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APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE LUCA LUSSARDI 1. Il problema delle quadrature dall’Antichit` a al Rinascimento Uno dei primi problemi matematici dell’Antichit` a legati allo sviluppo del calcolo in- finitesimale consiste calcolo delle aree di figure piane, o del volume di figure solide. Il classico problema della quadratura ha le sue origini nell’antica Grecia, e in generale esso consisteva nel determinare, con il solo uso della riga e del compasso, un quadrato equiva- lente ad una figura piana assegnata; uno si pu` o anche porre il problema della cubatura, ovvero della determinazione, sempre con riga e compasso, di un cubo con lo stesso vo- lume di una figura spaziale assegnata. La necessit`a di poter effettuare la costruzione limitandosi all’uso esclusivo di riga e compasso riflette il fatto che per gli antichi greci la geometria era un sapere costruttivo, oltre che teorico. La teoria della quadratura delle figure piane notevoli si pu` o inquadrare come applicazione di varie proposizioni contenute negli Elementi di Euclide (300 a.C. circa), opera monumentale composta tra il IV e il III sec. a.C. Ad esempio, ` e facile decomporre un triangolo in un rettangolo ad esso equivalen- te, ed ancora un rettangolo in un quadrato ad esso equivalente. Avendo quindi compreso come trasformare un triangolo in un quadrato equivalente, risultava allora semplice la trattazione di un poligono generale: prima va suddiviso in triangoli, ogni triangolo viene quindi trasformato in quadrato, e alla fine basta “sommare” i quadrati cos` ı ottenuti ap- plicando, in modo opportuno, il teorema di Pitagora. Tutto questo meccanismo funziona fino a che uno si limita alle figure poligonali, ma i problemi cominciano a diventare pi` u seri di fronte alle figure curve, ad esempio il cerchio. ` E ormai entrato nel linguaggio comune l’uso dell’espressione quadrare il cerchio per caratterizzare l’impossibilit` a di una prova. Infatti, la costruzione di un quadrato equivalente ad un cerchio assegnato, con uso esclusivo di riga e compasso, ` e impossibile, anche se questo fatto ` e stato rigorosamente dimostrato molti anni pi` u tardi rispetto alla civilt` a greca antica, ed anzi ` e una conquista della matematica moderna. Per i greci quindi problemi come la quadratura del cerchio con riga e compasso, o la rettificazione della circonferenza, restarono senza soluzione, e per questo motivo la teoria della quadratura delle figure piane nel senso costruttivo del termine fu abbandonata, limitandosi a fornire semplicemente un modo che consentisse perlomeno il calcolo dell’area di una figura piana, o del volume di un solido. Tuttavia, 1

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APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE

LUCA LUSSARDI

1. Il problema delle quadrature dall’Antichita al Rinascimento

Uno dei primi problemi matematici dell’Antichita legati allo sviluppo del calcolo in-

finitesimale consiste calcolo delle aree di figure piane, o del volume di figure solide. Il

classico problema della quadratura ha le sue origini nell’antica Grecia, e in generale esso

consisteva nel determinare, con il solo uso della riga e del compasso, un quadrato equiva-

lente ad una figura piana assegnata; uno si puo anche porre il problema della cubatura,

ovvero della determinazione, sempre con riga e compasso, di un cubo con lo stesso vo-

lume di una figura spaziale assegnata. La necessita di poter effettuare la costruzione

limitandosi all’uso esclusivo di riga e compasso riflette il fatto che per gli antichi greci la

geometria era un sapere costruttivo, oltre che teorico. La teoria della quadratura delle

figure piane notevoli si puo inquadrare come applicazione di varie proposizioni contenute

negli Elementi di Euclide (300 a.C. circa), opera monumentale composta tra il IV e il III

sec. a.C. Ad esempio, e facile decomporre un triangolo in un rettangolo ad esso equivalen-

te, ed ancora un rettangolo in un quadrato ad esso equivalente. Avendo quindi compreso

come trasformare un triangolo in un quadrato equivalente, risultava allora semplice la

trattazione di un poligono generale: prima va suddiviso in triangoli, ogni triangolo viene

quindi trasformato in quadrato, e alla fine basta “sommare” i quadrati cosı ottenuti ap-

plicando, in modo opportuno, il teorema di Pitagora. Tutto questo meccanismo funziona

fino a che uno si limita alle figure poligonali, ma i problemi cominciano a diventare piu

seri di fronte alle figure curve, ad esempio il cerchio. E ormai entrato nel linguaggio

comune l’uso dell’espressione quadrare il cerchio per caratterizzare l’impossibilita di una

prova. Infatti, la costruzione di un quadrato equivalente ad un cerchio assegnato, con uso

esclusivo di riga e compasso, e impossibile, anche se questo fatto e stato rigorosamente

dimostrato molti anni piu tardi rispetto alla civilta greca antica, ed anzi e una conquista

della matematica moderna. Per i greci quindi problemi come la quadratura del cerchio

con riga e compasso, o la rettificazione della circonferenza, restarono senza soluzione, e

per questo motivo la teoria della quadratura delle figure piane nel senso costruttivo del

termine fu abbandonata, limitandosi a fornire semplicemente un modo che consentisse

perlomeno il calcolo dell’area di una figura piana, o del volume di un solido. Tuttavia,1

2 LUCA LUSSARDI

anche il problema, apparentemente piu facile, di trovare formule per il calcolo di aree o

volumi presenta delle insidie, soprattutto quando uno affronta le figure curve: il calcolo

dell’area del cerchio, la figura curva piu semplice che uno possa tracciare nel piano, pre-

senta gia notevoli difficolta. Bisogna quindi ideare un metodo che va oltre l’applicazione

immediata degli assiomi piu elementari della geometria euclidea.

1.1. Il metodo di esaustione. Allo scopo di dimostrare la validita di una formula che

consentisse il calcolo dell’area di un cerchio, i greci idearono un opportuno strumento di

approssimazione che rientra nella teoria delle grandezze omogenee, misurabili e continue.

L’idea parte dallo studio della nozione di lunghezza di un segmento; e infatti possibile un

criterio di confronto tra segmenti, un’operazione di addizione tra segmenti, una proprieta

di divisibilita, ovvero un segmento si puo dividere in un numero arbitrario di parti uguali

tra loro, e la cosiddetta proprieta di Eudosso-Archimede, individuata da Eudosso di Cnido

(400 a.C. circa), e che si puo trovare anche negli Elementi: se le due lunghezze A e B

sono tali per cui, ad esempio, 0 < A < B allora esiste un naturale n tale che nA > B.

Ci sono altri esempi di grandezze per le quali valgono queste proprieta: la misura degli

angoli nel piano, l’area delle figure piane, o ancora il volume delle figure solide. Il metodo

di esaustione e una significativa applicazione della proprieta di Eudosso-Archimede, ed

e fondato sul seguente teorema:

Teorema 1.1. (Proposizione I, Libro X degli Elementi) Se A e B sono due gran-

dezze omogenee, misurabilie continue tali che 0 < A < B, se da B viene sottratta una

grandezza maggiore della sua meta, se da cio che resta viene sottratta ancora una quan-

tita maggiore della sua meta, e ripetendo continuamente questo procedimento, allora

prima o poi resta una quantita minore di A.

Il metodo di esaustione rappresenta, in un certo senso, il primo metodo di integrazione

della storia: diciamo subito che il rigore assoluto che tale metodo possiede si rivedra solo

nel XIX secolo con l’integrale di Cauchy. Nonostante cio, e troppo difficile da applicare,

e soprattutto possiede un grosso svantaggio, rispetto al moderno calcolo integrale; non si

tratta infatti di uno strumento di calcolo, bensı di un metodo puramente dimostrativo:

esso dimostra in modo rigoroso la validita di certe uguaglianze tra aree o volumi, dedotte

per altra via. Tipicamente, il metodo di esaustione procede, come dice il nome stesso,

esaurendo una figura con una successione di figure all’interno di essa: da una figura si

sottrae una parte maggiore della sua meta, dalla figura restante si sottrae ancora una

parte maggiore della sua meta e cosı via, e si arriva quindi ad una figura piu “piccola” di

ogni figura arbitrariamente fissata. Il rigore dei greci sfiora per un attimo la definizione

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 3

di limite, nozione che troveremo formalizzata ben duemila anni piu tardi. In modo

completamente rigoroso, dunque, lo sfruttamento dell’infinito potenziale (una grandezza

non e mai infinita, ma puo diventare arbitrariamente piccola o arbitrariamente grande)

permise ai greci di determinare aree e volumi di figure curve. La piu classica applicazione

del metodo di esaustione e la determinazione dell’area del cerchio. La procedura si avvale

del seguente teorema:

Teorema 1.2. (Proposizione I, Libro XII degli Elementi) Le aree di due poligoni

simili inscritti in due distinte circonferenze stanno tra loro come i quadrati dei rispettivi

raggi.

Tale teorema permette di dedurre il seguente fatto definitivo:

Teorema 1.3. (Proposizione II, Libro XII degli Elementi) Le aree di due cerchi

stanno tra loro come i quadrati dei rispettivi diametri.

Dimostrazione. Per dimostrare questo teorema Euclide mette in atto il metodo di esau-

stione. Prima di tutto facciamo un’osservazione che sara utile strada facendo, e precisa-

mente, riferendoci alla figura 1, consideriamo una corda AB di una data circonferenza,

e il punto C sulla circonferenza di modo tale che il triangolo ABC sia isoscele sulla

base AB. Allora e facile verificare che l’area di ABC e maggiore della meta dell’area

del settore circolare circoscritto ad ABC: infatti, se uno costruisce il rettangolo ABED

come in figura si ha che l’area S del settore circolare ABC e minore dell’area di tale

rettangolo, che vale il doppio dell’area del triangolo ABC. Questa idea sta alla base del

procedimento di esaustione ideato da Euclide.

Figura 1. L’area di ABC vale piu della meta dell’area del settore circolare ABC.

Siano infatti dati due cerchi C1 e C2 di raggi R1 e R2 e siano A1 e A2 le rispettive aree.

Va mostrato cheR2

1

R22

=A1

A2

.

4 LUCA LUSSARDI

Sia

A =A1R

22

R21

.

Supponiamo, per assurdo, che sia A < A2. Cominciamo a inscrivere nel cerchio C1 un

quadrato. Si vede subito che l’area di tale quadrato, che vale 2R21, e maggiore di

A1

2.

Infatti, il lato del quadrato circoscritto a C1 vale 2R1, per cui si ha A1 < 4R21 da cui

2R21 >

A1

2.

Mettiamo ora quindi in atto l’idea osservata precedentemente, e costruiamo l’ottagono

regolare che ha quattro vertici pari a quelli del quadrato e gli altri quattro nei punti

medi degli archi di C1 sottesi dai lati del quadrato. Iterando questo ragionamento si

arriva dunque ad un poligono inscritto in C1 di 2n lati, di area che denotiamo con

P(1)n . Ripetiamo la stessa costruzione sul cerchio C2 e denotiamo con P

(2)n le aree dei

corrispondenti poligoni inscritti in C2. Avendo poligoni simili per ogni scelta di n si ha

allora, grazie al teorema precedentemente dimostrato, che

P(1)n

P(2)n

=R2

1

R22

=A1

A.

Essendo P(1)n < A1, deve quindi essere

(1.1) P (2)n < A.

Ma, per esaustione A2−P (2)n risulta minore di ogni area arbitrariamente fissata, a patto

di prendere n abbastanza grande, e dunque esiste un intero positivo n tale che

A2 − P (2)n < A2 − A

ovvero P(2)n > A che contraddice la (1.1). Invertendo i ruoli tra C1 e C2 e ponendo ora

B =A2R

21

R22

segue che non puo essere B < A1. Supponiamo quindi che sia A > A2. Allora si avrebbe

subito

B =A2R

21

R22

=A1A2

A< A1

che abbiamo mostrato non sussistere. Ne segue che deve essere A = A2 che conclude la

verifica. �

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 5

Figura 2. Particolare dell’esaustione del cerchio.

Grazie a questo teorema e possibile il calcolo dell’area del cerchio di raggio R: infatti,

basta considerare l’area c del cerchio di raggio 1, per avere che l’area A del cerchio di

raggio R soddisfaA

c= R2

da cui A = cR2. La costante c e quella che fu poi denotata con il simbolo π, di valore 3.14

circa, calcolato con considerazioni empiriche; ne segue la formula oggi nota per l’area del

cerchio di raggio R, ovvero A = πR2.

1.2. Archimede: rigore e ingegno. Per quanto riguarda la determinazione dell’area

del cerchio ce la siamo cavata appoggiandoci a teoremi intuitivi, dal momento che il cer-

chio e la figura curva piu semplice, ma per curve piu complesse? Come intuire le formule

corrette per le quadrature da dimostrare poi per esaustione? Archimede di Siracusa

(250 a.C. circa) ci mostra dei bellissimi esempi di come dedurre formule da dimostrare

da considerazioni di tipo meccanico: questo trucco di Archimede e stato scoperto solo ai

primi del Novecento quando il filologo danese Heiberg scoprı in un palinsesto1 conservato

a Costantinopoli un’opera di Archimede fino a quel momento sconosciuta, battezzata poi

come Metodo. Archimede quindi, nel Metodo, mostrera come ha dedotto la validita di

certe formule geometriche, che dimostro con il metodo di esaustione: sono ad esempio

1In filologia, un palinsesto e un supporto, tipicamente una pagina manoscritta, che e stata scritta,cancellata e poi riscritta.

6 LUCA LUSSARDI

Figura 3. Equilibrio di una leva e segmento parabolico.

trattate la quadratura del segmento parabolico e la determinazione del volume della sfe-

ra. Osserveremo in particolare l’uso combinato di metodi meccanici, come l’equilibrio

delle leve, e di metodi che molto assomigliano a cio che 1700 anni piu tardi saranno gli

indivisibili di Cavalieri. Analizziamo, per esempio, come Archimede riuscı a giungere

alla formula corretta che fornisce l’area di un segmento parabolico, la cui dimostrazione

per esaustione si trova nell’opera Quadratura della parabola. Consideriamo la figura 3 di

riferimento per tutto quello che segue. Sia dato quindi l’arco di parabola AC: Archime-

de intendeva scoprire la formula che fornisce l’area del segmento parabolico determinato

da tale arco, ovvero l’area della regione sottesa da tale arco di base il segmento AC;

useremo un linguaggio matematico moderno, ma le stesse idee e le stesse costruzioni di

Archimede. L’equazione della parabola e data da

|OP | = m|AO|(|AC| − |AO|)

per un certo coefficiente m > 0. Sia t la tangente all’arco di parabola nel punto C; allora

l’equazione di t e data, utilizzando le notazioni in figura, da

|OM | = m|AC|(|AC| − |AO|).

Archimede sapeva tracciare le tangenti alla parabola, problema risolto da Apollonio,

limitatamente alle coniche, alla fine del III secolo a.C., sul quale ritorneremo in seguito.

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 7

Ne segue che

(1.2) |OP | |AC| = |OM | |AO|

e questa relazione vale per ogni punto P dell’arco di parabola. Precisamente in que-

sto punto arriva il colpo di genio: Archimede nella relazione (1.2) non vide solo della

geometria, bensı la condizione di equilibrio di una leva. Infatti, la (1.2) esprime la con-

dizione di equilibrio di una leva con peso |OP | in un estremo e braccio |AC|, e peso

|OM | nell’altro estremo, con braccio |AO|. Il genio siracusano piazzo questa ipotetica

leva nel modo piu furbo tra tutti, secondo il seguente ragionamento: se F e il punto di

intersezione tra la tangente t e la retta ortogonale ad AO e K e il punto medio di AF ,

allora K e il fulcro della leva che si trova lungo il segmento NH, essendo |AD| = |AC|.Il punto N sara dunque il punto medio di OM , e rappresenta l’estremo della leva dove

e applicato il peso materializzato dal segmento OM . Allo stesso modo, il punto H e

l’altro estremo dell’asta dove viene applicata la materializzazione del segmento OP . Si

osservi ora che il segmento OM puo essere pensato concentrato in N , suo punto medio.

Dunque, la totalita dei segmenti OM viene ad essere concentrata lungo il segmento CK.

Cosı facendo, la totalita di questi pesi puo essere pensata come applicata nel baricentro

G del triangolo AFC. Quindi la leva HKG, con la totalita dei segmenti parabolici in H

e la totalita dei segmenti OM in G, e in equilibrio. Essendo |AF | = m|AC|2 si ha

AAFC =m

2|AC|3

e quindi, se denotiamo con S l’area del segmento parabolico, l’equilibrio della leva fornisce

S|AC| = m

2|AC|3 |AC|

3=m

6|AC|4.

In definitiva, la formula trovata da Archimede dice che l’area S del segmento parabolico

vale

S =m

6|AC|3.

Archimede osservo che la formula trovata si puo scrivere in modo piu semplice, in termini

del triangolo isoscele ABC inscritto nel segmento parabolico assegnato, come in figura

4. Infatti, si ha

T = AABC =1

2|AC|m

4|AC|2 =

m

8|AC|3

da cui la piu semplice formula:

S =4

3T.

E stata trovata una formula candidata ad essere l’area del segmento parabolico dato. Ar-

chimede ora procedera dimostrando per esaustione il risultato ottenuto per via empirica;

non entriamo nel dettaglio della dimostrazione di Archimede, ma illustriamo solamente

8 LUCA LUSSARDI

Figura 4. L’area del segmento parabolico e in funzione dell’area di ABC.

a grandi linee la procedura utilizzata. Anzitutto, va costruita un’opportuna esaustione

del segmento parabolico, come in figura 5. Si puo verificare che la successione delle aree

cosı determinate vale

T +T

4+T

16+ · · ·+ T

4n+ · · ·

Figura 5. Particolare dell’esaustione applicata al segmento parabolico.

Archimede a questo punto sfrutto l’identita, da lui dimostrata rigorosamente, data da

(1.3) 1 +1

4+

1

16+ · · ·+ 1

4n+

1

3 · 4n=

4

3

per concludere che

T +T

4+T

16+ · · ·+ T

4n+ · · · = 4

3T

che e la tesi.

1.3. La ripresa del XVI secolo. La ripresa lenta e faticosa della matematica nel

tardo medioevo e principalmente dovuta all’invenzione della stampa a caratteri mobili:

tale scoperta impresse un’accelerazione spaventosa alla diffusione della conoscenza in

generale. Una delle prime opere matematiche ad essere messa a stampa fu ovviamente

data dagli Elementi di Euclide. La stampa delle opere di Archimede avvenne invece

solo verso la fine del XVI secolo, a Basilea, e questo contribuı al rifiorire dell’interesse

verso i problemi lasciati aperti; ricordiamo pero che il Metodo, nel quale Archimede

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 9

spiega le considerazioni sulle leve e sui baricentri, verra scoperto solo nel Novecento,

per cui i matematici del XVI secolo dovettero riscoprire gli strumenti che fossero in

grado di arrivare ai risultati descritti da Archimede. Va ricordato l’italiano Francesco

Maurolico (1494-1575) che riuscı a ricostruire la teoria dei centri di gravita dei solidi

corredando il tutto con numerose dimostrazioni per esaustione, metodo che resisteva

ancora a quel tempo, non avendo i matematici alternative. Tra gli scritti dell’italiano

Luca Valerio (1552-1618) troviamo una prima importante novita: per la prima volta

infatti vengono trattate classi generali di figure, invece che curve o solidi particolari.

Questo fatto rappresenta il primo tentativo di abbandono della matematica classica, che

aveva sempre distinto tra figure geometriche dichiarate, con tanto di nome, da altre

figure geometriche di scarso interesse. Valerio infatti, nel suo trattato De centro gravitas

solidorum oltre a riprendere solidi ben noti, fornı una trattazione anche per una classe

generale di figure, le figure decrescenti, mostrando che gli stessi strumenti si applicano

molto piu in generale. Queste considerazioni sono l’inizio di una serie di ricerche sulle

quadrature e sul calcolo dei volumi che, per la prima volta, abbandoneranno il metodo

di esaustione, per andare alla ricerca di metodi di calcolo.

1.4. Gli indivisibili di Cavalieri. La direzione di ricerca intrapresa sfocera nell’ultimo

vano tentativo: la teoria degli indivisibili geometrici chiude la ricerca sulle quadrature

prima che il calcolo degli integrali, molti anni piu tardi, possa essere sviluppato. Bo-

naventura Cavalieri (1598-1647), allievo di Galileo, cerco di considerare in che rapporto

stanno i volumi dei solidi di rotazione a partire dal rapporto tra le figure piane che li

generano, ma trovo subito delle incongruenze: ad esempio, il cilindro e il triplo del cono

inscritto, ma e generato, per rotazione, da un rettangolo che e il doppio del triangolo

che genera il cono. Cavalieri si accorse che l’apparente errore viene aggirato cambiando

il punto di vista: mettendo cioe i due solidi con la stessa altezza uno accanto all’altro,

con le basi su uno stesso piano, e affettandoli con una famiglia di piani paralleli alla

base. Nella sua opera Geometria indivisibilibus continuorum nova quadam ratione pro-

mota, pubblicata nel 1635, Cavalieri espose il seguente teorema, oggi noto anche come

Principio di Cavalieri:

Teorema 1.4. (Teorema IV, Libro II della Geometria indivisibilibus) Se due

superfici piane disgiunte intercettate dallo stesso fascio di rette parallele formano corde

tra loro proporzionali a due a due con lo stesso fattore di proporzionalita, allora le due

superfici stanno in quello stesso rapporto. Analogamente, se due solidi disgiunti intercet-

tati dallo stesso fascio di piani paralleli formano superfici proporzionali a due a due con

10 LUCA LUSSARDI

lo stesso fattore di proporzionalita, allora i due solidi stanno in quello stesso rapporto.

Stando alle attuali conoscenze matematiche, e da osservare che il Principio di Cavalieri

e una semplice conseguenza del teorema di Fubini-Tonelli per gli integrali multipli. Il

principio di Cavalieri e tuttavia fondato sul concetto poco chiaro e non classico di indi-

visibile geometrico e si contrappone al metodo di esaustione: e teoricamente piu debole,

ma e piu versatile, perlomeno si tratta quasi di uno strumento di calcolo. C’e quindi un

ritorno all’infinito attuale, bandito dai greci perche fonte inesorabile di guai, ma e co-

munque un passo in avanti; nonostante cio, il problema delle quadrature non puo essere

trattato meglio di cosı ormai, e per fare il passo decisivo bisogna aspettare Newton e

Leibniz. Consideriamo, come unico esempio di applicazione del Principio di Cavalieri, il

problema della determinazione del volume della sfera di raggio R. Allo scopo, osserviamo

la costruzione della figura 6, dove l’arco di curva rappresenta un quarto di circonferenza.

Figura 6. Determinazione del volume della sfera con il Principio di Cavalieri.

Una rotazione completa attorno al segmento AD dell’arco BD genera quindi una su-

perficie semisferica. Immaginiamo ora di prendere un piano ortogonale al segmento AD

che scorra da A verso D. Esso interseca la semisfera generata dalla rotazione del settore

ABD lungo EG, interseca il cilindro generato dalla rotazione del quadrato ABCD lungo

EH ed interseca il cono generato dalla rotazione del triangolo ACD lungo il segmento

EF . Applicando il teorema di Pitagora si ha

|EH|2 = |AG|2 = |AE|2 + |EG|2 = |EF |2 + |EG|2.

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 11

Quindi il fascio di piani paralleli interseca i tre solidi ottenuti, cilindro C, semisfera S e

cono Q, lungo tre superfici le cui aree stanno in una certa relazione. Un’applicazione un

po’ spinta del principio di Cavalieri spaziale dice allora che deve essere

VC = VQ + VS

da cui

VS = VC − VQ = πR3 − π

3R3 =

2

3πR3.

Ne segue che il volume della sfera di raggio R vale

4

3πR3.

2. Il problema delle tangenti dall’Antichita al Rinascimento

L’altro grande problema classico dal quale si originano ragionamenti di natura infini-

tesimale e il problema delle tangenti ad una curva piana.

2.1. Le tangenti nell’antica Grecia: Apollonio. Non troviamo molto nell’antichita

su questo problema: probabilmente cio e dovuto al fatto che per i classici le sole curve

di interesse erano le curve dichiarate con tanto di nome, mentre curve generiche erano

pressoche inutili. La parola tangente non venne utilizzata dai Greci: essa e infatti il

participio presente del verbo di origine latina tangere, che vuol dire toccare. In effetti,

pare che sia Euclide sia Apollonio usassero proprio il termine toccare per denotare la

proprieta che una retta tangente ha rispetto alla curva per la quale e tangente. Euclide,

nei suoi Elementi, limita la sua trattazione al caso della circonferenza, ma illustra con

profondita la caratteristica della tangente ad una circonferenza. Nella prossima propo-

sizione e anzitutto racchiusa la definizione di tangente ad una circonferenza: e la retta

ortogonale al diametro nel punto di tangenza. Euclide e ben consapevole che questo

fatto e piu profondo di quanto sembri, e per caratterizzare la tangenza dimostra che il

cosiddetto angolo di contingenza e nullo: non esiste un’altra retta che si possa mettere

tra la tangente e la circonferenza e che continui a incontrare la circonferenza in un solo

punto.

Teorema 2.1. (Proposizione XVI, Libro III degli Elementi) Quella retta che,

dalle estremita del diametro di un cerchio viene condotta ad angolo retto, cadra al di

fuori del cerchio stesso; nello spazio compreso tra la stessa linea retta e la periferia non

cadra altra retta; e invero l’angolo del semicerchio e maggiore di qualsivoglia angolo acuto

rettilineo, il rimanente e minore.

12 LUCA LUSSARDI

Dimostrazione. Mostriamo prima di tutto che ogni altra retta diversa dall’ortogonale al

diametro deve incontrare la circonferenza in un altro punto diverso dal punto di tangenza:

ci riferiamo alla figura 7.

Figura 7. La tangente r tocca la circonferenza solo nel punto di tangenza A.

Infatti, supponiamo, per assurdo, che la retta s per A ortogonale al raggio OA in A

incontri la circonferenza anche nel punto B diverso da A. Essendo il triangolo OAB

isoscele sulla base AB, deve essere OAB = OBA. Ma l’angolo OAB e retto e un triangolo

non puo avere piu di un angolo retto, e dunque si ha una contraddizione. Supponiamo

ora che ci sia un’altra retta s che si infila nella regione compresa tra la circonferenza e

r, ovvero che forma un angolo di contingenza rs 6= 0; si veda la figura 8.

Figura 8. L’angolo di contingenza e nullo.

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 13

Tracciamo il segmento OH perpendicolare a s in H. Allora deve essere |OA| > |OH|dal momento che l’ipotenusa di un triangolo rettangolo e sempre maggiore di ciascuno

dei due cateti. Ma |OA| = |OB| da cui |OB| > |OH| che e assurdo. �

La trattazione dell’angolo di contingenza e un fatto molto importante per la matema-

tica. Infatti, Euclide stesso rileva, attraverso la sua dimostrazione, che gli angoli di con-

tingenza curvilinei non costituiscono una famiglia di oggetti per i quali le corrispondenti

misure soddisfano la proprieta di Eudosso-Archimede.

Figura 9. Angoli di contingenza curvilinei.

Noi abbandoniamo ora gli Elementi e proseguiamo con l’evoluzione del concetto di

tangente. Se infatti per una circonferenza e addirittura troppo facile parlare di tangente,

visto che la nozione di tangenza si traduce in una semplice proprieta di ortogonalita tra

la retta e il diametro, cosı non fu per curve leggermente piu complicate: le coniche. Il

primo trattato sistematico sulle coniche risale ad Apollonio di Perga (250 a.C. circa), ed

e intitolato appunto Le coniche. Non entriamo nel dettaglio della teoria delle tangenti

secondo Apollonio, ma accenniamo almeno alla sua costruzione nel caso di un’ellisse;

considerazioni analoghe valgono per iperbole e parabola. La nozione di tangente ad una

conica viene data, da Apollonio, all’interno della teoria dei diametri: un diametro d di

una conica C e una corda che biseca un fascio di corde parallele.

Figura 10. d e un diametro per la conica C.

14 LUCA LUSSARDI

La nozione successiva e quella di diametri coniugati; la relazione di coniugio tra diametri

oggi viene presentato usando la polarita indotta da una conica. Riferendoci alla figura

11 diciamo che il diametro d e coniugato al diametro o se d biseca il fascio di corde

parallele a o: si dimostra che allora o biseca il fascio di corde parallele a d. Nella

situazione descritta dalla figura 11, Apollonio introdusse i termini ascissa e ordinata

per denotare rispettivamente il diametro d e il diametro o, passanti entrambi per il

loro punto in comune, punto medio di entrambi: i termini che usiamo noi oggi per la

geometria delle coordinate hanno quindi origine da opportuni riferimenti obliqui sulle

coniche. Finalmente, nella stessa figura 11 appare chiaro come tracciare la tangente t

alla conica C nel punto P : se P e estremo del diametro d allora si traccia per P la

parallela al diametro coniugato a d. Apollonio dimostro che t non puo incontrare la

conica C in un altro punto, e la dimostrazione ricalca quella data da Euclide per la

circonferenza; inoltre, dimostra che anche per le coniche l’angolo di contingenza e nullo.

La teoria delle tangenti e dunque squisitamente geometrica, e null’altro del resto ci si

poteva aspettare dai classici. In particolare, non vi e quindi nessun riferimento al fatto

che la tangente raccoglie in se un’intersezione doppia con la curva, ma non dobbiamo

sorprenderci di questo fatto: infatti, Apollonio si e limitato a studiare le sezioni coniche,

e sappiamo che una retta generica ha al piu due intersezioni con una conica, e quindi

appare ridondante contare la molteplicita di intersezione nel caso delle coniche, basta

semplicemente dire che una tangente ad una conica e una retta che interseca la conica

solo in un punto, che e il punto di tangenza.

Figura 11. Diametri coniugati e retta tangente a C in P .

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 15

Ma appena la curva si complica tutta la teoria cade a pezzi: il problema delle tangenti

resta senza soluzione fino alla grande svolta del XVI secolo, quando l’algebra viene in

aiuto della geometria.

2.2. Il metodo del cerchio tangente di Cartesio. Il primo grande punto di svolta

nella storia dell’intera matematica, ma anche nella storia della scienza in generale, sta

nell’introduzione delle coordinate, ovvero nell’algebrizzazione della geometria: la geome-

tria analitica, che oggi si studia anche a scuola, ha infatti rivoluzionato il modo di fare

matematica, creando connessioni molto feconde tra algebra e geometria. Negli antichi

greci la geometria era il sapere autentico, mentre l’aritmetica dei numeri razionali era

discussa in chiave geometrica anch’essa. Con Cartesio (1596-1650) il punto di vista viene

capovolto: l’algebra viene in aiuto della geometria, si mette come fondamento ad essa,

e i problemi geometrici vengono tradotti in termini di equazioni. Lo scopo del metodo

cartesiano era quindi soprattutto quello di liberare la geometria dal ricorso alle figure,

mediante i procedimenti dell’algebra. Cosı facendo, Cartesio nella sua Geometrie, edita

per la prima volta nel 1637, rivisito molti problemi geometrici piu o meno classici, come

ad esempio un celebre problema di Pappo, aperto da mille anni circa e agevolmente

risolto con l’uso del metodo delle coordinate cartesiane. Con la scoperta della geometria

analitica ritorna l’antico problema delle tangenti, risolto, come gia sappiamo, limitata-

mente alle coniche, da Apollonio nel III secolo a.C. La situazione generale nella quale lo

stesso Cartesio si mise e quella della curva espressa come luogo dei punti del piano le cui

coordinate x, y risolvono un’equazione P (x, y) = 0. Cartesio chiamo tangente una retta

che ha intersezione almeno doppia con la curva nel punto di tangenza. Invece che cercare

la tangente in un punto della curva, Cartesio si propose di cercare un cerchio tangente

alla curva in quel punto; tracciando poi la retta per il punto della curva e il centro del

cerchio si trova la normale alla curva, che e perpendicolare alla tangente. Precisamente,

egli scrisse: “ Bisogna considerare che se questo punto C, il centro del cerchio cercato,

e come lo desideriamo, il cerchio di cui sara il centro e che passera per B vi tocchera la

curva senza intersecarla. Al contrario, se C e un po’ piu vicino o un po’ piu lontano di

quel che deve essere, il cerchio intersechera la curva non solo nel punto B ma necessa-

riamente anche in qualche altro B1 pero tanto piu questi due punti B e B1 sono vicini,

tanto minore sara la differenza che sussiste tra le radici dell’equazione. Infine, se questi

punti giacciono ambedue in uno, cioe se il cerchio che passa per B vi tocca la curva

senza intersecarla, queste radici saranno assolutamente uguali.” Fissata in O l’origine

degli assi cartesiani, Cartesio decise di trovare il cerchio tangente alla curva in B che ha

16 LUCA LUSSARDI

centro sull’asse x, nel punto C, come in figura 12: in B devono quindi essere riunite due

intersezioni.

Figura 12. Cerchio tangente in B alla curva assegnata.

Sia B = (x0, y0), e poniamo OC = d e BC = r. Allora, l’equazione della circonferenza

incognita sara data da

(x− d)2 + y2 = r2.

Intersechiamo ora la curva con la circonferenza; abbiamo (x− d)2 + y2 = r2

P (x, y) = 0.

Eliminando y, e supponendo quindi di poterlo sempre fare in pratica, si arriva all’equa-

zione risolvente Q(x) = 0 che dunque, per tangenza, deve dare il punto B contato almeno

due volte, ovvero deve essere

Q(x) = (x− x0)2R(x)

per un certo R(x).

Esempio 2.2. Vediamo ad esempio come trovare la generica tangente alla parabola di

equazione y−x2 = 0. Sia B = (x0, y0). Dobbiamo quindi risolvere il sistema di equazioni (x− d)2 + y2 = r2

y − x2 = 0

eliminando y. Si trova subito l’equazione

(x− d)2 + x4 = r2

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 17

cioe

x4 + x2 − 2dx+ d2 − r2 = 0.

Il polinomio risolvente, che e di quarto grado, deve quindi essere della forma

(x− x0)2(ax2 + bx+ c)

per opportuni numeri reali a, b, c. A conti fatti, deve quindi essere

x4 + x2 − 2dx+ d2 − r2 = ax4 + (b− 2ax0)x3 + (ax20 + c− 2bx0)x2

+ (bx20 − 2cx0)x+ x2

0c

per ogni x reale. Ne segue che a = 1b− 2ax0 = 0ax2

0 + c− 2bx0 = 1bx2

0 − 2cx0 = −2dx2

0c = d2 − r2.

Il precedente sistema ha la soluzione data daa = 1b = 2x0

c = 1 + 3x20

d = x0 + 2x30

r2 = x40(1 + 4x2

0).

Ne segue che C ha coordinate (x0 +2x30, 0) e dunque la retta CB ha equazione cartesiana

y − y0 = − y0

2x30

(x− x0) = − 1

2x0

(x− x0), x0 6= 0.

L’ortogonale alla retta CB ha dunque equazione cartesiana

y − y0 = 2x0(x− x0)

che dunque e l’equazione della tangente alla parabola di equazione y = x2 nel punto

(x0, y0). Il caso x0 = 0 si tratta a parte e la tangente risulta avere equazione y = 0.

Il metodo proposto da Cartesio appare quindi abbastanza complesso anche in casi mol-

to semplici: esso diventa infatti computazionalmente pesante quando l’equazione della

curva e un polinomio di grado elevato. In particolare, osserviamo che il procedimento

puo funzionare praticamente solo se l’equazione che esprime la curva assegnata e poli-

nomiale: in altre parole, il metodo di Cartesio e sostanzialmente limitato alle sole curve

algebriche.

18 LUCA LUSSARDI

2.3. Il metodo delle adequazioni di Fermat. Cercando di risolvere il problema delle

tangenti ad una curva piana, un matematico dilettante francese sfiora, almeno formal-

mente, la nozione di derivata come limite del rapporto incrementale. Pierre de Fermat

(1601-1665) non e certo passato alla storia per questo, ma compı un passaggio importan-

te, poiche effettuo il primo tentativo, ovviamente del tutto inconsapevole, di un passaggio

al limite. L’idea di fondo su cui si basa Fermat e l’uso delle cosiddette adequazioni, uti-

lizzate nell’opera Methodus ad disquierendam maximam et minimam del 1637 per la

determinazione dei massimi e minimi di una funzione. Fermat osservo anzitutto una

cosa gia ben nota a quel tempo, e cioe che se una funzione ha un massimo, o minimo, in

un certo punto, allora essa e stazionaria nelle vicinanze di quel punto, ovvero varia poco

se ci si sposta poco dal punto di massimo, o dal punto di minimo. Dunque, ad esempio,

se f ha massimo in x0, deve essere vera l’adequazione

f(x0 + e) ≈ f(x0)

per e quantita abbastanza piccola ma non nulla. Ma Fermat capı che e necessaria una

maggiore precisione; siccome quindi

f(x0 + e)− f(x0)

deve essere gia approssimativamente nullo anche per un e 6= 0, seguendo Fermat, deve

valere anche l’adequazionef(x0 + e)− f(x0)

e≈ 0

che e la prima apparizione di un rapporto incrementale. Si semplifica quindi l’adequa-

zione e si pone alla fine e = 0: in questo modo l’adequazione finale diventa un’equazione

in x0, dalla quale si trovano i punti che rendono f stazionaria.

Esempio 2.3. Vediamo a titolo di esempio la determinazione dei punti di massimo e di

minimo, locali, della funzione f(x) = x2(3− x). Si ha

f(x+ e)− f(x) = (x+ e)2(3− x− e)− x2(3− x)

= −e3 − 3e2x− 3ex2 + 3e2 + 6xe

per cui l’adequazionef(x+ e)− f(x)

e≈ 0

diventa

−e2 − 3ex− 3x2 + 3e+ 6x ≈ 0.

L’adequazione diviene equazione ponendo e = 0, e quindi si trova

−3x2 + 6x = 0

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 19

da cui due soluzioni possibili, x = 0 e x = 2. Seguendo i possibili ragionamenti di

Fermat, osserviamo che

f(2 + e) = 4− 3e2 − e3 = f(2)− 3e2 − e3.

Essendo e3 trascurabile rispetto ad e2, notiamo che si avvertiva gia una primordiale idea

di confronto di infinitesimi, si avra che per e molto piccolo

f(2 + e) < f(2)

per cui x = 2 e il punto di massimo locale cercato, ed il valore massimo vale f(2) = 4.

In modo analogo, si ha

f(e) = 3e2 − e3 = f(0) + 3e2 − e3

per cui argomentando allo stesso modo si avra che x = 0 e stavolta il punto di minimo

locale cercato, ed il valore minimo vale 0.

Nel successivo manoscritto De tangentibus linearum curvarum, Fermat risolse il pro-

blema della determinazione delle tangenti come applicazione del metodo per i massimi

e minimi. Illustriamo il procedimento utilizzato da Fermat per una funzione concava

y = f(x) facendo riferimento alla figura 13, in cui F e l’origine degli assi; in particolare,

il problema si riconduce a quello di determinare la cosiddetta sottotangente t = |GE|.Denotiamo con g(x) l’equazione della retta tangente GA e consideriamo la differenza

h(x) = g(x)− f(x).

Grazie alla concavita di f si ha h ≥ 0 sempre e h(x0) = 0, essendo A = (x0, f(x0)). Ne

segue che h ha un minimo per x = x0, e dunque deve essere vera l’adequazione

(2.1)h(x0 + e)− h(x0)

e≈ 0

per e = |ED| piccolo, che si riduce a

h(x0 + e)

e≈ 0.

Osserviamo ora che i triangoli GEA e GDB sono simili, da cui

AE : GE = BD : GD

da cui

|BD| = |AE| |GD||GE|

.

Ne segue che

h(x0 + e) + f(x0 + e) = g(x0 + e) = |BD| = |AE| |GD||GE|

=f(x0)(t+ e)

t

20 LUCA LUSSARDI

Figura 13. Determinazione della sottotangente alla curva data in A.

da cuih(x0 + e) + f(x0 + e)

e=f(x0)(t+ e)

te

cioeh(x0 + e)

e=f(x0)(t+ e)

te− f(x0 + e)

e.

Dal momento che vale l’adequazione (2.1), deve essere

(2.2)f(x0)(t+ e)

te− f(x0 + e)

e≈ 0

che e un’adequazione dalla quale si ricava t, ovvero la sottotangente.

Il caso in cui la funzione sia localmente convessa si tratta in modo analogo.

Esempio 2.4. Andiamo a cercare l’equazione della retta tangente alla funzione y =√x

nel generico punto A = (x0, y0), con x0 > 0. Si tratta di una funzione concava, per cui si

puo utilizzare direttamente l’adequazione (2.2) che permette di trovare la sottotangente

t. Precisamente, la (2.2) diventa√x0(t+ e)

te−√x0 + e

e≈ 0.

Si ha quindi √x0

e+

√x0

t−√x0 + e

e≈ 0

che fornisce la soluzione

t ≈e√x0√

x0 + e−√x0

=e√x0(√x0 + e+

√x0)

e=√x0(√x0 + e+

√x0).

Mettendo e = 0 si ha l’equazione

t =√x0(√x0 +

√x0) = 2x0.

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 21

Ne segue che l’equazione della retta tangente in A = (x0, y0) e data da

y − y0 =

√x0

2x0

(x− x0)

ovvero

y − y0 =1

2√x0

(x− x0)

e invero, procedendo come faremmo oggi, si ha proprio

1

2√x0

= y′(x0).

Osserviamo che per risolvere il problema delle tangenti si potrebbe anche utilizzare

direttamente la teoria delle adequazioni, senza ricondursi ad un problema di minimo o di

massimo. Infatti, se dobbiamo cercare l’equazione della retta tangente alla funzione y =

f(x) nel suo punto A = (x0, y0) allora potremmo impostare direttamente l’adequazione

(2.3)f(x0 + e)− f(x0)

e≈ m

nella variabile m, da cui la retta tangente in A di equazione

y − y0 = m(x− x0).

Esempio 2.5. Vediamo ad esempio come funziona la (2.3) per la funzione y = xk con

k > 1 intero, esempio fondamentale per gli cio che vedremo successivamente. Dobbiamo

risolvere l’adequazione

(x0 + e)k − xk0e

≈ m

Essendo noto che

(x0 + e)k = xk0 + kxk−10 e+ ak−2x

k−20 e2 + · · ·+ a2x

20ek−2 + kx0e

k−1 + ek

per certi coefficienti aj, per j = 2, . . . , k − 2, si trova l’adequazione

kxk−10 + ak−2x

k−20 e+ · · ·+ ek−1 ≈ m

che diventa equazione ponendo e = 0, da cui

m = kxk−10 .

Dunque, la tangente alla curva data nel punto (x0, y0) ha equazione

y − y0 = kxk−10 (x− x0)

e invero, procedendo come faremmo oggi, si ha proprio

kxk−10 = y′(x0).

22 LUCA LUSSARDI

Il metodo di Fermat potenzialmente si applica anche alle curve non algebriche, ma di-

venta molto complesso anche solo con la presenza di parecchi radicali, e presenta ostacoli

insuperabili quando l’equazione che descrive la curva e trascendente.

2.4. La costruzione cinematica delle tangenti. Accenniamo ad un ultimo metodo

per la ricerca delle tangenti, che nasce dall’esigenza di considerare anche le curve descritte

da movimenti meccanici. L’idea risale al matematico francese Gilles Personne de Rober-

val (1602-1675), e venne ripresa anche dall’italiano Evangelista Torricelli (1608-1647), e

consiste nello scomporre il moto del punto che descrive la curva in moti semplici per i

quali sia possibile determinare la direzione della velocita, ovvero la tangente, e quindi,

ricomponendo le direzioni, si ottiene la direzione della tangente alla curva assegnata. Il

punto essenziale di partenza e quindi quello di capire come una curva possa venir gene-

rata in modo meccanico, e anche varie curve algebriche ben note possono essere trattate.

Infatti, ad esempio, si dimostra che la parabola e descritta da un punto mobile che si

allontana da un punto fisso, il fuoco, con la stessa velocita con cui si allontana da una

retta fissa, la direttrice; oppure, l’ellisse e generata da un punto mobile che si avvicina

ad un fuoco con la stessa velocita con cui si allontana dall’altro fuoco; od ancora, l’iper-

bole e descritta dal punto che si avvicina ai fuochi, o si allontana da essi, con la stessa

velocita; infine, per fare un esempio che non sia una conica, la spirale di Archimede e

descritta da un punto mobile che ruota attorno ad un punto fisso con la stessa velocita

cui si allontana dal punto stesso. Si potrebbe continuare a fare esempi di curve a quel

tempo note, ve ne sono molte altre. Esaminiamo piu nel dettaglio solamente un esempio,

e precisamente la cicloide, ovvero la curva descritta da un punto che sta sul bordo di un

cerchio il quale rotola senza strisciare su una guida rettilinea: si veda la figura 14.

Dopo aver descritto la costruzione per punti della curva, Roberval descrive la costruzione della

tangente in un punto E qualsiasi sulla base della scomposizione nei due moti simultanei. Per questo,

si tracci il cerchio generatore EBC in modo che passi per il punto E, si prenda un arbitrario

segmento orizzontale EF (direzione della velocità del moto traslatorio) e sulla tangente al cerchio

(direzione della velocità del moto rotatorio) si prenda un segmento EG, uguale ad EF perché le due

velocità di rotazione e di traslazione sono uguali. Il segmento EH, diagonale del parallelogrammo

EFHG, sarà la direzione della velocità del moto composto che genera la cicloide, e quindi sarà

tangente alla cicloide.

2.4. Successi e limiti dei metodi per le tangenti.

Prima di proseguire nella nostra storia, soffermiamoci per un momento a ricapitolare i successi e ad

esaminare i limiti dei metodi per le tangenti precedenti all’invenzione del calcolo. I tre metodi che

abbiamo discusso –avendo ovviamente tralasciato il metodo puramente geometrico della

matematica classica– anche se hanno campi di applicazione se non coincidenti certo molto simili, si

fondano su tre principi sostanzialmente diversi. Quello che ha origine dalla Géométrie di Descartes

è un metodo strettamente algebrico, e consiste nella messa in formule del fatto che la tangente ha

un’intersezione doppia con la curva. La sua struttura è tale che esso si applica solo alle curve

algebriche, quelle cioè definite da un’equazione algebrica F(x,y)=0, nella quale F(x,y) è un

polinomio in due variabili di grado qualsiasi. Nella sua forma algoritmica di Hudde-Sluse, il metodo

si presta ad applicazioni automatiche a partire dall’equazione della curva, senza la necessità di

nessuna precedente manipolazione. In conclusione, un metodo semplice, ma il cui campo di

applicazione è limitato alle sole curve algebriche.

Diversamente, il metodo cinematico di Roberval e Torricelli non distingue tra curve algebriche e

trascendenti, ma almeno nella sua formulazione originale richiede da una parte che la curva sia data

mediante composizione di movimenti (o come si dice oggi, in forma parametrica) e dall’altra che

sia possibile calcolare le velocità e le direzioni dei movimenti componenti.

Infine la tecnica dell’adequazione di Fermat consente di trattare tutte le curve algebriche (in questo

caso l’adequazione si ottiene facilmente dall’equazione della curva) sia le curve trascendenti allora

conosciute. Da questo punto di vista, sembrerebbe che il metodo di Fermat dia una soluzione

completa del problema.

In realtà le cose non stanno esattamente così. Infatti pur comprendendo le curve trascendenti, il

metodo di Fermat entrava in crisi quando si aveva a che fare con curve la cui equazione conteneva

un numero considerevole di radicali. La situazione era per molti versi paradossale. Infatti si sapeva

che queste curve erano curve algebriche, cioè che con opportune trasformazioni si potevano

Figura 14. Costruzione cinematica della tangente alla cicloide.

Il moto di E e dato dalla composizione dei seguenti due moti:

• la circonferenza ruota attorno al suo centro;

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 23

• il centro della circonferenza si muove di moto rettilineo uniforme.

Piu precisamente, siccome c’e rotolamento senza strisciamento, quando il cerchio ha

fatto un giro completo, esso si e mosso di un segmento AD pari alla lunghezza della

circonferenza. Ne segue che il moto di traslazione del centro del cerchio avviene con la

stessa velocita, in modulo, del moto di rotazione della circonferenza attorno al suo centro.

Dunque e facile costruire le due velocita, la cui somma sara la velocita di E, generico

punto della cicloide come in figura: la velocita−→EF e dovuta al moto di traslazione, che

e orizzontale, mentre la velocita−−→EG, uguale in modulo, e dovuta alla rotazione ed e

tangente alla circonferenza. Sommando i due vettori−→EF ed

−−→EG si ha la velocita

−−→EH

che risulta essere tangente alla cicloide in E.

2.5. Ulteriori considerazioni sul problema delle tangenti. Siamo giunti alla con-

clusione della prima parte della storia del calcolo. Per il problema delle tangenti abbiamo

tre principali tentativi di soluzione: il metodo di Cartesio del cerchio tangente e lungo e

complicato e va bene solo per le curve algebriche; il metodo delle adequazioni di Fermat

avvicina considerazioni piu fini ma fallisce quando l’espressione della curva e troppo com-

plicata; infine, il metodo cinematico richiede di conoscere perlomeno da che movimenti

e composto il moto lungo la curva. Tutti i metodi fino a questo momento ideati hanno

varie caratteristiche comuni: si tratta di metodi globali, cioe considerano la curva nella

sua globalita, mentre la tangente e un concetto locale, e inoltre, a parte il metodo ci-

nematico per certi aspetti, si propongono di determinare la sottotangente, che permette

di risolvere il problema. La svolta decisiva si avra solo quando si riuscira a capire che

le difficolta del problema vanno spezzate: va ideato quindi un calcolo che permetta di

separare le difficolta. Nonostante le difficolta, si puo comunque dire che i fondamenti

concettuali del calcolo differenziale siano pero stati compresi, anche se manca il passaggio

decisivo che avrebbe permesso di creare un calcolo generale vero e proprio. Quello che

invece manca del tutto, e che sara invece un contributo essenziale che daranno Newton

e Leibniz, e la comprensione del fatto che il problema delle quadrature e l’inverso del

problema delle tangenti, che quindi, non a caso, sara battezzato teorema fondamentale

del calcolo, nome che si usa ancora oggi.

3. Newton: il calcolo delle flussioni

Isaac Newton nasce a Woolsthorpe, in Inghilterra, il 25 dicembre 1642, giorno che

corrisponde al 4 gennaio 1643 secondo l’attuale calendario gregoriano, a quel tempo non

ancora entrato in vigore in Inghilterra. Nel 1653 comincia gli studi alla King’s School

nella citta di Grantham e durante questo periodo mostra gia particolari doti di inventore,

24 LUCA LUSSARDI

costruendo orologi e modelli funzionanti di mulini. Nel 1661 Newton entra nel presti-

gioso Trinity College di Cambridge: qui studia principalmente Aristotele, ma ben presto

sposta la sua attenzione verso letture piu moderne, ovvero Cartesio, Galileo, Copernico

e Keplero. Attorno a 23 anni di vita interrompe gli studi al college a causa di un’epide-

mia di peste originatasi a Londra: in questo periodo, che trascorre a casa in campagna,

inizia l’invenzione del calcolo infinitesimale e la scoperta della teoria della gravitazione

universale. Diventa dunque professore di matematica a Cambridge nel 1669. Nel 1670

inizia l’attivita di ricerca vera e propria di Newton, e fino al 1672 lo studio dell’otti-

ca lo tiene impegnato: sono ormai celebri i suoi studi sulla rifrazione della luce e sulla

scomposizione della luce bianca; a tal proposito, nel 1704 pubblica l’Opticks. Negli stes-

si anni porta a compimento la teoria della gravitazione universale e dietro consiglio di

Edmund Halley, nel 1684 pubblica la sua prima opera su tale argomento, il De Motu

Corporum, mentre tre anni piu tardi pubblica i Philosophiae Naturalis Principia Mathe-

matica, comunemente chiamati Principia: questo capolavoro e considerato un pilastro

della storia della scienza, con esso Newton stabilisce le tre leggi universali della dinami-

ca, che ancora oggi si studiano in un corso di fisica generale, e tratta nel dettaglio la

teoria della gravitazione universale dimostrando, in particolare, che le orbite dei pianeti

soggetti alla sola forza di gravita sono necessariamente ellittiche, con il sole in uno dei

due fuochi. Con la pubblicazione dei Principia, Newton entra nella storia, inizia una

profonda amicizia con vari scienziati importanti dell’epoca e arrivano successivamente i

riconoscimenti ufficiali: Newton diviene, nel 1699, direttore della Zecca Reale, nel 1703

diventa quindi presidente della Royal Society di Londra e due anni dopo viene investito

del titolo di cavaliere dalla Regina Anna. Ricordiamo infine che Newton non ha dedi-

cato la sua vita solamente alla scienza, ma si e occupato, con altrettanto vivo interesse,

anche di alchimia e di teologia. Isaac Newton muore a Londra il 20 marzo 1727 e viene

sepolto nell’Abbazia di Westminster. Newton, come abbiamo accennato nella sua breve

biografia, comincia i suoi studi di calcolo infinitesimale durante gli anni in cui fugge

dalla peste scoppiata a Londra, quindi tra il 1665 e il 1666. Il calcolo infinitesimale,

o calcolo delle flussioni seguendo la terminologia che Newton utilizza, ha quindi inizio

molto prima del fatidico 1684, anno in cui appare la prima opera di Leibniz sul calcolo

differenziale. Non abbiamo in verita prove inconfutabili che Newton effettivamente era

a conoscenza del suo calcolo delle flussioni gia negli anni 1665/66, dal momento che egli

non pubblichera mai nulla di tutto cio: il lavoro The Method of Fluxions and Infinite

Series, che presenta gli studi di calcolo infinitesimale di Newton, viene infatti composto

nel 1671 ma edito a Londra solo nel 1736, quindi postumo. Nonostante questo, tanti

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 25

risultati, ad esempio presenti nei Principia, potevano essere trovati solamente ricorrendo

al calcolo infinitesimale, per cui questo suggerisce che Newton doveva in effetti essere in

possesso del calcolo almeno al momento della stesura dei Principia. In effetti, e vero che

nei Principia non si trova traccia del calcolo delle flussioni, ma Newton vi espone invece

una teoria sulla quadratura delle regioni piane attraverso un procedimento di approssi-

mazione per eccesso e per difetto che e sostanzialmente l’idea che usiamo ancora oggi

per definire l’integrale di Riemann. Egli chiama questo modo di ragionare come metodo

delle prime e ultime ragioni, e cosı si esprime in proposito: “Queste ultime ragioni con

cui le quantita divengono evanescenti non sono realmente le ragioni di quantita ultime,

bensı limiti verso cui le ragioni delle quantita, decrescendo oltre ogni limite, sempre con-

vergono, e ai quali si avvicinano piu di ogni differenza data, senza mai oltrepassarle, ne

mai raggiungerle effettivamente prima che le quantita siano diminuite all’infinito.” In

altre parole, Newton ha afferrato il concetto di passaggio al limite ma non e pienamente

consapevole del fatto che proprio su esso si possa fondare in modo rigoroso il calcolo

infinitesimale. Esiste in ogni caso anche un motivo ben preciso per il quale Newton

decide di non pubblicare i suoi risultati di calcolo infinitesimale. Infatti, egli e ancora

molto legato al mondo classico, ed in particolare alla geometria greca: in un certo senso

e l’ultimo dei classici, dal momento che Leibniz invece avra il coraggio di esporre le sue

idee non classiche e di abbandonare dunque definitivamente il punto di vista classico,

ormai destinato a tramontare. Newton e quindi dell’idea che una dimostrazione corretta

e rigorosa di un fatto matematico debba necessariamente essere condotta utilizzando gli

strumenti classici.

3.1. Il calcolo delle flussioni. Il metodo delle flussioni corrisponde al moderno calcolo

delle derivate rispetto al tempo: Newton ha infatti una concezione cinematica del calcolo

infinitesimale. Per questo motivo, egli considera le variabili geometriche come variabili

fluenti, cioe che variano nel tempo, e le indica con le lettere x, y, z, v, . . . , e considera

poi le velocita con cui le variabili fluenti variano nel tempo, e chiama queste velocita

flussioni, indicate rispettivamente con x, y, z, v, . . . , notazione ancora oggi in uso in mec-

canica razionale; infine vengono anche usate le lettere a, b, c, . . . per denotare quantita

fisse, ovvero le costanti. Newton fissa quindi un incremento infinitesimo temporale, che

indica con o, e chiama momento della variabile x la quantita xo, che corrisponde ad un

incremento infinitesimo della variabile x. Tutto e pronto per impostare il primo proble-

ma che Newton si pone: da una relazione tra variabili fluenti, trovare la relazione tra le

flussioni. Supponiamo quindi che sia data una relazione P (x, y, z, . . . ) = 0 tra variabili

26 LUCA LUSSARDI

fluenti x, y, z . . . . Seguendo Newton, si legge che siccome i momenti di x, y, z, . . . , da-

ti rispettivamente da xo, yo, zo, . . . sono molto piccoli rispetto a x, y, z, . . . , allora deve

valere anche

P (x+ xo, y + yo, z + zo, . . . ) = 0.

Dopo aver rimaneggiato la relazione precedente, Newton conclude dicendo che siccome

o e infinitamente piccolo, allora si puo considerare nullo e quindi deduce cosı la relazione

tra le flussioni x e y. Notiamo che quindi i ragionamenti di Newton non si allontanano

molto dai ragionamenti dei matematici che lo hanno preceduto, ad esempio dal metodo

delle adequazioni di Fermat.

Esempio 3.1. Consideriamo l’equazione

(3.1) x2 − axy = 0.

Operando come detto si ha

(x+ xo)2 − a(x+ xo)(y + yo) = 0

che diventa

x2 + 2xxo+ x2o2 − axy − axyo− ayxo− axyo2 = 0

ovvero, siccome per il momento o 6= 0,

2xx+ x2o− axy − ayx− axyo = 0.

Ponendo ora o = 0 si trova la relazione voluta tra le flussioni x e y:

(3.2) 2xx− axy − ayx = 0

che effettivamente coincide con la derivazione rispetto al tempo della (3.1).

Newton si rende quindi conto che puo assegnare una regola algoritmica, e precisamente

afferma, nel caso in cui si abbiano espressioni polinomiali, di procedere come segue:

1) Ordinare la relazione assegnata secondo le potenze decrescenti di una variabile

fluente, ad esempio x.

2) Moltiplicare i termini cosı ordinati uno per volta per il relativo esponente di x.

3) Moltiplicare quindi tutti i termini per x/x e semplificare.

4) Rifare tutto il procedimento per tutte le altre variabili.

5) Sommare tutte le relazioni trovate e uguagliare a 0 la somma cosı ottenuta.

Newton ci mostra anche come trovare la relazione tra le flussioni anche nel caso di re-

lazioni irrazionali, e questo esempio fa vedere quanto il metodo delle flussioni sia migliore

dei metodi precedenti: e finalmente un vero strumento di calcolo.

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 27

Esempio 3.2. Ad esempio, consideriamo la relazione

x− b

a+ y−√y + x = 0.

Basta effettuare dei cambi di variabile, ponendo

b

a+ y= z,

√y + x = v

per avere la nuova relazione x− z − v = 0 dalla quale si ricava, applicando la regola,

x− z − v = 0.

Dalla posizione su z si ricava invece az + yz − b = 0 che fornisce

az + yz + yz = 0

mentre dalla posizione su v si ricava invece y + x− v2 = 0 che fornisce

y + x− 2vv = 0.

Abbiamo dunque il sistema di relazioni tra le flussioni x− z − v = 0az + yz + yz = 0y + x− 2vv = 0.

Eliminiamo ora le variabili ausiliarie z e v si trova facilmente

x+by

(a+ y)2− y + x

2√y + x

= 0

che e la relazione cercata.

Ovviamente la teoria non procede solo per esempi, ma Newton osserva alcune proprieta

che si deducono dalla sua procedura, e che quindi forniscono delle vere regole di calcolo.

Ad esempio:

z = x± y =⇒ z = x± y,

z = xy =⇒ z = xy + xy,

z =x

y=⇒ z =

xy − xyy2

,

z = xk =⇒ z = kxk−1x.

Siamo quindi nella direzione giusta: le difficolta adesso sono state spezzate e sono state

individuate le regole del calcolo. Il calcolo delle flussioni e quindi pronto per essere

applicato.

28 LUCA LUSSARDI

3.2. Sui problemi di massimo e minimo. Una delle prima applicazioni del calcolo

delle flussioni che Newton ci offre e rappresentata dalla risoluzione di problemi di massimo

e di minimo. Piu precisamente, e data la solita relazione tra fluenti, P (x, y, z, . . . ) = 0.

Newton osserva che se la variabile x, per esempio, in quanto fluente, assume massimo o

minimo in un certo istante temporale, in questo stesso istante essa inverte la sua flussione,

per cui nell’istante di inversione deve essere x = 0. Lo stesso discorso vale chiaramente

per ogni altra variabile presente nella relazione. Dunque, in definitiva, se ad esempio

la variabile x va massimizzata o minimizzata, basta ricavare la relazione tra le flussioni

delle variabili date, porre x = 0, e semplificare le eventuali altre flussioni restanti in

modo da arrivare ad una relazione tra le sole fluenti, relazione che va messa in sistema

con la relazione assegnata.

Esempio 3.3. Consideriamo la relazione x− y2 + 1 = 0 e ci chiediamo i valori massimi

o minimi assunti dalle variabili x, y. Scriviamo subito la relazione tra le flussioni, ovvero

(3.3) x− 2yy = 0.

Iniziamo dalla variabile y. Ponendo y = 0 si avrebbe x = 0, soluzione che Newton

esclude, ed invero y e una variabile illimitata; si veda la figura 15.

Figura 15. La relazione x− y2 + 1 = 0.

Cercando invece di estremizzare la variabile x si ha, mettendo x = 0 nella (3.3), l’equa-

zione −2yy = 0 dalla quale, eliminando la soluzione inaccettabile y = 0, si deduce che

y = 0, e dunque stavolta si trova il sistema{x− y2 + 1 = 0y = 0

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 29

che ha come soluzione x = −1. Riscriviamo ora che la (3.3) come x = 2yy e cerchiamo

di ragionare ora come avrebbe potuto ragionare Newton. Mettiamoci nel punto (−1, 0):

osserviamo quindi che se y parte da 0 e cresce, allora la sua flussione diventa positiva,

per cui yy ≥ 0 da cui x ≥ 0 mentre se y parte da 0 e decresce, allora la sua flussione

diventa negativa, e resta dunque sempre yy ≥ 0 da cui ancora x ≥ 0. In ogni caso quindi

x fluisce crescendo dal valore x = −1, per cui x = −1 e il valore minimo per x.

3.3. Le tangenti. Vediamo come il metodo delle flussioni possa essere applicato per la

risoluzione del problema delle tangenti. Newton considera le stesse situazioni geometriche

dei suoi predecessori, quindi analizza la figura 16. Sia fissata in O l’origine degli assi

cartesiani e sia data la curva OBE come in figura, descritta dalla relazione tra le variabili

x e y, diciamo, al solito, P (x, y) = 0. Allo scopo di determinare la tangente in B Newton

sposta ancora graficamente la sua attenzione alla sottotangente, ma stavolta le regole del

calcolo delle flussioni permettono di agevolare i conti anche su espressioni complicate.

Infatti, poniamo |OA| = x e |AB| = y e diamo un incremento temporale infinitamente

piccolo, ovvero |AC| = ox e |DE| = oy.

Figura 16. La tangente TB alla curva OBE nel punto B.

Essendo l’incremento temporale o molto piccolo, il punto E sara approssimativamente

sulla tangente TB e dunque Newton scrive la proporzione che esprime la similitudine tra

il triangolo TAB e il “triangolo” BDE, ovvero

TA : AB = BD : DE

30 LUCA LUSSARDI

da cui|TA|y

=ox

oye quindi

(3.4) |TA| = yx

y

che permette di determinare il punto T , e quindi la retta tangente TB semplicemente

come retta passante per due punti, T e B.

3.4. Centri di curvatura. Una significativa applicazione del calcolo delle flussioni e

rappresentata dalla determinazione dei centri di curvatura delle curve piane. Seguiamo

il ragionamento di Newton analizzando la figura 17. Proponiamoci quindi di determinare

il centro di curvatura C della curva assegnata, nel suo punto D. Tracciamo per prima

cosa la tangente TD, che sappiamo gia come determinare. Il segmento DC e quindi

perpendicolare a TD. Costruiamo quindi il punto G intersecando la parallela ad AB

condotta da D con la parallela a BD condotta da C, e consideriamo un generico punto

g sul segmento CG. Tracciamo la parallela ad AB passante per g, che interseca DC in

δ. Si ha subito una prima proporzione, che discende dalla similitudine tra il triangolo

Cgδ ed il triangolo TBD:

(3.5) Cg : gδ = TB : BD.

Muoviamo ora il punto D facendogli fare un incremento infinitesimo che lo porta nel

punto d: se C e il centro di curvatura in D allora il segmento dC deve essere ortogonale

a Dd in d. Tracciamo l’altezza de e sia F il punto di intersezione tra dC e DG; sia inoltre

f il punto di intersezione tra dC e gδ. Ponendo |AB| = x e |BD| = y, possiamo allora

scrivere

(3.6) |De| = xo, |de| = yo, |δf | = − ˙(gδ)o.

Per il secondo teorema di Euclide si ha poi, essendo de altezza relativa all’ipotenusa DF ,

|eF | = |de|2

|De|da cui

(3.7) |DF | = |De|+ |eF | = |De|+ |de|2

|De|.

Potendo porre quindi, per arbitrarieta, |Cg| = 1 e ponendo |gδ| = z, la (3.5) diventa

1 : z = |TB| : |BD| = |De| : |de| = x : y,

cioe

z =y

x.

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 31

Figura 17. Determinazione del centro di curvatura C.

Tenuto conto poi delle (3.6), la (3.7) puo essere riscritta come

|DF | = xo+y2o

x

e dunque si ha che la proporzione geometrica

1 : |CG| = |δf | : |DF |

fornisce

|CG| = − x2 + y2

xz.

Potendo ora scegliere x = 1 possiamo quindi scrivere, siccome diventa z = y,

|CG| = −1 + z2

z.

Notiamo che la formula precedente ha senso dal momento che z < 0. E ora semplice

determinare anche il raggio di curvatura DC: infatti, ancora per similitudine si ha

|DG| : |gδ| = |CG| : |Cg|

da cui

|DG| = −z(1 + z2)

z.

32 LUCA LUSSARDI

e quindi, per il teorema di Pitagora,

|DC| =√|DG|2 + |CG|2 =

(1 + z2)√

1 + z2

|z|.

Newton a questo punto estrae una regola operativa: l’obiettivo e determinare z e z in

funzione di x e y in modo tale da poter determinare poi la quantita

|DH| = −1 + z2

z

che si traccia graficamente scendendo da D lungo la perpendicolare ad AB; basta poi

condurre da H la parallela ad AB fino al punto C di modo tale che

|HC| = −z(1 + z2)

z

trovando cosı il centro di curvatura C. Il problema e dunque risolto se determiniamo z

e z in funzione di x e y, ricordando che durante il ragionamento fatto abbiamo posto

x = 1 e di conseguenza y = z. Osserviamo che tutto questo ragionamento vale per una

configurazione come nella figura 17; altre configurazioni si trattano in modo analogo.

Descriviamo quindi, in modo algoritmico, qual e la procedura da seguire. Sia quindi

data la relazione P (x, y) = 0.

1) Per prima cosa troviamo la nuova relazione R(x, y, x, y) = 0.

2) Poniamo x = 1 e y = z, avendo cosı S(x, y, z) = R(x, y, 1, z) = 0.

3) Troviamo dunque la relazione T (x, y, z, x, y, z) = 0.

4) Poniamo ancora x = 1 e y = z, avendo cosı U(x, y, z, z) = T (x, y, z, 1, z, z) = 0.

5) Il sistema {S(x, y, z) = 0U(x, y, z, z) = 0

ci fornisce z e z in funzione di x e y.

6) Con z e z possiamo quindi determinare

|DH| = −1 + z2

z, |HC| = −z(1 + z2)

z

che forniscono la posizione di C.

Prima di passare alla procedura inversa, ovvero da una relazione tra flussioni alla rela-

zione tra le fluenti, e vederne qualche applicazione, facciamo un’importante osservazione

legata proprio alla determinazione dei centri di curvatura. Come e ben noto oggi, infatti,

la curvatura di una curva e una quantita legata alla derivata seconda della parametrizza-

zione, mentre Newton se la cava sempre e solo con una sola flussione: il trucco consiste

nel passare alla variabile z, che infatti e stata posta pari a y, e dunque z sarebbe y.

Newton non introduce mai una accelerazione delle fluenti, quindi per Newton il calcolo

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 33

infinitesimale e solo al primo ordine, piuttosto introduce nuove variabili fluenti, come

appena visto per la determinazione dei centri di curvatura.

3.5. Il metodo delle serie infinite. Fino a questo momento, come il lettore avra cer-

tamente osservato, abbiamo quasi sempre trattato esempi di curve descritte da equazioni

algebriche; e pur vero che Newton descrive, mediante opportuni cambi di variabili, co-

me, ad esempio, trovare la relazione tra le flussioni se la relazione tra le fluenti contiene

radicali anche complicati, e inoltre illustra le regole di calcolo che permettono di analiz-

zare una difficolta alla volta. Nonostante questo passo in avanti pero restano escluse dal

discorso, ad esempio, le curve trascendenti, che rappresentavano un problema anche per

tutti i predecessori di Newton. Per questo tipo di curve Newton fa un’assunzione che oggi

ci appare drastica, ma che puo essere compresa se pensiamo che a quel tempo il concetto

generale di funzione come legge di corrispondenza tra variabili non era ancora presente:

Newton assume che tutte le funzioni, sostanzialmente, siano esprimibili come sviluppi in

serie di potenze, eventualmente anche a esponenti negativi. Certamente per molte fun-

zioni trascendenti, come esponenziali o funzioni circolari questa procedura e corretta, ma

per altre no: l’analisi di Newton quindi non e completa se pensiamo al concetto di fun-

zione inteso come oggi lo intendiamo, ma risulta sufficientemente esausitva relativamente

alle conoscenze dell’epoca. La teoria delle serie infinite ideata da Newton costituisce il

punto di forza, secondo Newton stesso, del suo calcolo: infatti, come vedremo, Newton

riesce sempre, in ogni caso, a invertire la procedura che fa passare dalla relazione tra le

fluenti alla relazione tra le flussioni, che quindi e una sorta di integrazione delle relazioni

tra le flussioni: per fare questo pero e necessario ricondursi sempre a serie, infinite in

generale, di potenze e quindi poi operare su queste, praticamente, come diremmo oggi,

integrando per serie, cioe termine a termine. In questo modo Newton riuscira a risolvere

completamente i problemi che si era posto: dalle fluenti alle flussioni e viceversa dalle

flussioni alle fluenti; ma il risultato di quest’ultima operazione resta solo teorico poiche

Newton non e poi in grado di identificare, in generale, il risultato di un’integrazione di

una relazione tra flussioni, che resta quindi solamente scritto come formale sviluppo in

serie di potenze. Per inciso, non esiste ovviamente ancora alcun concetto di convergenza

delle serie, cosa che arrivera molti anni dopo. Newton mostra anche come sia possibile

riscrivere varie operazioni come divisioni ed estrazioni di radici, per sviluppi in serie.

Uno dei primi esempi che Newton fa e la divisione

a2

b+ x

34 LUCA LUSSARDI

che sviluppa come

a2

b+ x=a2

b− a2x

b2+a2x2

b3− a2x3

b4+a2x4

b5− . . .

In particolare, viene dedotto l’importante sviluppo in serie

1

1 + x2= 1− x2 + x4 − x6 + x8 − · · ·

Successivamente, passa ad esaminare come sviluppare una radice quadrata, trovando,

per esempio, che√a2 + x2 = a+

x2

2a− x4

8a3+

x6

16a5− · · ·

Non andiamo oltre questo argomento e torniamo al calcolo delle flussioni.

3.6. Dalle flussioni alle fluenti. Il passaggio da una relazione

P (x, y, z, . . . , x, y, z, . . . ) = 0

ad una relazione del tipo R(x, y, z, . . . ) = 0 e ben piu problematico del passaggio opposto

gia analizzato: infatti, stavolta si tratta di effettuare, come diremmo oggi, un’integrazione

di una relazione tra flussioni. Proprio per questo problema Newton sfrutta il suo metodo

delle serie infinite: in questo modo, in linea teorica, Newton riesce a integrare ogni

relazione tra flussioni. Analizziamo un esempio solo nel caso piu significativo che Newton

tratta, ovvero il caso in cui si abbia una relazione assegnata del tipo P (x, y, x, y) = 0

che possa essere messa in una delle seguenti forme:

y

x= Q(x, y),

x

y= S(x, y)

essendo Q(x, y), S(x, y) polinomiali in x e y, eventualmente anche uno sviluppo in serie

infinita. Allora, in questo caso Newton trova un algoritmo che consente di ricavare la

relazione y = T (x), con T (x) eventualmente serie infinita di potenze di x.

Esempio 3.4. Supponiamo sia data la relazione

y

x= 1− 3x+ y + x2 + xy.

Anzitutto, va spezzata la parte che contiene solo x dal resto della relazione, ottenendo

y

x= (1− 3x+ x2) + (y + xy).

Costruiamo ora una tabella come segue:

1 −3x +x2 0 . . .

y ∗ . . . . . . . . . . . .xy ∗ ∗ . . . . . . . . .

somma 1 . . . . . . . . . . . .y = . . . . . . . . . . . . . . .

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 35

Compiliamo ora la tabella. Consideriamo l’1 sulla prima riga della tabella; moltiplichia-

molo per x ottenendo x = x1 e dividiamolo quindi per 1, il suo esponente visualizzato

esplicitamente, ottenendo x. Quest’ultimo x lo mettiamo al posto di y nelle due espres-

sioni che ci sono in colonna a sinistra, ottenendo rispettivamente x e x2. Mettiamo

questi ultimi due termini in tabella come segue:

1 −3x +x2 0 . . .

y ∗ x . . . . . . . . .xy ∗ ∗ x2 . . . . . .

somma 1 . . . . . . . . . . . .y = . . . . . . . . . . . . . . .

Ora ripartiamo con lo stesso ragionamento dal termine −3x, secondo termine della pri-

ma riga. Questo lo sommiamo all’x sottostante, trovando −2x, moltiplichiamo per x,

ottenendo −2x2, che va diviso per l’esponente di x, cioe 2, da cui troviamo −x2; infine

mettiamo −x2 al posto di y nelle due espressioni che ci sono in colonna a sinistra, ot-

tenendo rispettivamente −x2 e −x3: mettiamo questi ultimi due termini in tabella come

segue:

1 −3x +x2 0 . . .

y ∗ x −x2 . . . . . .xy ∗ ∗ x2 −x3 . . .

somma 1 . . . . . . . . . . . .y = . . . . . . . . . . . . . . .

Facciamo ancora un passaggio solo, quindi ripartiamo con lo stesso ragionamento dal

termine +x2, terzo termine della prima riga. Questo lo sommiamo ai sottostanti, tro-

vando x2, moltiplichiamo per x, ottenendo x3, che va diviso per l’esponente di x, cioe

3, da cui troviamo x3/3; infine mettiamo x3/3 al posto di y nelle due espressioni che

ci sono in colonna a sinistra, ottenendo rispettivamente x3/3 e x4/3: mettiamo questi

ultimi due termini in tabella come segue:

1 −3x +x2 0 . . .

y ∗ x −x2 x3/3 . . .xy ∗ ∗ x2 −x3 x4/3

somma 1 . . . . . . . . . . . .y = . . . . . . . . . . . . . . .

E cosı via, la procedura in generale non ha termine. Compiliamo ora la riga della somma

semplicemente sommando in colonna:

36 LUCA LUSSARDI

1 −3x +x2 0 . . .

y ∗ x −x2 x3/3 . . .xy ∗ ∗ x2 −x3 x4/3

somma 1 −2x +x2 −2x3/3 + · · ·y = . . . . . . . . . . . . . . .

Infine, per trovare l’ultima riga e sufficiente moltiplicare ogni addendo per x e dividerlo

per l’esponente relativo alla x; abbiamo quindi finalmente

1 −3x +x2 0 . . .

y ∗ x −x2 x3/3 . . .xy ∗ ∗ x2 −x3 x4/3

somma 1 −2x +x2 −2x3/3 + · · ·y = x −x2 +x3/3 −x4/6 + · · ·

da cui la soluzione

y = x− x2 +x3

3− x4

6+ · · ·

3.7. La quadratura delle curve. Finalmente Newton, dopo aver analizzato il proble-

ma che consiste nel passare da una relazione assegnata tra flussioni alla corrispondente

relazione tra le fluenti, applica questa procedura alla quadratura delle curve piane: con-

cludiamo la nostra analisi sul lavoro di Newton proprio con la prima apparizione di quello

che sara noto poi come teorema fondamentale del calcolo integrale, ovvero la compren-

sione che quadratura e calcolo delle flussioni sono due problemi l’uno inverso dell’altro.

Analizziamo la seguente figura.

Figura 18. Quadratura della curva ADE.

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 37

E assegnata la curva ADE come in figura, dunque una relazione P (x, y) = 0 avendosi

|AB| = x e |BD| = y. Poniamo

z = Area (ABD).

Diamo quindi un incremento temporale infinitesimo o: si avra |BC| = xo e |FE| = yo.

Essendo o infinitamente piccolo si ha che il momento della variabile z puo essere scritto,

ricordando la formula che fornisce l’area di un trapezio, come

zo =(|BD|+ |CE|)|DF |

2=

(y + y + yo)xo

2= yxo+

yxo2

2

da cui

z = yx+yxo

2e dunque, ponendo o = 0, si giunge a

(3.8) z = yx.

Potendosi scegliere x = 1, la (3.8) diventa la fondamentale

(3.9) z = y

che rappresenta la versione newtoniana del teorema fondamentale del calcolo integrale.

Il problema della quadratura della curva ADE si risolve dunque trovando, dalla relazione

P (x, y) = 0 la relazione tra z e x, ottenuta “integrando” la relazione (3.9).

4. Leibniz: il calcolo differenziale

Gottfried Wilhelm Leibniz nasce a Lipsia, in Germania, il 1◦ luglio 1646. Figlio di

un professore universitario di diritto, entra all’Universita di Lipsia nel 1661 e prende

la laurea in Giurisprudenza nel 1666; in questo stesso anno pubblica anche i suoi pri-

mi lavori di logica matematica. Dal 1668 comincia a viaggiare attraverso l’Europa per

missioni diplomatiche e proprio durante i periodi che trascorre a Parigi, in Olanda e a

Londra conosce personalita di spicco del mondo scientifico: in particolare entra in con-

tatto epistolare con Oldenburg, il segretario della Royal Society di Londra, e quindi,

indirettamente, anche con Newton. Nel 1676 rientra in Germania, ad Hannover, e nel

1680 comincia a dedicarsi agli studi e alla stesure di molte delle sue opere, che spazia-

no dalla filosofia alla logica, e in particolare le opere matematiche. Sulla rivista Acta

Eruditorum, da lui fondata nel 1682, pubblica, nel 1684, l’articolo che fissa le notazio-

ni e le regole definitive del calcolo differenziale, ovvero Nova Methodus pro Maximis et

Minimis. L’ultima parte della vita di Leibniz e contrassegnata dalla disputa sorta tra

lui e Newton per l’attribuzione dell’invenzione del calcolo infinitesimale. Leibniz passa

gli ultimi anni della sua vita nella disgrazia a causa delle accuse di plagio e muore ad

38 LUCA LUSSARDI

Hannover il 14 novembre 1716. L’anno 1684 rappresenta quindi la nascita ufficiale del

calcolo infinitesimale, dal momento che solo in quest’anno per la prima volta appaiono

pubblicati, con l’uso delle notazioni definitive, metodi propri del calcolo differenziale e

del calcolo integrale: ricordiamo infatti che Newton non pubblichera nessun risultato

sul calcolo delle flussioni, nonostante ne fosse gia in possesso nel 1666. Leibniz viene in

contatto indiretto con Newton negli anni del suo soggiorno a Parigi prima e a Londra

poi: in questo periodo infatti Leibniz intrattiene una notevole corrispondenza epistolare

con Barrow, Collins Oldenburg, e quest’utlimo, a sua volta, gira le lettere a Newton. In

queste lettere, divenute piu tardi tristemente famose per via della disputa che scoppiera,

Newton espone in modo chiaro il metodo delle serie infinite e dichiara di possedere il

calcolo delle flussioni, che pero non esplicita mai: Leibniz dunque sa che Newton e gia

in possesso del calcolo infinitesimale, ma la diversita notevole dell’approccio di Leibniz

rispetto a quello di Newton ci porta a pensare che egli non abbia carpito in nessun modo

il calcolo delle flussioni, ma che abbia invece sviluppato in modo autonomo il calcolo

differenziale. Infatti, mentre per Newton le variabili dipendono da una variabile tem-

porale fittizia, Leibniz ha una concezione statica del calcolo, quindi, a prima vista, piu

classica, per certi versi, di quella di Newton. Il concetto fondamentale su cui fa perno il

calcolo leibniziano e il concetto di differenziale di una variabile, tipicamente geometrica,

ovvero la differenza tra due valori assunti dalla variabile e infinitamente vicini tra loro.

Leibniz, a differenza di Newton, comprende meglio il fatto che in realta le quantita di

interesse sono i rapporti tra differenziali e non i differenziali in se; c’e inoltre un netto mi-

glioramento nella comprensione del teorema fondamentale del calcolo integrale: Leibniz

arriva addirittura a dire che si potrebbe definire l’integrale come l’operatore inverso del

differenziale. Le ricerche di Leibniz sul calcolo differenziale conducono alla pubblicazione

dei primi manoscritti del 1673: egli riprende le ricerche di Fermat, di Pascal e di altri e si

propone soprattutto di determinare delle regole di calcolo e delle notazioni idonee. Que-

sto progetto arriva lentamente a compimento con la gia piu volte citata pubblicazione

del 1684, Nova Methodus pro Maximis et Minimis.

4.1. Il differenziale. Leibniz concepisce il calcolo dei differenziali come estrapolazione

di un calcolo su variabili discrete: infatti, egli considera prima di tutto la situazione in

cui e data la variabile x che non forma un continuo geometrico, ma bensı forma una

successione, o progressione, come viene chiamata dallo stesso Leibniz. Precisamente

quindi la variabile x assume valori discreti {xi}, in generale infiniti. Leibniz introduce

quindi l’operatore differenza ∆ che opera su x come segue:

∆ix = xi+1 − xi.

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 39

L’operatore ∆ trasforma quindi progressioni in progressioni: esso trasforma la progres-

sione {xi} nella progressione degli incrementi {∆ix}. Per “estrapolazione” di ∆, viene

quindi definito l’operatore differenziale d il quale stavolta agisce sulla variabile continua

x pensata come progressione infinita dei suoi valori infinitamente vicini tra loro: Leibniz

insiste molto sul fatto che dx e una quantita infinitamente piu piccola rispetto alla varia-

bile x, considerazione che tornera utile molto spesso. Osserviamo ora alcune proprieta

dell’operatore differenza ∆. Ad esempio,

∆ia = a− a = 0, se a e una costante,

xi = yi =⇒ ∆ix = ∆iy

∆i(x+ y) = xi+1 + yi+1 − xi − yi = xi+1 − xi + yi+1 − yi = ∆ix+ ∆iy,

∆i(x− y) = xi+1 − yi+1 − xi + yi = xi+1 − xi − (yi+1 − yi) = ∆ix−∆iy.

Queste formule, estrapolando l’operatore ∆, diventano rispettivamente

da = 0, se a e una costante,

x = y =⇒ dx = dy

e

d(x+ y) = dx+ dy, d(x− y) = dx− dy.

Passiamo ora ad esaminare invece le due ultime proprieta meno ovvie. Anzitutto, si ha

∆i(xy) = xi+1yi+1 − xiyi = yi+1(xi+1 − xi) + xi(yi+1 − yi) = yi+1∆ix+ xi∆iy

dalla quale, per estrapolazione, segue che

(4.1) d(xy) = (y + dy)dx+ xdy = ydx+ xdy + dxdy.

Osservando bene la relazione (4.1) Leibniz si accorge che qualcosa non torna tra membro

di sinistra e membro di destra: a sinistra infatti vi e una quantita infinitamente piu

piccola di xy mentre a destra vi e, oltre alla somma ydx+xdy che e dello stesso ordine di

infinitesimo del membro di sinistra, anche la quantita dxdy che invece e un infinitesimo di

ordine piu elevato rispetto a ydx+ xdy, dal momento che e prodotto di due infinitesimi.

Per far tornare un bilancio di ordini di infinitesimo deve quindi essere

d(xy) = ydx+ xdy

che e la definitiva regola di differenziazione del prodotto. Infine, per quanto riguarda il

quoziente di due variabili si ha

∆i

(x

y

)=xi+1

yi+1

− xiyi

=xi+1yi − xiyi+1

yi+1yi=yi(xi+1 − xi)− xi(yi+1 − yi)

yi+1yi

40 LUCA LUSSARDI

da cui

(4.2) d

(x

y

)=ydx− xdy(y + dy)y

=ydx− xdyy2 + ydy

.

Anche qui, dal momento che ydy e una quantita infinitamente piu piccola rispetto a y2

la (4.2) diventa la definitiva regola di differenziazione del quoziente data da

d

(x

y

)=ydx− xdy

y2.

Quella appena presentata e la teoria dei differenziali primi: in questo Leibniz giunge a

conclusioni corrette, nel senso che se prendiamo la relazione y = f(x) allora il rapporto

dy

dx

calcolato usando le regole di Leibniz coincide con la derivata prima di f . Difatti, secondo

le regole di Leibniz, differenziando la relazione y = f(x) si trova

dy = f ′(x)dx

essendo f ′ la “nostra” derivata prima, e dunque

dy

dx= f ′(x).

4.2. Differenziali di ordine piu elevato. Il prossimo step e il passaggio ai differen-

ziali di ordine piu elevato, primo vero elemento di novita rispetto al calcolo newtoniano.

Leibniz infatti osserva che una volta assegnata la progressione della variabile x, anche dx

e una variabile, e ricordiamo anche infinitamente piu piccola di x, che forma una progres-

sione infinita, e dunque ha senso considerare ddx, denotato anche con d2x, e quindi per

ricorsione d3x, d4x, . . . Cosı come dx e una quantita infinitamente piccola rispetto a x, il

differenziale secondo d2x e una quantita infinitamente piccola rispetto a dx, il differen-

ziale terzo d3x e una quantita infinitamente piccola rispetto a d2x, e cosı via. Sfruttando

il calcolo dei differenziali successivi, che obbediscono alle stesse leggi dei differenziali

primi, Leibniz afferma che e dunque possibile scrivere infinite equazioni differenziali a

partire dall’equazione di una curva, differenziando ripetutamente l’espressione assegna-

ta: siccome vengono usate solo le regole principali del calcolo differenziale, segue che

tutte le relazione via via trovate sono indipendenti dalla scelta delle progressioni delle

variabili in gioco. Se ad esempio differenziamo due volte la relazione y = f(x) otteniamo,

introducendo le nostre notazioni per le derivate prima e seconda di f ,

dy = f ′(x)dx, d2y = f ′′(x)dx2 + f ′(x)d2x

da cuid2y

dx2= f ′′(x) + f ′(x)

d2x

dx2.

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 41

Dunque il rapportod2y

dx2

calcolato usando le regole di Leibniz, non coincide, in generale, con la derivata seconda di

f : per ottenere la derivata seconda a partire dai differenziali secondi occorre quindi che

si consideri la variabile d2x costante, ed effettivamente questa e una scelta che Leibniz

fa spesso quando tratta i differenziali successivi: in tal caso si ha proprio

d2y

dx2= f ′′(x)

che e la notazione che si usa ancora oggi.

4.3. Tangenti. Anche Leibniz, come Newton e altri prima, applica il calcolo differenziale

per risolvere il classico problema delle tangenti: facciamo riferimento alla figura 19.

Leibniz osserva, come del resto abbiamo visto era gia ben noto, che approssimativamente

si ha

BD : DE = TA : AB.

Se quindi la curva assegnata ha equazione P (x, y) = 0 allora si ha la relazione

dx : dy = |TA| : y

Figura 19. La tangente TB alla curva OBE nel punto B.

da cui si ricava la sottotangente

(4.3) |TA| = ydx

dy

42 LUCA LUSSARDI

che e la perfetta analoga della (3.4) di Newton. La (4.3) e esattamente quello che

scriveremmo oggi: la differenza che c’e tra la (4.3) e il nostro modo di concepire la (4.3)

risiede nel fatto che per noi la scrittura

dx

dy

e una notazione unica, mentre per Leibniz e un vero rapporto algebrico di differenziali.

4.4. L’integrale e le quadrature. In analogia a quanto fatto per il differenziale, Leib-

niz introduce l’operatore integrale, al quale dedica comunque molto meno spazio, estra-

polando un opportuno operatore definito su progressioni discrete delle variabili: va co-

munque precisato che Leibniz non usa ancora il termine “integrale”, questo nome verra

dato pochi anni dopo da Jacob Bernoulli. Data la variabile discreta y = {yi}, Leibniz

considera stavolta l’operatore somma

Σiy =i∑

j=1

yj = y1 + y2 + · · ·+ yi.

Passando ora alla variabile continua l’operatore Σ diventa l’operatore integrale∫y

che stavolta e una variabile infinitamente piu grande rispetto alla variabile y. Osserviamo

ora che se y e una variabile discreta allora si ha, per definizione,

∆iΣiy = ∆i

( i∑j=1

yj

)=

i+1∑j=1

yj −i∑

j=1

yj = yi+1

da cui, per estrapolazione alle variabili continue, si avrebbe

d

∫y = y + dy.

Ancora una volta usiamo un discorso di omogeneita degli ordini di infinitesimo/infinito:

affinche il bilancio sia corretto occorre trascurare il termine dy a destra, trovando

(4.4) d

∫y = y.

La (4.4) rappresenta la versione leibniziana del teorema fondamentale del calcolo integra-

le, in analogia alla (3.9) di Newton. Tutto e quindi pronto quindi per risolvere anche il

problema della quadratura: l’area Q della regione delimitata dalla variabile y, “funzione”

di x, e data da

Q =

∫ydx

poiche si ottiene sommando le aree dei rettangoli di base dx e altezza y. Leibniz os-

serva che Q stessa puo essere anche definita come variabile tale che dQ = ydx e quindi

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 43

sottolinea che l’operatore integrale potrebbe essere anche definito semplicemente come

l’inverso dell’operatore d.

4.5. Newton e Leibniz a confronto. Come gia osservato in vari punti, Newton non

utilizza mai derivazioni di ordine superiore al primo, sebbene talvolta se ne presentasse la

necessita, come ad esempio nella determinazione dei centri di curvatura; Leibniz invece

introduce anche i differenziali di ordine superiore al primo, anche se non li comprende

completamente, in quanto sembra che questi ultimi abbiano un vero significato solamente

quando si assume costante la progressione dei differenziali primi di una delle variabili.

Le procedure di Newton appaiono molto algoritmiche: lo scienziato inglese ogni volta

fornisce una regola ben precisa che si puo applicare a tutti i casi che sta discutendo,

quasi automatica, che permette anche di dimenticarsi della teoria puramente formale

che c’e dietro; il lavoro di Leibniz e invece piu astratto e sintetico. Abbiamo osservato

piu volte che in Newton talvolta si e costretti, come nel caso della quadratura, a imporre

come unitaria, o in generale nota, la flussione di una delle variabili in gioco: Newton non

e pienamente consapevole del fatto che in realta le quantita che interessano veramente

non sono le flussioni, bensı i rapporti tra di esse; questo fatto invece e compreso meglio

da Leibniz, anche se il fatto che Newton fissa come unitarie certe flussioni quando gli fa

comodo riflette la scelta delle progressioni costanti di Leibniz. Newton crede fino alla fine

della sua vita che il suo calcolo delle flussioni, accompagnato al metodo delle serie infinite,

sia il fecondo strumento di calcolo che permettera nel futuro uno sviluppo dell’analisi; la

storia smentira Newton: infatti, e pur vero che combinando calcolo delle flussioni e serie

infinite si arriva sempre ad una soluzione, ma solo ad una soluzione teorica, perdendo

spesso di vista altri importanti aspetti della problematica. Questo punto sara il tallone

d’Achille del calcolo newtoniano, e invero sara il calcolo differenziale di Leibniz a essere

sviluppato da tutti i grandi matematici del continente, a cominciare dai fratelli Bernoulli.

4.6. La disputa sull’invenzione del calcolo. Abbiamo gia accennato a questo fatto

discutendo della vita di Newton. Pubblicazioni alla mano, la priorita di invenzione del

calcolo infinitesimale spetterebbe a Leibniz, dal momento che egli e il primo che pubblica

risultati definitivi di calcolo differenziale, nel 1684. Nonostante questo, come abbiamo

gia piu volte detto, Newton era in possesso del calcolo delle flussioni, che pero non pub-

blica, fin dal 1666. E doveroso precisare sin da subito che oggi viene riconosciuta ad

entrambi la scoperta del calcolo infinitesimale: infatti, data la diversita notevole dei due

approcci, e molto probabile che Newton e Leibniz abbiano sviluppato in modo autono-

mo il loro calcolo; ricordiamo altresı che Leibniz pubblica svariati articoli sin dal 1675

44 LUCA LUSSARDI

relativi a quello che poi sarebbe divenuto il calcolo differenziale, ma con notazioni via

via da raffinare che diventano definitive solo col Nova Methodus. In realta, abbiamo gia

accennato al fatto che c’e stato un notevole scambio epistolare tra Newton e Leibniz tra

gli anni 1672 e 1676, anche se mai diretto ma mediante i corrispondenti Collins, Barrow

e Oldenburg. In queste lettere Newton espone parecchi suoi risultati che potevano essere

compresi solo con l’uso del calcolo delle flussioni, o comunque solo essendo a conoscenza

del calcolo infinitesimale: in particolare, l’argomento principale delle lettere e il metodo

delle serie infinite, ma Newton cela dietro difficili anagrammi il suo calcolo delle flussioni.

Leibniz viene quindi a conoscenza di questi risultati proprio nel periodo in cui pubblica

i primi tentativi di edificazione del calcolo differenziale, ma e difficile credere che possa

aver tratto delle idee utili a partire dalla vaghezza delle esposizioni di Newton, per cui

appare abbastanza convincente il fatto che Leibniz abbia comunque sviluppato il calcolo

in modo autonomo. Il fatto che ha scatenato la disputa risale al 1704, anno in cui, co-

me appendice dell’Opticks di Newton, appare il Tractatus de quadratura curvarum: una

recensione di questo lavoro, anonima ma notoriamente dovuta a Leibniz, dice infatti che

Newton nel tal lavoro si serve sostanzialmente del metodo differenziale di Leibniz ma

con le notazioni del calcolo delle flussioni. Questa citazione suscita l’ira dei seguaci di

Newton che accusano una prima volta Leibniz di plagio. Nel 1710 il matematico scozzese

John Keill conclude un articolo sulle forze centrifughe dichiarando esplicitamente che si e

avvalso del metodo delle flussioni, scoperto da Newton molti anni prima e poi pubblica-

to invece da Leibniz con altre notazioni. Leibniz chiede dunque rettifica di una seconda

accusa di plagio cosı pesante, e si rivolge direttamente alla Royal Society di Londra, in

quegli anni presieduta proprio da Newton. La societa decide di nominare una commissio-

ne che chiarisca definitivamente la priorita sull’invenzione del calcolo; paradossalmente,

il caso viene messo in mano a persone poco competenti in materia, le quali si limitano

a esaminare le lettere scambiate tra Newton e Leibniz e pubblicando, nel 1713, il Com-

mercium epistolicum, ovvero proprio la raccolta commentata dello scambio epistolare tra

Newton e Leibniz. La commissione stabilisce che Leibniz aveva appreso il calcolo dalle

lettere di Newton e se ne era impadronito pubblicandolo a proprio nome e con le proprie

notazioni: Leibniz viene cosı accusato ufficialmente di plagio. Siamo nel 1713 e Leibniz

conclude gli ultimi tre anni della sua vita nella disgrazia a causa dell’accusa ufficiale di

plagio. E curioso osservare che questa disputa sfiora appena quelli che dovrebbero essere

i due veri protagonisti: Newton infatti, da una parte, tace fino a quando i suoi seguaci

cominciano ad accusare Leibniz di plagio, mentre Leibniz non mette mai in discussione la

priorita a Newton per la teoria delle serie infinite, ma rivendica a se stesso la scoperta del

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 45

calcolo differenziale, calcolo del quale non trova nessuna traccia negli scritti dell’avver-

sario inglese. Nel momento in cui l’accusa di plagio diventa ufficiale, l’Europa si divide

in due: da una parte la comunita inglese prosegue sulla strada delineata da Newton,

il calcolo newtoniano consente, come abbiamo visto, di arrivare sempre ad una soluzio-

ne, ma purtroppo una soluzione spesso teorica e non ulteriormente caratterizzabile; nel

continente invece si fa strada la scuola di Leibniz. Gli inglesi non faranno negli anni

successivi sostanziali progressi in analisi, mentre nell’Europa continentale, come esami-

neremo nella prossima sezione, ci sara una vera e propria esplosione dell’analisi a partire

dai contributi della famiglia Bernoulli. Leibniz viene quindi vendicato e ricompensato:

egli ci aveva visto piu lontano, e il suo approccio, sebbene incompleto per certi versi

rispetto a quello di Newton, dal momento che mancava della teoria delle serie infinite, si

rivelera l’approccio giusto per lo sviluppo dell’analisi matematica fino ai giorni nostri.

5. I fondamenti del calcolo infinitesimale

5.1. La diffusione del calcolo differenziale in Europa. Nell’immediato periodo

post-Leibniz nell’Europa continentale si assiste ad una rapida diffusione dei metodi del

calcolo differenziale e del calcolo integrale, anche se tra pochi esponenti della comunita

matematica. In particolare, i primi matematici che danno un notevole contributo alla

teoria sono i fratelli Bernoulli, Jacob (1654-1705) e Johann (1667-1748). In questi anni

il calcolo differenziale viene applicato per la risoluzione di moltissimi problemi di origine

fisica, problemi inattaccabili con gli strumenti della matematica classica. Nonostante

questi matematici di grande valore cercano di diffondere il calcolo in Europa, le resi-

stenze sono tante, e sono dovute soprattutto al fatto che i fondamenti del calcolo stesso

sono poco affidabili e imprecisati, rispetto per esempio ai ben noti metodi classici, di

solide fondamenta. Per cercare di vincere queste resistenze, i matematici sostenitori del

nuovo calcolo si dilettavano a proporre spesso problemi inattaccabili classicamente, allo

scopo di mostrare la superiorita del nuovo metodo di calcolo. Va in proposito ricordato

il piu celebre problema di questo tipo, proposto nel 1696 proprio da uno dei Bernoulli,

e precisamente da Johann, sugli Acta Eruditorum. Si tratta del celebre problema della

brachistocrona: dati due punti P e Q in un piano verticale, posti ad altezza diversa, si

chiede di determinare la curva che connette P e Q e che minimizza il tempo di discesa

di un grave che la percorre per il solo effetto della forza di gravita. Il problema della

brachistocrona e il problema che ha segnato l’inizio di quel ramo dell’analisi matematica

oggi noto come Calcolo delle Variazioni, ovvero dello studio dei problemi di minimo di

funzionali di tipo integrale. Tra le soluzioni giunte per questo problema arrivano quelle

46 LUCA LUSSARDI

di Leibniz e del fratello Jacob; inoltre arriva anche una soluzione non firmata dall’In-

ghilterra, ma notoriamente dovuta a Newton: si narra altresı che Newton abbia risolto il

problema della brachistocrona in una sola notte di lavoro. Curiosamente, la soluzione a

questo problema e una curva gia nota a quei tempi: si tratta infatti della cicloide, di cui

abbiamo gia parlato a proposito della determinazione delle tangenti con metodi ricondu-

cibili a considerazioni di tipo cinematico. Ma non e solo la Svizzera, patria dei Bernoulli,

o la Germania ad accogliere le nuove idee della matematica. Il nuovo calcolo arriva anche

in Francia nel 1691, anno in cui Johann Bernoulli, durante un soggiorno a Parigi, insegna

il calcolo infinitesimale al marchese francese Guillame Francois de l’Hopital (1661-1704)

il quale nel 1696 pubblica, in anonimato, il trattato Analyse des infiniments petits, prima

esposizione sistematica del calcolo differenziale.

5.2. Il concetto di funzione. Abbiamo piu volte sottolineato il fatto che il moder-

no concetto di funzione non e presente negli studi di calcolo infinitesimale di Newton

e Leibniz, ma ormai siamo arrivati al momento in cui i matematici capiscono che la

nozione di funzione puo essere risolutiva per approfondire il problema sui fondamenti

dell’analisi matematica. Il termine funzione appare per la prima volta nel 1673 in un

manoscritto di Leibniz intitolato Methodus tangentium inversa seu de functionibus. Il

concetto di funzione tuttavia fa fatica a prendere piede: ricordiamo che fino a questo

momento gli oggetti di interesse matematico erano le curve, espresse da relazioni del

tipo P (x, y) = 0. Anche i Bernoulli trattano in modo secondario l’idea di funzione, ma

sempre piu si comprende in questi anni il fatto che la relazione P (x, y) = 0 sta in realta

dicendo, in molte situazioni, che l’ordinata y viene calcolata a partire dall’ascissa x appli-

cando ripetutamente varie operazioni. Ecco che quindi uno dei Bernoulli da la seguente

definizione:

Definizione 5.1. (Johann Bernoulli, 1718) Una funzione di una grandezza variabile

e una quantita composta in una maniera qualunque da questa grandezza variabile e da

costanti.

Si fa quindi spazio una prima nozione di funzione completamente operativa: una

funzione non e ancora una legge qualunque che associa ad ogni valore di x uno ed un

solo valore di y, ma per adesso e solo un modo ben definito per trovare y ogni volta che x

e noto. Questa analiticita del concetto di funzione si ritrova nell’Introductio in analysin

infinitorum di Eulero (1707-1783), il quale da la seguente definizione.

Definizione 5.2. (Eulero, 1748) Una funzione e un’espressione analitica costruita a

partire dalla variabile x mediante una serie di operazioni.

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 47

Si avverte, in particolare, il legame con il concetto di serie infinita di Newton: infatti,

l’idea di Eulero e che ogni funzione sia espressa da una serie del tipo

axα + bxβ + cxγ + · · ·

dove le potenze sono di qualunque tipo, anche non intere. La concezione euleriana delle

funzioni e ancora lontana dalla definizione moderna, ma c’e anche di piu: Eulero chia-

ma infatti continue tutte quelle funzioni che siano descrivibili con un’unica espressione

analitica, mentre invece chiama discontinue tutte le altre; per Eulero dunque la funzio-

ne f(x) = |x| e discontinua se considerata definita per ogni valore di x nel continuo

geometrico dell’asse delle ascisse, in quanto risulta, per definizione,

|x| ={x se x ≥ 0−x se x < 0

dalla quale si evince che |x| ha due espressioni analitiche diverse a seconda che x sia

positivo o negativo.

5.3. La diffusione del calcolo infinitesimale in Italia. Nonostante l’Italia abbia da-

to i natali a Cavalieri, la geometria degli indivisibili non viene accettata dai matematici

italiani, troppo ancorati alla geometria greca: va da se dunque il fatto che anche la geo-

metria di Cartesio e il calcolo infinitesimale non trovano nessuno spazio all’interno della

matematica italiana del XVII secolo. Leibniz stesso fa alcuni tentativi di esportazione

del calcolo differenziale anche nel nostro paese, grazie ad un soggiorno a Roma di sei me-

si, ma con scarso successo. Bisogna quindi attendere la generazione successiva a quella

dei matematici italiani gia attivi al momento della comparsa del calcolo differenziale. Ed

infatti, nel 1707 avviene il fatto che segna la comparsa del calcolo differenziale anche in

Italia: Jacob Hermann (1678-1733), allievo dei fratelli Bernoulli, prende la cattedra di

matematica all’Universita di Padova. Da questo momento la citta di Padova diviene il

riferimento per tutti i matematici italiani che vogliono studiare i nuovi metodi del calcolo

infinitesimale. Tuttavia le resistenze sono ancora abbastanza forti, e l’analisi italiana si

limita, in questi anni, allo studio dell’integrazione di equazioni differenziali: ricordiamo

Guido Grandi (1671-1742), Gabriele Manfredi (1681-1761) e Jacopo Riccati (1676-1754).

Nonostante questi pregevoli tentativi, l’analisi italiana resta ad uso di pochi, soprattutto

a causa dell’assenza di buoni testi di riferimento. Una prima svolta in questa direzione

si ha nel 1748, anno in cui appaiono le Istituzioni analitiche di Maria Gaetana Agne-

si (1718-1799), il primo matematico di sesso femminile dell’eta moderna. Il punto di

forza dell’opera della Agnesi consiste nel fatto che si tratta di un’opera volutamente ele-

mentare: essa mira alla preparazione di giovani menti e introduce ai metodi del calcolo

48 LUCA LUSSARDI

infinitesimale. L’opera e composta da due volumi: nel primo volume, Dell’analisi delle

quantita finite, la Agnesi tratta l’algebra elementare e la geometria cartesiana introdu-

cendo allo studio analitico delle curve; il secondo volume invece e diviso a sua volta in tre

libri, Del calcolo differenziale, Del calcolo integrale, Del metodo inverso delle tangenti, e,

come gli stessi titoli suggeriscono, si tratta di un’esposizione del calcolo infinitesimale.

Purtroppo, la matematica italiana arresta il proprio sviluppo in questo periodo nel quale

sembra rinascere; dovremo aspettare la meta del secolo successivo per assistere ad un

rifiorire della matematica anche in Italia.

5.4. La critica di Berkeley. Come abbiamo gia detto, si ha una rottura tra la mate-

matica del continente e quella inglese, rottura dovuta alla disputa scoppiata tra Newton

e Leibniz. Mentre in praticamente tutta l’Europa continentale il calcolo leibniziano si

diffonde, in Inghilterra si crede ancora che il calcolo delle flussioni, accompagnato dal

metodo delle serie infinite, sia in realta piu adatto ad essere sviluppato. Abbiamo avuto

modo di osservare che e vero che l’uso combinato di flussioni e serie infinite permette di

arrivare sempre ad una soluzione, ma solo, e questo accade in un grandissimo numero

di casi significativi, ad una soluzione estremamente teorica: si arriva infatti ad avere

sviluppi in serie, per altro locali, che non dicono assolutamente nulla sull’eventuale fun-

zione generatrice. Tuttavia, i matematici inglesi perseverano con i metodi di Newton,

e non stupisce che in questi anni ci siano alcune delle scoperte, che ricordiamo ancora

oggi, a proposito degli sviluppi in serie di potenze di funzioni, da parte di analisti inglesi,

come ad esempio Brook Taylor (1685-1731) e Colin Maclaurin (1698-1746), nomi che

ricordiamo ancora oggi a proposito degli sviluppi in serie delle funzioni. I risultati sulle

serie di potenze raggiunti dagli inglesi restano pero privi di un vero significato, dal mo-

mento che non e ancora assolutamente presente la nozione di convergenza di una serie.

A peggiorare lo stato dell’analisi matematica inglese si presenta sulla scena la piu severa

critica ai fondamenti del calcolo infinitesimale, ovvero quella del vescovo irlandese Geor-

ge Berkeley (1685-1753). Nell’anno 1734 infatti Berkeley pubblica un piccolo trattato

intitolato The analist, scritto nella forma di dialogo rivolto ad un “matematico infedele”.

Il vescovo critica molto duramente i fondamenti del calcolo, sia del calcolo delle flussioni

newtoniano sia del calcolo differenziale leibniziano. Ad esempio, per quanto riguarda le

flussioni, Berkeley osserva che il fatto di considerare il rapporto

f(x+ xo)− f(x)

o

quando o 6= 0, rimaneggiarlo in modo opportuno e alla fine porre o = 0, e un proce-

dimento non valido. Berkeley, tuttavia, e conscio del fatto che il calcolo infinitesimale

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 49

risolve molti problemi in modo relativamente facile ma impossibili da trattare usando

tecniche classiche, e quindi cerca di dare una spiegazione di questo. Secondo lui, infatti,

si tratta di un processo di compensazione degli errori: le varie approssimazioni che si ri-

petono durante i ragionamenti del calcolo infinitesimale si compensano l’una con l’altra e

il risultato finale e quindi corretto; citando lo stesso Berkeley, si arriva se non alla scien-

za, almeno alla verita. Di questo stesso parere e l’ingegnere francese Nicolas Leonard

Sadi Carnot (1796-1832) che e uno dei primi scienziati che cerca di rispondere in modo

altrettanto critico alle obiezioni di Berkeley. Le critiche mosse dal vescovo, per inciso

perfettamente legittime, danno un’ulteriore scossa negativa alla matematica inglese, che

quindi, risentendo di cio, arresta il suo sviluppo; esiste qualche debole tentativo di porre

dei fondamenti rigorosi al calcolo newtoniano, ad esempio Maclaurin nel 1742 pubblica

il Treatise of fluxions nel quale riconduce l’intero calcolo delle flussioni a pura geome-

tria, ma accettando come primitiva la nozione di velocita istantanea, per cui non compie

alcun passo significativo nella direzione della sistemazione definitiva dei fondamenti del

calcolo.

5.5. Lagrange e le derivate. Mentre in Inghilterra lo sviluppo del calcolo infinitesima-

le e delle applicazioni e sostanzialmente fermo a causa della limitata capacita dei metodi

newtoniani da una parte e delle critiche di Berkeley dall’altra, nel restante continente

europeo le applicazioni del calcolo differenziale e integrale di Leibniz diventano sempre

piu numerose e per certi versi spettacolari. Ma pian piano qualcosa comincia ad andare

storto e si avverte piu che mai la necessita di dare una teoria fondazionale rigorosa al cal-

colo infinitesimale. Siamo in pieno illuminismo, e quindi anche vari esponenti del mondo

culturale, oltre agli addetti ai lavori, si preoccupano di dare una risposta a questi grandi

interrogativi. In questi anni appare, per la prima volta, l’idea che la nozione, ancora

imprecisata, di limite, possa essere la chiave: infatti, alla voce “limite” nell’Encyclopedie

di d’Alambert si legge: La teoria dei limiti e la base della vera metafisica del calcolo

differenziale. Nonostante questo fatto sia di per se corretto, come sappiamo bene oggi,

si tratta solo di un’indicazione, e bisogna aspettare Cauchy prima di registrare il passo

decisivo. Prima dell’arrivo della definizione di limite pero vi e un tentativo pregevole

di fondazione del calcolo: il matematico italiano Giuseppe Luigi Lagrange (1736-1813)

mangia la foglia ribaltando il punto di vista di Newton e considera come punto di parten-

za la teoria degli sviluppi in serie di Taylor, pubblicando, nel 1797, l’opera Theorie des

fonctions analytiques, che raccoglie il piu importante contributo pre-Cauchy. Lagrange,

dopo aver mostrato che ogni funzione, localmente, e lo sviluppo della sue serie di Taylor,

50 LUCA LUSSARDI

considera appunto lo sviluppo locale di f attorno a x0, che scrive come

f(x) = a0 + a1(x− x0) + a2(x− x0)2 + · · ·

Chiama dunque derivata prima di f in x0, e la denota con f ′(x0), il coefficiente di

(x − x0), ovvero a1; chiama poi derivata seconda di f in x0, e la denota con f ′′(x0), il

coefficiente di (x− x0)2, ovvero a2, e cosı via; infine, chiama f anche funzione primitiva,

rispetto allo sviluppo in serie di potenze dato. Osserva quindi che se h e piccolo allora

f(x0 + h)− f(x0)

h=a0 + a1h+ a2h

2 + · · · − a0

h= a1 + a2h+ · · ·

da cui f ′(x0) = a1 e proprio cio che si attribuisce al rapporto

f(x0 + h)− f(x0)

h

quando h = 0. Cosı facendo, Lagrange recupera quindi il calcolo dei rapporti tra i diffe-

renziali di Leibniz, che appunto chiama calcolo delle derivate. Il problema dei fondamenti

e pero solo apparentemente risolto, dal momento che, seguendo l’approccio di Lagrange,

tutto si sposta sulla dimostrazione del fatto che ogni funzione si sviluppa localmente in

serie di potenze.

5.6. La definizione di limite. La definizione rigorosa di limite, nel caso delle succes-

sioni, appare per la prima volta nel 1659 nell’opera Geometria speciosa di Pietro Mengoli

(1626-1686), quindi addirittura prima delle prime opere di Newton e Leibniz. Tuttavia,

le idee di Mengoli non hanno avuto risonanza, poiche all’epoca il concetto di successione

sembrava molto lontano da quello di funzione, molto piu di quanto non sembri a noi,

abituati al linguaggio unificante della teoria degli insiemi. Nel 1817 il matematico ce-

coslovacco Bernard Bolzano (1781-1848) pubblica la dimostrazione corretta del teorema

degli zeri e per far questo si serve di varie nozioni che introduce in modo rigoroso, come

la nozione di continuita delle funzioni e di convergenza di serie e successioni. Tutta-

via, i suoi risultati per vari motivi restano per lo piu sconosciuti, e negli stessi anni in

Francia invece l’ingegnere civile Augustin Louis Cauchy (1789-1857) pubblica le note

del suo Cours d’analyse tenuto all’Ecole Polytechnique. In questo corso, Cauchy pone a

fondamento del calcolo infinitesimale la nozione di limite e da questo concetto deduce la

nozione di convergenza di successioni e di serie e di derivata come limite del rapporto in-

crementale. L’idea viene infatti dalla necessita di rendere rigoroso il concetto di derivata

come limite del rapporto incrementale: dire quindi che la quantita

f(x0 + h)− f(x0)

h−m

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 51

deve essere infinitesima per ogni h infinitesimo e non nullo viene rimpiazzata con un

gioco di quantificatori, ovvero

∀ε > 0 ∃δ > 0 tale che ogni volta che 0 < |h| < δ si ha

∣∣∣∣f(x0 + h)− f(x0)

h−m

∣∣∣∣ < ε

Ecco quindi che da queste intuizioni si puo estrarre la definizione di limite. Cauchy

dice che: “Allorche i valori successivamente assunti da una stessa variabile si avvicinano

indefinitamente a un valore fissato, in modo da finire per differirne di poco quanto si

vorra, quest’ultimo e chiamato limite di tutti gli altri.” Cauchy aggiunge dunque che per

verificare che il limite di una funzione f per x che tende a x0 vale ` bisogna prendere un

numero ε > 0 e da esso si deve sempre trovare un numero δ > 0 tale che per ogni x con

0 < |x − x0| < δ risulti |f(x) − `| < ε. Si scrive, grazie all’unicita del limite, che vale

sotto opportune ipotesi su x0,

` = limx→x0

f(x).

La definizione di limite e vicina anche a quella di continuita data sempre dallo stesso

Cauchy: per verificare che una funzione f e continua in x0 bisogna prendere un numero

ε > 0 e da esso si deve sempre trovare un numero δ > 0 tale che per ogni x con

|x− x0| < δ risulti |f(x)− f(x0)| < ε. Viene ripreso infine il problema della derivata di

Lagrange ponendo, per una data funzione f ,

f ′(x0) = limh→0

f(x0 + h)− f(x0)

h.

Con l’approccio fondazionale di Cauchy le grandezze infinitesime fanno la loro definitiva

scomparsa dal calcolo infinitesimale classico e la teoria dei limiti e ancora oggi alla base

dell’insegnamento dell’analisi.

5.7. L’integrazione. Se il problema dei fondamenti del calcolo poteva dirsi risolto dalla

teoria dei limiti di Cauchy, e con esso anche il calcolo differenziale, ovvero il calcolo delle

derivate, per il calcolo integrale c’erano ancora parecchie considerazioni da fare. Sempre

Cauchy infatti decide di definire l’integrale che noi oggi chiamiamo definito come l’area

sottesa dal grafico della funzione, e quindi di dimostrare poi la relazione fondamentale

tra integrazione e derivazione. L’idea di Cauchy, per integrare una funzione f continua

nell’intervallo [a, b] e quella di suddividere l’intervallo dato in intervalli

[a, x1], [x1, x2], . . . [xh, b].

Si calcola quindi la somma

S = (x1 − a)f(x0) + (x2 − x1)f(x1) + · · ·+ (b− xh)f(xh)

52 LUCA LUSSARDI

che rappresenta la somma delle aree dei rettangoli di basi xi+1 − xi e altezza rispettiva

f(xi). Cauchy dimostra dunque l’esistenza di una quantita limite che le somme S rag-

giungono quando la partizione dell’intervallo [a, b] si infittisce sempre di piu, e inoltre

dimostra che tale quantita dipende unicamente dalla forma della funzione f e non dalla

scelta delle partizioni: e da sottolineare il fatto che Cauchy usa pesantemente la conti-

nuita di f . Diversamente rispetto alla teoria dei limiti e delle derivate, sull’integrazione

delle funzioni la teoria Cauchy non appare del tutto soddisfacente. Infatti, ad esempio la

mancanza di una teoria rigorosa dei numeri reali fa sı che Cauchy non possa dimostrare

in modo rigoroso l’esistenza dell’integrale come limite. Inoltre, la contuinuita della fun-

zione integranda non sembrerebbe strettamente necessaria, soprattutto in vista di una

delle applicazioni piu concrete del calcolo integrale a quel tempo, ovvero la teoria delle

serie trigonometriche, o serie di Fourier: la necessita di poter sviluppare in serie trigo-

nometrica funzioni sempre piu generali portava alla necessita di poter integrare funzioni

sempre piu generali e meno regolari. Nel 1829 il matematico tedesco Lejeune Dirichlet

(1805-1859) studia l’integrabilita delle funzioni discontinue e arriva, tra le altre cose, a

fornire un esempio di funzione discontinua in ogni punto che secondo lui non poteva in

nessun modo essere integrata, funzione che ancora oggi porta il suo nome: la funzione

di Dirichlet e data da

f(x) :=

{1 se x e razionale0 se x e irrazionale.

Al di la delle questioni di integrabilita, il puro fatto di considerare una funzione come

quella di Dirichlet da prova dell’ormai piena maturazione del concetto di funzione: da

questo momento in avanti una funzione viene concepita unicamente come una qualunque

applicazione tra insiemi. La necessita di liberarsi dalle discontinuita nella teoria dell’inte-

grazione e alla base degli studi del matematico tedesco Bernhard Riemann (1826-1866).

Egli ribalta il punto di vista di Cauchy. Infatti, prima di tutto introduce una genera-

lizzazione delle somme di Cauchy prendendo in ogni intervallo il valore della funzione

in un punto qualunque dell’intervallo e non necessariamente negli estremi; successiva-

mente, e qui sta la vera innovazione rispetto a Cauchy, usa l’esistenza di un limite delle

somme cosı ridefinite, come definizione di integrale, che e la nozione di integrabilita che

usiamo ancora oggi, ed ecco perche lo chiamiamo integrale di Riemann. L’integrazione

alla Riemann si adatta bene anche a molte funzioni discontinue, ad esempio se il nu-

mero di discontinuita e finito o al piu numerabile. La funzione di Dirichlet resta non

integrabile anche secondo Riemann: infatti l’estremo superiore delle somme per difetto

vale 0, mentre l’estremo inferiore delle somme per eccesso vale 1; per aggiustare il tiro in

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 53

questa direzione sara necessaria un’ulteriore generalizzazione del concetto di integrale,

che avverra solo ai primi del Novecento per opera di Henri Lebesgue (1875-1941).

5.8. I numeri reali: l’aritmetizzazione dell’analisi. La teoria dei limiti di Cauchy

messa a fondamento dell’analisi per funzionare correttamente richiede una definizione

precisa di numero reale: infatti, ad esempio, la nozione stessa di funzione continua fonda

la sua essenza sulla continuita dei numeri reali, o ancora l’integrabilita alla Riemann

richiede delicate proprieta dei numeri reali. Per completare il programma manca quin-

di una teoria rigorosa dei numeri reali. Osserviamo che il concetto di numero reale e

presente praticamente da sempre, anche i greci sapevano che i numeri reali sono in corri-

spondenza al continuo geometrico della retta, e dunque le proprieta dei reali, compresa la

completezza, vengono da sempre utilizzate anche se non vi e una teoria rigorosa sotto. Il

matematico che piu tra tutti sente l’esigenza di piu rigore e il tedesco Karl Weierestrass

(1815-1897), ma prima che possa rendere note le sue ricerche in questa direzione, altri

matematici pubblicano valide teorie dei numeri reali; vediamo di analizzare i due piu

importanti tentativi, quello di Cantor e quello di Dedekind. Nel 1872 il tedesco Georg

Cantor (1845-1918) espone, nel lavoro Uber die Ausdehnung eines Satzes aus der Theorie

der trigonometrischen Reihen apparso su Mathematische Annalen, una teoria dei numeri

reali che e fondata sull’uso delle cosiddette successioni di Cauchy, e che oggi costituisce

una procedura che chiameremmo completamento dei razionali. L’idea di Cantor e un

ribaltamento del punto di vista di Cauchy. Infatti, nella teoria delle successioni conver-

genti, Cauchy dice che se una successione di numeri xh e tale per cui per ogni scelta

di ε > 0 esiste un indice ν tale che per ogni h, k > ν si ha |xh − xk| < ε allora la

successione sta convergendo ad un limite, che e ancora un numero. Questo fatto, che e

la completezza dei reali, non e dimostrato, e non puo essere dimostrato se non si pone

una definizione rigorosa di numero reale. Cantor decide di prendere questa proprieta di

completezza come definizione di numero reale: i numeri reali sono dunque i limiti delle

successioni di Cauchy. Formalmente quindi Cantor propone di chiamare numero reale

una successione di Cauchy, ma c’e una piccola complicazione pero, che non gli sfugge:

infatti, diverse successioni di Cauchy possono dare origine allo stesso numero reale, ba-

sti pensare a tutte le successioni convergenti a 0, che identificano il solo reale 0. Per

questo motivo, Cantor identifica tra loro due successioni di Cauchy se la loro differenza

e una successione che converge a 0. Con questa operazione di quoziente si ha un buon

modello per i numeri reali, e si possono dimostrare tutte le proprieta che oggi conoscia-

mo per l’insieme R. La stessa costruzione basata sul completamento dei razionali viene

proposta nello stesso anno dal francese Charles Meray (1835-1911) e anche dal tedesco

54 LUCA LUSSARDI

Eduard Heine (1821-1881). Lo svantaggio principale di questo approccio e che prima di

definire i numeri reali uno ha gia bisogno della teoria dei limiti e delle successioni, oltre

ovviamente all’insieme dei numeri razionali. Ben diverso e invece l’approccio del tedesco

Richard Dedekind (1831-1916), il quale, sempre nel 1872, pubblica il lavoro Stetigkeit

und irrationale Zahlen, sempre a proposito di una teoria dei reali. L’idea di Dedekind e

quella di costruire i reali sfruttando alcune proprieta dei razionali. Ad esempio i razionali

soddisfano alla proprieta di sezione: se a e razionale, tutti gli altri razionali si riparti-

scono in due classi, l’una fatta da tutti i razionali minori di a e l’altra fatta dai razionali

maggiori di a. Dedekind ha ovviamente in mente il modello del continuo geometrico,

e osserva, a proposito della proprieta di sezione dei razionali, il seguente fatto vero per

la retta: se uno considera due classi di punti sulla retta, A e B, tali che esse formano

una partizione della retta e tali per cui ogni punto di A precede ogni punto di B (A e

B sono dette in tal caso contigue), allora esiste uno ed un solo punto che sta tra le due

classi A e B. Dedekind prende questa proprieta come definizione di numero reale: un

numero reale diventera l’elemento di separazione tra due classi contigue di razionali. Ad

esempio, il numero irrazionale√

2 puo essere pensato come elemento di separazione tra

le classi contigue

A := {x razionale : x2 < 2}, B := {x razionale : x2 > 2}.

Tecnicamente, quindi, un numero reale per Dedekind e una sezione dei razionali, ovvero

e una coppia di classi contigue (A,B) di razionali. Questo approccio non necessita di

nessuna nozione di analisi o di teoria dei limiti, ma necessita delle proprieta dell’insieme

dei numeri razionali e di proprieta generali di teoria degli insiemi, ed e la costruzione

dei reali che viene tutt’ora utilizzata piu frequentemente nell’insegnamento dell’analisi.

Per completare il quadro dunque basta essere in grado di proporre una costruzione dei

razionali, ed e molto semplice costruire l’insieme dei numeri razionali all’interno della

teoria degli insiemi a partire dai numeri naturali; l’ultimo scoglio e quindi la costruzione

dei naturali. Ci sono vari tentativi di costruzione dei numeri naturali. Gottlob Frege

(1848-1925), nel 1884, presenta una teoria insiemistica basata sul concetto di equipoten-

za: due insiemi sono equipotenti se possono essere messi in corrispondenza uno a uno

tra di loro; il numero di un insieme e quindi l’insieme che ha come elementi tutti gli

insiemi equipotenti ad esso. La definizione di Frege e piu profonda di quanto sembri in

quanto include, in un colpo solo, anche la nozione di numero cardinale transfinito, ovvero

la nozione di numero associato ad un insieme infinito, ma non entriamo nel dettaglio di

questo. Anche lo stesso Dedekind, nel 1888, presenta una teoria dei naturali, sempre

APPUNTI DI STORIA DEL CALCOLO INFINITESIMALE 55

fondata, come quella di Frege, sulla teoria degli insiemi. Ricordiamo invece piu nel det-

taglio la definizione assiomatica di numero naturale proposta dal matematico italiano

Giuseppe Peano (1858-1932), che appare la piu semplice e che non necessita della teoria

degli insiemi. Peano dice che:

1) 0 e un numero;

2) il successore di un numero e ancora un numero;

3) 0 non e successore di nessun numero;

4) se due numeri hanno lo stesso successore allora sono uguali;

5) se un insieme A di numeri contiene 0 e il successore di ogni suo elemento allora

A e l’insieme di tutti i numeri.

Le prime quattro proprieta sono molto intuitive. L’ultima proprieta e altrettanto intui-

tiva e formalizza, in un certo senso, la nozione primitiva del contare; inoltre, essa sta alla

base del principio di induzione, tecnica dimostrativa di enorme utilita in matematica.

Piu in basso di cosı non possiamo andare, abbiamo toccato le fondamenta della mate-

matica; a questo punto possiamo solo chiederci: quanto queste fondamenta sono solide?

Purtroppo dobbiamo rassegnarci al fatto che non possiamo garantire la solidita delle fon-

damenta della matematica: questo fatto puo essere formalizzato e dimostrato, ed e stato

fatto nel 1931 da un giovane matematico austriaco di nome Kurt Godel (1906-1978), ma

questa e un’altra storia.

Riferimenti bibliografici

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