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Amblimblone

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MASSIMILIANO VERGANI

AMBLIMBLONE

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AMBLIMBLONE Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-457-4 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Ottobre 2012 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

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A Clara, e ho detto tutto.

I miei libri sono come l'acqua, quelli dei grandi talenti sono vino.

Tutti bevono acqua.

Mark Twain

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LA GUERRA DELL’ACQUA

I Cantacane era quello che si sarebbe potuto definire un ridente paesello che si abbarbicava sulle pendici del Monte Lupo. A Cantacane le massime autorità erano due. Don Bernardo, il parroco, detto ora Don Dan per le sue hollywoodiane scampanate, ora don Don Don Don Don (ad libitum) per la sua aeco predicans, il canonico rimbombar verboso dell’omelia domenicale, momento imprescindibile per ogni cantacanardo che non volesse trasformarsi in un emarginato, ora Don Lurio quando veniva folgorato dai ritmi latinoamericani, ora Don Bairo quando il vinsanto l’aveva vinta sulla sua furia predicatoria. L’altro maître à penser era la Pinuccinetta, prima voce del coro della parrocchia, vedova di lungo corso e perpetua occasionale di Don Dan, ma soprattutto tenutaria e unica firma di “Comunità” il volantino mensile che entrava in tutte le case dei cantacanardi. Il sindaco non c’era perché Cantacane non era che la frazione di Ponte Zocca, l’altro paese governato da Ottavio Pirotta, “solo il brimo di tutti i gittadini”, come ebbe a dichiarare lo stesso Pirotta in campagna elettorale. La pronuncia non dipendeva da un raffreddore. Ma lo capiremo... Ponte Zocca si chiamava così per due evidenti motivi. C’era un bellissimo ponte, vanto dei pontezocchesi, che attraversava con una sola campata tutta la valle collegando il capoluogo con la strada che portava a Cantacane, e c’era la zocca. La zocca era un invaso naturale d’acqua dolce, meta ambita dei gitanti della domenica e fondamentale (nonché unico) sostentamento liquido per tutti gli abitanti del comune. Forse si sarebbe anche potuto chiamarla fonte o sorgente, ma da quelle parti la chiamavano zocca, e non mi sembra che ci sia nulla di male.

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Da qualche tempo la zocca non era più quella di una volta. A giudicare dai racconti di Nonu Ciùndul, il più grigio e il più bacucco abitante del comune, prima della guerra nella zocca si potevano pescare i gamberi verdi con le mani, da tanti che ce n’erano, e si festeggiava ogni inizio di primavera con una bella grigliata di babbaroni, piccoli pesci assolutamente deficienti. I babbaroni della zocca, in più, erano anche estremamente saporiti, forse grazie alla particolare purezza dell’acqua in cui vivevano (finché vivevano). Nonu Ciùndul era stato uno dei più grandi pescatori di babbaroni della storia di Ponte Zocca e Cantacane. Le cronache raccontano di quando, insieme ai suoi amici Cecch e Palandra, cavò dalla zocca almeno duecento chili degli stupidi pesciolini in una sola notte. Al giornalista dell’Eco del Ponte che lo intervistò la mattina successiva, Nonu Ciùndul dichiarò di aver trovato un’esca assolutamente infallibile. In realtà, le malelingue dicevano di aver notato i tre pescatori armeggiare intorno alla zocca con la pompa comunale per lo spurgo dei pozzi perdenti, usata in questo caso per svuotare buona parte del laghetto e recuperare babbaroni a palate. Naturalmente, poi, tutta l’acqua era stata rimessa a posto perché nessuno avesse a capire l’arcano. Nonu Ciùndul non raccontò mai cosa fosse veramente accaduto quella notte ma fu un fatto che per giorni, dalla fantomatica notte della pesca miracolosa, molti pontezzocchesi trovassero piccoli babbaroni (o babbaroncelli) nelle fontane pubbliche e negli acquai delle cucine, balzati fuori da chissà dove. Ora, da qualche anno a questa parte, di gamberi verdi non si vedeva più neppure l’ombra e anche i babbaroni si erano fatti più furbi. Proprio lo scorso anno, il sindaco Pirotta era arrivato addirittura a proporre al consiglio comunale l’abolizione della tradizionale grigliata: “per preservare il futuro del nostro amato babbarone” aveva sentenziato. Un boato di riprovazione si era levato dall’aula e, per la prima volta, l’ala sinistra e quella destra dell’assemblea si erano trovate sulle stesse posizioni, ben sintetizzate nel polifonico: «Non toccarci il babbarone, brutto sindaco coglione». La grigliata era salva ma non mutavano le preoccupazioni per il futuro della zocca messa a repentaglio da frotte di turisti a caccia di emozioni ataviche e di una bella sorsata d’acqua pura.

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Ad aggravare le cose ci si era messo anche Giove Pluvio, che doveva essere sceso in sciopero a oltranza. Da mesi, ormai, sul territorio di Ponte Zocca non si vedeva scendere una goccia di pioggia. D’inverno, un sole anomalo spaccava la terra abituata a ben altri trattamenti e, d’estate, le nuvole portate dal vento se ne andavano senza degnarsi di dare un po’ di sollievo ai campi riarsi. Sulle prime i pontezocchesi si facevano coraggio: «Le stagioni non son più quelle di una volta» diceva uno «ma prima o poi dovrà ben piovere, no?» «Dico di sì, cazzaruta!» rispondeva l’altro con un po’ di colore nell’espressione. Ma poi il tempo passava e della pioggia nemmeno l’eco. Così le preoccupazioni cominciavano a divenire più serie e l’argomento scaldava sempre più gli animi dei pontezzocchesi. «Avete visto che il livello dell’acqua della zocca è sceso ancora?» urlò Pierino spalancando la porta del circolino Uscapo (Unione sbevazzoni cantacanardi e pontezocchesi) e frantumando la tensione che si era creata al tavolo dello scopone dopo che il Mario Gandula aveva calato un sei di denari. «Ssssshhhhttttt!!» fu la risposta unisonica degli avventori del locale. «Ma è vero!» ripropose il Pierino che non riusciva a capacitarsi di avere una notizia tanto importante da divulgare. «Lo sanno già tutti» gli sibilò nell’orecchio Pinùn Gabbia, ex carcerato e ora proprietario del bar. «Ma va’?» rispose incredulo l’inutile messaggero. «Lo sanno anche le galline ormai» fece risaputo Mario Gandula dal tavolo. «E non fate niente?» insisté il Pierino. «Giochiamo a carte!» disse Marialdo con una punta di rassegnazione. «Se po’ stà in silenzi! C’è gente che sta cercando la concentrazione.» Il tono dello scoponista Attilio Tavecchia non ammetteva repliche. Pierino provò a tapparsi la bocca ma resistette sì e no cinque secondi. «Non si può star qui così. Bisogna chiamare il sindaco!» decise Pierino.

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L’istante dopo fu sommerso da un mitragliata di insulti e improperi scagliati da una decina tra giocatori di carte, ubriachi cronici e semplici osservatori. «Va a cagare, Piero. Te e il tuo sindaco dell’Oltrepò.» Questa leggiadra sentenza di Attilio Tavecchia, contenente un lieve accenno alla provenienza non precisamente nordica di Pirotta, accolse l’ingresso casuale del primo cittadino nella sala affumicata del circolino. E adesso capiamo... «Bbona salute a tutte quante» esordì l’ignaro Pirotta mostrando tutta la sua molisanità. Nemo resposit. «E che minghia è stu’ silenzio?» … «Aggio capito» si inciciottì Pirotta «stavate, come sembre, parlanto male del vostro sindago. Eeeeh, nun è fagile essere dalla parte di quello che comanda. Sembre sei gondestato, sembre sei preso a ggiro. Vorrei vedervi voi al posto mio. Gosa sareste capaci a ffare? Eh? Una minghia de niende. Magare soltando una bella partita a scopone.» «Non dire cazzate, sindaco. Si parlava della zocca» brontolò Mario Gandula. «Perché? Che è successo, angora?» «Il livello dell’acqua si è abbassato» disse Pierino, quasi giocondo. «Ormai è quasi secca. È un disastro.» Il primo cittadino arrossì. La sua coscienza di liberale rispettoso dell’opinione altrui spesso cozzava con la sua animosità meridionale. Gli sembrò di aver parlato a sproposito. La zocca. Un grande problema. E lui, uomo piccino stretto nel suo universo limitato che si era lasciato andare a una paternale antinordista. «Mannaggia.» Fu l’unica parola che riuscì a dire stropicciandosi il faccione con le mani. «Io dico che bisogna far qualcosa» sentenziò Tavecchia. «Non si può star qui con le mani in mano ad aspettare che la zocca si asciughi. Ma lo capite cosa vorrebbe dire sì o no?» «Basta babbaroni?» provò Pierino. «Basta bere, pirla» rimandò Tavecchia «e basta lavarsi e basta bagnare i campi e basta cucinare e basta tutto, porc…»

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E qui partì un bestemmione rettangolare che aveva come base un maiale e come altezza tutte le divinità dell’universo. La bocca di Tavecchia fu cinturata da Mario Gandula prima che potesse esagerare con gli improperi. Il problema era reale, però. Niente zocca, niente acqua per tutti gli abitanti del comune di Ponte Zocca. Non si poteva star ad aspettare che il cielo si decidesse a lacrimare un po’ di benedetta pioggia. E l’autunno era ancora lontano. Se non veniva niente dall’alto, si doveva cercare di far qualcosa dal basso. Tante volte si era pensato di scavare il fondo della zocca in cerca di una falda più profonda ma c’erano fior di studi dell’università che garantivano che non si sarebbe trovata una mazza di niente. Qualche mese prima era stato addirittura convocato uno di quei maghi della pioggia. Uno di quei fantastici personaggi che camminano per chilometri in mezzo al nulla lasciandosi guidare da un ramoscello d’ulivo. Tutti i pontezocchesi (e anche qualche cantacanardo incuriosito) avevano seguito in processione il Grande Mago Dertan alla ricerca di una nuova sorgente d’acqua. Una qualche vena liquida che potesse rimpinguare il triste bacino della zocca. Niente. Il Grande Mago girò e rigirò per tutto il territorio di Ponte Zocca (e anche per qualche brandello di Cantacane) ma niente. Non ci fu verso di trovare il benché minimo segno d’acqua. Arrivato proprio sotto il ponte, sudato e sconsolato, Dertan si era volto verso i pontezocchesi per enunciare il suo verdetto: «Accà, acqua nun ce ne sta». Come si può facilmente evincere dalla pronuncia, Dertan era il nome d’arte di Antonio Lo Bono, nato il 24/7/46 a Castellammare di Stabia, golfo di Napoli. Il mattino dopo, sulla spiaggetta del lido della zocca erano almeno in cento a fissare sgomenti la superficie morente dell’acqua. «L’è finida.» Fu la roca voce di Pinùn Gabbia a rompere il pesantissimo silenzio. «Ma no, nun è possibbile» rilanciò senza convinzione il sindaco Pirotta. «Qua bisogna fare come in tempo di guerra» disse Tavecchia. «qua, bisogna cominciare a razionalizzare.» «Gioè?» Il sindaco si accese intravedendo una soluzione.

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«Razionalizzare, no? Poco a me, poco a te, poco per tutti. E così andiamo avanti fino a quando non troviamo la maniera di far ritornare l’acqua nella zocca.» «Razionare» sibilò Pirotta dall’alto della sua cultura superiore. «Si dige razionare, ’gnorande.» L’idea di Tavecchia ebbe immediatamente, è il caso di dire, la forza di un fiume in piena. Si studiarono subito le dimensioni della zocca, ci fu chi si provò a calcolarne la massima profondità e il totale dell’acqua contenuta. Ci fu chi trasse le prime artigianali conclusioni. Il sindaco Pirotta si rese conto che l’argomento doveva essere avocato all’autorità. «Questa amminisdrazione» gridò gonfiando il petto «convocherà subbito un gonsesso di esperti che studieranno la situazione e ci daranno le risposte adeguate. Sapremo, con pregisione quant’acqua spetterà a ognuno di noi e comingeremo subbito il razionamendo. Nel condempo, cercheremo la maniera di far tornare la nostra zocca quello che era una volta.» Un applauso unanime testimoniò l’appoggio incondizionato della popolazione agli intendimenti del sindaco Pirotta. Per una volta i favorevoli superavano di gran lunga i contrari e non v’era necessità di votazione alcuna per passare alle vie di fatto. Soddisfatto, Pirotta stringeva mani a destra e a manca e sorrideva, fiducioso, all’avvenire. Solo, in un cantone discosto dal sindaco, Nonu Ciùndul espresse il proprio caustico dissenso: «Servìs a ’n cazzo». Ma nessuno lo poté udire. Nonu Ciùndul fu l’ultimo ad andarsene. Osservò a lungo l’oleosa superficie verdeggiante. Sembrava che si stesse confidando con l’anima della zocca. Nonu Ciùndul ne aveva viste tante e intuiva che, questa volta, l’invaso stava vivendo un’agonia senza ritorno. Restò fisso per più di mezz’ora, poi, come risvegliandosi, alzò gli occhi velati dalle lacrime verso il cielo chiaro di luglio, trasse un respiro profondo, si voltò e si allontanò con passo deciso. Non prima di aver sputato un bel po’ di saliva a terra.

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II In capo a poche ore, il municipio di Ponte Zocca fu il centro dell’unità di crisi. Pirotta, dal suo ufficio in pieno stile Luigino (dal nome del ricettatore che procurò al vulcanico molisano tutto l’arredamento), menava direttive in continuazione. Il suo telefono era diventato incandescente, come il suo padiglione auricolare destro. Furono convocati nell’ufficio del sindaco i migliori esperti del paese. C’era l’idroaerogeologo Gattinoni, strappato alla scaletta di un aereo in partenza per le Hawaii. A nulla valsero i grugniti di Gattinoni che protestò la sua libertà di andarsene in vacanza, almeno ogni tanto. C’erano i gemelli Leonardo, Michelangelo e Raffaello Carapellese, i massimi esperti nella cura e nella conservazione dei beni ambientali e culturali. I Carapellese erano diventati famosi per la grande creatività che riuscivano a mettere a servizio del recupero dei monumenti in tutti gli angoli del globo, ovviando spesso alle croniche mancanze di denari pubblici. Erano riusciti a restituire il naso alla famosa Testa di Gatto egiziana subappaltando i lavori all’impresa edile Merzario di Albino (Bg) che ci aveva piazzato uno splendido loft con vista sulle rovine: prezzo al pubblico, 28mila euro al metro. Erano stati sempre i gemelli Carapellese a unire i due lembi dello Stretto dell’Isola, risolvendo l’annosa questione con un fantascientifico ponte di chewing gum, l’unica sostanza sufficientemente elastica da poter resistere ai continui movimenti delle due terre. Avevano risolto anche il drammatico problema degli incendi della foresta lezzaronica rivestendo tutte le piante con i tappetini ignifughi delle macchine rottamate. Insomma, i Carapellese erano più che una garanzia: con loro una soluzione si sarebbe senz’altro scovata. Vennero anche convocati i componenti della Banda del Parruccone, noti esperti di sottrazioni indebite (furti, scassi, grassazioni e altro) ricercati in mezzo mondo. I famigerati delinquenti garantirono il loro incondizionato appoggio (dietro lauto compenso) ma, stranamente, non si presentarono al municipio di Ponte Zocca. Ragioni di sicurezza personale, mandarono a dire. Pirotta pensava che se gli esperti non

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fossero stati capaci di far ritornare legalmente l’acqua nella zocca, ci sarebbero riusciti i Parrucconi. Illegalmente. A far da sovrintendente alla manovalanza fu chiamato il capitano Rocco Di Taranto, un ex alpino congedato cum pedatam dall’esercito perché accusato di una lunghissima serie di atti di nonnismo a scopo di lucro e maialate varie. Si racconta che uno dei giochetti che più lo divertiva era “Prendi la licenza per le corna”, il grande evento di tutti i venerdì sera in caserma. Di Taranto appoggiava la licenza di questo o quel soldato contro la porta metallica di un armadietto e quindi la lasciava scivolare verso terra. La vittima, per poter tornare a casa, doveva riuscire a bloccare sull’armadio il piccolo foglio di carta in caduta libera con una poderosa capocciata, afferrandolo cioè con le corna. Naturalmente, nessuno ci riusciva e Di Taranto ricominciava da capo. Quando la testa del malcapitato cominciava ad assomigliare a un ananas, il capitano intimava sorridente: «Una piotta» traduzione: mille euro «una piotta dare, in licenza partire. Altrimenti, continuare a craniare». E giù una grassa gutturale risata. Gli piaceva rimare gli infiniti, lo faceva sentire molto vicino al suo modello d’uomo: un tirolese dai baffetti neri che aveva combinato macelli in tutto il mondo qualche decennio prima. Era uno dei tanti venerdì e il capitano Di Taranto stava praticando il “Prendi la licenza per le corna” a una recluta mingherlina e occhialuta. «Il piottone sganciare, a casina tornare. No? E allora incornare» gigioneggiava. Sorprendentemente, il ragazzino si aggiustò gli enormi occhiali rettangolari e con una vocina da eunuco rispose: «Sono stufo di incornare, a mio zio vado a chiamare». Girò i tacchi e si diresse tranquillamente verso la fureria, lasciando inebetiti Di Taranto e i suoi. Suo zio era il Gran General Orazio Lojacono, supercomandante speciale delle truppe di terra, di mare, di cielo, di plastica e di carta. Di Taranto fu convocato a Roma d’urgenza dove venne degradato, cacciato dall’esercito e costretto a fare cento giri dell’Urbe nudo e a passo di leopardo. Sulla schiena gli venne applicato un enorme pannello

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sul quale lampeggiava a lettere cubitali: “Avete per caso visto la mia foglia di fico?” Da allora, Di Taranto covava un enorme desiderio di riscatto e aveva cominciato a costituire il proprio esercito privato. Una gehenna dei peggiori malavitosi mercenari di tutto il mondo che lo adorava e gli ubbidiva pedissequamente. Era l’uomo ideale per l’emergenza acqua di Ponte Zocca. Era notte fonda quando Pirotta si ritirò nelle stanze del suo piccolo mansardato. Il sindaco si addormentò serenamente. Con quella squadra di superesperti, pensava mentre si rimboccava le coperte e si augurava la bbonanotte, la questione della zocca sarebbe stata risolta in un battibaleno e lui avrebbe segnato un punto importante da rimarcare durante la campagna elettorale ventura. Intanto, i mercenari di Rocco Di Taranto si schierarono a uovo attorno alla preziosa acqua della zocca, per evitare che qualcuno cercasse di accaparrarsi quello che stava per diventare liquido prezioso, ben più del gutturnio piacentino, dell’acqua santa o del petrolio. La soldataglia, armata di tutto punto, vegliava sull’invaso, mentre Di Taranto comandava la ronda a bordo di un tank russo appena acquistato, a buon prezzo giurava, da un contrabbandiere ungherese. Nel seminterrato del municipio, i Carapellese studiavano la situazione insieme a Gattinoni che, appiccicato a un calcolatore di quattro metri per tre, sfornava dati e statistiche in continuazione. «Marisa mi garantisce che, approvvigionando ogni abitante del comune con cento litri di acqua al giorno, non avremo crisi idriche prima di 134 giorni e mezzo» disse l’idroaerogeologo alzando la testa dopo l’ultimo conteggio. «Chi è Marisa?» chiese Raffaello visibilmente disturbato. «Oh, scusate, non ho provveduto alle presentazioni. Signori, vi presento Marisa, il mio superelaboratore da 1 miliardo di zazzaram di memoria simultanea.» Sorridendo, indicò a due mani il macchinario che sembrò piegarsi in un leggerissimo inchino.

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«Marisa è il computer?» esclamò Michelangelo. «Ehi, Leo, hai sentito? Questo vecchio rimbambito chiama una macchina con un nome da donna. Leeoo! Niente, si addormentato ancora.» Leonardo si svegliò di soprassalto e, completamente stordito, cercò di aprire gli occhi. «Eeeeh?» arrancò. «Niente, niente» disse Michelangelo assestandosi nei pressi della chiusura dei jeans. «Continua pure a dormire. Lo scusi» si rivolse a Gattinoni «da qualche tempo è affetto da una strana letargia continua. Sarà l’età.» «Potrebbe essere anche un virus» disse Gattinoni «ne parlavo giusto qualche giorno avanti con un collega parapsicointernista.» «Oh, non c’è da preoccuparsi» replicò Raffaello. «Il nostro Leo ne ha viste di tutti i colori. Se anche dovesse essere un virus sono convinto che ne uscirebbe più forte e bello di prima.» Raffaello si avvicinò a Leonardo e lo accarezzò dolcemente dietro le orecchie. Michelangelo volle distrarre Gattinoni dal patetico quadretto famigliare che si andava dipingendo. «Stava dicendo, signor geologo?» apostrofò. «Eh? Ah, sì… Dicevo… Dunque, se… secondo i miei calcoli, se distribuiremo cento litri al giorno a ogni persona di Ponte Zocca, avremo circa quattro mesi e mezzo di tempo per cercare una soluzione alla carenza d’acqua. Volendo si potrà, in un secondo momento, anche ridurre la dotazione personale e protrarre l’incontro con il giorno critico. Tutto sommato, direi che sussiste senz’altro una situazione emergenziale ma non siamo ancora alla spasmodica urgenza.» «E qui si sbaglia» disse Michelangelo «come si può considerare non urgente una situazione in cui un paese ha scorte d’acqua per poco più di quattro mesi? Ma lei è cosciente di cosa significherebbe per questa gente restare anche un solo giorno senza acqua? E come farebbero a soddisfare le loro vitali esigenze? Dove andrebbero a recuperare l’acqua necessaria? Qui siamo in mezzo alla campagna, a chilometri e chilometri di distanza dagli abbondanti pozzi della pianura. Io direi che bisogna fare in fretta. Anzi, più in fretta. Vediamo di sforzarci e cercare di capire se esiste un sistema rapido per il ripristino del livello normale di acqua nella zocca.» Prima di tornare a sedersi al tavolo si sistemò il cavallo dei pantaloni con fare nervoso.

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Un silenzio preoccupato calò sulla stanzetta scarsamente illuminata. Solo il soffio sordo di Leonardo scandiva il passare del tempo. La cruda realtà era che non esistevano soluzioni apparenti alla penuria d’acqua della zocca e le previsioni del tempo non lasciavano prevedere salvifiche precipitazioni né nel breve, né nel medio, né nel lungo periodo. Insomma, niente acqua. Nessuno dei superesperti se la sentiva, però, di arrendersi all’evidenza e di affrontare le ire del sindaco Pirotta e di tutti i cittadini. «Se non trovo una soluzione a ’sta menata non mi chiamo più Michelangelo Carapellese» esclamò il più ottimista dei gemelli stropicciandosi la patta. «Qui ci vuole l’estro di Leo!» Ciò detto si avvicinò al rubinetto e riempì una caraffa d’acqua. Poi, si avvicinò alla sedia di Leonardo e sorrise. «Io dico che val bene la pena di sacrificare qualche litro d’acqua per avere la possibilità di salvare il paese dalla sete» e rovesciò tutta la caraffa sulla testa di Leonardo. Per tutta risposta il gemello addormentato fece solo due piccoli sbuffi con la bocca e riprese il suo sonno profondo. «Cazzeruola» protestò «questo qui non si sveglia neanche con le cannonate.» Ritornò il silenzio e si potevano sentire le rotelle di tre cervelli friggere cercando l’idea buona e quelle di un’altra testa dondolare tranquillamente nel bel mezzo di un coloratissimo sogno. Quando finalmente Leo si svegliò rivelò l’arcano. «Stanno ciulando l’acqua.» «Ma ghi? Da dove? Perché? E chemminghia...» Ottavio Pirotta, sindaco, stava per sbroccare. E di fronte a tutta la popolazione radunata a consesso. E Leo, tra uno sbadiglio e l’altro, disse: «Vabbé che non piove, vabbé che non sono più i tempi delle vacche grasse, vabbé che l’acqua che c’è in giro puzza come la merda, però non si asciuga una zocca come la vostra se non c’è qualcuno che si suca l’acqua». «I montesecchesi!» Il popolo fece una sola voce.

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Montesecco era il paese esattamente speculare a Ponte Zocca, sul versante opposto della montagna. Anch’esso aveva una frazioncina rivale che si chiamava Finetubo. Il nome era un progetto. Finetubo era l’ultima vita prima della fine della civiltà. Però portava in dote un grosso vantaggio: era fatto di quattro case prospicienti una grande vallata completamente chiusa ai quattro lati. Era successo che gli abitanti di Montesecco, stufi di pagare fior di denari per gli approvvigionamenti idrici provenienti da Ponte Zocca, si erano, come albionicamente si usa dire, rotti il cazzo. E avevano studiato un sistema ardito ma molto ingegnoso, per sottrarre l’acqua della zocca con gradualità. In modo che i pontezzocchesi non se avessero ad accorgere. E ci erano riusciti. Piano piano, avevano portato l’acqua della zocca da una parte all’altra della montagna e ora la vallata di Finetubo non era più una sterile conca poco vegetata ma uno splendido lago scintillante di vita. Dieci minuti dopo la notizia, il capitano Rocco Di Taranto stava già per muovere guerra a Montesecco e Finetubo. «Gli spezzeremo le reni» ebbe a dire a qualche invaghito collaboratore. Di Taranto non avrebbe mai conosciuto le reni dell’avversario ma avrebbe avuto una chiara cognizione del suo portafoglio, nella figura del sindaco montesecchese Eraldo Papalia, altro terrone da esportazione. Siculo con ascendenze piemontesi e per di più sposato con una sarda... La testardaggine fatta a persona. La campagna acquisti di Papalia era già passata per Gattinoni, che, si deve dire, aveva rapidamente saltato il fosso, quindi per Dertan, che si era prodotto in una pirotecnica “danza delle acque sucate”, e ancora per i Parrucconi, pronti a rappresentare l’esercito illegale di Montesecco. Acquistati in seguito anche Di Taranto e suoi mercenari, solo i Carapellese rimanevano (fino a migliore offerta) fedeli alla causa dei pontezocchesi. L’intento dei montesecchesi era limpido: per anni erano stati succubi dei pontezocchesi, dipendendo totalmente dalla loro grande

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disponibilità d’acqua. Ora avevano girato il coltello e lo detenevano dalla parte del manico. Erano decisamente intenzionati a farne denari. E a far pagare ai pontezocchesi il doppio, il triplo di quello che avevano dovuto sopportare per una vita. Un colpo di mano aveva cambiato le sorti della natura. E ora una autentica disfida era pronta a cominciare. In cima al cocuzzolo della montagna si ritrovarono faccia a faccia Ottavio Pirotta, da Ponte Zocca, molisano, supportato dai compaesani e (per una volta) anche dai frazionari cantacanardi, ed Eraldo Papalia, leader di Montesecco e dei sorridenti beneficiati di Finetubo. Pirotta vs Papalia. Era questa la singolar tenzone. L’aria era calda, gli uccelli si erano zittiti, il vento soffiava a colonna sonora e gli aliti puzzavano di grappa e vinacce varie. Nonu Ciùndul, in cima a un albero guardava con un certo distacco la scena picaresca. «Servìs a ‘n cazzo» biascicò fra sé e sé.

III «Aridamme l’aggua» esordì Pirotta, facendosi sicuro che una frase secca e densa di significato potesse facilmente chiudere la disputa. «Manco ‘na pisciata tinni do» rispose astioso Papalia. E aveva detto tutto. «Ladro de mmerda come tutti ladri de mmerda siede vo’ segghi de Mondeseggo che siede segghi pure dinto ‘o core e pure dinto ‘o pesce che siede talmende segghi che le vosdre donne ve ghiamano pescemordi e vengheno gguà da noi a gercare un bo’ de sollazzo ghe noi ge lo podemo dare dadosi ghe semo più uommini dde voi ghe merde siede e merde rimanede.» Pirotta giocò subito la carta della virilità che, a dire la verità, poco aveva a che fare con l’acqua, ma faceva sempre il suo bell’effetto sull’uditorio che infatti si esibì in un boato da stadio in supporto del proprio campione. Quando si dice che nord e sud vanno a braccetto.

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«Come dite voi a ‘u nord? Femminiello? Ah sì, femminiello.» Già si intuiva il tenore della risposta di Papalia. «Femminiello tu sei e tutti i compari tuoi. Chi autru nun ni putiti fari che cantari, visto che li cugghiuni v’ammancano, e da generazioni, visto che li figghi vostri sunnu sulu sfizi de muntesecchesi che hanno fatto la gentilizza de farisi ‘nu ggiru cu le donne vostre che altrimenti senne stavano a chiangiri disperate a casa vostra.» Tema su tema. La battaglia era aperta. Papalia respirò a pieni polmoni appena toccato pesantemente il tasto sessuale. Pirotta arrossì e decise di cambiare registro. Nonu Ciùndul, dall’alto dell’albero, sorrideva. «Chilo ‘e mmierda» disse Pirotta. «Respira ‘a fitinzìa» ribatté Papalia. «Capo delle cape de gazzo» Pirotta. «A ‘u meno tenemo le minchie, scugghiunatu!» Papalia. «Te sei fottuto l’aggua, ladro de mmerda.» «Me su ripigghiatu l’acqua, ladro de mmierda.» «Mo’ me ridai tuddu quando verosinnò...» Mentre Pirotta stava per spararla davvero grossa, dalla valle arrivò un enorme rumore di sgorgo. Come un grosso lavandino che si stura, come il cesso di Polifemo che finalmente gorgoglia... Improvvisamente fu il silenzio. O meglio, un enorme rutto. Lo sguardo di tutti si voltò in direzione della valle di Finetubo. Con i finetubesi che già piazzavano le gambe in spalla e fuggivano verso casa. Cosa stava capitando? Nel centro del nuovo lago di Finetubo si era creato un enorme vortice. Le acque reflue, recuperate in modo fraudolento dai montesecchesi, se ne stava velocemente tornando alla terra. Qualcosa doveva essere capitato nella valle di Finetubo, qualcosa di inverosimile: una specie di contrappasso... L’acqua se ne stava andando chissà dove, lasciando a secco tanto i pontezocchesi che i montesecchesi (cantacanardi e finetubesi inclusi). Un disastro. Nonu Ciùndul fece i bagagli.

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IV Erano ormai passati quattro mesi dal terribile giorno del “Grande Rutto”, che aveva segnato una tappa fondamentale nella storia di Ponte Zocca, Montesecco, Cantacane e Finetubo. I residenti di entrambi i versanti del Monte Lupo si erano rassegnati a fare lunghe file davanti all’Ipermegamercatone “Sasso Secco”, che faceva affari d’oro vendendo l’indispensabile liquido trasparente in comode confezioni in pvc da 2 litri, 1 litro, mezzo litro e il “quartino”, l’unico alla portata degli utenti dati i costi. Le conseguenze della sparizione dell’acqua dalla valle di Finetubo erano inimmaginabili. A parte il terribile fetore di uova marce che si respirava su entrambe le pendici del Monte Lupo e che si doveva lapalissianamente al deciso calo di docce, bagni e toilette in genere, la cosa più grave era che i bambini venivano tirati su a vino e grappe, infinitamente meno costosi dell’acqua, in maniera da renderli dipendenti all’alcol e refrattari all’H2O, con grande soddisfazione della presidentessa del circolo alcolisti anonimi di Montesecco, la Ritona Frattambelli, che si sfregava ogni mattina le mani prima di cominciare a compilare le tessere dei nuovi aderenti. Vecchi e malati, invece, venivano dissetati rispettivamente a gasolio e benzina, con aumenti esponenziali nelle cremazioni post mortem e un occhio al PIL nazionale. Elena Maria Baciocchelli nacque in un bagno di Braulio.. Si capì che la situazione stava per degenerare quando chiese udienza a Ottavio Pirotta un grossista di amuchina e varechina proponendo il suo nuovo prodotto, la “Diet china”, per la distribuzione nelle fontane e nei distributori pubblici. «È bbona pe’ cucinà, pe’ lavasse e pure paa dieta... Devi vede’ come te strigne ‘o stommico» chiosò il grossista romano al sindaco molisano. La rassegnazione aveva lasciato lo spazio all’azione. Attorno al Monte Lupo, la gente preparava i bagagli. Non c’era altro da fare se non andarsene. E infatti quasi tutti se ne andarono. Il mistero della sparizione dell’acqua dalla valle di Finetubo non fu mai svelato.

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FINALINO Anni dopo, di domenica mattina, una bancarella d’acqua imbottigliata comparve nel centro di Ponte Zocca. Era gestita da cinesi. La Franca Bramaccioli acquistò una delle bottiglie per 24 euro. Tutto sommato un buon prezzo visto che quella dell’Ipermegamercatone costava 36. Era una delle quattro residenti rimaste a Ponte Zocca. A Cantacane erano rimasti in cinque. Più Nonu Ciùndul, che ultimamente si era rivisto in paese dopo una lunga assenza. E, chissà perché, da quando era tornato aveva sempre un gran sorriso sulle labbra... Tra Finetubo e Montesecco c’erano altri sei abitanti. Troppo pochi e con una conoscenza troppo scarsa del cinese. Peccato, perché se avessero saputo leggere la grafia mandarina avrebbero potuto leggere l’etichetta che portava scritto: hai-tu-men-che-doo-sur-ghen-de-fii-nii-tuu-boo. Che significava: H2(un po’ men che)O, sorgente di Finetubo... Finetubo? In Cina? Ma non è che ‘sti cinesi scavando, scavando...

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Pensierino: il ghiro Il ghiro è come mio nonno: dorme sempre. Però il ghiro dorme sotto terra, mio nonno non ancora. Il più acerrimo nemico del ghiro è la sveglia. Il più acerrimo nemico di mio nonno è mia nonna. La differenza tra la sveglia e mia nonna è che la sveglia suona invece mia nonna è suonata. Dormendo così tanto il ghiro sogna moltissimo. Una volta ha sognato di essere un uccellino e ha cominciato a volare e volava, volava. Poi, di colpo, si è ricordato di essere un ghiro, si è addormentato e si è schiantato al suolo di faccia. Da allora russa un po’. Anche mio nonno sogna moltissimo. Anche lui una volta ha sognato di essere un uccellino e ha cominciato a saltare sul letto sbattendo le braccia e volava, volava sopra pianure immense, laghi montani, paesaggi incantevoli. Mia nonna a quel punto gli ha preso le spalle e l’ha svegliato di colpo. Allora mio nonno ha sognato di essere Rocky, le ha tirato una silurata sul naso e l’ha stesa. Comunque lei russava già da prima, eh? Io sono contento che esista mia nonna perché in questo mondo c’è postoper tutti. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...