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1 “Saranno come fiori che noi coglieremo nei prati per abbellire l’impero d’uno splendore incomparabile. Come specchio levigato di perfetta limpidezza, prezioso ornamento che noi collocheremo al centro del Palazzo” Fondata da Nicola Bergamo e diretta da Matteo Broggini www.porphyra.it © 2003-2006 - Associazione Culturale Bisanzio Rivista online con aggiornamenti non rientranti nella categoria dell’informazione periodica stabilita dalla Legge 7 Marzo 2001, n.62. Costantino I 306-337 ANNO II Numero IV Febbraio 2005 Rivista online a cura dell’Associazione Culturale Bisanzio

ANNO II 306-337 Costantino I - Porphyraporphyra.it/porphyra4.pdf · Rivista online con aggiornamenti non rientranti nella categoria dell’informazione ... Divina Commedia ... 115

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“Saranno come fiori che noi coglieremo nei prati per abbellire l’impero d’uno splendore

incomparabile. Come specchio levigato di perfetta limpidezza, prezioso ornamento che noi collocheremo al centro del Palazzo”

Fondata da Nicola Bergamo e diretta da Matteo Broggini

www.porphyra.it

© 2003-2006 - Associazione Culturale Bisanzio Rivista online con aggiornamenti non rientranti nella categoria dell’informazione periodica stabilita dalla Legge 7 Marzo 2001, n.62.

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(foto gentilmente donata da Sergio Berutti)

1. Nota alla nuova edizione

di Matteo Broggini p. 3 2. Editoriale di Nicola Bergamo p. 4 3. Costantino il Grande e la Chiesa: una complessa relazione tra

dogma, diritto e politica di Vito Sibilio pp. 5-22

4. L’arco di Costantino di Carlo Valdameri pp. 23-45

5. Orientamenti bibliografici inerenti Costantino il Grande di Ivan Pucci pp. 46-65 6. I Ciechini di Montecatini Val di Cecina di Antonio Palesati e Nicoletta Lepri pp. 66-71 7. Appendice: Il primo concilio di Nicea (maggio-luglio 325) pp. 72-78

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Prima frase sotto il titolo proviene da : (da Il libro delle Cerimonie Costantino Porfirogenito edito da Sellerio

Editore Palermo a cura di Marcello Panascià)

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NOTA ALLA NUOVA EDIZIONE di Matteo Broggini

Il presente numero di Porphyra, già edito nel febbraio 2005, viene ora riproposto in una versione emendata da errori e incongruenze redazionali e completamente rinnovata nella grafica e nella disposizione dei contenuti. Un grazie sentito alla redazione della rivista, Nicoletta Lepri, Andrea Nocera, Eugenia Toni: senza di loro questo lavoro non avrebbe mai visto la luce. Grazie anche a Nicola Bergamo, infaticabile eparco della nostra città virtuale, per la consulenza grafica. A tutti, buona (ri)lettura.

Milano, luglio 2008

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EDITORIALE di Nicola Bergamo

Correva l’anno 313: Costantino promulga l’editto che consente in tutto l’impero libertà di scelta religiosa. Pochi anni dopo, questo stesso imperatore farà costruire sul Bosforo la sua capitale, la Nuova Roma, e presiederà il primo concilio della cristianità. In tutta la sua carriera politica, un raro talento bellico e un’eccezionale capacità militare gli permettono di essere uno degli ultimi imperatori romani a governare sull’impero unito. Il solido aureo, da lui introdotto, sarà la principale moneta di scambio per tutto l’alto medioevo.

Costantino è dunque figura monumentale, tale da marcare la propria epoca e da condizionare gli sviluppi della storia europea: a lui, vero padre dell’impero romano orientale, è dedicato il presente numero di Porphyra.

Vito Sibilio ne illustra la politica religiosa, soffermandosi sui complessi rapporti con la Chiesa, sulla conseguente definizione del potere imperiale, sullo scontro con le eresie e sulla nuova concezione di una società più cristiana.

Carlo Valdameri dedica il suo studio al monumento che più di ogni altro è legato al nome di Costantino, ovvero l’arco che egli fece erigere nel foro romano: ne sono analizzati la nascita, le diverse componenti architettoniche e le valenze iconografiche.

Ivan Pucci ha invece approntato un ricco repertorio di bibliografia costantiniana, dalla pratica impostazione per nuclei tematici: un utile strumento per chi desideri approfondire i contenuti della rivista.

Un interessante caso di reimpiego medievale di motivi iconici di età costantiniana è infine segnalato da Antonio Palesati e Nicoletta Lepri.

In appendice è riportato, in traduzione italiana, il testo del concilio ecumenico di Nicea del maggio-luglio 325.

Spero sinceramente che questo numero di Porphyra possa aiutarvi a conoscere in maniera più approfondita l’imperatore che fu detto Grande e, fondando Costantinopoli, diede vita all’impero di Bisanzio.

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COSTANTINO IL GRANDE E LA CHIESA: UNA COMPLESSA RELAZIONE

TRA DOGMA, DIRITTO E POLITICA di Vito Sibilio

Come giudicare il rapporto tra Cesare Flavio Valerio Costantino Augusto il Grande, primo del nome (307-337)1 e la Chiesa?2 È un quesito che gli studiosi si sono posti e si porranno sempre, in quanto è difficile ricondurne l’interpretazione ad un solo criterio ermeneutico. Il grande imperatore, cui nell’immaginario comune si deve il connubio più che millenario tra fede e politica, agì su molti livelli e pose le premesse per molteplici, differenti e a volte contrastanti sviluppi.

1. L’impero cristiano.

In una famosa terzina, Dante individuava nel Constitutum Constantini la fonte della corruzione della Chiesa:

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre! 3

A parte l’ovvio rilievo sull’equivoco storico in cui caddero tutti gli uomini del Medioevo, va evidenziato che Costantino, inserendo la Chiesa nel sistema del potere imperiale, non fece niente di rivoluzionario né per la religione né dell’impero.

Quando si stigmatizza che, legandosi allo stato, il cristianesimo abbia tradito le proprie origini, si dimentica che Costantino restaurò quella monarchia di diritto divino, descritta nell’Antico Testamento, in cui il sovrano è unto del Signore e suo eletto.

Ciò è invece posto in evidenza dagli scrittori ecclesiastici contemporanei dell’imperatore: non per propaganda, come spesso si crede, ma per intima coerenza con la propria formazione religiosa. La Chiesa, nuovo Israele, aspettava sin dalle origini di rivivere l’esperienza dell’antico popolo ebraico: le persecuzioni, che duravano da più di tre secoli, erano destinate ad essere provvisorie, e dovevano essere superate nella realizzazione del regno. Tale realizzazione, seppur in ogni caso escatologica, poteva essere intesa tanto in senso estremo, ossia

1 Ampia è la bibliografia sull’imperatore. Cito come esempi: VOGT J., Constantin der Grosse und sein Jahrhundert, Monaco 19602; SAMPOLI F., Costantino il Grande, s.d.; DÖRRIES J., Constantin der Grosse, Stoccarda 1958; PIGANIOL A., L’empereur Constantin, Parigi 1932. 2 Sul rapporto tra Costantino e la Chiesa cfr. tra gli altri ALFÖLDI A., Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Bari 1976; BAYNES N.H., Constantine the Great and Christian Church, Londra 1929; DORRIES H., Constantin and the Religious Liberty, New Haven 1960. 3 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia – Inferno, XIX, 115.

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interpretando alla lettera l’Apocalisse (la liberazione sarebbe venuta con la distruzione di Roma e del mondo) quanto in senso moderato (sarebbero stati distrutti solo i valori del paganesimo).

Nel corso dei tre secoli della sua storia, il cristianesimo aveva imparato ad apprezzare i vantaggi della cultura greco-romana e dell’unificazione dell’ecumene: superando i germi di diffidenza ascetica attestati, tra l’altro, anche nella Lettera a Diogneto, si sviluppavano i semi di realismo politico presenti sin dal magistero apostolico, specie paolino, così da concepire il sogno e il desiderio di un battesimo dell’impero. In questo modo i sentimenti di rancore e di disprezzo espressi nell’Apocalisse erano andati attutendosi e stemperandosi in una sfiducia radicale nei confronti del potere costituito, in attesa di ricostituirlo diversamente.

Ciò che Costantino propose alla Chiesa era quello che la Chiesa stessa era già predisposta ad accettare, non per avidità di potere o per tradimento dei propri principi, ma per esplicitare uno degli aspetti del proprio retroterra spirituale. Il contrasto tra il Christus passus e l’Imperator victor, posti entrambi al vertice della Chiesa, si supera nella dicotomia squisitamente cristiana del Christus passus et gloriosus. Essa trova proprio nel sovrano una delle sue epifanie più significative: Cristo, re e sacerdote secondo il modo di Melchisedek, realizza temporalmente il proprio sacerdozio nell’ordine sacro e la propria regalità nell’impero, anch’esso sacralizzato.

In quanto imperatore, Costantino non ruppe realmente con la tradizione, ma si limitò a modificare i contenuti dello schema che in essa riuniva fede e potere, sacralizzando il secondo. Era dai tempi dei faraoni che i sovrani mediterranei si facevano dèi per affondare nel cielo le radici del potere, perché l’ordine terrestre delle cose rispecchiasse quello ultraterreno; soluzione alternativa a questo problema era lo schema mesopotamico del sovrano mediatore tra gli dèi e l’uomo, presente anche nella cultura ebraica e comune a quella ariana. La teologia del potere era un’esigenza culturale avvertita da sempre, e rispecchia il bisogno legittimo di una fondazione del potere.

Roma era solo l’ultima grande potenza a porre il problema del rapporto tra religio e imperium. Dall’età di Augusto l’ambiguità dei rapporti tra il sovrano e la divinità aveva oscillato tra la soluzione indoeuropea dell’imperatore comes divorum (Ottaviano aveva autorizzato i templi per il suo Genius) e quella egizia, riciclata dall’ellenismo, del monarca dio egli stesso (lo stesso Augusto non aveva disdegnato di farsi divinizzare in vita sulle rive del Nilo). La crisi del potere imperiale, maturata nel III secolo, aveva spinto a cercare una soluzione ideologica nell’ambito delle teologie orientali; Diocleziano aveva superato del tutto la concezione del principato a favore del dominato, incentrando il suo schema di sacralizzazione del potere sull’equazione che faceva infallibilmente dell’imperatore un dio.

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Ma questa soluzione cozzava proprio con il senso comune di cristiani e di alcuni pagani, come i neoplatonici o i mistici, ossia di una parte significativa dell’opinione pubblica imperiale.

La persecuzione dioclezianea fu la conseguenza logica di questa situazione, e la svolta costantiniana l’altrettanto logica mutazione di rotta, che riportò la teologia imperiale nell’alveo ariano, coonestandola con la più ricca e antica tradizione giudaica, proseguita nel cristianesimo.

Lo schema per cui la divinità fonda la monarchia e questa domina in suo nome viene cristianizzato da Costantino, senza alcuna modifica; anzi, con maggiore precisione, in quanto ad un solo monarca in terra corrisponde un solo Dio in cielo. Questo modello di dominato resse Roma non solo fino al tramonto della pars Occidentis nel 476, ma anche fino al crollo di quella Orientis nel 1453; fu inoltre il modello di tutte le monarchie universali e nazionali successive, fino al 1848 in Europa occidentale e fino al 1917 in quella orientale.

Ma come visse Costantino, concretamente, questa esigenza di sacralizzazione del potere? Come divinò la difficile esigenza dei suoi tempi di trovare un nuovo fondamento all’esercizio della sovranità? Sicuramente adoperò – né poteva altrimenti – le sue categorie mentali di romano: esse diedero alle sue suggestioni mistiche – e a quelli dei circoli che gli si radunarono attorno – una veste teoretica salda, trasferendo nell’ambito del diritto delle categorie antropologiche. Considerando la religio come un momento dello ius publicum, egli ritenne normale arrogarsi i poteri di controllo su di essa, non solo perché gli imperatori erano stati tradizionalmente pontefici massimi, ma perché erano la fonte del diritto, almeno dall’età adrianea. Il cristianesimo coonestò questa sua ambizione con l’ideale biblico della teocrazia. E in poco tempo si arrivò alla concezione dell’episkopos tōn ektos, che in qualche generazione si evolvette – senza voler dare al termine necessariamente un’accezione positiva – in quella dell’isoapostolo, o del tredicesimo apostolo.

Nonostante l’imperatore non fosse più divus, nonostante non fosse più invictus come il Sole ma più modestamente victor, nonostante non fosse più raffigurato con la corona radiante ma solo con un nembo, sebbene non si sacrificasse più in suo onore e i templi eretti per lui fossero meri monumenti, l’ideologia del potere di Costantino fu la compiuta, piena realizzazione del sogno del dominato dioclezianeo ed illirico. L’imperatore divenne il vicarius Dei, come era stato prima vicarius Deorum. E fu la concezione che dominò tutte le teocrazie cristiane, impropriamente chiamate cesaropapismi, dall’età carolingia a quella ottoniano-salica, alla impossibile revanche della Casa Sveva e fino allo zarismo.

In quali ambiti si esplicò l’azione di Costantino I in

relazione alla religione? L’imperatore svolse una duplice attività, l’una nel campo giuridico, l’altra in quello dogmatico.

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2. L’ambito giuridico.

In ambito giuridico, non si può prescindere dal cosiddetto editto di Milano del febbraio 313 – che in realtà editto non fu –4 concertato tra Costantino e Licinio (308-324).

Esso diede esecuzione all’editto di tolleranza pubblicato sul letto di morte da Galerio ([293] 305-311) nel 311 (col quale l’antico persecutore dimostrò di aver compreso l’inanità degli sforzi anticristiani e si sforzò di inserire nel pantheon romano anche Gesù Cristo) e servì a risolvere anche dal punto di vista teoretico la questione. I due augusti, dichiarando sin nel preambolo di voler praticare la tolleranza, attestarono di non voler escludere neanche i cristiani dall’esercizio di questa virtù pubblica, allo scopo di procacciare all’impero un’ulteriore benevolenza della summa divinitas: la suprema divinità, cioè, da sempre considerata nel paganesimo la più grande di tutte, oltre che la meno conoscibile.

Questa concezione religiosa era stata di Costanzo I Cloro ([293] 305-306),5 e costituisce la preistoria spirituale di Costantino. Forse per adeguarsi a questa vaga ispirazione monoteista, già dal 306 Costantino, divenuto augusto al posto del padre, aveva emanato un editto di tolleranza.6 Questa spiritualità irenica di una generica iperlatria da tributarsi alla deità suprema si andò poi specificando nel culto del sole invitto; culto che già nell’antico zoroastrismo era stata la manifestazione visibile dell’unico dio supremo, Ahuramazda, principio del bene, e che persino nel remoto Egitto faraonico era stato, sia pure per breve tempo, imposto al recalcitrante pio popolo politeista da Akhenaton.

Costantino si mosse su questa scia, accettando un dio solare sincreticamente esprimibile da più ipostasi divine, e scelse per suo nume tutelare quella dell’Apollo gallico.7 Questa ispirazione era ancora dunque riscontrabile nell’editto di Milano, sebbene Costantino fosse diventato cristiano già dalla campagna contro Massenzio (306-312) nel 312, quando vinse a Ponte Milvio (28 ottobre), avendo avuto il celebre sogno che lo invitava ad assumere come labaro il monogramma cristiano, e della cui storicità non è il caso di dubitare.8 Evidentemente i due augusti, facendo un richiamo alla teologia del sommo dio, pensavano di fornire una cornice ideologica in cui fosse accettabile, anche per i pagani, inserire il nuovo atteggiamento verso la religione cristiana.

Ma l’editto milanese andava molto al di là di questo. La tolleranza di Galerio era stata concessa con rammarico, quella dei due augusti si condiva di raccomandazioni benevole ed energiche ad un tempo, con cui invitavano a restituire

4 Cfr. PALANQUE J.R., A propos du prétendu édit de Milan, in “Byzantinische Zeitschrift” 10 (1935), pp. 607-616. 5 EUSEBIO, Vita Constantini (= EUSEBIO, Vita Const.), 1, 17. 6 LATTANZIO, De mortibus persecutorum (= LATTANZIO, De mort. pers.), 24, 9. 7 Cfr. KARAYANNOPOULOS J., Konstantin der Grosse und der Kaiserkult, in “Historia” 5 (1956), pp. 341-357. 8 LATTANZIO, De mort. pers., 44; EUSEBIO, Vita Const., 1, 27-32.

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gratuitamente alla Chiesa i loca sacra, di cui essa è l’unica legittima proprietaria: chiese e cimiteri, anche se in mano a privati (evidentemente l’esproprio persecutorio era considerato a posteriori un’empietà, contraria al fas e allo ius) dovevano tornare alla comunità, riconosciuta come persona giuridica.

Tali riconoscimenti scaturiscono dalla tangibile potenza della protezione di Cristo esperita dai due imperatori – chiaramente più da Costantino che da Licinio.9 Con questa asserzione pubblica, entrambi danno un chiaro connotato a quel misterioso Dio alla cui protezione Costantino aveva dovuto la vittoria contro Massenzio e nel cui onore aveva omesso le tradizionali cerimonie religiose del suo trionfo in Roma dopo la sconfitta del rivale. 10

Da quanto detto, l’Editto milanese risulta essere un punto di arrivo, specie della legislazione costantiniana, il cui vissuto religioso e la cui esperienza politica contribuiscono decisivamente a tracciare la fisionomia del testo. Peraltro, forte è l’attenzione al culto come fulcro dell’esercizio della libertà religiosa. A Costantino e a Licinio interessa che Dio sia opportunamente glorificato, cosicché si storni dalla terra il suo castigo, scongiurato dal sacrificio rituale. Vi è, in filigrana, ancora una concezione piuttosto superstiziosa della fede, in cui Dio è continuamente da propiziare e da placare. Tra i due augusti, Licinio era più superficiale in relazione al cristianesimo: ancora nella guerra che, di lì a poco, lo contrappose a Massimino Daia (305-312), egli manifesta una fede generica nel sommo Dio, appena temperata da elementi cristiani estrinseci.11 In ogni caso, la vittoria sull’ultimo persecutore – che nell’ultima fase della lotta aveva concesso una tolleranza assoluta ai suoi sudditi cristiani –12 diede a Licinio, nell’autunno del 312, la sovranità su tutto l’Oriente, in cui si poterono estendere i benefici effetti della tolleranza sancita a Milano, almeno fino a quando la rinfocolata ostilità tra i due augusti indusse Licinio a ridimensionarla, temendo che la Chiesa fungesse da quinta colonna costantiniana nel suo dominio.

Nel lasso di tempo che divide l’editto milanese dalla definitiva riunificazione dell’impero sotto lo scettro costantiniano nel 324, quello che è stato definito il primo imperatore cristiano ha peraltro sviluppato in modo coerente un corpo legislativo ispirato alla religione e volto a garantirne la sicurezza.13 Fu ad esempio abolita la marchiatura a fuoco sul

9 LATTANZIO, De mort. pers., 48, 7-9; 11, 45-47. 10 Tali provvedimenti riecheggiavano, del resto, quelli già presi da Costantino nel 312 per la Chiesa africana scrivendo al prefetto Anullino, e la loro finalità era la garanzia dell’esercizio del culto, come già per la questione africana l’imperatore aveva avuto modo di specificare in una lettera a Ceciliano, in cui stanziava una forte somma proprio per esentare il clero da ogni attività lavorativa che lo distogliesse dalle celebrazioni liturgiche. In tal senso si era ancora mosso l’imperatore quando aveva esentato i sacerdoti cartaginesi da ogni ufficio pubblico. EUSEBIO, Historia Ecclesiastica (= EUSEBIO, Hist. Eccl.), 10, 5, 15-17; 6, 1-5; 7, 1-2. 11 LATTANZIO, De mort.pers., 45-47. 12 EUSEBIO, Hist. Eccl., 9,10. 7-11. 13 Cfr. EHRHARDT A.A.T., Some aspects of Constantine’s Legislation, in “Studia Patristica” 2 (1957), pp. 114-121.

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volto dei condannati ad metalla o ai giochi gladiatorii, per l’esplicita motivazione biblica che l’uomo, imago Dei, non può essere sfigurato.14 Inoltre fu riconosciuto ai cristiani il diritto di affrancare gli schiavi in presenza del proprio vescovo; al clero fu persino concesso di farlo verbalmente e senza testimoni.

Ciò sottintende la volontà di fare dei presuli cattolici non solo dei “prefetti in violetto” – per usare anacronisticamente la definizione riservata ai vescovi nel periodo napoleonico – ma anche una fonte di libertà per gli schiavi, considerati dal cristianesimo uomini esattamente come i loro padroni. Concedere poi al clero la facoltà di affrancarli con una procedura straordinaria significava cercare di separare al massimo due istituti – quello sacerdotale e quello schiavile – evidentemente inconciliabili tra loro.15

Successivamente, l’equiparazione del vescovo al procuratore avvenne anche a livello giudiziario. Costantino stabilì che due parti potessero, di comune accordo, adire al tribunale episcopale al posto di quello civile: un privilegio destinato a durare per più di un millennio.16 Evidentemente, per l’imperatore era assurdo che i ministri di Dio, da lui scelti per giudicare in spiritualibus, fossero esclusi dai giudizi in temporalibus.

La legislazione flavia dimostrò inoltre di saper apprezzare i valori cristiani della castità e dell’ascesi, abolendo le leggi contro i celibi e contro coloro che non avevano figli.17

La legge del marzo-luglio 321 rende festivo il primo giorno settimanale, con l’obbligo del riposo per i lavoratori servili e per i magistrati, oltre che con l’invito a promulgare in esso l’emancipazione degli schiavi – all’occorrenza protocollato ufficialmente – e a compiervi opere pie. Il ciclo ebdomadario giudaico-cristiano entra così nella scansione del tempo civile dell’Europa cristiana;18 per nessun’altra fede c’è, nell’impero, una legge analoga. Il tempo profano, che riunifica le azioni del secolo, viene appaltato ad una fede e sacralizzato. Siamo qui ad uno stadio molto profondo della cristianizzazione dell’uomo romano. Per un gesto di altrettanta radicalità, ma opposto e odioso per le modalità in cui maturò, bisogna saltare direttamente alla rivoluzione francese e alla sua sovversione della settimana in decade, e alla sostituzione della domenica col decadì.

Altrettanto privilegiante fu il dispositivo legislativo che permetteva di lasciare qualsiasi cosa in testamento alla Chiesa, anche da parte di un non-cristiano.19

Costantino volle inoltre separare nettamente la tolleranza per i cristiani da quella per i non cristiani. Il cristianesimo era la verità, e andava protetto; ad esempio, dall’ostilità degli Ebrei. E

14 Codex Theodosianus (= Cod. Theod.), 9, 40, 2. 15 Cod. Theod., 4, 8, 1. 16 Cod. Theod., 1, 27, 1. 17 Cod. Theod., 8, 16, 1. 18 Cod. Theod., 2, 8, 1. 19 Cod. Theod., 16, 2, 4.

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così i convertiti ex circumcisione che fossero perseguitati dai loro ex-correligionari erano oggetto di una protezione speciale:20 erano il piccolo resto del vero Israele. Nel maggio 323 inoltre l’imperatore reagì a violenze spontanee compiute contro i cristiani, comminando fustigazione e multa a chi costringesse i fedeli al sacrificio lustrale.21

In questi impianti legislativi il lessico denotativo del cristianesimo (cultus Dei, pia religio ecc.) e quello del paganesimo (superstitio) non lascia dubbi sulla piena adesione dell’imperatore alla nuova fede, che nelle sue premure trovava la nemesi storica di tre secoli di cruente persecuzioni. Lo spazio di libertà del paganesimo è ristretto. E l’ispirazione mosaica della legislazione imperiale è palese nel duplice divieto dell’aruspicina privata (319-320), il cui scopo è il massimo controllo possibile –appunto pubblico – su questa forma di divinazione.22 Siamo sulla scia che porterà Teodosio il Grande (379-395) alla proibizione del paganesimo. Ma per ora Costantino è sinceramente tollerante, anche nella sua veste di pontefice massimo.

Questi dispositivi legislativi scaturiscono senz’altro dalla profonda e progressiva cristianizzazione morale del sovrano, ma sono anche – in una società in cui il potere politico si ipostatizza nel sovrano di diritto divino – la manifestazione di un connubio politico sempre più forte.

La personalità più scialba e meno religiosa di Licinio doveva reagire in senso opposto, traducendo in altri termini religiosi la volontà egemonica che lo accomunava e contrapponeva a Costantino. Tra il primo scontro nel 316 e la definitiva resa dei conti nel 324, Licinio andò coronando di spine lo status di religio licita da lui stesso concesso al cristianesimo nel 313. L’interdizione del culto nelle città e nei luoghi chiusi, l’obbligo di assemblee separate per uomini e donne, il divieto al clero di catechizzare le donne stesse, la proibizione di assistere i carcerati, oltre a casi specifici di esenzione dal servizio militare e di allontanamento dalla pubblica amministrazione furono le meschine misure che Licinio prese capovolgendo la sua precedente politica di reappeasement.23 Ci furono casi di violenze anche mortali su vescovi, e alcune chiese furono demolite nel Ponto, senza che l’augusto orientale intervenisse per fermarli.24

Una volta che ebbe trionfato sul rivale, Costantino rimediò a queste vessazioni con un editto di riparazione25 che tuttavia garantiva ancora ai pagani la libertà di coscienza. La legislazione flavia faceva dell’autodeterminazione spirituale un limite invalicabile della sua competenza: lo stato poteva favorire la

20 Cod. Theod., 16, 8, 1. 21 Cod. Theod., 16, 2, 5. 22 Cod. Theod., 9, 16, 1; 16, 10, 1. Cfr. KARPP H., Konstantins Gesetze gegen die private Haruspizin aus den Jahren 319 bis 321, in “Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft” 41 (1942), pp. 145-151. 23 EUSEBIO, Hist. Eccl., 10, 2; 10, 8, 10-11; Vita Const., 1, 51, 53, 54. 24 EUSEBIO, Hist. Eccl., 10, 8, 13-17. 25 EUSEBIO, Vita Const., 2, 4, 42.

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professione della vera fede, ma non poteva forzare l’adesione ad essa. La fede rimaneva ancora, non solo formalmente ma anche materialmente, un atto di volontà.

E tuttavia le leggi di riparazione furono una restitutio in integrum: sospensione di ogni sentenza dannosa o infamante (come la privazione dei pubblici uffici e la riduzione in schiavitù), restituzione dei beni alle chiese e ai singoli, anche se incamerati dallo stato o se venduti a terzi, e addirittura agli eredi.26 E di lì a poco l’uguaglianza religiosa, faticosamente raggiunta dalla cristianità, viene superata in un primato formale che si configura quasi come una nemesi storica del paganesimo: i funzionari pubblici non cristiani non possono professare esternamente la loro fede, a differenza di quelli battezzati.27

Del resto, se Flavio Costantino dimostrò alta considerazione per il misticismo neoplatonico – affine a quella religiosità del Sommo Dio a cui lui stesso era stato vicino – e deferenza per le antiche famiglie senatoriali, il cui paganesimo era tradizionale, non mancò di presentarsi né come debellatore dell’antica religione né come sovrano che la tollerava solo per i principi di umanità della sua fede.28 E anche nel plasmare la classe dirigente il monarca si rende conto di dover selezionare gente che sia disposta a seguire questa politica: ragion per cui i funzionari nominati sono quasi tutti cristiani. Inoltre prosegue l’osmosi tra episcopato e burocrazia, in quanto Costantino celebra i vicennalia tra i presuli radunati a Nicea e fa pronunciare il panegirico a uno di loro.29

A tale politica di diminuzione sociale del paganesimo si accompagna una serie di misure restrittive: se ai collegi sacerdotali delle divinità tradizionali sono lasciati i loro templi, un numero imprecisato di essi – che sia i cristiani per trionfalismo che i pagani per vittimismo avevano interesse ad aumentare agli occhi dei posteri – viene privato delle rendite o delle immagini, se non raso al suolo. A onore di Costantino va la distruzione dei templi pagani disseminati da Adriano sulle memorie giudaico-cristiane dopo la repressione della rivolta di Bar Kokheba: il Calvario, la casa della Vergine a Gerusalemme, i luoghi dell’infanzia di Cristo e del Battista furono liberati dalle sacrileghe costruzioni e adornate di monumenti. Peraltro, il monarca ha cura di sopprimere forme particolarmente licenziose di culto pagano, specie quelle di Afrodite, o quelle sfacciatamente animistiche come la venerazione del Nilo affidata a una casta clericale di eunuchi, o ancora di contenere le religioni di Cibele e di Mitra.30 Un significato di particolare disprezzo ma anche una chiara intenzione di colpire la potenza economica del culto pagano hanno le requisizioni di oggetti sacri dei templi per adornare la costruenda Costantinopoli. Essa, come

26 EUSEBIO, Vita Const., 2, 30-41. 27 EUSEBIO, Vita Const., 2, 44. 28 EUSEBIO, Vita Const., 3, 66; 2, 44, 48-60. 29 EUSEBIO, Vita Const., 2, 44; 1, 1. 30 EUSEBIO, Vita Const., 3, 26-27; 55-56; 58; 4, 25.

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le sontuose chiese costruite nelle capitali imperiali (Nicomedia, Treviri, Sirmio, Milano) e come le basiliche patriarcali a Roma sulle memorie degli apostoli, rientra in un progetto di sacralizzazione dello spazio e di inserimento dell’impero nell’ordine cosmico voluto da Dio e restaurato in Cristo.

In questa fase di dominio incontrastato, l’imperatore si ispira sempre di più alla religione, e il diritto romano è la forma con cui egli ordina la materia giuridica che può trarre dalla tradizione cristiana:31 il divorzio non è abrogato, il matrimonio rimane un contratto, ma il suo scioglimento diventa più difficile, conformemente all’importanza dell’accordo stipulato; inoltre appare logico vietare il concubinato, che non prevede né sacramento né contratto.

Le unioni degli schiavi sono riconosciute naturaliter simili a quelle dei liberi: due sposi non possono essere divisi tra loro o dai figli in caso di un’eredità ripartita tra più persone.32 In ossequio alla dignità della vita umana vengono aboliti i giochi gladiatori, mentre la proscrizione della crocifissione è un omaggio a Cristo stesso.33

Dopo aver ripromulgato per tutto l’impero i dispositivi legislativi precedenti in ordine al foro ecclesiastico e alla difesa dei neofiti, Constantino fa una puntualizzazione importante: solo i cattolici possono godere di questi privilegi, mentre eretici e scismatici ne sono esclusi:34 alla Verità sola spetta la protezione provvidenziale dell’Impero, mentre coloro che traviano le coscienze non debbono essere certo agevolati, anzi vanno ostacolati.

In quest’ottica va letto il decreto antiereticale pubblicato dopo la sconfitta liciniana: ai novaziani, agli gnostici, ai paoliani e ai catafrigi vengono interdette le adunanze sia pubbliche che private – perché culto non gradito a Dio – vengono confiscati tutti i beni comunitari, vengono sottratte le chiese che vanno restituite ai cattolici, vengono tolti i libri sacri. Rimane loro solo la libertà di coscienza, nonostante un monito generico per la conversione al cattolicesimo.35 Soltanto ai novaziani, in virtù della loro adesione al Simbolo niceno, l’imperatore lascia chiese e cimiteri,36 sperando di ricucirne lo scisma.

3. L’ambito dogmatico.

Se la valutazione dell’operato costantiniano in campo

legislativo non può essere che univoco e positivo (almeno per chi veda nella cristianizzazione del diritto un progresso dell’humanitas classica, e riconosca nel connubio tra impero e fede una tappa significativa del cammino verso le forme future

31 Cfr. sull’arg. DORRIES, Constantin..., cit., pp. 82-84; 197-199; 203. 32 Cod. Theod., 9, 7, 2; 3, 16, 1; 2, 25, 1; Codex Iustiniani, 5, 26, 1. 33 Cod. Theod., 15, 2, 1; SOZOMENO, Historia Ecclesiastica (= SOZOMENO, Hist. Eccl.), 1, 8, 13. 34 Cod. Theod., 16, 5, 1. 35 EUSEBIO, Vita Const., 3, 64-66. 36 Cod. Theod., 16, 5, 1.

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della civiltà), più complesso è il giudizio sul modo in cui il fondatore della seconda dinastia Flavia ingerisce in interna corporis della Chiesa, spontaneamente o indottovi a forza.

3.1. Lo scisma donatista.

Il primo caso affrontato è lo spinoso scisma donatista,37 (dal nome del massimo teorico della disputa, il presule africano Donato).

L’occasione venne dalla valutazione di un traditor, di chi cioè aveva, durante la persecuzione dioclezianea, consegnato i Libri sacri e sacrificato agli dei, ottemperando ai decreti imperiali. Nel 312, alla morte del vescovo cartaginese Mensurio, il popolo e il clero scelsero come successore Ceciliano; questi però era fortemente avversato dai donatisti perché, quando ancora era diacono, aveva umiliato uno dei loro più influenti capi, rimproverandolo aspramente per il culto fanatico dei martiri. Per impugnarne l’elezione, i donatisti obiettarono a Ceciliano un presunto difetto nella consacrazione, compiuta tra gli altri dal vescovo Felice di Aptungi, che era stato appunto traditor.

Questa obiezione trovò terreno fertile non solo nella particolare sacramentaria africana, ma anche nella malcelata ostilità dell’episcopato numida verso la sede primaziale cartaginese: il vescovo di Tigisi Secondo, inferiore di rango solo a Ceciliano, radunò un Concilio di settanta vescovi che, in linea con la tradizionale autonomia della Chiesa della Proconsolare, risolse la questione in modo sfavorevole a Ceciliano, che fu deposto e rimpiazzato prima da Maiorino e poi da Donato stesso nel 313.

Un nodo della questione era certo il trattamento da riservare agli apostati pentiti: i rigoristi oscillavano dalla volontà di escluderli per sempre dalla Chiesa alla richiesta di umilianti e prolungate penitenze, che comportassero soprattutto la riduzione allo stato laicale; i moderati si accontentavano di imporre una congrua riparazione.

Questo nodo non era però l’unico: sullo sfondo si agitava la questione classica della teologia sacramentale africana, la validità del sacramento ex opere operando e non ex opere operato (come nela teologia romana prima e universale poi). Tale questione era particolarmente importante proprio perché molti vescovi, presbiteri e diaconi erano stati traditores.

Costantino fu precocemente informato sugli sviluppi della crisi ecclesiastica africana da Osio di Cordova, il vescovo consigliere imperiale fino al Concilio di Nicea. L’imperatore non comprese certo la portata dogmatica della disputa – le sottigliezze teologiche non furono mai il suo forte – ma si avvide della sua pericolosità disciplinare, e ne valutò la portata in relazione alla confusione in cui era caduto il culto liturgico. Egli

37 Cfr. sull’argomento GRASMÜCK E.L., Coercitio. Staat und Kirche im Donatistenstreit, Bonn 1964.

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scrisse dunque a Ceciliano, riconoscendolo quale vescovo legittimo e offrendogli l’ausilio delle truppe imperiali per il ripristino dell’ordine, considerando così i donatisti dei semplici – e pericolosi – perturbatori della pace pubblica.38

I donatisti accusarono il colpo e scrissero al stesso sovrano tramite il prefetto Anullino, spiegandogli il proprio punto di vista e domandando di essere giudicati da un tribunale imparziale ed esterno, formato da vescovi gallici.39 L’imperatore accettò: una decisione questa in linea con la tradizione ecclesiastica, solita affrontare le questioni rimaste irrisolte in un sinodo interprovinciale in una assise ancor più prestigiosa.

Costatino deferì questione al papa, l’africano san Milziade (311-314), incaricandolo di allestire un tribunale con presuli gallici. Il pontefice, mostrando autonomia di giudizio, allargò la commissione – che Costantino aveva composto, oltre che col papa, coi vescovi di Autun, Colonia e Arles – ad altri quindici presuli italiani. Dinanzi a questa assise, secondo i deliberati imperiali, dovevano costituirsi dieci ceciliani col loro capo e dieci donatisti. I decreti sinodali dovevano appurare se Ceciliano avesse rispettato la tradizione ecclesiastica facendosi consacrare da un traditor pentito, e sarebbero stati vincolanti per tutti.40

Il comportamento di Costantino verso il papa è significativo: il pontefice è sì autonomo, ma in seno all’impero, che è il guscio protettivo della Chiesa. È lo stesso rapporto sussistente tra la statio principis e quella del sommo pontificato pagano, con la differenza che due magistrature, prima appartenute ad una sola persona, nel nuovo ordinamento romano-cristiano erano per forza scisse.

Chiamando Milziade a presiedere il tribunale da lui istituito con presuli gallici in base alla richiesta degli appellanti, che però del pontefice non avevano fatto menzione, l’imperatore mostrava dunque di non voler prescindere dal primato petrino e, accettando che Milziade ampliasse il tribunale in un sinodo, gli riconobbe autodeterminazione nella scelta dei mezzi di giurisdizione.

Ma i donatisti si appellarono contro la sentenza, che fu di assoluzione per Ceciliano e di condanna per Maiorino e Donato. Sia Milziade che Costantino furono irritati dall’ostinazione donatista. Il papa offrì la comunione canonica ai vescovi dissidenti, perché non corressero il rischio di perdere la sede ma anche per isolare Donato. L’imperatore si risolse a convocare ad Arles (estate 314) un sinodo di tutti i vescovi occidentali.41

Il primo agosto il sinodo, presieduto da Marino di Arles e organizzato da Cresto di Siracusa, si aprì. Milziade era morto, e il nuovo papa, san Silvestro (314-335), inviò una piccola delegazione a rappresentarlo, non volendo lasciare Roma dopo la

38 Lettera in VON SODEN H., Urkunden zur Entstehungsgeschichte des Donatismus (=SODEN), Berlino 19502 , n. 8. 39 SODEN, nn. 10-11. 40 SODEN, n. 12. 41 SODEN, nn. 14, 15, 18.

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sua elezione. La sentenza di Arles confermò praticamente quella romana, e i Padri conciliari chiesero a papa Silvestro, con una deferente lettera, di comunicare i deliberati sinodali a tutto il mondo cristiano. Il primato non era in discussione: l’imperatore stesso, nel convocare un concilio più ampio dopo un appello per vizio procedurale, non aveva affatto disprezzato la decisione papale, ma seguito una prassi ovvia giuridicamente e conforme alla tradizione ecclesiastica.

I donatisti però non si sottomisero al concilio. L’imperatore allora intervenne personalmente, ma non ebbero effetto né il divieto ai donatisti di lasciare Arles per l’Africa, né il tentativo di sostituire Ceciliano con un nuovo vescovo, né le minacce di scendere personalmente in Africa per risolvere la questione.42 Non gli restò che scoprire le carte (316) dichiarandosi fautore di Ceciliano,43 e prendere duri provvedimenti contro i donatisti (317): gli furono tolte molte chiese e i loro vescovi furono obbligati all’esilio.

Erano misure coerenti col diritto canonico, ma troppo simili a quelle delle ancora recenti persecuzioni, e crearono nei donatisti solo una forte vocazione al martirio. Nemmeno l’esercito li ridusse alla ragione, in quello che fu il primo caso di uso delle truppe statali per un obiettivo religioso.

Alla fine Costantino si ritirò dalla lotta. Fu una sconfitta per la sua politica ecclesiastica, ma anche una traccia segnata per il futuro: gli scismi non sarebbero stati più una semplice lacerazione della Chiesa, ma anche una questione politica. Solo che il significato di quest’ultimo aggettivo copriva una gamma di significati molto vasti, che potevano andare da un nobile interesse per la religione che costituiva la sostanza etica dello stato e della società, fino a un deprimente asservimento delle cose spirituali alle strategie del potere.

3.2. La controversia ariana.

Una prima avvisaglia di tutto questo si ebbe proprio con la controversia ariana.44 Non è certo questa la sede per ripercorrere le fasi della formazione della cristologia eterodossa di Ario. Basti ricordare che essa, aumentando drasticamente il tradizionale subordinazionismo della dogmatica trinitaria, creava una cesura tra l’essenza del Padre e quella del Figlio e vanificava il valore dell’Incarnazione e della Redenzione, che non erano più opera di Dio. L’eresiarca alessandrino mostrava la necessità di chiarire la questione cristologica, da tempo esposta alle incursioni dei più svariati pensatori.

Chiaramente la cristologia evangelica – in primis giovannea – non poteva accordarsi con quella ariana: l’idea di

42 SODEN, n. 23. 43 SODEN, n. 25. 44 Cfr. tra gli altri sull’arg. DE URBINA L., La politica di Costantino nella controversia ariana, in “Studi Bizantini e Neoellenici” 5 (1939), pp. 284-298; IDEM, Nicée et Costantinople, Parigi 1963; SIMONETTI M., La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975.

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una Sapienza creata prima di ogni altra creatura non si addiceva ad un Verbo che in principio era presso Dio e Dio egli stesso. Già Giovanni aveva, nel suo prologo appunto, fatto una cernita delle dottrine sapienziali che potevano essere adattate a Cristo – come quella che ne faceva il mezzo della Creazione – e di quelle che andavano appunto rigettate – come la sua creazione nel tempo. La terminologia filoniana adoperata dal quarto evangelista era usata con un significato molto diverso da quello che aveva negli scritti del filosofo alessandrino. E già la modesta cristologia dei primi secoli aveva concesso abbastanza alla cultura extrabiblica accettando al distinzione tra logos endiathetos e proforikos. Ora l’eresia di Ario spezzava la corda, tesa da secoli, e passava all’estremo opposto del modalismo, che quella cristologia subordinazionista precedente aveva voluto sempre scongiurare.

Su questo troncone teologico, aggrovigliato e complesso, si sarebbe innestato il dibattito di politica ecclesiastica e civile, da cui lo stesso Costantino, sensibilissimo al tema dell’unità cattolica ma di certo incapace di comprendere le implicazioni dogmatiche della discussione in tutta la loro ampiezza,45 sarebbe stato irretito.

Quando l’imperatore fu informato della disputa, Ario aveva già collezionato un arbitrato sfavorevole del suo vescovo Alessandro, la sua scomunica e la rinnovata condanna di un concilio generale della sede alessandrina nel 319.46 Il fatto che l’eresiarca si fosse messo sotto il patrocinio dei due Eusebi – vescovi di Nicomedia e di Cesarea – aveva inasprito la contesa, condendola delle gelosie ecclesiastiche di cui l’epoca era ricca. Certo che il conciliabolo bitino di Eusebio di Nicomedia spalleggiò lo scomunicato caldeggiandone l’assoluzione, mentre la sua autodifesa continuava imperterrita.47 Di rincalzo Alessandro continuava a contestarlo, informando anche papa Silvestro.48

Costantino inviò una lettera ad Alessandro e ad Ario per tramite di Osio di Cordova, il suo già ricordato consigliere ecclesiastico. Ma il tenore della missiva, che invitava ad un accordo, era sproporzionato alla posta in gioco, e Osio, una volta giunto ad Alessandria d’Egitto, se ne rese conto: era impossibile far cessare ogni discussione sull’argomento, come voleva l’imperatore.

Alessandro persuase Osio della necessità di una soluzione della controversia dogmatica; il legato imperiale tornò a Nicomedia, allora sede del sovrano, senza aver nemmeno potuto incontrare Ario e con una netta propensione per la fazione ortodossa.49

45 Cfr. ad es. OPITZ G.H., Urkunden zur Geschichte des arianischen Streites (318-328) = Athanasius, Werke III, 1 (=OPITZ), Berlino 1934, n. 17. 46 OPITZ, nn. 1, 2, 4b. 47 OPITZ, nn. 3, 6, 7. 48 OPITZ, nn. 11, 12, 14, 15, 16. 49 OPITZ, n. 18.

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Costantino alla fine si convinse che la disputa poteva risolversi solo con un concilio di tutti i vescovi, che pronunziasse una sentenza vincolante. La prassi ecclesiastica aveva da sempre favorito queste decisioni collegiali; tuttavia un’adunanza di tutti i presuli dell’ecumene non si era mai realizzata, anche a causa del regime di precarietà giuridica della Chiesa nei primi secoli di vita. L’unico precedente in tal senso era il concilio neotestamentario di Gerusalemme.

Costantino però non innovava in senso assoluto: altri sinodi erano stati radunati sulla questione cristologica. La vera novità stava nella sua scelta di arrogarsi la potestà di riunire i vescovi: non negoziò con nessuna autorità ecclesiastica questa riunione, tantomeno col papa. Così aveva del resto agito anche per il sinodo di Arles, e papa Silvestro – la cui personalità era troppo scialba per competere col grande sovrano – non aveva motivo per dolersi della decisione imperiale, anzi dovette considerarla ottima.

Costantino fissò la sede sinodale a Nicea in Bitinia, e ordinò che nel maggio del 325 i presuli vi convenissero servendosi dei mezzi pubblici di trasporto. Durante la loro permanenza sarebbero stati ospiti del sovrano.50 La grande assise radunò trecentodiciotto presuli, il cui numero permise poi una mistica equiparazione con i servi di Abramo.51 In essa la presenza di confessori come Paolo di Neocesarea e di Pafnuzio diede assoluto prestigio alla discussione, peraltro guidata sapientemente dalla minoranza che già aveva preso posizione contro Ario, sotto l’egida di Alessandro di Alessandria e di Eustazio di Antiochia, di Marcello di Ancira e di Macario di Gerusalemme.52 Un ruolo importante ebbero i periti di questi presuli, come Atanasio di Alessandria, diacono di Alessandro, che più volte prese la parola e che va considerato la vera mente del sinodo.53 All’opposizione Eusebio di Nicomedia, vescovo della capitale dell’impero, già collucianista, e poi – come abbiamo visto – protettore di Ario dopo la scomunica di Alessandro, e Eusebio di Cesarea, mediocre teologo ma retore abilissimo che si conquistò la fiducia dell’imperatore. Attorno a questi due partiti si disposero quei dotti laici che da subito avevano con calore abbracciato la disputa e che andarono ad assistere alle sedute conciliari.54

A questa disputa più greca che latina l’Occidente partecipò con soli quattro vescovi, per la sua estraneità a questo dibattito e per le difficoltà del viaggio. Osio di Cordova, presidente dell’assemblea, Ceciliano di Cartagine e altri due colleghi rappresentavano tutto l’episcopato latino, assieme ai due legati

50 EUSEBIO, Vita Const., 3, 6. 51 Cfr. AUBINEAU M., Les 318 serviteurs d’Abrahan et le nombre des Pères au Concile de Nicée, in “Revue d'Histoire Ecclésiastique ” 61 (1966), pp. 5-43. 52 Cfr. SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 2. 53 TEODORETO, Historia Ecclesiastica ( = TEODORETO, Hist. Eccl.), 1, 11, 4.5; SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 3; 1, 17, 7-18; 1. 54 TEODORETO, Hist. Eccl., 1, 11, 4.5; SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 3; 1, 17, 7-18; 1.

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pontifici, Vito e Vincenzo, che rappresentavano il troppo anziano Silvestro.55

Nonostante uno sfondo di intrighi, a cui l’onestà di Costantino non diede alcun seguito,56 il dibattito – a tratti duro e sempre serrato – si sviluppò attorno alla questione dottrinale in modo netto. Gli ariani cercarono di far passare subito un simbolo che veicolasse le loro convinzioni, sdegnosamente respinto dagli ortodossi; Eusebio di Cesarea propose invece un Credo, quello della sua diocesi, che tutti giudicarono corretto, anche se apparve opportuno introdurvi correttivi antiariani.57 La correzione fondamentale venne dal termine omoousios, inaccettabile per gli ariani e per alcuni ortodossi, perché ne ricordavano l’uso monarchiano di Paolo di Samosata biasimato (ma non condannato) dal II Concilio di Antiochia (268). Il termine poteva tuttavia interpretarsi come perfettamente ortodosso, distinguendo la consustanzialità dalla identità personale, secondo la lezione atanasiana e la tradizione romana, espressa da papa Dionigi (259-268) già prima del concilio antiocheno. E infatti i latini furono i più entusiasti fautori della terminologia proposta, che era la traduzione greca del lessico trinitario della patristica occidentale da Tertulliano in poi. Lo stesso Costantino, latinissimo – aveva parlato in questa lingua ai padri conciliari – caldeggiò l’uso del termine e perorò presso i greci la causa di una sua retta, univoca e vincolante interpretazione.58

La compattezza della grandiosa teologia dogmatica di Atanasio s’impose all’assemblea nicena, e l’idea che la divinità fosse solo dell’Esse ingeneratum, propria di Ario, fu riconosciuta pagana, e sostituita da quella evangelica che la trasmette dal Padre al Figlio e poi allo Spirito.

La teologia di Nicea ha avuto il pregio di sintetizzare opposti impossibili: l’unità divina e la pluralità delle ipostasi o persone:59 Costantino stesso, sedotto dalla forza intellettuale del Credo niceno, lavorò senza soste per l’adesione di tutti i presuli alla sua dottrina. I soli Ario, Secondo e Teonato non la sottoscrissero e andarono in esilio; alcuni presuli però chinarono il capo solo per timore della corona e continuarono (tra di loro Eusebio di Nicomedia e Teognide di Nicea) a parteggiare per l’eresiarca caduto. Risolto anche il secolare problema della data della Pasqua, fissata alla domenica dopo il 14 nisan, il concilio si sciolse solennemente.

Ma Costantino mutò presto posizione rispetto al dogma niceno. Dapprima esiliò e sostituì con presuli ortodossi Eusebio di Nicomedia e Teognide di Nicea, che avevano presto ritrattato

55 SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 2. 56 SOZOMENO, Hist. Eccl., 1, 17, 4-5. 57 OPITZ, n. 22, 4.7. 58 OPITZ, n. 22, 7; EUSEBIO, Vita Const., 13, 3. 59 Non a caso, dando un’idea dinamica della fissità divina, ha avuto i caldi elogi di un idealista come Guido De Ruggiero che peraltro ha acutamente denunciato la ragione che rese impossibile una conciliazione anche coi semiariani: era essa stessa infatti una teologia compromissoria, che ben rendeva intelligibili i contorni del dogma più alto, quello per cui Dio è uno e molti insieme. Cfr. DE RUGGIERO G., Storia della Filosofia, III, Bari 1920, pp. 260-271.

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la firma al Credo niceno;60 in seguito tuttavia richiamò Eusebio di Nicomedia dall’esilio, spinto dalla cortigiana influenza di Eusebio di Cesarea – coonestata dall’ingenuo parere della madre dell’imperatore, Elena, ammiratrice di quest’ultimo – e della sorellastra Costanza.61 Reintegrato nelle sue funzioni, il metropolita imperiale fu abile nell’ostentare deferenza per i deliberati niceni e nel dispensare veleno contro i loro fautori: con una procedura tipica del clima torbido dei dispotismi al crepuscolo, Eusebio plagiò l’imperatore accusando di immoralità, litigiosità e irriverenza verso Elena il suo rivale Eustazio di Antiochia, la cui penna affilata aveva sarcasticamente commentato le azioni di Ario e ora stigmatizzava l’opportunismo politico del vescovo di Nicomedia.

Eustazio fu deposto in un conciliabolo ad Antiochia (331 ca.), ai cui anatemi Costantino aggiunse l’esilio in Tracia.62 Ben presto la condanna toccò ad altri otto vescovi, mentre Eusebio cominciava a manovrare contro Atanasio, ora vescovo di Alessandria. È curioso osservare con quale facilità l’imperatore abbia prestato fede alle accuse contro di lui: l’assassinio del vescovo Arsenio in qualità di fautore dello scisma di Melezio – presule ordinato senza il consenso del metropolita alessandrino ma perdonato a Nicea – la fustigazione di altri presuli suoi fautori, la profanazione di un calice sono accuse chiaramente denigratorie.

Forse il dispotismo alterò nell’imperatore la percezione della realtà: certo è che egli accolse alla propria corte Eusebio, nemico giurato della sua politica dogmatica, ne fece il proprio consigliere, al posto di Osio di Cordova, e lo assecondò nella demolizione del partito fautore del Credo niceno. Il primo imperatore cristiano divenne, almeno nei fatti, anche il primo fiancheggiatore dell’eresia. Probabilmente, constatando come il concilio non avesse sanato i contrasti, era tornato alla primitiva valutazione superficiale della controversia, sotto il fatuo influsso di Eusebio di Cesarea, e cercava un nuovo compromesso nel semiarianesimo.

In ogni caso, l’imperatore accolse le accuse contro Atanasio e lo deferì al concilio di Tiro (335), dove tutti i prelati (e persino il suo delegato Flavio Dionigi) erano ariani. Atanasio non poteva naturalmente sperare in un giudizio equo e, forse temendo la morte, fuggì a Costantinopoli.

Costantino non volle però riceverlo; l’indomito vescovo lo avvicinò allora durante un’uscita a cavallo, denunciando i fatti di Tiro, dove frattanto era stato deposto in contumacia. L’imperatore allora convocò a sé i presuli di Tiro: solo quattro, tra cui i due Eusebio, si presentarono, accusando Atanasio di sabotare i rifornimenti di grano egiziano a Costantinopoli. Evidentemente però il campione dell’ortodossia nicena risultava

60 OPITZ, nn. 27. 28. 61 FILOSTORGIO, Historia Ecclesiastica, 2, 7. 62 TEODORETO, Hist. Eccl., 1, 21, 4-22.

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scomodo: data la natura palesemente strumentale dell’accusa mossagli, non fu condannato a morte ma solo esiliato.

Se Ario fosse vissuto ancora nel luogo del suo esilio, avrebbe fatto in tempo ad essere riabilitato. Costantino, che ancora nel 333 lo aveva condannato,63 nell’anno successivo lo aveva incontrato a corte dopo averlo ripetutamente invitato.64 L’eresiarca gli presentò una professione di fede elusiva che diede all’imperatore il destro per aprire la procedura di riabilitazione, da sancire in un sinodo gerosolimitano che però non si compì per la morte dell’imputato.65 Tuttavia il concilio fece in tempo a chiedere l’assoluzione e la reintegrazione nel presbiterato dell’eresiarca, prima della sua morte, adducendo come pretesto proprio la nuova professio fidei.

Di lì a poco morì anche l’imperatore, senza dubbio entrato in una fase mistica dopo il battesimo, ma certamente tutt’altro che consapevole degli esiti della sua contraddittoria politica, che anticipa tutte le opzioni dispotiche che poi i sovrani bizantini svilupparono nei secoli.

Il modello di comportamento sancito a Nicea per affrontare le crisi dogmatiche fu duraturo: confutazione degli errori, precisazione e ampliamento delle formule dottrinali contestate, uso appropriato del lessico filosofico. Inoltre con la difesa del Simbolo niceno la Chiesa dimostrò che l’abbraccio con l’impero non l’aveva anestetizzata, ma che sapeva difendersi ancora all’occorrenza. La prosecuzione della lotta sotto Costanzo II dimostrò sia le possibilità di perversione del rapporto stato-Chiesa insito nel sistema costantiniano sia la possibilità di indipendenza morale della Chiesa stessa.

Creando un modello di relazioni tra impero e sacerdozio, Costantino fornì per un millennio scarso le coordinate in cui impostare il problema. Nelle controversie cristologiche e trinitarie successive gli ortodossi poterono contestare il ruolo dei singoli imperatori ma non delegittimarlo per principio. Per arrivare a questo ci vorrà la mente geniale di Gregorio VII, e bisognerà che oapato e impero litighino fino al ‘200 per affermarla definitivamente, facendo della libertà della Chiesa un principio della spiritualità cattolica e un cardine della civiltà occidentale, anche nella sua versione laica. Per contro, la legislazione imperiale creò un precedente autorevolissimo per la cristianizzazione del diritto, e segnerà profondamente il modo di concepire la libertà di coscienza, di religione, il diritto di famiglia, quello penale, e quello di successione, assegnando alla Chiesa un posto di preminenza che l’ha aiutata non poco a formare l’anima dell’Occidente. Giudicare tutto ciò alla luce delle moderne categorie di pensiero sarebbe assurdo e ingiusto. Inoltre Costantino, con certe scelte – come la sacralizzazione dei

63 OPITZ, n. 33, 4. 64 SOCRATE, Historia Ecclesiastica, 1, 25. 65 SOZOMENO, Hist. Eccl., 2, 27, 7 sgg.; 13-14; ATANASIO, Apologia contra Arianos, 84; IDEM, Epistola de morte Arii ad episcopos Aegypti et Libyae, 19.

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conflitti – creò le premesse per le forme materiali della pietà di moltissimi secoli a venire.

Questo imperatore può a giusto titolo essere considerato il genio politico che congiunse la più veneranda eredità di civiltà classica alla forza più giovane che trainava il mondo verso il futuro, che ancora continua.

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L’ARCO DI COSTANTINO di Carlo Valdemeri

Finalità di questo studio è esporre alcune considerazioni sulle ragioni simboliche che portarono ad ornare l’arco trionfale dedicato a Costantino a Roma con sculture prelevate da monumenti più antichi, eretti in onore di precedenti imperatori. Per raggiungere questo fine, non si potrà tuttavia prescindere dal dare informazioni, per quanto possibile sintetiche: - sul simbolismo degli archi di trionfo; - sulla storia, sulle forme e sull’iconografia dell’arco di Costantino; - sui riferimenti religiosi ed ideologici degli albori del dominato e sulla loro espressione nelle forme dell’arco; - sull’adattamento delle cerimonie tradizionali alle nuove caratteristiche dello stato romano; - sui significati iconografici dei rilievi reimpiegati nell’arco di Costantino; - infine, sul simbolismo che questo riuso acquistava nel nuovo contesto cerimoniale.

1. Il significato degli archi di trionfo.

1.1. La concezione antica dell’immortalità.

Il contesto ideale e simbolico che giustificava, e allo stesso

tempo chiariva, il significato di strutture come gli archi trionfali era espressione di concezioni del mondo e della vita fortemente presenti nella cultura romana, e non solo.

Era infatti idea comune al mondo pagano che quanto vive sulla terra avesse inevitabilmente un inizio, una giovinezza, un declino e una fine. A questo destino era sottoposto ogni essere vivente - uomo compreso- ed ogni sua opera materiale.

A differenza degli esseri terreni, le divinità vivevano in una dimensione “celeste” (cielo inteso non come luogo infinito, ma bensì ben identificabile e definito), non condizionata da fattori come tempo e spazio: esistendo in una sorta di eterno presente, essi non potevano che essere immortali. Non a caso, i nomi degli dei erano quelli degli astri che, per il fatto stesso di essere presenti in cielo e di percorrerlo con cicli immutabili, rendevano l’idea stessa della perennità e di un’alterità rispetto alla dimensione terrena.

In questa prospettiva, l’unica possibilità per gli uomini di sopravvivere alla morte consisteva nel prolungare la propria vita sotto forma di “presenza” nella vita e nel ricordo dei contemporanei e delle generazioni successive.

Era quindi fondamentale tramandare il ricordo delle imprese – appunto – memorabili, ma anche il perpetuarsi del

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culto stesso degli antenati, ecc.. Espressioni di questa concezione della vita furono, ad esempio, la grande tradizione ritrattistica ma anche storiografica del mondo classico.

Nella mentalità degli antichi, risultava poi evidente che alcune imprese, per la grandezza e la fama che derivava a chi le compiva, avrebbero meritato imperituro ricordo nelle generazioni future. L’autore delle gesta, quindi, acquisiva aspetti di divinità, poiché grazie ai propri meriti, il suo spirito sarebbe sopravvissuto al limiti di tempo e di spazio concessi all’esistenza umana.

Ciò è particolarmente chiaro in ambito romano, considerando ad esempio processi quali la consecratio: la ratifica cioè – determinata da un formale atto del senato – dello status divino attribuito agli imperatori – ma non solo ad essi – dopo la loro morte.66

Per altro, occorre aggiungere che, particolarmente sotto l’influsso di concezioni orientali, anche presso i Romani progressivamente si accentuò la tendenza a ritenere che uomini di speciale e particolare eminenza, quali erano i detentori di dignità imperiale, progressivamente “assorbissero” la condizione divina nel corso della propria esistenza terrena.67

1.2. Gli archi di trionfo come espressione simbolica. Che relazione esiste tra quanto appena riferito e gli archi di

trionfo? Ebbene gli archi di trionfo rappresentano null’altro che la celebrazione monumentale ed ideale dell’accesso del personaggio trionfante alla dimensione dell’immortalità. Per questo sugli archi sono sovente rappresentate – o citate in

66 MaC CORMACK S., Arte e cerimoniale nella tarda antichità ( = MaC CORMACK, Arte e cerimoniale),Torino 1995, pp. 141 sgg. 67 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 141–156. Come indicato dall’autrice, l’iconografia solitamente impiegata per illustrare la consecratio mostra il princeps innalzato al cielo sul dorso di un’aquila o sul cocchio del sole.

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iscrizioni – le imprese (spesso belliche, ma anche pacifiche) che hanno permesso al personaggio in questione di essere celebrato: in definitiva, l’arco stesso è da considerarsi la “porta” che il personaggio simbolicamente è riuscito ad attraversare, superando la dimensione del contingente.68

In questo senso, la porta–arco trionfale è un’espressione del tema della “porta del cielo”, perché il trionfatore, tramite essa, simbolicamente accedeva alla dimensione propria degli dei celesti. Prova ne sia la presenza, al di sopra degli archi trionfali, della statua dorata del personaggio celebrato, nell’atto di innalzarsi al firmamento su una quadriga trainata da cavalli.69 Il trionfatore accedeva così al cielo proprio come Apollo, l’astro del sole, vi accede ogni giorno guidando la propria quadriga nel suo cammino perenne e immutabile.

A ciò va aggiunto che a Roma i più importanti archi

trionfali furono eretti lungo il percorso che il personaggio celebrato compiva salendo al tempio di Giove in Campidoglio: la salita e l’omaggio a Giove rappresentavano in termini simbolici l’accesso al cielo di chi si era mostrato degno del favore divino.70

68 Cfr. GUENON R., I simboli della scienza sacra. Milano 1975, pp. 305 – 308. In riferimento agli archi di trionfo romani: «Questi edifici, come è noto, avevano un valore sacrale ed erano delle puerta del sol. La bellezza particolare dell’arco di trionfo proviene dal fatto che esso è una porta allo stato puro, una porta che si apre sul vuoto, ma un vuoto che è in realtà il mondo stesso e tutto lo spazio del cielo. Non è possibile immaginare un simbolo più adeguato della “porta celeste”». Cfr. HANI J., Il simbolismo del tempio cristiano, Roma 1975, p. 99. 69 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 159 sgg.; pp. 176 ssg. 70 Oltre naturalmente ad esprimere gratitudine a nome dello stato e a costituire il culmine religioso della cerimonia trionfale. Poiché un aspetto dell’auctoritas concessa da Giove, oltre al potere di accrescimento, è il potere di vittoria in guerra, giova ricordare la cerimonia con la quale si concludeva, in tempi molto posteriori alla monarchia delle origini, la grande parata militare (di origine etrusca) chiamata “trionfo”: dopo i riti purificatori dalla contaminazione del sangue e la parata lungo tutta la Via Sacra e il Clivius Capitolinus, il trionfatore giungeva al tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio; qui, indossato l’ornatus Iovis Optimi Maximi, egli ornava l’effigie del dio del mantello di porpora, della corona d’alloro e dello scettro d’avorio sormontato dall’aquila che aveva impiegato durante il trionfo e, infine, si detergeva il volto dal minio col quale era stato ricoperto durante il trionfo stesso a somiglianza di Giove. La struttura della cerimonia, in particolare la devoluzione alla divinità dei segni esteriori del potere, manifesta l’idea romana che l’auctoritas proviene da Giove, affinché i prescelti svolgano fra gli uomini assegnato loro, ma che l'auctoritas torna, alla fine, alla fonte da cui era discesa. POLIA M., Imperium – Origine e funzione del potere regale nella Roma arcaica ( = POLIA, Imperium), Rimini 2001, pp. 174-175. Si consideri anche p. 31: «È certo, però, che Romolo, in quanto rex, doveva essere dotato di insegne distintive della sua funzione. Quali? Sappiamo innanzitutto del lituo che esprimeva la

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2. L’arco di Costantino. Dopo aver esposto, seppur in sintesi, la concezione

simbolica ed ideale alla base degli archi trionfali, è ora possibile prendere in considerazione un esempio che, più di altri, testimonia una svolta nelle tradizioni religiose dello stato romano e nella loro espressione sul piano simbolico, monumentale e iconografico: l’arco dedicato all’imperatore Costantino.

2.1. Cenni storici sull’arco. L’arco dedicato a Costantino fu eretto dal senato e dal

popolo romano per celebrare la vittoria dell’imperatore su Massenzio al Ponte Milvio (28 ottobre 312) e dedicato il 25 luglio 315, decimo anniversario della sua ascesa al trono.71

Questo si evince chiaramente dalla grande iscrizione scolpita su entrambi i lati principali dell’arco:

Imp(eratori) Caes(ari) Fl(avio) Constantino Maximo /

P(io) F(elici) Augusto S(enatus) P(opuls)q(ue) R(omanus) / quod sua qualità di augure e sacerdote supremo; potremmo ipotizzare, sulla scorta di un’informazione fornita da Virgilio, la presenza di una lancia senza il ferro (pura hasta), o da una vera e propria lancia da guerra come antica e diffusa insegna del potere militare. La presenza dei fasci littori e della sella curule, forse, risale all’epoca della dominazione etrusca a Roma e tali insegne del potere furono introdotte al tempo di Tarquinio Prisco, come testimonia Lucio Anneo Floro: “Da lì (dall’Etruria provengono) i fasci, le toghe con strisce di porpora (trabeae), le sedie curuli, gli anelli le falere, le toghe praetextae, i lunghi mantelli militari (paludamenta), da lì furono presi in prestito il costume di celebrare il trionfo su un carro trainato da quattro cavalli, le toghe pictae e le tuniche palmate e, in una parola, ogni segno di pompa (decora) e tutte le insegne mediante le quali la dignità del comando (imperii) eccelle”». Triumphus / triumpus deriva dal greco thriambos (col significato originario di “canto dionisiaco”) mediante una forma etrusca che muta la consonate sonora b in sorda p (POLIA, Imperium, p.188). 71 Come è ricordato nella scritta votis X sopra uno dei fornici minori, rinnovata con un’altra, votis XX, sopra l’altro fornice, in occasione del ventennale. STACCIOLI R.A., Guida di Roma antica ( = STACCIOLI, Guida), Milano 1986, p. 359.

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instinctu divinitatis mentis / magnitudine cum exercitu suo / tam de tyranno quam de omni eius / factione uno tempore iustis / rem publicam ultus est armis / arcum triumphis insignem dicavit.72

Il monumento fu trasformato in torre durante il Medioevo e

poi incorporato nel palazzo fortificato dei Frangipane; più volte restaurato, soprattutto nel Settecento, fu definitivamente liberato da sovrastrutture nel 1804.73 Recenti restauri hanno poi permesso di rilevare come l’arco sia il risultato delle trasformazione di un precedente fornice celebrativo di età adrianea,74 mentre l’attico fu ricavato dal podio del grande colosso che, quale gigantesca immagine del Sole, si erigeva nei pressi del vicino Anfiteatro Flavio.

2.2. Rilievi di epoca costantiniana. Sono contemporanee alla costruzione dell’arco, e quindi

d’età costantiniana, le sculture che sulle due facciate si trovano sui plinti delle colonne scolpiti sui tre lati, con Vittorie che scrivono sopra gli scudi o reggono palme e trofei, o con soldati romani e barbari prigionieri sugli archivolti del fornice centrale, con Vittorie in volo recanti trofei e personificazioni delle stagioni; sugli archivolti dei fornici minori, con divinità fluviali; sulle chiavi degli archi, con figure allegoriche molto rovinate; sulle pareti interne dei fornici minori, con otto grossi busti di imperatori in rilievo pure molto rovinati; sopra gli stessi fornici minori e, alla medesima altezza, sui due lati corti, con sei lunghi pannelli che illustrano la campagna contro Massenzio.

In questi, iniziando dal lato corto occidentale (verso il Palatino), si susseguono i seguenti episodi: partenza dell’esercito

72 All’Imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il Senato e il Popolo Romano, poiché per ispirazione della divinità e per la grandezza del suo spirito con il suo esercito vendicò ad un tempo lo stato su un tiranno e su tutta la sua fazione con giuste armi, dedicarono questo arco insigne per trionfi. 73 STACCIOLI, Guida, ibidem. 74 CONFORTO M.L. (et al.), Adriano e Costantino. Le due fasi dell’arco nella Valle del Colosseo ( = CONFORTO, Adriano e Costantino), Milano 2001.

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di Costantino da Milano, assedio di Verona, battaglia di Ponte Milvio, entrata di Costantino a Roma, discorso di Costantino dai Rostri nel Foro Romano, distribuzione di denaro al popolo nel Foro di Cesare. Sui due lati corti sono infine costantiniani i due tondi con la rappresentazione della Luna, nel lato ovest e del Sole, nel lato est.75

2.3. Rilievi di reimpiego.

Sull’arco appaiono molti rilievi provenienti da altri

monumenti dell’antica Roma. Appartengono all’età di Traiano, provenienti dal suo Foro

(o forse, ci si permette di suggerire, da un arco trionfale che chiudeva il suo Foro):76 le otto statue di Daci prigionieri (con le teste rifatte nel Settecento) nell’attico sui plinti sopra le colonne, i due pannelli sui lati minori dell’attico con scene di battaglia, e gli altri due che sono all’interno del fornice centrale, tutti e quattro appartenenti a un unico grande fregio che forse decorava l’attico della Basilica Ulpia (sopra i rilievi all’interno del fornice centrale sono incise le acclamazioni a Costantino «liberatore di Roma» e «restitutore della tranquillità»).

Appartengono all’età di Adriano, verosimilmente sempre rimasti in situ, i tondi che rappresentano: nella facciata meridionale, la partenza per la caccia, un sacrificio a Silvano, la caccia all’orso, un sacrificio a Diana; sulla facciata settentrionale, la caccia al cinghiale, un sacrificio ad Apollo, la caccia al leone, un sacrificio ad Ercole. In queste raffigurazioni, quella che era la testa dell’imperatore Adriano è stata sostituita con quella di Costantino nelle scene di caccia e con quelle del collega Licinio nelle scene di sacrificio.77

Infine risalgono all’età di Comodo, provenienti (insieme ad altri tre che si trovano nel Palazzo dei Conservatori) da un arco onorario dedicato a Marco Aurelio, gli otto pannelli dell’attico posti ai lati dell’iscrizione e rappresentati episodi relativi all’impero di Marco Aurelio (con le teste dell’imperatore rilavorate nel Settecento): nella facciata meridione, presentazione di un capo barbaro all’imperatore, prigionieri condotti davanti all’imperatore, discorso dell’imperatore ai soldati, sacrificio nell’accampamento; nella facciata settentrionale, arrivo a Roma dell’imperatore, partenza da Roma dell’imperatore, distribuzione di denaro al popolo, resa di un capo barbaro.78

75 STACCIOLI, Guida, p.361. 76 Cfr. MELUCCO VACCARO A., L’arco di Adriano ed il riuso di Costantino ( = MELUCCO VACCARO, L’arco di Costantino), in CONFORTO, Adriano e Costantino, p. 49. 77 STACCIOLI, Guida, pp. 361-362. 78 STACCIOLI, Guida, p. 362.

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3. Ideologia e visione religiosa nelle forme scultoree di età costantiniana.

3.1. La dimensione divina della dignità imperiale in epoca tetrarchica.

Alla fine del III secolo d.C., la tetrarchia rese la

divinizzazione dell’imperatore un dato acquisito e pienamente integrato nel contesto religioso-ideologico alla base dello stato romano.

Gli imperatori sono quindi divinità librate sopra l’impero che

governano. «La vostra anima immortale è più grande di ogni potere, di ogni fortuna, certo anche dell’impero» – ipso est maior imperio. Il loro potere è assoluto , il loro diritto a dar forma al mondo, a sciogliere e legare l’umanità, illimitato. Non dipendendo dal senato e dall’esercito, Jovius Diocletianus può creare lui stesso gli imperatori, cioè designare i suoi colleghi al trono e i suoi successori, i quali – creati da lui – sono anch’essi dei. Gli imperatori, come è detto in un’iscrizione, sono «nati da Dio ed essi medesimi creatori di dei». In realtà è Giove stesso, il summus pater di tutti gli imperatori, che è presente all’investitura e adotta come figlio il nuovo Augusto o il nuovo Cesare. I titoli di Jovius e Herculius attribuiti ai Cesari del 293 e del 305 il giorno della loro designazione sancivano la scelta: era stato Giove stesso a scegliere.

Lo stato tetrarchico posava così, saldamente e immutabilmente, sull’ordine eterno del mondo. Nell’opera di ordinamento e governo dello stato, nelle riforme finanziarie, nelle misure per la stabilità economica e sociale, nella guerra e nella pace, nella politica culturale e religiosa, dovunque, l’entità Giove – impero di Diocleziano era presente come ordine voluto dagli dei. In quanto Jovii e Herculei gli imperatori appartenevano a un mondo superiore «où ils ont trouvé une sorte d’harmonie préétablie qu’aucun d’eux ne pouvait contester ou changer» (W. Seston). La grande regolarità e legalità di questo mondo più alto ed eterno, attraverso l’opera riformatrice di Diocleziano si calava ora nella nostra realtà temporale, e la confusa moltitudine delle ostinate e indisciplinate forme naturale veniva inquadrata e disposta secondo le linee rigorose di un ordine e una simmetria trascendenti.79

79 L’ORANGE H.P., L’impero romano dal III al VI secolo. Forme artistiche e vita civile ( = L’ORANGE, L’impero romano), Milano 1988, p. 93.

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Come è evidenziato nelle note di L’Orange sopra riportate, l’imperatore tetrarca, nella sua figura divina, era reale perno di ogni agire dello stato e ne riassumeva l’idea stessa.

La dimensione divina dell’autorità imperiale condizionava le espressioni più tipiche della tradizione romana, come rilevato da S. Mac Cormack a proposito del già citato tema della consecratio:

La vita ufficiale e pubblica di un imperatore romano era delimitata da

due avvenimenti salienti: l’ascesa – il dies natalis del suo potere – e la consecratio. L’importanza attribuita ora all’uno ora all’altro avvenimento e il modo in cui veniva mantenuto l’equilibrio tra di essi, portavano a una continua ridefinizione del rapporto tra l’imperatore e il divino, precisando così la natura della sua divinità. Al momento dell’ascesa, l’imperatore poteva essere presentato come il prescelto dagli dèi, come qualcuno che già godesse di uno speciale rapporto col divino, oppure venire scelto dagli uomini grazie alla sua virtus. Queste due caratteristiche potevano essere collegate ed entrare in relazione tra di loro: una non escludeva l’altra. Se l’imperatore era scelto dagli dei, le sue azioni sarebbero state guidate dall’instinctu divinitatis e il modo di governare avrebbe svelato come e perché fosse stato prescelto.

L’altro modo in cui lo status particolare dell’imperatore poteva essere affermato si presentava al momento della morte: con la sua consecratio costituiva un momento a sé, in quanto poteva essere preceduta – durante il regno – da un graduale assorbimento nella condizione divina e questo fatto trovava la sua espressione soprattutto nella ritrattistica. Nel I e II secolo. Il modello di vita imperiale imponeva che l’imperatore fosse scelto dal popolo e, in un qualche misura, dagli dei (i due fatti potevano coincidere quando l’imperatore fosse stato adottato dal suo predecessore o se ne fosse stato il figlio), che governasse e che, da morto, venisse ricompensato per le sue fatiche con la consecratio. Questo modello cambiò durante il III e – soprattutto – il IV secolo: gli imperatori, che già erano i prescelti dagli dèi, non avevano alcun bisogno della consecratio e dell’approvazione umana che questa comportava perché, già dal momento dell’ascesa, la loro condizione diventava, in maniera sempre più crescente, sovraumana.

Tale cambiamento si fece più evidente durante la tetrarchia. La tetrarchia presentava un insieme di circostanze talmente nuove che aiutarono a trasformare l’idea della consecratio in qualcosa di diverso. Diocleziano, come Aureliano, affermava di governare grazie alla più alta autorità di cui un sovrano potesse godere, l’essere stato scelto da Dio. Il fatto che fosse possibile o meno stabilire una relazione tra Diocleziano e i suoi predecessori non aveva alcuna rilevanza e la consecratio, durante la prima tetrarchia, non costituì un fattore decisivo per determinare una successione legittima. (…)

L’origine del diritto a governare a governare di Diocleziano rendeva superflua qualsiasi rivendicazione che si potesse esprimere attraverso la consecratio di un predecessore, poiché nulla poteva essere aggiunto alla sua condizione grazie all’intervento o all’approvazione degli uomini.

L’imperatore era già conspicuus et praesens Iuppiter, o imperator Hercules. Questa rivendicazione, fatta al momento dell’ascesa, travolse tutte le precauzioni adottate in precedenza per limitare l’approssimarsi dell’imperatore al divino finché fosse in vita e l’arco di Galerio mostrava Diocleziano e Massimiano collocati, da vivi, su di un trono al si sopra della terra e del cielo, in una posizione simile a quella riservata agli dei.80

80 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 157-159.

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3.2. I riferimenti ideologici e religiosi di Costantino.

Poiché oggetto di questo studio è specificamente l’arco dedicato a Costantino, pare ora utile fornire qualche precisazione su come questo imperatore intese porsi nel contesto ideologico della tetrarchia nel momento, davvero cruciale per la storia romana, in cui entrò vittorioso nell’Urbe.

In effetti, quando oltrepassò le mura aureliane, Costantino era pienamente erede della concezione tetrarchica anche se, rispetto ad essa, aveva assunto una posizione originale, recuperando riferimenti alla dimensione “solare” della divinità imperiale derivante in buona parte dalla supremazia imposta ai culti solari dagli imperatori del III secolo d. C.

Se dunque per i tetrarchi i riferimenti specifici erano quelli a Giove e ad Ercole, Costantino si pose piuttosto in relazione con manifestazione di culti “solari” tipici del paganesimo.

A questo proposito, di nuovo Sabine Mac Cormack – alla quale ci riferiremo spesso nel corso di questo studio – così si esprime:

Dalla metà del III secolo, il Sole veniva rappresentato non solo come

compagno e protettore dell’imperatore ma anche come il suo prototipo divino per ciò che riguardava il potere e, in particolare, l’avvento imperiale. Nell’arte e nei panegirici di questo periodo era la vicinanza tra Costantino e il Sole, una vicinanza che rasentava la somiglianza fisica al dio, ad essere accentuata. (…) Così il panegirista del 310 descrive una visione che Costantino aveva avuto di Apollo, al cui identità, a quel tempo, si era fusa con quella del Sole:

Io credo, Costantino che tu abbia visto il tuo Apollo accompagnato dalla Vittoria che offriva a te corone d’alloro, ognuna delle quali accompagnata dalla profezia di 30 anni [di regno]. Perché questa è la durata della vita umana che rappresenta la tua parte ben oltre la longevità di Nestore. Ma perché dico «Io credo»? Tu l’hai visto e hai riconosciuto te stesso nell’aspetto di colui al quale, secondo i canti divini dei profeti, appartengono tutti i regni del mondo. Questo, penso, è adesso sul punto di finire perché tu, o nostro imperatore, sei, come lui, giovane e felice, bellissimo e dispensatore di prosperità.

Sull’arco di Costantino, l’immagine di Sole che sorge dall’oceano, anche se non strettamente collegata a quella dell’imperatore rappresentata sul medaglione di Ticino, è comunque associata al rilievo che rappresenta l’entrata trionfale di Costantino a Roma nel 312 e che raffigura la processione imperiale tra la porta Flaminia e l’arco ad elefante di Domiziano. Non c’è nessuno a porgere il benvenuto. A indicare il tema troviamo la Vittoria Alata, che vola ad di sopra della carrozza imperiale ma, a differenza dei trionfatori, Costantino si trova seduto nella carrozza invece che in piedi sul carro trionfale.81

3.3. Le forme delle sculture di età costantiniana presenti nell’arco quali espressioni dell’ideologia dello stato romano ai tempi di Costantino.

Sulla scorta delle affermazioni di Sabine Mac Cormack,

arriviamo a considerare l’arco costantiniano e le sculture in esso

81 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 47-49.

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presenti. Le astratte e stilizzate forme dei rilievi dell’arco eseguiti nel IV secolo, già nel Rinascimento hanno attirato attenzione e rimproveri per la loro diversità rispetto alle sculture più antiche; esse, tuttavia, sono da considerarsi funzionali a trasmettere specifici contenuti ideologico – religiosi.

Questi contenuti, come si vedrà, sono espressi nel modo più coerente proprio da figure astratte e geometricamente schematizzate, nonché dalla organizzazione ben definita e rigida delle immagini intorno a quella centrale dell’imperatore quale appare nell’arco.

Sui rapporti che si possono stabilire tra l’idea dello stato romano che si affermò tra III e IV secolo, e le forme scolpite, è comunque possibile citare ancora H.P. L’Orange, riportando le osservazioni rivolte proprio alle caratteristiche formali dei fregi eseguiti nel IV secolo nell’arco costantiniano:

Ma, tal quale appare nella contemporanea riorganizzazione dello stato

e della vita civile, il nuovo ordine che si instaura nell’arte non è, come accadeva nella tradizione classica, un ordine organico fondato su autonome figure legate in raggruppamenti spontanei, ma un ordine meccanico che è imposto agli oggetti dall’alto e ne regola i rapporti reciproci: un ordine che si fonda su una regolarità superiore a quella della natura. Se osserviamo i due notissimi rilievi sulla fronte dell’Arco di Costantino (312-315): l’Oratio, cioè il discorso di Costantino ai Rostri del foro romano e la Liberalitas, cioè Costantino che elargisce danaro ai cittadini di Roma, vediamo il nuovo ordine meccanico già pienamente in atto: le figure singole non sono riunite in gruppi naturali, ma disposte in serie come elementi uniformi uno accanto all’altro; queste file, come l’architettura che le inquadra, non sono autonome: ogni elemento è strettamente subordinato e collocato simmetricamente rispetto alla figura dominante dell’imperatore posto al centro del rilievo. La forzata regolarità che l’allineamento e la simmetria impongono è accentuata dal fatto che gli assi dell’intera composizione seguono le orizzontali e le verticali delle cornici, per cui le linee principali delle figure e delle architetture o coincidono o corrono parallele ad esse. Si osservi, ad esempio, la linea immediatamente sopra la testa delle figure e quella immediatamente sotto i loro piedi. Poiché la figura singola perde la propria integrità organica ben proporzionata per irrigidirsi seguendo le verticali della cornice, la tradizionale curva della figura in riposo scompare e con essa l’espressione schiettamente classica di una dinamica ma equilibrata naturalezza.82

Ed ancora: Per vie assolutamente diverse da quelle dell’arte tradizionale, dove le

figure si muovevano più liberamente nello spazio, ora è possibile orientare tutti gli elementi verso l’imperatore sito al centro, affinché sia avvertita l’irresistibile carica magnetica che da lui emana e il superiore ordine cui egli appartiene. È il divino impero che viene rappresentato in questa sovrannaturale, immobile, e quindi immutabile, costellazione di figure e architetture. Le figure nelle simmetriche sequenze sono spesso viste di profilo e in genere guardano verso l’interno, cioè verso l’imperatore che sta al centro. Questi d’altro canto è rappresentato frontalmente, rivolto all’esterno e viene a interrompere la continuità narrativa. Analogamente, nella vita, l’imperatore –dio è collocato al di sopra dei mortali, e il cerimoniale imperiale lo isola in un’immagine divina innalzata sopra il mondo dei viventi.

82 L’ORANGE, L’impero romano, p. 144.

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L’essenza profonda del dominus si esprime in questa disposizione: il suo ruolo centrale nello stato, la dipendenza e subordinazione di tutti i cittadini a lui, la sua natura sovrumana. Ecco creato un modulo compositivo che esplicita la Maiestas Domini e sarà di importanza fondamentale per l’arte ufficiale della tarda antichità e del medioevo.83

4. Quale trionfo.

Giunti a questo punto, occorre ritornare alle osservazioni

iniziali sul simbolismo degli archi di trionfo. Lo facciamo per precisare che il motivo della “porta del cielo”, richiamato dalla tipologia dell’arco trionfale, solo in termini parziali si poteva ritenere adatto ad esprimere la dimensione già di per sé divina della maestà imperiale nel tardo antico.

Infatti, citando la Mac Cormack: Ai tetrarchi non era necessario essere accolti tra le stelle, come invece

ci suggeriscono le prime emissioni di monete imperiali a proposito degli imperatori consacrati, poiché il loro status era già stabilito al momento dell’ascesa al trono.84

In altri termini, al di là dello specifico tema della

consecratio citato dalla Mac Cormack e considerando bensì le specifiche funzioni simboliche degli archi trionfali, occorre rilevare come l’imperatore del dominato non necessitasse di oltrepassare alcuna porta simbolica per accedere alla condizione di divinità e di futura immortalità, in quanto queste caratteristiche erano già proprie del suo status.85

Ecco quindi che, da questo punto di vista, la situazione cambia, tant’è che nelle rappresentazioni presenti sull’arco di Costantino, piuttosto che il motivo del trionfo, venne espresso quello dell’adventus.

4.1. L’adventus e la sua importanza nel periodo del dominato. 4.1.1. Nozioni generali sull’adventus.

L’adventus era un’antica cerimonia che celebrava l’arrivo

imperiale in una città: Di tutte le cerimonie che coinvolgevano l’imperatore, quella

dell’adventus pare la più banale: a causa delle rudimentali vie di comunicazione nell’impero romano, dei frequenti spostamenti e quindi delle frequenti visite imperiali, l’adventus potrebbe sembrare un fatto così ovviamente necessario da non richiedere ampi commenti. Una visita imperiale era preceduta da un periodo di frenetica attività organizzativa: doveva essere un evento solenne, a cui era poco raccomandabile non partecipare e poteva trasformarsi, per i più accorti, in una occasione di profitto. (…) Anche i risultati erano altrettanto prevedibili. Nel migliore dei

83 L’ORANGE, L’impero romano, p. 180. 84 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 157-158: «Gli imperatori che già erano prescelti dagli dei, non avevano alcun bisogno della consecratio e dell’approvazione umana che questa comportava perché, già dal momento dell’ascesa, la loro condizione diventava, in maniera sempre crescente, sovraumana». 85 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 185.

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casi un breve periodo di governo diretto, e per questo fermo, avrebbe illuminato, come un raggio di sole, la comunità. Quando sua divinità, Massimino Daia, portò la sua luce a Stratonicea, il brigantaggio nelle montagne della Caria ebbe un attimo di pausa; per le città di frontiera, l’arrivo dell’imperatore significava un felice periodo di sicurezza.86

Quindi, come già anticipato, sotto la tetrarchia l’adventus

acquistò ulteriori significati in relazione all’ormai definita dimensione divina dell’imperatore:

Sotto i tetrarchi, la cerimonia veniva quindi giustificata in modo da

enfatizzarne un aspetto in particolare, l’arrivo del deus praesens, l’imperatore, capace di aiutare e proteggere i suoi sudditi in quanto presente e immediatamente disponibile.87

Ne conseguiva che il giungere del dominus divinizzato era

paragonabile ad una vera epifania di luce cui certamente non era estranea la succitata dimensione solare richiamata dagli imperatori della fine del III secolo. Riporta il panegirista del 310:

Ti sei degnato di illuminare quella città [di Autun] che solo per il fatto

di attenderti visse nella prosperità. (…) O dei immortali, quale giorno rifulse su di noi, quando tu varcasti le porte di tale città, primo segno della nostra salvezza, e le porte, protese all’interno e affiancate da torri gemelle parevano accoglierti in una sorta di abbraccio.88

Dal punto di vista simbolico, l’adventus finì dunque per

rappresentare una sorta di discesa della luce divina del deus praesens sulla città ove la sua sacra immagine si affacciava; mentre nella cerimonia del triumphus vero e proprio l’imperator si innalzava a raggiungere divinità degli dei del cielo.

È doveroso poi indicare che (al di là dei mutamenti

ideologici avvenuti – o meglio definiti – durante la tetrarchia) almeno sino ai tempi di Diocleziano la tradizionale cerimonia

86 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 46: «Come diceva Atanasio: “Quando un grande re ha visitato una qualche grande città, e preso dimora in una delle sue case, tale città viene grandemente onorata e più nessun nemico o bandito osa muovere contro di essa, anzi viene trattata con riguardo perché il re ha dimorato in una delle sue case: così deve essere anche con il Re di ogni cosa”». 87 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 32. 88 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 37.

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trionfale fu comunque rispettata nei suoi contenuti religiosi fondamentali, i quali richiedevano l’ascesa dell’imperatore al tempio dedicato a Giove sul Campidoglio ove, per rendere grazie al dio, si deponeva una corona nel suo grembo.89

4.1.2. L’adventus sull’arco di Costantino.

Per le ragioni sopra citate, nell’arco di Costantino sul lato corto verso il Palatino, sotto il tondo con il tramonto della Luna, si trova la rappresentazione della profectio (partenza) da Milano e sul lato opposto, sotto l’immagine del Sole che sorge, è raffigurato, appunto, l’adventus di Costantino a Roma. Su questo tema vale la pena di citare ancora S. Mac Cormack:

Sull’arco di Costantino, l’immagine di Sole che sorge dall’oceano (…)

è comunque associata al rilievo che rappresenta l’entrata trionfale di Costantino a Roma nel 312 e che raffigura la processione imperiale tra la Porta Flaminia e l’arco ad elefante di Domiziano. Non c’è nessuno a porgere il benvenuto. A indicarne il tema troviamo la Vittoria Alata, che vola al di sopra della carrozza imperiale ma, a differenza dei trionfatori, Costantino si trova seduto nella carrozza invece che in piedi sul carro trionfale.90

I rilievi che raffigurano l’adventus e al profectio sono posti

sull’arco in modo da segnare l’alternanza dei motivi rappresentati sulle due facciate. Sul lato opposto alla città troviamo un paio di rilievi che rappresentano scene di guerra: l’assedio di Verona e la battaglia del Ponte Milvio. I due pannelli che descrivono le virtù militari dell’imperatore sono controbilanciati – sulla parte dell’arco volta verso la città – da pannelli che ne illustrano le virtù civili di comandante. Le aquile di legionari, secondo l’espressione di Claudiano, hanno ceduto il posto ai littori. Sempre su questo lato dell’arco troviamo un’immagine dell’imperatore, in piedi sui rostra, in una scena di adlocutio e in un’altra che lo mostra sul trono mentre distribuisce doni munifici.

Questi due rilievi, che rivestono un’importanza marcatamente civile e urbana, descrivono il secondo stadio dell’adventus, quello dell’incontro diretto tra governante e sudditi, uno degli elementi normalmente descritti nei panegirici. L’arco mostra quindi la cerimonia dell’adventus nei suoi due aspetti, gli stessi del periodo della tetrarchia. L’interpretazione della cerimonia era comunque cambiata: il linguaggio dell’arco è ancora pagano ma esprime anche il fatto che Costantino si era completamente allontanato dalle immagini religiose usate durante la tetrarchia.

89 FRASCHETTI A., La conversione da Roma pagana a Roma cristiana ( = FRASCHETTI, La conversione), Bari 1999, p. 245. 90 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, p. 48.

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4.2. Ubique victor.

Come già accennato, caratteristica dei tradizionali archi trionfali era quella di riportare in immagini, oltre che in iscrizioni, le imprese per cui al trionfatore era concesso di “superare” simbolicamente la porta celeste e, grazie appunto alle sue gesta memorabili, accedere all’immortalità.

Questi concetti – ribadiamo – non si adattavano pienamente alla figura del deus praesens, ovvero all’imperatore divinizzato del tardo impero: non si poteva pensare che il suo accesso al cielo fosse concesso per specifiche imprese, per quanto gloriose, poiché era la stessa origine “celeste” della carica imperiale ad implicare l’idea dell’imperator ubique victor, ovvero ovunque (e sempre) vincitore.

Quindi, poiché il toto orbe victor91 nelle sue vittorie non trovava che semplice conferma al proprio status divino, occorreva che la loro rappresentazione fosse inserita in un contesto che chiarisse la dimensione assoluta e non contingente delle imprese da lui compiute.

Come si è detto, ciò era ottenuto mediante forme stilizzate ed “astratte”, e attraverso l’organizzazione delle immagini indicata da H.P. L’Orange.92 Naturalmente questi concetti, così come erano espressi implicitamente nei modi coi quali erano raffigurate le immagini, tanto più lo erano, diciamo “esplicitamente” nei contenuti espressi dall’iconografia delle scene.

Per cui, se sulla facciata meridionale dell’arco si trovano scene riguardanti le battaglie sostenute da Costantino e sul lato opposto troviamo le sue opere pacifiche,93 tali scene sono scandite da altre rappresentazioni di evidente contenuto cosmologico finalizzate ad inserire le gesta del deus praesens

91 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 247 sgg. 92 Per individuare i riferimenti filosofico-estetici di questo genere di immagini cfr. GRABAR A., Le origini dell’estetica medievale, Milano 2001. 93 CALCANI G., La serie dei tondi da Adriano a Costantino ( = CALCANI, La serie dei tondi), in CONFORTO, Adriano e Costantino, pp. 98-99.

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nella prospettiva adeguata alla carica da lui ricoperta: la prospettiva, appunto, dell’assolutezza e dell’atemporalità.

A contribuire a questo genere di iconografia sono, naturalmente, i già citati tondi del Sole e della Luna, le personificazioni delle stagioni, nonché le divinità fluviali. Secondo Giuliana Calcani, infatti, la celebrazione del vincitore presente nell’arco «offriva l’occasione per divulgare un messaggio di più ampio significato: l’idea dell’equilibrio perpetuo garantito dal nuovo signore dell’impero.»94

Continua la Calcani, a questo proposito: Nel discorso in onore di Costantino, pronunciato da Eusebio alla

presenza di Costantino, si parla dell’eternità indivisibile e priva di forma che Dio ha diviso in segmenti, rendendola armonica nella lineare partizione in mesi e date, stagioni, anni e reciproci intervalli di notti e giorni . Ed è ciò che troviamo riflesso nella decorazione dell’arco, dove sono rappresentati il giorno e la notte (personificazione di Sole e Luna), i mesi (tondi adrianei con scene di sacrifici e cacce), le stagioni (genietti)95 e, quindi, l’anno.

Questa espressione divina dell’ordinamento universale viene formulata attraverso l’apparato decorativo dell’arco che fa emergere l’azione del sovrano, il quale diventa l’immagine stessa dell’ordine sociale, in contrapposizione ai nemici dell’impero che rappresentano il caos.96

In definitiva, il regno di Costantino, seguendo l’iconografia

presente sul suo arco, rappresenterebbe un momento di equilibrio e felicità “cosmica”, ove la dimensione temporale è rappresentata dalle figure riguardanti lo scorrere dei giorni e delle stagioni, mentre quella spaziale dai quattro fiumi.

5. Le parti reimpiegate.

5.1. I tondi di età adrianea.

Sono comunque i tondi di epoca adrianea – i quali secondo

recenti indagini dovrebbero appartenere alla fase dell’arco precedente le trasformazioni dei tempi di Costantino – 97 ad esprimere nel modo più evidente la dimensione cosmica in cui si intende inserire l’intero programma di immagini.

Naturalmente non ci si diffonderà qui sulle analisi dei singoli tondi; basterà ricordare – secondo quanto indicato da Giuliana Calcani – come la tematica in essi raffigurata, quella della caccia, fosse tradizionalmente connessa all’esaltazione delle qualità dell’imperator, mentre i ricorrenti sacrifici alle divinità ne sottolineavano la pietas. Nel IV secolo questi temi

94 CALCANI, La serie dei tondi, p. 100. 95 CALCANI, La serie dei tondi, p. 93: «Le personificazioni delle stagioni, presenti nei punti di imposta del fornice centrale, sono un altro elemento di allusione allo scorrere ciclico del tempo, e vanno interpretate in diretta connessione con i tondi adrianei, visto che sono allineate sullo stesso piano di questi ultimi grazie all’appoggio su un rialzo roccioso: l’Estate segue i tondi con la Partenza e con il Sacrificio a Silvano; l’Autunno precede la Caccia all’orso e il Sacrifico a Diana; l’Inverno è posto dopo la Caccia al cinghiale e il Sacrificio ad Apollo; la Primavera anticipa il tondo con il leone e quello con il Sacrificio a Ercole». 96 CALCANI, La serie dei tondi, p. 100. 97 MELUCCO VACCARO, L’arco di Adriano, pp. 28-57.

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furono “integrati”, aggiungendo o modificando le sculture, in modo da evidenziare relazioni con i riferimenti religiosi ed ideologici della tetrarchica (es.: l’inserimento delle lastre di porfido, ovvero il colore collegato alla maestà imperiale; il leone morente come riferimento alle fatiche di Ercole, ecc…).98

Il tutto, come si è più volte sottolineato, organizzato in modo da offrire riferimenti simbolici che permettessero di rendere chiaro come le gesta imperiali si ponessero al di là delle dimensioni spazio – temporali.99

98 CALCANI, La serie dei tondi, pp. 92 sgg. 99 Per chiarezza occorre specificare che l’organizzazione “ciclica” dei tondi adrianei, con la quale si intende richiamare l’intero svolgersi del tempo e quindi la dimensione dell’assolutezza, era presente ed evidente già nelle immagini ai tempi di Adriano; questo aspetto è da intendersi come particolarmente collegato al tema del sacrificio agli dei rappresentato nelle sculture.

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5.2. I rilievi riguardanti le imprese di Marco Aurelio.

A proposito dei rilievi riguardanti le gesta di Marco Aurelio, basterà indicare come essi provengano con ogni probabilità da un altro arco di trionfo, appunto dedicato a questo imperatore. I fregi risalgono al tempo di Commodo e rappresentano principalmente l’attività bellica del princeps; tuttavia le scene ambientate a Roma e, soprattutto, le raffigurazioni dell’arrivo e dalla partenza imperiale, permettono anche in questo caso una lettura “ciclica”. È nostra opinione che nel IV secolo questi fregi furono posti in relazione con la statua equestre dell’imperatore Costantino, che campeggiava immediatamente sopra, nell’attico dell’arco, nonché, evidentemente, con il tema dell’adventus e della profectio; indichiamo comunque come in uno dei pannelli aureliani appaia un’iconografia tipicamente trionfale.

5.3. I rilievi traianei.

Quanto ai rilievi riguardanti le imprese di Traiano, sembra importante segnalare come essi, per il tema trattato, provengano da monumenti celebrativi100 dell’imperatore.

Si tratta di riferimenti ad imprese belliche la cui collocazione, per ciò che attiene le raffigurazioni ai lati del fornice centrale dell’arco di Costantino, si spiega facilmente in relazione alle iscrizioni soprastanti che celebrano l’imperatore come “liberatore” e “restitutore della tranquillità”.

Le statue di prigionieri barbari ed i due pannelli ai lati corti dell’attico sono naturalmente da intendere nel contesto delle rappresentazioni di carattere militare che coprono i lati dell’arco a quell’altezza.

100 In verità, a Roma sono stati identificati almeno due archi trionfali dedicati a Traiano: uno di essi, eretto certamente dal successore Adriano, si trova citato nei cataloghi della I Regione, mentre un altro è raffigurato in immagini monetali. MELUCCO VACCARO, L’arco di Adriano, p. 49.

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6. Le ragioni del reimpiego nel contesto del simbolismo della cerimonia trionfale.

Giunti a questo punto e prima di proseguire, pare opportuno

elencare schematicamente quanto esposto sinora:

- Si è indicato come la presenza di archi di trionfo sia connessa al simbolismo della vita successiva alla morte tipica del mondo pagano. Si è citata anche la prossimità di questo tema con il concetto di consecratio.

- Si sono messe in relazione le forme peculiari delle sculture più tarde presenti nell’arco di Costantino con le modifiche subite dall’idea di consecratio in età tetrarchica e costantiniana. - Si è poi indicato come il significato dei tradizionali archi trionfali romani, in età tetrarchica, si sia modificato adeguandosi ad esprimere i contenuti di una cerimonia, per altro altrettanto tradizionale, che era quella dell’adventus.

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- Si è inoltre indicato in quali modi e con quale genere di iconografia lo status di deus praesens dell’imperatore divinizzato sia stato espresso nelle sculture presenti nell’arco di Costantino.

Di seguito, ci si occuperà delle ragioni per cui si decise di

impiegare nell’arco di Costantino elementi già utilizzati in precedenti monumenti; prima però sono necessarie alcune considerazioni sul sito dell’arco.

6.1. Il sito dell’arco di Costantino e la mancata ascesa dell’imperatore al tempio di Giove Capitolino.

Si è già detto che il monumento nasce dal reimpiego di un

arco precedente, verosimilmente dedicato ad Adriano e sorto al posto di una struttura ancora precedente, risalente a Domiziano.

In questa prospettiva, parrebbe abbastanza logico porre in relazione le rappresentazioni di caccia presenti nell’arco con il vicino Anfiteatro Flavio; inoltre la prossimità del Colosso – la gigantesca statua del dio Sole – deve aver contribuito101 alla scelta del sito quale luogo più adatto per erigere – e quindi ristrutturare – il fornice celebrativo.102

Federico Zeri, tra l’altro, indicava nella dislocazione del monumento di epoca costantiniana possibili riferimenti a tematiche cristiane.103

L’arco di Costantino sorge comunque a cavallo dell’antico percorso dei trionfi imperiali104 (lungo il quale è situata la gran

101 Ricordiamo come la religiosità dell’imperatore Costantino, prima della sua adesione al cristianesimo, fosse rivolta a culti solari assai diffusi in ambito militare. MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 47-49. 102 MELUCCO VACCARO, L’arco di Adriano, pp. 49-50. 103 ZERI F., Orto aperto, Milano 1990, p. 22: «Eppure, un connotato cristiano è implicito, io credo, nell’ubicazione dell’arco stesso, che è situato quasi a mezza via tra due altri Archi che commemoravano la disfatta dei Giudei, quello di Tito, tuttora esistente (e con la rappresentazione delle spoglie, tra cui il candelabro a sette bracci), e un altro a tre fornici, situato nella curva del Circo Massimo. Oggi è distrutto, ma sappiamo che era dedicato alla presa di Gerusalemme, come ci attesta l’iscrizione, copiata nell’VIII secolo da un anonimo pellegrino: essa diceva che Tito “gentem Iudeorum domuit et urbem Hierusolymam… delevit”. È alquanto mai singolare che l’Arco celebrante la vittoria di Costantino (dalla quale risultarono prima la tolleranza del Cristianesimo poi la sua ascesa a unica religione dell’impero) si trovasse tra le due testimonianze, a Roma, della tragedia dei seguaci dell’Antico Testamento». 104 Abbiamo già più volte notato come sia proprio la collocazione prestigiosa a cavallo della via Trionfale a determinare la successione degli archi realizzati in questo punto; ed è ancora la stessa motivazione a causare il reimpiego da parte di Costantino. Il carattere stesso dell’intervento, che si pone come magistrale esempio nella prassi già consolidata del “riuso”, può forse giustificare il silenzio su questo arco delle fonti contemporanee, che ricordano come arcus (divi) Constantini solo il quadrifronte del Foro Boario. SALERNO C.S., Il calco del tondo con la “caccia al leone”, in CONFORTO, Adriano e Costantino, p. 124: «Un ulteriore tracciato esegetico riguarda il significato degli spogli nel contesto del riutilizzo di Costantino, che segnala l’altra dimensione della continuità e dell’uso dell’immagine, attraverso una diretta riappropriazione fisica. In tal senso i cospicui inserti traianei e aureliani dell’arco sono molto espliciti rispetto agli intenti del programma iconografico tardoantico. I due imperatori, peraltro insieme ad Adriano, hanno un ruolo privilegiato nella configurazione del messaggio. Alcuni paralleli tra l’arco e alcuni edifici di Costantinopoli, in particolare il Milion, ne suggeriscono la valenza. Questo tetrapilo, che replica anche il Miliarium Aureum di Roma, era ricchissimo di sculture e di ornati (tra i quali si suppone che gli spogli fossero gran parte) e tra questi Traiano e Adriano a cavallo, posti immediatamente dietro le statue di Costantino ed Elena. La presenza degli stessi imperatori è chiaramente evidenziata nella scena dell’adlocutio del fregio celebrativo dell’arco, che riproduce il fondale del Foro Romano presso i Rostri, dove sono riconoscibili le statue sedute di Marco Aurelio e di Adriano».

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parte degli archi celebrativi)105 e all’imbocco della cosiddetta via sacra, ma non, come altri archi, sul percorso della via stessa.

La via sacra rappresentava il tratto finale dell’itinerario trionfale tradizionalmente percorso per raggiungere il tempio di Giove Capitolino e, soprattutto, il luogo sul quale si affacciavano i templi più rappresentativi ed importanti della romanità: ed essi rimandavano, con la loro semplice presenza, ai valori religiosi ed ideologici fondamentali dello stato romano. La conformazione stessa della via sacra portava inoltre in sé l’idea, simbolicamente rilevante, dell’ascesa.

Che questi riferimenti religiosi ed ideologici fossero di matrice pagana è ovvio; tralasciando in questa sede questioni complesse quali la cerimonia “trionfale”(?) seguita da Costantino all’entrata in Roma, ci si limiterà ad accogliere le tesi di Augusto Fraschetti secondo cui l’imperatore, in nome del cristianesimo da lui già abbracciato, si rifiutò di compiere l’ascesa al Campidoglio e di omaggiare la divinità pagana.106

Questo rifiuto – analizzato da Fraschetti in buona parte de La conversione da Roma pagana a Roma cristiana – 107 fu un evento sconvolgente dal punto di vista cerimoniale: la cerimonia trionfale perse da questo momento gli originari significati religiosi e per gli ingressi nell’Urbe degli imperatori cristiani successivi a Costantino non si potrà parlare di trionfo vero e proprio, bensì di una cerimonia di adventus re- indirizzata in termini cristiani.108

105 MELUCCO VACCARO, L’arco di Adriano, p. 53: «Questa dislocazione [riferendosi agli archi presenti sulla via Trionfale, N.d.A.] per un verso è ancora la traccia della formazione, ben prima dell’ingresso presso il Circo Flaminio, dei cortei trionfali, e la possibile individuazione del Trigarium come punto di raccolta: ma è anche il segno della trasformazione in età tarda di questi spazi in luoghi destinati ai giochi e funzionalmente equivalenti al circo, di cui è noto il valore sostitutivo delle liturgie pagane, cadute in disuso con la cristianizzazione dell’impero. Tale erano diventati, già dopo i ludi saeculares, appunto il Trigario e il Tarento, ubicati tra il ponte di Agrippa e quello di Nerone». 106 Sulla questione del trionfo di Costantino e della possibile ascesa al colle capitolino ci si limiterà qui a basarsi sulle affermazioni, estremamente dettagliate e convincenti, presenti in FRASCHETTI, La conversione. 107 FRASCHETTI, La conversione, pp. 5-63; 243-269. 108 MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, pp. 25 sgg.

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6.2. Le ragioni simboliche del “riuso”.

All’inizio di questo articolo abbiamo indicato il valore simbolico degli archi di trionfo; nel paragrafo precedente abbiamo sottolineato che questi monumenti erano realizzati lungo il percorso trionfale e, letteralmente, ne facevano parte:109 ne consegue che gli archi proponevano manifestamente, evidenziandoli, i contenuti ideologici e religiosi dell’ascesa del trionfatore al colle Capitolino.

Dal punto di vista simbolico, per il protagonista della cerimonia trionfale attraversare i fornici eretti in onore dei predecessori significava letteralmente “ricalcarne i passi”, ovvero “varcare soglie” già attraversate da imperatori precedenti, riproponendone – anzi superandone – le imprese gloriose proprio sugli archi istoriate.110

Tutto ciò non poteva più essere espresso compiutamente nell’arco di Costantino. Le ragioni sono già state in parte evidenziate: - la concezione dell’arco come “soglia” da varcare non si adattava più all’immagine ormai “dichiaratamente” divina dell’imperatore;

- Costantino non aveva seguito il tragitto “sacro” sino al colle Capitolino, uscendo così dal solco della tradizione religiosa pagana. Al senato, committente dell’arco e dedito alla conservazione scrupolosa della tradizione, non rimaneva che dimostrare con immagini e simboli che il dominus, in quanto deus praesens, riassumeva in sé le imprese gloriose dei predecessori e poteva anzi riproporne in termini assoluti ed universali le virtù.

Si spiega allora l’affollarsi sul fornice costantiniano di tante immagini degli imperatori Traiano, Adriano e Marco Aurelio, la cui dedizione allo stato poteva essere considerata assolutamente esemplare sia in tempo di pace che di guerra.

Il fatto poi che i rilevi riusati provenissero da monumenti assai noti e legati alla tradizione trionfale condensava, per così dire, nell’arco di Costantino l’intera cerimonia del trionfo.

Dal punto di vista religioso, particolarmente rilevante è la presenza, nei tondi adrianei, di scene di sacrificio a diverse divinità: essa indica che, al momento dell’erezione dell’arco (315), il Senato romano riteneva la posizione di Costantino ancora recuperabile al solco dell’antica tradizione.111

109 Non abbiamo purtroppo potuto consultare VERSNEL H.S., Triumphus: an inquiry into the origin, development and meaning of the Roman triumph, Leiden 1970. 110 In particolare su come le antiche tradizioni continuarono a condizionare anche la cerimonia dell’adventus cfr. FRASCHETTI, La conversione, pp. 47 sgg. 111 Interessante quanto in proposito riporta FRASCHETTI, La conversione, pp. 76 sgg., ove si sostiene che la rottura reale con la tradizione sia stata avvertita presso i Romani nel corso della celebrazione del ventennale del regno

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Ma c’è dell’altro.

6.3. I busti degli imperatori nell’arco di Costantino ed i quadrifornici romani di età costantiniana.

Tra le espressioni più interessanti della mutata concezione

della cerimonia trionfale, si possono citare i busti di imperatori, ormai tanto consunti da essere quasi indistinguibili, che si “affacciano” dai fornici laterali dell’arco di Costantino.

Si trattava certo di antichi imperatori i cui trionfi avevano ricalcato il percorso simbolico e religioso della tradizionale processione diretta al colle Capitolino; tuttavia, in epoca costantiniana la loro presenza intendeva verosimilmente che l’imperatore divinizzato, lungi dal dover oltrepassare “soglie già aperte”, raccoglieva nella propria autorità e persona la grandezza e le imprese memorabili dei propri predecessori; il valore e la gloria dell’imperatore venivano così proiettatati in una dimensione di assolutezza ed ubiquità.

costantiniano avvenuta nell’Urbe: «Al contrario, quegli stessi tentativi, volti a conciliare la lex sanctissima dei cristiani con feste tradizionalmente e per eccellenza pagane come gli anniversari imperiali – appunto in quanto tentativi di una vita cerimoniale diversa, futuro modello per gli imperatori cristiani del IV e V secolo - , dovettero apparire allora ai pagani di Roma, alla sua plebs e al suo senato, dopo l’adventus del 312 e i decennali del 315, come il segno tangibile di un mutamento e di una frattura che si erano ormai inevitabilmente consumati».

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In conclusione, va osservato che la forma stessa dell’arco

costantiniano non riesce ancora a rendere completamente l’ideologia dell’autocrate divinizzato propria del dominato.112

È invece un’altra forma architettonica ben conosciuta nel mondo romano, quella del quadifornice o tetrapilo (ossia arco a quattro aperture) ad identificare pienamente il concetto dell’imperatore toto orbe victor: i quattro fornici indicano l’estendersi del suo potere assoluto nelle quattro direzioni dello spazio. La concezione del trionfatore chiamato ad ascendere al Campidoglio per “innalzarsi” verso la divinità si era infatti mutata nella espressione “statica” del dominus che manifestava l’espandersi del proprio potere sull’intero cosmo.113

Gli archi di epoca costantiniana “di Giano” e di Malborghetto (di cui rimangono solo resti) mostrano con chiarezza il compiersi di questo processo ideologico.

112 La forma tradizionale dell’arco trionfale non deve ritenersi “superata” in assoluto: anche un arco non necessariamente quadrifronte poteva ancora esprimere adeguatamente il senso simbolico di un “passaggio”, al pari della cerimonia dell’adventus o altro. 113 Cfr. MaC CORMACK, Arte e cerimoniale, nell’ampia prima parte dedicata all’adventus.

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ORIENTAMENTI BIBLIOGRAFICI INERENTI COSTANTINO IL GRANDE

di Ivan Pucci

Il presente contributo intende offrire un repertorio bibliografico ragionato e commentato su Costantino il Grande e su diverse questioni relative alla sua epoca: con la consapevolezza di non poter essere esaustivo, ma con l’auspicio di fornire un primo orientamento a chi voglia approfondire un tema particolare legato a questo fondamentale personaggio della storia umana.

Poiché chi si accosta alla figura storica di Costantino deve scegliere tra fonti estremamente contrastanti (esemplificando con i nomi più noti, tra il cristiano Eusebio di Cesarea e il pagano Zosimo) sembra opportuno introdurre una breve rassegna delle maggiori fonti primarie.

Le fonti.

Le fonti a nostra disposizione sul regno di Costantino sono ricche e complesse: ma la Storia Ecclesiastica e la Vita di Costantino di Eusebio di Cesarea costituiscono – nel bene e nel male – la nostra principale fonte contemporanea.

La Storia Ecclesiastica, in dieci libri, fu probabilmente iniziata prima dell’ultima persecuzione contro i cristiani (303) e conclusa, dopo molti rimaneggiamenti, tra la disfatta di Licinio (324) e la convocazione del concilio di Nicea (325). Ne esistono diverse varianti in cui le posizioni di Licinio e Costantino appaiono ridefinite: del primo viene ridotta l’imparzialità (o, a seconda dei casi, il favore) verso il cristianesimo, del secondo viene sottolineato il ruolo di campione della nuova fede.

Per il carattere estremamente tendenzioso, per le non poche esagerazioni e distorsioni, molti hanno ritenuto che la Vita di Costantino fosse stata composta tra la metà e la fine del IV secolo da uno o più autori. Tuttavia, diversi elementi ne hanno mostrato la piena compatibilità con lo stile di Eusebio, che la scrisse tra il 325 e il 337. Piuttosto che di una biografia, si tratta di un panegirico scritto per dimostrare che Costantino fu in ogni suo atto il modello di imperatore cristiano, in cui l’unico impero terreno e l’unico Dio cristiano avevano trovato la propria inevitabile unità: un impero, un imperatore, un Dio.

La faziosità di Eusebio si misura non solo nel racconto di alcuni episodi - come la visione prima della battaglia del Ponte Milvio114 o le simpatie cristiane di Costanzo Cloro – o nelle

114 Eusebio racconta questo episodio solo nella Vita di Costantino (I, 28), mentre è del tutto assente dalla narrazione della battaglia fornita nella Storia Ecclesiastica (IX, 9).

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omissioni di fatti non certo edificanti – come la condanna a morte nel 326 di Crispo, riportata invece nella Storia Ecclesiastica – ma in complesso nella descrizione di tutta l’azione politica di Costantino, dalla campagna contro Licinio – presentata come una guerra santa ante litteram – al suo ingresso durante i lavori del concilio di Nicea.

La presenza nel testo di lettere ed editti imperiali – presentati come trascrizioni di copie ufficiali, traduzioni di originali latini o sintesi operate dall’ autore – non è di per sé garanzia di imparzialità, poiché non possediamo una documentazione parallela che ce ne consenta la verifica.

Per la figura di Eusebio e il suo rapporto con Costantino, si

vedano: BARNES T.D., Constantine and Eusebius, Cambridge 1981. GRANT R.M., Eusebius as Church Historian, Oxford 1980.

Sull’attribuzione ad Eusebio della Vita di Costantino, ci sono due posizioni critiche. La prima, che nega la paternità eusebiana, fa capo a H. Grégoire e a W. Seston: CATAUDELLA M., La persecuzione di Licinio e l’autenticità della Vita Constantini, in “Atheneum” 48 (1970), pp. 46 sgg. e 229 sgg.: ritiene falsa l’attribuzione a Licinio delle leggi contro i cristiani. GRÉGOIRE H., Nouvelles recherches constantiniennes, in “Byzantion” 13 (1938), pp. 561 sgg.: assegna la paternità della Vita ad un falsificatore, probabilmente ad Euzoio vescovo di Cesarea alla fine del IV secolo. GRÉGOIRE H., L’authenticité et l’historicité de la “Vita Constantini” attribuée à Eusèbe de Césarée, in “Bulletin de l’Académie Belgique” 39 (1953), pp. 462 sgg. ORGELS P., A propos des erreurs historiques de la Vita Constantini, in Mélanges Grégoire 4 (1953), pp. 575 sgg. La seconda, prevalente, considera la Vita di Costantino autentica in ogni sua parte: ALAND K., Die religiöse Haltung Kaiser Konstantins, in “Studia Patristica” 1 (1957), pp. 549 sgg. HARNACK A., The Mission and Expansion of Christianity, London (1904-1905), (ed. riv. 1908) in cui viene presa in rassegna la documentazione contenuta nella Storia Ecclesiastica. JONES A. H. M., Notes on the Genuineness of the Constantinian Documents in Eusebius’ Life of Constantine, in “Journal of Ecclesiastical History” 5 (1954), pp. 196 sgg. MOREAU J, Zum Problem der Vita Constantini, in “Historia” 4 (1955), pp. 234 sgg.

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PIGANIOL A., Sur quelques passages de la Vita Constantini, in Mélanges Grégoire 2 (1950), pp. 513 sgg.

La Storia Ecclesiastica è stata tradotta in italiano da F. Maspero e M. Ceva per l’editore Rusconi nel 1979; mentre è possibile leggere la Vita di Costantino in italiano nell’edizione curata da L. Tartaglia nel 1984 per i tipi della napoletana D’Auria.

Un’altra fonte letteraria piuttosto parziale è il De mortibus persecutorum (Sulle morti dei persecutori) di Lattanzio, scritto fra l’estate del 314 e il dicembre del 315. Suo chiaro intento è mostrare come Dio sia indiscutibilmente dalla parte dei cristiani, pronto a punire atrocemente i nemici della vera fede (celeberrima è la particolareggiata descrizione della morte di Galerio). L’opera va considerata alla luce dell’esperienza personale di Lattanzio, che molto dovette soffrire della persecuzione di Galerio. Un importante studio su questo autore è dato da SOBY CHRISTENSEN A., Lactantius the Historian. An Analysis of the De mortibus persecutorum, Copenhagen 1980. Esistono diverse traduzioni italiane del De mortibus persecutorum.

Sempre di ambito cristiano è la storia dello scisma donatista scritta nel 365 da Ottato, vescovo di Milevis nell’Africa settentrionale. Per i nostri fini, la parte più importante di quest’opera è l’Appendice che riporta diverse documenti imperiali, tra cui le lettere inviate da Costantino nell’arco di un decennio per risolvere lo scisma. Esiste una traduzione italiana dell’opera a cura di L. Dattrino, edita da Città Nuova nel 1988.

L’Origo Constantini imperatoris è una breve biografia di Costantino, composta attorno alla fine del IV secolo da un autore pagano, noto come Anonimo Valesiano, a cui sono state aggiunti inaspettatamente passi della storia cristiana di Orosio.

Non molto aggiunge l’Historia adversus Paganos dell’iberico Orosio che copre il periodo dalla creazione dell’uomo al saccheggio vandalo di Roma (417). La traduzione in italiano, sotto gli auspici della Fondazione Lorenzo Valla, è stata curata da A. Bartalucci e G. Chiarini ed edita dalla Mondadori nel 1976. Un buon approfondimento è offerto da FABBRINI F., Paolo Orosio. Uno storico, Roma 1980.

Non si possono poi dimenticare i Panegyrici Latini n. VI (databile al 307), n. VII (del 310), n. VIII (del 312), n. IX (del 313) e n. X (del 321). D’altro canto, non è possibile utilizzare l’Historia Augusta, cioè la raccolta di biografie degli imperatori, perché la sua composizione da parte di diversi anonimi si

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interrompe a Diocleziano. Invece, vera e propria iattura è la perdita dei primi tredici libri delle Res Gestae di Ammiano Marcellino, che continuavano l’opera di Tacito, dal 96 d.C., e arrivavano fino al 353. La parte sopravvissuta consiste nei libri XIV-XXXI, relativi al periodo 354-378, fino alla disfatta di Adrianopoli. Pur dichiarandosi greco, Ammiano scrive la sua opera in latino, fra il 363 e il 390: da quanto ci è rimasto intuiamo le sue idee conservatrici e pagane, tuttavia i suoi giudizi non sono tendenziosi quanto quelli di Eusebio, tanto è vero che criticò il provvedimento con cui l’imperatore Giuliano rimuoveva i cristiani dall’insegnamento.

Ammiano non è tenero con Costantino, cui rimprovera l’indirizzo accentratore e dirigista che impoveriva la funzione socio-politica delle città, causandone il declino; un giudizio del resto condiviso anche da autori pagani quali Eunapio e Zosimo. Per una valutazione dell’opera storica di Ammiano Marcellino: AUSTIN N.J.E., Ammianus on Warfare. An Investigation into Ammianus’Military Knowledge, Bruxelles 1975. BLOCKEY R.C., Ammianus Marcellinus. A study of his Historiography and Political Thought, in “Coll. Latomus” 141 (1975), pp. 104-122.

CAMERON A.D.E., The Roman Friends of Ammianus, in “Journal of Roman Studies” 54 (1964), pp. 15 sgg. CAMUS P.M., Ammien Marcellin, Paris 1967. MATTHEWS J., The Roman Empire of Ammianus, London 1989.

RIKE R.L., Apex Omnium: Religion in the Res Gestae of Ammianus Marcellinus, Berkeley-Los Angeles, 1987 [trad. it. Apex Omnium: religione nelle Res Gestae di Ammiano Marcellino, Torino 1993]. ROSEN K., Ammianus Marcellinus, Darmstadt 1982.

SABBAH G., La méthode d’Ammien Marcellin, Paris 1978.

SEAGER R., Ammianus Marcellinus. Seven studies in his Language and Thought, Columbia 1986. SYME R., Ammianus and the Historia Augusta, Oxford 1968. THOMPSON E.A., The Historical Work of Ammianus Marcellinus, Cambridge 1947.

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La principale fonte letteraria pagana di lingua greca è la Storia Nuova di Zosimo, scritta alla fine del V o agli inizi del VI secolo. Il racconto di Zosimo partiva dall’imperatore Augusto e si arrestava al 410, al saccheggio di Roma da parte dei Visigoti, basandosi sulla storia perduta di Eunapio di Sardi e su quella di Olimpiodoro di Tebe. Se per gli aspetti religiosi dell’età di Costantino dipendiamo maggiormente dagli scritti di Eusebio, per quelli – per così dire – mondani la Storia Nuova di Zosimo è senza dubbio essenziale, nonostante i molti pregiudizi, naturalmente di segno opposto, nei confronti dell’imperatore.

Zosimo dà spazio perfino a ingenue forzature pur di addebitare a Costantino tutte le sciagure che si abbatterono sull’impero. Per comprendere la faziosità di Eusebio e di Zosimo è sufficiente leggere quanto scrivono sulla fondazione di Costantinopoli: il vescovo di Cesarea sostiene che la nuova città era interamente cristiana e che al suo interno non c’era alcuno spazio per gli dèi pagani e il loro culto. Zosimo, dal canto suo, critica l’imperatore accusandolo di aver costruito edifici poco solidi e di aver dilapidato tutte le sostanze dell’impero; egli inoltre smentisce Eusebio, riferendo che nella “Nuova Roma” furono eretti due templi pagani, uno dedicato alla dea Rea ed un altro alla Fortuna.

Sull’esercito e sulla difesa dell’impero, Costantino fu oggetto di infiammati rimproveri da parte degli autori pagani, in particolar modo Zosimo (II, 34), che probabilmente mutuava integralmente il biasimo espresso da Eunapio. Per i due storici pagani, Diocleziano sarebbe il vero salvatore della patria, colui che aveva rafforzato l’intero sistema di limes, dirottando ingenti risorse per il potenziamento dell’esercito così da respingere gli attacchi dei barbari; Costantino, invece, a loro dire, avrebbe deliberatamente concesso ai barbari una via d’accesso all’impero romano ormai priva di resistenza. Secondo Zosimo, Costantino aveva allontanato le truppe dalle frontiere, trasferendole nelle città più interne, dove i soldati si sarebbero rammolliti a contatto con i teatri e con gli altri lussi cittadini, creando non pochi problemi alla popolazione locale. È facile gioco per Zosimo lamentarsi della presenza dei soldati nelle città dell’impero a causa degli oneri che il loro sostentamento e mantenimento comportava, oltre che per i problemi di ordine pubblico che i singoli militari potevano causare.

D’altro canto, dalla documentazione epigrafica sappiamo che già sotto Diocleziano l’esercito mobile si componeva di due tipi di truppe: quelle stanziate ai confini (i limitanei) e le truppe mobili (il comitatus) che si acquartieravano all’interno o nei pressi delle città. Sotto Costantino questa suddivisione funzionale perdurò, con la differenza che l’esercito mobile crebbe fino a rappresentare oltre la metà degli effettivi delle forze armate dell’impero. Del resto, spesso non è possibile attribuire con certezza determinate misure e riforme a Diocleziano oppure a Costantino. Infatti, molte decisioni amministrative erano state già prese da Diocleziano: gli interventi di Costantino consistettero in

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sviluppi o modifiche di quanto era stato avviato da Diocleziano in una certa direzione. Costantino portò a termine quell’evoluzione dell’ordinamento dello Stato che era già stata avviata nelle sue linee fondamentali da Diocleziano.

Per quanti volessero accostarsi direttamente al testo di Zosimo si consiglia la traduzione curata nel 1977 da F. Conca per la casa editrice Rusconi; un ottimo approfondimento critico è offerto da PASCHOUD F., Cinq études sur Zosime, Paris 1976.

La perdita delle opere di autori pagani contemporanei (o di poco posteriori) al regno di Costantino è una vera iattura: tra esse possiamo ricordare l’opera del pagano Prassagora (vissuto nel IV secolo), di cui ci è rimasto solo qualche frammento, e la storia di Eunapio di Sardi (349 circa - 404), che riferiva degli avvenimenti compresi tra il 270 e il 404. Il lavoro di Eunapio è comunque confluito nella Storia Nuova di Zosimo, mentre è controversa la questione se Ammiano Marcellino abbia usato Eunapio o se sia accaduto il contrario. Si veda: BALDINI A., Ricerche sulla storia di Eunapio di Sardi. Problemi di storiografia tardopagana, Bologna 1994.

Un’agevole panoramica delle fonti letterarie di questo periodo è fornita da UDAL’COVA Z.V., Le monde vu par les historiens byzantins du IVe au VIIe siècle, in “Byzantinoslavica” 33 (1972), pp. 193-213. 3. Per uno sguardo d’insieme.

Lo studio delle fonti è imprescindibile nella ricerca storica, ma non bisogna dimenticare di consultare anche opere d’insieme in cui sia possibile fruire rapidamente delle conoscenze essenziali e dei principali riferimenti bibliografici. Oltre ai più conosciuti testi e manuali sulla storia bizantina, come quelli scritti da Ostrogorsky,115 Norwich,116 Gallina117 e Ronchey118 o curati da Maier119 o da Ducellier,120 bisogna ricordare quelli (non ancora disponibili in italiano) scritti da H.-W. Haussing121 e da A. Christophilopoulou.122

Inoltre, per l’argomento in esame possono risultare utili le opere dedicate alla storia romana e all’età tardo antica. Tra esse è possibile citare: ALFÖDY G., The Social History of Rome, London 1985 [trad. it. Storia sociale dell’antica Roma, Bologna 1987].

115 OSTROGORSKY G., Geschichte des Byzantinischen Staates, München 1963 [trad. it. Storia dell’impero bizantino, Torino 1968]. 116 NORWICH J.J., Bisanzio. Splendore e decadenza di un impero 330-1453, Milano 2000. 117 GALLINA M., Potere e società a Bisanzio. Dalla fondazione di Costantinopoli al 1204, Torino 1995. 118 RONCHEY S., Lo Stato bizantino, Torino 2002. 119 MAIER F. G., Byzanz, Frankfurt am Main 1973 [trad. it. L’Impero bizantino, Milano 1974]. 120 DUCELLIER A. (a cura di), Byzance et le monde orthodoxe, Paris 1986 [trad. it. Bisanzio, Torino 1988]. 121 HAUSSIG H. W., Byzantinische Geschichte, Kröner, Stuttgart 1969. 122 CHRISTOPHILOPOULOU A., Byzantine History, I. (324-610), II. (610-867), Amsterdam 1986-1993.

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BESNIER M., L’Empire Romain de l’avènement des Sévéres au Concile de Nicée, Paris 1937. CAMERON A., The Later Roman Empire, London 1993 [trad. it. Il tardo impero romano, Bologna 1995]. CARY M., A History of Rome down to the Reign of Constantine, London 1982. CLEMENTE G., Guida alla storia romana, Milano 1977.

COLLINS R., Early Medieval Europe 300-1000, London 1991. DEMANDT A., Der Spätantike, Münich 1989. GIARDINA A. (a cura di), Società romana e impero tardoantico, 4 voll., Roma-Bari 1986. JONES A.H.M., The Later Roman Empire, 284-602. A Social, Economic and Administrative Survey, Oxford 1964 [trad. it. Il tardo impero romano, Milano 1973-1982].

LEVI M. A., L’impero romano, Torino 1971. MACMULLEN R., Roman Government’s Response to Crisis, AD 235-337, New Haven 1976. MAZZARINO S., L’impero romano, 3 voll., Roma-Bari 1973

MILLAR F.G.B., The Emperor in the Roman World, London 1977. IDEM., The Roman Empire and its Neighbours, London 1963 [trad. it. L’impero romano e i popoli limitrofi, Milano 1968]. PARKER H. M. O., Roman World from 138 to 337 A.D., Glasgow 1976.

PETIT P., Histoire génerale de l’empire romain, Paris 1974.

PIGANIOL A., L’empire chrétien (325-395), Paris 1947. RÉMONDON R., La crise de l’Empire romain de Marc Aurèle à Anastase, Paris 1964 [trad. it. La crisi dell’impero romano, Milano 1975].

STEIN E., Histoire du Bas-Empire, 2 voll., Paris-Bruxelles-Amsterdam 1949-1959.

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4. Costantino il Grande e la sua età.

Le fonti e gli scopi con cui sono state create hanno inevitabilmente influenzato i giudizi degli storici moderni; nel caso di Costantino il Grande i motivi di riflessione, di polemica o di esaltazione si sono ulteriormente arricchiti e complicati grazie alla prospettiva storica che il passare dei secoli ha consegnato a noi posteri. Così si va da posizioni sostanzialmente allineate al pensiero di Zosimo e Ammiano, come quella di Edward Gibbon, (l’adesione di Costantino al cristianesimo favorì il già esistente processo di declino con l’abbandono dei valori romani più antichi) all’idea che Costantino fosse in realtà un politico purosangue spregiudicato persino nel campo religioso, come voleva Jacob Burckhardt. Altri, poi, hanno posto l’accento sugli elementi di rottura della figura e della politica costantiniane. Ne è un esempio Santo Mazzarino che nel suo L’impero romano scrisse: «Costantino è il più violento rivoluzionario della storia romana: egli ha avuto il coraggio di spezzare con i vecchi schemi, e di accettare senza grandi compromessi il portato dell’enorme trasformazione che si era compiuta nell’impero. La sua rivoluzione religiosa è parallela alla sua rivoluzione economico-sociale e alla trasformazione degli ordinamenti militari». Naturalmente, contrapposta a questa opinione, c’è quella di chi si sofferma sugli elementi di continuità, facendo di Costantino un figlio del suo tempo (cfr. Peter Brown). In ogni caso, la cristianizzazione e le profonde ripercussioni determinate dall’adesione di Costantino al cristianesimo sull’impero e sul tessuto sociale costituiscono uno degli elementi che differenziano la tarda antichità dall’antichità propriamente detta.

Qui di seguito elenchiamo i maggiori contributi sulla figura di Costantino, molti di essi sono vere e proprie monografie: AIELLO V., Costantino il Grande. Dall’antichità all’umanesimo, Atti del Convegno Internazionale, Macerata, 18-20 dicembre 1990. BAKER G.P., Constantine the Great and the Christian Revolution, New Haven 2001. BARNES T. D., The New Empire of Diocletian and Constantine, Cambridge USA 1981. IDEM, Constantine: History, Historiography, and Legend, London 1998. BRUUN P., Studies in Constantinian Chronology, New York 1961. BOWDER D., The Age of Constantine and Julian, London 1978.

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BURCKHARDT J., Die Zeit Constantins des Grossen, Bassel 1853 [trad. it. L’età di Costantino, Firenze 1990]. CHASTAGNOL A., L’évolution politique, sociale et économique du mond romain de Dioclétien à Julien (284-363), Paris 1982. DÖLGER F. J., Konstantin der Grosse und seine Zeit, Freiburg 1913.

DOERRIES H., Konstantin der Grosse, Stuttgart 1958. FIRTH J. B., Constantine The Great, New York 1901, (2a ed. 1923). GRANT M., Constantine The Great. The Man and His Times, New York 1993. HÖHN K., Konstantin der Grosse, Leipzig 1945.

HORST E., Costantino il Grande, Milano 1987.

KOUSOULAS D. G., The Life and Times of Constantine the Great: The First Christian Emperor, Boston 1997. MACMULLEN R., Constantine, London 1970. MAZZARINO S., Antico, tardoantico ed era costantiniana, Bari 1974.

PIGANIOL A., L’empereur Constantin, Paris 1932. VOEKL L., Der Kaiser Konstantin. Annalen einer Zeitenwende 306-337, München 1957. VOGT J., Konstantin der Grosse und sein Jahrhundert, München 1949, (2a ed. 1960).

VON SIMON D., Konstantinisches Kaiserrecht, Frankfurt 1977.

5. Costantino, il Cristianesimo e la sua politica religiosa.

Con Costantino ha inizio de facto la cristianizzazione dell’impero, completata de iure da Teodosio. Molti tuttavia, sulla scorta dell’affascinante tesi di Jacob Burckhardt poc’anzi citata, hanno creduto Costantino un politico sostanzialmente alieno da preoccupazioni morali e religiose, che aveva riconosciuto il cristianesimo solo per freddo calcolo, nella convinzione che la

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nuova fede potesse dare un utile fermento spirituale alla riedificazione dell’impero.

Oggi questa tesi non pare più sostenibile, poiché molti indizi riconoscerebbero infatti in Costantino una genuina disposizione religiosa. Ottimi testi di riferimento per approfondire la questione sono: ALFÖLDI A., The Conversion of Constantine and Pagan Rome, Oxford 1948 [trad. it Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Roma-Bari 1976]. AMSTRONG A., The Way and the Ways: Religious Tolerance and Intolerance in the Fourth Century, in “Vigiliae Christianae” 1984, pp. 1 sgg.

BAYNES N. H., Constantine the Great and the Christian Church, Cambridge 1930, (2a ed. 1972). BEATRICE P. F., L’intolleranza cristiana nei confronti dei pagani: un problema storiografico, in “Cristianesimo nella storia” 11 (1990), pp. 441-47.

BREZZI P., Dalle persecuzioni alla pace di Costantino, Roma 1960. BRISSON J. P., Autonomisme et donatisme dans l’Afrique romaine de Septime Sévère à l’invasion vandale, Paris 1958. BROWN P., The World of Late Antiquity. From Marcus Aurelius to Muhammad, London 1971 [trad. it. Il mondo tardo antico. Da Marco Aurelio a Maometto, Torino 1974]: si legga in particolare il secondo capitolo dedicato alla religione.

CALDERONE S., Costantino e il cattolicesimo, Firenze 1962. CAMERON A., Christianity and the Rhetoric of Empire, Berkeley-Los Angeles 1991.

CRACCO RUGGINI L., “De morte persecutorum” e polemica antibarbarica nella storiografia pagana e cristiana, in “Rivista di storia e letteratura religiosa” 4 (1968), pp. 433-47. DE GIOVANNI. L., Costantino e il mondo pagano, Napoli 1982.

DODDS E. R., Pagans and Christians in an Age of Anxiety, Cambridge 1965 [trad. it. Pagani e cristiani in un’epoca d’angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, Firenze 1976].

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DORRIES H., Constantine and Religious Liberty, New Haven 1960. DUCELLIER A., L’église bizantine entre pouvoir et esprit (313-1204), Paris 1990: sull’evoluzione dei rapporti tra Chiesa e potere politico. È corredato da un’ampia antologia di fonti e documenti tradotti. FOX R. L, Pagans and Christians, London 1986 [trad. it. Pagani e cristiani, Roma-Bari 1991]: i capitoli II e III sono particolarmente interessanti perché ricostruiscono il passaggio dal mondo religioso pagano a quello cristiano all’interno della religiosità civica delle città ellenistiche secondo una prospettiva opposta a quella tradizionalmente seguita, di cui E. R. Dodds è uno dei maggiori esponenti.

GAUDEMET J., L’église dans l’empire romani IVe-Ve siècles, Paris 1958. GEEFCKEN J., Der Ausgang des Griechisch-Römischen Heidentums, Heidelberg 1920: sul clima intellettuale e religioso dell’età costantiniana.

GREENSLADE S. L., Church and State from Constantine to Theodosius, London 1954. HUSSEY J. M, The Orthodox Church in the Bizantine Empire, Oxford 1986.

JONES A. H. M., Constantine and the Conversion of Europe, London 1948. MARKUS R., Christianity in the Roman World, London 1974. IDEM, The End of Ancient Christianity, Cambridge 1991. MaC MULLEN R., Christianizing the Roman Empire A.D. 100-400, New Haven Connecticut 1984 [trad. it. La diffusione del Cristianesimo nell’Impero romano (100-400), Roma-Bari 1989]: ha posizioni abbastanza scettiche. IDEM, What difference did Christianity make?, in “Historia” 35 (1986), pp. 322-43.

MOMIGLIANO A. (a cura di), The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, Oxford 1963 [trad. it. Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Torino 1968]: comprende otto saggi utili alla comprensione di come si sia affermato il cristianesimo, nonostante l’opposizione di una ristretta ma agguerrita élite aristocratica.

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NOCK A. D., Conversion, Oxford 1933 [trad. it. La conversione. Società e religione nel mondo antico, Roma-Bari 1974]: descrive il diffondersi e la portata sociale dei nuovi culti nell’impero romano.

PIGANIOL A., L’empire chrétien (325-395), Paris 1947. SCHWARTZ E., Kaiser Konstantin und die Christliche Kirche, Leipzig 1936.

SORDI M., Il Cristianesimo e Roma, Bologna 1965. EADEM, I cristiani e l’impero romano, Milano, 1990.

Se si intende studiare la politica religiosa costantiniana attraverso le emissioni monetali di grande aiuto saranno l’introduzione e i capitoli II e III del secondo volume di MAURICE J., Numismatique constantinienne, Paris 1908. 6. In hoc signo vinces. La battaglia del ponte Milvio del 28 ottobre 312 è passata alla storia come il momento della rivelazione del favore divino nei confronti di Costantino. Il quale Costantino, secondo le fonti, già da qualche anno era convinto di essere sotto la tutela del Dio cristiano: CECCHELLI C., Il trionfo della croce, Roma 1954.

GALLETIER E., La mort de Maximien d’après le panégyrique de 310 et la vision de Constantin au temple d’Apollon, in “Revue d’Études Anciennes” 52 (1950), pp. 288 sgg.: è convinto che la prima visione del crisma da parte di Costantino sia avvenuta a Grand. HATT J. J., La vision de Constantin au sanctuaire de Grand et l’origine celtique du labarum, in “Latomus” 9 (1950), pp. 427 sgg.

MOREAU J., Sur la vision de Constantin (312), in “Revue d’Études Anciennes” 55 (1953), pp. 307 sgg.: il segno del crisma è riportato alla stella a sei braccia, emblema della divinità suprema. ORGELS P., La première vision de Constantine (310) et le temple d’Apollon à Nîmes, in “Bull. Acad. Belg.” 35 (1948), pp. 176 sgg.: collega la visione del Sol Invictus, identificato con Apollo, alla costruzione del tempio di Nîmes, in Francia.

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RODGERS B. S., Constantine’s Pagan Vision, in “Byzantion” 50 (1980), pp. 259 sgg.: riflessione sulle suggestioni classiche e pagane che dovettero impressionare Costantino. SESTON W., La vision païenne de 310 et les origines du chrisme constantinien, in “Ann. Inst. Philol. Hist. Or.” 4 (1936), pp. 373 sgg.: sostiene che sia soltanto un topos puramente letterario.

7. Le battaglie che condussero alla vittoria finale. ALFÖLDI M.R.– KIENAST D., Zu P. Bruuns Datierung der Schlacht an der Milvischen Brücke, in “Jahrb. Num. Geldgesch.” 11 (1961), pp. 33-41: preferiscono la data tradizionale del 312 per la battaglia del Ponte Milvio. BRUUN P., The Battle of the Milvian Bridge. The Date Reconsidered, in “Hermes” 88 (1960), pp. 361 sgg.: riferisce la battaglia del Ponte Milvio all’anno 311. IDEM, Portrait of a Cospirator. Constantine’s Break with the Tetrarchy, in “Arctos” 10 (1976), pp. 5 sgg.: spiega l’apporto dei dati numismatici alla conoscenza della lotta condotta da Costantino per conquistare il potere assoluto. COSTA G., La battaglia di Costantino a Ponte Milvio, in “Bilychnis” 2 (1913), pp. 197 sgg.

LEVI M.E., La campagna di Costantino nell’Italia settentrionale (a. 312), in “Boll. St.-Bibl. Supalp.” 36 (1934), pp. 1 sgg.: si concentra sulla battaglia allo sbocco della valle di Susa, nei pressi di Torino del 312. 8. L’editto di Milano. Non ci è stato tramandato il testo dell’editto di Milano e per questo motivo alcuni storici ritengono che esso non sia mai stato emanato. Infatti, possediamo a riguardo solo due lettere conservate da Lattanzio nel De mortibus persecutorum (XLVIII) e da Eusebio nella Storia Ecclesiastica (X, 5): dirette una al governatore della Bitinia, l’altra a quello della Palestina, quasi uguali fra loro.

ADRIANI M., La storicità dell’editto di Milano, in “Studi Romani” 2 (1954), pp. 18 sgg.: crede nell’esistenza dell’editto e tenta addirittura una ricostruzione del testo. ANASTOS M., The Edict of Milan (313). A Defence of Its Traditional Autorship and Designation, in “Revue des Études Byzantines” 25 (1967), pp. 13 sgg.: disquisisce sull’editto del 313 e propende per la sua esistenza.

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CHRISTENSEN T., The So-called Edict of Milan, in “Classica et Medievalia” 35 (1984), pp. 129-75.

JOANNOU P. P., La législation impériale t la christianisation de l’empire romain (311-476), in “̒̒̒̒Orientalia Christiana Analecta” 192 (1972), (rist. 1979). LOMBARDI G., L’editto di Milano del 313 e la laicità dello Stato, in “Studia et Documenta Historiae et Juris” 50 (1984), pp. 1-98. PALANQUE J. R., À propos du prétendu édit de Milan, in “Byzantion” 10 (1953), pp. 607 sgg. 9. Costantino e la gerarchia ecclesiastica. SESTON W., Constantine as a “Bishop”, in “Journal of Roman Studies” 37 (1947), pp. 127 sgg.: si concentra sull’espressione “vescovo di quanti sono fuori della chiesa” con cui Costantino, secondo Eusebio nella Vita di Costantino (VI, 24), avrebbe designato se stesso, e la confronta con le diverse traduzioni date del testo greco e ne conclude che essa non appartiene ad Eusebio ed anzi sospetta dell’autenticità della Vita. BARNES T. D, Emperors and Bishops. A.D. 324-344. Some Problems, in “American Journal of Ancient History” 3 (1978), pp. 53 sgg. DE DECKER D.– DEPUIS-MASAY G., L’“épiscopat” de l’empereur Constantin, in “Byzantion” 50 (1980), pp. 118 sgg. DE WRIES W., Orient et Occident. Les structures ecclésiales vues dans l’histoire des sept premiers conciles œcuméniques, Paris 1974.

DRAKE H. A., Constantine and the Bishops: The Politics of Intolerance, New York 2002. DUDLEY D., History of the First Council of Nice: A World's Christian Convention A.D. 325 With a Life of Constantine, New York 1992.

10. Costantinopoli, Nuova Roma. Giudicare dello spirito col quale fu fondata Costantinopoli significa prendere posizione sul complesso problema della conversione di Costantino e sulle ragioni che lo spinsero a spostare il baricentro dell’impero verso Oriente. ALFÖLDI A., On the Fundation of Constantinople. A Few Notes, in “Journal of Roman Studies” 37 (1947), pp. 10 sgg.

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IDEM, The Conversion of Constantine and Pagan Rome, Oxford 1948 [trad. it. Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Roma-Bari 1976]: Costantino non fu spinto a fondare Costantinopoli da motivi strategici, ma ebbe il desiderio di fondare una capitale cristiana. BECATTI G. – DEICHMANN F. W., voce Costantinopoli, in Enciclopedia dell’Arte Antica II, Roma 1959, pp. 880-918. BECK H.G., Großstadt-Probleme: Konstantinopel vom 4.-6. Jht., in IDEM (a cura di), Studien zur Frühgeschichte Konstantinopels, München 1973. IDEM, Constantinople: The Rise of a New Capital in East, in WEITZMANN K. (a cura di), Age of Spirituality: A Symposium, New York 1980, pp. 29-37. CEAUSESCU P., Altera Roma. Histoire d’une folie politique, in “Historia” 25 (1976), pp. 79 sgg.: illustra i precedenti tentativi di fondare una seconda Roma in Oriente, preferibilmente ad Alessandria, dove trasferire la capitale dell’impero. CRACCO RUGGINI L., Il paganesimo romano tra religione e politica (384-394 d.C.): per una reinterpretazione del Carmen contra paganos, in “Memorie della Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche”, serie VIII, 23 (1979): contributo chiarificatore sulle cerimonie di fondazione della Nuova Roma. DAGRON G., Naissance d’une capitale. Constantinople et ses institutions de 330 à 451, Paris 1974 [trad. it. Costantinopoli. Nascita di una capitale (330-451), Torino 1991]. IDEM, Rome et l’Italie vues de Byzance (IVe-VIIe siècles), in Bisanzio, Roma e l’Italia nell’alto medioevo (3-9 aprile 1986, CISAM, XXXIV Settimana), Spoleto 1988, pp. 43-64.

DÉCARREAUX J., Byzance ou l’autre Rome, Paris 1982. DÖLGER F. J., Rom in der Gedankenwelt der Byzantiner, in IDEM, Byzanz und die Europäische Staatenwelt, Ettal 1953, pp. 70-115. EBERSOLT J. – THIERS A., Les églises de Constantinople, 2 voll., Paris 1913. HAMPL F., Die Gründung von Konstantinopel, in “Südost-Forschungen” 14 (1955), pp. 9 sgg.

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HUTTON W. H., Constantinople : the story of the old capital of the empire, London 1914. KRAUTHEIMER R., Three Christian Capitals. Topography and Politics, Berkeley - Los Angeles - London 1983 [trad. it. Tre capitali cristiane. Topografia e politica, Torino 1987]. JANIN R., Constantinople byzantine, Paris 1950. MANGO C., Le développement urbain de Constantinople (IVe-VIIe siècles), Paris 1984.

MENGOZZI B. (a cura di), Roma - Costantinopoli - Mosca. Da Roma alla Terza Roma. Documenti e Studi, Napoli, 21-23 aprile 1983: si leggano in particolare i contributi di E. Follieri, J. Irmscher, L. Cracco Ruggini, V. Monachino, D. Stiernon, M. Mazza, G. Dagron e H. Ahrweiler.

SCHMIDT T. M., Konstantinopolis. Zum Städtebaulichen Programm des Zweiten Rom, in “Wissensch. Zeitschrift Jena” 30 (1981), pp. 431 sgg. SCHULTZE V., Altchristliche Städte und Landschaften, I, Konstantinopel, Leipzig 1913.

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IDEM., Byzantine Churches in Constantinople: their history and architecture, London 1974.

11. L’ideologia politica dell’impero cristiano. L’adesione di Costantino alla fede cristiana determina un mutamento nell’ideologia politica imperiale; un processo non certo istantaneo, dato il carico e il prestigio della tradizione a confronto della comunità cristiana, ancora numericamente poco rilevante. Lo stesso Costantino mantenne un atteggiamento – vuoi per ragioni personali, vuoi per opportunismo politico – sincretistico. È vero che Costantino amava presentarsi come “tredicesimo apostolo” o come “vescovo di coloro che sono al di fuori della Chiesa”, ma non è possibile pensare che egli scientemente ponesse le basi del legame indissolubile (per la mentalità bizantina) di stato e Chiesa, secondo il paradigma del cesaropapismo. Per approfondire questi aspetti e i successivi sviluppi si consigliano: AHRWEILER A., L’idéologie politique de l’Empire byzantin, Paris 1975.

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BARKER E., From Alexander to Constantine, Oxford 1956: per la storia delle idee politiche e sociali dall’antichità fino all’avvento del cristianesimo. IDEM, L’impero romano ed altri saggi, Bari 1959: illustra l’idea della sovranità da Augusto a Costantino. DVORNIK F., Early Christian and Byzantine Political Philosophy, in “Dumbarton Oaks Studies” 2 (1966), pp. 634-35. FARINA R., L’impero e l’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea. La prima teologia politica del cristianesimo, Zürich 1966. HALSBERGHE G. H., The Cult of Sol Invictus, Leiden 1972. HUNGER H. (a cura di), Das Byzantinische Herrscherbild, Darmstadt 1975.

MaC CORMICK M., Eternal Victory. Triumphal Rulership in Late Antiquity, Byzantium and Early Medieval West, Cambridge 1986 [trad. it. Vittoria eterna. Sovranità trionfale nella tarda antichità a Bisanzio e nell’Occidente altomedievale, Milano 1993]. PERTUSI A., Il pensiero politico bizantino, Bologna 1990.

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12. L’organizzazione dello stato romano sotto Costantino. ARNHEIM M. T. W., The Senatorial Aristocracy in the Later Roman Empire, Oxford 1972. BAYNES N.H., Three Notes on the Reforms of Diocletian and Constantine, in “Journal of Roman Studies” 15 (1925), pp. 195 sgg . CHASTAGNOL A., La préfecture urbaine à Rome sous le Bas-Empire, Paris 1960. IDEM., Les fastes de la préfecture de Rome au le Bas-Empire, Paris 1962.

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IDEM, Remarques sur le sénateurs orientaux au IVe siècle, in “Acta Ant. Hung.” 24 (1976), pp. 341 sgg. CORCORAN S., The Empire of the Tetrarchs: Imperial Pronouncements & Government, A.D. 284-324, Oxford 1996. DUPONT C., Constantin et les diocèses, in Studi in memoria di G. Donatuti, Milano 1973. HEIL W., Der Konstantinische Patriziat, Basel 1966. NOVAK D. M., Constantine and the Senate, in “Anc. Soc.” 10 (1979), pp. 271 sgg.: sulla modesta resistenza trovata da Costantino in ambito senatorio. PALANQUE J. R., Essai sur la prefecture du prétoire du Bas-Empire, Paris 1933: fissa il passaggio della prefettura del pretorio da presentale a regionale intorno al 325, con la creazione di grandi prefetture, entità territoriali, giuridicamente ben definite, poste sotto l’autorità di un prefetto del pretorio rappresentante, in tutta la sua interezza, del potere centrale. IDEM, Les préfets du prétoire de Constantin, in “Ann. Philol. Hist. Or.” 10 (1950), pp. 483 sgg. IDEM, Les préfets du prétoire sous les fils de Constantin, in “Historia” 4 (1955), p. 257 sgg. SINNIGEN W. G., The Officium of the Urban Prefecture during the Later Roman Empire, Accademia Americana, Roma 1957. ZAKRZEWSKY C., Le consistoire impérial du Bas-Empire romain, in “Eos” 31 (1928), pp. 405 sgg.

13. L’esercito e le riforme militari di Costantino. MISCHER E., The Army Reforms of Diocletian and Constantine, in “Journal of Roman Studies” 13 (1923), pp. 1 sgg.: a suo avviso, Costantino avrebbe raddoppiato l’organico dell’esercito romano, portando le legioni da 34 a 68. PARKER H. D. M., The Legions of Diocletian and Constantine, in “Journal of Roman Studies” 23 (1933), pp. 175 sgg. SESTON W., Du “comitatus” de Dioclétien aux “comitatenses” de Constantin, in “Historia” 4 (1955), pp. 248 sgg.: dimostra che già sotto Diocleziano esisteva una forza di riserva ed una di campagna.

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VAN BERCHEM D., L’armée de Dioclétien et la riforme constantinienne, Paris 1952: nega l’attribuzione a Diocleziano di numerose riforme che invece i più fanno risalire a lui, attribuendole all’età costantiniana: ad esempio, a Costantino è attribuita l’istituzione dei comitatenses.

14. Il tessuto sociale e il quadro economico sotto il regno di Costantino. AMARELLI F., Vetustas-Innovatio. Un’antitesi apparente nella legislazione di Costantino, Napoli 1978. CHASTAGNOL A., À propos de quinquennalia de Constantin, in “Revue Numismatique” 22 (1980), pp. 106 sgg.: afferma che il solido fu creato nella primavera del 310.

DUPONT C., La réglementation économique dans les constitutions de Constantin, Lilla 1963: sull’aspetto economico della legislazione di Costantino. GANGHOFFER R., L’évolution des institutions municipales en Occident et en Orient au Bas-Empire, Paris 1963: di notevole interesse per comprendere l’organizzazione municipale delle città del basso impero. GRUBBS J. E., Law and Family in Late Antiquity: The Emperor Constantine's Marriage Legislation, Oxford 1995. HENDY, Studies in the Byzantine Monetary Economy, c. 300-1450, Cambridge 1985: poderosa e magistrale sintesi su tutti gli aspetti della politica finanziaria ed economica dell’impero bizantino. LEMERLE P., The Agrarian History of Byzantium from the Origins to the Twelfth Century. The Sources and the Problems, Galway 1979. MAZZARINO S., Aspetti sociali del quarto secolo, Roma 1951.

PALLASSE P., Orient et Occident. À propos du colonat romain au Bas-Empire, Lion 1950: sui rapporti giuridici in relazione al possesso della terra. PATLAGEAN E., Pauvreté économique et pauvreté sociale à Byzance, 4e-7e siècle, Paris-La Haye 1977: si tratta di una storia economica e sociale dell’impero vista attraverso la condizione dei suoi ceti popolari in una prospettiva di antropologia storica.

PIGANIOL A., Le problème de l’or au IVe siècle, in “Annales d’Histoire sociale” 7 (1945), pp. 47-53.

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IDEM, La fiscalité du Bas-Empire, in “Journal des Savants”, Paris 1946, pp. 128-39. IDEM, L’économie dirigée dans l’Empire romain au IVe siècle, in “Scientia” 21 (1947). PUGLISI A., Servi, coloni, veterani e la terra in alcuni testi di Costantino, in “Labeo” 23 (1977), pp. 305 sgg.

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I CIECHINI DI MONTECATINI VAL DI CECINA123

di Antonio Palesati e Nicoletta Lepri

Montecatini è un ameno borgo delle colline metallifere

toscane affacciato sulla val di Cecina, presso Volterra e in provincia di Pisa, noto oggi per aver dato il nome e la prima sede alla società Montecatini, che organizzò industrialmente la trasformazione dei prodotti dell’attività mineraria della zona. Il luogo era conosciuto infatti sin dall’antichità, come attestano frammenti lapidei di età augustea, specialmente per le sue miniere di allume, argento e rame.

Nella parrocchiale del paese, due figure di serventi di circa ottanta centimetri di altezza, di marmo bianco venato di marrone, sono poste alla sommità di colonne, ai lati del presbiterio (figg. 1-3).

figura 1

123 Il testo di questo articolo è comprensivo delle notizie pubblicate da chi scrive in una delle schede critiche del volume Montecatini Val di Cecina. Arte e Storia, Pomarance 2003, pp. 54-59. Le foto nn. 1-3 sono di Silvano Donati; la n. 4 è del K.I.F.

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Una scheda relativa a queste opere, emessa dalla Soprintendenza nel 1914 e conservata in copia nell’archivio parrocchiale, dice che «tengono gli occhi atteggiati in modo da sembrar chiusi per cecità, onde il volgo li suole chiamare i ciechini».124 E li descrive come «due angioli di grandezza oltre la metà del vero che sorreggono due vasi destinati ad uso di candelabri»:125 a prova del fatto che, quando la relazione fu redatta, ciascuna scultura conservava le ali asportabili agganciate alle due coppie di ganci di ferro ancora visibili, fermati da malta in fessure longitudinali sulla schiena. All’altezza delle scapole sono visibili le due sezioni rettangolari aperte nel corpo marmoreo per far posto ai tasselli; ma è impossibile stabilire se ciò facesse parte di un primo riadattamento o se invece si tratti di un ulteriore intervento, che dovette riguardare la sostituzione di sagome di ali nel frattempo deterioratesi.

Dovevano essere presenti anche aureole in metallo, o in alabastro; o in legno, sul tipo di quella che oggi si vede appoggiata al capo del reggicandelabro a destra. Le due statue, secondo il testo novecentesco, sono «lavori ispirati allo stile proprio di maestri toscani del XV secolo, ma sono di fattura alquanto rozza, il sentimento è reso in modo insufficiente, tanto da farcele considerare opera di qualche artista arretrato che lavorava nella prima metà del XVI secolo».

figura 2

In effetti, il pagamento per la consegna delle due statue portacero appare, nei quaderni dell’Opera di S. Biagio, ripartito

124 COSTAGLI G., La chiesa e il territorio di Montecatini Val di Cecina fino al secolo XVII (= COSTAGLI, La chiesa e il territorio), relazione al convegno La chiesa di Montecatini val di Cecina fino al secolo XVII, Montecatini, 12 settembre 1999, p. 56. Per lo studio dell’iscrizione romana cfr. MUNZI M. –TERRENATO N., La colonia di Volterra. La prima attestazione epigrafica ed il quadro storico e archeologico, in “Ostraka” 1 (1994). 125 COSTAGLI, La chiesa e il territorio, p. 56.

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in due rate, nel biennio 1577-78, per un importo complessivo di 125 lire.126 I documenti riferiscono il nome di un artefice, «Agostino di Giovanni Maghetti marmaio» maestro di sconosciuta rilevanza locale, in relazione al quale il prezzo pagato appare ingente. A meno che, come pare più probabile, l’artigiano non si fosse limitato ad adattare alla forma e alla funzione di angeli portacero due opere preesistenti, tenendo parzialmente conto anche del valore antiquario di esse. Un’analisi del marmo e l’identificazione delle cave d’origine potrebbero offrire notizie determinanti per la valutazione delle sculture.

I modi tuttavia, seppur confusi dai rifacimenti e dagli aggiustamenti, paiono riconducibili alla statuaria di età post-augustea, a cui rimandano in particolare le capigliature, la composizione e l’espressione del volto, con il collo largo, il naso leggermente aquilino, il sottomento pieno e arrotondato; e il sorriso incerto e ieratico, che suggerisce commistioni con le modalità artistiche del Mediterraneo orientale, derivanti da remote tradizioni mesopotamiche. Come le inserzioni di pasta vitrea in certi antichi manufatti di metallo prezioso, collocate allo scopo di catturare riflessi di luce che fingessero vivo l’oggetto.

. figura 3

Sulle piatte pupille sporgenti e apparentemente mal

terminate delle statue di Montecatini erano probabilmente posti, in una ricerca di effetto estranea alla scultura di età repubblicana, dischetti di vetro o di metallo, levigati a specchio per riflettere la fiamma dell’olio che doveva bruciare in bacili sostenuti dai piedistalli esagonali, oggi tronche e poco convincenti basi per i ceri tra le mani delle due figure di marmo.

126 La notizia è fornita da FALORMI A, Montecatini Val di Cecina…, cit., p. 37.

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La tipizzazione dei profili molto richiama i tratti della testa colossale di Costantino il grande conservata ai Musei Capitolini romani, o quelli che del medesimo imperatore furono tramandati nel conio del multiplo d’oro oggi custodito al Cabinet des Medailles della Bibliothèque Nationale de France, a Parigi (fig. 4).

figura 4

Sappiamo in realtà che l’immagine storica vi appariva elaborata in ossequio a un tipo di massima dignità estetica rispetto allo status imperiale, dove i caratteri personali («la fronte dritta, il naso aquilino, il mento rotondo e leggermente prominente, la bocca ben disegnata e l’espressione calma»)127 conoscono alternativamente ricostruzioni massicce e severe, come accade nelle monete emesse per l’inaugurazione di Costantinopoli, oppure un affinamento idealistico che risente di processi di sintesi iconica avviati in tarda epoca repubblicana e resi poi canonici dai ritratti di Augusto, proporzionati e sereni secondo la descrizione datane da Svetonio. L’epidermide levigata e le ciocche a fiammella della capigliatura sulla nuca risalivano addirittura alla tradizione greca.128 Possiamo dunque in sostanza considerare che i lineamenti di Costantino restituiti dalla statuaria del suo tempo fossero nel loro insieme sintetizzati prima dell’esistenza di Costantino stesso.

Renato Barilli ha illustrato recentemente, in una serie di lezioni tenute presso l’ateneo bolognese,129 i criteri culturali ed estetici in base ai quali opere scultoree della romanità vennero assunte in riadattamenti rinascimentali; al tempo in cui, fra l’altro, le tipologie del volto ideale sono rappresentate nel ritratto di profilo altrettanto spesso che nella numismatica antica, combinando efficacemente «il massimo di astrazione

127 FACCENNA D., Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, 6 voll., Roma 1959, II, p. 874. 128 Cfr. FELLETTI MAJ B.M., Enciclopedia dell’arte…, cit., I, p. 918. 129 Cfr. BARILLI R., Percorso della scultura dall’età tardo-romana al romanico e al gotico, Bologna 2003.

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calligrafica con le esigenze dell’immediata riconoscibilità».130 Ma se i sandali alla romana come quelli indossati dai Ciechini furono sovente un recupero iconografico del classicismo quattro-cinquecentesco, la collana che cinge il collo delle statue, con il singolare pendaglio a forma di punta di freccia, rimanda invece indiscutibilmente a immagini di serventi e famigli dell’antichità. Citiamo a confronto già le due statue di Persiani di età augustea conservate al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, nel Gran Salone della Meridiana,131 provenienti dalla Collezione Farnese a cui erano pervenuti da quella Del Bufalo. Realizzate in marmo frigio pavonazzetto con inserzioni di marmo nero nel volto e nelle mani, esse sono inginocchiate come i personaggi scolpiti di Montecatini, ma, ispirate all’iconografia più consueta di Atlante e di Attis, le sculture napoletane, di somiglianza speculare, sorreggono con le spalle dei contenitori a bocca quadrata.

Le due figure di Montecatini, pur molto simili, presentano manifeste diversità di esecuzione. Quella a destra dell’altare è senza dubbio di fattura più accurata: il panneggio è ben rilevato, facilmente leggibili i particolari decorativi, quali la fibbia e le ripiegature del tessuto della veste sopra il gomito e sotto il ginocchio poggiato al suolo. Quella di sinistra presenta al confronto un’esecuzione più ripetitiva, meno ricercata, e una minore rilevanza dei volumi. La tunichetta copre i fianchi senza la leggera svasatura che rende più aggraziato il profilo della scultura gemella; i gomiti e le mani, specie quella poggiata sul ginocchio, sono troppo deboli e femminei: concedono di supporre che la statua si presentasse, all’artefice incaricato dall’Opera, priva in tutto o in parte delle mani, rilavorate sul corpo della base portacero esagonale e rafforzate più tardi nella loro posizione da un blocco di muratura. Nello stesso personaggio, appare imperitamente ricostituito in malta anche il piede rovesciato all’indietro; con il medesimo materiale tutto il corpo del ceriferario è fissato alla base della scultura, comprendente l’increspatura inferiore della veste.

Raschiature si notano nelle cintole. Il disegno inciso su quella della figura a sinistra è praticamente scomparso, mentre nell’altra la decorazione sembra ridotta nel volume: come se si fosse voluto offuscare le forme cesellate dal primo scultore sul monile. Le zone dove più pesantemente si intervenne, asportando altro marmo, corrispondono però ai lati esterni degli avambracci. Sulla manica delle vesti i due personaggi dovevano recare elementi decorativi (forse placchette metalliche) o di raccordo con parti non coerenti con la nuova destinazione d’uso entro una chiesa cristiana. La zona integrata è talmente netta da far desumere che l’artigiano cinquecentesco segasse tali

130 Così Roberto Paolo Ciardi si esprime commentando le esemplificazioni grafiche comprese nel Dialogo sulla bellezza delle donne del Firenzuola, del 1541. Cfr. CIARDI R.P. (a cura di), I vallombrosani... in Vallombrosa..., Ospedaletto, Pacini, 1999, p. 30. 131 Nn. inv. 6115 e 6117.

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particolari, tornando a formare grossolanamente la massa del braccio. Le abrasioni di parte della capigliatura, all’incrocio tra la regione parietale e quella occipitale, dove una foratura permettesse l’inserimento delle aureole mediante perni metallico, dovettero esser parte dei lavori commissionati dall’Opera di S. Biagio. Impropriamente, nel 1914, il succitato compilatore della Soprintendenza annotava ancora: «hanno lunghe ed ondeggianti capigliature».

Dei piccoli fermagli visibili su ogni avambraccio e nelle tuniche inferiori, uno per gamba, quelli di marmo alabastrino giallo potrebbero risalire ai primi anni dell’Ottocento. Questi particolari sembrano infatti da porre in relazione (se non altro, come espressione di un gusto) con i raggi di gialletto di Siena richiesti nel 1803 a Volterra, dai due artigiani carraresi chiamati dai conti Guidi a “comporre” l’altare della Madonna di S. Sebastiano riutilizzando i marmi «già in opra all’altare di S. Sebastiano», per ottenere nuove incorniciature e decorazioni.132

Nella vicina cattedrale di Volterra sono presenti due angeli atteri portacero, paragonabili anch’essi – se si vuole – con questa descrizione, riconosciuti da poco come manufatti medievali e gotici, ma attribuiti in passato interamente alla mano quattrocentesca di Mino da Fiesole, che si limitò invece a scolpirne le teste, integrando gli originali mutili od operando un drastico restauro ricostitutivo su opere la cui testa doveva comunque risultare danneggiata. È difficile dire se alla fine del Cinquecento si conservasse ancora memoria di tale operazione e se gli esemplari volterrani servirono dunque da prototipo ideale per i Ciechini in S. Biagio. Essi restano comunque fondamentali per rammentare da quali sintesi iconografiche partì la fortunata rappresentazione rinascimentale, tutta toscana, degli angeli reggicandelabro. Tradizione che ha inizio con figure estranee a quest’uso ma debitrice ai modelli antichi: come il servente inginocchiato scolpito nel 1260 da Nicola Pisano entro la scena della Natività, nel pulpito del Battistero di Pisa. Al 1305 risalgono due angeli ceriferari, in piedi al lato della Madonna nella Vergine con il Bambino di Giovanni Pisano, nella Cappella degli Scrovegni di Padova. Tali esempi del Medioevo e del Rinascimento, fino a Luca Della Robbia e a Michelangelo, ebbero un percorso parallelo a quello che vide le forme del Moscòforo greco (si veda l’esemplare del 560 a.C. circa esposto al Museo dell’Acropoli di Atene) perpetuarsi, nel IV secolo, in quelle del Buon Pastore cristiano del Laterano (Roma, Musei Vaticani). E conobbero monumentali echi manieristi anche in ambito veneto attraverso l’arte di Jacopo Sansovino e dei suoi seguaci, tra cui il padovano Tiziano Aspetti, che a Padova, nella basilica di S. Antonio, ha lasciato due suoi importanti angeli ceriferarii bronzei.

132 COSTAGLI, La chiesa e il territorio, p. 13.

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APPENDICE

IL PRIMO CONCILIO DI NICEA

(MAGGIO-LUGLIO 325)133 Contro l'eresia di Ario: consustanzialità del Figlio con il Padre (simbolo niceno). Dal 19 giugno al 25 luglio (?) 325. Papa Silvestro I (314-335). Convocato dall’imperatore Costantino. Simbolo Niceno contro Ario: consustanzialità del Figlio col Padre. 20 canoni. 1. Professione di fede dei 318 padri. Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili. Ed in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre [secondo i Greci: consustanziale], mediante il quale sono state fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che quelle che sono sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto e risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà per giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo.

Ma quelli che dicono: Vi fu un tempo in cui egli non esisteva; e: prima che nascesse non era; e che non nacque da ciò che esisteva, o da un’altra ipostasi o sostanza che il Padre, o che affermano che il Figlio di Dio possa cambiare o mutare, questi la chiesa cattolica e apostolica li condanna. 2. Canoni. I. Di quelli che si mutilano o permettono questo da parte di altri su sé stessi. Se qualcuno, malato, ha subito dai medici un’operazione chirurgica, o è stato mutilato dai barbari, può far parte ancora del clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è castrato da sé, costui, appartenendo al clero, sia sospeso, e in seguito nessuno che si trovi in tali condizioni sia promosso allo stato ecclesiastico. E’ evidente, che quello che è stato detto riguarda

133 Un ringraziamento sentito a Dhuoda webmaster, che ci ha permesso di utilizzare le sue fonti. Per maggiori informazioni www.concili.totustuus.it.

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coloro che deliberatamente compiono una cosa simile e osano mutilare se stessi ma se qualcuno, fosse stato castrato dai barbari o dai propri padroni, ma fosse degno sotto ogni aspetto, i canoni lo ammettono nel clero. II. A coloro che dopo il battesimo sono subito ammessi nel clero. Poiché molte cose per necessità, o sotto la pressione di qualcuno, sono state fatte contro le disposizioni ecclesiastiche, sicché degli uomini, venuti da poco alla fede dal paganesimo e istruiti in breve tempo, sono stati subito ammessi al battesimo e insieme sono stati promossi all'episcopato o al sacerdozio, è sembrato bene che in futuro non si verifichi nulla di simile: è necessario del tempo, infatti, a chi viene catechizzato, ed una prova più lunga dopo il battesimo. E’ chiara infatti, la parola dell'apostolo: (il vescovo) non sia un neofita, perché non gli accada di montare in superbia e di cadere nella stessa condanna.134 Se poi col passar del tempo si venisse a scoprire qualche colpa commessa da costui e fosse accusato da due o tre testimoni, questi cesserà di far parte del clero. Chi poi osasse agire contro queste disposizioni e si ergesse contro questo grande sinodo, costui metterebbe in pericolo la sua stessa dignità sacerdotale. III. Delle donne che vivono nascostamente con i chierici.

Questo grande sinodo proibisce assolutamente ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e in genere a qualsiasi membro del clero di tenere delle donne di nascosto, a meno che non tratti della propria madre, di una sorella, di una zia, o di persone che siano al di sopra di ogni sospetto. IV. Da quanti debba essere consacrato un vescovo. Si abbia la massima cura che un vescovo sia istituito da tutti i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per sopravvenute difficoltà, o per la distanza, almeno tre, radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima per iscritto il consenso degli assenti, celebrino la consacrazione. La conferma di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna provincia al vescovo metropolita. V. Degli scomunicati: che non siano accolti da altri; e dell'obbligo di tenere i sinodi due volte all'anno. Quanto agli scomunicati, sia ecclesiastici che laici, la sentenza dei vescovi di ciascuna provincia abbia forza di legge e

134 I Tm., 3, 6-7.

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sia rispettata la norma secondo la quale chi è stato cacciato da alcuni non sia accolto da altri. E’ necessario tuttavia assicurarsi che questi non siano stati allontanati dalla comunità solo per grettezza d'animo o per rivalità del vescovo o per altro sentimento di odio.

Perché poi questo punto abbia la dovuta considerazione, è sembrato bene che in ogni provincia, due volte all'anno si tengano dei sinodi, affinché tutti i vescovi della stessa provincia riuniti al medesimo scopo discutano questi problemi, e così sia chiaro a tutti i vescovi che quelli che hanno mancato in modo evidente contro il proprio vescovo sono stati opportunamente scomunicati, fino a che l'assemblea dei vescovi non ritenga di mostrare verso costoro una più umana comprensione. I sinodi siano celebrati uno prima della Quaresima perché, superato ogni dissenso, possa esser offerto a Dio un dono purissimo; l'altro in autunno. VI. Della precedenza di alcune sedi, dell'impossibilità di essere ordinato vescovo senza il consenso del metropolita. In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi. Inoltre sia chiaro che, se qualcuno è fatto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba esser vescovo. Qualora poi due o tre, per questioni loro personali, dissentano dal voto ben meditato e conforme alle norme ecclesiastiche degli altri, prevalga l'opinione della maggioranza. VII. Del vescovo di Gerusalemme. Poiché è invalsa la consuetudine e l'antica tradizione che il vescovo di Gerusalemme riceva particolare onore, abbia quanto questo onore comporta, salva sempre la dignità propria della metropoli. VIII. Dei cosiddetti càtari. Quanto a quelli che si definiscono càtari, cioè puri, qualora si accostino alla Chiesa cattolica e apostolica, questo santo e grande concilio stabilisce che, ricevuta l'imposizione delle mani, rimangano senz'altro nel clero. E’ necessario però, prima di ogni altra cosa, che essi dichiarino apertamente, per iscritto, di accettare e seguire gli insegnamenti della Chiesa cattolica, che cioè essi comunicheranno con chi si è sposato per la seconda volta e con chi è venuto meno durante la persecuzione, per i quali sono stabiliti il tempo e le circostanze della penitenza, così da seguire in ogni cosa le decisioni della chiesa cattolica e

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apostolica. Quando, sia nei villaggi che nelle città, non si trovino che ecclesiastici di questo gruppo essi rimangano nello stesso stato. Se però qualcuno di essi si avvicina alla Chiesa cattolica dove già vi è un vescovo o un presbitero, è chiaro che il vescovo della chiesa avrà dignità di vescovo e colui che presso i càtari è chiamato vescovo, avrà dignità di presbitero, a meno che piaccia al vescovo che quegli possa dividere con lui la stessa dignità. Se poi questa soluzione non fosse per lui soddisfacente, gli procurerà un posto o di corepiscopo o di presbitero, perché appaia che egli fa parte veramente del clero e che non vi sono due vescovi nella stessa città. IX. Di quelli che senza il debito esame sono Promossi al sacerdozio. Se alcuni sono stati promossi presbiteri senza il debito esame, o, se esaminati, hanno confessato dei falli, ma, contro le disposizioni dei canoni, hanno ricevuto l'imposizione delle mani, la legge ecclesiastica non li riconosce; la Chiesa cattolica infatti vuole uomini irreprensibili. X. Di coloro che hanno rinnegato la propria fede durante la persecuzione e poi sono stati ammessi fra il clero. Se alcuni di quelli che hanno rinnegato la fede cristiana sono stati eletti sacerdoti o per ignoranza o per simulazione di quelli che li hanno scelti, questo non porta pregiudizio alla disciplina ecclesiastica: una volta scoperti, infatti, costoro saranno deposti. XI. Di quelli che hanno rinnegato la propria fede e sono finiti tra i laici. Quanto a quelli che, senza necessità, senza confisca dei beni, senza pericolo o qualche cosa di simile - ciò che avvenne sotto la tirannide di Licinio - hanno tradito la loro fede, questo santo sinodo dispone che, per quanto essi siano indegni di qualsiasi benevolenza, si usi tuttavia comprensione per essi. Quelli dunque tra i fedeli che fanno davvero penitenza, trascorrano tre anni tra gli audientes, sei anni tra i substrati,135 e per due anni preghino col popolo salvo che all'offertorio. XII. Di coloro che, dopo aver lasciato il mondo, vi sono poi ritornati. Quelli che chiamati dalla grazia, dopo un primo entusiasmo hanno deposto il cingolo militare, ma poi sono tornati, come i

135 Audientes e substrati indicano gli appartenenti a due fasi dei catecumenato, che dovevano essere adempiute da chi, convertito al cristianesimo, aspirava al battesimo.

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cani, sui loro passi,136 al punto da versare denaro e da ricercare con benefici la vita militare, facciano penitenza per dieci anni, dopo aver passato tre anni fra gli audientes.137 Ma, per questi penitenti, bisognerà guardare la loro volontà ed il modo di far penitenza. Quelli, infatti, che col timore, con le lacrime, con la pazienza, con le buone opere dimostrano con i fatti, e non simulano la loro conversione, costoro, compiuto il tempo prescritto da passare fra gli audientes,138 potranno essere ammessi ragionevolmente a partecipare alle preghiere; dopo ciò, il vescovo potrà prendere nei loro riguardi qualche decisione anche più mite. Ma quelli che si comportano con indifferenza, e credono che per la loro espiazione sia sufficiente questa penitenza, devono senz'altro scontare tutto il tempo stabilito. XIII. Di quelli che in punto di morte chiedono la comunione. Con quelli che sono in, fin di vita, si osservi ancora l'antica norma per cui in caso di morte nessuno sia privato dell'ultimo, indispensabile viatico. Se poi avvenisse che quegli che era stato dichiarato disperato, ed era,stato ammesso alla comunione e fatto partecipe dell'offerta, guarisca, sia ammesso tra coloro che partecipano alla sola preghiera (fino a che sia trascorso il tempo stabilito da questo grande concilio ecumenico). In genere, poi, il vescovo, dopo inchiesta, ammetterà chiunque si trovi in punto di morte e chieda di partecipare all'eucarestia. XIV. Dei catecumeni lapsi. Questo santo e grande concilio stabilisce che i catecumeni lapsi per tre anni siano ammessi solo tra gli audientes,139 e che dopo questo tempo possano prender parte alla preghiera, con gli altri catecumeni. XV. Del clero che si sposta di città in città. Per i molti tumulti ed agitazioni che avvengono, è sembrato bene che sia assolutamente stroncata la consuetudine, che in qualche parte ha preso piede, contro le norme ecclesiastiche, in modo che né vescovi né preti, né diaconi si trasferiscano da una città all'altra. Che se qualcuno, dopo questa disposizione del santo e grande concilio, facesse qualche cosa di simile, e seguisse l'antico costume, questo suo trasferimento sarà senz'altro considerato nullo, ed egli dovrà ritornare alla chiesa per cui fu eletto vescovo, o presbitero, o diacono

136 Cfr. Pr., 26, 11. 137 Cfr. n.135. 138 Ibidem. 139 Ibidem.

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XVI. Di coloro che non dimorano nelle chiese nelle quali furono eletti. Quanti temerariamente, senza santo timore di Dio, né alcun rispetto per i sacri canoni si allontanano dalla propria chiesa, siano essi sacerdoti o diaconi, o in qualsiasi modo ecclesiastici, non devono in nessun modo essere accolti in un'altra chiesa; bisogna, invece, metterli nell'assoluta necessità di far ritorno alla propria comunità, altrimenti siano esclusi dalla comunione. Che se poi uno tentasse di usar violenza ad alcun dipendente da un altro vescovo e di consacrarlo nella sua chiesa contro la volontà del vescovo, da cui si è allontanato, tale ordinazione sia considerata nulla. XVII. Dei chierici che esercitano l'usura. Poiché molti che sono soggetti ad una regola religiosa, trascinati da avarizia e da volgare desiderio di guadagno, e dimenticata la divina Scrittura, che dice: Non ha dato il suo denaro ad interesse,140 prestando, esigono un interesse, il santo e grande sinodo ha creduto giusto che se qualcuno, dopo la presente disposizione prenderà usura, o farà questo mestiere d'usuraio in qualsiasi altra maniera, o esigerà una volta e mezza tanto:, o si darà, in breve, a qualche altro guadagno scandaloso, sarà radiato dal clero e considerato estraneo alla regola. XVIII. Che i diaconi non debbano dare l'eucarestia ai presbiteri; e che non devono prender posto avanti a questi. Questo grande e santo concilio è venuto a conoscenza che in alcuni luoghi e città i diaconi danno la comunione ai presbiteri: cosa che né i sacri canoni, né la consuetudine permettono: che, cioè, quelli che non hanno il potere di consacrare diano il corpo di Cristo a coloro che possono offrirlo. Esso è venuto a conoscenza anche di questo: che alcuni diaconi ricevono l'eucarestia perfino prima dei vescovi. Tutto ciò sia tolto di mezzo, e i diaconi rimangano nei propri limiti, considerando che essi sono ministri dei vescovi ed inferiori ai presbiteri. Ricevano, quindi, come esige l'ordine, l'eucarestia, dopo i sacerdoti, e per mano del vescovo o del sacerdote. Non è neppure lecito ai diaconi sedere in mezzo ai presbiteri; ciò è, infatti, sia contro i sacri canoni, sia contro l'ordine. Se poi qualcuno non intende obbedire, neppure dopo queste prescrizioni, sia sospeso dal diaconato. XIX. Di quelli che dall'errore di Paolo di Samosata si avvicinano alla chiesa cattolica e delle diaconesse.

140 Psalm., 14, 5.

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Quanto ai seguaci di Paolo, che intendono passare alla Chiesa cattolica, bisogna osservare l'antica prescrizione che essi siano senz'altro ribattezzati. Se qualcuno di essi, in passato, era appartenuto al clero, purché, del tutto irreprensibile, una volta ribattezzato potrà essere ordinato dal vescovo della Chiesa cattolica. Ma se l'esame dovesse far concludere che si tratta di inetti, è bene deporli. Questo modo d'agire sarà usato anche con le diaconesse e, in genere, con quanti appartengono al clero. Quanto alle diaconesse in particolare, ricordiamo, che esse, non avendo ricevuto alcuna imposizione delle mani, devono essere computate senz'altro fra le persone laiche. XX. Che non si debba, nei giorni di domenica e di Pentecoste, pregare in ginocchio. Poiché vi sono alcuni che di domenica e nei giorni della Pentecoste si inginocchiano, per una completa uniformità è sembrato bene a questo santo sinodo che le preghiere a Dio si facciano in piedi.