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ARKETE anno i, seconda serie, 2011 Aracne

ARKETE - Aracne editrice · La struttura concettuale: un modello frequenziale ... esempio, si apprende il significato di un lessema contenuto in un dizionario. Nella sezione 2, dunque,

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ARKETEanno i, seconda serie, 2011

Aracne

ARKETERivista di studi filosofici

www.arkete.org

DirettoreMariano Bianca

CondirettorePaolo Piccari

Direttore responsabileMariano Bianca

Comitato scientificoFerdinando AbbriEvandro AgazziWalter BernardiMassimo BucciantiniMassimo Dell’UtriNicola GranaPier Luigi LecisMario MichelettiFabio MinazziSilvio MorigiSandro NanniniGiuseppe NicolaciMaria Grazia SandriniFrancesco SolitarioLoris SturleseFuria Valori

Comitato di redazioneDamiano BondiLuca MalatestiSimone Zacchini

La direzione, il comitato scientifico e il co-mitato di redazione hanno sede presso il Dipartimento di Scienze Storico–Sociali, Filosofiche e della formazione, Univer-sità degli Studi di Siena – viale Cittadini, 33 – 52100 Arezzo – tel. 0575 926357, fax 0575 926312 – e–mail: [email protected], [email protected]

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Autorizzazione n. 4854 del 28 gennaio 1999 Tribunale di Firenze

EditoreAracne editrice [email protected] Raffaele Garofalo, 133/A–B00173 Roma(06) 93781065

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adatta-mento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono as-solutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione giugno 2012

isbn 978–88–548–4859–7issn 1974-1499-11

Arkete Rivista di studi filosofici

Anno I, seconda serie, 2011

Indice

Mariano Bianca-Paolo Piccari .…………………………………. p. 5

La struttura concettuale: un modello frequenziale

Marco Casucci ………………………………………………….. p. 29

Conoscenza, tempo, ontologia in Arthur Schopenhauer

Francesco Solitario ……………………………………………... p. 63

Il sublime paradosso dei “due uccelli

inseparabilmente uniti”

Alice Gonzi ……………………………………………………... p. 89

Bergson e Freud: nascita e tramonto della religione

nella critica di Benjamin Fondane

Rifrazioni del pensiero

Rubrica di recensioni, segnalazioni, discussioni

Damiano Bondi ………………………………………………... p. 109

Micheletti, M., La teologia razionale nella filosofia analitica,

Carocci, Roma 2010

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Mariano Bianca – Paolo Piccari

La struttura concettuale: un modello frequenziale

1. Introduzione

Negli ultimi quarant’anni lo studio dei concetti è divenuto, in particolare in ambito semiotico e cognitivo, uno dei settori di ricerca più vivaci e ricchi di risultati rilevanti, sebbene nessuno dei modelli descrittivi ed esplicativi delle strutture concettuali risulti soddisfacente. L’interrogativo cui si è chiamati a rispondere è lo stesso che si erano già posti Locke ed Husserl: quali processi mentali si verificano quando parliamo, per esempio, di gatti? A tale interrogativo è sottesa un’altra questione: che cos’è un gatto? Que-stione trascurata nella tradizione analitica, secondo cui non importa tanto chiedersi che cosa sia un gatto quanto piuttosto verificare se la proposizione ‘il gatto è un animale’ sia vera o falsa. Ed ancora: perché gli individui scompongono l’esperienza quotidiana in unità discrete assegnando loro un nome? Perché dunque ‘classificare’ o ‘categorizzare’? Perché riunire gli og-getti o gli eventi in classi o, per usare un termine largamente diffuso in am-bito cognitivista, in ‘categorie’? Perché, dunque, formulare concetti?

Frege, contrario ad ogni forma psicologismo, asseriva che il concetto è qualcosa di oggettivo, non dipendente dalle nostre costruzioni, e perciò una proposizione come “il numero 3 è un numero primo” esiste indipendentemente dal fatto che noi vegliamo, dormiamo, viviamo o no, qualcosa che vale e varrà sempre, non avendo alcuna rilevanza se esistano o se esisteranno esseri che riconoscano o no tale verità (Frege 1891a). Egli, inoltre, con il passaggio dal concetto come proprietà al concetto come funzione, compì una svolta di grande importanza nella filosofia, estendendo l’applicazione del concetto di funzione oltre l’ambito strettamente matematico: argomenti e valori di una funzione non sono solo numeri, ma anche oggetti lato sensu (il termine ‘oggetti’ è quello usato da Frege). Pertanto, nelle formule del tipo f(x) = y potranno occupare il posto di argomento e valore non solo espressioni numeriche, ma anche segni. Un esempio è «x è l’inventore della penicillina»: a seconda di cosa si sostituisce alla x, la funzione dà come valore il vero o il falso. Secondo Frege, dunque, «un concetto è una funzione il cui valore è sempre un valore di verità» (Frege 1891b). Successivamente egli precisò che il concetto è «predicativo», cioè costituisce il significato di un predicato grammaticale (Frege 1892). Il

ISBN 978-88-548- 4859-7ISSN 1974-1499-11DOI 10.4399/97888548485971pagine 5-27 (giugno 2012)

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concetto cane, per esempio, è designato dall’espressione ‘x è un cane’, mentre gli oggetti che costituiscono gli argomenti di tali concetti sono designati da espressioni collocate in posizione di soggetto (nel caso specifico al posto della ‘x’); in questo caso, la x può essere sostituita da termini quali ‘bull dog’, ‘fox terrier’, ecc. Frege muoveva così il primo passo verso la risoluzione della nozione di concetto in quella di significato, che ha costituito il paradigma logico di riferimento per gran parte della riflessione filosofica contemporanea sulla natura dei concetti fino alla metà del secolo scorso, quando prima le osservazioni formulate da Wittgenstein (Wittgenstein 1953), secondo il quale i concetti di uso quotidiano hanno una struttura più debole di quella definizionale, e in seguito gli studi psicologico-cognitivi di Eleanor Rosch hanno definitivamente dimostrato l’insostenibilità della riduzione della nozione di concetto a quella di significato (Rosch 1975a; 1975b; 1977; 1978).

Dal punto di vista cognitivo sono state considerate in modo particolare due funzioni dei concetti. In primo luogo, quella di favorire l’economia cognitiva , perché attraverso la codificazione dell’esperienza i concetti consentono di diminuire la quantità di informazione che deve essere ricor-data. Per esempio, invece di ricordare tutti i singoli esemplari di gatto che abbiamo incontrato, ne ricordiamo solo uno o tutt’al più alcuni che rappre-sentano la classe dei gatti. Possiamo addirittura averne una rappresentazio-ne più astratta, indipendente dal ricordo dei singoli esemplari esperiti.

L’altra importante funzione dei concetti è quella di favorire le inferen-ze: dopo aver classificato un gatto come tale, si possono inferire molti dei suoi attributi specifici – tra cui, ad esempio, quello di miagolare – seb-bene questi non siano immediatamente oggetto di percezione (Girotto - Legrenzi 1999:91).

Il termine ‘concetto’, in generale, ha un significato molto ampio e può essere riferito a qualsiasi oggetto, astratto o concreto, vicino o lontano, universale o individuale. Si può avere un concetto della forchetta come del numero 7, dell’essere umano come di Dio, del genere e della specie (i cosiddetti universali) come di una realtà specifica quale, ad esempio, un periodo storico o artistico come il Risorgimento o il Barocco. Sebbene sia generalmente indicato da un nome, il concetto non è il nome, poiché è possibile che nomi diversi possano indicare lo stesso concetto o differenti concetti possano essere indicati, per errore, dallo stesso nome.

Alla luce della più recente letteratura filosofica e psicologica che ha indicato alcune nuove e interessanti prospettive di ricerca, in questo articolo intendiamo esaminare in particolare la costituzione dei concetti empirici: quei concetti che si riferiscono ad un certo numero di esperienze percettive

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riguardanti enti od eventi considerati come appartenenti alla medesima classe. A tal fine analizzeremo brevemente la teoria classica dei concetti e la teoria dei prototipi, esaminando alcune delle questioni più rilevanti: ad esempio, in che modo un individuo può formulare il concetto di ‘automobile’ sulla base di una generalizzazione empirica, dopo aver indotto gli attributi comuni alle singole automobili di cui ha avuto esperienza?

Seguendo tale impostazione, i concetti empirici sono considerati come generalizzazioni empiriche derivate da informazione contenuta nelle rappresentazioni mentali corrispondenti ad un certo numero di enti/eventi, di cui si è avuta percezione, che possono essere riuniti in una classe perché condividono alcuni attributi.

In questo studio non ci occuperemo di altri tipi di concetti carattere teorico che non derivano, almeno direttamente, da generalizzazioni empiriche come, per esempio, quelli scientifici di Big Bang, di energia oscura o di relatività o quelli filosofici come sostanza o trascendentale o, ancora, quelli teologici come Dio od anima; inoltre, non analizzeremo i concetti di carattere lessicale, che non discendono da una generalizzazione empirica, bensì da una descrizione linguistica della classe come quando, per esempio, si apprende il significato di un lessema contenuto in un dizionario.

Nella sezione 2, dunque, esamineremo la teoria classica dei concetti e la teoria dei prototipi, nella sezione 3 considereremo i processi di generalizzazione e la formazione dei concetti empirici, nella sezione 4 analizzeremo la struttura di tali concetti, nella sezione 5 ci soffermeremo sui concetti empirici di natura visiva e, infine, nella sezione 6 formuleremo le nostre conclusioni.

2. La teoria classica dei concetti e la teoria dei prototipi La teoria classica dei concetti dall’antichità sino agli ’70 del secolo scor-

so è stata universalmente accettata in ambito filosofico. Ancorché sia stata ormai soppiantata da altre teorie più recenti, grazie anche a talune interpre-tazioni semplicistiche e superficiali, non è possibile affrontare seriamente il tema della formazione e della funzione dei concetti senza fare riferimento ad essa. Secondo tale teoria, i concetti sono rappresentazioni mentali la cui struttura codifica le condizioni necessarie e sufficienti per la loro applica-zione. Si consideri, per esempio, il concetto di ‘scapolo’: esso è una rappre-sentazione mentale complessa i cui attributi identitivi sono ‘non sposato’, ‘adulto’ e ‘uomo’. Un oggetto fa parte dell’estensione di ‘scapolo’ soltanto nel caso disponga di questi attributi; in altri termini, affinché un uomo sia

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classificato come ‘scapolo’ deve avere tutti gli attributi identitivi (criterio di necessità), che del resto sono sufficienti per quella classificazione (criterio di sufficienza). Nel caso del concetto di ‘scapolo’, quindi, l’intensione è “es-sere uomo, adulto e non sposato”, mentre l’estensione è rappresentata da tut-ti gli esemplari (i membri della classe) che si trovano in questa condizione.

Che cosa accade nell’attività di classificazione secondo la teoria classi-ca? Per classificare un animale come ‘cane’, dobbiamo scomporre il concet-to di ‘cane’ e verificare se i suoi attributi si applicano all’oggetto in questio-ne. Se tutti gli attributi di tale oggetto sono presenti nel concetto, allora l’oggetto può essere considerato un cane; se soltanto uno di tali attributi non è applicabile, allora l’oggetto non potrà essere considerato un cane.

Sono talmente noti le aporie e i controesempi che discendono dalla teoria classica, che possiamo esimerci dall’illustrarli e rinviare direttamente alla vasta letteratura dedicata a tale riguardo (Margolis-Laurence 1999; Murphy 2002; Prinz 2002; Machery 2009). In ogni caso, a titolo esemplificativo, si pensi al concetto di scapolo prima introdotto: esso è applicabile nella sua rigida definizione ad un prete cattolico, che è un adulto, di sesso maschile, non sposato? Egli non può essere definito “scapolo”, perché non può con-trarre matrimonio in quanto i sacerdoti di rito latino sono obbligati al celiba-to.

In questo caso l’applicazione del concetto è vincolata da un modello di sfondo riguardante gli attributi tipici di ‘scapolo’ e i suoi conseguenti com-portamenti o quelli messi in atto nei suoi confronti: uno scapolo, per esem-pio, è un individuo che si può presentare ad un’amica, la quale potrebbe sta-bilire con lui una relazione (Lakoff 1987). Inoltre, è opportuno osservare che fra i membri di una classe vi è una diversità che dipende dal loro grado di prototipicità, cioè dal grado in cui ciascun membro rappresenta la classe di appartenenza. Al contrario, secondo la teoria classica se un oggetto soddi-sfa le condizioni di appartenenza ad una classe, esso vi appartiene in misura indipendente dal suo grado di prototipicità, perché ciascun membro di una classe possiede un eguale grado di appartenenza alla classe.

Nonostante queste difficoltà è doveroso sottolineare che la teoria classica offre una spiegazione efficace dell’apprendimento dei concetti, perché è comunque vero che acquisiamo un concetto soltanto dopo averne acquisito gli attributi che lo costituiscono. Inoltre, tale teoria soddisfa il criterio di e-conomicità, giacché una singola rappresentazione è utilizzata in luogo di un’intera classe.

Diversamente dalla teoria classica, la teoria dei prototipi ritiene che una classe di oggetti non è definita da un insieme di condizioni necessarie e suf-ficienti, ma dall’esemplare migliore, cioè dal prototipo. Se infatti vi fosse un

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insieme di attributi in base al quale definire con precisione una classe e se tali attributi appartenessero a tutti i membri di tale classe, allora questi ulti-mi dovrebbero essere in egual misura buoni esemplari della classe senza dif-ferenze riguardo al grado di prototipicità.

Ad un più attento esame, appare incompleto ed inadeguato un modello descrittivo del pensiero concettuale in cui la formazione e la costituzione dei concetti è intesa solo come un processo di generalizzazione di esperienze e di rappresentazioni riguardanti oggetti nel mondo. Se vediamo ed abbiamo esperienza di diversi tavoli, per esempio, potremo certamente per via indut-tiva formulare un esemplare tipico del concetto di ‘tavolo’, costituito dagli attributi ‘essere un mobile’, ‘avere un piano parallelo al suolo’, ‘avere una o più gambe’. Inoltre, un esemplare tipico, un singolo prototipo, non è in gra-do di fornire un’adeguata informazione sulla varietà della classe di oggetti cui si riferisce: per esempio, esiste un ‘uccello ideale’ che può essere rap-presentativo di tutti gli uccelli, grandi e piccoli, neri e verdi, volatili e non volatili, carnivori ed erbivori? Sembra inverosimile che una singola genera-lizzazione possa comprendere tutti questi differenti attributi.

È importante osservare che, dal punto di vista epistemologico, le generalizzazioni empiriche coinvolte nel processo di formazione dei concetti sono per lo più processi riferibili ad oggetti che hanno gli stessi attributi e perciò possono essere riuniti in una classe: per esempio, la classe delle navi, la classe delle stelle, la classe degli uccelli e così via. Perciò le generalizzazioni empiriche sono espresse in proposizioni riferibili ad una classe di oggetti, di cui alcuni sono stati percepiti in occasione di diverse esperienze.

Attraverso una generalizzazione empirica, formulata mediante un processo induttivo, è possibile descrivere gli attributi comuni ad un insieme di oggetti, determinando in tal modo una classe. Più precisamente, essa consente di accomunare per scopi gnoseologici un notevole numero di ‘casi’ sulla base degli attributi comuni assegnabili a ciascuno di essi. Per tale ragione, i processi di generalizzazione empirica sono fondamentali per agire nel mondo ed accedervi cognitivamente, classificando oggetti o fenomeni già esperiti od altri da esperire, i cui attributi comuni permettono di considerarli come appartenenti ad una classe di oggetti.

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3. Processi di generalizzazione 3.1 Rappresentazioni mentali

Come si svolge il processo di generalizzazione che porta alla formazione dei concetti empirici? Per rispondere a tale domanda, dobbiamo introdurre la nozione di rappresentazione mentale e spiegarne natura e formazione. La rappresentazione mentale è una delle modalità funzionali di conoscenza del mondo attraverso l’uso degli organi sensoriali altrimenti detti trasduttori sensoriali.

Stimolo percettivo

Invio delle informazioni

Flusso dell’informazione dalla fonte dello stimolo agli organi sensoriali

Cambiamento di stato dei trasduttori sensoriali e codificazione neurochimica

Elaborazione in diverse aree corticali e non corticali dell’informazione proveniente dai trasduttori sensoriali

Rappresentazione mentale

Figura 1 Processo di rappresentazione mentale Il termine ‘rappresentazione’ si riferisce al fatto che i dati sensoriali

sono elaborati e sono in grado di generare una o più configurazioni mentali il cui contenuto si presenta, anche se non sempre totalmente, isomorfo alla struttura del mondo cui si riferisce. La rappresentazione mentale, relativa ad

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ogni tipo di percezione (visiva, uditiva, ecc.), è una struttura neuromentale che riporta le informazioni provenienti da un oggetto o da un evento del mondo (vedi Fig.1). Essa svolge una duplice funzione: l’una conoscitiva, che genera una conoscenza attendibile ed adeguata del mondo; l’altra operativa, che permette di attivare varie forme di reazione o di comportamento utili per agire ed operare nel mondo ed una serie di configurazioni mentali quali pensieri, emozioni, ecc. (Bianca 2009: 481-482).

Consideriamo il caso della percezione visiva: per esempio, si prenda in considerazione un libro sul tavolo. Cosa accade quando lo percepiamo? I fotorecettori della nostra retina (coni e bastoncelli) recepiscono determinati stimoli visivi (fasci di fotoni) provenienti dal libro (la sorgente dello stimolo). A questo punto ha luogo la formulazione codificata dell’informazione proveniente dalla sorgente dello stimolo, la cui trasposizione strutturale origina la rappresentazione mentale e, quindi, in questo caso l’immagine mentale di quel libro. Una trasposizione strutturale è intesa come un processo neurofisiologico che permette la trascrizione della ricezione dello stimolo mediante specifici codici neurochimici appartenenti alla struttura ed al funzionamento del sistema nervoso centrale e di quello periferico e genera una struttura (la rappresentazione) che nella mente sta al posto della struttura della sorgente che ha emesso lo stimolo: la rappresentazione riporta in modo codificato, anche se non sempre in modo completo, gli attributi della struttura della sorgente dello stimolo (Bianca 2005: 90-95).

Le immagini mentali, per esempio, originate dall’esperienza visiva sono rappresentazioni sufficientemente attendibili degli oggetti fisici e come tali sono quelle prevalentemente utilizzate per accedere epistemicamente al mondo e per agire in esso (Bianca 2009: 27). Dunque, una rappresentazione mentale, che è il risultato di processi neuronali provocati da stimoli sensoriali in grado di innescare l’attivazione di diverse reti neuronali, riporta isomorficamente la struttura degli oggetti del mondo, genera configurazioni mentali e può provocare comportamenti ed azioni. Per esempio, nel cervello di una gazzella la rappresentazione di ‘leone’ che sta al posto del leone nel mondo è quella configurazione cerebrale che consente alla gazzella di innescare una configurazione mentale corrispondente alla fuga e, quindi, al comportamento di fuga.

Quello appena descritto può essere considerato come un processo conoscitivo in grado di formulare una rappresentazione, che è lo stato finale di un’elaborazione in cui l’informazione trasmessa da uno stimolo proveniente da una sorgente esterna è elaborata in diverse parti del SNC. In

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quanto tale la rappresentazione fornisce una conoscenza adeguata ed attendibile dell’oggetto, in luogo del quale sta, attraverso l’informazione pervenuta ai recettori sensoriali mediante lo stimolo, permettendo di innescare azioni conformi allo stato del soggetto ed alla struttura dell’oggetto.

L’atteggiamento aggressivo del leone, per esempio, non è scambiato dalla gazzella per un gesto di sottomissione, ma per quello che realmente è; perciò esso innesca nella gazzella un comportamento adeguato come quello della fuga. In questo caso, la rappresentazione mentale di leone nel cervello della gazzella è al contempo attendibile ed adeguata: attendibile perché essa riporta gli attributi del leone ed adeguata perché permette di mettere in atto un determinato comportamento consono all’informazione ricevuta.

A tale riguardo, però, è opportuno osservare che nell’uomo una rappre-sentazione mentale, ed in particolare un’immagine percettiva, non è solo una rappresentazione adeguata ed attendibile di uno o più oggetti del mondo, ma quale portatrice di un insieme di attributi è una ‘generalizzazione empirica’ basata su istanze percettive di oggetti. In tal caso, essa può essere considera-ta come una struttura concettuale (o ‘concetto’) riferita ad un oggetto o ad una classe di oggetti.

Inoltre, se si considera che l’esperienza percettiva della specie umana è prevalentemente di natura visiva, si dovrà convenire che la maggior parte dei concetti derivanti da processi di generalizzazione empirica sono di natu-ra visuale, sui quali torneremo nella sezione 5. Ad essi si affiancano, sia pu-re in numero più contenuto, concetti di natura uditiva, tattile, olfattiva e gu-stativa.

3.2 Due tipi di processi di generalizzazione

La formazione delle rappresentazioni mentali è il processo preliminare a quello di generalizzazione, poiché le informazioni acquisite empiricamente sono elaborate nella forma di rappresentazioni. Quindi, per esempio, sarà possibile formarsi induttivamente il concetto di ‘libro’ sulla base di singole rappresentazioni mentali visive (o immagini) di ‘libro’ riferite alle singole istanze percettive visive di ‘libro’ ( si vedano fig. 2 e fig. 3).

Il processo induttivo è una generalizzazione riferita alle istanze percettive del tipo x sulla base dell’esame di un numero limitato di istanze percettive del tipo x. Secondo la definizione di Aristotele contenuta nei Topici (I, 12, 105 a 11), l’induzione è il procedimento che dai particolari conduce all’universale, cioè quel tipo di ragionamento che partendo da un

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insieme di enunciati particolari riferiti a singoli casi formula un enunciato generale riferito a tutti i casi che possiedono caratteri simili.

Nel ragionamento induttivo si distinguono tre parti: a) la base; b) il passo; c) la conclusione. Della prima fanno parte gli enunciati che si riferiscono a singole istanze effettivamente esaminate, della seconda enunciati che non sono formulati ma sono riferibili ad altre istanze percettive del tipo x non esaminate; della terza, infine, fanno parte uno o più enunciati nella forma di generalizzazione mediante la quale si ammette o si assume che gli attributi evidenziati per alcune istanze percettive del tipo x esaminate valgano per tutte le istanze percettive del tipo x analoghe non esaminate e, quindi, si conclude che valgono per tutte le istanze possibili del tipo x.

Nella descrizione del processo di generalizzazione che dà luogo alla formulazione di concetti empirici intendiamo riferirci all’induzione in senso statistico-probabilistico espressa dalla seguente regola: quando abbiamo osservato un numero di oggetti ! e trovato che la frequenza degli oggetti " fra essi è f, assumiamo che P (!, ") = f, cioè la probabilità che un oggetto ! sia " è f, calcolata sulla base della frequenza statistica di " in ! .

Quando un determinato attributo ricorre in un’ampia proporzione di oggetti esperiti del tipo x, si può ritenere che tale attributo sia comune anche a tutti gli altri oggetti del medesimo tipo non esperiti, salvo prova in contrario. Quando la proporzione è uguale al cento per cento degli oggetti esperiti, cioè quando l’attributo ricorre in tutti, si ha una generalizzazione uniforme o completa. È questo il caso in cui si afferma che “tutti gli uomini sono mortali” per il fatto che l’essere mortale si è sempre trovato costantemente associato all’essere uomo. Quando, invece, il valore numerico di quella determinata proporzione è assunto come misura della possibilità che l’attributo in questione ricorra in una nuova istanza percettiva, si ha un giudizio di probabilità. A tale riguardo, è opportuno precisare che la generalizzazione uniforme o il giudizio di probabilità sono aspetti della generalizzazione statistica basata sulla frequenza delle occorrenze di un attributo in un campione di casi osservati.

La probabilità p(A) dell’occorrenza di un attributo identitivo di una classe in una nuova istanza percettiva come, ad esempio, la ‘nerezza’ per la classe dei corvi, è sempre tale che 0 # p(A) # 1; p(A) = 0 se e solo se A è l’evento impossibile, (A) = 1 se e solo se A è l’evento certo.

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3.2.1 Generalizzazione e pluribus e generalizzazione ex uno

Vi sono due forme di generalizzazione percettiva, anche in senso statistico: la generalizzazione e pluribus e la generalizzazione ex uno (Bianca 2009: 261-265). La generalizzazione e pluribus contiene informazione attributiva riferibile, seguendo il processo induttivo, a tutti gli oggetti di una classe (gli oggetti esperiti che consideriamo nel processo induttivo e gli oggetti esperibili). Ogni generalizzazione e pluribus, quindi, può essere considerata come un concetto che contiene diversi attributi posseduti da tutti (o quasi) gli oggetti di una classe. Esso è preservato in memoria come tipo percettivo ed è utile per classificare gli oggetti in successive esperienze percettive (Fig. 2).

Rappresentazione

mentale di O!

Rappresentazione

mentale di O"

Rappresentazione

mentale di On

Generalizzazione

Figura 2 Generalizzazione e pluribus (O = Oggetto)

Nel caso, invece, della generalizzazione ex uno si assegnano alcuni attributi ricorrenti ad un determinato oggetto od evento esperito più volte. Tale generalizzazione identifica il singolo oggetto ed è accettata come

Concetto o tipo percettivo

La struttura concettuale 15

riferibile a tutti i casi in cui quel singolo oggetto è stato o potrà essere esperito o percepito. La generalizzazione ex uno è un processo neuromentale che riporta tutti gli attributi individuati in istanze percettive diverse di uno stesso oggetto, formulando così un tipo percettivo, e consente la sussunzione di una nuova istanza percettiva di quell’oggetto in tale tipo percettivo (Fig. 3).

Istanza percettiva!

di Ox

Istanza percettiva"

di Ox

Istanza percettivan

di Ox

Generalizzazione

Figura 3 Generalizzazione ex uno (O=Oggetto)

La generalizzazione ex uno si riferisce ad una classe di istanze percettive

ed al contempo ad una classe di oggetti/eventi, cioè a quegli oggetti/eventi che, pur essendo stati esperiti in occasione di istanze diverse, sono identificati come lo stesso oggetto/evento: ‘il mio studio nella serata di ieri’, ‘il mio studio dopo la pulizia odierna’, ‘il mio studio con un nuovo computer’, cioè istanze esperienziali diverse riferibili ad un solo oggetto.

Dunque, possiamo1 definire tale generalizzazione secondo la forma seguente: dato un certo numero di istanze percettive di un oggetto/evento ad esso sono assegnati alcuni attributi che valgono per tutte le istanze percettive di questo oggetto; in altri termini, la generalizzazione ex uno

Concetto o tipo percettivo

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identifica il singolo oggetto ed è riferibile a tutte le istanze percettive di quel singolo oggetto/evento, quelle verificatesi e quelle possibili.

Le generalizzazioni che danno luogo a tipi o concetti percettivi rivestono particolare importanza nella conoscenza comune, perché consentono di identificare, riconoscere e quindi classificare gli oggetti del mondo e di riunirli in una classe, che sarà costituita da diversi oggetti nel caso delle generalizzazioni e puribus e da istanze percettive di uno stesso oggetto nel caso delle generalizzazioni ex uno.

4. La struttura dei concetti empirici La teoria classica dei concetti, come si è avuto modo di osservare,

prevede che le classi di oggetti siano definite da criteri di appartenenza necessari e sufficienti. Tutti i membri di una classe dovrebbero possedere quindi un eguale grado di appartenenza alla classe, cioè dovrebbero disporre di tutti gli attributi tipici di quella classe che costituiscono le condizioni necessarie e sufficienti per appartenervi. In realtà, ciò può valere per alcuni concetti artificiali e convenzionali, ma non per la maggior parte dei concetti empirici. Le classi, infatti, non sono entità logiche definite da un insieme di condizioni necessarie e sufficienti, ma sono determinate dall’insieme degli attributi identitivi più frequenti nei membri della classe stessa; da tale insieme è possibile ottenere per astrazione un esemplare tipico, che non possiede il valore medio o il più alto numero delle caratteristiche condivise dai membri della classe così come previsto nella teoria del prototipo (Rosch 1977), bensì gli attributi identitivi comuni (più frequenti) a tali membri.

A proposito della struttura attributiva dei concetti empirici, è fondamentale sottolineare che, a differenza di quanto sostenuto da numerosi studiosi, un concetto empirico non è costituito soltanto da attributi riferibili a proprietà fisiche degli oggetti, ma anche da altri attributi assegnati agli oggetti dagli individui che li esperiscono. Per tale ragione, in questa sede consideriamo un concetto empirico come struttura concettuale, all’interno della quale è possibile distinguere: a) un nucleo attributivo identitivo (NAI), riferito ad una classe di oggetti o a diverse istanze percettive di uno stesso oggetto e definito secondo criteri statistici, che consiste in una generalizzazione empirica, e pluribus o ex uno, operata sulla base dell’informazione contenuta nelle rappresentazioni mentali corrispondenti a specifici oggetti fenomenici; b) un insieme di attributi specificativi (IAS) riferibili a singoli oggetti appartenenti ad una classe, cioè in termini denotativi l’insieme dei predicati specificativi o propri di determinati

La struttura concettuale 17

membri di una classe. Il NAI, pertanto, formato dagli attributi (o predicati) identitivi, rappresenta l’intensione del concetto, cioè l’insieme dei predicati che, dal punto di vista connotativo, lo definiscono. Lo IAS, invece, è l’insieme degli attributi specificativi propri degli oggetti di una classe, i quali posseggono anche uno, alcuni o tutti gli attributi del NAI. Per esempio, nel caso del concetto di ‘tavolo’, il NAI è costituito dagli attributi (o predicati) identitivi quali ‘avere un piano rigido parallelo al terreno’, e ‘avere una o più gambe di sostegno’, mentre lo IAS riunisce tutti gli attributi (o predicati) specificativi riferibili a singoli membri della classe dei tavoli quali ‘avere cassetti’, ‘essere allungabile’, ‘essere pieghevole’, ecc.

In termini generali, dunque, intendiamo considerare un concetto empirico come struttura concettuale (SC), che è rappresentato da un vettore a cinque dimensioni: SC = <NAI, IAS, Sig, Sem, Nom >. Tali dimensioni, che saranno esaminate nelle successive sottosezioni, sono correlate tra loro e consentono ad un concetto, secondo precise modalità e in una determinata condizione mentale, di assolvere la funzione di operatore concettuale in grado di innescare i processi di classificazione degli oggetti.

A questo punto, è opportuno descrivere analiticamente le singole dimensioni del vettore. 4.1 Il nucleo attributivo identitivo (NAI)

Il NAI è il risultato di una generalizzazione empirica, che può essere, come si è detto, o e pluribus o ex uno. Nel primo caso, gli attributi del NAI sono individuati in base alla loro frequenza statistica empiricamente rilevata in diversi oggetti: cioè essi sono gli attributi presenti con maggior frequenza nelle istanze percettive di oggetti e, per induzione, sono assegnabili ad oggetti esperibili in successive istanze.

Agli attributi percettivi identitivi sono assegnati sia una serie di valori possibili, cioè l’arco dei valori possibili di un attributo, sia un valore di default, che è il valore spettante all’attributo nell’esemplare tipico. Per esempio, nel concetto di ‘tavolo’, per l’attributo ‘numero di gambe’ il valore di default sarà ‘4’ – il tavolo tipico ha 4 gambe – mentre i valori possibili sono molteplici: 1, 2, 3, 5, ecc. Analogamente un essere umano, che ha generalmente due occhi (il valore di default sarà ‘2’), per cause accidentali o genetiche, può averne uno solo oppure non averne alcuno (valori possibili 1 e 0). L’insieme dei valori di default, dunque, configura il NAI, cioè descrive un oggetto che può essere immediatamente riconosciuto come appartenente ad una classe.

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Si prenda in considerazione, ad esempio, la classe dei corvi: un attributo percettivo identitivo di tale classe è indiscutibilmente rappresentato dalla ‘nerezza’, il colore che con altissima frequenza caratterizza il piumaggio dei singoli corvi. Tuttavia un passeriforme di colore bianco che ha tutti gli attributi identitivi dei corvi, benché sprovvisto dell’attributo identitivo della ‘nerezza’, può essere egualmente considerato un corvo, anche se l’attributo della ‘bianchezza’ presente in tale esemplare ha una frequenza statistica bassissima all’interno della classe dei ‘corvi’; ne consegue che la ‘bianchezza’ può essere considerata come un attributo specificativo di quello specifico corvo. Tale uccello, quindi, sarà inserito a pieno titolo nella classe dei corvi, non considerando più il suo colore (bianco) come attributo identitivo della classe cui esso appartiene, bensì come attributo specificativo.

Analogo discorso può essere fatto a proposito di un essere umano che per cause accidentali o per un’anomalia genetica sia sprovvisto di entrambe le mani. In tal caso, l’istanza percettiva riferita ad un individuo in possesso di tutti gli altri attributi identitivi della classe ‘esseri umani’ rende irrilevante l’assenza dell’attributo identitivo delle mani dal punto di vista della frequenza statistica, perché la compresenza degli altri attributi identitivi rendono legittima la sua classificazione tra i membri della classe ‘esseri umani’.

Nel secondo caso, quello della generalizzazione ex uno, si sviluppa un processo analogo, ma riferito ad un solo oggetto; in tal caso, la classe degli oggetti può essere considerata come costituita da un solo oggetto che, come si è osservato, è stato esposto a diverse istanze percettive. Ne consegue che nella generalizzazione ex uno la frequenza degli attributi è riferita alle istanze percettive del medesimo oggetto.

È quindi possibile definire il NAI come l’insieme degli attributi identitivi rilevati empiricamente in base alla loro frequenza statistica rispetto ad un campione di oggetti o agli attributi identitivi (rilevati con maggiore frequenza) riferibili a diverse istanze percettive di un medesimo oggetto. 4.2 L’insieme attributivo specificativo (IAS)

Lo IAS è l’insieme degli attributi percettivi specificativi (che si aggiungono a quelli identitivi) propri dei singoli membri di una classe o delle singole istanze percettive di uno stesso oggetto. In altri termini, nel caso di una generalizzazione e pluribus è l’insieme di tutti gli attributi

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predicabili delle singole istanze percettive riferite ad oggetti appartenenti ad una medesima classe (i quali per essere tali devono condividere uno, alcuni o tutti i predicati del NAI) o ad un singolo oggetto nel caso di una generalizzazione ex uno.

Nel caso, ad esempio, della classe delle sedie, avremo il NAI costituito dagli attributi identitivi ‘avere una seduta’, ‘avere quattro gambe’ e ‘avere uno schienale’, ai quali possono essere associati attributi specificativi quali ‘essere pieghevole, ‘avere i braccioli’, ecc., che costituiscono lo IAS.

In modo analogo, lo IAS può essere riferito anche a diverse istanze percettive di uno stesso oggetto: in tal caso, esso è costituito dagli attributi dell’oggetto esperito in diverse istanze percettive (cfr. sez. 3.2.1). Pertanto, se un individuo x prende in considerazione il ‘proprio’ orologio, lo IAS ad esso corrispondente sarà costituito da tutti gli attributi specificativi presenti nelle singole istanze percettive del ‘proprio’ orologio, quali ad esempio ‘quadrante sporco’, ‘sfere ferme’, ‘bilanciere rotto’, ecc. 4.3 Le significazioni (SIG)

Il SIG consiste nelle diverse e possibili significazioni assegnate agli og-

getti di una classe o ad una classe costituita da un solo oggetto. Per esempio, il concetto di orologio di un individuo x non è costituito dal solo contenuto figurale (l’immagine dell’orologio come strutturalmente isomorfa agli oro-logi esperiti), ma è comprensivo delle diverse significazioni che l’individuo x assegna agli orologi che utilizza, cioè ai ‘propri orologi’, in relazione alla loro provenienza, al particolare momento in cui li ha acquistati o al soggetto che glieli ha donati. Quindi, a titolo esemplificativo, un individuo x può as-segnare all’orologio che possiede molteplici significazioni: la significazione ‘mio’ che lo distingue dagli altri orologi e lo rende unico rispetto all’intera classe cui appartiene; ‘regalato dalla donna che amo’, che riporta il contenu-to emozionale-esistenziale riferito al donatore; ‘prezioso’ o ‘bello’ che de-termina le qualità specificative di quel particolare orologio, sia dal punto di vista materiale od estetico, sia da quello emozionale (prezioso perché d’oro oppure perché regalato da una persona cara).

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4.4 Il riferimento (SEM)

Si tratta del riferimento del concetto ad una classe di oggetti o ad un solo oggetto. Pertanto, il concetto di gatto, ad esempio, è costituito anche dal suo riferimento, cioè da tutti quegli animali che possiedono gli attributi identitivi propri della classe dei gatti e che perciò sono classificati come gatti od anche da un solo gatto che è stato ripetutamente esperito, come nel caso del concet-to ‘il mio gatto’ risultante da una generalizzazione ex uno. 4.5 Il nome (NOM)

Il ‘nome’ come espressione linguistica è assegnato ad ogni concetto,

consentendo in tal modo la nominabilità della classe di oggetti, o al singolo oggetto cui il concetto si riferisce. Il nome ‘gatto’, per esempio, indica il concetto che si riferisce ad una classe specifica di animali.

Il NOM è usato in modi diversi per richiamare alla consapevolezza il re-lativo concetto, per formulare diverse attività cognitive, per evocare emozio-ni o stati d’animo ed ancora per richiamare altri concetti collegati dalla con-divisione di uno o più attributi.

5. Concetti visivi

In questa sezione consideriamo brevemente la struttura di quelli che chiamiamo concetti visivi, perché nell’esperienza percettiva umana sono i più diffusi e i più rilevanti: in particolare, ci riferiamo ai concetti visivi riferibili ad una generalizzazione e pluribus. In modo analogo, possiamo trattare i concetti visivi derivati da generalizzazioni ex uno. Questa maggiore rilevanza dei concetti visivi ha un fondamento neurofisiologico: la parte del SNC specializzata nell’elaborazione degli stimoli visivi (area visiva primaria e area visiva secondaria nei lobi occipitali) è molto più ampia e complessa delle aree corticali che elaborano informazione proveniente dagli altri organi sensoriali.

I concetti empirici sono il risultato cognitivo della costante ed intensa attività percettiva della specie umana. Vi sono quindi concetti empirici di origine tattile come il concetto di ‘liscio’ o di ‘morbido’, altri di origine olfattiva come quello di ‘puzza’ o di ‘profumo’, altri di origine uditiva come quello di ‘suono’ o di ‘rumore’, altri ancora di natura gustativa come quelli di ‘dolce’ o di ‘salato’. Infine, vi sono i concetti derivanti dalla percezione