopo alcunispari si arresero e furono fatti prigionieri; vennero tolte lorotutte le armi, scarpe e divise militari. Furono rilasciati dopola loro promessa che non sarebbero più tornati in casermaandando alle proprie case.In tutta la zona del massetano continuò ad essere attaccataogni caserma; sulle strade vennero interrotte linee telegrafi-che; ci furono conflitti contro repubblichini e reparti separa-ti dell’esercito tedesco. Per questo si verificarono nuovi ra-

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strellamenti, nei mesi di dicembre e gennaio 1944; ci furonopiccoli gruppi di fascisti che si portarono nella zona di Gio-vannaccio, Marsiliana, Prata e Peretola, senza mai aver potu-to ottenere contatti con le forze partigiane. Ad ogni occasio-ne riuscivano a dileguarsi evitando gli attacchi avversari.

IMPONEMMO UNA MESSA PER I NOSTRI CADUTI

Si riallacciarono i contatti con i nostri collaboratori; ci furonoincontri e si ripristinarono alcuni rifornimenti. Come anchein passato, i cittadini di Monterotondo ci inviarono sigarette,calzini di lana, altra roba modesta, ma per noi di grande va-lore. Inoltre ci dettero anche dieci camicie rosse. Le avevanocucite per noi le donne di quel paese; una di esse fu conse-gnata anche a me. Ormai la formazione era diventata di nuo-vo numerosa; erano molti i giovani che sceglievano la viadella macchia; altri partigiani della vecchia formazione si e-rano di nuovo ritrovati; fuggivano dalle caserme militari diLivorno e Grosseto. Anche prigionieri sovietici e polacchifuggivano dai campi di prigionia per raggiungere la nostraformazione.Eravamo all’incirca nel mese di aprile quando il comandan-te prospettò alla sezione comando una iniziativa da compie-re nella zona del Frassine. Fu condivisa da tutti; era un do-vere nei confronti dei nostri caduti di Campo al Bizzi.Per giungere nel luogo dell’azione dovevamo camminaretutta la notte; arrivammo nella mattinata sul posto; eravamocirca una ventina. In tre entrammo nel paesino, io, il capoSezione Eros Zazzeri ed il comandante Chirici. Gli altri, condiscrezione e senza farsi vedere, avevano circondato il Fras-sine; avevano il compito di evitarci qualsiasi sorpresa dall’e-sterno.Nel borgo, tra i paesani (la più attiva era la partigiana DaliaGiangherotti) ed i molti sfollati piombinesi, c’erano i nostri

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collaboratori, che avevano predisposto il nostro arrivo. Ve-stiti tutti e tre con le nostre camicie rosse ci dirigemmo ver-so la chiesa al centro della strada; eravamo armati di tuttopunto. Fummo notati subito dagli abitanti; ai lati della stradaerano in molti, donne e uomini; sembrava che tutti sapesse-ro e ci aspettassero. Entrammo in chiesa; era vuota. Chia-mammo il parroco don Giuseppe Conti, ma nessuno rispo-se. Aggirammo l’altare e scorgemmo una scala di legno cheportava al piano superiore. Di nuovo chiamammo il parro-co. Si affacciò ed alla nostra vista ci fu in lui come unosconforto e con parole sottomesse ci chiese di salire di so-pra. Ma il comandante lo invitò a scendere, e presto.Questo prete era indegno della veste che portava. Non so-migliava ad altri sacerdoti, come don Oreste Poccioni diMonterotondo, don Angelo Biondi di Suvereto o don UgoSalti di Follonica, che avevano con noi rapporti di collabora-zione ed erano molto utili alla resistenza, per le loro infor-mazioni.Nel febbraio, dopo l’eccidio fascista di Campo al Bizzi, la po-polazione, nel ricomporre i corpi seviziati dei partigiani ca-duti, chiamò il parroco don Giuseppe perché prima della se-poltura impartisse la benedizione alle salme. Ci fu riferitoche egli espresse un rifiuto netto, con le parole: “quelli nonsono figli di Dio, perciò non sono degni di assoluzione”.Quella mattina a noi si presentò un uomo viscido e servizie-vole e, quando il comandante ricordò l’episodio di febbraio,rispose che non si ricordava delle parole spese a carico deicaduti partigiani. Il Chirici gli disse che ogni uomo devesempre rispondere delle proprie azioni, buone o cattive. Do-po, con autorità, lo invitò a suonare le campane e a officiareuna messa per i caduti partigiani. Al primo tocco di campa-na la chiesa cominciò a riempirsi. In poco tempo fu piena didonne e uomini. Noi tre, al centro sull’attenti, davanti all’al-tare, assistemmo a quella cerimonia. Anche dopo tanti anninon posso dimenticare. Fu una messa cantata. Al di là della

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liturgia, si trasformò in un atto di forza caratterizzato da ungrande calore e da profonda umanità e in un’espressione digiustizia imposta a chi non aveva assolto ad un suo dovere.

CATTURA DI UNA SPIA AL SERVIZIO DEI TEDESCHI

Io e il maggiore Chirici ritornammo all’accampamento dovesi trovava la nostra formazione dopo tre giorni d’assenza,per aver partecipato ad un incontro con alcuni rappresen-tanti del C.L.N. di Massa Marittima, di Monterotondo e conalcuni collaboratori del Frassine. Erano circa le undici delmattino quando, in prossimità della strada che porta a Mon-tebamboli, scorsi un uomo con vestiti militari. Ebbi subitol’impressione che fosse un tedesco. Saliva la ripida china conpasso molto svelto, come di corsa.Avvertii il comandante; egli mi ordinò di aspettarlo e di con-durlo nello stradello dove eravamo noi.Così feci; mi occultai per non essere visto e appena mi fu vi-cinissimo gli intimai l’alt, costringendolo ad alzare le mani equindi lo feci prigioniero. Alla domanda su quale fosse ilmotivo della sua presenza lì, rispose: “sono un prigionieropolacco fuggito dal campo di prigionia di San Vincenzo, so-no ferito ad un piede, sto cercando di raggiungere il Lazza-reto di Siena (così chiamò l’ospedale), per farmi curare”.Come era possibile per lui farsi curare, presentandosi in unalocalità piena di soldati tedeschi? Si capì subito che mentiva!Inoltre, quando io lo scorsi sulla strada, constatai che tenevaun passo molto celere. Lo invitammo a seguirci, dicendogliche al nostro accampamento vi erano decine di ex prigio-nieri polacchi e sovietici. Egli si dimostrò riluttante al nostroinvito; non sentiva ragioni, voleva a tutti i costi che lo la-sciassimo libero. Pertanto fummo costretti ad imporgli di se-guirci.Giunti ad un chilometro dalle nostre postazioni, le nostre ve-

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dette ci vennero incontro, mettendo a conoscenza immedia-tamente il maggiore Chirici del fatto che nella notte prece-dente era fuggito dall’accampamento un prigioniero polac-co, arrivato due giorni prima con altri suoi compatrioti. Que-sto fatto costituiva per noi un allarme. Di conseguenza si do-veva necessariamente, ai fini della nostra incolumità, trasfe-rire in altre località tutta la formazione. Appena entrati nel-l’accampamento si notò una certa confusione. Io ero da unaparte di guardia al prigioniero. Sentendo il comandante chestava facendo un accorato rimprovero ai responsabili del-l’accampamento, gli ricordai la nostra cattura. Alle mie paro-le i presenti si rivoltarono verso di me e subito riconobberolo sciagurato disertore.Dopo tre giorni di interrogatorio, fatto dai suoi stessi conna-zionali e da alcuni carabinieri presenti nella formazione,confessò che era un soldato tedesco mandato a perlustrarela zona per poi riferire ai suoi superiori la consistenza delleformazioni partigiane, prima di effettuare un rastrellamentosu larga scala. Infine si venne a sapere che effettivamente e-ra un ex prigioniero polacco del campo prigionieri di SanVincenzo, però collaboratore dei tedeschi.Verificandosi in questo accampamento molte diserzioni, i te-deschi avevano creato una loro rete di collaboratori per cer-care di scoprire dove andassero i prigionieri. Quindi questaspia aveva un duplice scopo: scoprire la natura delle fughee individuare dove si trovavano i partigiani.Ma la guerra partigiana aveva anche i suoi lati tragici. Dopola confessione i vari comandanti si riunirono e vollero, in lo-ro presenza, sentire dalla voce di questa spia la confessioneche aveva già fatto. Dopo ciò fu fatto allontanare, ed il co-mando sentenziò la sua condanna. Alla macchia non erapossibile tenere dei prigionieri.Solo negli ultimi giorni dalla liberazione furono assunti nuo-vi orientamenti e così decine di prigionieri tedeschi ebberosalva la vita. Tenere dei prigionieri significava mettere a di-

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sposizione di ognuno di essi due partigiani per guardarloventiquattr’ore al giorno. Tutto questo ci avrebbe costrettoad un ridimensionamento della nostra forza, comportandoanche un rischio per tutti noi. Quel giorno per me significòscoprire questa dura realtà. Rimasi profondamente turbato;non lo dimenticherò facilmente.Il polacco fu informato della decisione del comando. La suareazione di disperazione lasciò in molti di noi tristezza e sgo-mento. Voleva continuare a vivere, era disposto ad accettarequalsiasi condizione gli si prospettasse. Quanti casi simili cifurono nei cinque anni di guerra in tutto il mondo!Riflettendo, quanta responsabilità si erano assunti i profitta-tori e gli istigatori della guerra, di quali tragiche realtà sonoportatrici le guerre! Ogni sottovalutazione di tutto ciò puòoggi essere una grave responsabilità per ogni uomo, per o-gni donna. Non si deve dimenticare, non si deve far finta dinon sapere. Per ciò è utile parlare di queste vicende e far co-noscere, specialmente alle nuove generazioni, quelle tristirealtà. Chi è stato protagonista e scelse una delle parti percombattere, lo fece in conseguenza di una preparazione pre-cedente. Il fascismo diffuse tanto odio per far crescere e cre-dere alla necessità della sua guerra. È per questo che non sideve più ripetere la propaganda dell’odio tra i popoli, pre-messa di guerra.Reputo ancora valido il monito di Thomas Mann, scritto su-bito dopo la guerra, nella prefazione alle “Lettere di con-dannati a morte della resistenza europea”: “Viviamo in unmondo di perfida regressione, in cui un odio superstizioso eavido di persecuzione si accoppia al terror panico... L’ab-bassamento del livello intellettuale, la paralisi della cultura,la supina accettazione dei misfatti di una giustizia politiciz-zata, il gerarchismo, la cieca avidità di guadagno, la deca-denza della lealtà e della fede, prodotti, in ogni caso pro-mossi da due guerre mondiali, sono una cattiva garanziacontro lo scoppio della terza, che significherebbe la fine del-

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la civiltà”. Molte delle cose dette sono attuali e richiamanotutti ad una riflessione sull’oggi.

UN’AZIONE CONTRO UNA CASERMA DI GUARDIE FORESTALI

La formazione ogni giorno si arricchiva di nuove presenze; adecine i giovani affluivano per combattere il tedesco invaso-re ed i suoi sgherri fascisti.Al comando fu indetta una riunione per discutere la situa-zione e per affrontare tutto ciò che comportava per essere al-l’altezza della nuova realtà, ponendoci anche nuovi obbiet-tivi da raggiungere. Tutto questo riguardarono le decisionidel comando. Per fornire l’armamento ai nuovi venuti, si do-vevano compiere nuove azioni partigiane e alcune di questedovevano essere rivolte verso le caserme della zona.Furono indicate le caserme di Campiglia Marittima, San Vin-cenzo, Riotorto e quella della forestale di Montioni. Le primetre erano occupate, oltre che dai carabinieri, dalla guardiarepubblichina. Quella di Montioni solo da guardie forestaliche, si diceva, non tutte avevano aderito al nuovo regime diSalò. Furono divisi i compiti tra le varie sezioni e stabiliti itempi. La prima fu quella di Montioni ed il comandante inpersona guidò l’azione.Partimmo alle quattro del pomeriggio, arrivammo sul postoalle due di notte. Circondammo la caserma e la casa del con-sole fascista che comandava il distaccamento. Facemmo su-bito prigioniero il console: abitava in una casa distante uncentinaio di metri dalla caserma; erano presenti i suoi fami-liari; anche nella caserma erano presenti donne e bambini.Per questo fu proposta ed accettata una resa incondizionatacon la promessa che non avremmo sparato un colpo. Il bot-tino di armi fu eccezionale: molte rivoltelle, un mitra, vari fu-cili da guerra, numerosi fucili da caccia; furono prelevati an-che rifornimenti di vettovagliamento militare con relativi

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quantitativi di alimentari. Tutti furono lasciati liberi, con l’im-pegno che ognuno di loro lasciasse la caserma e tornasse al-la propria casa.

UN GIORNO PER ME DOLOROSO

Era una mattina di maggio, come altre volte era avvenuto, u-na moto con il sidecar traversava il ponte del fiume Milia,questo affluente del Cornia che prendeva forma dalle mon-tagne circostanti, che noi conoscevamo molto bene, perchéquasi ogni giorno lo attraversavamo nei nostri movimenti.Quella moto, che avevo avvistato da molta distanza con ungrosso cannocchiale della marina da guerra, continuava adavvicinarsi e, giunta all’incrocio delle quattro strade (San Lo-renzo, Montioni, Montebamboli e Suvereto), girò e si dires-se verso la nostra zona.Più si avvicinava e più riconoscevo il mezzo che era guidatoda un nostro collaboratore, Luigi Pazzaglia, un costante edattivo rifornitore di armi e vettovagliamento; che noi sape-vamo essere materiale proveniente dalla caserma dei Cara-binieri di Piombino, dove risiedeva, come comandante lastazione, il maresciallo Amedeo Rigoldi, il quale molte volteera venuto, assieme al Pazzaglia, portando sempre arma-mento vario.Era da poco che avevo montato il mio turno di osservazio-ne, sopra una grossa quercia da dove si poteva scorgere tut-ta la piana che arrivava sino a Suvereto. Di lì, nitidamentenella notte si vedevano gli albori dei bombardamenti suPiombino, dove i nostri “alleati” continuavano inesorabil-mente a lanciare bombe contro una città deserta, priva di o-gni obbiettivo militare. Da tempo il porto non era più fun-zionale, come non lo erano tutte le fabbriche, che avevanocessato la propria attività perché rase al suolo. Su Piombinofurono effettuati una trentina di bombardamenti, scaricando

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più di milleottocento tonnellate di esplosivo. Dalla cima diquesto albero chiedo a distanza di pronunciare la parolad’ordine, il Pazzaglia risponde ed io mi accingo a riceverlo.Appena mi vede ha una esclamazione: “Tu sei Tartagli?”; “sì,”rispondo e chiedo “come vanno le cose a Piombino?”, “Co-me al solito” è la risposta. Ogni giorno si corre per andare airifugi, ma ormai non c’è quasi più nessuno. Così si congedada me e si avvia lungo lo stradello che lo porta al comandodi formazione. Mentre riflettevo su quella esclamazione unpo’ fuori luogo, perché altre volte ci eravamo visti ed il no-stro saluto era avvenuto in modo diverso.Passarono circa venti minuti ed arrivò un mio compagnopartigiano che, con mia sorpresa, invitava solo a me ad an-dare a mangiare, lui mi avrebbe dato il cambio. Subito gli fe-ci notare che mancava ancora un’ora prima del mio cambio.La risposta è perentoria, “il comandante mi ha mandato a ri-levarti perché tu possa andare a mangiare”.La strada che mi separa dall’accampamento la faccio di cor-sa. Dentro di me, ricordo, subentrò una forte agitazione dipensieri. Perché, continuavo a ripetermi, questa chiamata in-solita? Arrivato al comando entro nella tenda e trovo il Paz-zaglia assieme al comandante Chirici. Chiedo spiegazioni edanticipo: “È successo qualcosa ai miei?”, “no, perché?”, ri-sponde ingenuamente il nostro collaboratore. Gli ricordo l’e-sclamazione di prima ed il fatto insolito di essere inviato amangiare prima dello scadere dei termini del mio servizio. IlChirici mi sollecita ad andare a mangiare, dopodiché miinforma che mi deve parlare. Non obbedisco, ed insisto nelvoler sapere. Alla fine viene fuori una prima notizia: in unbombardamento di poche sere avanti, sono stati feriti i mieigenitori; ora si trovano all’ospedale di Campiglia Marittima.Chiedo subito di poter partire, ma il comandante mi ricordache a noi non è concesso il permesso di lasciare la forma-zione. Mi ricorda la pericolosità per la stessa vita della for-mazione stessa, qualora fossi scoperto come appartenente

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ad una brigata partigiana, mi avrebbero potuto far parlare eper questo non si poteva concedere a nessuno di muoversidal campo. Fu dopo una lunga insistenza, facendo valere lamia anzianità al campo (perciò mi si doveva fiducia) che riu-scii ad avere il permesso per la mattina presto del giornosuccessivo. Nacque una difficoltà: i miei vestiti erano laceried avrei senz’altro destato sospetti.Ci fu una gara tra i miei compagni ad offrirmi, chi un capo,chi un altro e così vestito un po’ da tedesco, un po’ da italia-no potei essere più decente. Purtroppo, quando attraverso lacampagna arrivai all’ospedale di Campiglia, la verità vennesubito fuori: i miei erano stati assassinati da quella guerrache loro avevano fin dal primo momento odiato. Subito lamia memoria andò a loro ancora vivi. Mi venne alla mente ilpresentimento che mia madre nel salutarmi, la notte che par-tii per la macchia, mi fece abbracciandomi fortemente: “Lui-gi, noi non ci rivedremo più”.

UN INCONTRO IMPORTANTE

Fu pochi giorni dopo che avevo appreso della morte deimiei genitori, e quindi non posso sbagliarmi sulla data diquell’incontro. Fu al mio ritorno dall’ospedale di Campiglia,dove con certezza mi informarono della triste notizia. Ero ri-tornato al campo. Ero molto addolorato; avevo il moraleprovato. Accortosi di questo, il comandante Chirici, cercan-do di risollevarmi, mi annunciò che all’indomani avevamoda compiere una missione. Dovevamo incontrare un colon-nello dell’esercito italiano, perciò non voleva che mi facessinotare così depresso.Per incoraggiarmi, ricordo, espresse elogi sul mio comporta-mento passato, così mi invitò a superare quel momento tra-gico della mia vita, che umanamente egli comprendeva.Sottolineo questo episodio, avvenuto alla formazione, per-

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ché su quell’incontro è stato riferito in varie occasioni, dopola liberazione, e sono state proposte date che non semprecorrispondono alla verità. Inoltre quel fatto fu così impor-tante che provocò, in seguito, rotture, diverse posizioni det-tate da interessi di parte, speculazioni e ci fu chi approfittòdi quella rottura e divisione.Dopo la guerra, nella nuova lotta democratica del paese,prendendovi parte, acquisii maggiore coscienza su quelleche erano state le forze politiche in campo. Mi spiegavo me-glio, più chiaramente, quale era stata la molla che avevacoinvolto in quella lotta partigiana ogni stratificazione socia-le del Paese, come si era veramente formata una partecipa-zione di popolo.La mia vita nella formazione non fu molto lunga; arrivaiquando si stava riorganizzando la seconda fase, dopo Cam-po al Bizzi. Del periodo in cui ho vissuto quell’esperienzasono state riferite molte cose che non corrispondono allarealtà. Non ne comprendo i motivi. Può darsi che vi sia sta-ta una documentazione volutamente non veritiera, oppure cisaranno altre cause che mi sfuggono. Ma veniamo ai fatti:l’incontro con il colonnello Alberto Croci.Erano gli ultimi giorni del mese di maggio e gli ultimi giornidella nostra attività nella zona. Io e il comandante della for-mazione andammo lontani dal nostro accampamento, versola località di Montioni. Ci incontrammo in una carbonaia.Quando arrivò quell’ufficiale, era accompagnato da don U-go Salti. Dopo i saluti il sacerdote si allontanò e io rimasi vi-cino ai due: l’ufficiale ed il comandante partigiano. La di-scussione durò a lungo. Quasi alla fine, con mia sorpresa, vi-di consegnare al Chirici duecentomila lire. La discussioneproseguì ancora alcuni minuti. Poi accompagnammo per untratto il colonnello, conducendolo vicino ad un podere dovelo aspettavano, e noi ritornammo subito al campo. Appenagiunti, il comandante espose un biglietto, dove era solito at-taccare gli ordini del giorno. Comunicava che il giorno dopo

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sarebbe stata effettuata una riunione di tutti, dicendo che illuogo dell’incontro sarebbe stato lo stradone a valle dell’ac-campamento. Nel frattempo mandò a chiamare i capi dellesezioni distaccate. Anche loro furono presenti alla riunione.Ho sempre ricordato che nelle dichiarazioni che il coman-dante fece in quella occasione, non si parlò di passaggio del-la nostra formazione come appendice di un raggruppamen-to denominato “Monte Amiata”. Le dichiarazioni del coman-dante furono informative sull’incontro avvenuto il giornoprima con il colonnello; Chirici disse che il militare aveva la-sciato dei soldi. Inoltre annunciò l’impegno assunto, per cuimolto presto avremmo ricevuto un lancio di armi automati-che da parte degli alleati. Disse che in avvenire ci sarebberostati altri aiuti.Fu sottolineato che quel colonnello era stato mandato comerappresentante dell’esercito del governo Italiano, già costi-tuito al Sud. Fu detto che il lancio doveva essere prossimo.Noi dovevamo predisporre le segnalazioni nel luogo stabili-to sulla carta. In quell’incontro il nostro comandante fu infor-mato del messaggio convenzionale che sarebbe stato tra-smesso da Radio Italia Libera.Dal momento della trasmissione noi dovevamo, ogni notte,accendere, ad una certa ora, segnali in dette zone. Per que-sto fu chiamata una nostra staffetta, Aventino Lippi, perchési mettesse in comunicazione con vari nostri collaboratori. I-noltre la stessa sera ci recammo al Frassine, dove avvenneun incontro con Gemisto Caramassi, Claudio Dini, FaustinoCorti e Angiolino Giangherotti. Il comandante gli ordinò chenon perdessero nessuna trasmissione di Radio Libera, impe-gnandosi a riferire immediatamente alla nostra formazione,qualora ci fosse stato l’annuncio concordato. Alla riunionecon tutti i partigiani, il comandante fece conoscere come in-tendeva utilizzare i soldi che gli erano stati consegnati. Unaparte sarebbe stata distribuita ai partigiani, secondo l’anzia-nità di permanenza al campo, come quota di presenza mili-

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tare. Potevano esser loro indispensabili nella futura vita civi-le. Con una parte dei soldi avrebbe pagato alcuni conti ai no-stri fornitori, scegliendo i più poveri. Fece cambiare la valu-ta ed avvenne la distribuzione. Per noi furono poche liresimboliche; egli teneva a rimarcare che avevamo il diritto adun regolare stipendio, come ogni soldato dell’esercito rego-lare.Furono scelti pastori poveri che avevano contribuito, con iloro ovini e formaggi, a rifornirci di cibo; anche contadini, ipiù poveri; non furono grosse cifre. Decise, d’accordo contutti i capi di sezione, di acquistare una certa quantità di vi-no; era molto tempo che non ne bevevamo. Questa è la ve-rità su quell’episodio, la mia testimonianza può ancora oggiessere verificata con chi allora era veramente presente; qual-siasi resoconto diverso da questo è senz’altro non veritieroed ha fini per me non completamente comprensibili.Dal giorno in cui mi recai alla macchia, ho sempre avuto co-me comandante il maggiore Mario Chirici. Sempre ho sapu-to di appartenere alla IIIª Brigata Garibaldi.Sapevamo di essere, come formazione, collegati a tutti iC.L.N. della zona. Del resto, con il comandante nelle nostreattività di collegamento, ho conosciuto varie persone, com-ponenti dei suddetti comitati. Inoltre ricordo vari commissa-ri politici che ebbero contatti con noi, primo Silvano Scotto,fino a tutto maggio. Negli ultimi giorni di questo mese, perun breve periodo lo fu Alessio Bezzini. Ai primi di giugnovenne alla formazione Ottorino Boccaccini. Di questi com-missari, due erano espressione dei C.L.N.: il primo e l’ultimo.Ricordo una visita al nostro campo di Livio Frangioni, co-mandante partigiano della zona di Livorno.Quando si tornò alla vita civile, dopo il 1945, furono istitui-te le commissioni regionali per il riconoscimento ai combat-tenti della Resistenza. Queste stabilirono tre qualifiche: Par-tigiano Combattente, Patriota, Collaboratore. Questi titoli fu-rono assegnati in base alle attività svolte; fu qualificato il

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contributo di ciascuno alla resistenza in base anche alla per-manenza nelle formazioni, furono ascoltate testimonianze efu presa visione delle varie documentazioni presentate daivari comandanti; fu accertata anche con colloqui diretti perla veridicità di quelle affermazioni. In quel momento venni asapere che nella documentazione presentata dal nostro co-mandante, si dichiarava l’appartenenza alla banda “Rag-gruppamento Monte Amiata”. Molti di noi rimasero sorpresi.Anche io ero stato chiamato a Firenze per rendere testimo-nianza. Io ed altri fummo ricevuti separatamente da unacommissione che mi domandò se ero certo che il coman-dante della formazione fosse il maggiore Mario Chirici, e sericordavo le azioni di combattimento e i luoghi dove si era-no svolte. Risposi affermativamente alla prima domanda; ri-cordai inoltre alcuni episodi svoltisi nella zona dove aveva-mo operato.Dopo alcuni mesi ricevetti due attestati, rilasciati dagli allea-ti, firmati dal generale Alexander, comandante in capo delleforze armate alleate in Italia. Ringraziavano della mia parte-cipazione alla lotta partigiana. Ma lo strano dei due docu-menti era costituito dalla citazione secondo cui io avevo par-tecipato contemporaneamente a due formazioni, la TerzaBrigata Garibaldi e il Raggruppamento Monte Amiata, la pri-ma comandata da Livio Frangioni, la seconda comandata daltenente colonnello Adalberto Croci. Per questo fatto ci furo-no polemiche con il maggiore Chirici. Non ci spiegavamocome, per un incontro negli ultimi giorni di vita della forma-zione, con un ufficiale mai prima conosciuto, con promessedi lanci mai avvenuti e la consegna di un po’ di denaro, po-tessero essere cambiati i connotati della nostra formazione,che nella zona, in quel periodo della guerra partigiana, eraquella che poteva annoverare al proprio attivo una grandequantità di azioni, vinte e perse, ma comunque gloriosi mo-menti di lotta partigiana. Quel fatto creò fratture ed ancoraoggi continuiamo a vederne gli effetti negativi. Ci sono attri-

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buzioni ufficiali che dimostrano la volontà di appropriazio-ne di iniziative altrui, la volontà di risultare membri della Re-sistenza da parte di persone che hanno profittato proprio diquelle divisioni. A leggere alcune di queste note, vengono inmente le imprese di Don Chisciotte. Essi, oltre a peccare discarsa modestia, suonano come svalutazione di quei giorni,non rispettano la vera situazione di coloro che con la loropartecipazione hanno contribuito a quello sforzo che servì alnostro riscatto nazionale.

IL FERIMENTO DI UN NOSTRO TENENTE

Proseguiamo il racconto: portando avanti il piano stabilitodal comando della formazione, fu assegnato alla Sezione Be-nedici, comandata dal tenente Mario Bucci e dal vice AttilioPisani, il compito di attaccare la caserma dei carabinieri diCampiglia Marittima, dove erano dislocati numerosi repub-blichini. Il gruppo di partigiani interessato all’azione si stac-cò dalla formazione almeno una settimana prima dell’attac-co; essi avevano l’autonomia di decidere da soli, scegliendoil momento che ritenevano più favorevole. Si spostarono suMonte Calvi, portando con loro rifornimenti di viveri per u-na settimana. Possibilmente non dovevano avere contatticon nessuno, per non essere notati nella zona. Da MonteCalvi, una sera, scesero a Campiglia, arrivarono alle primecase che era passata l’una. L’obiettivo era di forzare una por-ta della caserma, cercando di sorprendere nel sonno i re-pubblichini. L’ordine era che dopo l’attacco, la ritirata dove-va essere effettuata dalla parte nord del paese e gli uomini agruppi dovevano portarsi di nuovo su Monte Calvi, nella zo-na dei Cancellini.Questo il racconto che ci fu fatto al ritorno dai compagni chepresero parte all’azione. Entrarono nelle prime case del pae-se, cercando di raggiungere la caserma, ma per loro sfortu-

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na si imbatterono in un grosso cane che cominciò ad ab-baiare. Non riuscirono a calmarlo.Quell’episodio metteva in pericolo la riuscita dell’azione,perché cominciò a svegliarsi la gente e dalle finestre ci furo-no le prime proteste. Nessuno si rendeva conto di quello cheavveniva e del perché il cane continuava ad abbaiare. Ad uncerto momento da molto lontano sentirono degli spari di ri-voltella. In seguito si venne a sapere che un noto fascista delpaese al momento dei rumori aveva preso a sparare. Ma ilgruppo partigiano continuò l’iniziativa fino a giungere allacaserma. Si resero conto che il fattore sorpresa non era piùpossibile; già la caserma era illuminata e incominciarono adincrociarsi gli spari da ambo le parti. A questo punto i duecomandanti decisero di ritirarsi. Nell’eseguire questo ordinei partigiani si divisero in gruppi di due o tre, come era statoprestabilito. Nel ritirarsi nessuno si accorse che il loro co-mandante Mario Bucci era stato ferito. Una pallottola di fuci-le lo aveva colpito ad un piede. Non perse il controllo, e nonvolle chiamare aiuto, per non essere più facile bersaglio. Sitrascinò fino ad un podere molto vicino all’abitato. Si quali-ficò subito dicendo che era un partigiano ferito e chiedendosoccorso. I contadini lo ospitarono e gli fornirono le primecure. Nel frattempo il resto della sezione si ricongiungevanella zona dei Cancellini, ma fu notata l’assenza del coman-dante, tra gli uomini cominciò a manifestarsi un’ansia cre-scente. Le loro preoccupazioni erano fondate. Il giorno do-po alcuni informatori seppero che Mario era stato ferito. Igappisti della zona, ed in particolare Mazzino Martelli, O-svaldo Bargi ed altri, riuscirono ad individuare dove si eranascosto il comandante Bucci e subito informarono il co-mando di formazione.Il comandante maggiore Chirici organizzò immediatamenteil trasferimento al campo del comandante ferito e alla testadella sezione, comandata dal tenente Eros Zazzeri, si portònei pressi di Suvereto per vigilare sulla zona. Con un cales-

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sino venne prelevato alle prime ore del giorno. Passando daCafaggio e Suvereto, raggiunsero le prime squadre partigia-ne, sempre anticipati e seguiti da ciclisti che facevano dascorta. Lo incontrammo nelle vicinanze del ponte sul Cornia.Il comandante Chirici si congratulò e lo volle abbracciare.Mario fu trasportato in sosta, per un breve periodo, nel po-dere il Caglio.

UN RASTRELLAMENTO DELLA G.N.R.

Nel quadro delle decisioni prese dal comando per attaccarele caserme dei militi repubblichini, fu deciso di passare allapreparazione di un’azione contro la caserma di San Vincen-zo. Negli ultimi giorni del mese di maggio partimmo dallaformazione, al comando del maggiore Mario Chirici. Erava-mo circa una trentina di partigiani. Iniziammo la marcia alleultime ore della giornata per camminare tutta la notte. Aggi-rammo, passando per la macchia, i centri abitati, Suvereto eCampiglia; salimmo su Monte Calvi. Dalla zona dei Cancelli-ni dovevamo scendere nella notte seguente a San Vincenzo.Facemmo tappa vicino ad un casolare, ma nascosti nellamacchia. Rimasi sorpreso quando il comandante, dopo averordinato ai due capi sezione che comandavano le squadre,di predisporre il riposo costituendo un servizio di guardia,mi invitò a seguirlo.Andammo nel casolare, più precisamente in una grossa ba-racca vicino alla casa. Incontrammo Albano Cremisi, com-merciante di pannina di Piombino, perseguitato dal fascismoper essere un ebreo. I riconoscimenti furono immediati e re-ciproci. Egli viveva lì nascosto con la propria famiglia, mo-glie ed un figlio. Venni a conoscenza che era da tempo uncollaboratore della formazione, già noto al comandante; aiu-tava con ogni mezzo i partigiani. Anche quel giorno ci feceuna grossa sorpresa. Per l’ora di pranzo fece preparare, in

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grossi paioli, una grande quantità di pasta al sugo di pecora.Si può immaginare quale bella sorpresa fu per tutti noi; erapasta molto bianca e in quei tempi era una cosa da ognunodesiderata, specialmente in seguito alle astinenze che erava-mo costretti a fare in formazione. Ricordo che ancora man-giavamo, quando giunse un nostro collaboratore, MazzinoMartelli. Era uno dei gappisti che doveva preparare l’azionesu San Vincenzo. Dice subito al comandante che fin dallamattina alle prime ore, in San Vincenzo si erano radunati mi-liti della G.N.R., provenienti da varie zone, dal Grossetano,da Firenze oltre che dal livornese; egli li aveva visti che giàsi incamminavano a piedi oltre San Carlo; le voci erano chesi preparavano ad un rastrellamento contro i partigiani. Que-sto nostro gappista era un dipendente della fattoria del con-te della Gherardesca. Perciò era in grado di muoversi neipaesi della zona. Questo lo rendeva utile ed insospettabile;il suo aiuto era prezioso.Subito venne dato l’ordine di sganciamento dalla zona. Lanostra ritirata fu ostacolata dal sopraggiungere dei repubbli-chini. Avevamo valicato un piccolo colle, quando comin-ciammo a sentire distintamente colpi di mitra e di armi auto-matiche, che molto rapidamente si avvicinavano. Il coman-dante assieme a Eros Zazzeri, che comandava una dellesquadre presenti, osservava con il cannocchiale la zona cir-costante. Subito decisero di portare gli uomini in un grossospiazzo coltivato a grano, un fazzoletto di terreno circonda-to da ogni parte dalla macchia. Fu data questa disposizione.Il comandante volle parlare con tutti, spiegandoci cosa stavasuccedendo e come si poteva evitare il contatto con forzemolto superiori alle nostre e con armamenti con cui non po-tevamo competere. Raccomandò il silenzio assoluto dicendoche qualsiasi movimento doveva essere evitato. I militi fasci-sti camminavano lungo uno stradone situato in cima allasommità del monte; sparavano raffiche di mitra nel folto del-la vegetazione, in direzione dei due lati del monte. Sentiva-

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mo le loro voci. Forse quel vocio serviva loro per darsi co-raggio; sentivamo che la loro marcia era molto rapida. Certonon si addentravano nella macchia.Questa nostra posizione fu la più opportuna per la nostra si-tuazione; restammo lì per parecchie ore. Quando i colpi sifecero più lontani qualcuno tendeva a derogare alla conse-gna, ma fu richiamato alla disciplina. Era necessario chequalsiasi mossa non fosse notata nemmeno in lontananza,magari con dei binocoli, o da un’eventuale retroguardia fa-scista. Non fu una posizione comoda; non avevamo garan-zia di sicurezza e, se scoperti, non avremmo potuto sfruttareil nostro tradizionale fattore positivo, la sorpresa. Eravamosulla difensiva ed in una posizione svantaggiosa.Ripensando a questo episodio, possiamo valutare quantogrande fosse la fiducia verso il comandante Chirici, da partedi tutti i partigiani. Nessuno cercò di mettere in discussionele sue decisioni ed esse furono eseguite con disciplina. Ri-nunciammo perciò all’attacco alla caserma di San Vincenzo.Quando sulla sera incominciammo a muoverci ci fu dettoche andavamo a Sassetta. Guidati dal Mazzino Martelli, cheera molto pratico della zona, arrivammo al paese verso ledue di notte. Sapevamo che in paese c’era una attrezzaturache era servita in passato a campeggi della G.I.L., perciò po-tevamo prelevare: tende, marmitte, gavette, boccali, ecc. Fulasciato il grosso della squadra nei pressi della colonia e, gui-dato da Mazzino, il comandante si portò alla casa del custo-de che era in possesso delle chiavi. Lo prelevammo obbli-gandolo ad aprire e a consegnarci il materiale. Così conclu-demmo questa nostra travagliata azione, che non raggiunsegli obiettivi prefissati, ma servì per contribuire a temprare laforza di ognuno di noi. Inoltre portammo materiale utile chepermise di avere una maggiore quantità di utensili per il vet-tovagliamento e servì a molti per darsi un riparo.

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UN’AZIONE CONTRO SEVIZIATORI FASCISTI

La nostra formazione, da quando nacquero i primi nucleipartigiani, fu sempre aiutata, oltre che dai vari C.L.N. dellazona, anche da molti contadini e da molte fattorie. Eranoquasi tutti nostri amici; essi ci rifornivano dell’indispensabi-le: prosciutti, formaggi, pane ecc. Dalle fattorie si prelevava-no anche bestie vaccine vive. C’erano accordi precisi; ogniprelevamento veniva accompagnato da una ricevuta contro-firmata dal comandante Chirici. Queste ricevute, non solopermisero il rimborso da parte del governo al momento del-la liberazione, ma furono anche attestati di riconoscimentodei numerosi collaboratori della resistenza. Inoltre avevamol’aiuto di tutti i carbonai e boscaioli della zona, presenti al la-voro nelle macchie. Verso i mesi di aprile-maggio 1944 cipervennero alcune denuncie da parte dei nostri collaborato-ri. Il nucleo repubblichino di Suvereto aveva iniziato a mo-lestare le famiglie della zona.Questo corpo della G.N.R. chiamava presso la caserma i car-bonai dai quali voleva sapere se avevano visto persone ar-mate aggirarsi per i boschi. Essi capivano molto bene a chi sivolevano riferire, ma non erano disposti a collaborare equando i fascisti si resero conto di questo, iniziavano non so-lo le pressioni e le minacce, ma arrivarono a seviziare. Unodi essi, mentre raccontava una di queste storie al coman-dante, si alzò la camicia e gli mostrò le ferite di pugnale cheaveva ricevuto dai fascisti. Così denuncie allarmate arrivaro-no dai contadini e dai fattori delle aziende agricole. Ad ognicontatto con loro il comandante doveva ascoltare il raccon-to di gravi episodi. I fascisti, due o tre volte alla settimana, si spostavano ed as-sieme ad un piccolo numero di carabinieri andavano nei po-deri della zona per sopralluoghi. In tutto erano circa unaquindicina di persone. Alcuni partigiani che operavano nel-le squadre della S.A.P. erano in contatto con la nostra for-

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mazione e ci informarono che da fonte sicura avevano ap-preso che nella seguente settimana vi sarebbe stata la perlu-strazione dei fascisti lungo il Cornia, nella zona di Campe-troso, indicando anche i poderi che questi avrebbero visita-to. Nelle loro peregrinazioni per i vari poderi obbligavano icontadini a movimentare ogni cereale ammucchiato nellestanze per accertarsi se vi nascondessero le armi. Inoltre fa-cevano pressanti interrogatori per sapere dove erano i lorofigli e se nella zona avevano visto movimenti sospetti. Face-vano questo in malo modo. Non mancavano le minacce. Al-la fine di ogni giornata di questa loro attività obbligavanol’ultimo colono visitato a preparare il pranzo per tutta la co-mitiva.Nel giorno indicato il comandante Chirici si portò nella not-te, alla testa di una trentina di partigiani, sul posto indicatodai fascisti per il rastrellamento. Ci appostammo lungo unastrada di campagna, costeggiata da un fosso a fianco di unastriscia di macchia, questa era la strada che conduceva al-l’ultimo podere che in quel giorno dovevano visitare i fasci-sti. Eravamo partiti a mezzanotte; ognuno di noi aveva la ra-zione di cibo per il giorno intero. Arrivammo sul posto cheera ancora notte. Dopo essere stati appostati lungo un trattodel fosso, dovemmo stare sdraiati ed in silenzio per circa ot-to, nove ore. Nella prima mattinata il comandante con il bi-nocolo aveva visto l’arrivo a piedi dei militi: li seguì mentreerano nel primo podere. Dopo lungo tempo si decisero evennero avanti; si fermarono, come prestabilito, al secondopodere. Concluso lì il loro truce lavoro dovevano venire ver-so di noi, ma la loro permanenza si fece sempre più lunga.Sentivamo distintamente voci eccitate di donne. In noi sali-va la volontà dello scontro. Quell’impaziente desiderio nonfu esaudito. Per un po’ ci fu silenzio; venimmo a sapere al-cuni giorni dopo che lì i fascisti consumarono il pranzo. Ilcomandante con il binocolo vide che all’uscita essi si dires-sero sulla strada opposta rispetto alla nostra direzione, ritor-

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narono verso la loro caserma a Suvereto. Passarono alcunesettimane. Il comando di formazione decise due azioni mol-to importanti; quella di occupare per alcuni giorni il paese diMonterotondo e un’azione su Suvereto. Una squadra di par-tigiani, aiutati da un repubblichino che già da tempo si eramesso a disposizione delle S.A.P., con un’azione rapida esenza reazione da parte dei fascisti, durante la notte catturònella caserma tutti i componenti il nucleo della G.N.R. di Su-vereto.Il giorno dell’appostamento a Campetroso, aspettammo lasera nel bosco. Dopo, aggirando tutta la zona, andammo indirezione del Balzone e, tagliando i campi lungo un fosso, ciaccingevamo ad attraversare la strada che conduce a Monte-rotondo, quando in lontananza scorgemmo un mezzo confanali accesi che si dirigeva verso di noi. Il comandante di-spose immediatamente gli uomini lungo il ciglio della strada.Tre di noi furono messi una decina di metri più avanti, il ca-po Sezione caricò il mitra con proiettili traccianti.All’arrivo dell’automezzo (era un furgoncino), il capo sezio-ne sparò in aria per intimare la fermata. Chi era alla guida,credendo di poter scappare, accelerò. Forse era anche spau-rito. Ricevette subito la risposta da tutti noi che scaricammole nostre armi rendendo inservibile il mezzo. Subito sentim-mo voci che chiedevano aiuto e gridavano “Basta! Basta!”.Scesero incolumi tre persone, l’autista e padre e figlio. Tran-sitavano per recarsi a Sassetta dove erano sfollati. Riconobbisubito il padre del ragazzo. Era un noto commerciante diPiombino. Mi spiegai perché, non si volesse fermare; aPiombino era uno che frequentava noti squadristi e fascisti.Quando il comandante rivolgendosi a me, che ero in quelgruppo l’unico piombinese, mi domandò se lo conoscevo,non lo volli riconoscere e per questo in un secondo tempofui anche rimproverato. Credo, riflettendo a distanza di tem-po, che forse fu meglio così. Dopo gli accertamenti del casoe rimproverando il padre del ragazzo perché non si era fer-

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mato, il comandante lo invitò ad essere in seguito più pru-dente e a non transitare più di notte in zone dove operava-no i partigiani.

SOTTRATTO AI TEDESCHI UN GROSSO QUANTITATIVO DI GRANO

La nostra formazione ormai era così numerosa che l’approv-vigionamento era divenuto un problema fra i più importan-ti. Perciò il comando discusse il da farsi e prese una decisio-ne per assicurare rifornimenti. Per la carne venne deciso diprelevare vitelli vivi e incaricare di ciò alcuni addetti al ser-vizio rifornimenti. Per il grano, fu deciso di prelevarlo daidepositi che rifornivano le forze repubblichine e tedesche.Uno di questi ammassi si trovava nella zona del Lago Rossi,presso Monterotondo.Il comando incaricò il tenente Attilio Pisani con la sua Se-zione, di provvedere a questo incarico. Doveva procurarsi imezzi per il trasporto del carico, doveva fare una indaginesul posto, avere informazioni affinché l’azione avesse suc-cesso e prevenire le eventuali conseguenze.A metà salita della strada che conduce a Monte Bamboli, c’e-ra una carbonaia, dove lavorava il padre di un nostro com-pagno, comandante di una nostra sezione. Spesso venivanodei camion per caricare il carbone. Pisani andò con il com-pagno Masco da suo padre, Bramante Barsanti. Si informa-rono sul giorno in cui doveva venire il prossimo camion.Proprio dopo pochi giorni ne doveva arrivare dall’Emilia u-no per caricare. Appartenente alla sezione del Pisani c’era unpartigiano di nazionalità polacca che sapeva guidare un ca-mion con rimorchio. Il tenente lo informò di tenersi prontoe indicò il tragitto che dovevano fare. Inoltre inviò subito ungruppo di uomini nella zona del Lago Rossi. Essi dovevanointervenire quando fosse arrivato il camion. Nel frattempodovevano perlustrare la zona per vedere i movimenti che

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c’erano intorno all’ammasso. Arrivato il camion dall’Emilia, ilPisani con il polacco ed un altro partigiano andarono a se-questrare il camion. L’autista era contrario e supplicava chenon gli portassero via il mezzo che era la sua fonte di lavo-ro. Si propose di guidare personalmente il camion; sarebbevenuto dove era necessario ai partigiani. Questo non erapossibile per ragioni di sicurezza e perché esso non dovevasapere cosa stesse per avvenire. Gli furono date tutte le assi-curazioni che dopo due giorni avrebbe riavuto il suo ca-mion. Forse furono le assicurazioni, oppure, riflettendo chenon poteva impedire l’esecuzione del sequestro, tenuto con-to che gli veniva intimato da uomini in armi, l’emiliano di-ventò ragionevole e conciliante, acconsentendo che gli ve-nisse prelevato il mezzo.I tre partigiani partirono alla volta del Lago Rossi. I tedeschiavevano sequestrato tutto il grano degli ammassi, che erastato depositato per il fabbisogno della popolazione. Essi loprelevarono con le loro truppe. A guardia del deposito c’eraun tedesco; vestiva da civile, dichiarò subito che non appar-teneva all’esercito germanico; disse che per lui era solo unlavoro e per questo non si oppose quando i partigiani si pre-sentarono a prelevare il grano. Il camion con rimorchio inbreve tempo fu caricato di una cinquantina di quintali di gra-no. I sacchi riempirono tutti e due i pianali.Nel raccontare l’episodio, il Pisani ci diceva che in quella oc-casione alcuni cittadini approfittarono per riempire ancheloro piccoli sacchetti di quell’indispensabile e ricercato ali-mento. Tutta l’operazione si svolse secondo i piani prestabi-liti, senza nessuna complicazione, anche se nel viaggio diandata, il camion si incrociò, sulla strada di Montioni, con u-na camionetta di tedeschi, che stavano transitando, e perciòfurono superati senza incidenti.Al momento dell’arrivo, decine di partigiani della formazio-ne furono impegnati al trasporto ed in breve tempo il granofu messo al sicuro. Il padrone del camion, quando gli fu re-

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stituito, si propose di offrirlo di nuovo nel successivo viag-gio, qualora ne avessimo avuto bisogno, informando che sa-rebbe stato lì dopo una quindicina di giorni. Venimmo a sa-pere che questo episodio suscitò entusiasmo tra la popola-zione della Val di Cornia.

UN IMPEGNO MANTENUTO

Nel quadro delle decisioni prese dal comando per attuare at-tacchi a caserme, nelle quali erano presenti militi della guar-dia repubblichina, uno degli ultimi giorni del mese di mag-gio venne deciso di attaccare la caserma di Riotorto, paesinoamministrato dal Comune di Piombino. Fu definita la tatticache doveva essere attuata per l’attacco: si voleva realizzarel’operazione possibilmente catturando i fascisti senza usarele armi.Nella lotta partigiana, in molte occasioni si doveva agire conrapidità e scaltrezza. Molto dipendeva da vari fattori, daquello del territorio in cui eravamo costretti ad agire, dallearmi che avevamo. In questo caso ricorremmo ad uno stra-tagemma. In formazione avevamo il tenente partigiano ErosZazzeri, che aveva un fratello repubblichino di stanza a Rio-torto. La sua famiglia abitava a Venturina. Egli aveva unastretta amicizia con un suo collega, milite repubblichino, cheal contrario di lui abitava a Riotorto e prestava servizio nelsuo paese. Quasi ogni sera questo veniva a dormire a casa ecerte volte portava ambasciate all’amico, da parte della mo-glie. Si trattava di far credere che, venendo da Venturina, do-vesse fare una di queste ambasciate.Egli era solito rincasare dopo la mezzanotte. A quel punto funecessario trovare tra di noi qualcuno che avesse le caratte-ristiche somatiche del milite di Venturina, sentire se era di-sponibile ad esercitare quel ruolo, trovare gli abiti adatti perfarlo credere uno di loro, inoltre armarlo di mitra. Nella se-

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lezione il partigiano Pietro Bianconi era il più somigliante al-la figura da interpretare. Egli fu entusiasta ed accettò imme-diatamente. Ma sorse un problema: Pietro era miope e perquesto portava gli occhiali. Il comandante, per questo moti-vo, obiettò sulla scelta. Pietro insistette garantendo che po-teva vedere anche senza occhiali. La sua caparbietà lo feceprescegliere.La Sezione comandata dal Tenente Attilio Pisani condussel’azione. Essa era composta da una ventina di partigiani. Lacaserma aveva un muro esterno e per entrare si doveva pas-sare attraverso un cancello sostenuto da due colonne. Di lì ilBianconi passò e si portò presso la porta. Suonò; era quasil’una di notte; gli altri partigiani erano dietro il muretto dicinta, nascosti e pronti ad intervenire. Un milite si affacciò aduna finestra domandando chi era a quell’ora insolita. Il par-tigiano dette il nome del repubblichino e chiese del suo “a-mico”, perché doveva dargli della roba da parte della mo-glie. Era molto buio, mancava la luna. Questo non lo rico-nobbe. Insistendo Pietro gli disse: “Ho da andare a dormireanch’io, non la fare lunga, chiamalo e vieni ad aprire”. Pas-sarono pochi minuti, ed invece della porta aprirono il fuocodalla finestra.Ci fu subito la risposta dei partigiani. Nel ritirarsi Bianconi,con la fretta e non vedendoci bene, andò a sbattere controuna delle colonne e rimase stordito a terra. Pisani ordinò aipartigiani di aprire un fuoco di sbarramento, portandosipresso Bianconi e trascinandolo fuori dalla traiettoria deglispari. I partigiani ritornarono indenni alla formazione, mamancava una cosa che per noi era molto importante. Al mo-mento della caduta, a Pietro era scivolato di mano il mitra enessuno in quel momento pensò di recuperarlo. Per questoil comandante ci riunì tutti in uno stradone e, prendendo apretesto questo episodio, si soffermò a spiegare il significa-to che aveva per noi alla macchia la perdita di un’arma. Tral’altro disse: “Per un partigiano l’arma è importante quanto la

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vita”. Per questo fece un rimprovero solenne al partigianoBianconi. Davanti a tutti Bianconi prese l’impegno di recu-perare al più presto una nuova arma.Questo impegno fu mantenuto dopo pochi giorni. Furonouccisi tre tedeschi e sequestrati tre “parabellum”. La solita se-zione fu mandata a fare un’operazione alla casa del fascio diValpiana. I fascisti della zona avevano requisito ai cacciatoritutti i loro fucili ed abusando del loro potere facevano manbassa anche nelle cantine dei contadini, asportando ogni co-sa, olio, formaggi e prosciutti. Pisani con i suoi uomini pre-dispose delle pattuglie all’entrata delle due strade di Valpia-na, una proveniente da Massa Marittima, l’altra da Follonica.Fu lì che Bianconi aveva il compito con altri suoi compagnipartigiani di evitare qualsiasi uscita ed entrata nel paese,mentre il resto della sezione doveva operare nella casa delfascio.Passarono alcune decine di minuti e da Follonica stava pro-venendo una pattuglia di tre tedeschi in bicicletta. Bianconi,che comandava il gruppo di guardia, non fece avvertire il co-mando della sezione ed aspettò che i tre militari tedeschi fos-sero a portata del suo mitra. Aprì il fuoco con i suoi compa-gni. Due tedeschi furono colpiti in pieno e caddero uccisi.L’altro riuscì ad allontanarsi tra i campi. Pisani, avvertendogli spari provenienti dal versante di Follonica, impartì l’ordi-ne di ritirarsi verso il bosco. Aveva già requisito le armi ed ilcibo che si trovavano nella caserma del fascio. Nella ritiratafu sorpreso dal terzo tedesco, che alle spalle gli intimò un or-dine; ci fu una colluttazione; Pisani riuscì con uno scatto im-provviso ad afferrare la canna dell’arma del tedesco. Mentresi dibattevano, arrivò un partigiano e mise fine alla collutta-zione, abbattendo il tedesco con un colpo di pistola. Perquesto impegno mantenuto, ricordo, alla formazione ci fuentusiasmo ed orgoglio.

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DUE EPISODI DI VILTÀ FASCISTA

Come già detto, per il nostro vettovagliamento avevamo ac-cordi con quasi tutte le fattorie della zona. Esse ci riforniva-no di ogni cibo, dal grano, all’olio, ai formaggi, alla carne.Però non tutti erano disponibili. Alcuni, malgrado la nostrainsistenza, rifiutavano di fornirci qualsiasi aiuto. Alcuni fat-tori minacciavano persino di denunciarci, solo se avessimoattraversato i campi delle aziende da loro amministrate. Mal-grado questo loro atteggiamento, il comandante Chirici con-tinuò ad insistere e a chiedere assistenza.Anche in questi luoghi, i suoi ordini erano di non usare maila violenza verso nessuno; perciò anche in caso di rispostanegativa si doveva solo tornare al campo e riferire. Unasquadra, di ritorno da una di queste missioni (si trattava di u-na proprietà di un grosso possidente di Monterotondo, convari poderi nella zona), informò il comando che alle richie-ste il proprietario di questi poderi aveva risposto con minac-ce precise, dicendo: “Ora avverto la guardia repubblichina ela prossima volta troverete loro a rispondervi”. Questo avvenne negli ultimi giorni del mese di marzo o neiprimi di aprile 1944. I giorni passavano e sempre più i fasci-sti comprendevano che il tempo della loro arroganza stavaper finire. Fu in questo nuovo clima che l’individuo suddet-to fu fatto avvicinare da un suo collega fattore della zona,Faustino Corti, fattore della zona dei Massoni, tenuta delFrassine, di proprietà delle Banche Lombarde.Egli lo invitò a riconoscere la realtà degli avvenimenti belli-ci e con prudenza gli accennò alle conseguenze dei suoi ri-fiuti e delle sue minacce verso i partigiani. Quel proprietariofascista aveva sempre tenuto a raccontare del suo comporta-mento, vantandosi di aver sempre resistito alle nostre richie-ste. Corti, ricordandogli queste sue posizioni assunte in pas-sato, gli consigliò di rimediare cercando contatti con la for-mazione. Fu in seguito a questi colloqui, che il proprietario

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supplicò il collega Corti di aiutarlo, se gli era possibile, ad in-contrarci. Questo loro dialogo era seguito dal comandanteChirici, costantemente in contatto con il collaboratore Corti.Al Frassine, dove avvenivano questi contatti, fu deciso di or-ganizzare un incontro con questo personaggio. Fu stabilito ilgiorno ed il luogo; Corti accompagnò il suo collega in unapiazzola di carbonai, nella macchia, tra la località Frassine eMonterotondo. Quella mattina io ed il comandante eravamoad aspettarli al luogo convenuto; li vedemmo arrivare lungouno stradello; camminavano in salita; il fascista era davanti alCorti; aveva con sé due grossi cesti pieni di ogni cosa, for-maggi, salami ed un prosciutto. Arrivati nella piazzola, il co-mandante Chirici, con fare autoritario, lo apostrofò dicendo-gli: “Tu sei il fascista che ha sempre disprezzato i partigiani,minacciandoci di farci aggredire dai repubblichini; sei quel-lo che, in tutti questi mesi, ti sei rifiutato di consegnare vive-ri a chi lottava per la libertà del nostro paese dall’invasore te-desco...”. La risposta fu subito improntata a sottomissione, e-gli indicò i due cesti e promise di cambiare atteggiamentonei confronti della formazione. Chiamò a garanzia il suo col-lega presente.Ad un certo punto, si sentì uno sparo di rivoltella, poi il ru-more di passi sempre più vicini fatti di corsa; arrivò nellapiazzola il tenente Eros Zazzeri. Portandosi sull’attenti da-vanti al comandante, pronunciò queste parole: “Comandan-te, la spia fascista è stata giustiziata”. Il comandante, appro-vando, lo invitò a ritornare al campo. I miei sguardi erano ri-volti al proprietario terriero fascista. Mi sembrava incredibi-le, ma era vero, i pantaloni di questo individuo si inumidi-vano sempre di più. La sua faccia divenne bianca. Alcuneparole, pronunciate a stento, esprimevano un suo impegnoa concedere qualsiasi cosa gli venisse richiesto, si impegna-va a dare anche per quello che non veniva dato nel passato.Il comandante pronunciò parole severe al suo indirizzo, trale quali: “Gli uomini come te disonorano l’Italia”. Questo

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colloquio si concluse con l’impegno del comandante di far-gli conoscere in seguito cosa doveva dare, per rimediare alsuo comportamento. Gli fu detto che quel contributo dove-va essere molto alto. Il proprietario terriero fascista, ringra-ziando confermò che avrebbe dato qualsiasi cosa gli venisserichiesta.Fu durante l’azione della nostra occupazione di Montero-tondo, che venne distribuita a tutta la popolazione una ra-zione di olio e di carne, in parte fornita da questo viscido in-dividuo. Sempre in quei giorni, ci fu un interrogatorio di unindividuo, conosciuto nella zona come noto fascista. A sen-tire le sue parole non aveva mai professato idee fasciste, loera stato come lo erano stati molti. Mentre cercava di giusti-ficarsi davanti ai comandanti che lo interrogavano, apparvealle sue spalle un vecchio fornaio di Piombino, che batten-dogli sulle spalle, gli ricordò come lui, insieme ad una ven-tina di sgherri fascisti, lo avevano massacrato di botte ungiorno del 1942. Questo, rivolgendosi e riconoscendo il for-naio, si mise ad implorare il suo perdono per quello che eraavvenuto “in un momento di incoscienza”. Fu chiaro che ilragionamento portato avanti poco prima si dimostrò non ve-ritiero. Era la dimostrazione, ancora una volta, di quale erastata la viltà di queste canaglie.

UNA LUNGA NOTTE DI BUGIE PIETOSE

AD UN COMANDANTE PARTIGIANO

La mattina del 10 giugno 1944 eravamo a parlamentare nel-la sagrestia della chiesa di Monterotondo Marittimo con ilparroco don Oreste Poccioni. Ad un certo momento sentim-mo il sibilo di alcune salve di mortaio. Erano i tedeschi che,saputo della nostra presenza in Monterotondo, si presenta-rono in forze attaccandoci su due versanti e cioè dalla Bucadi Paladino e dalla strada statale massetana. La presenza dei

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partigiani in Monterotondo aveva lo scopo di distribuire allapopolazione e agli sfollati, assai numerosi soprattutto quelliprovenienti da Piombino, olio e grano presente negli am-massi fascisti, che in varie occasioni servivano per i riforni-menti delle forze armate tedesche. Inoltre era prevista unadistribuzione di carne prelevata ad un noto possidente fasci-sta, che in passato aveva rifiutato aiuto ai partigiani.I tedeschi, sventagliando raffiche di “parabellum” e colpen-do con i mortai, avanzavano decisi all’occupazione del pae-se, contrastati da una parte dei partigiani presenti nella val-le. La nostra presenza era formata da un centinaio di parti-giani, con armamento composto di alcuni mitra, due fucilimitragliatori ma soprattutto fucili ’91. Il comandante Chirici,resosi conto che le forze partigiane non potevano sostenereuna battaglia campale, ordinò la ritirata, dietro assenso delcapitano Gallistru e dei comandanti le squadre partigiane.Era già passata un’ora dal primo impatto partigiani-tedeschie si continuava a combattere con accanimento da ambo leparti. Fu così che il maggiore ordinò al capitano Gallistru direcarsi sul luogo dei combattimenti per organizzare la ritira-ta. La battaglia durò varie ore; decine di tedeschi furono col-piti; ma purtroppo, quando la sera fu possibile rastrellare iluoghi dove si erano svolti i combattimenti, trovammo i no-stri caduti, Mario Cheli, Gino Borsari, Ercole Ferrari e tro-vammo due feriti: Franco Rossetti e il nostro comandanteGallistru. Il Rossetti era ferito ad una gamba, ma Alfredo Gal-listru rivelò subito la gravità della sua ferita, una pallottola gliaveva perforato la vescica.Predisponemmo immediatamente il loro trasporto, usandodue scale a pioli come barelle. In un secondo tempo venim-mo informati della morte del partigiano Ateo Casalini avve-nuta nel versante opposto. Durante il percorso, in cerca diun rifugio sicuro, ci raggiunse il nostro medico. Era un uffi-ciale sovietico medico veterinario che però si rivelò in varieoccasioni abilissimo a curare i feriti. Dalla sua visita poté ri-

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levare che il capitano aveva la vescica perforata. Dopo oredi cammino ci fermammo in un podere; il Chirici mi co-mandò di non abbandonare il ferito e di stargli sempre vici-no. Io pietosamente fui costretto a rispondere alle domandedel capitano ferito con un sacco di bugie. Il medico mi ave-va detto che non poteva sopravvivere con quella ferita. Io,sorreggendogli in continuità la testa, lo rassicuravo che ci sa-rebbe stato al più presto un intervento chirurgico, eseguitoda un medico che doveva arrivare.Nel passare delle ore, la sua pancia si gonfiava sempre più,erano le quattro del mattino dell’11 Giugno, quando il capi-tano Alfredo Gallistru pronunciò le sue ultime parole: “Luiginon ce la faccio più”.

I CADUTI DI MONTEROTONDO

Purtroppo il partigiano Ateo Casalini quel giorno si portòfuori di Monterotondo; decise, con l’accordo del comandan-te Chirici, di andare a recuperare delle armi che erano statenascoste. Andò lontano dal paese; non era presente alla bat-taglia. Quando quella sera fece il suo ritorno, ignaro di quel-lo che era avvenuto, con il mulo carico di armi, entrandodalla periferia a Sud dell’abitato, fu sorpreso da una pattugliatedesca. Mise mano alla pistola, ma non fece in tempo ad u-sarla. Fu colpito a morte da quella di un S.S. Nella serata fuamorevolmente raccolto dalla gente e portato a casa sul suoletto. Saputo ciò i tedeschi fecero irruzione nella casa e mal-trattarono di nuovo la salma ed i familiari. Lasciò la moglie ela figlia. Ateo Casalini aveva un secondo nome, Mariano. Fucostretto a cambiarlo perché sotto il fascismo l’anagrafe de-pennò quello vero.Lui era già da molto tempo conosciuto da tutti noi; assiemecon il partigiano Dino Volpini, sfollati in Monterotondo daPiombino, erano due staffette che venivano in formazione,

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tenevano il collegamento con il C.N.L.. Erano molto assiduie ci portavano ogni cosa, sigarette, vestiario e molta altra ro-ba che generosamente veniva offerta dalla popolazione. U-no di quei giorni, il primo maggio, lo passò assieme a noi.Per la prima volta venni a conoscenza del significato di quel-la data. Passammo molte ore assieme cantando sottovocecanzoni ed inni patriottici.A Monterotondo caddero anche Gino Borsari, nato in Emiliaa San Felice sul Panaro e Ercole Ferrari, nato a Sassuolo, tut-ti e due della provincia di Modena. Erano arrivati in forma-zione da solo un mese. Si trovarono sbandati dall’esercito inToscana, avevano scelto di combattere alla macchia controgli invasori. Furono colpiti in pieno da un mortaio; furonouccisi e sfigurati al volto tutti e due.Cadde Mario Cheli, che era uno dei tanti giovani che al mo-mento dell’entrata dei partigiani in Monterotondo, si uniro-no a noi venendo a far parte della formazione. Cheli e gli al-tri furono assegnati ad una nostra sezione. Egli era nativo diquel paese, aveva fatto il militare e disse di conoscere la mi-traglia. Per questo gli fu consegnata una mitragliatrice 38Breda. Assieme a lui, come porta munizioni, si unì il parti-giano Franco Rossetti, uno che abitava a Piombino, ma erasfollato con la famiglia a Monterotondo. I due, con la loro se-zione, furono tra i primi a portarsi fuori paese; ai primi colpidi mortaio sparati dal nemico, loro si diressero verso le bat-terie tedesche; volevano accerchiare quella posizione. Pur-troppo non ci riuscirono. Cominciarono a discendere dal monte numerosi tedeschi, amitragliare con i loro “parabellum”. Per questo il comandodette ordine a tutti i partigiani di ritirarsi. Il Rossetti raccontò,in un secondo tempo, che Mario non voleva ubbidire all’or-dine, perché, così diceva, con il loro mitragliatore potevano,se ben appostati, fermare la discesa dei tedeschi. Il Rossettinon era di quel parere e dopo averlo sollecitato insistente-mente, si ritirò lasciando la cassetta di munizioni vicino alla

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sua arma. Il Rossetti fu ferito ad una gamba durante la sua ri-tirata, riuscendo a nascondersi, e fu ritrovato a sera tardi; ilCheli fu ritrovato ucciso da una sventagliata di proiettili.L’azione difensiva svolta dai partigiani fu efficace, non soloperché essi riuscirono a ritirarsi, ma anche perché impegna-rono le forze tedesche per varie ore. La sparatoria oppostadai partigiani riuscì a colpire molti di loro. Decine di cada-veri e vari feriti furono caricati sui mezzi tedeschi e traspor-tati attraverso i campi e strade lontane dall’abitato, però no-tati dai contadini della zona. Anche noi prendemmo parte al-la battaglia. Era la prima volta che io vedevo sparare il mag-giore Chirici. Ci portammo fuori del paese, subito dopo i pri-mi spari. Andammo in direzione Ovest, vicino a delle grossetubature che collegavano i soffioni della zona. Ci piazzam-mo dietro alcune cunette, sparando nella direzione da cuiprovenivano i colpi. I tedeschi sparavano con armi automa-tiche; molti di noi avevano fucili modello ’91. Quando si spa-rava molte volte andavano in sicura da soli. Ricordo quelmomento per un episodio particolare.All’improvviso fummo notati dagli addetti alle batterie delnemico e nella nostra zona cominciarono ad arrivare colpi dimortaio, sparati dalla cima del monte opposto. Alcuni colpiarrivarono proprio in mezzo a noi. Io ero più avanzato, adalcune decine di metri dal comandante, quando questi ur-lando mi invitò a levarmi la camicia rossa, che ancora avevoin dosso. Questa ci faceva individuare dal nemico; fu pro-prio una mia ingenuità.Tra gli uccisi ci fu anche Alfredo Gallistru. Morì in un secon-do tempo. Era nostro capitano, di origine sarda; al momen-to dello sfascio dell’esercito, avvenuto a causa delle gerar-chie militari, compromesse con il fascismo, e in special mo-do della monarchia, si era rifugiato in casa di amici nella no-stra zona. Fu uno tra i primi che, sapendo della costituzionedi bande armate della resistenza, accorse alla macchia, a da-re il suo contributo. Era un sottotenente dell’esercito, alla

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formazione già da lungo tempo. Era presente quando ci fu ilrastrellamento del Frassine.Credeva, malgrado tutto quello che era avvenuto, nella mo-narchia come istituzione. Era amato da tutti per il suo mododi rapportarsi con noi. Fu promosso capitano. In seguito lanostra Repubblica gli conferì la medaglia d’argento al ValorMilitare.Nel primo momento della battaglia il partigiano Alfredo Gal-listru era a fianco del comandante Chirici. Dirigeva una se-zione assieme al suo vice C. S. Alfredo Matozzi. Fu con loroche si portò sotto il monte per far rispettare l’ordine di ritira-ta; c’era un forte nucleo partigiano che non voleva sganciar-si e continuava la battaglia frontale. Una pallottola lo trafissee, trasportato via dai suoi uomini, fu, come già detto, assisti-to da tutti noi.

PARTIGIANI STRANIERI NELLA RESISTENZA ITALIANA

I bombardamenti contro tutte le postazioni e installazioni ve-nivano quotidianamente effettuati dagli americani di giorno,dagli inglesi di notte. Soprattutto venivano colpiti i centri dicomunicazione. La linea ferroviaria veniva costantementebombardata. Erano martellati dalle bombe i ponti, i più im-portanti nodi stradali, le navi che collegavano l’Elba al con-tinente. I treni venivano spesso mitragliati. Ogni mattina ar-rivavano i “lattaioli”, così erano stati chiamati dalla gente idue apparecchi americani che puntualmente facevano la lo-ro comparsa. I tedeschi, impotenti a fronteggiare il nemicosul terreno della guerra, provvedevano a predisporre tem-pestivamente, nelle retrovie, il ripristino delle comunicazio-ni. Dopo ogni bombardamento venivano ricostruiti i nodiimportanti di comunicazione, come l’Aurelia e la ferrovia, aiquali più di ogni altra cosa tenevano. Per questo al seguito dell’esercito invasore avevano portato

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un’enorme quantità di prigionieri di guerra. Erano collocatiin campi recintati con filo spinato ed erano guardati da sen-tinelle, sempre pronte a sparare ad ogni tentativo di fuga.Uno di questi campi di prigionia era stato impiantato nellazona di San Vincenzo. In esso erano presenti in maggioran-za soldati sovietici; molti erano gli asiatici. Inoltre c’erano an-che soldati polacchi.Nella nostra formazione, da quando venne costituita nell’ot-tobre del 1943, erano presenti alcuni di questi soldati stra-nieri divenuti partigiani. Erano riusciti a fuggire, chi dai cam-pi di prigionia, chi durante gli attacchi dei velivoli alleati,mentre erano addetti alle operazioni di ripristino delle stra-de e delle ferrovie. Quasi ogni giorno alla formazione si ag-giungeva qualcuno. Molto spesso tra loro c’erano di questisoldati sfuggiti ai tedeschi. Venivano con la volontà di conti-nuare a battersi, nella guerra che doveva continuare, fino al-la liberazione anche della loro patria.Con molti di loro si instaurarono stretti rapporti di amicizia,specialmente tra coloro che operavano a contatto, sia per laloro anzianità di presenza al campo, sia per le esperienze co-muni, quando assieme ci trovavamo in azione e si sparavacontro lo stesso nemico. Anche a distanza di tempo, molti diloro restano indimenticabili.I quattro presenti nella sezione comandata dal tenente Viaz-zo Zazzeri, erano venuti in ottobre, fuggiti da un campo diprigionia dalla zona di Viterbo. Erano gli ucraini Ivan, Nico-lai, Alexander e l’asiatico Andrei, che era un ex tenente car-rista. Ogni volta che ci incontravamo, quando con il coman-dante andavamo al loro accampamento distaccato, eranosempre sorridenti e pieni di entusiasmo; riuscivano a farsicapire in un italiano approssimativo. Quando, subito dopola liberazione, gli americani chiesero al nostro comando chevenissero loro consegnati i partigiani stranieri, tutti e quattroinsistettero, con il comandante Chirici, perché egli rilascias-se loro una documentazione sulla loro attività svolta alla

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macchia, indirizzata alla loro ambasciata a Roma, che essivolevano raggiungere. Per questo soggiornarono a MassaMarittima per varie decine di giorni, ospitati dai compagnipartigiani domiciliati in questo paese. In seguito partirono apiedi per Roma. Erano molto intelligenti.Già prevedevano la presenza dei loro diplomatici nel nostropaese, ma dimostravano anche, in quel momento difficile, dinon fidarsi degli americani che, dicevano, “possono farciqualificare come dei prigionieri al servizio dei tedeschi”. Chisa se riuscirono nel loro intento di veder riconosciuto ciòche avevano fatto insieme ai partigiani.Dopo poco tempo da quando ero alla macchia, arrivaronoalla formazione quattro di questi prigionieri, due sovietici,due polacchi. Dei due polacchi non ricordo i nomi, ma ri-cordo che erano due fratelli. Avevano ciascuno un librettino,come un piccolo vangelo. In ogni momento libero, si mette-vano a leggerlo. Avevano un carattere taciturno; risentivanodi quella loro non facile posizione. In seguito divennero icoordinatori del gruppo dei loro compatrioti, abbastanza nu-meroso.Dei due sovietici, uno si chiamava Imino, l’altro Silvano. ConImino fui assegnato a fare coppia, nella prima parte dellamia esperienza partigiana. A Silvano fu affiancato il partigia-no Liliano Biondi di Venturina.Eravamo nella stessa sezione. Un giorno la sezione fu inca-ricata di compiere un’azione di sabotaggio sulla linea tele-grafica e su alcuni tralicci delle linee elettriche che collega-vano Monterotondo a Castelnuovo Val di Cecina. In quellaoccasione, nel transitare ai lati di un podere , scorgemmo u-na contadina che lavorava nei campi. I due cominciarono aparlottare tra loro e ridevano continuamente; ci fermammoper la loro insistenza; dovevano gustarsi quell’eccezionaleincontro. Sempre con loro due presenti, la nostra sezione fudestinata ad attaccare dei mezzi tedeschi; sapevano che ognimercoledì transitavano sulla strada che da Suvereto passa

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per il Frassine e Monterotondo, andavano a Larderello, dovesi recavano a prelevare dei sottoprodotti che servivano allasocietà Solvay di San Vincenzo e Rosignano.Camminammo nella notte per essere alle prime ore del mat-tino nel luogo stabilito, ritenuto il più confacente per l’attac-co ai mezzi tedeschi. Ci schierammo tutti lungo la strada, na-scosti nel bosco. Eravamo sopra un argine a tre metri circadal piano stradale. Eros Zazzeri, che comandava la squadra,si appostò all’altezza di un curvone. Di lì vedeva davanti a séuna lunga striscia di strada, da dove dovevano venire i ca-mion tedeschi. Io e Imino eravamo in posizione avanzata; a-vevamo con noi molte bombe a mano; il nostro compito eradi scaricare sui camion questi esplosivi ed in seguito, se ne-cessario, adoperare anche i fucili.Verso le ore dieci del mattino arrivarono due camion. In ca-bina guida c’erano due tedeschi, un altro stava nella parteposteriore di ciascun camion. L’ordine era di aprire le ostilitàsolo quando il comandante avesse aperto il fuoco, perché, civenne spiegato, prima di intraprendere l’azione si dovevagiudicare la consistenza delle forze avversarie e quindi sta-bilire se era opportuno attaccare. Vidi distintamente i voltidei tedeschi, li sentii parlare tra di loro.Noi avevamo già steso per terra le nostre bombe “balilla”,pronti a levare le spolette e a colpire il nemico, ma il segna-le dell’inizio della battaglia non fu dato e noi non aprimmoil fuoco. Passarono pochi minuti e ci ritirammo dalla strada.Il sovietico Silvano quasi aggredì lo Zazzeri. Egli si giustificòdicendo che si era inceppato il suo mitra e non ritenne di a-doperare la propria rivoltella. Eravamo un po’ tutti rammari-cati dell’accaduto, ma Silvano, questo sovietico molto pas-sionale, piangendo accusava di pavidità lo Zazzeri. Lui e I-mino, appena arrivati al campo, protestarono presso il co-mandante Chirici.Presso la nostra formazione, nella zona del Caglio, avevamocostruito molte capanne. Erano poste distanti l’una dall’altra;

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alcune erano riservate a diverse decine di russi e polacchi.Una sera arrivarono quattro o cinque sovietici, accompagna-ti in formazione dai nostri collaboratori e dalle nostre staf-fette. Avevano abbandonato postazioni contraeree collocatea nella zona di Piombino, appartenenti ai reparti Flak Deut-sche, probabilmente addetti ai servizi.Il comandante, come faceva sempre in analoghe occasioni,parlò con loro, aiutato da alcuni veterani sovietici, che par-lavano alla meglio la nostra lingua. Dopo aver esternato lasua soddisfazione per aver tra noi anche dei partigiani di al-tre nazionalità, spiegò loro alcune regole che dovevano es-sere rispettate da tutti. Inoltre assicurò ad ognuno la condi-zione di uguaglianza che era presente al campo.Dopo aver loro riconosciuto il merito della scelta della resi-stenza, li consegnò al responsabile del gruppo sovietico, ilcompagno Wladimiro, che era il coordinatore di questo re-parto. I cinque nuovi arrivati vennero rifocillati e accompa-gnati alle capanne dei loro connazionali, dove si sarebberosistemati alla meglio per la prima nottata. Io ed il coman-dante eravamo già sdraiati nella nostra tenda, quando all’im-provviso sentimmo in lontananza dei vocii concitati. Non cispiegavamo cosa stesse avvenendo. Fummo costretti a re-carci da loro per renderci conto di cosa succedeva. Attornoa noi già altri compagni avevano seguito il nostro esempio.La prima cosa che capimmo era che quel vocio provenivadal settore dei sovietici. Ci recammo da quella parte; tro-vammo uno stato di agitazione; i dialoghi erano molto acce-si; nemmeno la presenza del comandante li faceva cessare.Cosa stava succedendo? I nuovi arrivati furono fatti oggettodi domande da parte dei loro connazionali.Volevano informazioni sulla guerra; essi da tempo eranofuori dai contatti con il mondo esterno, perciò questo era na-turale. Ma dopo le prime informazioni richieste, sul loro luo-go di prigionia, sul trattamento da parte dei tedeschi, sull’i-nizio della prigionia in Italia, arrivarono anche le domande

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riguardanti l’armata sovietica di appartenenza, il settore delfronte nel quale erano stati fatti prigionieri. Le loro rispostea queste ultime domande, così ci fu riferito, fecero reagire glialtri sovietici, quelli già presenti in formazione.Gli ultimi venuti erano stati fatti prigionieri dai tedeschi findall’inizio della guerra; le loro armate, cioè, erano tra quelleche, nella fulminea ed improvvisa invasione da parte tede-sca, rimasero accerchiate e non ebbero il tempo di predi-sporre una difesa adeguata. Noi tutti ricordavamo le notizieche dal fronte pervenivano in Italia sino a noi, di quell’iniziodella guerra. Centinaia di migliaia di soldati sovietici, dopo illoro rapido accerchiamento, furono costretti ad arrendersi equindi ci furono molti di quelli che furono fatti prigionieri.Per questo, in quella discussione, venivano attribuite loro leresponsabilità, perché avrebbero dovuto reagire e resistere,anche a costo della vita. Insomma se i tedeschi erano arriva-ti ad invadere buona parte del territorio sovietico fino a Sta-lingrado, la responsabilità si voleva dare, nell’acceso dialogodi quella sera, anche al comportamento tenuto da quelletruppe, che in pochi giorni furono catturate dal nemico.La storia ha dimostrato come altre ragioni molto più impor-tanti furono le cause di quelle vicende, quali sottovalutazio-ni, fatte dallo stesso stato maggiore dell’esercito sovietico,furono alla base degli eventi che riguardavano la grande a-vanzata tedesca in territorio sovietico. Il comandante Chiricidovette discutere molto per mettere pace tra questi nostricompagni. Lo fece partendo dalla considerazione che tuttiloro in quel momento si trovavano lì a combattere contro ilnemico comune; questo doveva convincere tutti della lorolealtà verso la patria. Inoltre il comandante fece un chiaro ri-chiamo alla disciplina, che per noi alla macchia, spiegò, erasempre necessario tener presente, in quanto la nostra era u-na posizione di prima linea e non ci potevamo permettere divenir meno a questa regola. Tra questi ultimi arrivati, c’eraanche Costantino, quel veterinario che esplicò la funzione di

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medico in molte occasioni. Era un uomo sempre allegro,pieno di energia e si sapeva rapportare con tutti, con tanta u-manità.Di tutti loro non si è saputo più nulla. Solo nel giugno del1965 apparve una lettera su il giornale “l’Unità”, scritta dalKasakstano Kukasc, diceva: “In occasione del ventesimo an-niversario della vittoria sulla Germania hitleriana invio i mieisaluti e congratulazioni a tutti i membri della “Brigata Gari-baldi”, insieme ai quali ho combattuto contro i nazifascistisulle montagne di Massa Marittima nel 1944.Un ringraziamento a quel partigiano che aiutò me con altriquattro miei connazionali, a fuggire dalla prigionia e ad u-nirci ai partigiani nei pressi di Piombino”. Così proseguiva:“Un augurio a tutti perché mai ritornino i tristi giorni del fa-scismo e della guerra. Il vostro compagno Costantino, comemi chiamavate allora”.

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ESTRATTO DAGLI ELENCHI PER I RICONOSCIMENTI PARTIGIANI

DALLA COMM/NE REGIONALE PER LA TOSCANA.ELENCHI FORMAZIONE RAGGRUPPAMENTO MONTE AMIATA:

POLACCHI E RUSSI SOVIETICI

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RUSSI - SOVIETICI

Crudiscov AndreyFarzalsecov BilalGrigorov KarazdatGuamaniazov PermigaliHalinov PrinedgamHamatov HaigamHamidov ArbosIteganwedwm DeminolKapiristi SiguKapiscov GabelKasimov IbrachinKassanov AssamKlordosuschi TadeunorKoribon BgoyarKorotoscenco IvanKudainerdyev RudairulLoketev IvanMakascev IsemberMamatiev RahigmarMambetov GablenMizaiev AgaheninMoncacev TaurizhaiMucacev AdanukmMussaiev SisamerdenNasiyev AbascNeblusco NicolayNicolaiev VictorNigmetullaiyev UmircolNuryev AnfNurmullin KsembaiNuzarov IskarRachamanov Omar

Sadicov SomedovicSalamatov NukaiScaimerdenov DinsonScerbahov VasilyScithogaie DinsonSoloviov IvanSumdetov SattorTabilov SagmaiTugambayev OksikboiUnirscirkv Takic

POLACCHI

Cavalescy NicolayChoynaci SigismondoFranchklin AlbonIusser CavoKymryndoec SerghiKlinukieviez TanislaoKusy TenrighKusy VidolvManocarion-Wago PetrosovicPergiaz MamirofPolichink DimitriSergev Alexander

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Il sovietico Abenov Kukasc Aktaevich, soprannominato Costantino (nomedi battaglia), oggi abita nella Città di Zelinograd, lavora come capo conta-bile in uno stabilimento. La moglie è insegnante. Hanno sei figli. Questenotizie le ho ricevute dallo stesso “Costantino” con il quale ho avuto unacorrispondenza nel marzo del 1966.

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ATTACCO TEDESCO ALLA FORMAZIONE NELLA ZONA IL “CAGLIO”

Il fronte era già in Toscana, si avvicinava a noi ogni giorno.Nelle retrovie i tedeschi subivano colpi su colpi per operadella resistenza che era attiva nelle nostre zone. Eravamo re-duci dai combattimenti di Monterotondo, quando un giornoci recammo in un podere in fondo alla zona di “Calzalunga”,per parlamentare con alcuni nostri collaboratori. Mentre sta-vo di vedetta sul pianerottolo del balcone del casolare, miaccorsi che sulla strada proveniente da Montebamboli, subi-to passato il podere del Caglio, c’erano tre tedeschi che conarmi in pugno, occupando tutta la strada, scendevano a pie-di a valle. Avvertii subito il comandante Chirici che mi or-dinò di andare assieme al partigiano Nello Bezzini, presenteall’incontro, al primo punto di guardia della formazione, conl’ordine di inviare una squadra sotto il ponticello che era po-co distante da noi. L’ordine era di attaccare e possibilmentedi fare prigionieri i tedeschi. La squadra partì immediata-mente, c’erano due vice comandanti, Giovanni Landi, EnzoCorbolini e con loro una decina di partigiani. Seguirono perun tratto la vegetazione della macchia portandosi al fossoche li conduceva al ponte, nascondendosi sotto la strada.Noi in lontananza assistevamo all’azione. I nostri aspettaro-no che i tre tedeschi passassero il ponte di pochi metri e ful-mineamente uscirono con i loro mitra spianati, intimandomani in alto ai tre tedeschi; ma questi non ubbidirono. Cer-carono anzi di mettere in atto una reazione con le loro armi.Due si gettarono nel sottostrada, il terzo fu subito colpito erimase sulla strada ucciso. Un secondo rimase nel fosso enon fece in tempo ad impugnare il suo parabellum. Il terzoriuscì a scappare in direzione di San Lorenzo. Fu seguito dalgruppo dei partigiani. Il comandante Corbolini al primo po-dere si portò su un terrazzino delle scale facendo partire u-na raffica di mitra che fu mortale per il terzo tedesco. Fu do-po pochi giorni che un capo sezione, addetto al servizio os-

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servazione, arrivò trafelato al comando annunciando chedue autoblindo, con alcuni camion, provenienti dal ponteMilia, avevano svoltato alle quattro strade e si dirigevanoverso Montebamboli, cioè verso di noi. Già la formazione sistava preparando ad evacuare la zona, per portarsi pressoMonte Arsenti, davanti a Massa Marittima, con l’intento di oc-cupare il paese.L’ordine fu di affrettare questo lavoro per anticipare la par-tenza. I tedeschi (erano una ventina di S.S.) con i loro mezzisi fermarono davanti al Caglio. Questo podere era una basepartigiana; molti contatti con la formazione venivano presi lì;in questo casolare abitava il carbonaio Adelio Amadori, il cuifiglio Massimo era con noi in formazione. Avevano ospitatouna famiglia di Piombino, erano sfollati, Nello Bezzini face-va da collegamento con lo stesso C.N.L., aveva con sé la mo-glie Viola e quattro figli. Possedeva una motocicletta, con laquale contattava i nostri collaboratori sparsi in tutta la zonadove operava la formazione. In mancanza di benzina usavala bicicletta. Tramite questo partigiano, il maggiore traspor-tava determinate persone, le quali per ragione di sicurezzanon dovevano conoscere il luogo dove era insediata la for-mazione: il proprietario terriero Terrosi, il ten. colonnello A-dalberto Croci, il parroco don Ugo Salti ed altri ancora.I tedeschi arrivati sul posto, come se avessero da intimidirequalcuno, cominciarono a sparare verso il bosco. Dopo en-trarono nel casolare. Sapemmo poi che con determinazionerovistarono da per tutto, come se cercassero qualche cosa.Ma l’unica cosa che portarono via fu la cartella con i qua-derni di scuola della figlia del Bezzini, Elba. Chissà, forsescambiarono quegli scritti per cifrari segreti. Fecero prigio-nieri gli uomini presenti, il Bezzini, l’Amadori Adelino ed uncerto Alvaro Grilli che si trovava lì per caso ed era venuto atrovare l’amico Nello. Prima di ritirarsi i tedeschi vuotaronodel materiale infiammabile dappertutto e dettero fuoco allacasa, dopo aver saccheggiato ogni cosa; poi rivolgendo di

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nuovo le loro armi verso il bosco fecero un fuoco concen-trato per un breve periodo, dopodiché caricarono sopra l’au-toblindo i prigionieri e partirono nella direzione da cui era-no venuti.Per noi non fu possibile reagire. Il grosso della formazioneaveva già evacuato l’accampamento; inoltre bisognava an-dare allo scoperto per un lungo tratto e questo non era nel-le regole della guerra partigiana, tenendo anche conto del-l’armamento inadeguato. La notizia della cattura dei prigio-nieri per noi fu dolorosa; si trattava di uomini che tutto ave-vano dato alla formazione: Amadori e Bezzini erano cometutti noi, forse di più, esposti a grossi rischi, come i fatti di-mostravano. I nostri pensieri per la loro sorte erano brutti; laloro vita poteva essere segnata. Furono portati a Suveretodove vennero interrogati.Nel cielo di Suvereto c’era stato uno scontro tra due aerei eduno di essi era caduto presso San Lorenzo. Ciò creò un cer-to marasma. Era già stato preparato un plotone di esecuzio-ne da parte dei tedeschi, schierato davanti ai tre prigionieri;sembrava che si dovesse compiere una fucilazione.Quell’avvenimento fece soprassedere la decisione. Dietroordine di un ufficiale, i prigionieri furono fatti salire sopra uncamion scoperto ed avviati ad altra destinazione. Sembra(come ci raccontò il Bezzini) che dovessero essere portatipresso il comando della S.S. che era dislocato in località Pap-pasole. Questo viaggio iniziò con una pioggia torrenziale.Dietro il camion c’erano, con i prigionieri, due tedeschi; es-si avevano un copertone di tela sopra la testa per ripararsidall’acqua e stavano accanto alla cabina di guida, mentre itre erano sotto la pioggia ed in fondo al camion.Il Bezzini ci raccontò poi come venne loro in mente l’ideadella fuga. I tedeschi ragionavano tra di loro ed ogni tanto al-zavano il telo per verificare la presenza dei prigionieri; lapioggia continuava insistente. In questa situazione i tre deci-sero di gettarsi dal camion. Aspettarono una svoltata, erano

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nella zona del Cafaggio quando rotolarono giù tutti e tre.Con rapidità salirono la china di un poggio e, malgrado le lo-ro escoriazioni che si procurarono in tutto il corpo, zoppi-cando, riuscirono a realizzare la loro fuga dai tedeschi. Do-po due giorni Amadori e Bezzini ci raggiunsero a Monte Ar-senti, dove furono abbracciati da tutti noi e fu data ogni as-sistenza per curare le ferite.

COME VENNERO FATTI PRIGIONIERI 20 TEDESCHI

Eravamo ormai agli ultimi giorni di guerra nella nostra zona.Il fronte era vicino; i tedeschi in ritirata, specialmente grup-pi di guastatori, preferivano battere le vie di montagna, se-guendo sentieri anche scoscesi. Un giorno del mese di giu-gno, mentre il comandante Chirici scriveva, all’ombra di unapianta, il rapporto abituale sulla nostra partecipazione allalotta partigiana, io, come sua guardia del corpo, osservavo lazona circostante. Con sorpresa mi accorsi che un gruppo ditedeschi, spingendo delle biciclette cariche di munizioni, siarrampicavano sotto di noi su per uno stradone pieno di cur-ve, cosparso di sassi e con fosse profonde scavate dalle ac-que invernali. La loro attenzione era rivolta a far scorrere lebiciclette in quella via impervia. Rapidamente avvertii il co-mandante, ma ormai i tedeschi erano già in linea d’aria ad u-na trentina di metri da noi. Mentre il comandante si allonta-nava, rimasi a controllare il loro comportamento. Uno di es-si ad un certo momento alzò il capo; i nostri sguardi si in-crociarono. Fu un attimo: aprii il fuoco. Con mia grande sor-presa contemporaneamente arrivò un fuoco incrociato dadentro la macchia. I tedeschi erano circondati; seguiti fin dalloro ingresso in quello stradone dai partigiani dalla sezioneposta a guardia dell’accampamento. I partigiani avevano at-teso ad attaccare finché i tedeschi si trovassero il più vicinopossibile alla nostra formazione e lo scontro fosse molto rav-

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vicinato. Alcuni tedeschi tentarono di sfilare i “parabellum”,ma non fecero in tempo; ai primi caduti seguì la resa di tut-to il gruppo. Risultato: tre morti e due feriti. Gli altri furonofatti prigionieri. Molte le armi e le munizioni conquistate. I-noltre più di venti erano le biciclette; una di queste mi fu as-segnata a conclusione della nostra attività. In seguito i cattu-rati furono consegnati agli americani con altri loro commili-toni. Oltre cinquanta furono i prigionieri consegnati alle for-ze alleate.

NELLA NOTTE FUMMO INVESTITI DA UNA COLONNA TEDESCA

Eravamo ancora nella zona del Cicalino, precisamente alleBruscoline, avevamo con noi molti tedeschi prigionieri; que-sto comportava una sorveglianza da parte nostra molto im-pegnativa, di notte e di giorno. Circa cinquanta partigiani e-rano addetti a questo compito. I prigionieri erano stati collo-cati vicino alla sezione comando. Una sera, verso la mezza-notte, un contadino della zona fu accompagnato alla tendadel comandante. Spiegò subito che una colonna di tedeschicomposta di una trentina di soldati, equipaggiata con muli earmata di tutto punto, si incamminava su uno stradello cheportava diritto alla nostra formazione. Aveva già avvertito gliavamposti; difatti quasi nello stesso momento si sentironoarrivare gli spari sopra di noi. La nostra postazione di guar-dia aveva aperto il fuoco. Iniziò la battaglia.I prigionieri tedeschi che avevamo lì davanti a noi cercava-no di muoversi e strisciavano in diverse direzioni. Raffor-zammo subito la vigilanza, ma essi volevano approfittaredella nuova situazione per cercare di fuggire. Il comandanteordinò subito, ai vari capi sezione, che nel frattempo si era-no fatti intorno, di predisporre la difesa, circondando tutta lazona e preoccupandosi di evitare di incrociare il nostro fuo-co. Alcuni di noi si unirono agli altri che vigilavano sui tede-

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schi prigionieri, imponendo il silenzio. Ma eravamo in mez-zo ad un fuoco intenso proveniente dalla parte tedesca. Glispari si conclusero dopo molto tempo. Alle prime luci del-l’alba esaminammo tutta la zona dove era avvenuto lo scon-tro. Avevamo avuto vari feriti; tre di loro erano gravi. Miche-le Burattelli era stato investito da una bomba in pieno volto.Le schegge erano diffuse in tutta la testa e questo gli provo-cava un gonfiore enorme della faccia. L’altro ferito grave,Marcello Bolognini, era stato colpito ad un braccio proprioall’altezza del gomito. Burattelli, che era nativo di CampigliaMarittima, assistito anche da suo fratello Alino, anche lui par-tigiano, morì nella stessa giornata, dopo atroci sofferenze.Augusto Menti era morto nella battaglia. Marcello Bologninifu curato con i pochi medicinali che erano a nostra disposi-zione. Il medico sovietico che era con noi si prestò verso tut-ti i feriti, ma era senza mezzi. Il braccio di Marcello si mette-va male e c’era il pericolo della cancrena. Purtroppo quandofu possibile fornirgli le cure occorrenti all’ospedale di MassaMarittima, non fu possibile impedire l’invalidità permanente.I compagni addetti alla sorveglianza ci informarono di comeera avvenuto il primo impatto con i nemici. Saputo dal con-tadino che sullo stradello si erano immessi soldati tedeschi,fu deciso tra di loro di aspettarli il più vicino possibile affin-ché la mitraglia, che era piazzata al centro di una piazzola, a-vesse maggiore effetto. Questa tattica risultò efficace. Moltifurono i morti del nemico, ma lo scontro ravvicinato fu fata-le anche per i nostri: le bombe a mano lanciate contro i no-stri non avrebbero avuto lo stesso effetto se la distanza fos-se stata superiore.Assieme ai morti trovammo muli e cavalli feriti. Sul terrenoc’era tutto il carico che portavano (armi , esplosivi ed un in-finità di materiali). Furono fatti una decina di prigionieri: ipiù erano di origine mongola. Ad un tratto, un episodio fececredere a tutti noi di essere in presenza di un nuovo attacco.Invece ci rendemmo subito conto che i rumori provenienti

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dalla macchia erano provocati da un cavallo disperso che,correndo, si avvicinava a noi. Dopo vari tentativi riuscimmoa fermarlo.

NEGLI ULTIMI GIORNI DI GUERRA PARTIGIANA

A volte nell’assistere a certi film di guerra, alcune inquadra-ture mi hanno fatto pensare ad un episodio di cui fui testi-mone con i miei compagni. Eravamo accampati al Poggionee da lì vedevamo nitidamente la strada proveniente dall’Au-relia che passava sotto Massa conducendo a Siena. Essa eradi fronte a noi; ci separava una vallata. Una mattina sul tardiin quella strada stavano transitando automezzi tedeschi. Ilcomandante diceva di vedere con il cannocchiale anche al-cune autoblindo. Era una colonna in ritirata. All’improvvisoarrivarono degli aerei da caccia degli alleati e cominciaronoa mitragliare questa colonna corazzata. Mi pare che gli aereierano quattro. Con ripetute picchiate ogni volta riuscivano acentrare il bersaglio. Ondate di fuoco erano seguite da lun-ghe colonne di fumo. La reazione tedesca fu quasi assente.Pochi erano gli spari che provenivano dalla colonna, mentregli apparecchi americani continuavano con le mitraglie a di-struggere ogni cosa rimasta nella strada. Fu una visione mol-to suggestiva, anche se era un atto di guerra. Noi eravamomolto vicini in linea d’aria; però ci sentivamo quasi sicuri,non pensavamo di poter essere coinvolti in quella battaglia. Il comandante Chirici dava disposizione ai comandanti del-le sezioni affinché i loro uomini si ponessero al riparo, pernon essere visti in quanto, così numerosi e raggruppati, po-tevamo essere scambiati per militari tedeschi e perciò colpi-ti come dei nemici. Ma tutto finì bene. Dopo una quindicinadi minuti gli apparecchi si allontanarono. Fu dopo questofatto che una nostra pattuglia portò al comandante un indi-viduo che si aggirava ai margini del campo; secondo i nostri

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lo faceva in modo sospetto. Alle domande che gli furono fat-te dalla pattuglia che era di vigilanza, in un primo momentonon seppe dare spiegazioni plausibili circa il proprio atteg-giamento.Il Chirici si accinse, dopo aver ascoltato il rapporto, a esami-nare questo visitatore sconosciuto, ma con mia sorpresa lafaccia del comandante si fece bianca ed il suo sguardo ten-deva a trasformarsi; durò così per oltre un minuto almeno.Tutti i presenti eravamo in silenzio e notavamo questo fatto;poi il comandante, come se si riavesse da un disturbo, si ri-volse all’individuo ed in modo autoritario gli domandò: “Tumi conosci, mi hai mai visto?” L’uomo, come intimorito daquello sguardo, rispose di no; ma il Chirici insistette; la ri-sposta fu sempre la stessa.Venne dato l’ordine di allontanarlo e di effettuare su di lui u-na stretta sorveglianza. Rivolgendosi ai presenti, il Chirici siconfidò: quell’uomo lo aveva già visto, quasi con sicurezzalo incontrò una settimana prima dell’attacco che i fascisti fe-cero su Campo al Bizzi, fu in uno stradello dentro la mac-chia. Allora lo fermò e gli fece varie domande per sapere co-me mai si trovava a percorrere il bosco. Rispose che il suo la-voro era quello di aggiustatore di macchine da cucire e chein genere faceva il meccanico; perciò si dirigeva nei poderidella zona per sapere se avevano da offrirgli lavoro.Disse il comandante che questa fu una giustificazione allorapresa per buona, ma di quell’incontro aveva ancora un ri-cordo nitido, perché, dopo l’attacco fascista alla formazione,aveva avuto dei dubbi sul “meccanico”. Aveva domandato inseguito di quell’uomo ai contadini. Nessuno lo aveva visto enon lo conoscevano. Ora gli veniva alla mente ogni partico-lare di quell’incontro. Ricordava i modi, le espressioni ed o-gni giustificazione addotta alle domande insistenti che allo-ra gli furono fatte per verificare la credibilità di quanto ave-va detto. Dopo ciò Chirici ordinò di riportargli quell’uomo.Quando esso fu arrivato al suo cospetto, gli confessò che lui

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lo ricordava molto sicuramente, era certo di averlo incontra-to mentre andava cercando lavoro come riparatore di mac-chine da cucire; gli disse che non ricordava il periodo esattoma che in quella occasione l’uomo gli aveva confidato di es-sere uno sfollato di Grosseto e di abitare a Massa Marittimacon vari figli e la moglie. A questo riferimento così preciso e-spresso da Chirici in faccia a quell’uomo, esso cambiò atteg-giamento e cominciò con un “mi sembra... sì io accomodo lemacchine da cucire, ma lei non era vestito così”. Fu allonta-nato; io fui incaricato dal comandante di cercare alcuni cara-binieri presenti al campo. Mi indicò vari nominativi di sot-tufficiali dell’arma, nostri compagni partigiani. Ad essi il co-mandante spiegò ogni cosa e ordinò di effettuare l’interro-gatorio fino alla confessione, perché egli riteneva che si fos-se in presenza della spia, responsabile dell’attacco al Frassi-ne. Non dimenticò, come sempre aveva fatto in questi casi,di ordinare che non fosse usata nessuna violenza. Volli se-guire questo interrogatorio; si svolse in una stanza a pianoterra nel casolare vicino alla nostra postazione, dove abita-vano i Dondini. Era una famiglia di partigiani e collaborato-ri; ogni loro figlio da tempo operava nelle nostre squadre. Siincominciò con domande molto generiche e non riguardan-ti fatti relativi al problema da chiarire; era la tattica dei cara-binieri; cercavano di stancarlo.Durò così per un po’. Quindi cercarono di entrare nell’argo-mento che interessava; dopo due ore non era uscito nulla.Dovettero desistere e si ritirarono per discutere tra di loro.Questi sottufficiali dei carabinieri decisero di soprassedereper alcune ore. Ritornarono a parlare con il comandante; vo-levano più libertà. Promettendo che non avrebbero infieritocontro il prigioniero, chiesero un paio di scarpe nuove. Unanostra sezione pochi giorni prima aveva attaccato un camionfascista ed aveva requisito un migliaio di paia di scarpe, de-stinate al comando repubblichino di Massa Marittima. Inoltrechiesero una certa quantità di cibo. Così, quando ripresero

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l’interrogatorio, si mossero su una linea diversa da quellaprecedente. Cominciarono con una serie di ragionamenti:“Tu non dici la verità; lo abbiamo compreso dal comporta-mento che hai tenuto finora ma ti conviene parlare. Com-prendiamo che tu hai paura delle conseguenze, ma abbiamoparlato con il comandante e lui ti permette di entrare comepartigiano nella formazione. Se le cose stanno come pensia-mo, noi in questo momento possiamo essere tutti in perico-lo. Se tu sei stato mandato da qualcuno, questo non rive-dendoti può predisporre un rastrellamento; perciò confes-sando tu ti schieri con noi e dimostri la tua volontà di cam-biare campo. Guarda noi, siamo stati carabinieri aderendo inun primo momento alla repubblica di Salò; oggi siamo con ipartigiani; ritorneremo nei nostri paesi con tutti gli onori.Così puoi fare anche tu. Guarda abbiamo scarpe nuove, tu lehai vecchie e sfondate; non ci manca il mangiare... Con que-sta argomentazione fu convinto a confessare; cominciò aparlare e gli furono portati cibo e scarpe nuove”. Era stato luiad indicare l’ubicazione della formazione nella zona delFrassine. Il capitano repubblichino Nardulli, comandante lapiazza di Massa Marittima, aveva saputo allora di certi movi-menti in quella zona e perciò lo mandò ad accertarsi. Anche quel giorno erano stati notati dei movimenti di moltagente sul Poggione ed egli era stato mandato per riferire chifossero quelle persone. Una serie di giustificazioni accom-pagnarono le sue dichiarazioni. Aveva tre o quattro figli conla moglie; non sapeva, causa la situazione, come sfamarli. Ilcapitano repubblichino gli permetteva ogni giorno di recu-perare cibo avanzato alla mensa militare; riceveva anche deisoldi per lavori che si prestava a fare presso il distretto, cheda tempo era stato trasferito da Grosseto a Massa.In quel periodo di guerra partigiana, il capo della Provincia,fascista Ercoli, ed il commissario prefettizio Giuseppe Beo,avevano stilato un proclama alla cittadinanza, invitandola al-la delazione contro i partigiani, promettendo premi che i te-

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deschi avevano messo a disposizione, indicando anche ilprezzo di questo “lavoro” in lire 1.800.Per questa spia non ci fu assoluzione. Dopo aver riunito ilcomando, ascoltate le testimonianze della confessione fattaai carabinieri, fu deciso la condanna e fatto giustiziare. Il co-mandante Chirici, dopo alcuni giorni dall’entrata in MassaMarittima, invitandomi a seguirlo, si portò a casa della vedo-va. Entrammo; c’erano anche i suoi figli presenti. Chirici an-nunciò alla donna la morte del marito spiegando che la suaconfessione sulla sua attività di spionaggio contro i partigia-ni lo aveva condannato a quella sorte. Subito aggiunse chedi ciò non era giusto che ne soffrissero i suoi figli e la sua fa-miglia, impegnandosi a provvedere presso le nuove autoritàaffinché ricevessero assistenza. Ripeté che anche in seguitonon avrebbe dimenticato questo suo impegno. Mi ricordocome il comandante non volle essere telegrafico e formale.Spiegò alla vedova che non doveva piangere, come stava fa-cendo, perché le diceva che, anche se era padre dei suoi fi-gli, non meritava rimpianto. Aveva scelto una strada meschi-na, sfamare la propria famiglia facendo uccidere patrioti e ri-cordò i caduti di Campo al Bizzi e i prigionieri.

LA FUCILAZIONE DEI MINATORI DELLA NICCIOLETA

13-14 GIUGNO 1944

La notizia della strage, commessa da un battaglione delleS.S., con la complicità di militi fascisti repubblichini, l’ap-prendemmo appena giunti a Massa Marittima. I minatori del-la Niccioleta, una frazione del Comune di Massa Marittima,avevano costantemente fornito uomini alla formazione par-tigiana, avevano collaborato fornendo in varie occasioni e-splosivo della miniera, materiale che serviva per le azioni disabotaggio, per ostacolare la viabilità delle nostre strade ecolpire mezzi del nemico. Nella frazione operavano squadre

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della S.A.P., con il compito di vigilare la salvaguardia deglistessi impianti della miniera, ostacolando qualsiasi sabotag-gio degli impianti da parte dei fascisti e dei tedeschi in ritira-ta. Alcuni uomini, ben riconosciuti, appartenenti al fascio re-pubblichino avvertirono il comando tedesco delle S.S., chein quel momento si trovava dislocato a Castelnuovo Val diCecina, facendo delazione, indicando gli appartenenti aigruppi S.A.P..Alle prime ore del 13 giugno un battaglione di S.S. fu man-dato ad occupare la frazione massetana. Una parte di questisoldati entrò nel paesino; gli altri si disposero intorno a tuttala zona circondandola; avevano grandi mezzi motorizzati;autoblindo, camionette e camion; il loro armamento eracomposto oltre che dalle armi personali anche da mitraglia-trici. I testimoni dissero che il loro atteggiamento manifesta-va una volontà di uccidere. Essi si introdussero in ogni casadel paese, rovistando dappertutto; imposero alle donne edai bambini di chiudersi in casa con l’ordine di non sortire; gliuomini furono ammassati nella piazza del paese. Alla fine diquesta operazione, nella stessa mattinata, furono chiamatiper nome e cognome sei tra questi prigionieri. Fatti usciredal gruppo, furono spinti dietro lo spaccio aziendale e subi-to uccisi a colpi di fucile. Come poteva un battaglione di S.S.,da poco nella zona, conoscere i nominativi di questi uomini?Fu evidente che questi nomi erano stati forniti dagli stessidelatori fascisti, che li indicarono come pericolosi nemici.A sera cominciò la prima cernita dei prigionieri. Furono se-parati dagli altri gli uomini più anziani. Essi vennero rilascia-ti assieme al parroco, al medico e al direttore della miniera.Furono fatti salire su dei camion famiglie di noti fascisti delpaese che seguirono al nord l’esercito tedesco.Tutti gli altri prigionieri, circa 150, furono messi in fila e por-tati via. Camminarono per circa cinque chilometri; dopovennero trasportati a Castelnuovo Val di Cecina, dove, giun-ti dopo mezzanotte, furono rinchiusi nel teatro del paese. Fu

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per loro una lunga attesa. Mentre erano isolati in quel localenel pomeriggio, con la presenza di ufficiali con soldati e fa-scisti al seguito, cominciarono di nuovo le selezioni di que-sti poveracci. I tedeschi avevano una lunga nota e serven-dosene cominciarono a chiamare nominativamente dei pri-gionieri. Sembrava una semplice nota di persone che a Nic-cioleta si erano assunte l’impegno di vigilanza della miniera,come già riferito sopra. Alla fine della chiamata questi uomi-ni furono fatti uscire dal teatro in fila per quattro. I fascisti edi tedeschi invitarono, chi ancora era nel teatro ed appartene-va alle classi di età dal 1914 al 1925 ad alzare la mano. Il gior-no dopo li fecero salire sui camion e vennero deportati inGermania.Quelli usciti, continuando a marciare per circa due chilome-tri, erano 77 persone. Sotto scorta armata furono avviati ver-so la centrale termoelettrica di Larderello. Furono fatti scen-dere dentro una grande fossa a semicerchio, profonda circaotto metri e larga una trentina, e con fuoco incrociato di mi-tragliatrici li massacrarono tutti.Gli ostaggi che erano rimasti nel teatro udirono quel crepitioprolungato di mitraglia; subito capirono cosa stava succe-dendo. Una parte di loro fu rilasciata nella serata, dopo unadichiarazione di un ufficiale delle S.S.; li invitava a ritornareal paese, dicendo loro che se di nuovo fossero stati informa-ti di movimenti partigiani nella frazione della Niccioleta sa-rebbero ritornati, facendo fare anche a loro la stessa fine fat-ta dai loro compagni.

TESTIMONIANZA DI UN TERRITORIO PARTIGIANO

Nei giorni susseguenti alla liberazione del nostro territorio,altri nominativi si aggiunsero a quelli che avevano donato lapropria vita per la giusta causa della libertà del nostro Pae-se, battendosi contro un esercito invasore e contro chi, diso-

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norando il proprio paese, scelse la via del tradimento. Dopopochi giorni venimmo a conoscenza che il 21 giugno, nellecarceri G. Bosco di Pisa, fu fucilato dai traditori fascisti il no-stro comandante Elvezio Cerboni. Nel mese di maggio, ilCerboni, in un casolare del paesino di San Dalmazio, fu cat-turato e condotto nelle carceri di Pisa. Questo generosocombattente, uno tra i primi a costituire un gruppo armatonel massetano, era stato il comandante del primo nucleo.Nei mesi della sua permanenza in formazione, aveva sempredato il meglio della sua intelligenza ottenendo risultati ediffondendo entusiasmo, con il suo esempio e la sua parolaa tutti i suoi compagni di lotta. Così sapemmo dell’imbosca-ta avvenuta a danno di Enrico Filippi, anche lui, fondatoredei primi gruppi partigiani della zona. Aveva 33 anni. Dopol’attacco fascista al Frassine, rimanendo isolato, fu ricono-sciuto e ucciso con una pallottola alle spalle dal noto fasci-sta Azzi.Anche altri giovani di Gavorrano, Montieri, Radicondoli,Massa Marittima, hanno contribuito con la loro vita, combat-tendo contro il comune nemico, o sono state vittime di rap-presaglia. Per questo è doveroso ricordarli: Ottorino Com-pagnini, anni 37 ; Ugolino Crestini, anni 37; Giovanni Fabbri,anni 74; Bruno Felci, anni 30; Quintilio Funaioli, anni 46; E-gisto Guarguaglini, anni 47; Casimiro Picci, anni 77; GuidoRadi, anni 19; Oriano Tonini, anni 30.Merito deve essere riconosciuto al saldo profilo di questi pa-trioti generati da questa terra, che avevano dato loro la fie-rezza di popolo partigiano e che avevano dato, con il sacri-ficio della propria vita, un forte contributo per la liberazionedallo straniero dell’Italia. È giusto ricordare che la cittadinadi Massa Marittima ha ottenuto la Medaglia d’Argento al Va-lor Militare, con la seguente motivazione: “Durante la lottaantinazifascista, la generosa popolazione sosteneva corag-giosamente le valorose forze partigiane nella sua resistenzae dava alla causa della libertà, con la difesa degli impianti

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minerari di Niccioleta e la conseguente cruenta repressione,largo contributo di combattenti, di sangue generoso e di sof-ferenza”. Sono stati insigniti al valor militare i seguenti parti-giani: Medaglia d’Oro Norma Parenti Pratelli, Medaglia d’Ar-gento Alfredo Gallistru, Elvezio Cerboni, Remo Meoni.Anche la città di Piombino fu decorata di Medaglia d’Argen-to al Valor Militare per attività partigiana, con Decreto presi-denziale il 23 marzo 1978. La concessione così fu motivata:“Sorretta da profondo e sincero sentimento patriottico e daardente desiderio di libertà e di giustizia, la Città di Piombi-no sopportò, con esemplare fermezza, dall’8 settembre 1943alla Liberazione, sacrifici e distruzioni, generosamente of-frendo alla causa della Resistenza e della democrazia un la-to contributo di eroismo e di sangue. Il 10 settembre 1943 i suoi cittadini, consapevoli che dalla ri-scossa dipendevano le sorti della patria, animosamente inci-tarono i militari , in difficili momenti di insicurezza e di di-sorientamento, ad opporsi all’aggressore nazifascista e, do-po aver cooperato con un ruolo decisivo all’apprestamentodella difesa della città, allorché cruenta divampò la lotta, co-raggiosamente si unirono ai valorosi reparti della Marina edell’Esercito, contribuendo efficacemente al brillante esitodel combattimento. Quando vana risultò ogni resistenza incampo aperto, i piombinesi organizzarono agguerrite forma-zioni partigiane che valorosamente operarono in Maremmae liberarono la città e vari paesi della zona ancor prima del-l’arrivo degli eserciti alleati. - Piombino 10 Settembre 1943 -26 Giugno 1944”.

MALGRADO LA FEROCIA NAZISTA SALVAMMO MOLTE VITE UMANE

Il 23 giugno 1944 una parte della formazione partigiana “IIIªBrigata Garibaldi”, “Camicia Rossa”, si era portata nella zonacollinare delle Bruscoline per dare l’assalto alle batterie te-

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desche, installate nei paraggi della fattoria “Cicalino”. Ciòper permettere agli alleati il rapido ingresso nella città diMassa Marittima. Fu distrutta anche una radio trasmittentecollocata su un camion. Tutto si risolse in modo largamentepositivo. Infatti la batteria costituita da quattro cannoni digrosso calibro fu fatta saltare. Questa operazione partigiana fu ampiamente elogiata dalcomando militare alleato e citata nel bollettino di guerra a ra-dio “Italia Libera” che trasmetteva da Bari. La sezione cheprese parte a questa operazione era quella così detta deiMassetani, comandata da Viazzo Zazzeri. Ne facevano parteMarco Checcucci, Torquato Fusi, Dino Cocolli, AsdrubaleRadi ed altri. Appena accertato che le truppe della 5° Arma-ta Americana erano entrate in Massa Marittima, il comandodi formazione decise di inviare nel paese una pattuglia par-tigiana per avvertire di cessare il bombardamento delle arti-glierie nella zona sottostante, dove appunto ci trovavamonoi. La pattuglia arrivata a Massa doveva issare una bandie-ra tricolore sul campanile del duomo, che doveva significa-re per noi via libera. Il comando americano inviò subito unacicogna in ricognizione per individuare la nostra posizione,inoltre mandò ad incontrarci alcuni mezzi, due autoblindoed alcuni camion carichi di soldati.Era il 24 giugno, una giornata piovosa, tale da rendere an-cora più triste ciò che poco dopo sarebbe apparso ai nostriocchi. Sulla strada che conduceva a Massa, nei pressi del po-dere “Grancaia” in località la Spina, trovammo un anzianoaccovacciato che piangeva disperatamente; era Carlo Vichi.Il comandante Chirici, che era in testa alla colonna, gli si av-vicinò chiedendo cosa gli fosse accaduto. Il poveretto con lamano indicò l’aia dietro il casolare. Andati più avanti vi scor-gemmo dei corpi coperti da lenzuoli. Erano i cadaveri di Lui-gi Martini, Astutillo Fratti, Damiano Molendi, Dante Molendie Giovanni Molendi. Dante e Giovanni erano fratelli e Da-miano era il loro cugino. Erano stati massacrati dalle S.S. in

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ritirata. Alcuni di loro avevano dei pugnali o baionette con-ficcati nelle carni.Fu una scena orribile. Questa atroce visione l’ho indelebil-mente fissata negli occhi ,anche oggi a distanza di tanti anni.La nostra colonna riprese la marcia verso Massa, portandocon noi lo stesso Vichi, facendolo aiutare da un gruppo par-tigiano. Fatti pochi passi fummo raggiunti dalle autoblindoamericane, con una Jeep che portava il loro comandante, edaltri mezzi con i soldati venuti, come dicevo sopra, ad in-contrarci. Ci resero gli onori militari. Il nostro comandantepresentò la forza all’ufficiale americano, informandolo cheoltre 50 tedeschi erano nella nostra colonna come prigionie-ri. Dopo queste formalità il Chirici informò l’ufficiale ameri-cano dell’orrenda strage che era stata scoperta, dicendo chesi trovava vicino da noi. Alcuni di noi ritornarono indietroassieme ai due comandanti. Di fronte all’orribile scena l’uffi-ciale americano si coprì gli occhi, ritirandosi, chiese al nostrocomandante che gli venissero consegnati subito i prigionie-ri. Fatta la consegna, l’ufficiale pronunciò degli ordini ad al-ta voce. Furono subito prelevati dal gruppo una decina diprigionieri. Vennero allineati sul ciglio della strada, fu lorostrappata la camicia sul petto e dietro un altro ordine undrappello di soldati si portò loro di fronte con le armi spia-nate. Ad un ordine dell’ufficiale i soldati levarono le sicuredei loro Thompson.Queste operazioni vennero eseguite con rapidità, sorpren-dendo tutti noi che non avevamo previsto tutto ciò. Fu aquesto punto che il comandante Chirici si portò davanti aiprigionieri tedeschi, urlando che non avrebbe permesso unastrage. Egli gridò: per loro la guerra è finita, sono nostri pri-gionieri. Solo al termine della guerra, caso mai, dovevanoessere giudicati da un tribunale militare e con regolare pro-cesso essere condannati.Ci fu da tutte le parti un momento di grande tensione. Il Chi-rici venne spinto malamente dall’ufficiale americano. In un

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attimo si udì il ticchettio degli otturatori di tutte le armi deipartigiani e degli americani. Fu un attimo. Seguirono pochimomenti di silenzio che indussero il comandante americanoa recedere dalla sua decisione. L’ufficiale, senza rivolgere ilsaluto a nessuno, salì sul suo automezzo dando disposizioniper il trasporto dei prigionieri e si allontanò. Andando con lamemoria a questo episodio, penso che fu giusto salvare lavita di quei prigionieri, anche se alcuni di loro, forse, eranoresponsabili di massacri.

ENTUSIASMO E DELUSIONE

L’ultimo giorno di macchia, ed il primo che ci doveva ridarela libertà, fu un giorno poco promettente. Subito di primomattino si levò un uragano, un acquazzone che sembravanon dovesse mai smettere: nubi nere all’orizzonte, visibilitàquasi zero.Quando iniziammo la marcia per entrare in Massa Marittima,scendemmo dal Poggione, una collina che era proprio da-vanti al paese. Una lunga vallata ci separava dall’abitato. Fulì che incontrammo per la prima volta gli americani ed ac-cadde l’episodio di cui ho parlato in precedenza. Appena giungemmo alle prime case, la popolazione manife-stò il suo grande giubilo: erano scesi tutti per le strade ad ac-clamarci, sebbene la pioggia continuasse a cadere implaca-bile. I cittadini esternavano finalmente la propria contentez-za: era arrivato il giorno della liberazione. Solo pochi giorniprima questi stessi cittadini erano stati testimoni di un turpeassassinio, commesso dai tedeschi con la complicità dei fa-scisti repubblichini.Avevo conosciuto la nostra compagna Norma Parenti, attivapatriota, durante un incontro tra lei e il comandante Chirici,in una notte non lontana, in una casa periferica di Massa.C’erano anche, in quella occasione, altri rappresentanti del

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Comitato di Liberazione, con i quali Norma Parenti teneva ilcollegamento.Gli uomini del famigerato fascista Nardulli, comandante del-la piazza di Massa, avevano compiuto, assieme ai tedeschi,l’ultima infamia. Il podere dove avvenne il massacro era “Co-ste Botrelli”; assieme a lei morì Giovanni Moschini, rimaseferito il carabiniere Ascenzio Carlucci, che morì dopo pochigiorni in ospedale. A Norma, per la sua splendida figura didonna e di Italiana, è stata concessa la medaglia d’oro con leseguenti motivazioni: “Giovane sposa e madre, fra le stragi ele persecuzioni, mentre sul litorale maremmano infierisce larabbia tedesca e fascista, non accordò riposo al suo corpo népiegò la sua volontà di soccorritrice, di animatrice, di com-battente e di martire.Diede alle vittime sepoltura vietata, provvide ospitalità aifuggiaschi, libertà e salvezza ai prigionieri, munizioni e vive-ri ai partigiani e nei giorni del terrore, quando la paura chiu-deva tutte le porte e faceva deserte le strade, con l’esempiodi una intrepida pietà donò coraggio ai timorosi e accrebbeaudacia ai forti. Nella notte del 22 giugno, tratta fuori dalla sua casa, marto-riata dalla feroce bestialità dei suoi carnefici, spirò, sublimeofferta alla patria, l’anima generosa.”Entrammo nel paese attraversando quelle piccole strade e,passando dal centro della città vecchia, ci dirigemmo versoun grande locale: era il cinema del paese. I nostri vestiti era-no tutti fradici. La popolazione, e in special modo le donne,si affiancavano per offrirci ogni cosa che in quel momentoritenevano potesse esserci necessaria. Ci portarono asciuga-mani, giacche pulite, maglioni, ma anche bricchi di caffè(che in realtà era orzo). Eravamo tutti vittime di una lungatragedia di cui quel momento segnava la fine. Dentro di noic’era il pensiero che, terminati i giorni tristi, si stava aprendoun capitolo nuovo della nostra vita. Alle nostre spalle gli ol-tre venti anni di fascismo, la guerra di Abissinia con i primi

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morti, poi questa guerra: quattro anni di patimenti e, perquasi ogni famiglia italiana, anche di lutti, paure e fame. Tut-to ciò aveva lasciato segni fisici e morali che rimasero im-pressi in noi per sempre.Ma quel giorno ci riservò anche nuove sorprese. Dopo es-serci asciugati e rifocillati con quello che avevamo a disposi-zione, il comandante ed io andammo verso l’uscita della sa-la. Chirici voleva subito incontrare i rappresentanti del C.N.L.per prendere accordi; così aveva detto ai capi sezione pre-senti. Ma sulla porta, a presidiare l’uscita, c’era una squadradi soldati americani armati, comandati da un ufficiale. Pro-vammo ad uscire, ma i militari ci respinsero e, con parole in-comprensibili, ci fecero capire che non c’era permesso di ab-bandonare il locale.Il gesto fu notato da alcuni partigiani che di corsa, e gridan-do agli altri cosa stava accadendo, andarono a riprendere learmi che erano state ammassate in un cantone del cinema.Le rimostranze del comandante Chirici verso l’ufficiale ame-ricano non vennero ascoltate. Ci fu subito una riunione deicapi sezione. Il comandante, dopo aver spiegato cosa erasuccesso, ci ordinò di riordinare le file e che ogni sezione ri-stabilisse i propri ranghi. Mi ricordo molto bene che questo ordine significava, per ilcomando, riprendere in mano la situazione per avere il con-trollo su tutta la formazione, richiamando alla disciplina ognipartigiano. Con parole ferme il comandante espresse la con-vinzione che gli dovevano una spiegazione di quanto acca-duto e che l’avrebbe voluta dai superiori di quei soldati chepresidiavano l’uscita.A quel punto entrò trafelato un soldato americano, si rivolseal comandante e, in perfetto italiano, lo informò che il co-lonnello, comandante le operazioni del fronte, sarebbe giun-to a momenti per parlare con noi. Poco dopo, accompagna-to da due militari di scorta e dall’interprete, l’ufficiale si pre-sentò. Aveva in pugno un’arma a ripetizione; un Thompson,

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credo. Ci stringemmo intorno all’ufficiale americano per a-scoltare. Chirici cercava di parlargli, ma lui, non curante, fa-ceva cenno con la mano di aspettare. Solo quando ci fu si-lenzio il rappresentante dell’esercito americano di liberazio-ne iniziò a parlare. Il discorso non fu lungo. Il suo interpre-te ci traduceva le parole: “Sappiamo che anche voi avete col-laborato e siete stati in guerra contro il fascismo ed i tede-schi. Nel ringraziarvi per tutto quello che avete fatto, vi co-munico a nome del nostro comando che per voi la guerra èfinita; perciò potete tornare alle vostre case, ma le armi de-vono essere lasciate qui, dove saranno ritirate dai nostri sol-dati”.Mentre parlava aveva nella mano destra il suo Thompson. Loteneva alzato al di sopra del suo corpo, con la canna rivoltaal soffitto. Il comandante Chirici intese chiedere di parla-mentare con il comando americano per proporre di conti-nuare a combattere sul fronte, perlomeno nella zona dove a-veva operato la nostra formazione. La risposta fu secca: no,grazie! Con passo marziale si congedò assieme ai suoi uomi-ni. Nel suo discorso aveva chiaramente avvertito che allaporta sarebbero rimasti i soldati americani per far rispettarela decisione assunta dal suo comando.Tra noi scoppiarono le proteste. Qualcuno piangeva, alcuniad alta voce e con l’arma in mano proponevano di sortire inmassa. Il comandante dovette calmare gli animi facendo ap-pello alla disciplina. Ordinò che nessuno uscisse con le ar-mi. Poi si rivolse a me invitandomi a seguirlo. Eravamo en-trati armati di mitra; lui aveva anche la pistola. Arrivammo al-la porta e con passo deciso la varcammo. Tra i militari ame-ricani ci fu un momento di incertezza. Parlavano; noi non ca-pivamo, proseguimmo ed andammo a prendere contatti conle nuove autorità del C.N.L. Solo dopo qualche settimanaconsegnammo le nostre armi alla caserma dei carabinieri.I tedeschi, da una batteria nascosta in mezzo alla macchiacircostante, continuarono per tre notti consecutive a sparare.

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Alcuni proiettili colpirono anche il paese. Il comandante, as-sieme a due capi sezione, si portò allora nella valle dove sitrovava il comando del fronte, per proporre agli americani diinviare un gruppo di partigiani a distruggere il cannone iso-lato nella macchia. Risposero che ci avrebbero pensato loro.Così, per altri giorni ancora, la popolazione si trovò improv-visamente di nuovo in guerra. Oggi non possiamo evitare dipensare a quanto quegli avvenimenti, quelle esperienze ab-biano influito sulle nostre coscienze, quanto abbiano mo-dellato il nostro carattere aiutandoci ad essere protagonistinella lotta di ogni giorno. Quegli eventi, il modo in cui sisvolsero, lo stupore che provammo ci imponevano la ricer-ca di spiegazioni. Tutto non abbiamo potuto capire, ma cer-to siamo soddisfatti nel ricordare che la resistenza per noinon finì allora, ma continuò alla testa di ogni lotta contro ipericoli di un nuovo fascismo, più subdolo, ma presente,che vedevamo in chi operava nuove discriminazioni e pre-parava di nuovo all’odio.La nostra partecipazione è stata attiva contro ogni atto cheminacciasse la pace, abbiamo lottato contro ogni ipocrisiache potesse lasciar credere che esistono eserciti occupanti a-mici. Quelle esperienze ci fanno augurare che nel nostropaese non sia più possibile la presenza di militari stranieriche, sotto qualsiasi bandiera, calpestino il nostro suolo. Noicontinuiamo anche per questo a combattere la nostra batta-glia, in nome dei nostri caduti e per gli impegni che un gior-no prendemmo insieme a loro.

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ELENCO CADUTI PARTIGIANI FORMAZIONE“RAGGRUPPAMENTO MONTE AMIATA”

Commissione Militare Regionaleper i riconoscimenti Partigiani

COGNOME NOME ELENCO PAGINA DISTACCAMENTO

Agresti Flavio 7 10 Banda TirliAlzeni Ivo 15 5 Camicia BiancaArmellini Marino 8 8 Banda TirliAscolesi Vito 8 2 Banda TirliBabbanini Silvio 8 1 Banda 7° Gr.Balocchi Affrico 15 2 Banda 7° Gr.Banchini Giovanni 20 4 Camicia RossaBenedici Silvano 9 7 Camicia RossaBorsari Dino 47 6 Camicia RossaBurattelli Michele 20 3 Camicia RossaButelli Alfiero 58 1 Camicia RossaCampori Dante 9 1 Banda TirliCanzanelli Gino 8 1 Banda 7° Gr.Casalini Ateo Mariano 9 1 Camicia RossaCastelli Augusto 9 8 Banda TirliCerboni Elvezio 20 5 Camicia RossaCheli Mario 20 3 Camicia RossaConti Giovanni 8 1 Banda 7° Gr.Dallari Dante 20 2 Camicia RossaDe Pias Enzo 8 1 Banda 7° Gr.De Santis Marino 43 3 Banda 7° Gr.Dondoli Giovanni 9 8 Banda TirliEleni Angiolino 20 3 Camicia RossaFerrari Ercole 44 6 Camicia RossaFerretti Renzo 61 1 Banda TirliFerri Ferrino 20 4 Camicia RossaFidanzi Pio 20 3 Camicia RossaFilippi Enrico 8 1 Camicia RossaFontanelli Alfredo 20 4 Camicia RossaGagliardi Calvino 43 3 Banda 7° Gr.Gallistru Alfredo 9 7 Camicia RossaGattoli Otello 8 1 Camicia RossaGavini Marsilio 9 8 Banda 7° Gr.

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Ghiribelli Libero 9 8 Banda 11° Gr.Grilli Felice 9 8 Banda 7° Gr.Leporetti Giovanni 52 10 Camicia RossaLotti Piero 59 4 Banda TirliMalossi Ivo 9 8 Camicia Rossa*Mancuso Salvatore 9 7 Camicia RossaMartinez Salvatore 15 1 Banda 7° Gr.Menti Augusto 20 4 Camicia RossaMeoni Remo 20 3 Camicia RossaNanni Italo 67 2 Banda 7° Gr.Parenti Pratelli Norma 20 3 Camicia RossaPedrazzi Ivo 20 3 Camicia RossaPialli Alberto 8 2 Banda 4° Gr.Picchianti Lido 59 4 Camicia RossaPieroni Danilo 8 1 Banda 11° Gr.Piriccioli Alfiero 9 8 Banda 11° Gr.Ricci Adelio 43 5 Banda 7° Gr.Ruggeri Pietro 43 5 Banda 7° Gr.Serafini Egidio 9 7 Banda TirliSorentini Francesco 9 7 Banda 7° Gr.Taddei Diano 9 8 Banda 11° Gr.Tanfretrini Quinto 9 8 Banda 11° Gr.Papi Ivo 15 7 Banda TirliVasconi Alvaro 9 Banda 7° Gr.Vecchiarelli Mario 15 6 Camicia BiancaVecchiarelli Vittorio 20 3 Camicia RossaViggiani Sirio 8 2 Banda Tirli

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PARTIGIANI FE-RITI

COGNOME

NOME E-LENCO PAGINA D I -STACCAMENTO

Bagnoli Ro-lando 203 Camicia Ros-saBiondi So-lindo 203 Camicia Ros-saBologniniMarcello 5316 Camicia Ros-saBorghigiani A i -da 203 Camicia Ros-saBucciMario 203 Camicia Ros-saCalvaniMario 203 Camicia Ros-saCatocciGiacomino 577 C a m i c i aBiancaCenti A-

lessandro 203 Camicia Ros-saCini Se -condo 591 C a m i c i aBiancaDe CesarePaolo 151 Banda 7° Gr.ForliGiovanni 154 Banda 7° Gr.GiovannettiGuido Mario 204 Camicia Ros-saLeonciniCanzio 203 Camicia Ros-saLombardiniDelmo 157 Banda TirliMontemaggi Fo-sco 203 Camicia Ros-saPastorelli A l -bino 152 Banda 7° Gr.RiumanoVincenzo 154 Banda 7° Gr.RossettiFranco 203 Camicia Ros-saSalvini Ar -temio 204 Camicia Ros-sa

Signorini

Giovanni 57

7 Camicia Ros-

sa

Topi

Giovanni 20

3 Camicia Ros-

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Zavatta Ot-

tavio 20

3 Camicia Ros-

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LA FUCILAZIONE DEI MINATORI DELLA NICCIOLETA

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UCCISI NEL PAESE

IL 13-6-1944

Baffetti Rinaldo anni 30Barabissi Bruno 26Chigi Antimo 40Sorgentoni Ado 24Sorgentoni Alessandro 23Sorgentoni Ettore 57

UCCISI A CASTELNUOVO

V. CECINA

IL 14 GIUGNO 1944

Baffetti Inaco anni 43Banchi Eros 23Barabissi Renato 24Basari Emilio 45Battisti Eraldo 19Battisti Settimo 49Bellumori Norberto 50Beni Enrico 44Beni Mauro 19Bernardini Livio 23Bernardini Onorato 51Berti Virgilio 30Bertocci Galliano 46Bertocci Sergio 23Bianchi Luigi 25Bianchi Mauro 19Bondani Rinaldo 22Boni Bernardino 31Boni Umberto 27

Bralia Stelvio 23Cammilletti Enos 18Cappelletti Aurelio 33Castagni Flaminio 31Cherchi Giorgio 20Ciacci Agostino 30Cicaloni Eugenio 51Cicaloni Mario 33Corriero Pietro 39Fallerini Luigi 30Fallerini Pietro 34Fortunati Eligio 30Fortunati Licurgo 41Gai Elino 44Ghilardi Mario 25Gidarelli Giovanni 22Innocenti Livio 20Lolini Spartaco 40Maggi Giuseppe 37Manetti Giorgio 35Mannini Adamo 34Marchi Ezio 34Martellini Bettino 40Martellini Gino 40Martellini Guido 30Mastacchini Agostino 43Mastacchini Raffaello 17Mattei Luigi 32Matteini Mario 24Meloni Guido 41Meloni Renato 23Montauti Marino 45Montegrossi Ansano 45Moretti Luigi 23

Olivelli Agostino 39Olivelli Alfredo 24Paganini Flavio 35Palmieri Leo 33Petroni Bienamino 32Pierallini Guido 36Pieri Camillo 44Pieri Nivo 20Ricci Dino 37Rosati Duilio 37Rosticci Ezio 45Rovaldieri Giuseppe 36Santoni Nazzareno 44Savelli Igo 41Sozzi Attilio 50Testi Nazzereno 46Torlai Giuseppe 51Torlai Gustavo 34Torlai Santi 43Travaglini Marsilio 46Vagaggini Osvaldo 30Veneri Bosio 18Vetuli Luigi 31Vicarelli Ugo 52

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PARTIGIANI RICONOSCIUTIDALLA COMMISSIONE REGIONALE TOSCANA

SECONDO LA LEGGE N° 518 DEL 1945

“BRIGATA CAMICIA ROSSA”

QUALIFICA “PARTIGIANO COMBATTENTE”

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Amador AdelinoAmadori MassimoAmbrogi FernandoAcquafresca SilvestroBadii RenzoBagnoli Ateo-MarioBagnoli RolandoBanchin GiovanniBargelli MarinoBarghi OsvaldoBarsanti MascoBenedici SilvanoBezzini Alessio Bezzini Nello Bianconi PietroBiondi Don AngeloBiondi SolindoBoccaccini OttorinoBolognini AlessandroBolognini MarcelloBolognini MarioBorghiani AidaBorsari GinoBorselli SantiBottai CelioBrachini SirioBucci MarioBurattelli MicheleButelli AlfieroCalonaci AlfredoCalvani MarioCampana Aldo

Casalini Ateo-MarianoCassarri UmbertoCavalescy NicolayCavallini AlbertoCenti Alessandro Cerboni Elvezio Checcucci MarcoCheli EnricoCheli MarioChiesa AntonioChiesa UgoChirici MarioChoynaci SigismondoCioni Libero Cocolli DinoCorbolini EnzoCorrivi LiberoCorsi LucianoCortigiani AlfieroCremisi AlbanoCrudiscoy AndreyDallari DanteDonato BartoloDamiani Michele Eleni AngiolinoFarzalibecov BilalFedeli LiberoFedersoni LivioFedi AsioFerrari ErcoleFerri FerrinoFerrini Tommaso

Fidanzi GiuseppeFidanzi PioFilippi EnricoFilippi TerzoFiorenzani LivioFiorini GuidoFontanelli AlfredoFranchklin AlbonFrangioni LeonettoFreschi GaetanoFrolli AdrianoGabellieri AngeloGalgani AngeloGallistru AlfredoGattoli OtelloGentili DinoGerli RenzoGiannoni BrunoGiannoni RolandoGiovannetti Guido-MarioGradassi IdilioGranchi ErosGranelli FernandoGrigorov-Bugdassarion

KrazdatGualerzi NimoGuamaniazov PermigaliGuarguaglini FulvioGuarguaglini MarioGuerrieri IdealeHalinov PrinedganHamatov Aigam

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Hamidov ArbosIteganwedem DeminolIusser CavoKapiristi SiguKapiscov GabelKasimov IbrachinKassanov AssamKymryndoec SerghiKlinukieviez TanislaoKlordosuschi TadeunorKoribon BgoyarKorotscenco IvanKusy Tenrigh Kusy VidolKudainerdyev RudairulLandi GiovanniLeoncini CanzioLeporetti GiovanniLessi FelioLippi AventinoLippi FrancescoLofiego BiagioLoketev IvanLorenzi PrimoLorenzini AugustoMakascev IsemberMalossi IvoMamatiev RahigmarMambetov GablenMancuso SalvatoreManocarion-Wago

PetrosovicMarsiglia FrancescoMartelli Don IvoMartellini GiuseppeMatozzi AlfredoMenti AugustoMeoni RemoMizaiev AgaheninMochi BrunoMoncacev TaurizhaiMontemaggi Fosco

Mucacev AdanukmMurzi EvansMussaiev SisamerdenNasiyev AbascNeblusco NicolayNeri LuigiNeri OresteNicolaiev VictorNigmetullaiyev UmircolNorcini ArmidoNuryev AnfNurmullin KsembaiNuzarov IskakPacini VascoPanichi AlessandroParenti Pratelli NormaPasqui AttilioPedrazi IvoPergiaz MamirofPetrini MazzinoPicchi MarioPicchi PierluigiPicchianti LidoPietrelli SenioPietrelli SergioPisani AttilioPoccioni EmilioPoli EmilioPoli IvoPolichink DimitriQuinti EgistoRachamanov OmarRadi AsdrubaleRibechini MazzinoRigoldi AmedeoRoccabianca MauroRossetti FrancoRoventini PieroSadicov SomedovicSalamatov NukaiSantarnecchi GiorgioSalvini Artemio

Scaimerdenov DinsonScerbahov VasiliyScthogaiev DinsonScotto SilvanoSergev AlexanderSignorini GiorgioSignorini GiovanniSoloviov IvanSoperchi GinoSoresina FoscoSundetov SattorTabilov SagmaiTamburini RodolfoTanzini MauroTartagli LuigiTopi GiovanniTugambayey OkosikboiUnirscirkov TakicVecchiarelli VittorioVenturi FrancoVeracini ElioVinciguerra RenzoZavatta OttavioZazzeri ErosZazzeri Viazzo

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QUALIFICA PATRIOTA

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Abbati SergioAdami GinoAlbertazzi GuidoAllori GiacomoAllori GiovanniArdovini BrunoBadii MazzinoBalestri FaustinoBalsamo LucianoBanchi BrunoBandinelli EnnioBarbalini AldoBarbieri AthosBardi GuidoBaroni MarioBarsanti DemetrioBarsanti ElviraBarsanti IrideBartali AteoBartalini NovelioBartoli RenatoBartolini-Bordico MarisaBaschieri GinoBattini GiovanniBellotti MarioBenassi AngeloBenifei EoloBenini CreanteBenvenuti UrbaniBernardini AlfioBertacci LivioBertaccini Sorio

Bertaggia EmilioBertolani GennariBertolani IvanBiagi NoemiBiagini EnzoBiancalana EgidioBianchetti EmilioBianchi PietroBiasci PietroBichelli SpartacoBicitti AngeloBigassi OtelloBilei ElinaBiliardi ArmandoBiondi BiondoBiondi LilianoBocci UmbertoBogi OsvaldoBombardi GuidoBonfanti LuigiBorelli MafaldoBorri LucianoBotti VirgilioBucci CafieroBucciarelli AldoBufalini UgoBugiani LucianoBurgarelli FrancoBurattelli FrancescoCalza RiccardoCampai AmilcareCampani Nullo

Cappelli ErnestoCappelli IdoCaramassi GemistoCaramassi GinoCarli AngelinoCasa GiorgioCaselli RenatoCasini-Caramassi CesarinaCastaldelli SilvioCastellani GiovanniCasumaro AngiolinoCavallotti NovilioCeccanti OblitoCecchi RenatoCerbai AlfoCerboni GilbertoCheli FerdinandoChiesa AmletoChiti AgostinoChiti PrimoCianti ForestoCianti LiberoCianti LudovicoCiapponi NelloCipolli ElfoCiatti EmilioColombini EnzoComparini BolscevicoComparini EttoreConciatore EmoConfortini GherardinoConti Ariello

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Corsi ViscoCorti FaustinoCortigiani GuidoCortigiani SettimoCosimi CesarinoCosti GinoDaddi MarioDallari AldoDal Rio IvaldoDani FerruccioDa Olio NelloDavia EmanueleDelle Mura EnzoDi Civitanova DemetrioDini ClaudioDonati AgostinoDondini AthosDondini BrunoDondini DemosDondini VascoDomenichini FedericoDori DelioDori OfelioFabiani FulvioFalcucci RodolfoFantuzzi NataleFavilli LandoFedeli FerrinoFedi DemoFerrari GiuseppeFerrari IosafoFerriani DarioFidanzi FerreroFidanzi MarcoFidanzi NelloFilippini AldoFiorini PiloFocacci FerdinandoFocacci NarcisioFossato RinoFranchi GiovanniFrangioli Selavaggio

Franzoni AntonioFulceri RodolfoFusi TorquatoGabbi SergioGabellieri RodolfoGagnesi GabbianoGagnesi-Bardi MeryGalgani-Rubegni AmeliaGalleri ArrigoGandolfi NelioGasperini VittorioGennai MarioGiachini PasqualeGiancherotti AngiolinoGiannini AladinoGiannini VirgilioGiorgi DomenicoGiorgi GinoGiorgi Pier LuigiGiovannardi GiuseppeGiovannelli AldoGiovannelli OtelloGiovannelli RodolfoGiovannelli UgoGnoli ErosGoldoni DarioGoverni PaoloGradassi IllidioGrandi RenzoGiuggioli SestoLascialfare BiancaLatticini RemoLeoncini LeonelloLippi EmilioLodi ArrigoLolini CostanteLolini GiuseppeLunardi AldoLunghi GuidoMacii MauroMagagnini SirioMancini-Dondoli Celide

Mancini EnricoMantovani AngeloMantovani CarloMantovani WalterMarchetti PriamoMarchi AleandroMarconi MarcelloMarengo MarioMariagi IamelMartilli LuigiMartini DeoMartinelli-Mazzini LeonildaMarzi RenzoMazzei MazzinoMazzi RenzoMazzini MicheleMenichelli RolandoMentessi LucianoMigliori GiuseppeMignani AlbertoMilani CaterinaMilani LivioMinarelli TizianoMinelli LilvioMinelli RisveglioMinniti PietroMisoni EraldoMochi BrunoMolendi AldoMontella MatteoMontevecchi RobertoMorara AdelboreMorgan AntonioMori FilippoMoroni SettimoMoscardini EmilioMugnaini EvelioMuzzi PasquinoNannetti GoffredoNardi NelloNoci GuidoPaganini Ferdinando

È giusto notificare che, laCommissione Militare Regio-nale per la Toscana, ufficial-mente ha riconosciuto con laqualifica di “Partigiano Com-battente” N° 203, dando il ri-conoscimento a N° 332 conqualifica di “Patriota”, come daelenco qui sopra documenta-to. È necessario ricordare chemancano alcune centinaia dinomi, che furono partecipi al-la lotta Partigiana, ma la stessaComm/ne, avendo una suapropria visione ristretta, nonha ritenuto dare, a questi, ilsuo meritato riconoscimento.

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Panicucci SabatinoPaoletti RinoPaoli PioPaperi WalterPapi EnzoPapini GioindoPapini RenoParisi GiuseppePasquinucci SergioPazzagli VinicioPazzaglia LuigiPazzaglia PietroPeccianti BrunoPellegrini IulioPescucci FoscoPetrini LedaPetris RolandoPetti AladinoPiccioli AfricoPignoni PaoloPinelli SergioPinzaferri VelioPistolesi OsilioPoggiani FerreroPoli IvoPoli LeonardoPotenzi EllenoPratelli MarioProfeti RolandoQuiriconi-Pastacoldi VeraRadi GiorgioRadi LioRadi LivioRafanelli GinoRaspanti PoerioRaspanti RinoRinaldi MauroRocchi RobertoRosi-Salvatori CaterinaRosi SettimoRossi WalterRussi Diego

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Saccarello RinaldoSalusti CavallottiSalvatori MarziaSalvini GiovacchinoSangalli AngeloSanguineti FrancescoSaporito GiuseppeSarsella GiuseppeScampolini GiuseppeScapigliati ElioScheggi LeopoldoSenesi GiulioSerini SinibaldoSignorini MazzinoSimonetti BernardoSoli RemoSoprani GiovanniSottile LuigiSpallanzani WalterSparacino AlfredoSparapani GiulioSpecos PieroStampigli GiovanniTafi DomenicoTafi EnricoTafi TrifolinoTagliaferri SecondoTagliaferri SettimoTani FraoTani IvanTanzini MarinoTasselli GinoTerrosi VagnoliTicciati AgostinoTofanelli AlfredoTognetti EnnioTognoni AlbinoTognoni AlvisioTognoni ElsoTognoni EnzoTonini MarinoTraditi Alfredo

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Trambusti TrambustoTrapassi MiltonTrebbi OrianoTrombelli GiuseppeTuci PrimoUgolini UgoUlivelli IlioUnali AngeloValenti RodolfoVanni RinoVannucci OresteVella PietroVenanti LidoViareggi-Dini LolitaVichi GeremiaVillacaro FrancescoVincenzi GuidoVolpini DinoZaccaria WalterZanini RemoZanotti FaustoZazzeri CostanteZazzeri LuigiZazzeri RenatoZazzeri RizzieriZinotti Domenico