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Learning playing: la metafora sportiva e l'organizzazione che apprende

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Raccontare e frequentare lo sport è una palestra per acquisire capacità e competenze che sono decisive in ogni campo professionale: problem solving, capacità di improvvisazione, pensiero divergente, intelligenza estetica fino alla capacità più preziosa: farsi domande sul senso di quello che facciamo tutti i giorni.

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Learning Playing

La metafora sportiva e l’organizzazione che apprende

Andrea Leonardo Casè

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Università Cattolica del Sacro Cuore Sede di Milano

Facoltà di Interfacoltà: Economia Lettere e Filosofia Corso di Laurea magistrale in Economia e Gestione dei Beni

Culturali e dello Spettacolo

Learning Playing: la metafora sportiva e l’organizzazione che apprende

Relatore: Chiar.ma Prof.essa Valeria CANTONI

Tesi di Laurea di Andrea Casè Leonardo

Matricola 3905867

Anno Accademico 2011-2012

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Learning Playing: la metafora sportiva e l’organizzazione che apprende.

INTRODUZIONE 10

RIPENSARE L’APPRENDIMENTO: DIVERSITÀ, FARE E DIVERTIMENTO 12

HOWARD GARDNER 12

INTELLIGENZA AL PLURALE 13

L’INTELLIGENZA NEI PROCESSI DI APPRENDIMENTO SCOLASTICI 14

LA TEORIA DELLE INTELLIGENZE MULTIPLE 15

APPLICAZIONE DELLE INTELLIGENZE MULTIPLE: L’ESPERIENZA DI APPRENDIMENTO NELLA SCUOLA 16

LE NOVE INTELLIGENZE 18

LE ESPERIENZE – APPRENDIMENTO 21

PENSARE IN MODO INTELLIGENTE 22

JEAN PIAGET 24

FARE APPRENDIMENTO: L’INDIVIDUO COME APPRENDISTA. 25

FARE APPRENDIMENTO: LA DIMENSIONE LUDICA E COSTRUZIONISTA 27

DAL COSTRUTTIVISMO DI PIAGET AL COSTRUZIONISMO DI PAPERT: VERSO NUOVI “OGGETTI PER PENSARE” 28

KEN ROBINSON 32

DALLA CREATIVITÀ AL PENSIERO LATERALE 32

RIVOLUZIONE DELL’APPRENDIMENTO 33

LE CHIAVI PER APPRENDERE: LA PASSIONE 35

LE CHIAVI PER APPRENDERE: L’ERRORE 35

NON SOLO SOPRAVVIVERE MA ABITARE UN PRESENTE COMPLESSO 36

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JONH HUNTER 38

L’APPRENDIMENTO COME PROCESSO: GIOCO E COLLABORAZIONE 38

INTER CAMPUS 42

LE POTENZIALITA’ DEL LINGUAGGIO DEL GIOCO E DI UN PALLONE CHE RIMBALZA 42

SUGATA MITRA 48

LA CURIOSOSITÀ MUOVE UN NUOVO APPRENDIMENTO 48

INTELLIGENZA SPORTIVA 52

INTRODUZIONE 52

Lo Sport come fenomeno culturale 52

Fonte di apprendimento 53

IL CONTRIBUTO FORMATIVO DELLA PRATICA SPORTIVA 54

Il contesto: dallo sport alle competenze della società complessa 54

Interazione tra Sport ed ambiti disciplinari 55

Pratica sportiva ed interazione sociale 56

Il sistema sportivo si allarga 57

LE DIMENSIONI DELL’INTELLIGENZA SPORTIVA 58

La componente ludica: il gioco 58

La componente agonistica 60

SISTEMA BIOLOGICO UMANO 61

Mente-Cervello-Individuo 61

L’attività neuro-cognitivo-motoria 62

Le capacità cognitive 64

Allenare la complessità 66

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FORMAZIONE DELL’INTELLIGENZA SPORTIVA 67

Il processo dell’intelligenza sportiva 68

Il SÈ 68

Il SÈ e l’AMBIENTE 68

Il SÈ e l’ALTRO 69

Il SÈ e il LINGUAGGIO SPORTIVO 70

Il SÈ e il SOGGETTO 70

RUOLI E POSIZIONI 72

INTRODUZIONE 72

DIVERSIFICAZIONE SELEZIONE CAPITALE UMANO 82

BASKETBALL COME LEARNING ORGANIZATION 84

CONCEZIONE DI RUOLO 90

RUOLO COME SISTEMA DI ASPETTATIVE 90

RUOLO ORGANIZZATIVO 91

MAPPATURA DELLE COMPETENZE CHIAVE 93

RESPONSABILITÀ INDIVIDUALE E COLLETTIVA 98

INTRODUZIONE 98

ERRORE PARTE DELL’APPRENDIMENTO 110

NORMALE POSITIVO UTILE 110

ADERENZA AL CONTESTO, ACCOGLIERE L’ERRORE E RENDERSI DISPONIBILI 110

Vincere la partita contro noi stessi: superare i propri limiti 113

Vincere le difficoltà come squadra. 114

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Vincere contro gli avversari. 116

Bala Omo 116

Cultura degli Alibi 119

IL VALORE DEL PROCESSO 122

INTRODUZIONE 122

QUALITÀ DELLA PERFORMANCE, NON SOLO SINGOLO RISULTATO 136

LA VALORIZZAZIONE DEI PROCESSI NELLE IMPRESE 136

L’ECCELLENZA NEGLI SPORT DI SQUADRA 139

Un gioco di squadra vincente nel metodo: la squadra più forte di tutti i tempi 139

Mentalità: dalla passione per il bel gioco ad una nuova filosofia 140

Metodo e disciplina: il singolo al servizio del collettivo 143

Collaborazione: creare sinergia e a muoversi sono le competenze 146

Improvvisazione: dal copione sino alla creatività flessibile 147

CONCLUSIONI 152

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA 157

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Introduzione

“Mi sento responsabile della bellezza del mondo”

Imperatore Adriano

Ripensare non solo ai sistemi di produzione ma anche alle prospettive e ai modo di pensare

l’organizzazione.

Nella gestione della complessità del mondo contemporaneo, nel particolare delle organizzazioni

d’impresa, un continuo processo di apprendimento è fondamentale.

L’immagine è quella di un apprendimento senza fine. La priorità è l’apertura e l’importanza del

capitale umano, in quanto esso gestore di complessità.

Tra le componenti dell’apprendimento:

− la diversità. Diversi sono i contesti dove acquisire conoscenza, diversi sono gli spazi dove

contaminare l’esperienza e diversi sono i contributi che ciascuno può offrire per affrontare con

maggiore consapevolezza la propria quotidianità.

− l’esperienza del fare: vivere e coltivare conoscenze in modo che la teoria venga dopo

l’esperienza.

− “L’uomo conosce solo ciò che ama”, una filosofia di Sant’Agostino ma anche fonte

d’ispirazione per comprendere il presente. La coltivazione di una passione, come strumento per

imparare in modo divertente, dove anche la motivazione diventa una chiave di notevole efficacia.

Al cuore della sfida c'è la ricostituzione dell'idea d’intelligenza; le competenze in un campo possono

essere trasferite in un altro. La risposta sta nel trasferimento, ossia saper fare proprie e trasferire certe

competenze, poiché il “fare bene qualcosa” in un campo del sapere, aiuta a sviluppare le nostre capacità

in un altro.

Se il segreto sta quindi nell’abilità di vivere luoghi dove ci sia modo di mettere in atto questo

trasferimento e se il binomio è apprendimento e complessità dell’impresa, il circolo virtuoso è

completato con il modello sportivo.

La pratica sportiva è esplorazione: fare esperienza di apprendimento in chiave divertente in un

ambiente ad ogni modo complesso. Leggere e reagire alla complessità, la coltivazione delle relazioni in

chiave di collaborazione e la rottura di automatismi tipici di un processo lineare in contrasto con

l’esigenza di cambiamento.

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La scommessa di uno scambio tra sport e impresa, per mettere in relazione mondi apparentemente

distanti, per creare con esperienze diverse un’occasione per leggere la complessità, uscire dagli schemi

tradizionali e infine luogo dove aprire nuove domande, avere nuovi stimoli e trovare rinnovate energie

e conoscenze.

L’esperienza sportiva si pone l’obiettivo di ripensare alle organizzazioni per ricominciare a correre nei

processi d’innovazione dell’impresa.

Figura 1. RSA Animate: Chaging Education Paradigms. Il processo dell'avere idee originali che hanno valore

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Ripensare l’apprendimento: Diversità, Fare e Divertimento

Howard Gardner

Figura2.HowardGardner:psicologoedocentestatunitense

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Intelligenza al plurale

Non ha alcun senso misurare il quoziente

di intelligenza, perché l’intelligenza si da solo al plurale

Quando i genitori vanno a parlare con i professori dei loro figli si lasciano dire tutto il male possibile

(«Suo figlio non studia, disturba, s’impegna poco. E’ sempre distratto, potrebbe fare di più») purché

tutte queste negligenze e inadeguatezze non mettano in discussione l’intelligenza del figlio. E in un

certo senso i genitori, a loro insaputa, hanno anche ragione, e i professori fanno bene a non contraddirli.

Infatti, quando si parla di una persona non si dovrebbe mai usare l’aggettivo «intelligente», perché la

qualità che l’aggettivo vorrebbe designare non esiste.

Puntando lo sguardo, infatti, sul professore di pedagogia e psicologia all’Università di Harvard,

Howard Gardner, l’intelligenza è sempre un’interazione fra una serie di potenzialità e le opportunità

create da una cultura. L’intelligenza, infatti, è una moltitudine di forme, la maggior parte delle quali,

secondo Gardner trova nelle scuole e nel giudizio della gente la sua mortificazione. Nei suoi studi

riporta ad esempio che i superdotati vanno male a scuola, perché il modello di intelligenza che i

professori hanno in mente e su cui misurano i rendimenti scolastici è costruito sulla categoria della

flessibilità, che nel caso dell’intelligenza equivale a mediocrità.

“Flessibile è infatti quell’intelligenza che, versata in ogni direzione, non presenta una particolare

inclinazione per nulla, e perciò è in grado di dispiegarsi a ventaglio su tutto, perché nulla la inclina in

modo decisivo. L’inclinazione dell’intelligenza, che nessun professore verifica e nessuno psicologo

misura perché, trattandosi di una qualità, sfugge agli strumenti di misurazione che possono operare

solo con quantità, offre una modalità di comprensione del mondo a tal punto diversa da un’altra

modalità di comprensione da far supporre che si tratta di due mondi completamente diversi. I diversi –

e tra i diversi ci sono anche i superdotati che vanno male a scuola, i cosiddetti non-intelligenti, quelli

che a scuola «fanno fatica», quelli che non rispondono a quozienti di intelligenza ai massimi valori –

esprimono il più delle volte intelligenze poco flessibili perché molto inclinate, e quindi dotate di una

specificità non apprezzata dalle pagelle scolastiche e dai test psicologici che valutano l’intelligenza

solo quella genericità, con cui sono costruite le domande scolastiche che danno sostanza alle

interrogazioni e alle domande psicologiche che compongono i test.”

Come psicologo con lunga esperienza alle spalle, specializzato in scienza dell’apprendimento e in

neuropsicologia, Howard Gardner mostra che non c’è un’intelligenza generica, quella su cui di solito si

applica la valutazione della scuola, ma che esistono forme così diverse fra loro che non è possibile

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unificarle e misurarle in modo uniforme. Ogni forma d’intelligenza, infatti, è percorsa da un «genio»

che non è prerogativa di Leonardo da Vinci ma di tutte le menti che sempre sono inclinate in una certa

direzione, a partire dalla quale scaturisce per ognuno la sua particolare ed esclusiva visione del mondo.

Nella sua prospettiva, Gardner invita gli uomini della scuola e del mondo del lavoro a non demolire

quelle diverse forme di intelligenza in cui è costituito un potenziale di umanità diversa da quella che

oggi compiutamente designata sotto il segno della tecnica, che ci ha abituati a pensare in modo

esclusivamente meccanico e razionale a cui oggi, sembra, abbiamo ridotto l’uso dell’intelligenza.

“E’ necessario che la scuola si declini al «plurale» e insegua, attraverso un’articolazione totale, tutte

quelle forme di intelligenza in cui sono custodite quelle possibilità che, in un mondo sempre più

strutturato in modo funzionale, diventano gli unici ricettacoli del senso. Un senso trovato in sé nella

forma della propria intelligenza”.

L’intelligenza nei processi di apprendimento scolastici

Il concetto di intelligenza è stato interpretato nel corso dei secoli nei modi più disparati. Fino al termine

del XIX secolo per intelligenza si intendevano generalmente le capacità mentali del soggetto. Erano

pertanto intelligenti le persone che sapevano parlare bene oppure erano colte o ancora perspicaci; in

alcuni ambienti, un po’ per comodità o per costume era considerato intelligente anche colui che si

comportava ben, oppure era tranquillo o ubbidiente.

Nella Parigi del 1900, durante «La Belle Epoque», gli amministratori locali della città avvicinarono uno

psicologo di nome Alfred Binet per fargli una richiesta insolita: sarebbe stato in grado di creare una

sorta di strumento di misura capace di identificare quali bambini parigini sarebbero andati bene alla

scuola primaria e quelli no? Binet ci riuscì. Egli produsse una serie di prove capaci di predire il

successo e l’insuccesso scolastico dei bambini. La sua scoperta venne battezzata «test di intelligenza»,

e ciò che essa misurava «QI», quoziente intellettivo. Come altre mode parigine, il QI arrivò presto negli

Stati Uniti, dove ebbe un successo modesto fino alla Prima Guerra Mondiale, quando venne usato per

testare oltre un milione di reclute statunitensi e raggiunse il culmine della sua popolarità. Da allora in

poi, il test del QI venne considerato il più importante test della psicologia, uno strumento scientifico

veramente utile. Come si giustifica tanto entusiasmo per il QI? Perlomeno in Occidente, per valutare il

grado di intelligenza delle persone ci si era basati su stime intuitive. Ora invece l’intelligenza sembrava

quantificabile. Come si poteva misurare l’altezza effettiva potenziale di una persona, da quel momento

in poi parve possibile misurarne anche l’intelligenza effettiva e potenziale. Esisteva finalmente una

dimensione della capacità mentale lungo la quale ordinare le persone.

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Howard Gardner nella sua critica a tale visione, valuta che questa concezione unidimensionale dei

metodi di valutazione psicologica vada di pari passo con una corrispondente «concezione uniforme»

dell’educazione e quindi della formazione scolastica: “Nella scuola «uniforme» c’è un percorso

essenziale, una serie di dati che tutti dovrebbero conoscere, e pochissime discipline facoltative. Gli

alunni migliori, forse i ragazzi con un QI più elevato, hanno la possibilità di seguire corsi in cui si

richiede una buona padronanza delle principali abilità di lettura, calcolo e pensiero.”

Gardner propone una prospettiva alternativa che si basa su una concezione radicalmente diversa della

mente e da essa deriva una rappresentazione molto diversa della scuola. Si tratta di un concetto

pluralistico di mente, che riconosce l’esistenza di molte facce distinte e diverse della cognizione, e

secondo il quale le persone hanno risorse cognitive differenti e stili cognitivi contrastanti.

Un’idea di scuola centrata sull’individuo, in cui tale visione dell’intelligenza viene presa seriamente.

Tale modello di scuola si basa in parte sulle acquisizioni di scienze che all’epoca di Binet non

esistevano nemmeno: la scienza cognitiva (lo studio della mente) e le neuroscienze (lo studio del

cervello). Su tale approccio si basa la teoria delle Intelligenze Multiple.

La teoria delle Intelligenze Multiple

Non solo l’insoddisfazione per il concetto di QI e le concezioni unitarie dell’intelligenza ma secondo

Gardner è tutto il concetto che dev’essere messo in discussione e dev’essere sostituito. Da questa

visione risulta necessario rivolgere lo sguardo ad altre fonti di informazione più culturali che

riguardano i metodi utilizzati dalla gente di tutto il mondo per sviluppare le abilità importanti nel loro

modo di vivere. Gardner, infatti, intende l’intelligenza come la capacità di risolvere problemi o di

realizzare prodotti apprezzati in uno o più ambienti culturali.

Il punto centrale della teoria di Gardner è la pluralità dell’intelligenza. Ritiene che i profili intellettivi

delle persone alla nascita possono essere diversi, mentre lo sono sicuramente i profili intellettivi che le

persone sviluppano nel corso della vita.

Considera l’intelligenza come potenzialità biologiche allo stato grezzo. Nella totalità delle persone esse

operano di concerto nella soluzione di problemi e nella creazione di prodotti culturali di vario genere,

nel lavoro, nei passatempi e via dicendo. Il fine della scuola in questo caso dovrebbe essere quello di

sviluppare le intelligenze e di aiutare le persone a raggiungere obiettivi lavorativi e creativi adatti alla

particolare composizione delle loro intelligenze. Le persone che ricevono questo tipo di aiuto, Gardner

ritiene si sentono più impegnate e più capaci e quindi più propense a servire la società in modo

costruttivo. Queste riflessioni hanno prodotto l’idea di una scuola centrata sull’individuo e si basa su un

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principio essenziale: non tutti hanno le stesse attitudini e gli stessi interessi; non impariamo tutti allo

stesso modo.

Applicazione delle Intelligenze Multiple: l’esperienza di apprendimento nella scuola

Accostarsi quindi a un concetto, una materia o una disciplina in modo differente per fare esperienza di

apprendimento.

Gardner nell’ottica dell’apprendimento all’interno della scuola per esempio crede che queste cerchino

di trattare troppi argomenti, e che una conseguenza inevitabile di ciò sia la superficialità della

comprensione. Nella sua visione avrebbe più senso dedicare una buona quantità di tempo ai concetti

chiave, alle idee generative, alle questioni essenziali, e permettere agli allievi di acquisire una piena

familiarità con queste nozioni e con le loro implicazioni. Quando ci si dedica a certi insegnamenti, i

concetti e gli argomenti possono essere affrontati in vari modi. Ci sono molti modi per stimolare un

confronto, e per la mente è più vantaggioso seguire più di una modalità di esplorazione. Non

necessariamente in sette o otto modi diversi ma in un numero di modi che si dimostri pedagogicamente

appropriato per l’argomento in questione.

“Ogni argomento può essere affrontato in una varietà di modi: dal racconto di una storia,

all’argomentazione formale, all’esplorazione artistica, a qualche sorta di esperimento o simulazione

pratica. Un pluralismo metodologico di questo tipo andrebbe incoraggiato”.

E’ qui che entrano in gioco le intelligenze multiple. Quando si adottano prospettive diverse nella

visione di Gardner si ottengono tre risultati positivi.

Innanzitutto, poiché i bambini non imparano tutti allo stesso modo, si riuscirà a raggiungere un

maggior numero di alunni. In secondo luogo, gli alunni si faranno un’idea di cosa significa essere

esperti quando vedranno che un insegnante può rappresentare le conoscenze in diversi modi e che loro

stessi sono capaci di più di una rappresentazione di un determinato contenuto. Infine, poiché anche la

comprensione può essere dimostrata in più modi, un approccio pluralistico dà agli alunni la possibilità

di dimostrare la loro comprensione, al pari delle difficoltà che possono avere, nei modi a loro più

congeniali e più accessibili agli altri. Gli esami e le dimostrazioni basate sull’esecuzione pratica

servono appositamente a valorizzare le intelligenze multiple degli alunni.

Una delle ragioni per cui la teoria delle intelligenze multiple ha attratto l’attenzione della comunità

pedagogica è che essa ha abbracciato chiaramente tali principi:

− Non siamo tutti uguali;

− Non abbiamo tutti lo stesso tipo di mente;

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− L’istruzione funziona meglio e con più persone se si tiene conto di queste differenze e di questi

punti di forza a livello di processi mentali, anziché ignorarli e negarli.

Nella teoria e nella pratica Howard Gardner ritiene che il cuore della sua prospettiva delle intelligenze

multiple, fosse il fatto di considerare molto seriamente le differenze esistenti tra esseri umani. A livello

teorico si riconosce che non ha senso collocare tutte le persone su una sola dimensione intellettiva. Sul

piano pratico, si ammette che in generale un modello pedagogico uniforme potrà rivelarsi utile solo per

una minoranza di alunni. L’immagine che ricorre è quella di una scuola in cui le differenze fra i ragazzi

venissero tenute in considerazione, in cui ciò che si sà sulle differenze venisse condiviso con gli alunni

e i genitori, in cui gli allievi si assumessero gradualmente le responsabilità del proprio apprendimento e

in cui i materiali meritevoli di studio venissero presentati in modo che tutti gli alunni abbiano il

massimo delle possibilità di arrivare a padroneggiarli e di mostrare agli altri (e a sé stessi) che cosa

hanno imparato e compreso.

Gardner nell’impegno e nella gestione di due progetti di apprendimento ha cercato di definire le

caratteristiche dei metodi di valutazione futuri.

Il primo progetto, denominato «Progetto SPECTRUM» all’interno di una scuola d’infanzia, ha avuto

l’intuizione di dotare la scuola di materiali eterogenei che dovrebbero sollecitare l’intera gamma delle

intelligenze. I bambini sono liberi di usare spontaneamente un’ampia varietà di giochi, puzzle e

attraverso le loro attività ludiche, scoprire qual è la combinazione di risorse e di interessi di ognuno di

loro. Al termine dell’anno scolastico viene presentato ai genitori e agli insegnanti un profilo per ciascun

bambino, ovvero una descrizione semplice e chiara del profilo cognitivo dell’alunno, accompagnata da

indicazioni concrete sulle attività da svolgere a casa, a scuola e nella comunità più ampia per favorire lo

sviluppo dei suoi interessi e delle sue attitudini specifiche.

Il secondo progetto, denominato «ARS PROPEL», riguarda l’insegnamento dell’arte e delle materie

umanistiche ad alunni preadolescenti e adolescenti. L’obiettivo è mettere a punto dei nuovi metodi per

scoprire quali sono i punti di forza degli alunni delle scuole secondarie nel campo dell’arte e delle

materie umanistiche: “A prescindere da come i test carta e matita possono essere usati in altre

materie, essi non sono il metodo migliore per mettere in evidenza le capacità latenti degli alunni in

queste aree.”

Nella teorie delle intelligenze di Gardner è di somma importanza riconoscere e coltivare tutte le

intelligenze umane e tutte le loro combinazioni.

“Tutti sono differenti e ciò in gran parte dipende dal diverso modo in cui le varie intelligenze si

combinano in ognuno di noi. Se riusciamo a riconoscere questo fatto, avremo perlomeno maggiori

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possibilità di affrontare correttamente molti problemi, che incontriamo nel mondo. Se riusciamo a

metter insieme l’intero spettro delle abilità umane, non solo ognuno sarà più contento di sé e si sentirà

più competente, ma probabilmente sarà anche più impegnato e più pronto a unirsi al resto della

comunità mondiale e a collaborare per il bene comune. Forse, se riuscissimo a mobilitare l’intera

gamma delle intelligenze umane e a fonderla con il senso etico, potremmo contribuire ad aumentare la

probabilità della nostra sopravvivenza su questo pianeta e favorire magari anche la nostra

prosperità”.

Le nove intelligenze

Nella consapevolezza di dover giungere ad un nuovo concetto di intelligenza, capace di far fronte alla

complessità e sdoganare il processo lineare di apprendimento, l’analisi delle intelligenze multiple nello

specifico, offre un contributo notevole nella visione del nostro intento. Gardner parte innanzitutto da

due domande, la prima di tipo evolutivo, ovvero «In che modo la mente umana si è evoluta nel corso di

milioni di anni?» e l’altra di tipo comparativo, ossia «come possiamo spiegare le diverse abilità e

capacità che sono, o sono state, apprezzate nelle diverse comunità del mondo?».

− Intelligenza linguistico-verbale: chi la possiede si dimostra abile con il linguaggio, sensibile al

significato, al suono, al ritmo delle parole, oltre ad avere una particolare sensibilità per le differenti

funzioni del linguaggio;

− Intelligenza logico-matematica: chi la possiede è in grado di comprendere il mondo attraverso

un’intuizione delle azioni che si possono compiere sugli oggetti, delle relazioni tra di esse e delle

relative ipotesi che si possono fare;

− Intelligenza musicale: chi la possiede si dimostra abile nel riconoscere i modelli tonali, e

particolarmente sensibile ai suoni ed al ritmo che è in grado di ripetere in più ampi schemi musicali,

dando loro una forma;

− Intelligenza visivo-spaziale: chi la possiede è in grado di percepire, comprendere, interiorizzare

e trasformare lo spazio;

− Intelligenza corporeo-cinistetica: chi la possiede si dimostra in grado di conoscere e

padroneggiare sia il proprio corpo che i modi con cui esso opera. L’intelligenza corporea implica la

capacità di comprendere il mondo attraverso il corpo, di esprimere idee, sentimenti e comunicare

con gli altri attraverso il corpo. Gardner ha sempre contrastato coloro che definivano semplicemente

come “talenti” gli atleti, i ballerini, preferendo per loro la parola “intelligenti”. Sono tali, infatti, non

solo coloro che sano utilizzare con efficacia le abilità logico-matematiche o linguistiche ma anche

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tutte quelle persone che sanno padroneggiare con efficacia il proprio corpo per esprimere e

comunicare il proprio modo di essere. Già i Greci valorizzavano questa espressione di intelligenza

quando veneravano ed apprezzavano l’uomo con un corpo in perfetta armonia e con le giuste

proporzioni capace di espressioni artistiche ed atletiche.

“Ci sono linguaggi del corpo anche se nella nostra tradizione culturale recente c’è stata una

disgiunzione radicale fra le attività del ragionamento da un lato e le attività della parte fisica della

nostra natura, qual è compendiata dal nostro corpo, dall’altro. Questo divorzio tra mentale e il

fisico si è associato non di rado alla nozione che ciò facciamo col nostro corpo sia un po’ meno

privilegiato, meno speciale, delle routine di soluzioni di problemi che eseguiamo principalmente

attraverso l’uso del linguaggio, della logica o di qualche altro sistema simbolico relativamente

astratto. Avere una buona intelligenza motoria significa saper usare il proprio corpo in modi molto

differenziati e abili, per fini espressivi oltre che concreti che vanno ad esprimere un movimento che

esprime il proprio modo di essere e di adattarsi all’ambiente.”1

− Intelligenza interpersonale: chi la possiede è capace di osservare e fare distinzioni in modo

particolare sugli stati d’animo, i temperamenti, le intenzioni e le motivazioni degli altri. Essa

consiste nella capacità di comprendere, percepire e discriminare le personalità e i comportamenti

degli altri;

− Intelligenza intrapersonale: connota la capacità nell’uomo di comprendere e conoscere il

proprio mondo interiore e questo conduce ad una migliore e più estesa conoscenza di sé. E’

l’intelligenza di quelle persone che riescono. In ogni contesto, ad avere un grande controllo dei

propri sentimenti e delle proprie emozioni;

− Intelligenza naturalistica: è tipica di chi riesce a riconoscere, a categorizzare e comprendere i

diversi oggetti nella natura: esseri viventi, piante, animali ed altri fenomeni presenti in natura. E’

l’intelligenza tipica dei biologi e dei naturalisti;

− Intelligenza esistenziale o filosofica: è l’ultima intelligenza in quanto Gardner non è ancora

riuscito ad attribuirle una collocazione all’interno del nostro sistema nervoso. Chi la possiede è in

grado di effettuare riflessioni profonde, spirituali e complesse su questioni fondamentali della vita.

E’ l’intelligenza dei capi spirituali, dei grandi filosofi e pensatori.

Tutte insieme compongono la nostra potenza cerebrale che non smetterà mai di stupirci. Infatti, non è

detto che il numero di forme possa in futuro aumentare.

1 Francesco Casolo e Stefania Melica, Il corpo che parla: comunicazione ed espressività nel movimento umano,Vita e pensiero, 2005.

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Gardner afferma due concetti complementari. Il primo ha carattere universale: tutti possiedono queste

nove intelligenze. Anziché l’uomo come un «animale razionale», propone una nuova definizione di

cosa significa essere uomini, dal punto di vista cognitivo: “L’homo sapiens sapiens è l’animale che

possiede queste nove forme di rappresentazione mentale”.

Il secondo concetto riguarda le differenze individuali. A causa delle contingenze legate ai fattori

ereditari, all’ambiente e alla loro interazione, non esistono due persone che abbiano le stesse

intelligenze nelle stesse precise proporzioni e con le stesse precise sfumature. I profili di intelligenza

variano da persona a persona. Questo fatto per Gardner assicura sfide e opportunità interessanti per il

nostro sistema educativo. “Possiamo ignorare queste differenze e sostenere che siamo tutti uguali,

oppure possiamo creare un sistema educativo che cerchi di sfruttare queste differenze, personalizzando

quanto più possibile l’insegnamento e la valutazione”.

Figura 3. Le nove Intelligenze: esistono linguaggi di apprendimento diversi.

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Le esperienze – apprendimento

L’apprendimento necessita sempre di contrasti e confronti. Dove non esistono zone di confine, come

nel nostro caso sport e business; non ci sono cambiamenti, divari, diversità percepite, non si può

apprendere. Lo sviluppo di una molteplicità di linguaggi di apprendimento differenti e la base della

teoria delle intelligenze multiple fa accostare Gardner a sei diverse «finestre» per fare esperienza di

conoscenza:

1. Finestra narrativa: la modalità delle storie.

2. Finestra quantitativa, logico-razionale sui numeri, i principi e la causalità.

3. Finestra essenziale, che si basa su domande come: perché questo è importante? Che rapporto ha con

ciò che è venuto prima? Che rapporto ha con la nostra vita di oggi?

4. Finestra estetica: che aspetto ha? Che suono ha? Quali modelli e configurazioni riproduce? Che

effetto fa?

5. Finestra personale: integrando l’argomento con dibattiti, role play, progetti o altre attività di

gruppo.

6. Finestra pratica: valutare sulla base di esperienze che concernono il fare, come scrivere un saggio,

mettere in scena un lavoro teatrale, fare un’attività sportiva.

L’uso di queste vie di accesso diversificate ha due vantaggi. In primo luogo si accrescono le probabilità

di raggiungere più individui possibile, dal momento che non tutti imparano velocemente seguendo la

stessa modalità. In secondo luogo, accostandosi allo stesso argomento da punti strategici diversi si

dimostra concretamente agli individui che cosa significa essere esperti, dato che un esperto è una

persona che è sempre in grado di rappresentare una conoscenza in più modi.

“Nella maggioranza dei paesi, in tutta la storia umana, l’educazione all’apprendimento si è

concentrata quasi esclusivamente sul linguaggio e la logica. L’istruzione formale ha praticamente

ignorato le altre forme di rappresentazione mentale – le forme artistiche (musica, arte), atletiche

(corporee), personali (conoscenza degli altri e di sé), la conoscenza del mondo naturale, la conoscenza

delle grandi questioni della vita. Tutte queste forme mentis esistono e possono essere messe a frutto;

quando ciò non avviene possiamo tranquillamente dire che l’istruzione usa solo «mezzo cervello»”.

In sintesi abbiamo illustrato che secondo la teoria delle Intelligenze Multiple, tutti gli esseri umani

possiedono un certo numero di abilità cognitive relativamente indipendenti, ciascuna delle quali

Gardner designa come un’intelligenza a sé. Per varie ragioni ogni persona ha un profilo di intelligenza

diverso dalle altre, e questo dato oggettivo è fonte di importanti conseguenze nel mondo della scuola e

del lavoro.

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Pensare in modo intelligente

Nell’intento di questo capitolo di illustrare un nuovo concetto di apprendimento, valutato nella

dimensione pluralistica delle intelligenze di cui ognuno dispone e nella diversità di approcciarsi ad

un’esperienza di conoscenza, possiamo affermare che la capacità di pensare in modo intelligente è

molto diversa dal possesso di una gran quantità di informazioni.

Tale pensiero intelligente tende a prodursi soltanto quando si ha familiarità a tutto tondo, di un

problema complesso, cosicché lo si può esplorare in molti modi differenti. Se vogliamo dedicare del

tempo a un’esperienza ed esaminarla approfonditamente, non dobbiamo considerarla in un solo modo

(che consiste quasi sempre nell’uso di testi scritti o lezioni). Potremmo invece conoscerla in modi

molto diversi, usando le nostre intelligenze multiple. In conseguenza di ciò, è molto più probabile che

quell’esperienza resti dentro di noi, e che possa essere usata in modo flessibile e innovativo.

L’insegnamento diventa efficace quando attiva le intelligenze multiple.

Ponendosi l’obiettivo di un possibile apprendimento permanente e parlando dei diversi tipi di

intelligenza, la cornice più immediata a cui facciamo riferimento è quella della scuola. Tale riferimento

è corretto in quanto agli educatori e alle istituzioni educative ufficiali compete il ruolo più visibile

nell’individuare e nel formare le giovani intelligenze.

Nell’obiettivo di questa tesi però è un dovere estendere tale cornice al di là delle strutture educative

tradizionali. Nelle società di oggi e di domani, genitori, compagni e mezzi di comunicazione hanno un

ruolo almeno altrettanto significativo di quello degli insegnanti abilitati e delle scuole ufficiali. Nello

specifico un ruolo fondamentale nell’apprendimento proviene dall’esperienza e pratica sportiva.

Puntando lo sguardo invece, al mondo del business, anche nei luoghi di lavoro vi sono persone

incaricate di scegliere i candidati in possesso dei appropriati requisiti in fatto di preparazione, di abilità

e di intelligenze: per usare la terminologia di Gardner nel suo libro Cinque Chiavi per il Futuro, che

siano in possesso delle intelligenze disciplinare, sintetica, creativa, rispettosa ed etica.

Risulta necessario nell’analisi della complessità delle organizzazioni d’impresa porsi in una duplice

prospettiva: da un lato cercare di coltivare le intelligenze nella generazione più giovane; in coloro che

oggi vengono educati per diventare i leder di domani. Dall’altro lato è necessario occuparsi di coloro

che sono già inseriti negli ambienti di lavoro con una domanda simile: che fare per mobilitare al meglio

le nostre capacità e quelle di chi ci circonda in modo da rimanere tutto adeguati al presente, non solo

oggi ma anche domani e il giorno dopo ancora?

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Jean Piaget

Figura 4. Jean Piaget: psicologo, biologo, pedagogista e filosofo svizzero

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Fare apprendimento: l’individuo come apprendista.

Le teorie di Piaget s’inseriscono nel nostro percorso come influenza dominante nello studio dello

sviluppo cognitivo dei bambini in epoca contemporanea.

Jean Piaget, biologo per formazione, poneva quesiti sulle origini e sullo sviluppo dei moderni metodi di

pensiero. Anche se le sue teorie avevano messo in luce come i progressi cognitivi degli individui

implichino processi di adattamento all’ambiente, i suoi sforzi erano indirizzati principalmente ad

analizzare in che modo l’individuo comprenda il senso di un mondo sconosciuto. Le sue ricerche

prestano poca attenzione al ruolo che il mondo sociale svolge nel fornire struttura alla realtà o

nell’aiutare il bambino a conoscerla.

I bambini vengono considerati apprendisti del pensiero, attivi nei loro sforzi per imparare attraverso

l’osservazione e la partecipazione con i pari e con i membri più esperti del loro gruppo sociale, capaci

di sviluppare le abilità necessarie per risolvere problemi culturalmente definiti con gli strumenti

disponibili e di lavorare a partire da questi dati per costruire nuove soluzioni all’interno del contesto

dell’attività socio-culturale. Il suo punto di vista si basa sulla convinzione che lo sviluppo cognitivo dei

bambini sia inserito nel contesto delle relazioni sociali, degli strumenti e delle pratiche socioculturali.

Sulla relazione tra individuo e società, Piaget afferma che si tratta di due elementi inseparabili;

l’individuo e la società sono tenuti insieme dalle relazioni sociali tra gli individui: “Il fatto primario

non è l’individuo, nè l’insieme degli individui, ma il rapporto tra gli individui, e un rapporto che

modifica senza posa le stesse coscienze individuali”.

L’interesse di Piaget si concentrava piuttosto sul coinvolgimento attivo del bambino in qualità

d’individuo che lavora con oggetti e che, attraverso quest’attività, cerca di conoscere il mondo.

La teoria di Piaget sullo sviluppo cognitivo, ha prodotto quella che oggi è la spiegazione più completa

del modo in cui i bambini giungono a comprendere il mondo. Fin dagli anni dell’adolescenza Piaget

sviluppò un grande interesse per l’epistemologia, una branca della filosofia che studia le origini della

conoscenza, che mai smise di considerare il suo più grande interesse. Per studiare questo argomento,

Piaget decise di scegliere un approccio evolutivo e, con metodi psicologici, di tracciare il modo in cui i

bambini acquisiscono gli strumenti fondamentali della conoscenza e li elaborano in strumenti sofisticati

per adattarsi all’ambiente. Il suo obiettivo consisteva nello studio della natura dello sviluppo, un

obiettivo che sperava di raggiungere seguendo la strada che percorrono i bambini per diventare sempre

più esperti nell’adattamento all’ambiente. Nell’esamina degli aspetti diversi della comprensione

infantile, Piaget non era tanto interessato alle prestazioni corrette o scorrette dei bambini quanto al

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modo in cui affrontavano i compiti e che cosa questo processo rivelasse circa l’organizzazione mentale

del bambino.

Base essenziale della teoria evolutiva di Piaget è che lo sviluppo intellettuale può essere spiegato solo

considerando l’interazione dinamica e continua tra bambino e ambiente. Se vogliamo comprendere il

modo in cui i bambini acquisiscono la conoscenza, occorre esaminare in dettaglio come, nel corso degli

anni, il bambino agisce sull’ambiente.

La conoscenza non evolve da un’organizzazione innata, nè è fornita esclusivamente dall’esperienza, ma

emerge dall’esplorazione attiva delle cose e delle idee. L’attività di imitazione nel processo di

apprendistato non va considerata un esercizio meccanico di addestramento e di bassa cognizione ma, al

contrario, un’abilità mentale di esplorare il mondo dell’altro. La capacità di guardare, di osservare con

acutezza, di imitare e ricreare è fondamentale in tutte le arti e attività nelle quali un’intelligenza

motoria è predominante. Piaget ha più volte asserito e sottolineato come la motricità e l’azione siano il

punto di partenza per lo sviluppo delle funzioni cognitive.

Acquisire la conoscenza è quindi un processo basato sulle azioni e non un processo di accumulazione

passivo d’informazioni. Questo accade a tutte le età: così come il bambino deve agire su un giocattolo

per scoprirne le proprietà, anche lo scolaro delle elementari deve agire e manipolare le idee mentali per

scoprire le possibilità. Ogni volta che un bambino s’imbatte in una nuova esperienza che non

corrisponde alle strutture mentali di cui dispone, si trova in una condizione di disequilibrio. I bambini,

spinti dalla curiosità, fanno costantemente esperienze di questo genere e, in seguito, sono costretti ad

attribuire loro un significato, vale a dire a ricreare l’equilibrio. Questo, secondo Piaget, costruisce la

forza motrice della crescita intellettuale, tuttavia, la ricostruzione dell’equilibrio è possibile solo se

l’evento non è troppo discrepante da ciò a cui il bambino è già abituato.

Jean Piaget amava definire i bambini “piccoli scienziati”. Come gli scienziati al cospetto di un nuovo

problema cercano di trovare un significato alle loro osservazioni adattandole inizialmente alle loro

teorie esistenti e, in seguito, se non hanno successo, estendono queste teorie o ne creano di nuove, allo

stesso modo i bambini provano inizialmente strade familiari per assimilare un evento sconosciuto e poi

adattano le loro strutture mentali e le loro azioni alla nuova esperienza. In entrambi i casi, l’individuo è

coinvolto attivamente nella ricerca di una soluzione, nella sperimentazione di diversi modi di

comprendere e infine, per mezzo di un atto creativo, nello sforzo di accogliere la sfida e dar origine a

una gara gratificante tra osservazione e comprensione.

Piaget pone la sua attenzione su uno stadio dello sviluppo cognitivo in cui la conoscenza non deriva dai

processi interiori di pensiero, i quali solo più tardi permetteranno al bambino di manipolare

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mentalmente gli oggetti. Nondimeno Piaget credeva che lo stadio iniziale basato sull’azione fosse un

preludio essenziale allo sviluppo del pensiero; le operazioni mentali sono azioni interiorizzate.

Acquisire conoscenza non significa assorbire passivamente le informazioni: Piaget sottolinea più volte

la grande curiosità dei bambini nei confronti del mondo, curiosità che li spinge a esplorare e

sperimentare. I bambini non attendono passivi gli stimoli di altre persone ma, già dai primi mesi di vita,

si muovono nell’ambiente nelle vesti di “piccoli scienziati”.

Per Piaget i bambini devono essere coinvolti attivamente e più sono piccoli, più e importante che

abbiano la possibilità di apprendere facendo.

L'apprendimento avviene in modo più efficiente se chi apprende è coinvolto nella produzione di oggetti

tangibili.

Fare apprendimento: la dimensione ludica e costruzionista

Jean Piaget considera la conoscenza come la più alta forma di adattamento di un organismo complesso.

Attraverso la vasta mole delle sue ricerche pone in luce lo stretto legame che unisce l’attività ludica,

l’invenzione costruttiva e l’apprendimento.

Prima di andare a scuola i bambini imparano mentre giocano e riescono a giocare bene soprattutto

quando costruiscono. Poi ha inizio quella scuola che con Gardner abbiamo chiamato “uniforme” e le

cose cambiano in modo radicale e irreversibile. Il sistema scolastico impone immediatamente

l’abbandono dei processi spontanei di apprendimento; fondati su improvvisazione, azione costruttiva e

divertimento, e impone l’assunzione di una procedura di apprendimento rovesciata: prima si osserva,

poi si pensa e infine si agisce.

Secondo Piaget il processo educativo svoltosi nei primi vent’anni d’età, trasforma il bambino creativo

in un adulto che costruisce teorie.

Questo percorso spezza definitivamente il legame originario tra gioco e apprendimento, di cui noi tutti

ci siamo serviti per esplorare l’ambiente nei primi sei anni di vita circa. Così l’esperienza ludica viene

confinata all’interno di specifici ambiti sociali, nei quali non è necessario fare le cose seriamente. In

tale prospettiva il gioco diviene pratica esclusivamente ricreativa ed è luogo comune consolidato, che

ciascun adulto responsabile debba aver cura di non mischiare il divertimento con le attività importanti

come lo sviluppo della carriera o la gestione degli affari di famiglia. Accanto all’accantonamento della

dimensione del gioco, la scuola, dopo aver insegnato all’individuo a leggere e scrivere, lo porta a

privilegiare, per comunicare, il linguaggio rispetto ad altre forme quali il disegno, modelli

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tridimensionali o il linguaggio del corpo. L’immagine nella visione piagetiana è quella che per il

sistema scolastico, ciò che non si può descrivere attraverso l’espressione linguistica non esiste.

Dal costruttivismo di Piaget al costruzionismo di Papert: verso nuovi “oggetti per pensare”

Il costruttivismo è un quadro culturale in base al quale il soggetto che apprende è posto al centro del

processo formativo (learning centered). Ciò è in alternativa ad un approccio educativo basato sulla

centralità dell’insegnante (teaching centered) quale depositario indiscusso di un sapere universale.

Questa corrente di pensiero assume che la conoscenza:

− è il prodotto di una costruzione attiva da parte del soggetto;

− è strettamente collegata alla situazione concreta in cui avviene l’apprendimento;

− nasce dalla collaborazione sociale e dalla comunicazione interpersonale.

Accettare e promuovere l’inevitabile confronto derivante da più prospettive individuali è uno degli

scopi fondamentali del costruttivismo. L’apprendimento non è visto solo come un’attività personale,

ma come il risultato di una dimensione collettiva d’interpretazione della realtà. Invece di considerare

l’insegnamento quale processo di trasmissione d’informazioni e l’apprendimento quale elaborazione

indipendente e solitaria di dati, nel costruttivismo si assume che la formazione sia un’esperienza situata

in uno specifico contesto: il soggetto, spinto dai propri interessi, costruisce in modo attivo una propria

concezione della realtà attraverso l’integrazione delle molteplici prospettive offerte.

Il fine ultimo non è l’acquisizione totale di specifici contenuti preconfezionati e dati una volta per tutte,

bensì l’interiorizzazione di un metodo d’apprendimento che renda progressivamente il soggetto

autonomo nei propri processi conoscitivi. In base a tutto questo diviene fondamentale porre molta cura

affinché il contesto formativo sia predisposto in modo tale da poter offrire una varietà di stimoli e

percorsi diversi per l’accesso ai contenuti. Si deve permettere allo studente di attivare un’esplorazione

attiva consona ai propri interessi e/o motivazioni all’apprendimento di nuove conoscenze.

In un tale quadro educativo anche la valutazione assume forme e scopi peculiari. Si parla, infatti, di

valutazione autentica che verifica non ciò che un individuo “sà”, cioè la sua abilità nella riproduzione

delle conoscenze trasmessegli, ma la sua capacità di costruzione e di sviluppo della conoscenza e la

“capacità di applicazione reale” di essa. Si cerca di valutare le reali capacità di ragionamento, di

creatività e di soluzione di problemi in situazioni concrete analoghe o simili a quelle in il soggetto è

stato protagonista attivo della costruzione della sua conoscenza.

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In principio il costruttivismo era lo spostamento del focus dall'insegnamento all'apprendimento, dalla

passività alla didattica attiva, dall'idea di travasare conoscenza alla sensazione che le idee si formano da

sé. Sensazione rafforzata dall'esperienza che parlare e parlare in aula non serve poi molto.

Le conoscenze non possono essere semplicemente trasmesse o trasferite già pronte ad un'altra persona;

persino quando ci sembra di trasmettere informazioni con successo comunicandole a voce, se si

potessero vedere in atto i processi mentali dell'interlocutore si verificherebbe che questi ricostruisce

una versione personale delle informazioni ricevute.

Il vero salto di Seymour Papert, ciò che giustifica il passaggio dal costruttivismo al costruzionismo è la

rivalutazione del pensiero concreto, che Piaget considera solo una fase nel passaggio verso la definitiva

e irreversibile conquista del pensiero astratto e simbolico: "la costruzione che ha luogo nella «testa»

spesso si verifica in modo particolarmente felice quando è supportata da qualcosa di molto più

concreto: un castello di sabbia, una torta, una casa di Lego o una società, praticare attività fisica o un

programma di computer, una poesia, o una teoria dell'universo. Parte di ciò che intendo dire col

termine «concreto» è che il prodotto può essere mostrato, discusso, esaminato, sondato e ammirato.

Perché è lì ed esiste."

L'essere umano, a prescindere dall'età, ha bisogno di avere a disposizione materiali concreti affinché la

conoscenza acquisita sia tanto più vicina alla realtà.

Papert parte dall'osservazione di attività di alcune civiltà africane in cui i bambini costruivano case in

scala o manufatti in giunco. Secondo le sue ricerche la mente ha bisogno di materiali da costruzione

appropriati, esattamente come un costruttore: il prodotto concreto può essere tangibile.

La lentezza dello sviluppo di un particolare concetto da parte del bambino non è dovuta alla maggiore

complessità o formalità, ma alla povertà della cultura di quei materiali che renderebbero il concetto

semplice e concreto. Il bambino apprende così con l'aiuto di artefatti cognitivi. In particolare, Papert

sostiene l'uso del computer come supporto all'istruzione e ambiente d'apprendimento che aiuta a

costruirsi nuove idee. Il computer viene così usato come macchina per simulare.

Non solo il pensiero concreto si trova sistematicamente alla base d’importanti e sofisticate imprese

intellettuali, ma secondo Papert, la supervalutazione dell'astratto blocca il processo pedagogico sia

nella pratica che nella teoria.

Il suo obiettivo rimane la creazione di nuovi "oggetti per pensare" e in questa direzione, le linee di

ricerca sono tre:

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• Apprendere progettando, secondo il modello costruzionista, infatti, chi apprende è facilitato nel creare

nuove idee quando è coinvolto attivamente nel creare oggetti sui quali può riflettere e che può

condividere con altri.

• Apprendere collettivamente, esplorando nuovi modi di interagire.

• Apprendere il comportamento dei sistemi, comunicando in rete, scambiandosi esperienze, trucchi e

problemi.

Una classe funziona come una comunità di pratiche scientifiche in cui i bambini comunicano e

condividono le loro idee, giuste o sbagliate che siano. Si discute ed ognuno apprende dall'altro. Le idee

proposte possono essere valide, altre un po' meno, ma comunque tutti gli allievi partono da uno stesso

piano: ogni idea ha la stessa dignità.

Nelle didattiche proposte da Papert, ha grande importanza la gestione dell'errore: la sua idea è che

l'unico modo per imparare in modo significativo sia quello di prendere coscienza dei propri errori.

Nell’esperienza di Seymour Papert sono per esempio i mattoncini Lego a rivelarsi un potentissimo e

divertentissimo strumento per esplorare il mondo dei comportamenti, le dinamiche dei sistemi, le

interazioni tra individuo e ambiente. In un tipico ambiente costruzionista di apprendimento gli individui

"impareranno nuove cose mentre lavorano ai propri progetti, non come “unità” decontestualizzate che

sono memorizzate solo per il gusto di conoscerle".

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Ken Robinson

Figura 5. Ken Robinson: uno dei maggiori esperti materia di educazione, creatività ed innovazione.

Dalla creatività al Pensiero Laterale

Come dovrebbe essere l’apprendimento di domani? Il quesito ha una risposta con Sir Ken Robinson.

Autore inglese, esperto in materia di educazione, creatività ed innovazione.

Presenza fissa alle TED Conferences (le sue videoconferenze sono state viste in rete più di 7 milioni di

volte), le sue idee sulla creatività e il “lateral thinking” alla base di un nuovo sistema educativo, hanno

fatto il giro del mondo.

La premessa alla tesi di Robinson è molto semplice: la scuola di oggi è una scuola antica, concepita

“nel clima culturale e intellettuale dell’Illuminismo e nelle circostanze economiche della prima

rivoluzione industriale”.

La prova è che le scuole sono ancora organizzate sul modello della linea di produzione, come in una

fabbrica. “Ci sono le campanelle, delle strutture separate, gli alunni si specializzano in materie -

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diverse. Educhiamo ancora i bambini per annate: li inseriamo nel sistema raggruppandoli per età”.

La scuola, quindi, è come una catena di montaggio da cui possono uscire solo due tipi di prodotti:

studiosi e svogliati.

Si tratta di un sistema educativo non al passo con i tempi, secondo Robinson. Non un tempo in cui, su

bambini e adolescenti, convergono le informazioni passate da Internet, dai telefonini e dalla tv.

Ma allora, qual è il tipo di educazione adatta alla nostra epoca?

Robinson prende in causa il “ lateral thinking”, espressione coniata dallo psicologo maltese Edward De

Bono che indica una capacità di risolvere i problemi in modo creativo e da diverse prospettive.

La cosa tragica è che i bambini sono più portati a vedere le cose lateralmente – e quindi a fare più

domande e a trovare più soluzioni – di quanto lo siano gli adulti. Questo non perché la crescita porti per

forza di cose a una chiusura mentale, ma perché i luoghi in cui i bambini crescono invece di sviluppare

e articolare il loro pensiero, lo standardizzano.

“Il problema cruciale”, sostiene Sir Ken Robinson, “risiede nella cultura delle nostre istituzioni, nel

clima che vi si respira e nelle abitudini che hanno consolidato”.

Rivoluzione dell’apprendimento

Da una situazione nella quale non abbiamo idea di quello che succederà in futuro e partendo dal

presupposto che molte persone facciano un uso pessimo dei loro talenti, moltissime trascorrono l'intera

vita senza una reale consapevolezza di quali possono essere le proprie abilità e una miriade di persone

pensano di non essere davvero brave in niente, Robinson valuta l’esistenza di una crisi di risorse

umane.

Per Robinson ciò accade poiché i percorsi scolastici allontanano mediamente le persone dai propri

talenti e passioni naturali.

“Le risorse umane sono come le risorse naturali; giacciono spesso in profondità. Devi andare a

cercarle. Non si presentano in superficie. Bisogna creare le condizioni per permettere ad esse di

manifestarsi. E ci si può immaginare che è l'educazione il contesto dove ciò accade.”

Robinson nonostante associa un ruolo preminente ai sistemi educativi, ne riconosce la loro

inadeguatezza. Nella sua visione non solo le riforme non servono più a niente, perché semplicemente

migliorano un modello fallimentare, ma ritiene che ciò di cui abbiamo bisogno sia una rivoluzione

nell'educazione. Tutto deve essere trasformato in qualcos'altro.

Una delle sfide più cruciali è di innovare alle fondamenta i sistemi educativi.

Innovare risulta difficile perché significa fare qualcosa che per la gente non è così semplice: significa

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mettere in discussione ciò che diamo per scontato, le cose che pensiamo siano ovvie.

“Il grande problema delle riforme o delle trasformazioni è la tirannia del senso comune, quando la

gente pensa, «Beh, non si può fare in altro modo perché è così che si fa».”

Nella sua più celebre TED Conference “Bring on the Learning-Revolution” utilizza una frase di

Abraham Lincoln per spiegare la forza delle nostre abitudini mentali:

"I dogmi del tranquillo passato sono inadeguati al burrascoso presente. La situazione è irta di

difficoltà e dobbiamo essere all'altezza con la situazione. Poiché il caso è nuovo, dobbiamo pensare in

modo nuovo ed agire in modo nuovo. Dobbiamo emancipare noi stessi e così salveremo il nostro

Paese.”

Per Robinson emanciparsi significa che ci sono delle idee alle quali siamo assoggettati, che

semplicemente diamo per scontate come ordine naturale delle cose, e molte delle nostre idee sono state

formate non per far fronte alle circostanze di questo secolo, ma per far fronte alle circostanze dei secoli

precedenti. Ritenendo che anche nell’istruzione ci sono idee che imbrigliano, individua una di queste

nell’idea di linearità del percorso scolastico, il quale comincia e prosegue su un percorso

esclusivamente prefissato.

Figura 6. RSA Animate Chancing Paradigm: economia e cultura alla base della Rivoluzione dell'apprendimento

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Le chiavi per apprendere: la passione

Al cuore della sfida c'è la ricostituzione dell'idea di abilità e di intelligenza, come Gardner anche

secondo Robinson, infatti, le comunità umane si reggono sulla diversità dei talenti, non su una singola

concezione di abilità. Ci sono ragazzi più bravi in certe materie, o in certi momenti della giornata,

alcuni vanno meglio se lavorano i gruppi piccoli o grandi, altri se lavorano da soli… Non solo il talento

umano è tremendamente diversificato e le attitudini delle persone sono molto diverse, ma Robinson ne

fa un anche questione di passione. Spesso le persone sono brave nelle cose che gli interessano.

“È questione di passione e di ciò che entusiasma il nostro spirito e ci dà energia. E se si fanno le cose

che si amano, quelle per le quali si è bravi, il tempo prende una nuova strada completamente.”

In quest’ottica la ragione per la quale così tante persone rinunciano all’istruzione è perché non nutre il

loro spirito, non alimenta la loro energia o la loro passione.

Con rivoluzione dell’apprendimento Robinson intende un cambio di metafore:

“Dobbiamo passare da un modello industriale dell’educazione a un modello di produzione, che non è

basato sulla linearità e sul conformismo ma sulla segmentazione delle persone. Dobbiamo passare ad

un modello basato più sui principi dell’agricoltura. Dobbiamo riconoscere che la crescita dell’essere

umano non è un processo meccanico, bensì un processo organico. Non si può predire il risultato finale

dello sviluppo umano; tutto quel che possiamo fare, come un agricoltore, è creare le condizioni entro

le quali cominceranno a crescere e svilupparsi.”

Le chiavi per apprendere: l’errore Parlando di educazione, Robinson si occupa anche della vera capacità di innovazione: la creatività.

“La creatività – afferma – è un processo che genera idee originali che hanno valore; il pensiero

laterale è una capacità (essenziale per la creatività) di vedere molteplici risposte a una medesima

domanda”.

Riconoscimento particolare a tale dimensione creativa è posta nel valore dell’errore. Secondo

Robinson, infatti, se non siamo preparati a sbagliare non poteremo mai pensare a qualcosa di originale.

Se tale valore è ampiamente riconosciuto in giovanissima età, sia nei sistemi nazionali d’istruzione

dove gli errori sono la cosa più grave che si possa fare sia nei contesti aziendali dove si tende a

stigmatizzare l’errore, tale visione porta a educare le persone escludendole della loro capacità creativa.

Se ogni sistema educativo è basato sull'idea di abilità accademiche, conseguenza è che tante persone di

talento, persone brillanti, creative, credono di non esserlo, poiché la cosa per la quale erano bravi a

scuola non le si dava valore, o era perfino stigmatizzata.

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Non solo sopravvivere ma abitare un presente complesso

Un ripensamento radicale dell’idea di intelligenza:

“Sappiamo tre cose sull'intelligenza. Anzitutto, che è varia. Pensiamo al mondo in tutti i modi nei quali

lo percepiamo. Riflettiamo visualmente, uditivamente, cinesteticamente. Pensiamo in modo astratto, in

movimenti. Secondo, l'intelligenza è dinamica. Se guardiamo le interazioni di un cervello umano,

l'intelligenza è meravigliosamente interattiva. Il cervello non è suddiviso in compartimenti. Infatti, la

creatività – che io definisco come il processo che porta ad idee originali di valore – si manifesta spesso

tramite l'interazione di modi differenti di vedere le cose.”

Sir Robinson, esperto di creatività e innovazione nell’apprendimento, nei suoi diversi contributi espone

temi importanti in tempi complessi come il nostro:

− La difficoltà di fare previsioni

− La straordinaria importanza della creatività per affrontare il nuovo e l’imprevisto

− La capacità dei bambini di essere aperti all’innovazione

− L’importanza di tollerare un margine d’errore per innovare

− Come, sempre più, la ricchezza e completezza della persona sia necessaria al suo essere

professionista

− La scuola e la società hanno parametri e valori troppo angusti per far emergere talenti

− L’inflazione e svalorizzazione della laurea

− Ripensare il concetto di intelligenza: variegata, interdisciplinare

− Un’ecologia delle capacità umane

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Jonh Hunter

Figura 7. Jonh Hunter: nel coinvolgimento “non formale”, come il gioco si ottiene l’acquisizione di competenze.

L’apprendimento come processo: gioco e collaborazione

Nel mondo odierno è necessario dare spazio all'apprendimento collaborativo ponendo maggiore enfasi

sui processi piuttosto che sui contenuti al fine di permettere agli studenti di essere in grado di fare le

domande, verificare le risposte, interpretarle e metterle in atto nella loro vita quotidiana.

Un esempio tenero e accattivante di un modo nuovo di pensare alle modalità di fare apprendimento è

senza dubbio quello del maestro John Hunter e del suo World Peace Game che attraverso un originale

gioco educativo, raccoglie “tutti i problemi del mondo” su una serie di pannelli sovrapposti e lascia che

i suoi alunni delle elementari li risolvano a loro modo.

Un esempio di come il coinvolgimento dei piccoli in modo “non formale” permetta di ottenere una

concreta acquisizione di competenze anche molto sofisticate, dalla filosofia, all'analisi dei sistemi, alla

risoluzione delle crisi, al rispetto dell'ambiente, alla percezione dei limiti delle risorse.

Hunter va nella medesima direzione portando un esempio divertente di cosa significhi dar spazio ai

processi anche quando si parla di bambini e di questioni particolarmente delicate del futuro del mondo.

Hunter sceglie la strada non di “impartire una lezione o far leggere qualcosa” ma di fare in modo che i

bambini si immergano “nella sensazione di imparare”.

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Durante la sua TED Conference “Teaching with the World Peace Game”, spiega come il suo World

Peace Game coinvolga gli alunni delle elementari, e come la lezione che insegna, spontanea e sempre

sorprendente, superi i risultati delle lezioni in classe.

Riprendendo brevemente la sua esperienza, John Hunter, fu un insegnante di talento e consulente

educativo, che ha dedicato la sua vita ad aiutare i bambini nella realizzazione del loro pieno potenziale.

Durante gli anni universitari, ha viaggiato e studiato religione e filosofia in tutto il Giappone, l'India e

la Cina. Nella culla del pensiero gandhiano, Hunter, incuriosito dai principi della non-violenza, ha

cominciato a pensare come la sua professione potesse contribuire alla pace nel mondo.

Giunto all’insegnamento nella scuola primaria di Richmond negli Stati Uniti, voleva che i suoi studenti

riflettessero sui problemi mondiali, e fu così che nel 1978 inventò il gioco della pace nel mondo.

John Hunter è portavoce dell'approccio che oggi l'apprendimento si dovrebbe basare non tanto

sull'acquisizione di conoscenza quanto piuttosto sulla necessità di creare significati, cercare nessi,

individuare strutture e nuove relazioni.

Nella sua prospettiva, John Hunter intendeva mettere i suoi studenti di fronte all’esplorazione della

complessità del mondo, e sotto la lente della pratica del gioco, rafforzare nel contempo la capacità di

collaborazione e di comunicazione.

Un gioco di “simulazione politica” che offre agli studenti l'opportunità di esplorare la connessione della

comunità globale attraverso la lente della crisi economica, sociale e ambientale e la minaccia

imminente di una guerra.

Tale percorso si basa quasi esclusivamente sulla natura del rapporto tra l'insegnante e gli studenti e tra

gli studenti stessi. In tale visione Hunter trasferisce il potere agli studenti e crea il rispetto per le idee

divergenti. Il gioco è strutturato come una torre multi-livello ricoperta da migliaia di piccoli giocattoli,

distribuiti su diversi piani che vanno a ricostruire una società e i suoi diversi ambienti complessi.

“C'e uno strato per lo spazio con buchi neri e satelliti e satelliti di ricerca e cacciatori di asteroidi. C'è

un livello per l'atmosfera con nuvole fatte di cotone che spostiamo e spazi aerei territoriali e forze

militari aeree, ed un livello per il mare e la terra con migliaia di pezzi di gioco -- anche un livello

sottomarino con sottomarini e minatori subacquei. Ci sono quattro paesi sul tabellone. I bambini

inventano i nomi dei paesi – alcuni sono ricchi altri poveri. Hanno risorse diverse, assetti militari e

commerciali diversi. Ed ogni paese ha un governo. Ci sono il primo ministro, il segretario di stato, il

ministro della difesa il ministro delle finanze ed il ragioniere generale dello stato. Scelgo io il primo

ministro sulla base delle mie relazioni con loro. Gli offro il lavoro, possono rifiutarsi, e poi scelgono il

loro consiglio dei ministri. Ci sono la Banca Mondiale, i venditori di armi e le Nazioni Unite. C'è

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anche la dea del clima che controlla la casualità dei mercati e delle condizioni meteo.

Non è tutto. C'è anche un documento di crisi lungo 13 pagine con 50 problemi interdipendenti. Così se

cambi un fattore, cambi anche tutti gli altri. Li conduco in questa complessa matrice e si fidano di me

perché hanno delle ottime, profonde relazioni tra di loro.”

Modelli climatici imprevedibili, erosione, fuoriuscite di petrolio, debito, carestia, esplorazione,

conflitto politico, attacchi, turismo, queste cose sono tutte prese in considerazione, discusse in

conferenze guidate da presidenti e primi ministri, concordate da speciali comitati. In tale realistico

contesto gli studenti sono divisi in paesi, e data una serie di complessità devono cercare di risolverle

con l’aiuto di una buona collaborazione, creatività e comunicazione.

“Su aspetti di guerra, non cerco di negare loro la realtà dell’essere umano. Consento loro di andarci e

di imparare con l'esperienza, senza spargimento di sangue come fare per non fare quel che ritengono

essere sbagliato. E loro scoprono cosa è giusto a modo loro e da soli. Così in questo gioco, da cui ho

imparato molto, direi che se anche solo riuscissero ad ottenere uno strumento di pensiero critico o uno

strumento di pensiero creativo da questo gioco e se lo sfruttassero per fare bene al mondo, potrebbero

salvarci tutti.”

Risolvere i problemi nel gioco è sicuramente un processo complesso, con false partenze, valutazioni

inesatte e impulsi sbagliati; nell’esempio illustratoci dalla TED Conference e dal film precedutogli

“World Peace and Other 4th-Grade Achievements” il pensiero di sbagliare e la mancanza di via d'uscita

non sembra riguardare i bambini, anche se le situazioni presentate sono strutturate per apparire in quel

modo.

Il professor Hunter nel suo insegnamento della collaborazione, pensiero critico e problem solving,

riesce a scoprire ciò che uno studente ama di più, le sue passioni e interessi, e nella sua visione ritiene

che le competenze possano evolvere durante il processo di apprendimento facendo ciò che amano.

Il potere dell’apprendimento attraverso il gioco è quello di stimolare sia gli studenti ma anche gli

insegnanti.

“Abbiamo messo qui tutti i problemi del mondo, e pensai, proviamo a risolverli. Non volevo impartire

una lezione o far leggere qualcosa. Volevo che si immergessero nella sensazione di imparare, sentirla

attraverso il corpo. Così pensai che gli piace giocare…”

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Inter Campus

Figura 8. Inter Campus. Foto di Franco Origlia “Petites historias das criancas"

Le potenzialità del linguaggio del gioco e di un pallone che rimbalza

Diversi sono i contesti dove acquisire conoscenza, diversi sono gli spazi dove contaminare l’esperienza

e diversi sono i contributi che ciascuno può offrire per affrontare con maggiore consapevolezza la

propria quotidianità. Questo può essere il punto di partenza per l’apprendimento vissuto attraverso

l’esperienza di Inter Campus e la base di un motto che più o meno recita: “Un pallone che rimbalza per

cambiare una vita.”

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Più scuola non è sufficiente. Abbiamo bisogno di modi diversi e il modo migliore per imparare.

La chiave che è quella di creare, all'interno e all'esterno della scuola, sistemi e strutture che consentono

relazioni più empatiche e forti.

L’esempio di Inter Campus suggerisce come oggi, per comprendere il futuro della formazione non sia

più possibile osservare solo i pur ottimi esempi finlandesi, da sempre citati nei casi in cui si parla di

innovazione formativa. Le innovazioni radicali, infatti, nascono in posti dove i bisogni e le domande

non soddisfatte si scontrano con risorse insufficienti.

Gli alleducatori di Inter Campus sono andati in giro per il mondo a cercare nuove forme di educazione,

e le ha trovate nelle favelas di Rio de Janeiro, nei villaggi della Cambogia, negli orfanotrofi in

Romania, dove alcuni fra i ragazzi più poveri del mondo hanno trovato nuovi modi di apprendere.

Gente diversa sotto vari aspetti: territorio, cultura, età, abilità. Il linguaggio del gioco e dello sport,

come quello dell’arte, della danza, della musica, della poesia, è una lingua universale, attraverso la

quale tutti sono in grado di comunicare e comprendersi.

Figura 9. Inter Campus. Foto di Franco Origlia “Petites historias das criancas"

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A unire, infatti, sono soprattutto i valori, gli ideali in cui si crede. I valori dello sport sono l’amicizia, la

lealtà, la solidarietà, l’impegno, il coraggio, il miglioramento di sé, la pace. Si tratta di ideali universali,

validi per tutti e in ogni tempo.

Inter Campus esplora le potenzialità delle attività sportive, la formazione dei giovani e il calcio nel

particolare è un linguaggio universale, oltre che un potente strumento educativo.

Il fenomeno sportivo, nelle sue molteplici accezioni, ha avuto nel corso degli ultimi anni un interesse

unanime e diffuso tanto da poter essere rappresentato come uno dei più importanti veicoli di

comunicazione in ogni settore di interesse. Lo sport, come elemento di aggregazione per i risvolti

sociali che rappresenta, è entrato nella vita della maggior parte delle famiglie come risposta, talora

neppure velata, ai problemi dell’abbandono dei minori e della criminalità da strada.

Lo sport ha anche assunto sempre più importanza nel sistema delle Nazioni Unite in virtù del

contributo che esso può dare al raggiungimento degli obiettivi dell'organizzazione mondiale: lo sport

riguarda la partecipazione, l'inclusione, la cittadinanza; lo sport unisce gli individui e le comunità; dai

campi per i rifugiati, alle slum, dalle zone di guerra, alle periferie violente delle città, lo sport può

migliorare la vita di ogni giorno delle persone vulnerabili e bisognose. Se dunque lo sport ha un ruolo

per puntare lo sguardo sui diritti umani internazionalmente riconosciuti, tale obiettivo è perseguito da

Inter Campus attraverso la promozione del gioco del calcio e il sostegno dei valori sportivi per educare

le giovani generazioni a lavorare per la promozione della stabilità sociale, la riconciliazione e il dialogo

tra le comunità.

Gli alleducatori di Inter Campus con la loro presenza e contatto con le comunità locali hanno lavorato

assieme per condividere la propria conoscenza, discutere le buone pratiche e trovare soluzioni per

usare il potenziale enorme dello sport, il suo potere comunicativo, la sua portata, il suo effetto sulle

comunità, e sui giovani in particolare, e la sua influenza.

Una storia di bambini e di calcio, di professionisti seri ma semplici, di fantasia e di impegno. Un

progetto sociale concreto, che raccoglie più di diecimila bambini in venticinque Paesi. Gli "alleducatori

itineranti" molto preparati, sicuramente coraggiosi e pieni di sentimento sono il fulcro del cammino

educativo di Inter Campus. Girano nei 25 paesi del progetto, tengono corsi di aggiornamento per i

locali (gente di ogni mestiere, dal medico all'operaio, dall'insegnante al fruttivendolo) che diventano a

loro volta i maestri dei bambini di strada. Maestri con cui tirare quattro calci al pallone, ma soprattutto

maestri di vita per i bimbi, gli adolescenti e le loro famiglie.

Dalla Bolivia alla Cina, dall'Uganda a Cuba, dalla Cambogia al Messico, dalla Bulgaria al Camerun,

dal Congo all'Iran, migliaia di bambini vestono ogni anno la maglia nerazzurra in campetti sterrati, in

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strade con fogne all'aria aperta, in realtà diverse e difficili, in posti dove la violenza è spesso di casa.

Ogni paese ha la sua storia diversa e sono imparagonabili tra di loro anche se lo scopo e il fine è il

medesimo.

Figura 10. Francesco Toldo, ambasciatore Inter Campus. Foto di Franco Origlia “Petites historias das criancas"

Il calcio è il veicolo, ma il fine è qualcosa di molto più grande. Poiché il concetto di educazione è

legato a quello di personalità e di socialità, in quanto l’individuo interagisce con altri individui, e

poiché il concetto di socializzazione esprime quell’insieme di processi interattivi dell’individuo

all’interno di una collettività, ne consegue che gestire correttamente le situazioni di insegnamento o

allenamento comporta, necessariamente, fare opera di apprendimento.

Il gioco ha spostato le sue coordinate da unico momento di normalità all’interno di una situazione di

degrado, fino a posizionarsi come un elemento importante e fondamentale per un percorso educativo.

Saranno, infatti, la maglia dell’Inter regalata ad ogni bambino e un’attività di calcio strutturata e

divertente gli incentivi che potranno recuperare i bambini alla scuola.

Inestimabile il valore della gioia e dello stupore dei bimbi liberi di correre nei campi da calcio

divertendosi con un pallone, invece di camminare ora dopo ora nei corridoi degli istituti o per la strada.

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Se stimolate correttamente, la grande passione e l’entusiasmo dei bambini permettono loro di imparare

più facilmente, superando addirittura gravi problemi comportamentali o motori con il supporto della

costante attività sportiva di gruppo organizzata dagli educatori Inter Campus.

A un progetto di formazione scolastica e un normale sviluppo fisico appartiene anche lo sport, veicolo

per raggiungere le differenze e appianare le difficoltà, e con le sue note valenze di svago, incontro,

confronto, disciplina e solidarietà, si qualifica come un eccellente strumento d’integrazione.

Inter Campus ha imparato come utilizzare lo sport per unire e crescere: “Crediamo che sia molto

saggio occuparsi dei bambini dove questi ci sono e fare insieme qualcosa che a loro piaccia davvero, e

farlo in modo costruttivo per diventare grandi. Lo sport è unione, luogo di educazione e crescita, un

luogo nel quale la gente lavora insieme, perché ciò che conta da sempre e per sempre è la squadra,

quella che insieme vince o perde”.

Inter Campus sceglie la strada non di “impartire una lezione o far leggere qualcosa” ma di fare in modo

che i bambini si immergano “nella sensazione di imparare”. Tale processo è portavoce dell'approccio

che oggi l'apprendimento si dovrebbe basare non tanto sull'acquisizione di conoscenza quanto piuttosto

sulla necessità di creare significati, cercare nessi, individuare strutture e nuove relazioni.

Figura 11. Inter Campus. Foto di Franco Origlia “Petites historias das criancas"

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Il contesto diventa la chiave di lettura per esplorare le diverse realtà di Inter Campus; se il valore

dell’esperienza è Divertirsi, giocare, andare a scuola, il segreto sta nell’operare direttamente nei

diversi Paesi.

Dalle parole del responsabile Area Tecnica e Organizzativa, Aldo Montinaro:

“Si chiamassero Rio de Janeiro, Kali, fossero terre dove la guerra stava imbastardendo la vita, come

in Kosovo, o in Palestina, oppure ancora Paesi davvero difficili, come l’Iran e il suo islamismo, o il

Camerun con le sue etnie, poco importava. Erano gli istruttori a fare i bagagli e trasferirsi lì.

I bambini rimanevano a casa.”

Nell’esperienza nerazzurra nei venticinque Paesi in cui opera, il potere dell’apprendimento attraverso il

gioco è quello di stimolare sia gli studenti ma anche gli insegnanti. Inter Campus propone modelli

formativi a degli allenatori locali che si occupano della quotidianità: i modelli didattici non sono una

scatola chiusa ma 25 modelli differenti in ogni paesi. Processi formativi nel medio lungo termine, non

soltanto a livello tattico-fisico destinati ai diversi bambini e allenatori ma un legame forte con le

questioni sociali, la scuola, alla religione, all’ambiente, tenendo presente anche la cultura calcistica.

Due prerequisiti di successo sono un’efficace comunicazione nel linguaggio, con uno studio pre-

viaggio delle parole chiave da utilizzare, e una dimostrazione pratica con l’utilizzo del linguaggio del

corpo per iniziare il percorso di apprendimento legato ad un pallone che rotola.

Il mondo di Inter Campus è diventato un'esperienza ricchissima di storie di vita, maturata in anni di

lavoro portato avanti a volte in condizioni quasi proibitive, con molta determinazione e coraggio,

recuperando al calcio e quindi al gioco bambini di realtà diverse come in Brasile, Cina, Camerun,

Cambogia.

La storia di Inter Campus è la storia di uomini, persone, che ogni giorno usano l’Inter come veicolo di

mediazione culturale per entrare in contatto con realtà dove il calcio non è uno show ma un’occasione

di sorridere di cuore. Le parole di Francesco Toldo, ex portierone e ora ambasciatore dell’iniziativa:

“Ho scoperto nei paesi poveri che i bambini sono felici, noi pensiamo che siano soltanto disagiati

poiché non hanno nulla, ma con un pallone in mano e il minimo necessario per sopravvivere si

divertono. Anche dove la guerra ha portato distruzione esiste ancora un futuro, e il futuro sono proprio

i bambini. LA FELICITÀ È ANCHE UNA MAGLIA NERAZZURRA”.

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Sugata Mitra

Figura 12. Esperimento "buco nel muro". Sugata Mitra per una scuola alternativa

La curiososità muove un nuovo apprendimento

L’ultimo esempio illustra l’istruzione primaria in un contesto molto specifico e ci arriva da un

imprenditore sociale rivoluzionario di nome Sugata Mitra che ha realizzato le sperimentazioni più

radicali, mostrando come i bambini, nelle condizioni favorevoli, possono insegnarsi l'un l'altro con

l'aiuto di computer.

Sugata Mitra è Professore di Tecnologia della Didattica e Direttore di Ricerca presso la School of

Education, Communication and Language Sciences, all’Università di Newcastle, nel Regno Unito. Da

diversi anni sta portando avanti una serie di esperimenti per mettere a punto un programma di azioni ed

interventi mirati sul tema delle nuove tecnologie e delle nuove modalità di apprendimento, per favorire

un radicale cambiamento nelle metodologie dell’insegnamento.

“ci sono posti sulla terra, in ogni paese, in cui, per varie ragioni, buone scuole non possono essere

costruite e buoni insegnanti non possono o non vogliono andare.

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Come si fa ad assicurare apprendimento alle persone quando non ci sono insegnanti, quando gli

insegnanti non verranno, quando non te li puoi permettere, e anche se alla fine li trovi, quello che

insegnano non è importante per la comunità in cui prestano servizio?”

Sugata Mitra iniziò nel 1999 a cercare di risolvere questo problema con un esperimento molto semplice

a New Delhi. Gli esperimenti per una scuola alternativa sono chiamati gli esperimenti del “buco nel

muro”. Insieme ad alcuni collaboratori installa un computer in un muro di cinta del suo ufficio,

accessibile dall’esterno, e ne permette ai ragazzi il libero accesso.

I bambini a malapena andavano a scuola, non conoscevano affatto la lingua inglese, non avevano mai

visto un computer prima di allora e non sapevano cosa fosse internet. Ha attaccato una connessione

internet al computer, piazzato a circa un metro da terra, l'ha acceso e l'ha lasciato lì. Ha replicato

l'esperimento in tutta l’India e successivamente in molte parti del mondo e verificato che i bambini

imparano a fare quello che vogliono imparare. Alla fine degli esperimenti, ha concluso che gruppi di

bambini possono imparare ad usare il computer e internet da soli, indipendentemente da chi fossero o

da dove si trovassero. Il progetto “buco nel muro” dimostra che, anche in assenza di un intervento

diretto da parte di un insegnante, un’installazione che stimola la curiosità produce conoscenze e saperi

condivisi.

Durante la conversazione con due ragazzini, illustrataci da Sugata Mitra nel suo contributo alla TED

Conference “Sugata Mitra shows how kids teach themselves”, possiamo intuire il successo e la portata

dei suoi esperimenti di apprendimento: “Ho lasciato il PC con molti CD – non c’era Internet e sono

tornato tre mesi dopo. Quando sono arrivato, ho trovato questi due bambini, di 8 e 12 anni, che

stavano giocando al computer. Appena mi hanno visto mi hanno chiesto un processore più veloce e un

mouse migliore. Ero sinceramente sorpreso. Come potevano sapere tutte quelle cose? Risposero che

l’avevano imparato dai CD. Ho chiesto loro come avessero capito come funzionavano. Mi risposero:

«Hai lasciato questa macchina che parla solo in Inglese, così abbiamo dovuto impararlo». Ho

controllato, e stavano impiegando 200 parole inglesi tra loro - pronunciate male, ma usate

correttamente – parole come: esci, stop, trova, salva, questo genere di cose, non solo riguardo al

computer ma anche nella conversazione corrente. Così, Madantusi sembrava mostrare che la lingua

non è una barriera, tanto che sarebbero in grado di insegnarsela a vicenda se davvero lo volessero.

Tutti loro imparano sia guardando sia facendo. Sembra contro-intuitivo rispetto all’apprendimento in

età adulta, ma i bambini di otto anni vivono in una società in cui per la gran parte del loro tempo si

sentono dire “non fare questo”, “non toccare la bottiglia di whiskey”. Cosa fa allora il bambino di

otto anni? Osserva molto attentamente come andrebbe toccata una bottiglia di whiskey. E se lo

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interroghi, risponderebbe in modo corretto a tutte le domande sull’argomento. Sembrano essere in

grado di imparare molto rapidamente. Queste sono allora le mie quattro frasi-chiave. La lontananza

influisce sulla qualità dell’istruzione. Le tecnologie per l’istruzione dovrebbero essere introdotte

dapprima nelle aree remote e nelle altre successivamente. I valori si acquisiscono; dottrine e dogmi

sono imposti – due meccanismi opposti. E l’apprendimento è più probabilmente un sistema auto-

organizzante. Mettendole tutte e quattro insieme si ottiene - a mio avviso - un risultato, una visione, per

la tecnologia dell’apprendimento. Tecnologia e pedagogia digitali, automatiche, tolleranti l’errore,

minimamente invasive, connesse e auto-organizzate.”

Il Professore sta lavorando anche al progetto Sole and Some, conosciuto anche sotto il nome di Granny

Cloud: un gruppo di nonne inglesi ha accettato volontariamente di offrire un’ora del proprio tempo, una

volta a settimana, per supplire alla carenza di insegnanti nelle scuole indiane tramite videoconferenze

su skype, durante le quali raccontano storie, cantano, conversano e stimolano idee e nuovi modi di

guardare le cose vecchie.

Dall’esperienza di Sugata Mitra la prima affermazione a cui potremmo subito pensare è “un insegnante

che può essere sostituito da una macchina, dovrebbe essere sostituito” o in altre parole che

l’insegnante come tradizionalmente viene inteso risulta superfluo. Con il computer si ottengono gli

stessi risultati e forse lo spirito di ricerca e l’innovazione ci guadagnano. La seconda considerazione

risulta molto più interessate nella visione di un nuovo apprendimento: se un bambino è interessato,

allora l’istruzione ha luogo. I bambini, infatti, imparano velocemente a navigare e trovare le cose che

gli interessano. Tali ricerche aprono prospettive rivoluzionarie nel campo dell’insegnamento abbinato

alle nuove tecnologie: in generale quando si è in grado di catturare l’interesse, avviene anche

l’apprendimento.

Sugata Mitra, in via sperimentale sta cercando di provare la tecnologia per l'apprendimento che rende

quest’ultimo divertente e accessibile. Tale metodologia pone il soggetto che apprende al centro del

processo formativo, dando spazio al learning centered quando, fino a poco tempo fa, esso si basava sul

teaching centered.

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Intelligenza sportiva

Introduzione La presentazione di tale capitolo non può che partire da una semplice considerazione sull’uomo inteso

come unità-complessità biologica di mente e corpo che vive e si rapporta attraverso differenti forme di

motricità nell’ambiente fisico e socio-relazionale: fin dal momento del suo concepimento acquisisce la

possibilità di comunicare e dunque di mettersi in relazione con l’ambiente.

Il gioco e il movimento sono linguaggi naturali e culturali della nostra specie e condividono con gli

altri linguaggi umani la stessa complessità strutturale; ciò era abbastanza scontato anche per l’olandese

Huizinga2 quando lo classificava come forma di linguaggio. Il linguaggio del corpo accompagna

l’uomo per tutto l’arco della vita ogni qualvolta avvenga un movimento involontario, riflesso,

spontaneo, volontario e controllato, automatizzato o in taluni casi anche patologico.

L’uomo possiede la capacità di comunicare attraverso il corpo ma anche di utilizzare le forme di

comunicazione efficace in contesti relazionali abituali, espressivi o sportivi.

Lo Sport come fenomeno culturale Pensare e frequentare lo Sport significa originare un processo di apprendimento, esplorare uno

strumento da cui ricevere passione e visioni, ricercare, creare, porsi domande e incontrare fallimenti.

Il valore dell’esperienza sportiva, sta nel suo essere innanzitutto un’occasione di comunicazione fra

individui, un fenomeno culturale condiviso in ogni parte del mondo.

Alla voce cultura sul dizionario si può incontrare questa definizione: “Complesso delle manifestazioni

della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo, in relazione alle varie fasi di un processo

evolutivo o ai diversi periodi storici o alle condizioni ambientali”.

Una tale accezione di cultura enfatizza il valore del riconoscimento collettivo e della condivisione, la

scelta della metafora sportiva proprio perché esperienza che non si rivolge tanto al singolo individuo

ma a un popolo e al complesso di “manifestazioni” in cui esso si riconosce. Con tale esperienza non si

sta facendo tanto riferimento a qualcosa di generato dalla cultura individuale, quanto a tutto ciò che è

condiviso, a più livelli, da un certo numero di persone.

2 J. Huizinga, Homo ludens, Einaudi, 1949

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L’esperienza di sport come strumento per lo sviluppo di capacità tecniche e mentali, l’esplorazione del

valore dell’errore, della collaborazione e dell’improvvisazione fino al tema dello scambio all’interno

delle organizzazioni d’impresa.

Fonte di apprendimento Il movimento, e lo sport nel particolare, sono alla base di un’intelligenza motorio-cinestica interpretata

come strumento per migliorare l’apprendimento e contribuire a sviluppare competenze spendibili nella

vita di relazione e nel mondo del lavoro.

Lo Sport, in quanto efficace mezzo educativo, attraverso un adeguato percorso progettuale, permette

agli individui già in età scolare di sviluppare funzioni importanti di tipo neuro-cognitivo e di potenziare

la motricità di base, la motricità relazionale ed i comportamenti sociali.

La pratica sportiva è collocata in una realtà generale complessa e in rapido e continuo cambiamento,

dove domina l’incertezza, la precarietà, la mancanza di punti di riferimento, caratterizzata da:

− diffusione della tecnologia: la nuova rivoluzione industriale è in corso e provoca mutamenti

molto rapidi delle tecniche, dei profili professionali e delle competenze;

− cambiamento dei processi produttivi e incertezza nel mercato del lavoro;

− moltiplicazioni delle informazioni;

− globalizzazione dell’economia;

L'offerta di apprendimento oggi, è spesso di tipo policentrico, il mercato è estremamente mutevole e

talvolta non è dotato di una progettualità educativa. Occorre quindi, sviluppare esperienze aggregative

con elevati coefficienti di immaginazione, fantasia, avventura. La rete territoriale dovrebbe fornire

occasioni di socializzazione, di ricerca e sviluppo creativo, in un rapporto sempre più stretto tra fare e

pensare.

Lo sport come fonte di apprendimento può essere il crocevia della strategia della formazione integrata

per tutti. Dal punto di vista metodologico, oltre all’approccio multilaterale, va sottolineata la particolare

attenzione al contesto ludico ed alla stimolazione della capacità di collaborare nelle fasi di

apprendimento.

Le competenze che si possono sviluppare durante la pratica sportiva indicano, quindi, la capacità di

usare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro e di

studio e nello sviluppo professionale e/o personale.

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Il contributo formativo della pratica sportiva

Il contesto: dallo sport alle competenze della società complessa Le società odierne sono in continuo mutamento, fenomeni come la globalizzazione e la

modernizzazione stanno rivoluzionando l'agire quotidiano; mettendo gli individui di fronte a nuove

problematiche che richiedono competenze diverse.

Dall'inizio degli anni novanta a oggi il concetto di competenza ha acquisito una centralità fortissima

nella letteratura specializzata e nelle indicazioni normative, incluse quelle emanate dagli Organi

Europei.

L'Unione Europea ha deciso di seguire la strada delle competenze perché esse sono qualcosa di diverso

dalla semplice conoscenza in quanto fanno riferimento alla capacità di rispondere a richieste complesse

affidandosi a risorse psicosociali in un particolare contesto.

A tale proposito la Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006

individua 8 competenze chiave per l'apprendimento permanente e per realizzare la strategia di sviluppo

per il futuro; requisiti necessari ad ogni cittadino per riuscire ad inserirsi con successo all'interno

dell'ambito sociale e lavorativo.

Otto ambiti di competenze chiavi:

1. Comunicazione nella madrelingua;

2. Comunicazione nelle lingue straniere;

3. Competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia;

4. Competenza digitale;

5. Imparare ad imparare;

6. Competenze sociali e civiche;

7. Spirito di iniziativa e imprenditorialità;

8. Consapevolezza ed espressione culturale.

Il termine competenza è stato riferito a una combinazione di conoscenze, abilità e attitudini appropriate

al contesto.

Allo stesso tempo, le “competenze chiave” sono quelle di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e

lo sviluppo personali, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione. Con la pratica sportiva

l’obiettivo è contribuire a far acquisire agli individui quelle conoscenze e quelle abilità che

svilupperanno delle competenze indispensabili in una società complessa.

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Le abilità di vita, oggi ritenute indispensabili per fronteggiare il futuro:

− Saper prendere decisioni;

− Saper cogliere i nessi causali tra gli eventi, per analizzare le ragioni e prevedere le conseguenze;

− Saper cooperare;

− Saper progettare;

− Saper risolvere i problemi;

− Saper adattarsi a nuove esperienze;

− Saper comunicare chiaramente;

− Pensiero creativo;

− Pensiero critico;

− Presa di decisione;

− Comunicazione efficace;

− Empatia;

− Gestione delle emozioni;

− Gestione delle relazioni interpersonali;

− Autoconsapevolezza;

− Gestione dello stress.

Queste abilità dovrebbero far parte del comune repertorio di competenze psico-sociali dei bambini e dei

giovani.

Un’intelligenza sportiva sviluppa un’organizzazione mentale che regola sequenze psicomotorie,

favorendo nei bambini e nei ragazzi una concentrazione mentale necessaria per eseguire gli schemi

delle diverse discipline sportive.

Tale mentalità offre un contributo allo sviluppo completo ed armonico della personalità ed è senz’altro

utile ai giovani di oggi abituati a distrarsi facilmente e mantenere la concentrazione dell’attenzione su

bassi valori nel tempo. In generale permette ad ogni individuo di assumere processi decisionali che

consentono di assumersi delle responsabilità. Le capacità decisionali e di responsabilità, infatti, sono

pre-requisiti indispensabili ad ogni tipo di apprendimento.

Interazione tra Sport ed ambiti disciplinari La pratica sportiva, a partire dall’ambito dell’educazione, quindi nel contesto scolastico predisposto in

primis a promuoverla, si presta in modo particolarmente efficace ad interagire con diversi ambiti

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disciplinari, correlati tra loro, in termini di conoscenze, abilità e competenze, che consentono di

intervenire anche sul comportamento di un individuo nell’ambito dell’istruzione:

a) Ambito delle diversità e dei rischi d’insuccesso scolastico: in riferimento ai disturbi

specifici di apprendimento ed alla iperattività e disturbi dell’attenzione, al fenomeno del

bullismo, agli insuccessi scolastici.

b) Ambito scientifico – motorio: anatomia elementare, apprendimento di termini anatomici.

c) Ambito linguistico – artistico – espressivo: nell’approccio alle diverse pratiche sportive e

alla loro tradizione culturale, l’utilizzazione e spiegazione di termini, concetti ed espressioni

artistiche provenienti da altre culture.

d) Ambito cognitivo: giochi di relazione.

e) Ambito logico-matematico: raggruppare, classificare e contare, con i giochi più vari.

f) Ambito emotivo – affettivo: non si tratta solo di educare a controllare le emozioni, quanto di

promuovere la valorizzazione di atteggiamenti positivi nei confronti di se stessi e non solo.

g) Ambito storico – geografico: organizzazione spazio temporale e conoscenza della storia e

origine dei diversi sport.

h) Ambito ambientale – salute: interazione con l’ambiente, benessere psico-fisico da assumere

quale costume permanente.

i) Ambito etico: contributo all’educazione ed all’acquisizione di comportamenti consapevoli

sui temi diversi:

— Valori ed ideali;

— Principi su cui fondarne le regole;

— Responsabilità e conseguenze;

— Solidarietà;

— Rispetto – fair play

— Salute, alimentazione

Pratica sportiva ed interazione sociale Il concetto di convivenza civile presuppone di allargare il valore del “buon comportamento” da

assumere nello spazio civile pubblico, e richiede di praticare come bene comune anche il “buon

comportamento” da assumere nello spazio privato in tema non solo di partecipazione e di coscienza

politica, ma anche di circolazione stradale, di rispetto dell’ambiente, di cura della propria salute e

dell’alimentazione.

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La pratica sportiva, in tal senso, può contribuire a:

1. Aiutare i giovani a conoscere meglio se stessi, le proprie attitudini e potenzialità al fine di rispettare

la propria persona, il rapporto con gli altri e sviluppare al meglio le naturali capacità psicofisiche;

2. Stimolare i giovani ad impegnarsi di più nello sport, nella scuola, nella società in modo da

raggiungere soddisfazioni e successi personali;

3. Applicare in situazioni concrete di gara, sotto stress competitivo, i principi del rispetto e del fair

play.

Il sistema sportivo si allarga Il sistema sportivo è fondato e strutturato sulla ludicità e sull’agonismo.

L’attività sportiva, praticata correttamente e con regolarità apporta benefici universalmente

riconosciuti. Tuttavia, lo Sport non può essere praticato in età evolutiva se prima non è stata sviluppata

adeguatamente la motricità di base, che attualmente nei paesi evoluti è ridotta a poca cosa, a causa

dell’ipocinesi e della sedentarietà dilagante.

Per gli individui in età evolutiva ciò comporta problemi allo sviluppo di funzioni neuro-cognitive e allo

sviluppo dei grandi apparati. L’ipocinesi colpisce in vario modo tutte le fasce di età, ma in maniera

pressoché irreversibile gli individui tra i 5 e i 13-15 anni. Ciò è stato compreso dalle famiglie che

sempre più frequentemente chiedono soluzioni all’Associazionismo Sportivo e alle Federazioni, le

quali si devono fare carico di problematiche complesse. Oggi varie soluzioni passano per progetti in

partnership, tra Scuola, Federazioni, Associazionismo Sportivo ed Enti Locali.

Tutto il sistema sportivo, nella società moderna, rimane sempre fondato sulla ludicità e sull’agonismo,

ma si è arricchito di valenze educative, salutistiche e socio-economiche.

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Le dimensioni dell’Intelligenza Sportiva

La componente ludica: il gioco Il gioco spontaneo, forma del movimento che più si addice al bambino nei primi anni di vita, non a

caso principalmente motorio, e’ un’esperienza che non comporta unicamente l'acquisizione di abilità

motorie ma provoca anche nuove esperienze emotive, cognitive e relazionali favorendo lo sviluppo

della creatività, delle capacità percettive e coordinative, del senso del tempo e dello spazio e, nel

complesso di tutta la persona.

Il gioco è un’esigenza fondamentale comune a tutti gli uomini di qualsiasi età, epoca e cultura. E’ un

tipo di attività che si esprime in molteplici forme e con diversi gradi di complessità.

Nella sua dimensione sociale i tratti caratterizzanti sono i seguenti:

− Attività liberamente scelta e, quindi, piacevole e gratificante;

− Attività complessa in cui confluiscono numerose esigenze collegate all’età, al sesso, al ruolo,

allo status, alla educazione ricevuta, alle consuetudini, alla classe sociale o al gruppo di

appartenenza;

− Attività cognitiva, ricreativa in quanto consente all’individuo di elaborare comportamenti in cui

esprime la propria intelligenza e soggettività;

− Espressione spontanea, o elaborata della cultura di una società.

Per spiegare al meglio quest’ultima dimensione sociale il riferimento ad una citazione e’ d’obbligo,

scomodando una figura che ha amato lo sport, il calcio in particolare, con la stessa incantata foga di un

bambino: Pier Paolo Pasolini. Definendo il calcio un sistema di segni, cioè un linguaggio, Pasolini

illustrando il parallelo sport – cultura, su e giù così la pensava divertendosi e scriveva:

“Fra tutti i linguaggi che si parlano in un Paese, anche i più gergali e ostici, c’è un terreno comune:

che è la “cultura” di quel Paese: la sua attualità storica. Così, proprio per ragioni di cultura e di

storia, il calcio di alcuni popoli è fondamentalmente in prosa, è il caso di quello Europeo, mentre il

calcio di altri popoli è fondamentalmente in poesia, è il caso dell’America Latina, ricco

d’imprevedibilità, eccessivo istinto in alcune situazioni e forse meno potente se vogliamo.”

Nel gioco, la cultura rappresenta se stessa e tende a riprodurre in forma sdrammatizzata esperienze che

hanno un peso importante nel vissuto sociale. Si può dire che, in forme diverse, l’uomo gioca tutta la

vita. Lo Sport è l’esempio più complesso e completo che si colloca in una dimensione originale che

interseca altre dimensioni dell’attività umana (attualmente i Giochi Olimpici sono il più grande evento

planetario).

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In questo contesto ludico l’umanità sfida i suoi limiti. Nel bambino, ad esempio, questa attività ha

connotazioni cognitive molto importanti ed assume un ruolo determinante nella sua formazione e

maturazione globale. Nel gioco, il bambino vive la propria attività neuro-cognitivo-motoria esplorando

ed esplorandosi senza ansia o angoscia. In sostanza nel gioco prima dimensiona cose, persone o

situazioni a propria misura, esprimendo la propria emotività, in seguito aderisce progressivamente a

modelli comportamentali tipici del contesto motorio-sportivo. Infatti, nella dimensione ludica sono

comprese anche le attività motorie presportive e sportive in quanto organizzate regolamentate ed

innestate sui vissuti affettivi e cognitivi.

Il gioco si caratterizza anche per i seguenti elementi:

- comprende momenti di incertezza controllabili emotivamente;

- rende tutti partecipi alla comune attività del gruppo, grazie a normative semplici e condivise e

facilmente modificabili;

- rende possibile la realizzazione dei propri bisogni psico-emotivi, grazie alla possibilità che offre di

inserirsi in una dimensione a sé stante.

Il gioco è, quindi, un mondo fantastico e reale nello stesso tempo, un contesto di comunicazione e

apprendimento di comportamenti sociali, un’attività biologica primaria, indispensabile per mantenere

un buon equilibrio neuro-cognitivo-motorio.

La principale ragione per cui l’uomo, specialmente giovane, sente il bisogno ed il desiderio di giocare

consiste nella possibilità di sottrarsi, giocando, ai condizionamenti del mondo esterno, che molto spesso

si rivelano più forti della sua capacità di superarli.

Nel gioco, infatti, viene eliminato ogni rapporto con la realtà quotidiana e sono evitati, in questa

dimensione, tutti quegli ostacoli da cui, diversamente, l’azione riceverebbe impedimenti e divieti. Ecco

perché di tutto l’arco della vita, l’infanzia è quella che gioca di più.

Solamente attraverso il gioco l’individuo, specialmente in età evolutiva, può liberamente esternare la

propria esuberanza vitale in un contesto caratterizzato da un insieme di regole.

Nello specifico di qualsiasi esperienza sportiva un compito dell’allenatore, o meglio educatore, è quello

di non permettere che la forma ludica venga mortificata da regole che tolgono spazio alla creatività.

Con il gioco si realizzano anche quelle condizioni neuro-cognitivo-motorie che, grazie alla possibilità

di realizzare molteplici esperienze, permettono diverse modalità esecutive del movimento

nell'organizzazione spazio-temporale, funzionalità, efficienza ed efficacia in funzione di uno scopo.

I requisiti a tal proposito più importanti sono:

− Percezione del sé, rappresentazione e strutturazione dello schema corporeo;

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− Acquisizione e controllo degli equilibri (statici, statico-dinamici, dinamici);

− Stabilizzazione e controllo della lateralità (conoscenza dei lati destro e sinistro del corpo);

− Integrazione delle funzioni neuro-cognitivo-motorie;

− Organizzazione delle categorie spazio-temporali, il sé e l’ambiente;

− Acquisizione e controllo degli schemi posturali e motori della specie umana.

Va, inoltre, sottolineato come dalla prima infanzia fino alla maturità, ed oltre, ogni attività sportiva ha

sempre nella motivazione ludica una componente fondamentale.

La pratica sportiva deve essere collocata in un contesto ludico, e non deve mai avere un carattere di

troppa specificità e monotonia, ma destare interesse e curiosità nell’apprendimento.

La componente agonistica Il termine indica, attualmente, un modo di essere e di agire caratterizzato da mobilitazione massimale

di risorse psico-fisiche in funzione di una prestazione specialistica, in un contesto codificato e

regolamentato. Il luogo dell’“agone” è un luogo dedicato (l’impianto sportivo) nel quale, in occasione

dei Campionati, convergono Atleti, Tecnici e tutti gli Ufficiali di Gara incaricati di certificare i risultati:

misurazioni o valutazioni. In quanto azione, agonismo implica investimento di tempo, energie e risorse

economiche per preparare il sistema mente–cervello–individuo all’impegno agonistico - competitivo.

Questa è l’accezione specialistica in ambito sportivo del termine agonismo.

Corre obbligo precisare che solo una minima parte dei praticanti di uno sport si cimenta in

competizioni sportive, date le problematiche che ciò comporta in relazione ai livelli di prestazione.

Pertanto, va sottolineata con forza l’accezione più generale del termine, ovvero il concetto di

misurazione/valutazione di una prestazione, e il confronto spontaneo con una propria prestazione

precedente o con quella dei compagni di pratica sportiva e/o di classe senza che ciò comporti

necessariamente una forma di competizione.

Ciò risponde al bisogno di dare un valore a ciò che si fa e, all’interno del processo di socializzazione, di

cercare nel contesto i primi confronti. In questi termini, diventa un comportamento molto positivo che

consente di prendere atto dei propri limiti e delle proprie valenze e di operare per progredire. Il

confronto con se stessi e con gli altri favorisce i processi di socializzazione e ha delle valenze educative

molto importanti. L’autostima ha come fondamento la capacità di darsi un valore positivo. I test, fatti

periodicamente all’interno di un gruppo dai soggetti che lo compongono, consentono di avere dei punti

di riferimento sul livello di prestazione individuale e collettivo, sia sulle capacità motorie, sia sulle

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abilità motorie. L’accettazione leale della misurazione/valutazione della propria prestazione educa a

collocarsi in un contesto.

Dal punto di vista educativo creare, quindi, occasioni di confronto che non prendano una forma

agonistico–competitiva serve anche per dare motivazioni a sostegno di un maggior impegno

nell’attività ludico-motoria. Questi comportamenti sono trasferibili in tutti i contesti.

Sistema Biologico Umano

Mente-Cervello-Individuo Il sistema biologico umano è un’entità complessa e intelligente costituita da un insieme differenziato di

parti, integrate e interattive. Il sistema è aperto in quanto scambia energia con l’ambiente circostante.

Questo insieme è maggiore della semplice somma delle parti che lo costituiscono. Pertanto, la

caratteristica di questa entità complessa, se comparata con le sue parti, risulta nuova e di livello

superiore. Tenendo conto della struttura e della funzione che ogni parte svolge e delle relazioni che le

legano, è possibile comprendere e prevedere, il comportamento e i limiti dell’insieme/sistema mente-

cervello-individuo.

Il sistema biologico umano è strutturato per interagire con l’ambiente, pertanto è dotato, nella sua

evoluzione di strutture in grado di svolgere efficacemente le seguenti funzioni :

a) Funzione ordinatrice: organizzare, finalizzare e controllare il sistema ecc.

b) Funzione effettoria: trasformare l’energia chimica in energia meccanica, ovvero in movimento;

c) Funzione energetica: reperire e trasformare risorse in energia chimica, renderla disponibile per le

funzioni metaboliche di base e, in quantità adeguata, per l’attività motoria, ecc.

La funzione ordinatrice è di vitale importanza in quanto garantisce il funzionamento integrato delle

varie parti in funzione dell’esigenza del momento. Il Sistema Nervoso regola tutte queste funzioni,

tuttavia, il cervello è la sede di funzioni neuro-cognitive estremamente importanti, di tutti i processi

decisionali, le emozioni, ecc… che appartengono a un livello superiore: la Mente. L’encefalo è anche la

sede delle funzioni che originano e controllano il movimento.

La funzione effettoria è espletata dal sistema biomeccanico (apparato locomotore) che consente al

sistema di agire nel contesto in cui si trova.

La funzione energetica viene espletata da un sottosistema complesso costituito da apparato digestivo,

apparato respiratorio, apparato cardiocircolatorio. Tutto questo complesso sistema, se sollecitato

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adeguatamente, grazie a capacità adattative immediate e differite, può produrre degli adattamenti

semipermanenti e permanenti.

In età evolutiva è necessario curare uno sviluppo equilibrato di tutte le funzioni. Questo è il compito

primario dell’attività motorio-sportiva.

L’attività neuro-cognitivo-motoria Il movimento umano finalizzato è alla base dei comportamenti volti ad uno scopo e delle interazioni tra

l’individuo e l’ambiente. Esso è reso possibile da una serie di funzioni nervose/mentali che pianificano,

preparano, eseguono e controllano l’atto motorio finalizzato.

Le principali funzioni in questione sono:

- Attenzione (modelli di previsione su quanto potrebbe accadere, selezione degli stimoli con

caratteristiche quali il movimento)

- percezione della posizione del corpo e dell’ambiente (attribuzione di un significato agli oggetti del

mondo esterno e analisi delle informazioni spaziali) sulla base delle rappresentazioni della memoria a

lungo termine;

− funzioni esecutive di pianificazione, intese come frutto dell’elaborazione delle informazioni su

di sé (pulsioni, bisogni, desideri) e sull’ambiente alla luce delle precedenti esperienze, per stabilire

le priorità del proprio comportamento;

− preparazione del movimento finalizzato (sequenza motoria, singolo atto volontario);

− esecuzione del movimento;

− controllo dell’esecuzione (correzione, trasformazione, interruzione, ecc.);

− valutazione dei risultati dell’azione;

− apprendimento.

Tali funzioni si possono individuare in componenti strutturali del movimento umano, quali:

— Attenzione: una funzione che filtra e seleziona l’informazione in entrata sulla base di motivazioni;

di fatto indirizza l’attività del sistema sensoriale alla ricerca di informazioni semantiche, ovvero per

cogliere il significato di una situazione.

— Sistema sensoriale:

- esterocettivo, che raccoglie informazioni dall’ambiente esterno, con il quale l’individuo

interagisce. È costituito dagli analizzatori esterocettivi (occhi,udito, ecc.) che inviano impulsi

alle aree associative.

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- propriocettivo, che raccoglie informazioni dall’interno del corpo. È costituito da un insieme di

propriocettori (fusi neuro-muscolari, propriocettori articolari, barocettori plantari, sistema

vestibolare, ecc.) che a loro volta inviano impulsi alle aree associative dove, dall’integrazione

delle varie informazioni, viene elaborata la rappresentazione mentale del sé nel contesto.

— Memorie: sensoriale; breve termine (lavoro); lungo termine (apprendimento). Sono componenti

preposte alla conservazione della informazione e consentono il riconoscimento del segnale in

entrata.

— Sistema di risposta: provvede alla scelta, alla programmazione della risposta e, ove necessario, alla

correzione della stessa risposta.

— Sistema di controllo: provvede a tutte le operazioni necessarie affinché ogni fase prevista si svolga

correttamente, sulla base della situazione e in funzione dello scopo prefissato. In caso di necessità

interviene per segnalare eventuali errori al sistema di risposta.

— Effettore (sistema muscolo scheletrico): va menzionato in quanto ha la funzione di realizzare il

movimento nello spazio e nel tempo, ma soprattutto perché dallo stesso scaturiscono le

informazioni di ritorno (feedback), che vengono utilizzate per il controllo del movimento stesso e

per la fase successiva. Infatti, senza l’effettuazione del movimento non sono possibili la valutazione

dei suoi effetti in relazione allo scopo e la memorizzazione dell’insieme di informazioni prodotte

dai singoli analizzatori relativamente a tutto il processo.

Tuttavia, il sistema nel suo complesso ha dei limiti, uno di capacità di trattare tutta l’informazione

disponibile, l’altro di durata nel tempo. Il nostro cervello è in grado di trattare solo una quantità limitata

di informazione e pertanto, viene operata una selezione indirizzando le risorse verso ciò che è

significativo, tralasciando ciò che non è essenziale per i processi decisionali. Ecco, quindi, un modo di

operare selettivo.

La durata, ovvero la capacità di operare nel tempo, è a sua volta limitata. Infatti, si tratta di un

meccanismo che opera con costi energetici (nervosi) molto alti, conseguentemente la durata nel tempo

della sua massima capacità operativa è limitata a decine di minuti (in funzione dell’età, dello stato di

salute e delle caratteristiche del soggetto e del compito cognitivo-motorio a cui è sottoposto), dopo i

quali è necessario alleggerire l’impegno o recuperare.

Tutti questi processi sinteticamente trattati sono condizione essenziale della capacità di interagire con

l’ambiente, di apprendere, di modificare e di evolvere il comportamento individuale in tutte le sue

dimensioni ed espressioni.

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Le capacità cognitive Sono quelle capacità del sistema biologico umano che consentono un’interazione neuro-cognitivo-

motoria efficace con l’ambiente e con gli altri individui, vale a dire l’apprendimento di conoscenze,

abilità, competenze, comportamenti sociali e l’apprendimento e l’effettuazione di movimenti

finalizzati, e razionali, sia nell’ambito delle relazioni, sia in quello ludico motorio-sportiva, sia in

quello tecnico-professionale.

L’insieme di queste capacità consente all’individuo di comprendere, controllare e modificare il proprio

comportamento e, ove necessario, modificare le situazioni ambientali.

La motricità sviluppata dalla specie umana si esprime dapprima per mezzo degli schemi posturali e

degli schemi motori di base, in seguito anche tramite la motricità sportiva nelle sue varie specialità.

Sotto questo profilo, l’apprendimento motorio si configura come acquisizione di strategie di percezione

situazionale, di processi decisionali adeguati e di elaborazione di un repertorio di azioni finalizzate al

conseguimento di uno scopo.

La maggior parte degli atti motori che vengono effettuati da un individuo sono in risposta a variazioni

ambientali o del contesto situazionale. Un atto motorio può, dunque, essere considerato un processo

guidato da un programma finalizzato ad uno scopo.

L’apprendimento motorio è regolato da processi cognitivi complessi che si articolano nel seguente

modo:

- percepire una situazione e comprenderne il significato;

- progettare e finalizzare un’azione in funzione di un obiettivo;

- programmare una sequenza motoria razionale;

- attivare il sistema di controllo;

- effettuare l’azione;

- controllare il programma in effettuazione;

- ove necessario, intervenire per modificarlo o adattarlo;

- valutare il risultato dell’azione ai vari livelli;

- apprendere.

Affinché l’apprendimento motorio si sviluppi efficacemente è necessario che siano realizzate alcune

condizioni:

- Adeguata maturazione del sistema effettore;

- adeguata maturazione del sistema nervoso e sviluppo delle funzioni neuro-cognitive;

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- adeguata strutturazione di memorie motorie, relativamente agli schemi posturali e motori di

base;

- disponibilità all’apprendimento, ovvero motivazione all’attività motoria;

- opportunità di apprendere, vale a dire fattori ambientali che favoriscono l’attività sportiva, tra i

quali la famiglia, la scuola, la Società Sportiva e, molto importante, un allenatore-educatore con

adeguata formazione culturale generale e specifica.

L’apprendimento motorio-sportivo richiede una progettazione che tenga conto delle caratteristiche

dell’attività neuro-cognitivo-motoria che l’individuo dovrà effettuare durante lo svolgimento della

propria attività.

A tal fine, dovrà essere correttamente progettata l’organizzazione della memoria, in modo da realizzare

un’integrazione gerarchica di tutte le funzioni neuro-cognitive e coordinativo motorie, a seconda che

l’attività motoria si effettui in un contesto variabile o in un contesto stabile. Queste diverse condizioni

del contesto nel quale si iscrive la prestazione danno luogo alla necessità di strutturare le mappe di

apprendimento in modo stabile e diverso, a seconda che le abilità richieste siano del tipo “Open Skill” o

del tipo “Closed Skill”:

A) Mappe di apprendimento elastiche (Open Skill): La strutturazione di queste mappe è

necessaria negli Sport situazionali, dove la prestazione consiste nel rispondere tempestivamente

ed in modo adeguato ad ogni variazione dell’ambiente nel quale si sviluppa l’azione, sia che

tale mutevolezza venga determinata dall’ambiente naturale, sia che venga determinata dal

comportamento motorio dei compagni ed avversari (sport di squadra) o soltanto dagli avversari,

in ambiente dedicato e codificato (sport individuali). In queste specialità le risposte a stimoli in

entrata debbono essere tempestive e modulate e realizzate in tempi minimi. Il sistema neuro-

cognitivo deve formulare decisioni sulla base di informazioni semantiche e mettere in funzione

l’effettore in tempi ridottissimi, altrimenti la risposta diventa tardiva. L’azione di risposta viene

scelta all’interno di un repertorio di abilità in funzione della situazione (spazio/tempo) e deve

poter essere modulata secondo necessità.

B) Mappe di apprendimento rigide (Closed Skill): La strutturazione di queste mappe è

necessaria negli sport compositori (detti anche di significato qualitativo, in quanto la

prestazione è determinata dalla qualità dell’esecuzione) come la Ginnastica, il Pattinaggio

Artistico, i Tuffi, il Judo e Karate, ecc., ma hanno una grande valenza anche negli sport di

potenza che si esprimono in un unico movimento del quale la perfezione motoria accresce il

rendimento (salto in alto, lanci, pesistica, ecc.). In questi sport, il contesto nel quale viene

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effettuata l’azione è stabile, il che garantisce la conoscenza dell’ambiente nel quale debbono

essere realizzate le prestazioni. Pertanto, l’atleta sarà impegnato soltanto alla realizzazione di

programmi motori interiorizzati ed automatizzati in precedenza, in quanto l’ambiente non gli

richiederà comportamenti variabili.

Sviluppare queste funzioni mette in condizione l’individuo di strutturare le categorie dello spazio e

del tempo e quindi di agire razionalmente in tutte le situazioni della vita quotidiana che richiedono

decisioni e azioni finalizzate.

Allenare la complessità L’insegnamento e l’allenamento sono un insieme di pratiche progettate, programmate e organizzate,

secondo procedure metodologicamente corrette, in funzione di obiettivi educativi o sportivi generali e

specifici. Esso è il contesto altamente specialistico nel quale si realizza anche un’importante funzione

educativa sociale e socializzante.

Poiché il concetto di educazione è legato a quello di personalità e di socialità, in quanto l’individuo

interagisce con altri individui, e poiché il concetto di socializzazione esprime quell’insieme di processi

interattivi dell’individuo all’interno di una collettività, ne consegue che gestire correttamente le

situazioni di insegnamento o allenamento comporta, necessariamente, fare opera educativa.

Per realizzare un contesto allenante proficuo è necessario instaurare con i compagni di squadra un

rapporto di reciproco affidamento (rispetto delle regole) e di collaborazione fattiva. Quanto più e

quanto meglio si realizzano condizioni di complessità situazionali tanto più e tanto meglio si riuscirà a

progredire nell’acquisizione delle abilità specifiche. Ciò sta a significare che un efficace allenamento

presuppone la capacità di realizzare quelle condizioni che consentono di costruire, secondo necessità,

situazioni di complessità assai vicine a quelle che si trovano in gara.

In sostanza, la verifica continua, all’interno delle situazioni di allenamento, delle proprie valenze e dei

propri limiti e la constatazione dell’indispensabilità della collaborazione per il loro superamento

attivano processi molto efficaci di comunicazione e di socializzazione, che vengono ulteriormente

rafforzati dal contesto sportivo.

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Formazione dell’intelligenza sportiva

L’intelligenza è la facoltà più elevata e generale della mente umana e si esprime nella capacità di

risolvere situazioni e problemi o di produrre opere di significato universale che intersecano vari piani

della conoscenza. Si tratta di un’espressione multiforme e multidirezionale. In termini concreti si

esprime nella produzione di idee e soluzioni efficaci in contesti diversi.

È manifestazione di intelligenza la capacità di apprendere, ovvero di operare delle sintesi, di crearsi

quadri di riferimento in vari ambiti, di integrarli tra loro, di trasferirli e adeguarli ad altro contesto, ecc.

In termini evolutivi la nascita dell’intelligenza nella specie umana appare collegata alla necessità di

risolvere problematiche situazionali in funzione della sopravvivenza, ovvero procurarsi il cibo,

difenderlo, crearsi un ricovero, ecc. In seguito questa forma di intelligenza primordiale ha ideato e

realizzato utensili e sviluppato la capacità di utilizzarli per crearne altri e così via. Tutto ciò ha

consentito alla specie una sempre più efficace interazione neuro-cognitivo-motoria con l’ambiente.

Le moderne teorie affrontate nella prima parte dell’elaborato propongono una pluralità di intelligenze,

pertanto, pensare a un'intelligenza motoria come espressione fondamentale per l’esistenza di un

individuo non pare azzardato, dato che il movimento caratterizza il mondo animale, e, soprattutto, non

pare azzardato porla come obiettivo formativo di fondamentale importanza in età evolutiva.

Infatti, l’intelligenza che si esprime attraverso il movimento si manifesta in termini di:

− finalità del movimento ;

− tempestività ;

− coerenza e adeguatezza del movimento in funzione dello scopo ;

− razionalità, efficacia, economicità ;

− creatività, modulabilità, eleganza, fluidità, ecc.

L’intelligenza motoria appare strettamente collegata alla situazionalità, ovvero alla capacità di

realizzare movimenti finalizzati alla soluzione di problematiche presenti nel contesto situazionale.

La qualità e rapidità dei processi decisionali e la rapidità, efficacia ed eleganza dell’azione sono

caratteristiche determinanti.

La formazione dell’intelligenza sportiva è strutturata in funzione di un percorso formativo che parte dal

SÈ e percorre tutto l’iter che consente all’individuo di realizzare le proprie potenzialità ai massimi

livelli.

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Il processo dell’intelligenza sportiva

Il SÈ Il SÈ viene inteso come Sistema Biologico Intelligente, costituito da un insieme di parti, differenziate

nelle funzioni, integrate e interattive. Nei primi anni di vita dell’individuo questo “Sistema” non ha

ancora sviluppato in modo adeguato un insieme di funzioni neuro-cognitivomotorie e,

conseguentemente, non è in grado di interagire in maniera efficace con l’ambiente nel quale è inserito.

Nei primi anni di vita questa capacità di interazione risulta limitata a causa di oggettivi limiti del

“Sistema”. Infatti, dalla nascita in poi si strutturano e si sviluppano funzioni neuro-cognitivo-motorie

molto importanti, sulla base di un’interazione individuo-ambiente, che deve essere ricca e multiforme.

In questo arco di tempo l’ipocinesi costituisce un grave pregiudizio allo sviluppo armonico

dell’individuo. Tuttavia, il periodo in cui è possibile colmare facilmente lacune o sviluppare al

massimo grado queste importanti funzioni dura circa 5-6 anni.

Il Sistema nervoso, nel suo pieno sviluppo tra i 5-6 e gli 11-12 anni (circa) è in condizione di

sviluppare a un buon livello le capacità di discriminazione propriocettiva, ovvero quelle capacità che

gli consentono di percepire con precisione il corpo nel suo essere e agire (l’effettuazione di movimenti)

e di utilizzare le informazioni inviate al sistema cervello-mente dagli analizzatori in modo da ottenere il

più presto possibile una buona integrazione tra le funzioni superiori e quelle motorie all’interno del

sistema: Mente – Cervello – Individuo.

Questo processo porta, con i limiti tipici di questa fase, a un buono sviluppo dello schema corporeo,

che è prima percezione e poi rappresentazione mentale del proprio corpo, ovvero a una

rappresentazione del SÉ.

Il SÈ e l’AMBIENTE Interazione del SÈ con un Ambiente strutturato. Interagire con l’ambiente in forme semplici per mezzo

degli schemi motori fondamentali della specie, è sempre stato una tappa di estrema importanza nello

sviluppo neuro-cognitivo-motorio di ogni essere vivente. Per gli umani il processo è molto lungo,

particolarmente in un ambiente urbanizzato che, da un lato non consente più una motricità spontanea,

ricca e gioiosa, paragonabile a quella espressa in ambiente naturale, dall’altro presenta spazi inadatti e

pericoli di vario genere. Conseguentemente, il ruolo dell’attività sportiva è quello di consentire lo

sviluppo delle funzioni neuro-cognitivo-motorie secondo un progetto didattico molto preciso, al fine di

sviluppare compiutamente gli schemi motori di base, ovvero i movimenti per mezzo dei quali

l’individuo interagisce con l’ambiente e con gli altri.

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Questa fase del processo di formazione ha come obiettivo l’integrazione delle funzioni propriocettive

con quelle esterocettive per mezzo del movimento. Si tratta dello sviluppo delle capacità tipicamente

cognitive di partire da un quadro percettivo, progettare e programmare, effettuare, controllare e

valutare, memorizzare e apprendere movimenti finalizzati a uno scopo, che nella fattispecie consiste

nell’usare il movimento adeguato all’ambiente e che nella sua multiformità richiede scelte tempestive e

adattamenti continui da parte dell’individuo in azione.Questo processo è caratterizzato da stimolazioni

efficaci per lo sviluppo dell’Intelligenza Spazio–Temporale, senza la quale diventa impossibile

interagire adeguatamente in qualsiasi tipo di ambiente. Il concetto di “tempestività e adeguatezza” allo

scopo del movimento viene sperimentato e interiorizzato in modo completo.

Il SÈ e l’ALTRO Interazione del SÈ con l’altro, gli altri, per mezzo di schemi motori, in ambienti variamente strutturati.

Questa fase è caratterizzata da vari stadi:

− Motricità Interattiva Collaborativa con il singolo;

− Motricità Interattiva Collaborativa con gli altri;

− Motricità Interattiva Collaborativa e Oppositiva con il singolo e con gli altri;

− Motricità Interattiva Oppositiva con gli altri;

− Motricità Interattiva Oppositiva con il singolo.

In questa fase è di fondamentale importanza la comprensione del ruolo dei compagni di attività (in

relazione collaborativa e oppositiva) per uno svolgimento efficace e soddisfacente dei compiti motori,

che dà luogo a un rapido apprendimento delle abilità. Il ruolo del compagno/i è fondamentale per

ricevere e inviare volumi di stimoli-movimenti (esercizio) di qualità progressivamente sempre più

evoluta, tale da far progredire fondamentali funzioni e apprendimenti.

Lo sviluppo di un’Intelligenza Sociale viene realizzato attraverso varie situazioni-stimolo che inducono

l’individuo a prendere coscienza dei propri limiti e delle proprie valenze, di quelle degli altri e porsi

l’obiettivo di progredire nello sviluppo delle capacità motorie e nell’apprendimento delle abilità

specifiche, in un rapporto di collaborazione con i compagni nel ruolo di partner/avversario, senza i

quali ciò risulta di difficile, se non di impossibile, attuazione. Con la progressiva maturazione della

capacità di operare tutti insieme, partner e avversari, nel rispetto delle regole, si assiste allo sviluppo

della capacità di collaborare, fondamentale nel processo di socializzazione. In questa fase inizia la

maturazione anche della capacità di comunicare tramite il movimento.

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Il SÈ e il LINGUAGGIO SPORTIVO Dopo lo sviluppo e l’integrazione delle funzioni neuro-cognitivo-motorie e della motricità della specie,

l’apprendimento di alfabeti motori specifici che caratterizzano le varie specialità sportive (Tecnica)

permette espressioni della personalità multiformi e creative, ovvero una forma di Intelligenza Sportiva

Specifica, fortemente caratterizzata dalla personalità dell’individuo.

La tecnica sportiva è quell’insieme articolato di movimenti che consente l’acquisizione degli obiettivi

situazionali. La tecnica è un movimento progettato, programmato, organizzato nello spazio e nel tempo

dalla mente e dal sistema nervoso e realizzato dall’individuo.

All’interno del linguaggio sportivo esistono due forme fondamentali di comunicazione: la

comunicazione verbale e la comunicazione gestuale/motoria.

Il movimento caratterizza lo Sport ed è il comune denominatore tra le diverse pratiche sportive; è il

mezzo con cui gli atleti interagiscono tra di loro e con gli spettatori. Ogni Disciplina Sportiva ha un

proprio linguaggio motorio, una specie di codice o alfabeto motorio, ovvero un insieme di

comportamenti finalizzati e, quindi, portatori di significati, che consentono la comunicazione.

Lo spettatore dall’osservazione del movimento deve poter comprendere il significato degli eventi nel

loro divenire. Questa è la condizione fondamentale per consentirgli di essere partecipe, di poter

apprezzare l’efficacia e gli aspetti qualitativi del movimento in atto e, quindi, di poter effettuare delle

scelte.

Il SÈ e il SOGGETTO Partner - avversario come destinatario e origine di comunicazione motoria. In ogni Sport dell’area

situazionale (calcio, pallacanestro, pallavolo, tennis, ecc.) esiste l’esercizio di sintesi o di gara, ovvero

la partita, nel quale vengono espresse tutte le valenze individuali e/o collettive. In questo esercizio tutte

le valenze e abilità acquisite vengono messe alla prova e costantemente perfezionate con/contro il

partner-avversario.

In questa fase diventa importante saper leggere il linguaggio del corpo, ovvero decodificare il

significato dei comportamenti e dei gesti dell’avversario per poter agire tempestivamente ed

efficacemente nelle diverse fasi. La mappatura delle abilità, ovvero la loro organizzazione nella

memoria, deve essere effettuata per mezzo di unità situazionali, che costituiscono linee guida del

comportamento motorio specifico, ovvero linee guida attorno alle quali si costruisce ed evolve il

Pensiero Tattico. Se tutte le fasi precedenti saranno state sviluppate in modo adeguato, il sistema mente

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– sistema nervoso – individuo (creatore – ordinatore – realizzatore) sarà in grado di esprimersi a livelli

di straordinaria efficacia e bellezza.

Per il successo di un progetto formativo che vada dall’educazione motoria, ovvero la formazione di una

motricità intelligente, all’acquisizione dei fondamentali di una specialità sportiva, deve essere costruito

un percorso formativo che con coerenza e progressività metta in condizione l’individuo di sviluppare

funzioni, capacità e abilità progressivamente più evolute.

Alla sommità c’è il pensiero che indirizza tutte le capacità cognitive e finalizza ed organizza

razionalmente tutto il comportamento motorio: la tattica. A questo livello si concreta e si rende

disponibile tutto quanto è stato ricostruito precedentemente.

In questo contesto le capacità intellettive e cognitive individuali sono di fondamentale importanza per

l’apprendimento e l’interiorizzazione di tutto ciò che è funzionale alla gestione di tutte le risorse

individuali e al proprio sviluppo.

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Ruoli e posizioni

Introduzione

1-2 Marzo 2012 – Boston Convention and Exhibition Center

MIT Sloan Sports Analytics Conference

Evoluzione dello sport

Parlando di basket3, la macchina del tempo arriva in un inverno del 1881 a Springfield,

Massachusetts. Ventilazione e, soprattutto, freddo tutt’altro che inapprezzabili.

Studio e uno sport al coperto. Sì ma quale?

James Naismith, professore di educazione fisica, dovendo inventare un gioco che impegnasse i suoi

ragazzi nella palestra della scuola locale, matura un’idea: basketball (basket-canestro e ball-palla).

Ebbe l’intuizione, che al momento peraltro non sembrò straordinaria, d’appendere un cesto di pesche

a un palo alto dieci piedi (tre metri e cinque centimetri), e ancorché in assenza d’un regolamento

definitivo alzò la prima palla a due. Nove contro nove e mazzate insensate. La prima partita finisce con

un solo canestro, ma quello che sarebbe contato è la nascita del “The Game of Basketball”.

Che ne sapeva quel professore di ginnastica canadese che quel passatempo, tra una stagione di

baseball e l’atra, sarebbe diventato lo sport di squadra più diffuso al mondo, oltre a quello che

avrebbe prodotto l’atleta del secolo, un certo Michael Jeffrey Jordan? Quando qualche atleta vero

decise che quella storia del cestino di pesche non era da buttar via, il gioco decollò. In soli trent’anni

ogni college americano avrebbe avuto una squadra, spesso uno squadrone.

3 Federico Buffa (2005) Black Jesus The Anthology, Libri di Sport

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Figura 13. North Carolina State University, squadra di Basketball. [da sinistra a destra] Mervin Gutshall, Jerry Moore, Paul Hudson, John Sellers, Eddie Bledenbach e coach Pucillo. 1963-19644

Le immagini del tempo, viste oggi, lasciano un attimo perplessi. Durante i primi cinque decenni della

storia della pallacanestro, erano stati individuati tre ruoli che potevano essere ricoperti: l’ala, la guardia

e il centro.

Dagli anni ottanta del ventesimo secolo, invece, le posizioni si sono evolute, dando un ruolo specifico

ad ognuno dei cinque giocatori sul parquet:

− Il Playmaker: il giocatore che ha la responsabilità di dettare i tempi, fornendo ai compagni i

passaggi smarcanti e guidando la squadra nelle azioni offensive. Inutile dire che si tratta di un ruolo

di grande importanza nell’economia di una squadra, in quanto deve avere un’ottima visione di gioco

e dalle sue mani dipende il destino di tutte le azioni offensive;

4 North Caroline State University Libraries. Archivio fotografico. Titolo: N.C. State's freshman starting five with Assistant Coach Pucillo.

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74

− La Guardia tiratrice (o Guardia pura): il giocatore con il tiro migliore, colui che viene chiamato

a finalizzare il gioco di squadra. Non è necessario che sia alto, ma deve avere un tocco di palla

particolare e colmare il gap con una buona elevazione;

− L’Ala piccola: il giocatore che deve essere dotato fisicamente, in modo da sfruttare la sua

fisicità nelle azioni sotto canestro. A lui si richiede anche un buon tiro, sia da sotto canestro sia da

fuori della lunetta;

− L’Ala Grande (o Ala forte): il giocatore che deve essere alto e con una buona velocità di gambe.

Ha il compito di catturare i rimbalzi, giocando sia fronte sia spalle a canestro.

− Il Pivot o Centro: il giocatore più alto e robusto. Ha il compito di “stoppare” gli avversari,

catturare i rimbalzi e portare blocchi per le entrate dei compagni.

Durante l’edizione 2012 de Sloan Sport Analytics Conference, Muthu Alagappan pone una

semplice ma forse rivoluzionaria domanda: se ci fossimo sbagliati sulle 5 posizioni nel basketball?

MIT Sloan Sports Analytics Conferenze è un incontro dedicato a promuovere la crescita e

l'innovazione nel campo dello sport, e le opportunità offerte arricchiscono le conoscenze del business

sportivo. Un appuntamento annuale con l'obiettivo di fornire un forum per i professionisti del settore,

dirigenti e ricercatori, e gli studenti per discutere circa il ruolo crescente di un’analisi a livello mondiale

nell’ambito della pratica sportiva.

La ricerca che andiamo a esplorare si è resa protagonista nella sezione dedicata all’“Evoluzione dello

sport”, ricevendo il riconoscimento Alpha Award for Best EOS Talk nell’edizione 2012 della

conferenza.

“Evoluzione dello sport (EOS)” è l'occasione per presentare un messaggio, un'idea o un pensiero

rivoluzionario che potrebbe un giorno cambiare il volto dello sport: una grande opportunità per dare

voce o per aumentare la consapevolezza di un'idea.

La presentazione del proprio messaggio deve soggiacere a dei principi precisi e definiti: *Be Bold *Be

Unique *Be Inventive *Be Analytical *Be Concise *Be Respectful *Be Curious *Be Humorous *Be

Honest *Be Inspiring.

Il protagonista dell’edizione del marzo 2012 è Muthu Alagappan con la sua ricerca dal titolo: “From 5

to 13 – Redefining the positions in basketball”.

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Muthu Alagappan, è uno studente, del Dipartimento di Ingegneria Biomeccanica dell’Università di

Stanford e consulente presso Ayasdi5, una società avviata nel 2008 per portare un nuovo approccio

innovativo alla soluzione dei problemi più complessi del mondo.

La missione di questa società di Palo Alto in California, è quella di aiutare le organizzazioni a fare

scoperte rivoluzionarie che portano a una rapida innovazione, a una crescita più rapida, a un risparmio

dei costi. Attraverso l’analisi matematica topologica dei dati statistici, tenendo in considerazione

l’integrazione dei dati in una dimensione di tempo e spazio, i software di Ayasdi sono in grado di

proporre risposte sui grandi quesiti della conoscenza umana, come per esempio nuovi utilizzi delle

fonti di energie, l’integrazione delle conoscenze per aiutare l’evoluzione del sapere umano, sport

compreso.

Uno degli studi dell’Ayasdi è la ridefinizione delle posizioni nel basketball dalla cui analisi si evince

una necessità di un approccio completamente innovativo per la soluzione delle problematiche e

complessità del mondo contemporaneo: una nuova classificazione delle informazione e dei dati.

L’esempio su cui poggiarsi, per intuire l’impatto straordinario che una diversa classificazione dei dati

può cambiare l’abituale approccio al sapere e alla quotidianità, è fornito dal mondo della medicina. La

storia della medicina, infatti, ci insegna come nell’antichità le malattie esistenti fossero raggruppate in

quattro categorie. Le analisi e gli studi che si susseguirono nei secoli, convinsero i medici che la

classificazione delle malattie fosse in realtà più complessa. Oggi questo approccio ha comportato la

nascita di specializzazioni e nuove aree del sapere scientifico che hanno avuto e stanno avendo un

impatto rivoluzionario.

L’esempio illustre ed elevato, è stato usato da Muthu Alagappan per spiegare il vento di rivoluzione

che potrebbe investire il gioco più spettacolare e amato d’America il basketball, che a seguito di un

nuovo approccio, sarebbe in grado di mettere in discussione la linearità e regolarità che caratterizzano il

gioco stesso.

La NBA (National Basketball Association)6, oltre a essere spettacolare a livello di giocate e ad avere i

migliori atleti e giocatori del mondo dello sport, potrebbe regalare diversi spunti di riflessione se si

valutano le statistiche, individuali e di squadra. Le statistiche nel basketball sono, per natura, un mezzo

qualitativo per svolgere un fine valutativo. Esse esistono per informare quanto meglio oppure peggio

un determinato compito viene eseguito. Tali misurazioni di frequenza, precisione ed efficienza

svolgono un inestimabile scopo descrittivo e guidano l’analisi del gioco a un livello approfondito.

5 Ayasdi: Discover What You Don't Know. www.ayasdi.com 6 www.nba.com

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La sesta edizione della Sloan Sport Analytics Conference tenuta da Massachusetts Institute of

Technology (MIT), una delle più importanti università di ricerca del mondo, è stata l’occasione

propizia per volgere la statistica verso un nuovo valore aggiunto.

Una prima possibilità per l’interpretazione dei ruoli nel basketball proviene dalla statistica e da una

provocazione: se le analisi statistiche del basket, piuttosto che fornire delle valutazioni sul giocatore e

sulle performance di squadra, potrebbero contribuire a definire la posizione di un giocatore?

La valutazione conserva l’obiettivo primario dell’analisi ma si trova insito anche l’interessante

potenziale di ridefinire l’intero schema delle posizioni.

Tale è l’obiettivo di Muthu Alagappan: usare il metodo matematico e l’analisi di dati topologici. Il

software di Ayasdi in modo molto semplice trasforma i dati numerici e statistici in visualizzazioni

intellegibili. Avendo disponibile un campo in cui i dati della realtà sono dotati di dimensioni, Muthu è

stato in grado di tracciare un network di somiglianza per i giocatori NBA, e in tale processo ha

identificato 13 posizioni, sostituendo le cinque posizioni tradizionali.

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Figura 14. Ridefinizione posizioni NBA basketball. Network dei dati topologici di 452 giocatori NBA durante la stagione 2010-2011. I giocatori (punti) sono collegati ad altri giocatori da linee in base alla loro somiglianza relativa a punti, rimbalzi, assist, palle rubate, rimbalzi, blocchi, palle perse e falli.

Il fondamento del pensiero di Alagappan rompe le barriere classiche: le cinque posizioni possono

essere convenzionali e familiari, ma i giocatori considerati, per esempio, come ala grande e guardia

tiratrice sono diventati così diversi che gli stessi termini hanno perso il loro significato. La

classificazione in una delle cinque posizioni, serve principalmente ad uno scopo pratico; nel tentativo

di presentare un modello di posizioni utile sia a coloro che organizzano una squadra NBA sia a coloro

che analizzano le situazioni di gioco, Alagappan propone 13 nuove posizioni.

Utilizzando i dati della stagione NBA 2010-2011, analizzando 452 giocatori, ha creato dei network di

informazioni sulla base di dati statistici relativi a punti, tiri, rimbalzi, blocchi, palle perse/recuperate,

falli, assist. Successivamente ha messo in relazione i dati raccolti con il tempo di gioco. Tenendo conto

dello spazio occupato sul terreno di gioco e con l’elaborazione dei dati ha ottenuto un grafico codificato

a colori, dove i punti rappresentano i giocatori, i gruppi formatosi le nuove posizioni e le linee

interconnesse, invece, i giocatori statisticamente “simili”.

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L’immagine è quella di una molecola: come questa è la parte più piccola degli elementi chimici e dei

composti chimici ed è l'unità elementare della materia organica, allo stesso modo la rete creata dal

modello di Muthu si propone di conservare tutte le proprietà e le caratteristiche delle posizioni nel

basketball.

1. Offensive ball–handler: giocatore specializzato nella realizzazione di punti, tiri liberi e tentativi al

tiro. Presenta una media inferiore per palle recuperate e blocchi.

2. Defensive ball–handler: giocatore con mentalità difensiva, specializzato in assist e palle

recuperate.

3. Combo ball–handler: giocatore abile sia in difesa sia in attacco, ma non risalta in una di queste

categorie.

4. Shooting ball–handler: giocatore con un talento particolare per la realizzazione di punti a canestro;

presenta una media tiri sopra la media.

5. Role–playing ball–handler: giocatori che con un numero esiguo di minuti giocati non hanno un

impatto statisticamente importante per il gioco.

6. 3points rebounder: giocatore con una media superiore nei rimbalzi e tiri da tre punti.

7. Scoring rebounder: giocatore spesso con il possesso del pallone e presente in fase offensiva.

8. Scoring paint–protector: giocatori che si distinguono in attacco e in difesa, facendo punti,

prendendo rimbalzi e bloccando iniziative offensive avversarie.

9. Paint–protector: giocatori noti per interrompere le iniziative avversarie in fase offensiva, per

prendere rimbalzi e per commettere un numero di falli solitamente superiore ai punti realizzati.

10. Nba 1st team: gruppo selezionato di giocatori così al di sopra della media in queste categorie

statistiche che il software semplicemente li raggruppa con una categoria a sé.

11. Nba 2nd team: non presentano la stessa media dei precedenti ma conservano delle statistiche sopra

la media.

12. Role player: presentano statistiche inferiori al 2nd team, a causa di un minor impiego.

13. One–of–a–kind: questi giocatori sono letteralmente fuori categoria, presentando caratteristiche tali

da essere unici nel loro genere.

Per ogni posizione, per la prima volta è possibile topologicamente e matematicamente definire che cosa

significa giocare in tale posizione, quali giocatori occupano una determinata posizione e chi di loro

incarna la posizione migliore.

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Nella consapevolezza di ricordare che i cestisti moderni sono in grado di ricoprire ruoli diversi,

cambiando posizione anche nel corso della partita, a seconda della situazione che si viene a creare in

campo, le 13 posizioni di Muthu hanno la particolare caratteristica di non presentarsi come entità

rigide.

I giocatori di basketball quindi, possono occupare una funzione in qualsiasi parte del campo, possono

non essere definiti con una posizione e soltanto grazie alle loro competenze rendono una squadra

migliore.

La posizione si propone di essere semplicemente un riflesso del ruolo di un giocatore all’interno del

concetto di squadra; la posizione non è necessariamente indicativa di quanto possa giocare bene un

giocatore, bensì esclusivamente del suo modo di occupare il campo.

La forma dei dati analizzati ha risposto a una domanda assai affascinante: come può questa conoscenza

derivata aiutare le squadre a raggiungere la vittoria?

Il risultato è uno strumento con il potere di cambiare il modo con cui si costruiscono le squadre

sportive.

Muthu presenta dei network topologici di due squadre dell’NBA della stagione 2010-2011.

L’equilibrio nella composizione della rosa e l’occupazione dello spazio e delle funzioni in campo

hanno svelato il nome delle due squadre e i loro risultati raggiunti nella stagione appena conclusa.

La prima, i Dallas Mavericks, una squadra equilibrata nella strutturazione dei suoi componenti che ha

raggiunto la finale e il titolo NBA nel 2011. La seconda i Minnesota Timberwolves che hanno occupato

il fanalino di coda per tutta la stagione nella Western Conference.

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Figura 15. Network delle 13 posizioni nel basket, in cui le regioni rosse indicano i giocatori dei Dallas Mavericks. Questa rappresentazione mostra la diversità di ruoli dei giocatori di Dallas ma allo stesso l’equilibrio nella copertura delle diverse competenze per ruolo.

Figura 16. Lo stesso network topologico di giocatori, in cui le regioni rosse indicano i Minnesota Timberwolves.

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Le posizioni dei giocatori sono arbitrarie e obsolete. L’innovazione di Muthu consente di lasciare al

comportamento dei giocatori, alla performance e alle statistiche, la definizione dei ruoli.

Utilizzando tali informazioni, gli allenatori possono essere in grado di costruire team con abilità

complementari, formare un determinato talento e mettere in atto strategie vincenti. L’approccio

creativo di Muthu Alagappan e dell’Ayasdi potrebbe risolvere alcuni dei misteri più profondi del

basketball e aiutare i team a vincere più partite.

In seguito alla presentazione di queste teorie sono numerose le squadre della lega NBA ad aver

costituito una partnership con Ayasdi, una di queste è stata Miami Heat.

Nella stagione 2011-2012 i Miami Heat, per esempio, utilizzando 5 ali in campo nello stesso momento,

sono riusciti ad accedere alle finali di Conference contro i Boston Celtics dove hanno vinto la serie

dopo essere stati ad un passo dall'eliminazione sotto per 3-2 e si sono laureati per la seconda volta

consecutiva campioni della Eastern Conference, guadagnandosi così il diritto a giocare la NBA Finals

con gli Oklahoma City Thunder.

La squadra di Miami con il risultato schiacciante di 4-1 ha vinto il suo secondo titolo della storia e uno

straripante Lebron James è stato nominato MVP delle finali.

I tradizionali ruoli avevano molto più senso verso l’inizio del secolo, quando il basketball era ancora

agli arbori. Le guardie erano tenute a “custodire” il canestro, le ali rimanevano vicino al canestro e il

centro era quasi sempre il giocatore più alto della squadra.

Oggi dopo aver visto la qualità di gioco dei giocatori e le analisi condotte, possiamo affermare che le

posizioni in campo sono irrilevanti perché i giocatori sono valutati dall’apprendimento delle

competenze che hanno maturato. Esistono giocatori in grado di ricoprire qualsiasi posizione in campo

senza sentirsi come un pesce fuor d’acqua.

La ricerca di Muthu Alagappan, ci porta alla conclusione che nella valutazione di un team, soltanto

quello che possiede e fa affidamento su giocatori che in base alle loro competenze ricoprono diversi

stili di gioco, otterrà risultati migliori di un altro team che ha giocatori che in gran parte svolgono la

stessa funzione.

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Diversificazione selezione capitale umano

L’analisi sopracitata di Muthu Alagappan potrebbe rappresentare una nuova frontiera per il basketball,

ma anche per gli altri sport di squadra in generale. Si potrebbe modificare il modo con cui sono valutati

i giocatori e si potrebbe rendere radicalmente diverso il lavoro dei dirigenti che hanno il compito di

creare una squadra competitiva. Nella valutazione dei processi decisionali, dell’innovazione, della

produttività e della concorrenza, si sono compiuti passi avanti nel valutare una squadra e il modo in cui

i giocatori interagiscono tra di loro.

Dal ripensamento delle strutture va di pari passo una nuova valutazione di ruolo, inteso come

arricchimento del concetto medesimo. Un cambiamento notevole nel passaggio verso l’organizzazione

che apprende, riguarda il livello di struttura formale e di controllo esercitato sugli individui nello

svolgimento dei loro movimenti o del loro lavoro.

Con il parallelo dell’impresa, le strutture industriali tradizionali sostengono la precisa definizione di

ogni mansione e di come deve essere svolta. Un compito è un’attività lavorativa definita con precisione

e assegnata a una persona, e nelle organizzazioni tradizionali vengono suddivisi in elementi specifici e

separati, come in una macchina. La conoscenza e il controllo del compito sono centralizzati al vertice

dell’organizzazione e ci sia aspetta che gli individui facciano ciò che viene loro richiesto.

Un ruolo, invece, costituisce parte di un sistema sociale; è caratterizzato da discrezionalità e

responsabilità e permette che le persone facciano uso del proprio giudizio e della propria abilità per

ottenere un risultato o raggiungere un obiettivo. Nelle learning organization le persone ricoprono dei

ruoli all’interno del team e i ruoli possono essere costantemente adattati o ridefiniti. La conoscenza e il

controllo dei compiti non sono affidati ai vertici, e i giocatori o dipendenti vengono incoraggiati a

risolvere problemi lavorando insieme.

Per arrivare al successo e al raggiungimento di un obiettivo prefissato e comune, la priorità per la

squadra è l’esigenza di respirare insieme. La singola posizione perde la sua unicità e staticità,

arricchendosi di un’esperienza di apprendimento, che consente una rivoluzione nell’interpretazione che

un giocatore possiede nell’occupare lo spazio in campo e nella gestione delle sue risorse.

Indipendentemente dalle fortune o meno, o dal confronto delle parole spese e dei risultati ottenuti, un

caso particolare raggiunge le sponde giallorosse della Roma, durante il calciomercato dell’estate 2012.

Nella capitale si presenta Mauro Goicoechea. Il cognome ricorda quello del portiere che eliminò l’Italia

in semifinale dei Mondiali di Italia ’90, parando due rigori. Quel Goicoechea lì, però, era argentino,

questo è uruguayano e si presenta a Roma con un bel carico di personalità: «Sono grato alla Roma per

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avermi voluto. La mia ambizione è conquistare nel tempo la maglia da titolare». Ai giornalisti

presentatisi alla conferenza stampa, che gli chiedono poi quale potesse essere la sua migliore abilità nel

suo ruolo di estremo difensore, risponde: «Sono Bravo con i piedi!».

Queste le parole del portiere arrivato alla Roma in prestito dal Danubio negli ultimi giorni del

calciomercato. Il giocatore uruguaiano, nel giorno della presentazione a Trigoria, ha sottolineato che

uno dei suoi punti di forza è il gioco con i piedi tanto caro a Zeman, che lo ha espressamente richiesto

in giallorosso. Mauro Goicoechea, sconosciuto ai più ma non al boemo e a chi glielo aveva consigliato,

ha conquistato nel primo mese della stagione la maglia di portiere titolare della Roma. Lo stile è quello

che è, a volte un po’ naif, con alcune imprecisioni che possono far drizzare i capelli.

Quando l’allenatore boemo giustificò la sua preferenza all’uruguayano piuttosto che all’olandese

Stekelenburg disse a tal proposito: “Para meno ma partecipa di più”. Magari Goicoechea ha tra i pali

uno stile un po’ vintage, che ricorda molto certi portieri degli Anni Sessanta, rivisitato in chiave

moderna grazie al buon uso dei piedi e all’attenzione alle due fasi. Si muove quasi fosse un vecchio

libero dietro la difesa, salendo molto accompagnando la linea per accorciare la squadra. E quando

rientra in possesso della palla è lestissimo a riavviare la manovra sia con le mani che con i piedi. Cento

per cento zemaniano. Sempre in movimento, rapido, attento, sfarfaleggiante, bravo coi piedi,

estemporaneo, miracoloso, con tanto di papera dietro l’angolo.

Nella visione dell’allenatore la squadra respira anche grazie a lui: l’interdipendenza tra i giocatori

diventa il valore aggiunto nei processi di squadra.

Figura 17 Mauro Goicoechea, il portiere che ha convinto Zeman con i piedi.

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Basketball come Learning organization

Lo sport di squadra riflette l’organizzazione sociale.

Questa è la tesi del sociologo ed emerito professore dell’Università Johns Hopkins: Michael

Mandelbaum. Nel suo libro “The meaning of sports”, infatti, sostiene che nello sviluppo della società

umana, esiste una dimensione tra il giocoso e il serio in cui gli uomini si allenano a fare cose

importanti.

Partendo dagli inizi della civiltà umana in cui i pilastri che determinavano l’esistenza di una persona e

di un gruppo, erano la caccia per procacciarsi il cibo e la guerra per difendere la propria famiglia o

tribù, era naturale che i giovani si avvicinassero all’abilità del lottare o del cacciare, attraverso un

allenamento o un gioco, per esempio lanciare più lontano e con più forza una lancia o una pietra,

oppure sopraffare nella lotta il compagno di giochi.

Lo sport da allora diventa pedagogia con la quale allenare e preparare alla vita vera le forze giovanili.

Dal processo individuale di formazione delle proprie capacità, prende atto la maturazione di un’idea di

gruppo. In alcune rappresentazioni rupestri, infatti, è possibile incontrare il primo concetto di squadra.

Puntando lo sguardo ad una rappresentazione di caccia al bisonte, appare evidente che un gruppo di

primitivi sviluppasse una strategia per catturare la preda.

La concezione egoistica di base sarebbe che ognuno vorrebbe catturare la propria preda, esserne

padrone e difenderla da tutti quanti; il concetto di cacciare di squadra, invece, rappresenta un salto

strepitoso, poiché ognuno mette le proprie abilità al servizio di un gruppo ed appare evidente che il

risultato diventa migliore di quello che si potrebbe raggiungere individualmente.

Nasce l’idea della squadra come organizzazione che migliora e potenzia le singole individualità che la

formano.

Giungendo all’età moderna, intorno al secolo XVIII in Europa, con lo sviluppo della civiltà umana e

con il cambiamento delle strutture sociali predisposte a gestirla, si sente la necessità di dare

un’organizzazione al lavoro. In sintonia e nel rispetto della componente sportiva, come strumento di

apprendimento e formazione delle competenze da esprimere nel mondo del lavoro, si attua una

rivoluzione anche nella struttura classica dello sport. Anche in quell’ambito sopracitato come ludico ma

allo stesso tempo serio, si sente la necessita di dare dei sistemi di regole. Organizzando il lavoro si

organizza anche lo sport; si vede la nascita di sport quali il calcio e il rugby.

Lavoro e sport condividono la stessa strada nell’organizzazione sociale.

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Il pensiero di Mandelbaum, trova terreno fertile anche nelle considerazioni di Robert W. Keidel, il

quale studiando i tre sport nazionali americani, baseball football e basketball, ritiene che ognuno di

questi attenga ad un periodo diverso dello sviluppo recente della storia dell’umanità.

Tali considerazioni sono importanti aiutarci a esplorare una visione di Gruppo come sistema di

competenze, e ripensare la struttura delle nostre organizzazioni per giungere alla massima realizzazione

del capitale umano.

Prendendo in esame i tre grandi sport americani, il baseball rappresenta lo sport della civiltà contadina.

Si svolge all’aperto, in grandi spazi, come gli altri sport americani è stagionale, e nello specifico si

gioca durante l’estate. Originariamente, infatti, una partita poteva durare finché non scendeva il sole,

esattamente come il lavoro dei contadini. Anche i tempi e i ritmi di gioco, con l’alternanza di grandi

pause e momenti di grande intensità, rispecchiano il sistema di lavoro contadino.

Le organizzazioni collegate all’agricoltura sono piccole, con strutture semplici e confini incerti, in

genere non interessate ad espandersi.

Il football americano è lo sport della civiltà industriale. Con l’inurbamento e l’organizzazione del

lavoro industriale in parallelo nasce e si afferma il football.

Uno sport, in apparenza soltanto rude e violento, ma complesso dal punto di vista tecnico. Il gioco

avviene per settori separati molto specializzati, ognuno dei quali ha un allenatore che cura e controlla

l’efficace svolgimento del gioco nei rispettivi spazi d’azione. Ogni settore costruisce un pezzo e il

prodotto finale è l’assemblaggio dei pezzi del gioco.

Esattamente come nella catena di montaggio inventata da Ford, il cosiddetto “fordismo”, il contesto

dove si svolge l’azione di gioco deve rispettare una rigidissima organizzazione dei ruoli.

Nell’età industriale emerge un nuovo paradigma organizzativo: la crescita diventa un fattore centrale

per il successo, i confini tra unità funzionali e tra organizzazioni diventano netti. La comunicazione è

verticale, dove i manager sono responsabili sia della pianificazione sia del complesso del lavoro

intellettuale, mentre i dipendenti si fanno carico del lavoro manuale in cambio di stipendi e altre forme

di remunerazione.

Il basketball è lo sport della civiltà post-industriale e post-moderna, del terziario e della comunicazione.

Per la prima volta, un gioco non dipende dalle condizioni atmosferiche, le condizioni restano sempre le

medesime, entrando quindi in una dimensione tecnologica. Altra particolarità rispetto agli altri due

sport è rappresentata dai limiti di tempo; la dimensione temporale diventa sovrana.

Il tempo e lo spazio obbligano i giocatori ad esprimersi entro un perimetro molto definito.

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Il basketball stravolge tutte le regole: tutti devono giocare sia in attacco che in difesa, tutti per ragioni

tattiche, devono sapersi scambiare i ruoli oltre la propria specializzazione. Non c’è interruzione, né

soluzione di continuità ed esige una flessibilità tattica spaventosa, esattamente come nella vita di

oggigiorno. Infine, a differenza degli altri giochi che usano una comunicazione verticale,

dall’allenatore agli esecutori in campo, il basket ha una comunicazione orizzontale, come Internet. Il

coach indica delle linee strategiche ma in campo sono i giocatori a comunicare contenuti tattici tra di

loro, a scegliere mentre l’azione si svolge, le soluzioni migliori e a trovare comunicazioni laterali, per

pacchetti, esattamente come la trasmissione dei file in rete.

L’input, infatti, è quello di un’idea strategica, ma nel flusso della partita, questa si confronta con ciò

che esprime l’avversario; su questa base risulta necessario identificare una contro-strategia e

comunicarla per fare in modo che in brevissimo tempo tutti i componenti sappiamo cosa fare.

La comunicazione avviene per segmenti, se un segmento di gioco si comporta in un certo modo, è una

comunicazione per il segmento opposto di adeguarsi a quel tipo di movimento.

In questo modo si identifica una comunicazione a rete, con la quale si prospetta una società

completamente diversa, non più legata a un ruolo, ma dove i suoi componenti sono in grado di

cambiare ruolo e grazie a tale interfunzionalità, presentare soluzioni innovative.

In queste organizzazioni, le condizioni di sorpresa e complessità non permettono ai manager di

prevedere e controllare gli eventi interni ed esterni alle organizzazioni. Per farvi fronte, le

organizzazioni hanno bisogno di passare ad un nuovo paradigma, che non sia basato sulle assunzioni

meccanicistiche dell’era industriale, ma che sia fondato, invece, sull’idea di un sistema organico

vivente. Le organizzazioni si spostano verso strutture flessibili e decentralizzate che enfatizzano la

collaborazione orizzontale. La principale fonte di capitale diventa l’informazione e la conoscenza.

Sull’esempio del basketball possiamo intuire come molti manager possono ridisegnare le loro imprese

verso qualcosa denominato l’organizzazione che apprende (learning organization).

Tale organizzazione promuove la comunicazione e la collaborazione in modo tale che ognuno sia

coinvolto nell’identificazione e nella risoluzione dei problemi, permettendo all’organizzazione di

sperimentare, migliorare e incrementare di continuo le proprie capacità.

La learning organization è basata sull’uguaglianza, sull’informazione aperta, su un basso livello di

gerarchia e una cultura che incoraggi l’adattabilità e la partecipazione, in modo da far sì che le idee

scaturiscano da ogni punto dell’organizzazione e possano aiutarla a cogliere le opportunità e gestire la

crisi. In una learning organization il valore essenziale è la capacità di risolvere problemi, mentre

l’organizzazione è progettata solo per operare in modo efficiente.

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Sotto questa luce, appare giustificabile che il mondo delle aziende abbia eletto il basket a sport maestro.

In sintesi secondo Keidel, se il baseball è lo sport dell’America rurale e semplice, se il football quello

del Paese industriale, con il culto della forza nato nel dopoguerra, il basketball s’impone nell’era di

internet e dell’organizzazione che apprende, quando la squadra conta più degli individui.

Baseball Football Basketball

Organizzazione Agricola Industriale Learning organization

Gerarchia Moderata Alta Bassa

Indipendenza giocatori Bassa Bassa Alta

Importanza competenze

generali Alta Bassa Alta

Importanza relazioni

reciproche Bassa Bassa Alta

Flessibilità organizzazione Bassa Bassa Alta

Tabella 1 Relazioni tra le dimensioni strutturali dei tre giochi di squadra.

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Una differenza principale tra baseball, il football e il basketball è rappresentata dall’interdipendenza

che lega i giocatori.

Baseball Football Basketball

Interdipendenza generica sequenziale reciproca

Dispersione fisica dei

giocatori alta media bassa

Coordinamento regole di gioco schema di gioco e ruoli delle

varie posizioni

adattamento reciproco e

responsabilità condivisa

Ruolo chiave dell’allenatore selezionare i giocatori e

sviluppare le loro capacità preparare e gestire la partita

influenzare il flusso di gioco

(idea strategica)

Tabella 2 Relazioni tra interdipendenza e altre caratteristiche del gioco di squadra

Pete Rose, negli anni Settanta un mito in questo sport e stella dei Cincinnati Reds, soprannominati “The

Big Red Machine” ha affermato: “Il baseball è un gioco di gruppo, ma nove uomini che raggiungono i

loro obiettivi individuali fanno un bel gruppo”.

Nel baseball, l’interdipendenza tra i membri della squadra è bassa e può essere definita come generica.

Ogni membro agisce indipendentemente, andando al turno di battuta e gestendo la propria posizione sul

diamante. Quando c’è interazione, questa è solo fra due o tre giocatori. I giocatori sono fisicamente

dispersi sul campo e le regole del gioco sono i mezzi principali di coordinamento tra i giocatori. Questi

ultimi praticano e sviluppano le proprie abilità individualmente, ad esempio esercitandosi nella battuta

e allenandosi all’affaticamento fisico. Il lavoro dell’allenatore consiste principalmente nello scegliere

buoni giocatori. Se ogni giocatore ha successo a livello individuale, il gruppo nel suo insieme dovrebbe

vincere.

Page 89: Learning playing: la metafora sportiva e l'organizzazione che apprende

89

Nel football americano l’interdipendenza tra i giocatori è più alta e tende a essere di tipo sequenziale.

La prima linea blocca gli avversari per permettere ai “running back” di correre o passare. Le azioni di

gioco a disposizione di una squadra si susseguono consecutivamente ogni volta dal primo down al

quarto down. La dispersione fisica è media, permettendo ai giocatori di agire come un’unità coordinata.

Il meccanismo principale per il coordinamento tra i giocatori consiste nello sviluppare un piano di

gioco, oltre che in un insieme di regole che governano il comportamento dei componenti della squadra.

Ogni giocatore ha il compito coerente con quelli degli altri e l’allenatore disegna lo schema di gioco in

modo da ottenere la vittoria.

Nel basket l’interdipendenza tende a essere di tipo reciproco. Il gioco si svolge con meno vincoli e la

divisione del lavoro è meno precisa che in altri sport. Ogni giocatore è impegnato sia in attacco sia in

difesa, gestisce il possesso di palla e tenta di segnare. La palla viene smistata in continuazione tra i

giocatori, che interagiscono in un flusso dinamico per ottenere la vittoria. Le competenze

dell’allenatore si traducono nella capacità di influire su questo processo dinamico, sia sostituendo

giocatori sia fornendo schemi di gioco che indicano in quali aree giocare la palla. I giocatori devono

imparare ad adattarsi al flusso di gioco e gli uni agli altri in base a come si sviluppano gli eventi.

L’interdipendenza tra i giocatori è un fattore di primo piano nello spiegare la differenza tra questi sport.

Il baseball è organizzato intorno a un individuo autonomo, il football americano intorno a gruppi che

sono in rapporto di interdipendenza sequenziale e infine il basketball intorno al libero flusso di

giocatori in rapporto reciproco7.

7 Robert W. Keidel, “Team Sports Models as a Generic Organizational Framework”, Human Relations 40 (1987): 591-612

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90

Concezione di ruolo

Ruolo come sistema di aspettative

Prima di qualsiasi ragionamento sul concetto di ruolo organizzativo, è opportuno affrontare il tema del

ruolo nella sua generalità, nella sua essenza sociale. Intendiamo il ruolo come: “Sistema di norme e

aspettative che convergono su una persona in quanto occupa una determinata posizione all’interno di

una rete di relazioni sociali.”8

− Sistema di norme e aspettative: ogni sistema o gruppo sociale (dal micro: esempio la famiglia o

la squadra al macro: esempio l’impresa o la scuola) ha necessità di "definire" dei ruoli (padre-

madre-figlio/a-fidanzata/o, allenatore-giocatore; insegnante-alunno ecc).

Attraverso questi ruoli si intrecciano determinate relazioni. Per la sopravvivenza e stabilità del

sistema si attribuiscono ai ruoli norme specifiche che regolano i comportamenti in modo

determinato. Non tutti i comportamenti, tuttavia, possono essere prefigurati in anticipo e quindi non

bastano le norme a definire un ruolo: occorre prendere in considerazione anche quali attese e

aspettative, hanno gli altri elementi del sistema rispetto ad uno specifico ruolo.

Questa discrepanza è anche il motore della vita sociale, per cui i ruoli non sono codificati per

sempre ma si modificano, si aggiungono oppure scompaiono.

Si sottolinea la funzione determinante che svolge il ruolo all’interno dei diversi contesti: quella di

definire, delineare ed orientare i comportamenti delle persone nella loro vita sociale.

− Convergono su una persona: proprio il fatto, cioè che il ruolo sia uno spazio di azione attribuito

ad una persona, rimanda al problema dell’interpretazione dei ruoli da parte di chi lo ricopre. Non a

caso ruoli simili, definiti attraverso le stesse norme e aspettative, sono agiti in modi radicalmente

differenti. Ogni persona, influenza il ruolo che ricopre, con il suo bagaglio di:

− capacità;

− conoscenze;

− esperienze;

− motivazioni;

− interessi;

− aspettative.

8 R.L. DAFT, Organizzazione Aziendale, Apogeo, Milano, 2010

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91

• Determinata posizione: un individuo si trova a ricoprire più ruoli contrastanti tra di loro, in quanto

occupa una posizione. Tale concetto rimanda a quello di spazio, di azione e di identità sociale.

Attraverso i ruoli che progressivamente andiamo a ricoprire, acquista concretezza la nostra storia

come individui, come persone che agiscono in un ambiente sociale.

• Rete di relazioni sociali: nessun ruolo può mai esaurire la totalità del sistema e occorre sempre

considerare tutte le relazioni presenti. Parlare di un sistema, significa riconoscere che il contesto di

relazioni in cui un determinato ruolo è inserito consente di definirne le caratteristiche peculiari. Se

quindi possiamo indicare alcuni tratti fondamentali per certi ruoli che sono ugualmente presenti in

molti contesti, solo studiando lo specifico sistema si potrà comprendere il tipo di relazioni che sono

presenti, il tipo di posizione che formalmente ed informalmente quel ruolo occupa rispetto agli altri

ruoli e le interdipendenze che si generano.

Ruolo organizzativo

Possiamo definire il ruolo all'interno di un'organizzazione: “Lo spazio di attività affidato ad una

persona che occupa una posizione all’interno del sistema organizzativo definito da un obiettivo

fondamentale.”

La costruzione di un modello del ruolo organizzativo deve riconoscere che, essendo il ruolo uno spazio

di attività e una posizione all’interno di un insieme più vasto, occorre anzitutto definirne i confini. Il

problema che ogni ruolo deve affrontare è, infatti, la capacità di governare i confini e le attese che

gravano su di lui. Le attese provengono sia dall’organizzazione, come richieste di comportamento per il

raggiungimento degli obiettivi, sia come attese (relazionali) che hanno le persone che interagiscono con

lui.

E’ possibile ipotizzare tre aree entro le quali si può interpretare un ruolo:

1. Area prescritta. Rappresenta quella parte del ruolo in cui l'organizzazione indica alla

persona che lo ricopre le attività da svolgere, le procedure da seguire, le metodologie da

applicare ed e’ direttamente collegata all’obiettivo fondamentale del ruolo stesso. Più grande

è l’area prescritta, quindi maggiormente definita, e minore è la necessità per la persona di

interpretarlo.

2. Area discrezionale. In un contesto instabile, dove i cambiamenti sono continui e

imprevedibili, alle risorse viene allora richiesto di avere una parte attiva, di mettere in

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92

campo le loro capacità e interpretare fenomeni, situazioni, dati e informazioni per

individuare i comportamenti, le azioni e le attività siano più idonee per il perseguimento

dell’obiettivo fondamentale del ruolo stesso. Discrezionalità significa affidare ad un ruolo la

responsabilità di interpretare la realtà e quindi di operare le scelte di comportamento che ne

conseguono.

3. Area innovativa. Rappresenta la ricerca da parte della persona di come meglio assolvere il

proprio ruolo, individuando nuove modalità per raggiungere il proprio obiettivo. In ambito

organizzativo questo può avvenire solo attraverso un’idea strategica che incoraggi la

sperimentazione.

Figura 18 Modello del ruolo organizzativo

Oggigiorno i comportamenti attesi dalle imprese rimandano alla capacità di saper gestire la parte

discrezionale in ogni compito e ruolo, come condizione per comprendere quanto accade all’interno e

all’esterno dell’organizzazione.

Page 93: Learning playing: la metafora sportiva e l'organizzazione che apprende

93

Mappatura delle competenze chiave

Come creare le condizioni organizzative per rendere possibile una pronta riconfigurazione delle

strutture, delle procedure e dei comportamenti al fine di cogliere le opportunità celate nei processi di

apprendimento?

A partire da tale interrogativo, dopo il ripensamento delle strutture classiche, risulta necessario

esplicitare una mappatura delle competenze chiave.

Nel processo di interpretazione del ruolo e nel percorso finalizzato a stimolare lo sviluppo di

competenze per abitare sistemi complessi quali le organizzazioni d’impresa, l’obiettivo richiesto allo

sport di squadra, è legato alla costruzione di un “contenitore di apprendimento” finalizzato a fornire

una cornice ispirativa e creativa delle competenze.

Il fine di questo allenamento all’apprendimento parte dal concetto di educare.

L’educare, in quanto e-ducere, promuove nel soggetto che apprende il bisogno di “tirare fuori da sé”, di

liberare e di esprimere tutto il proprio potenziale cognitivo, emotivo e di azione, al fine di “saper

decidere” in modo autonomo: qual è il significato del proprio essere-nel-mondo (competenze

esistenziali), verso quali obiettivi orientare il proprio personale progetto di vita (competenze

progettuali), attraverso quali modalità comunicare con se stesso, con gli altri e con il mondo

(competenze relazionali), quali sono i criteri sulla base dei quali egli intende “prendere le decisioni”

(competenze di decision making).

Il capitale umano, quindi, per poter esprimere un’equilibrata e armonica capacità di “saper decidere”

quale è il bene per sé in interazione e integrazione con il bene dell’altro, e di abitare la complessità

necessita anzitutto di un’efficace padronanza di determinate competenze.

− Flessibilità: “Vincitore in felicità è chi dispone di molto atteggiamenti”- S. Ceccato.

Per adattarsi e avere successo in un sistema complesso occorre essere flessibili, curiosi e aperti al

nuovo; più è elevato il nostro grado di flessibilità, più accrescono le possibilità di azione e di

successo. Consente di sviluppare apertura mentale e libertà nel percorrere strade nuove, aumentare il

livello di adattamento positivo e felice al contesto organizzativo e incrementare la gamma di

comportamenti possibili per il raggiungimento dei propri obiettivi.

− Cambiamento: “L’unica cosa che non cambierà mai, è il cambiamento”- Eraclito.

Il cambiamento è una condizione costante e necessaria della nostra vita professionale e personale; è

possibile imparare a vivere le situazioni di instabilità e cambiamento con benessere personale ed

Page 94: Learning playing: la metafora sportiva e l'organizzazione che apprende

94

efficacia professionale. Il cambiamento è una condizione costante e necessaria per affrontare mercati

complessi in continua evoluzione. L’instabilità richiede individui capaci di generare in sé stessi e nel

proprio gruppo calma, lucidità, motivazione.

− Creatività: “La maggior parte degli uomini guarda le cose del mondo e si chiede: perché? Io

guardo le cose del mondo e mi chiedo: perché no?” - G.B.Shaw.

Il pensiero laterale, creativo e intuitivo è una risorsa che da sempre gli individui utilizzano per

affrontare e risolvere i problemi concreti. Ogni persona la possiede, indipendentemente dal suo

livello di istruzione, dal mestiere che svolge, dai gusti e dalla sensibilità culturale. Questa funzione

può essere potenziata e dispiegata per essere pienamente efficaci ed eccellenti nel lavoro e nella vita

di tutti i giorni. Consente di stimolare la propria immaginazione e quella degli altri: la nostra

capacità di prevedere scenari futuri e adattarvi il nostro modo di lavorare è stata e sarà un elemento

portante del nostro successo.

− Passione: “Per me esiste solo il cammino lungo sentieri che hanno un cuore” – C.Castaneda.

Amiamo quello che facciamo ed è la nostra passione che alimenta la determinazione a renderci unici

agli occhi degli altri. Siamo orgogliosi di quello che abbiamo raggiunto e crediamo sinceramente

che il nostro lavoro sia un valore per la vita delle persone. La passione non è un concetto astratto ma

è energia, entusiasmo, voglia di fare e motivazione.

− Feedback: “Non puoi insegnare qualcosa a un uomo, puoi solo aiutarlo a scoprire dentro di

sé” - G.Galilei.

Ogni occasione di ampliamento della conoscenza di sé è una preziosa occasione di crescita

personale perché quando riconosciamo le nostre risorse e le nostre debolezze possiamo agire in

modo consapevole e ottenere il meglio per noi e per il nostro lavoro. Lo strumento fondamentale per

allargare la conoscenza di sé è il feedback. Saper ricercare, ascoltare, utilizzare e scambiare

feedback è una competenza chiave per il proprio ininterrotto sviluppo.

− Team work: “Le buone squadre diventano grandi squadre quando i giocatori si fidano gli uni

degli altri e subordinano l’Io al Noi” - Phil Jackson, coach del Lakers.

Lavorare in gruppo, cooperare in modo costruttivo con gli altri è una delle esperienze più

entusiasmanti e più difficili che ci siano. Imparare a interagire con gli altri in un gruppo di lavoro è

un’occasione significativa di crescita individuale.

− Relazioni: “Nel regno degli esseri viventi non esistono cose, ma solo relazioni” -G.Bateson

Costruire e mantenere relazioni sane e proficue con gli altri è un presupposto del nostro benessere e

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della nostra efficacia professionale. Accrescere la propria flessibilità relazionale è intesa come il

numero di risposte possibili a fronte di una situazione data.

− Coraggio: “Non chiamarla incertezza: chiamala meraviglia! Non chiamarla insicurezza:

chiamala verità!” - Proverbio indiano.

Il coraggio è la virtù dell’eroismo quotidiano, non quello delle imprese fuori dal comune, è la forza

profonda che ci fa guardare all’ignoto e al futuro con desiderio, ci riempie di energia e ci consente di

realizzare i nostri progetti. Il coraggio non è il contrario della paura ma è agire malgrado (o

addirittura grazie) alla paura. Ci consente di affrontare sfide e avventure professionali sentendosi

emotivamente attrezzati e alimentare il proprio desiderio di futuro.

− Iniziativa: “Non aspettare il momento opportuno: crealo!” - G.B.Shaw.

Sempre di più la natura complessa del lavoro richiede intraprendenza e comportamenti proattivi. Le

persone che partecipano attivamente, che si coinvolgono che prendono l’iniziativa sono quelle che

producono risultati eccellenti. Permette di aumentare il grado di coinvolgimento mettendo in atto

comportamenti proattivi efficaci ed elevare il livello di prestazione.

− Efficacia personale: “Dare a qualcuno la libertà di assumersi responsabilità, sprigiona risorse

che altrimenti rimarrebbero nascoste” - J. Carlzon.

Le persone che realizzano imprese, che vanno fino in fondo alle cose sono quelle che si sentono

efficaci e che per questo si pongono obiettivi sfidanti e si assumono la responsabilità di ciò che

fanno. La sensazione di sentirsi all’altezza dei compiti consente inoltre di trasformare i propri

insuccessi in occasioni di apprendimento.

− Gestire progetti: “Progetta sempre una cosa considerandola nel suo più grande contesto, una

sedia in una stanza, una stanza in una casa, una casa nell’ambiente, l’ambiente nel progetto di una

città” - E. Sarineen.

I progetti complessi hanno bisogno di essere gestiti in modo razionale: occorre organizzare il

proprio lavoro e il lavoro degli altri, presidiare gli obiettivi e il tempo.

− Gestire priorità: “E’ la gerarchia delle cose che definisce la gerarchia del tempo” - C. de

Gregorio.

Tutto è urgente, tutto è importante. La capacità di produrre risultati dipende da come si organizza il

proprio lavoro e la capacità di organizzare il proprio lavoro dipende dalla capacità di individuare e

gestire le priorità.

− Comunicazione efficace: “Per vincere occorre che il portiere pari, i difensori difendano, gli

attaccanti attacchino e i centrocampisti centrocampistino” - Arrigo Sacchi.

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Le idee più creative e i progetti più importanti rischiano di non tradursi in azione se non vengono

comunicati adeguatamente, se non riusciamo ad attirare positivamente l’attenzione dei nostri

interlocutori, a creare sintonia con loro e ad essere efficaci per convincerli della validità delle nostre

proposte.

− Leadership: “Leadership è generare mondi a cui è bello appartenere” - R. Dilts.

La leadership è l’insieme dei comportamenti attraverso i quali influenziamo positivamente gli altri e

i contesti. E’ costituita da tre elementi fondamentali: una sovrabbondanza di energia, una visione, e

una capacità di generare relazioni sane e costruttive. La leadership è ciò che facciamo e gli effetti

che ciò che facciamo producono. Ma ciò che facciamo dipende da ciò che sappiamo fare e ciò che

sappiamo fare dipende da ciò che pensiamo di noi stessi e degli altri, dalle nostre convinzioni, dai

nostri valori e dalla nostra identità. Potenziare la leadership è potenziare sé stessi.

Ogni persona fornisce un contributo apprezzato e l’organizzazione diventa un posto per creare una rete

di relazioni che permette alle persone di sviluppare appieno il loro potenziale. L’enfasi nel trattare delle

competenze chiave, nella pratica sportiva e nel mondo delle imprese, crea un clima nel quale le persone

sono libere di sperimentare, assumere rischi e commettere errori, il che incoraggia l’apprendimento.

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Apprendimento. I gruppi nel mondo degli sport di squadra e nelle organizzazioni

d’impresa sono intesi come sistemi di competenze. E’ necessario ripensare alla struttura del

nostro sistema per consentire che le competenze individuali siano al servizio del collettivo. Il

focus sul ruolo – e non sulla posizione – rappresenta una scelta organizzativa precisa che

orienta l’apprendimento a temi legati a comportamenti e competenze volti a una maggiore

assunzione di responsabilità e a un rapporto più interdipendente con l’organizzazione.

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Responsabilità individuale e collettiva

Introduzione

13 Marzo 2012 – American Airlines Center, Dallas TX

Big 12 Conference Tourney 1st Round

Kansas State

Wildcats9 Colorado

Buffaloes10

40 1ST 37

36 2ND 40

76 FINALE 77

La macchina del tempo della pallacanestro, non cambia il suo protagonista, ma le lancette si spostano

qualche anno più avanti e anche il luogo cambia. Abbiamo lasciato James Naismith nello stato del

Massachusetts, infatti, dove insegnò allo Springfield College fino al 1895, anno in cui si trasferì allo

YMCA di Denver, Colorado

Trasferitosi in Colorado, continuò ad insegnare educazione fisica, divenendo nel tempo anche direttore

del corso. Nel 1898 si laureò in medicina alla Gross Medical School di Denver. Dopo la laurea si

9 www.kstatesports.com 10 www.cubuffs.com

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trasferì all'Università del Kansas a Lawrence; in Kansas continuò ad insegnare educazione fisica, e

contemporaneamente introdusse gli studenti al gioco della pallacanestro. Mantenne l'incarico di

insegnante fino al 1937, anno in cui andò in pensione.

Naismith fu il primo allenatore della storia del basket. Guidò, infatti, i Kansas Jayhawks dal 1898 al

1907. Ad oggi, il suo libro “Basketball: Its Origin and Development” (“La pallacanestro: origini e

sviluppo”, uscito dopo la sua morte nel 1941) resta il caposaldo della bibliografia della pallacanestro. A

lui sono stati intitolati in Canada e negli Stati Uniti riconoscimenti, Hall of Fame, statue e premi. Ogni

anno il miglior giocatore della NCCA11 (National Collegiate Athletic Association, l’associazione

atletica nazionale dei college) riceve il “Premio Naismith”.

Perché parlare ancora di James Naismith? Dobbiamo capire una semplice regola per capire il prossimo

racconto.

Nell’iniziale elaborazione fantasiosa del gioco del basketball, lo stimolo maggiore che spingeva

Naismith era il bisogno di occupare i giovani studenti durante i lunghi mesi invernali in uno sport che si

avvicinasse il più possibile nello spirito al baseball e al football americano. Dopo aver provato tutti gli

sport al chiuso, e dopo aver tentato di convertire il football e il calcio alle limitate dimensioni della

palestra, decise di puntare su uno sport completamente nuovo. Contrariamente alla nascita degli altri

sport, che in pratica si concretizzavano nella regolamentazione di giochi o gare nate spontaneamente, la

pallacanestro e l'unico sport nato “in laboratorio”. Furono, infatti, dettate delle regole che

successivamente generarono e diedero sviluppo al gioco e alla sua pratica.

Le idee del suo fondatore erano sufficientemente chiare. La palla doveva essere abbastanza grande da

impedire l'utilizzo di un attrezzo intermedio (mazza o racchetta). Secondariamente bisognava limitare

la velocità dei giocatori in uno spazio così ristretto con il conseguente obbligo del palleggio. Non

rimaneva che fissare lo scopo del gioco. Una rete o un obiettivo all'altezza del terreno non faceva altro

che invogliare la potenza dei tiri e la possibilità di ostruzione degli avversari. La scelta di un canestro

sollevato da terra fu quindi una scelta quasi obbligata.

Naismith scrisse, così, tredici regole che dovevano caratterizzare il gioco.

1. La palla può essere lanciata in qualsiasi direzione con una o entrambe le mani.

2. La palla può essere colpita in qualsiasi direzione con una o entrambe le mani, ma mai con un

pugno.

3. Un giocatore non può correre con il pallone, deve lanciarlo dal punto in cui lo ha preso.

11 www.ncaa.com/sports/basketball-men/d1: NCAA Basketball maschile, divisione I

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100

4. La palla deve essere tenuta in una mano o tra le mani; le braccia o il corpo non possono essere

usate per tenerla.

5. Non è possibile colpire con le spalle, trattenere, spingere, colpire o scalciare in qualsiasi modo

un avversario; la prima infrazione da parte di qualsiasi giocatore di questa regola è contata come

un fallo, la seconda squalifica il giocatore fino alla realizzazione del punto seguente o, se è stata

commessa con il chiaro intento di infortunare l'avversario, per l'intera partita; non sono ammesse

sostituzioni.

6. Un fallo consiste nel colpire la palla con il pugno, nella violazione delle regole tre e quattro e nel

caso descritto dalla regola cinque.

7. Se una squadra commette tre falli consecutivi, conterà come un punto per gli avversari;

consecutivi significa senza che gli avversari ne commettano uno tra di essi.

8. Un punto viene realizzato quando la palla è tirata o colpita dal campo nel canestro e rimane

dentro, a meno che i difensori non tocchino o disturbino la palla; se la palla resta sul bordo e

l'avversario muove il canestro, conta come un punto.

9. Quando la palla va fuori dalle linee del campo, deve essere rimessa in gioco dalla persona che

per prima l'ha toccata; chi rimette in campo la palla ha cinque secondi: se la tiene più a lungo, la

palla viene consegnata agli avversari; se una squadra continua a perdere tempo, l'arbitro darà

loro un fallo.

10. L'umpire prende nota dei falli, comunicando all'arbitro quando ne sono commessi tre

consecutivi; ha il potere di squalificare un giocatore secondo la regola cinque.

11. L'arbitro è il giudice della palla e decide quando la palla è in gioco, all'interno del campo o fuori,

a chi appartiene e tiene il tempo; decide quando un punto è segnato e tiene il conto dei punti con

tutte le altre responsabilità solitamente appartenenti ad un arbitro.

12. La durata della gara è di due tempi da quindici minuti, con cinque minuti di riposo tra di essi.

13. La squadra che segna il maggior numero di punti nel tempo utile è dichiarata la vincitrice

dell'incontro. Nel caso di pareggio, il gioco può continuare, se i capitani sono d'accordo, fin

quando non viene segnato un altro punto.

Basterebbe la regola tre per raccontare la prossima storia, ma anche il luogo ha la sua importanza.

Il racconto parte proprio dal cuore degli Stati Uniti: il Kansas.

Zona rurale con delle caratteristiche climatiche piuttosto uniche. Uno degli stati più asciutti degli Stati

Uniti, uno dei più assolati pur essendo nella zona centrale, e per via di questo clima, i Tornado del

Kansas sono tra i più pericolosi del continente americano. Un grande amore per il basketball, non a

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caso una delle prime colonie del maestro Naismith, e una lunga e vincente tradizione nel gioco a livello

giovanile. Una tradizione gloriosa vantata all’interno della lega giovanile Big 12 Conference,

associazione sportiva di college statunitensi, membro del NCAA che raggruppa le maggiori scuole del

midwest, vale a dire quella fascia geografica che va dal Texas al Nebraska.

Due le università protagoniste della storia, una a quasi cento chilometri di distanza dall’altra:

University of Kansas (KU) e Kansas State University.

La prima e’ una vera leggenda del basket giovanile. Dal 1898 ha una squadra di basketball maschile:

gli Jayhawks. La squadra ha vinto 12 titoli nella Big 12 Conference, e in tre occasioni ha vinto il titolo

NCAA, nel 1952, 1988 e 2008. Nel 2002 e’ diventato la prima, e finora, unica squadra a completare

una stagione imbattuta con 16 vittorie. Gli Jayhawks hanno annoverato tra i suoi allenatori James

Naismith, l'inventore del basket e unico allenatore nella storia del Kansas ad avere un record perdente;

nell'arco di nove stagioni sedette in panchina in 115 occasioni, vincendo 55 incontri e perdendone 60.

Uno score che non lede la sua immagine di padre-leggenda della pallacanestro.

Forse il giocatore più grande della storia di Kansas è stato Wilt Chamberlain, che ha giocato nel 1950 e

qualche anno dopo, il 2 marzo del 1962 scrisse una delle pagine più grandi della storia dello sport: 100

punti in un’unica gara. Votato uno dei 50 giocatori più forti della palla a spicchi.

Figura 19. Wilt Chamberlain con la maglia dei Jayhawks contro i cugini di Kansas State

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Arrivando all’altra squadra del Kansas, la descrizione non può essere altrettanto ricca di successi.

Rispettando la consuetudine tipicamente americana di avere all’interno della stessa città, due squadre

con tradizioni nello stesso sport diametralmente opposte, vedi i Los Angeles Lakers e i cugini dei

Clippers, stessa sorte tocca ai Wildcats di Kansas State.

Tra le fila di Kansas State un solo episodio inenarrabile nella storia del basketball, ma degno di nota ai

fini dei nostri obiettivi, avvenuto nella settima edizione del Big 12 Conference Tournament.

Se l’impresa di Wilt Chamberlain e’ giunta a noi soltanto grazie ad alcune fotografie dello statistico dei

Philadelfia 76ers Harvey Pollack, la sconfitta di Kansas State negli ultimi secondi contro Colorado,

invece ha qualcosa di incredibile e Sir YouTube ci regala delle immagini particolarmente inusuali per il

gioco del basket.

Figura 20. È il 2 marzo 1962, Philadelphia 76ers supera 169-147 i Knickerbockers di New York grazie alla «mano calda» di Wilt Chamberlain (sopra), che realizza 100 punti in una sera

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http://www.youtube.com/watch?v=RFItSuuy3dU

Figura 21. Ultimi concitati secondi della gara valida per le qualificazioni della big 12. Colorado batte Kansas State 77-76. Decisivo l'errore di Pasco che per un'infrazione di passi "per festeggiamento", regala un'ultima letale occasione agli avversari.

Due sono i protagonisti assoluti: Pervis Pasco, ribattezzato dopo questo episodio “Pervis Fiasco” e la

terza semplicissima regola del “profeta” Naismith, “non è permesso camminare con il pallone fra le

mani”.

Il 13 marzo del 2002, durante la fase di qualificazione della Big 12 Tournament, verso le ore 22:00,

Pervis Pasco si regala tutti i riflettori del caso e si rende protagonista di uno degli errori più sciagurati

nella storia dello sport. 2 secondi di assoluta’ celebrità.

Tante emozioni nella prima fase del torneo della Big12. La partita di gran lunga più entusiasmante è

quella tra Kansas State e Colorado. Il finale senza dubbio più incredibile e concitato che la Big 12

ricordi.

La partita sta per giungere al termine, quando, sul 74 pari, Frank Richards di Kansas State, porta i suoi

sul 76-74 con un layup nel traffico a 3.3” secondi dalla fine. Puramente Geniale.

Tutto quello che rimaneva da fare ai Wildcats era difendere e avrebbero ipotecato il passaggio del turno

nella settima edizione del torneo.

Kansas State ostacola la ripartenza avversaria, cacciando il pallone oltre la linea laterale. 2.6” alla fine,

anche se il cronometro mostra inizialmente 1.8”.

Sulla ripartenza laterale di Colorado, probabilmente ultima speranza per riacciuffare una partita ormai

agli sgoccioli, Pervis Pasco ne intuisce la traiettoria e intercetta il passaggio. Avrebbe potuto fare di

tutto, palleggiare o stare fermo, ma non una passeggiata!

Pasco, intercettando un passaggio, negli ultimi tre secondi contro Colorado, infatti, avrebbe potuto dare

a Kansas State una vittoria a sorpresa. Invece, alzando un braccio in festa e lasciando il campo nella

totale spensieratezza, fa scaturire un fischio, che interrompe la sua gioia. Infrazione di passi!

La passeggiata della celebrazione, il dito indice sollevato in esaltazione. Con la sua passeggiata eroica,

Pervis “Fiasco” concede ai Bufali un’altra possibilità, l’ultima davvero.

Nel caos completo gli arbitri con l’aiuto del replay conteggiano il momento esatto dell’infrazione per

passi. Anche il cronometro e’ sotto shock, infatti, illude inizialmente i Wildcats segnando 0.2 centesimi

di secondo al termine. Il nulla. Ristabilito il tempo esatto, si giunge definitivamente ai 1.8” secondi.

Totale incredulità dei Wilcats!

Ultimissima chance per Colorado, che chiamando un time out, cercano di elaborare una strategia per

arrivare al tiro da tre, o almeno provarci. Detto fatto!

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James Wright, smarcatosi da un blocco, cattura il pallone e senza nessuno vicino a lui fa partire

l’ultimo tiro della partita facendo tremare i ragazzi di Kansas con un tiro da tre punti.

Scocca il tiro, il pallone sovrasta le teste dei Wildcats e nell’ammutolito American Airlines Center,

dopo aver toccato il tabellone, sul suono della sirena fa canestro. 1,8” secondi sono sufficienti a

Colorado, per ribaltare la gara e portarsi ai quarti di finale. Un tiro da tre punti che consegna una

vittoria per 77-76.

Una festa incredibile e insperata da un lato dell’American Airlines Center e un silenzio irreale

dall’altra. James Wright in delirio, corre verso gli spalti e raggiunge i suoi tifosi. La guardia di Kansas,

Gilson DeJesus non può crederci e porta la maglia sugli occhi mentre cammina lentamente. Un tifoso

deluso tira un bicchiere di birra dagli spalti.

Pasco, sempre nel quintetto iniziale in tutte le 59 partite dal suo trasferimento in Florida, non ha

commentato l’accaduto con i giornalisti dopo la partita. Il tiro da tre allo scadere e’ uno degli aspetti

più incredibili della vittoria di Colorado, ma certamente i festeggiamenti prematuri di Pasco si

conservano nella memoria degli appassionati di basketball.

Figura 22. Pervis Pasco e il clamoroso “passi di festeggiamento“ a pochi secondi dalla fine. Errore che permise agli avversari di provare e realizzare il canestro della vittoria.

Page 105: Learning playing: la metafora sportiva e l'organizzazione che apprende

105

L'attività sportiva, praticata con quel sano fatalismo nel quale vittoria e sconfitta, fanno parte di una

bilancia in equilibrio, può anche diventare il campo sul quale si consumano piccoli drammi che

segnano la crescita di un ragazzo.

La bilancia dello sport a volte e’ spietata, se il tiro di Wright dopo aver toccato il tabellone fosse finito

sul ferro, probabilmente l’errore criminoso di Pervis Pasco sarebbe passato in secondo piano,

soprattutto perché commesso da un giocatore sì esperto ma ancora all’inizio del suo percorso nella

pallacanestro. Dopo quella sconfitta con Colorado e la conseguente eliminazione di Kansas State dal

torneo, Pasco ha deciso di iniziare il suo viaggio intorno al mondo per giocarsi le sue possibilità: così

ha vissuto in Bahrein, Qatar, Turchia, Italia (con quattro squadre diverse), Corea, Belgio, Francia, e

infine Spagna.

La fama di giocatore monodimensionale (rimbalzista, stoppatore ma poco pericoloso sotto canestro, col

classico difetto nei tiri liberi) ma anche talvolta poco avveduto tatticamente e nei finali concitati.

La sua esperienza al college inizia a Pensacola, un Junior College della Florida, la stagione da

sophomore12 è quella che gli fa guadagnare la prestigiosa chiamata di un ateneo importante come

quello di Kansas State. Dopo le dirompenti stagioni a Pensacola, l’impatto con la Division I è graduale

e soft, ma è l’unico Wildcat a partire per 29 partite nel quintetto iniziale. Anche nelle file di Kansas

State emerge quella che è la sua indole, chiude la stagione come quarto rimbalzista e stoppatore della

Big 12, con un record personale di 30 punti contro North Texas. L’ultima stagione lo vede in leggero

calo e macchia la sua carriera a Kansas State, con il famigerato errore marchiano nei quarti di finale

contro Colorado.

Raccontando l’episodio del ribattezzato Pervis “Fiasco”, abbiamo sottolineato quanto l’errore

individuale possa avere peso nella performance di squadra. Facendo un passo indietro nella cronaca

della partita e dall’analisi delle statistiche possiamo intuire una dimensione più ampia per motivare la

sconfitta di Kansas State.

I Buffaloes subiscono l’espulsione di uno dei migliori in campo: “Big Man” David Harrison, commette

il quinto fallo e finisce in anticipo la sua partita, quando mancano 1’37. Matt Siembrandt, l’ala di

Kansas State che subisce il fallo, se la ride.

Nell’ultimo minuto i Wildcats si presentano sulla lunetta dei tiri liberi in due occasioni. Gilson DeJesus

mette a segno il primo ma fallisce il secondo. A 43 secondi Matt Siembrandt, se la ride di nuovo

quando si presenta dalla lunetta; ma anche lui mette il primo sprecando la seconda occasione.

12 Il termine inglese sophomore indica, negli Stati Uniti, gli studenti al secondo anno di studi.

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106

Nonostante l’errore, non e’ preoccupato, poiché il punteggio e’ ancora a suo favore, con i Wildcats

avanti sui Buffaloes 74-72.

Sul ribaltamento di fronte, Colorado pareggia i conti. Dalla lunetta Michael Morandais, realizza

entrambe i tiri liberi. Mancano 20 secondi al termine e il tabellone segna la parità. Una partita fino a

quel momento equilibrata sembra potersi risolvere soltanto con un’invenzione del singolo, che possa

accendere la luce per l’una o l’altra squadra. Negli ultimi concitati secondi che portano i Wildcats al

probabile ultimo possesso della gara, i 12 mila dell’Airlines Center di Dallas vivono con incredulità

l’andamento di una partita combattuta colpo su colpo; insospettabile però il finale che sono pronti ad

assistere.

Le invenzioni dei singoli prima arrivano da Frank Richards poi dall’inconsueta coppia Pervis Pasco e

James Wright.

Puntando l’occhio sulle statistiche di squadra13, possiamo interpretare la gara sotto un punto di vista

diverso, la prestazione dei Wildcats e dei Buffaloes risultano equilibrate ma la bilancia tende in ogni

occasione a premiare i ragazzi di Colorado. La responsabilità individuale di Pervis Pasco non emerge

nella generale responsabilità collettiva di Kansas State.

TEAM PT PT CAMPO % DA 2 % DA 3 % LIBERI % R.

DIF R.

OFF R.

TOT STOP PERS REC AST FALLI

76 27/64 42.2 20/48 41.6 7/16 43.8 15/22 68.9 14 22 36 3 4 3 8 21

77 26/62 41.9 20/48 40.8 6/13 46.2 19/26 73.1 17 27 44 9 3 9 10 21

Tabella 3. Statistiche di squadra: Kansas State VS Colorado.

13 http://statsheet.com/mcb/games/2003/03/13/kansas-state-76-colorado-77

Page 107: Learning playing: la metafora sportiva e l'organizzazione che apprende

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Team Giocatore Min Pt PT campo % Da 2 % Da 3 % Lib % R.

dif R. off

R. tot Stop Pers Rec Ast Falli

G. DeJesus 37 10 3/11 27.3 1/3 33.3 2/8 25.0 2/2 100.0 2 6 8 0 0 1 0 3

F. Richards 29 15 7/13 53.8 7/12 58.3 0/1 0.0 1/3 33.3 0 1 1 0 1 1 1 4

J. Hart 28 9 2/8 25.0 0/5 0.0 2/3 66.7 3/4 75.0 1 5 6 0 0 1 5 0

M. Siebrandt 33 11 4/10 40.0 4/10 40.0 0/0 0.0 3/4 75.0 1 2 3 1 1 0 0 3

P. Pasco 31 6 2/7 28.6 2/7 28.5 0/0 0.0 2/5 40.0 2 4 6 2 1 1 2 4

T. Ellis 26 17 6/12 50.0 3/8 37.5 3/4 75.0 2/2 100.0 0 0 0 0 0 0 0 2

M. Hayden 11 8 3/3 100.0 3/3 100.0 0/0 0.0 2/2 100.0 2 0 2 0 1 0 0 4

T. Canby 3 0 0/0 0.0 0/0 0.0 0/0 0.0 0/0 0.0 0 0 0 0 0 0 0 1

S. Thomas 2 0 0/0 0.0 0/0 0.0 0/0 0.0 0/0 0.0 0 0 0 0 0 0 0 0

K-State 200 76 27/64 42.2 20/48 41.6 7/16 43.8 15/22 68.2 14 22 36 3 4 4 8 21

Colorado 200 77 26/62 41.9 20/49 40.8 6/13 46.2 19/26 73.1 17 27 44 9 3 10 10 21

M.

Morandais 33 14 3/10 30.0 3/9 33.3 0/1 0.0 8/9 88.9 1 1 2 0 1 3 5 1

A. McGee 9 0 0/1 0.0 0/1 0.0 0/0 0.0 0/0 0.0 0 1 1 0 0 1 2 3

B. Wilson 34 9 2/9 22.2 0/3 0.0 2/6 33.3 3/4 75.0 2 3 5 0 1 0 0 2

S. Pelle 27 8 4/7 57.1 4/7 57.1 0/0 0.0 0/0 0.0 3 8 11 2 0 1 1 3

D. Harrison 30 21 8/16 50.0 8/16 50.0 0/0 0.0 5/9 55.6 4 4 8 7 0 3 0 5

J. Wright 29 11 3/11 27.3 0/6 0.0 3/5 60.0 2/2 100.0 0 1 1 0 1 1 2 3

L. Harris 22 10 5/5 100.0 5/5 100.0 0/0 0.0 0/0 0.0 6 5 11 0 0 1 0 4

G. Eddy 13 4 1/3 33.3 0/2 0.0 1/1 100.0 1/2 50.0 0 2 2 0 0 0 0 0

C. Copeland 3 0 0/0 0.0 0/0 0.0 0/0 0.0 0/0 0.0 0 0 0 0 0 0 0 0

Tabella 4. Statistiche di squadra per ogni singolo giocatore: Kansas State VS Colorado.

Page 108: Learning playing: la metafora sportiva e l'organizzazione che apprende

108

Una partita che rimarrà nella storia per il curioso epilogo, ma che ha offerto un buon gioco ed ha messo

in risalto le buone capacità di David Harrison. Il sopraccitato centro dei Buffaloes, fuori per falli a

1’37sec dalla sirena, ha chiuso la sua prova con 21 punti, 8 rimbalzi e 7 stoppate. Tremenda la

supremazia di Colorado a rimbalzo (44 – 36).

Se, infatti, la percentuale realizzativa dal campo e nei tiri da 2 punti, risulta equilibrata ma a favore di

Kansas State, non si può dire la stessa cosa per la realizzazione nei tiri da tre punti (46,2 – 43,8) e nei

tiri liberi (73,1 – 68,2) entrambe a favore di Colorado.

Danno merito alla vittoria di Colorado, inoltre, la sostanziale differenza delle palle recuperata (10 - 4) e

delle stoppate (9 – 3). Il conteggio dei falli recita 21-21, con qualche rammarico per Kansas State per

un’infrazione di troppo negli ultimi 2secondi di gara.

Figura 23. Confronto statistiche di squadra: Kansas State VS Colorado.

Vivere una partita, un incontro significa vivere e salvaguardare le emozioni della vita. Emozioni belle.

Emozioni brutte. Comunque emozioni autentiche.

La delusione di una sconfitta ci insegna molto, richiamando un concetto chiave che regola e influisce

ogni sistema: la responsabilità.

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Errore parte dell’apprendimento

Normale positivo utile

Imparare senza mai sbagliare e’ impossibile. L’errore è uno straordinario mezzo per imparare,

l’importanza che esso riveste nel processo educativo ci consente di valutarlo come normale, positivo e

utile.

Normale perché fa parte della esperienza e dell’attività dell’essere umano; positivo perché con la sua

correzione permette di far giungere il soggetto a conoscenze più prossime alla verità; utile perché lo

mette in condizione di imparare dagli errori.

Tale pedagogia e prassi educativa, che traggono fondamento dalla negazione di ogni rigido metodo e

sono improntate al dinamismo creativo, alla cooperazione fattiva, alla ricerca perenne, sono basate

sull’esperienza per tentativi: esperienza, cioè, rivolta alla ricerca di soluzioni soddisfacenti dei problemi

che la viva realtà pone continuamente.

Gli errori pertanto, che in campo pedagogico e didattico sono strumenti di formazione e di crescita,

perché momenti costitutivi dell’apprendimento, si rivelano, sul piano morale e sociale, col loro

superamento, fautori di coesione e collaborazione negli ambienti contraddistinti dalla complessità: gli

sport di squadra e il mondo dell’impresa.

Aderenza al contesto, accogliere l’errore e rendersi disponibili

Un protagonista per eccellenza, la cui esperienza tattico-tecnica-strategica e’ stata traslata oltre il

campo di gioco: Julio Velasco.

Un uomo che ha fatto la storia dello sport italiano, un uomo nato nella terra del Pibe de Oro e cresciuto

con una palla come fedele compagna, un uomo che scelse di non calciare quella palla ma di

schiacciarla oltre una rete.

Nel 1989, questo giovane e carismatico argentino prese le redini della nazionale azzurra di volley, una

squadra che aveva poco da offrire e poco da reclamare, con tanti sogni che sembravano dover rimanere

nel cassetto. Intrapresa la sfida, dimostrò subito un carattere ambizioso e una mentalità vincente che gli

permisero di trasformare dei semplici uomini in campioni. Sfruttando le incredibili potenzialità di

quella che sarà poi chiamata la “Generazione di Fenomeni”, plasmò la nazionale a sua immagine e

Page 111: Learning playing: la metafora sportiva e l'organizzazione che apprende

111

somiglianza e la portò sul tetto del mondo. La corazzata azzurra iniziò un dominio mondiale. In sette

anni la guida dell’argentino portò nel palmares italiano ben undici ori in diverse competizioni, i più

importanti dei quali ottenuti in due Mondiali, battendo alcune delle squadre più forti dell’epoca. Al

culmine della gloria, quando la nazionale fu riconosciuta come la squadra più forte del secolo, Velasco

capì che i tempi erano maturi per puntare all’unico trofeo che mancava, il più ambito: l’Olimpiade.

Ma, come tutte le belle storie, anche questa era destinata a finire. Ad Atlanta ’96 la favola italiana

terminò quando il gruppo olandese riportò gli dei sulla terra, condannandoli a una medaglia d’argento.

Il punto di partenza per esplorare la filosofia di Velasco e’ l’interpretazione di processo che non teme il

dubbio, l’imprevisto e intende l’errore, non come incapacità bensì come parte dell’apprendimento.

Evitare l'errore è spesso considerato una delle priorità del processo d'apprendimento; un contesto

sportivo o d’impresa in cui gli individui intendono l’errore in modo negativo, porta tuttavia alla

creazione di filtri che possono bloccare l'acquisizione di una mentalità propositiva e di successo.

Se si inserisce l'errore in un approccio alla quotidianità che ponga tra gli obiettivi primari la serenità

della persona nonché la sua autonomia e la sua responsabilità nel percorso d'apprendimento, il discorso

si arricchisce di componenti psicologiche e affettive rilevanti. È dunque necessario disegnare un nuovo

contesto in cui l'errore, la valutazione e l'autovalutazione vengano proposti in modo positivo e naturale,

partendo dal concetto che l'errore è parte integrante del processo d'apprendimento.

L’errore ci porta sul cammino dell’accettazione, dell’esplorazione e della correzione nella

consapevolezza di non voler fare di ognuno di noi una macchina banale che adotta risposte sempre

prevedibili e nella scoperta che ci può e deve essere una sicurezza che si basa sulla meraviglia de “La

realtà è così com’è, non come dovrebbe essere”14.

Julio racconta che, quando era ragazzo, d’estate partecipava a tornei di pallavolo sulla spiaggia con gli

amici e la sua squadra, che annoverava diversi giocatori esperti, spesso perdeva.

“Le obiezioni più comuni erano: «Sulla sabbia non riesco a saltare bene …», «Ho il sole negli occhi

…», «Il vento devia la traiettoria della palla …» , ecc. La dura verità è che la realtà in cui ci troviamo

ad operare non è come vorremmo che sia agevole, ordinata e prevedibile ma è quella che è. ”

Le persone creative, così come le squadre vincenti, sono quelle che, in tale realtà, riescono a dare il

meglio si sé. Possiamo domandarci, allora: nonostante questa situazione difficile, quali strategie posso

attuare per raggiungere il mio obiettivo?.

14 CFMT: Accademia Sport e Management: quello che lo sport ha da insegnare al management. Julio Velasco,“gli occhi della tigre”: come vincere trasformando i talenti individuali in una squadra vincente.

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Uno degli elementi fondamentali del valore che ha lo sport nell’educazione e’ di offrire un modo per

far competere, dare spazio all’aggressività, alla competizione e al confronto rispettando le regole e

divertendosi. In tale visione l’errore viene valorizzato poiché svela i percorsi mentali che l’hanno

prodotto. Dunque lo sport, come le organizzazioni d’impresa, è agonismo, è confronto con altre

persone, e con se stessi, e quando ci si confronta si hanno due possibilità: vincere o perdere.

Che cos'è la vittoria e che cos'è la sconfitta? Tecnicamente è un risultato ottenuto o non ottenuto

rispetto ad un obiettivo. Nel vissuto soggettivo, tuttavia, vittoria e sconfitta possono generare

sensazioni ed emozioni alquanto differenti.

Come si fa a vincere e ad avere una mentalità vincente? Velasco risponde con una semplicità tanto

disarmante quanto reale: “La mentalità vincente si ottiene vincendo”.

Tre tipologie di vittorie: la prima vittoria è quella contro i propri limiti e i difetti. La funzione

dell’allenatore o leader è fondamentale: deve porre obiettivi facilmente raggiungibili, in maniera da far

fare un passo alla volta e, soprattutto, deve dare aiutare a risolvere i difetti. E poi superare le difficoltà è

un allenamento. Questa è la seconda tipologia di vittoria. Le difficoltà non devono più essere viste

come un qualcosa che mi impedisce di fare, ma come la possibilità di allenarmi a superarle. La terza

vittoria e’ quella contro gli avversari, i concorrenti: va programmata, da una parte affrontando avversari

che siano alla mia portata, dall'altra, contemporaneamente, confrontandomi contro i migliori, anche se

perdo. Questo serve per stabilire un punto di riferimento alto poiché a volte si impara di più perdendo

contro un avversario forte piuttosto che vincendo da uno debole.

Julio racconta: “Vincere è prima di tutto superare i propri limiti, risolvere le difficoltà e, in un secondo

momento, battere gli avversari. Spesso si ricorre alla metafora che la vita va vissuta come un

campionato, una gara in cui bisogna sempre vincere, che nella vita o sei un vincente o sei un perdente.

Chi fa sport sa che non si può vincere sempre e che vincere sempre è l'eccezione. La normalità nello

sport è l'alternanza tra vittorie e sconfitte. Lo sport dunque insegna a vincere, nel senso che per farlo

bisogna allenarsi, impegnarsi, sacrificarsi, crederci, essere esigenti, dare importanza alle cose

decisive soprattutto quando la posta in gioco è molto alta, ma insegna anche a perdere.”

Lo sport è una difficoltà con regole ben precise: “Lo scontro c’è ed è totale, non è solo tecnico, non è

solo fisico è psicologico, morale è uno scontro tra due gruppi di uomini o di donne. Io per prepararmi

a questi scontri devo prepararmi alle difficoltà, non devo subirle, devo adattarmi e l’allenamento è

tutto un adattamento”.

Il problema è sapere cosa significa Vincere: il concetto chiave e’ più supero le difficoltà più mi

costruisco una mentalità vincente.

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Vincere la partita contro noi stessi: superare i propri limiti

La prima vittoria è battere un nemico terribile, anche perché si nasconde e non lo vogliamo mai

affrontare. Fondamentale a livello educativo è l’accettazione dei propri limiti per superarli. In questo

caso molto influente risulta essere la formazione che deriva dalla pratica degli sport individuali ma

anche lo sport di squadra è essenziale: non sono il più forte ma ho un ruolo e hanno bisogno di me.

“Accettiamo che abbiamo un difetto perché tutti abbiamo dei limiti. Possono averci detto nel corso

degli anni siete forti, siete bravissimi ma anche gli altri, i nostri avversari si sono sentiti dire la stessa

cosa. Ognuno ha i propri limiti e superarli è il primo punto per creare mentalità vincente, qualsiasi

essi siano.”

Le vittorie più importanti, secondo Velasco, sono contro di noi e i nostri limiti:

“Se scegliamo di affrontare, a viso aperto, le nostre paure, le nostre lacune, i nostri difetti, siamo sulla

strada verso il successo.

Chi è coraggioso non è chi non ha paura. Chi non paura è incosciente. Il giocatore coraggioso è chi

pur avendo paura la sa superare e ha la forza per giocare bene lo stesso. L’insicurezza e’ strettamente

legata al cambiamento. Cambiare non è facile, e’ difficile perché abbiamo paura di un qualcosa che

non conosciamo.”

Spesso anche il nostro corpo parla ed esprime la sensazione di sicurezza o di insicurezza.

I campioni hanno paura? I campioni hanno dubbi?

Sì. Gennaro Gattuso, ex centrocampista del Milan e della Nazionale Campione del Mondo nel 2006,

dichiarò in più di un’occasione la sua emotività prima di ogni match di Champions League e durante i

Mondiali in Germania. Proprio durante la spedizione azzurra in Germania, dopo i quarti di finale con

l’Ucraina, Gattuso fece sorridere l'intera sala stampa dello stadio di Amburgo raccontando delle ore che

precedevano il quarto di finale trascorse in bagno per la tensione, senza neppure gettare uno sguardo ai

rigori di Germania - Argentina.

Dopo la semifinale vinta contro i padroni di casa e rivali storici della Germania, Gattuso lascia spazio

anche alla paura. Nella sua testa riecheggia ancora il trauma di Istanbul, con il Milan rimontato di tre

gol e la Coppa dei campioni vinta dal Liverpool ai rigori. Il 7 luglio 2006, a due giorni dalla

finalissima, il milanista racconta: "Dopo quella notte ho passato un mese di vacanza senza riuscire a

pensare ad altro. Ora però Istanbul è roba passata, una finale di Coppa del mondo vale dieci finali di

Champions League. Ci sono milioni di persone che ti guardano, rappresenti il tuo paese e senti le

responsabilità. Continuo a guardare l'orologio, cercando di far passare il tempo più in fretta possibile.

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Dire che soffro è troppo, soffre chi si sveglia alle cinque per andare a lavorare, ma certo la tensione si

sente. Non vedo l'ora di scendere in campo e spero di entrare nella storia".

Non aveva paura di ammetterlo. E Gattuso riusciva a superare quella paura ogni volta perché sapeva di

averla e sapeva che l’avrebbe superata. L’interrogativo risulta essere: vinco io o vince la paura?

La pratica sportiva ci aiuta a misurare i nostri limiti con le virtù e le caratteristiche degli avversari, ci

aiuta a conoscere i nostri punti forti e punti deboli.

Più che una partita contro gli avversari è una partita contro di noi, o forse a nostro favore.

Prendere coscienza dei propri errori o dei propri difetti è la premessa per assumersi le proprie

responsabilità e rimboccarsi le maniche.

Vincere le difficoltà come squadra.

Il secondo passo è vincere contro le difficoltà. Possono essere di varia natura, il clima, l’arbitro, una

condizione non ottimale… “Tutti possono spiegare perché non sono riusciti a fare una determinata

cosa, pochi riescono a farla lo stesso”.

E’ nella pallavolo che il collegamento tra successi di squadra e dinamiche manageriali ritorna

frequente. La spiegazione potrebbe essere legata al fatto che il volley è un gioco di squadra con

continui cambiamenti di fronte basato su una struttura comunque elementare: massimo 3 tocchi per

parte e un obiettivo univoco e molto chiaro, la palla non deve toccare per terra. Fatta salva la

condizione atletica dei singoli atleti, la mancanza di scontro fisico diretto tra i giocatori fa risaltare

l’importanza degli aspetti psicologici e di amalgama del collettivo. Spesso i set si decidono in scambi

ad alta tensione e la coesione, l’esempio positivo di singole prestazioni e il perfetto collegamento

mentale tra i 6 in campo possono fare la differenza nei pochi istanti che separano la vittoria dalla

sconfitta.

Velasco racconta: “Ciò che pensiamo già di sapere ci impedisce di imparare cose nuove. Le squadre

vincenti sono quelle che non smettono mai di imparare, quelle che riescono a cogliere sfumature

sempre più “sottili” nel lavoro da svolgere.

Quando si vince, nello sport come nel lavoro, tendiamo a festeggiare senza fare particolare attenzione

ad analisi e verifiche, mentre quando si perde cominciano i “processi” ai giocatori e all’allenatore.”

L’insuccesso rappresenta un’importante occasione di verifica e di crescita: “L’unico vero fallimento sta

nel permettere alla sconfitta di avere la meglio su di noi”.

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115

Julio esorta, invece, ad imparare molto anche dalle vittorie, valutando i nostri meriti e,

contemporaneamente, quelli dell’avversario, cercando di individuare le abilità che possiamo

ulteriormente migliorare.

Nell’incontro delle difficoltà, Velasco illustra due approcci: il primo e’ interpretare la difficoltà solo

come un impedimento, una cosa che mi crea problemi per ottenere una cosa che io voglio; il secondo

approccio, l’atteggiamento mentale appropriato, e’ opportunità per sviluppare creatività’ volontà-

capacità di soffrire.

Una proposta è affrontare la complessità con il gioco di squadra: un metodo con delle regole ben

precise e una possibilità perseguibile per raggiungere degli obiettivi. Esso non si pone come un

imperativo etico, come per esempio “remare tutti dalla stessa parte”; nel pensiero di Velasco, non e’

così semplice: il gioco di squadra e’ l’interazione di giocatori diversi, con caratteristiche diverse, che si

complementano per fare un gioco.

Accanto ad un giocatore con certe caratteristiche, deve essercene un altro con caratteristiche diverse, e

soltanto a quel punto insieme sono molto forti.

Dalla responsabilità individuale nei confronti dei propri limiti, nel contesto più ampio del collettivo,

secondo Velasco il singolo intravede la convenienza dello stare nel gioco di squadra traendo i maggiori

benefici personali giocando insieme a compagni che nascondano i suoi difetti ed esaltino invece i suoi

pregi. L’atteggiamento positivo e il gioco di squadra sono un connubio perfetto per avere la mentalità

vincente che fa la differenza.

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116

Vincere contro gli avversari.

Nel mondo dello sport, non basta fare le cose bene ma conta farle meglio degli altri: il confronto con gli

altri e’ da intendere come un’opportunità di crescita e possibilità di imparare, un terreno dove fare

tesoro delle esperienze, promuovere un’assunzione di responsabilità verso le sfide future e

un’occasione per affrontare le difficoltà del cambiamento, la necessità di abbandonare pratiche e

procedure consolidate e i rischi implicati dall’affrontare uno scenario sconosciuto.

Bala Omo Nell’interdipendenza tra i vari giocatori e interpreti di un’idea strategica di gioco, possiamo individuare

in un gruppo delle dimensioni relazionali prevalenti quali la mediazione e l’incontro; esse si connotano

come entità con un alto livello di energie interne, di attivazione e di dinamicità interna ed esterna.

L’intraprendenza e l’azione sono il valore fondante di questi gruppi che esprimono una grande forza

propositiva e ottime capacità di problem solving e di organizzazione.

Il gioco di squadra è quello realizzato dagli atleti che agiscono collettivamente secondo un disegno

strategico predisposto: un’azione combinata di più persone che collaborano in perfetto accordo per il

raggiungimento di un fine comune.

Nel rapporto tra responsabilità individuale e collettiva, inteso come strumento per fare meglio dei nostri

avversari, gli sport di squadra ci mettono in guardia dall’atteggiamento mentale del “chiamarsi fuori”.

Nell’attivazione del proprio ruolo nelle dinamiche di gioco ma soprattutto quando nella difficoltà si

cercano le soluzioni migliori per risolverla, e’ pratica diffusa che quando qualcosa va male ci si

nasconda dietro al gruppo invece di prendersi le proprie responsabilità.

Lo sport di squadra rende potenzialmente semplice tale inadeguatezza nel rispondere alle dinamiche

collettive poiché nel mucchio ci si può svicolare…

Cosa significa quindi prendersi la responsabilità?

Una delle caratteristiche che accomuna le persone con mentalità vincente è l’abilità di rispondere

(respons-abilità) a ciò che sta succedendo, influenzandone il risultato finale. Senza tale mentalità,

operando in gruppo, si tende a evitare di assumersi le proprie responsabilità.

Gli individui impegnati in una performance di gruppo possono avere la percezione di essere in grado di

“nascondersi tra la folla” ed evitare così le conseguenze negative del loro scarso impegno (tanto

nessuno mi nota!), oppure possono sentirsi “persi tra la folla” e non essere capaci di assicurare la piena

partecipazione alle positive conseguenze del loro massimo impegno (tanto chi se ne accorge!).

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Sentirsi responsabili nel raggiungimento dell’obiettivo perseguibile dalla squadra, ci consente di

intendere il sostegno al compagno come una dinamica fondamentale; un esempio da questa visione

arriva dal mondo della palla ovale: il rugby.

Figura 24. Marco Paolini e il bala-omo, lo sport del chiamarsi fuori dalle responsabilità

Marco Paolini, nel raccontare Storie di certi italiani15, fa una fotografia dell’Italia della metà degli anni

Settanta e tramite il suo alter ego Nicola, racconta il rugby per insegnare la quotidianità.

Sullo sfondo oltre al campo da gioco, la metafora di vita come la "bala - omo" con cui il giocatore che

cede la palla si uniforma " al vizio nazionale di chiamarsi fuori".

“Eravamo diventati popolari e che campionato che fu! Con l’anno santo non ne perdevamo più, andava bene tutto, solo io,

solo io avevo un problema: quando l’erba diventa verde, non so’ perché, faccio fatica, ho sempre meno voglia di fare

allenamento e ho voglia di andare in piazza, voglio cercare Norma. E invece no, mi dico, tu devi continuare ad andare ad

allenamento. A me basta saper che faccio le robe, dopo non rompo più le balle, mi basta saper perché le faccio. Vado fin

l’ultima partita, si giocava contro il San Dona’ del Piave, che se vinciamo andiamo allo spareggio, mentre loro invece

erano tranquilli, a mezza classifica, insomma, le premesse ci sono tutte.

15 Marco Paolini, Gli Album di Marco Paolini. I 400 folpi.

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118

E c’e’ tutta la città dietro la rete del campo sportivo, c’e’ anche Norma. Io sto in panchina e me la guardo come sempre, e

Tarcisio a un certo punto mi fa:

– Nicola! – Eh? – In campo! – Perche’, cosa ho fatto? – Furlan se ga’ fatto mal!

– Ah…spugna… – No spugna, dentro e cambio! – Cosa? – Cambio, cambio! – Va ben, cambio… – Va dentro e

sta’ alto! – Si…si… – Nicola, no in punta de pie’, sta alto sul campo, posizion, caro, posizion! – Scusa,

scusa…Madonna, in campo…oh, ciao fioi, ciao Norma, ciao…

– Nicolaaa! – Si’… – Allora… Introduzione nostra, contatto! Ok… mediano…palla introdotta…Nano!... Mediano di

mischia sul mediano d’apertura…mediano d’apertura ben coperto, ben coperto.. Dai! Primo centro, primo centro

sul secondo centro…secondo centro viene all’ala…L’ala va su Nicola…Vai Nicola, va’ in bandiera, va’ in

bandiera, va’ in bandiera…Nooo!...

– Cosa c’e’? – Noooooo!... – Cos’ho fatto?... – te ghe ga’ dato ‘na balla omo!!!… – Per piacere, non era balla omo,

giuro!...No, non era balla omo…Oh, no, no la balla omo, no, porca puttana… non era balla omo…Basta!...

Il rugby e’ uno sport da gentleman. Io non ne ho mai visto un altro che abbia un gesto atletico simile a quello che fai

quando, senza smettere di correre in avanti, smetti di guardare dove vai e sei costretto a guardar da dove vieni per lanciare

la palla a uno che non può stare in linea, dev’essere dietro a te: fantastico, magnifico! Ma, prima di passar la palla a lui,

devi controllare che lui stia bene, che sia aperto, disponibile e ottimista, e che insieme al tuo ballon non gli arrivino

addosso due-tre assassini che gli fanno del male a lui! Ma mentre fai’ sto bel ragionamento etico ce n’e’ altri ventinove che

ti guardano, quattordici tuoi, quindici loro, ma e’ impossibile distinguerli, perché sono tutti sporchi compagni, e tre ti

stanno correndo addosso, due grossi e uno piccolo, ma cattivo, il piccolo, il sette e’ cattivo, e’ veramente cattivo, il piccolo.

Allora in quel momento lì e’ difficile pensare se lui sta ben, se vuole il the’ o la camomilla, perché la prima tentazione che

hai e’ quella di dargli il ballon a lui, sperando che quelli che arrivano capiscano che non vale più la pena di farti del male

a te, che ormai il pallone ce l’ha lui, ce l’ha lui… Aaaahhh!

Ferito… io, salvo d’un pelo: quello e’ la balla omo, ciamarse fora, un vizio diffuso e comune nei cittadini. E io ho fatto ‘sta

porcata proprio davanti a Norma, in campo, il primo giorno, ma Cristo! Però anche gli altri non han scherzato a far

cappelle…

Il sostegno è uno dei principi fondamentali del rugby, sport che negli ultimi decenni è stato definito e

considerato come quello “educativo per eccellenza”. Il sostegno è un rapporto fondato sulla discrezione

e sulla disponibilità al sacrificio di qualcosa di sé per favorire un compagno o un’altra persona.

Comunicare sostegno significa saper sorreggere le difficoltà, le sofferenze ed impedire il cedimento

della vita mentale altrui. A volte si concretizza semplicemente nella presenza fisica e “nell’aver

qualcuno al tuo fianco che ha fiducia in te”.

Nel mondo sportivo le sconfitte e i momenti difficili sono quelli che fanno crescere l’atleta: avere un

sostegno al fianco significa avere molte più probabilità di uscire dal “tunnel” in tempi brevi e più forte

e motivato di prima.

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Cultura degli Alibi Nelle relazioni interne alla squadra e’ bene anche evitare gli alibi. Non riuscire a vincere la difficoltà

porta alla “cultura degli alibi”, cioè il tentativo di attribuire un nostro fallimento a qualcosa che non

dipende da noi. Adottando la cultura degli alibi si elimina la possibilità di utilizzare il feedback che sta

alla base dell’apprendimento.

Nello sport, così come nella vita lavorativa, prima o poi capita di sbagliare. Velasco racconta che una

delle cose che lo fanno più innervosire è la reazione dei giocatori che, davanti ad un errore, non si

prendono le loro responsabilità: “L'alibi, oltre a distruggere l'armonia, impedisce di progredire, di

imparare. E' una situazione che nella mia esperienza ho trovato ovunque. L'errore segnala la necessità

di apportare modifiche, la scusa, invece, impedisce di mettere in moto delle risorse che, a volte, non si

sa neppure di avere.

Negare uno sbaglio, oltre ad essere un atteggiamento arrogante, rappresenta, uno “spreco” di energia

che, invece, potrebbe essere utilizzata per trovare una soluzione. In situazioni di questo genere

possiamo reagire in due modi: cercare un “capro espiatorio”, denigrarlo e lasciare le cose come

stanno, oppure domandarci perché è stato commesso l’errore, analizzarlo e individuare, insieme, dei

rimedi adeguati. Numerose tecniche di creatività si focalizzano prima sull’analisi dei fattori che hanno

contribuito al verificarsi dell’errore e poi sulle possibili strategie risolutive.” Questo approccio

consente di creare una situazione di apprendimento e di condivisione, di risolvere il problema e di

migliorare le relazioni tra le persone.

Si parla di Sport ma gli stessi alibi si cercano nella vita di tutti i giorni quando fare qualcosa non ci

riesce facile, si trovano scuse che non dipendono da noi per abbandonare l'attività, si trovano motivi

anche ragionevoli per i quali non si può fare, si scarica la responsabilità dei fallimenti sulle persone con

cui lavoriamo. In sostanza il concetto di fondo è applicabile a qualsiasi ambito: non scaricare la colpa

sugli altri, non perdere tempo a parlare del problema, ma cerca di capire come risolverlo! Tutto sta

nell’adottare un atteggiamento mentale positivo: “Non pensare che se sbagli sia sicuramente per colpa

di qualcun altro. Non fare lo scarica barile, ma assumiti le tue responsabilità. E non parlare di

problemi, ma pensa piuttosto a come risolverli!”.

Potremmo domandarci: “Come tendiamo a reagire quando sbagliamo?”, “Come possiamo agire la

prossima volta che ci troviamo di fronte ad un errore nostro o altrui?”.

Sull’esempio di un allenatore come Velasco siamo passati da una concezione esclusivamente negativa

dell'errore come azione da sanzionare, ad una visione positiva dell'errore come risorsa, fonte di

conoscenza e sviluppo dei processi per raggiungere gli obiettivi di squadra.

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Figura 25. Michael Jordan, il migliore ad aver mai messo piede su un campo di basket.

In conclusione sull’esempio di uno dei giocatori più grandi del mondo dello sport, possiamo intuire la

forza nel superare le difficoltà e il valore dell’errore nel raggiungimento del successo: Michael Jeffrey

Jordan. Dall’NBA e’ stato definito “per acclamazione, il più grande giocatore di basket di tutti i tempi”.

A fine carriera affermerà: “Quando avevo 15 anni, il coach del mio liceo non mi fece entrare in

squadra e scelse uno 20 cm più alto di me…decisi che una cosa del genere non sarebbe mai più

capitata. Posso accettare la sconfitta, tutti falliscono in qualcosa. Ma non posso accettare di

rinunciare a provarci.

Avrò segnato undici volte canestri vincenti sulla sirena, e altre diciassette volte a meno di dieci secondi

alla fine, ma nella mia carriera ho sbagliato più di novemila tiri. Ho perso quasi trecento partite.

Trentasei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l'ho sbagliato. Nella vita ho fallito

molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto16”.

16 Vancil Mark - Jordan Michael, I can’t accept not trying: Michael Jordan on the Pursuit of Excellence 1994

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121

Apprendimento. Nella diversità dei componenti della squadra si parte dall’attitudine di

accogliere l’errore, proprio e altrui, sino al mettersi a disposizione degli altri per raggiungere

le vittorie nella quotidianità’. Nessuna azione e’ neutra e ogni elemento del sistema ne influenza

la vita. Rendersi presenti disponibili e responsabili e’ fondamentale.

Il contenitore di apprendimento negli sport di squadra passa attraverso un atto di assunzione di

responsabilità: cosa posso fare io per aiutare me stesso e i compagni per raggiungere un

obiettivo? In tale visione non importa quello che si fa, ma “come lo si fa”.

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Il valore del processo

Introduzione

7 Luglio 1974 – Olympiastadion, Monaco di Baviera

Campionato mondiale di calcio 1974

I protagonisti del prossimo racconto hanno indiscutibilmente portato un soffio di rivoluzione al mondo

dell’esperienza sportiva. Le lancette del tempo, in questo capitolo, ci portano alla fine degli anni

Sessanta dove, in Europa e nel mondo, si respira un’aria nuova e un’innata voglia di esplorare i diversi

ambiti della coscienza civile e del sapere umano.

Il mondo dello sport riparte dalla rivisitazione del Sessantotto per incarnare lo spirito e la

valorizzazione del processo nell’Olanda del calcio totale.

Nelle università di molti Paesi del mondo scoppia una contestazione studentesca di portata storica. È

uno scontro tra le vecchie e le giovani generazioni, tra due modi di vedere il mondo.

Dalla fine degli anni 50, i Paesi occidentali conoscono uno sviluppo economico straordinario: lussi

impensabili fino a pochi anni prima entrano nelle case di molti.

Le famiglie possono permettersi di far studiare i figli. Migliaia di giovani affollano le università, che

fino a pochi anni prima erano un privilegio per pochi.

Intorno alla metà degli anni ’60, in alcuni college statunitensi, gli studenti organizzano manifestazioni

per chiedere riforme nella didattica: i giovani vogliono avere un ruolo più attivo nella gestione del

sapere. Il rifiuto da parte delle autorità accademiche è netto: si verificano i primi scontri. Le proteste

degli studenti escono presto dai confini delle università, e si fondono con il movimento pacifista che

chiede il ritiro delle truppe statunitensi dal Vietnam, teatro di una difficile e sanguinosa guerra.

Nello stesso periodo, emerge con forza negli USA anche la lotta per i diritti civili della comunità nera:

nascono gruppi di lotta come le Black panthers, le “pantere nere”.

I giovani diventano un fronte unico contro il mondo degli adulti, di cui non riconoscono l’autorità.

Coniano lo slogan “Don’t trust anybody over 30”, non fidarti di chi ha più di 30 anni.

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Vogliono costruire un mondo diverso: propugnano il pacifismo e l’uguaglianza, difendono le

minoranze e contestano la società dei consumi di cui sono figli.

Nel maggio del 1968 viene occupata la Sorbona, l’università di Parigi. Da qui la protesta si diffonde in

tutta Europa e giunge fino in Giappone. Ovunque, i contestatori si identificano negli stessi ideali, ed

esprimono anche nel modo di vestire la loro volontà di rompere con il passato.

I giovani del mondo formano un unico popolo: è una delle prime forme di globalizzazione.

In Francia e in Italia il movimento studentesco appoggia le rivendicazioni sindacali del movimento

operaio, e la lotta delle femministe per l’emancipazione delle donne.

In Germania, è particolarmente dura la rivolta contro la generazione dei padri, considerata complice del

nazismo.

In Cecoslovacchia la lotta assume la forma di una protesta politica contro l’influenza dell’Unione

Sovietica nel Paese. I moti del ’68 si placano progressivamente nel giro di pochi anni, contribuendo

però a rendere più aperta la società, e a far nascere la categoria sociale dei giovani, che prima di allora

erano consideranti degli adulti non ancora maturi.

Figura 26. I giovani corrono nelle strade d'Europa. Il Sessantotto.

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Quando arrivò il Sessantotto, il mondo si ritrovò a testa in giù ubriacato da una rivoluzione che investì

ogni aspetto della vita così come era stata conosciuta fino allora. Costumi, doveri, gerarchie: tutto

sovvertito. Poi, passata l'onda, ci si ritrovò sulla spiaggia a fare la conta di ciò che le era sopravvissuto

e di quello che invece si era portato via la corrente. Due barche mancavano all'appello: il calcio e il

rugby.

Spesso lo sport è un'estensione del carattere di chi lo gioca, e questo e’ tanto più vero se riferito al

calcio, lo sport popolare per definizione. Si gioca per quel che si e’. Poi si cerca d'imparare anche ad

esser altro. La storia ha offerto numerose conferme di questa tesi: il Brasile dei dribbling e della

fantasia arrivò a schierare cinque numeri dieci nella stessa squadra, dei fuoriclasse tedeschi si ricorda la

loro disciplina imperturbabile; l'animosità, la sete di rivincita sono il tratto distintivo di molte nazionali

sudamericane e noi italiani siamo maestri nello scovare la meraviglia di un contropiede laddove le

maglie del catenaccio si fanno più strette.

Spiegare quindi perché la rivoluzione del Calcio totale sia partita dall'Olanda appare ancora oggi un

mistero, ma l'idea di scrollarsi di dosso il calcio contemporaneo e di catapultarlo nel futuro nacque

proprio lì, in Olanda, ad Amsterdam. Una squadra vestita d’arancione incanta il mondo con uno stile di

gioco rivoluzionario: è l’Olanda del calcio totale.

Figura 27. Una generazione di talenti e un tecnico rivoluzionario alla base della nazionale che stravolse tutti gli stilemi del football.

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A partire dal 1970 le squadre di club olandesi, fino ad allora di secondo piano, si impongono in Europa

grazie a un nuovo sistema di gioco veloce e dinamico che disorienta gli avversari. La rivoluzione

olandese tocca l’apice con la nazionale del 1974, forte di una generazione di campioni come Neeskens,

Rep e Krol e soprattutto Cruijff, giocatore dotato di una tecnica e di una rapidità ineguagliabili.

La mente di tale idea strategica si chiamava Rinus Michels.

Uomo severo e di pochi fronzoli, Michels arrivò all'Ajax quando la generazione dei Cruijff e gli altri

con cui avrebbe lavorato era poco più che adolescente. Non cercò di convincerli a seguirlo ma fece con

loro un patto e lo scrisse sui muri dello spogliatoio: "Dove serve fermezza ci vuole rigore; dove serve

fantasia deve esserci massima libertà d'invenzione".

Come a dire: allacciatevi le cinture di sicurezza e fate come vi pare, ma, cosa più importante, fatelo

tutti insieme. E lo fecero.

Cruijff, Neeskens, Resenbrink e gli altri cominciarono a fare e pensare qualcosa che mai nessuno prima

aveva pensato. Qualcosa per cui non erano stati ancora trovati anticorpi. Brasiliani, uruguagi, tedeschi

orientali, argentini: tutti storditi dagli Orange.

Alla base c’erano una meticolosa preparazione atletica, doti tecniche ed eclettiche notevoli, la squadra

si muoveva all’unisono, tutti dovevano saper fare tutto.

Questa squadra, soprannominata l’arancia meccanica, abolisce i tradizionali ruoli fissi in favore di un

movimento continuo dei giocatori: i difensori si spingono in attacco, gli attaccanti ripiegano anche in

difesa. Persino il portiere Jongbloed, che porta il numero 8, esce dai pali e gioca la palla con i piedi.

Il ritmo del gioco è elevatissimo e gli avversari in possesso di palla vengono aggrediti da più marcatori,

anziché da uno solo. In difesa invece, la principale arma è il fuorigioco, applicato sistematicamente.

La squadra allenata dal santone Rinus Michels salì prepotentemente alla ribalta internazionale ai

mondiali del 74. Una nazionale che fino ad allora non aveva mai raggiunto nessun risultato

significativo, che grazie ad una generazione di talenti, che già avevano messo in mostra le loro

potenzialità nelle rispettive squadre di club portate alla vittoria nelle varie competizioni europee, riuscì

ad incantare le platee con una nuova concezione del calcio.

Fra le individualità spiccava Johan Cruijff, il prototipo del calciatore moderno, alfiere del suo Ajax.

Non era una punta classica, ma ugualmente riusciva a trovare la via del gol con grande facilità grazie

ad uno scatto bruciante unito a qualità tecniche di prim’ordine. Gli altri componenti dell’Arancia

Meccanica erano i vari Krol, Suurbier, Rep, Rensenbrink, Neeskens, veri e propri atleti dotati di ottima

tecnica e all’occorrenza polivalenti. Nessuno resiste al calcio totale: all’appuntamento mondiale gli

Orange superano gli avversari a suon di gol e bel gioco, arrivando di slancio alla finale.

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Superano agilmente il primo girone con Uruguay, Svezia e Bulgaria. Poi affrontano l’Argentina, che

crolla sotto un 4‐0, la Germania Est, superata per 2‐0 e quindi il Brasile, campione in carica, che

soccombe per 2‐0. Gli arancioni giungono così alla finale del mondiale.

L’avversaria è la Germania Ovest, padrona di casa, che dispone di fuoriclasse come Beckenbauer,

Overath e Muller. L’Olanda, che in 6 partite ha segnato 14 gol subendone solo 1, è favorita dal

pronostico.

Figura 28. 1974 Mondiali di calcio in Germania. Finale: Germania – Olanda. Johan Cruijff e Franz Beckenbauer.

7 luglio 1974, Olympiastadion di Monaco di Baviera: l’inizio della partita sembra annunciare un

monologo arancione; dopo il fischio d’inizio gli olandesi si passano la palla per 14 volte, e sono

trascorsi appena 50 secondi, quando Johan Cruijff riceve palla a centrocampo, si porta in progressione,

dribbla tre difensori e viene atterrato in area di rigore. Fischio dell'arbitro Taylor, sul dischetto si porta

Johan Neeskens, che batte Sepp Maier: primo minuto, Olanda - Germania Ovest 1-0.

Dopo neppure un minuto la Germania è in già svantaggio, e non ha ancora toccato la palla.

I tedeschi però non demordono e con il loro gioco ordinato contrastano l’urto olandese, riuscendo a

raggiungere il pareggio al 26’ con un rigore trasformato da Breitner.

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Figura 29. 1974 Mondiali di calcio in Germania. Finale: Germania – Olanda. Johan Neeskens su rigore porta in vantaggio gli Orange.

Figura 30. 1974 Mondiali di calcio in Germania. Finale: Germania – Olanda. Paul Breitner sigla il pareggio tedesco.

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I tedeschi prendono coraggio e si avventurano in attacco. Al 44’ il letale Muller trova uno spiraglio

nell’area olandese e segna.

Nella ripresa vani sono i tentativi di pervenire almeno al pareggio. Gli olandesi avrebbero il tempo per

pareggiare, ma paiono stanchi e non riescono più a imporre il loro gioco frenetico.

Finisce 2-1, e la Germania Ovest si laurea campione del mondo.

Figura 31. 7 luglio1974, Mondiali di calcio in Germania. La Germania Ovest conquista il suo secondo titolo mondiale.

Grande onore all’Olanda, autentica sorpresa per la quale l’appuntamento con la grande vittoria sembra

solo rimandato.

All’Europeo del 76 l’Olanda si piazza al terzo posto in un torneo ancora breve, dove i valori assoluti

hanno meno possibilità di uscire fuori, tant’è che il titolo va a sorpresa alla Cecoslovacchia.

Siamo al 1978, mondiali in Argentina. La nazionale orange, priva oltretutto della stella Cruijff, non

riesce a esprimere le vette di spettacolarità mostrate quattro anni prima, incontra qualche difficoltà in

più ma riesce ad arrivare ancora una volta in finale. L’avversaria che si contrappone è sempre la

padrona di casa, la nazionale argentina piena di stelle quali Kempes, Passerella, Bertoni e Ardiles. Il

clima è infuocato, l’Olanda deve affrontare un’intera nazione che vuole prepotentemente il titolo.

L’Argentina passa in vantaggio, sembra il viatico per la sconfitta ma i tulipani riescono a pareggiare.

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All’ultimo minuto sembra fatta ma un palo beffardo nega il titolo all’Olanda. Tutto rimandato ai

supplementari che vedranno però due gol dei padroni di casa: 3-1 per l’Argentina e per gli orange

ancora un secondo posto.

Figura 32. 25 giugno 1978, Mondiali di calcio in Argentina. Seconda sconfitta consecutiva in finale per gli Orange. Gli olandesi, indignati per l'arbitraggio a senso unico di Gonella, rientrarono negli spogliatoi subito dopo il fischio finale senza rendere omaggio ai nuovi campioni.

La rivoluzionaria Olanda viene quindi sconfitta proprio nella partita più importante. Nonostante questo,

entra nella storia: il suo stile di gioco, infatti, viene emulato dai tecnici di tutto il mondo, e con la sua

velocità getta le basi del calcio contemporaneo.

Alcune testimonianze dei giornalisti dell’epoca parlano chiaro: “Avrebbero potuto calciare i palloni

anche da bendati, con quella sicurezza che solo un grande allenatore come Rinus può amministrare,

concedendo carta bianca a degli scacchi composti solo da torri. Avanti e indietro, destra e sinistra,

senza sosta. Ecco il calcio totale.”

L‘epopea del calcio totale non portò il tanto sospirato titolo iridato ma lasciò una traccia indelebile

nella storia del calcio mondiale.

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Nel calcio la complessità e l’imprevedibilità’ regolano quell’instabile e spesso crudele bilancia tra

vittoria e sconfitta. Nessuna grande rivoluzione è avvenuta senza un briciolo, seppur minimo, di

casualità.

Quante volte, sentendo parlare di eventi, storie, miti e leggende, abbiamo udito la domanda “cosa

sarebbe successo se…?”. Giocando con la storia dei Mondiali, in questo senso, si potrebbero riempire

centinaia di pagine. L’Olanda del Generale Michels finalista in Germania Ovest nel 1974, ne e’ un

esempio.

“Jongbloed Suurbier Rijsbergen Haan Krol Jansen Neeskens Van Hanegem Rep Cruijff Rensenbrink.

Un undici a leggere tutto d’un fiato, come fosse un’unica entità. Il 1974 segna la definitiva

consacrazione del calcio totale, che vince anche se riesce a sollevare la Coppa del Mondo perché

stecca all’ultimo atto. Ma per chi guarda la luna, e non il dito che la indica, poco importa.17”

Il 1974 consacra il Mito. Alla cui genesi aveva contribuito, pur se in minima parte e in modo

assolutamente inconsapevole, un arbitro russo di nome Khazakov, che il 18 novembre del 1973

all’Olympisch Stadion di Amsterdam aveva annullato, su segnalazione del proprio assistente di gara,

un gol regolare del belga Jan Verheyen. Era l’ultima partita del girone di qualificazione per i Mondiali

del 1974. Se il Belgio avesse battuto l’Olanda, avrebbe staccato il biglietto per la Germania Ovest

lasciando a casa proprio i tulipani. Questa è la storia di due destini calcistici racchiusi in una bandierina

alzata.

Il cecoslovacco Frantisek Fadrhonc era un tecnico poco amato dalla Federcalcio olandese ma molto dai

giocatori, i quali non esitarono a dimostrare sul campo la propria stima nei confronti dell’allenatore

salvandogli la panchina all’indomani della mancata qualificazione agli Europei del 1972.18 Era prevista

un’amichevole contro la Grecia, per quello che si vociferava essere con tutta probabilità l’ultimo atto di

Fadrhonc sulla panchina orange. “Oggi giochiamo per Fadrhonc” è il messaggio lanciato da Cruijff ai

propri compagni nello spogliatoio prima dell’inizio del match. Detto e fatto, l’Olanda in campo

strapazza 5-0 la Grecia cogliendo, all’epoca, la terza vittoria più rotonda della sua storia dopo il 7-2

rifilato al Belgio nel 1958 ed il 6-1 alla Francia nel 1936. Panchina dunque salva, e Olanda che

comincia a carburare.

Il gruppo 3 della zona Europa per la qualificazione ai mondiali si presentava piuttosto morbido, con il

solo Belgio avversario che poteva incutere qualche timore, mentre Norvegia e Islanda sembravano

semplici pratiche da archiviare alla svelta. Missione che l’Olanda compì senza problemi, i norvegesi

17 Alec Cordolcini, Radio Olanda. www.radio-olanda.blogspot.it 18 Alec Condolcini, CALCIO 2000. Calcio totale e sfortuna mondiale. Olanda contro Belgio, anno 1973.

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vennero demoliti 9-0, arrivando alla fatidica sera del 18 novembre 1973 con una migliore differenza

reti rispetto ai Diavoli Rossi. I punti in classifica però erano i medesimi.

Il tecnico belga Raymond Goethals non era certo uno sprovveduto. Ben conscio dell’inferiorità tecnica

dei propri uomini rispetto agli olandesi, la sua filosofia di gioco era riassumibile in una frase: “Chi non

concede gol non perde le partite”. E così faceva il suo Belgio, squadra tosta e rognosa, molto fisica. La

filosofia del “primo non prenderle” pagava. Doppio 4-0 all’Islanda, doppio 2-0 alla Norvegia, 0-0 ad

Anversa contro l’Olanda, fermata dalle barricate erette dai Diavoli Rossi e sostenuta da 54.923

spettatori urlanti.

Dunque il 18 novembre. Il biglietto da visita del Belgio sono 12 gol fatti e zero subiti: un muro. Ma

questa volta non può bastare e davanti ai 60.000 che affollano l’Olympisch Stadion bisogna vincere,

perché i tulipani hanno segnato più reti negli incontri precedenti, e pertanto possono accontentarsi del

pari. E’ una partita maschia, con poco calcio. Belgio tatticamente perfetto, Olanda povera di

ispirazione. Poi il lampo di Semmeling la panchina belga che esplode ma c’è una bandierina alzata a

raffreddare tutti gli entusiasmi. Il russo Khazakov sta indicando il cerchio di centrocampo. La rete è

annullata.

Olanda ai mondiali, per la prima volta dal 1938, e Belgio a casa.

Nel dopo partita Fadrhonc benedice la dea bendata che lo ha assistito. Gli servirà a poco, perché per

guidare la squadra in Germania Ovest la Federcalcio olandese sceglierà di affidarsi al miglior allenatore

disponibile sulla piazza in quel momento: Rinus Michels.

Goethals invece mastica amaro. Zero sconfitte e zero reti subite non erano stati sufficienti per accedere

alla fase finale della coppa del mondo. Un primato ineguagliato e, probabilmente, ineguagliabile. Il suo

Belgio è la miglior squadra eliminata nella storia delle qualificazioni ai mondiali.

Figura 33. Il portiere olandese Schrijvers e l’autore della rete belga Semmeling. Gol annullato per fuorigioco.

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Stessi anni, o giù di lì, altra fotografia. Cardiff, 1973, rugby: queste le coordinate. Da una parte gli All

Blacks, dall'altra i Barbarians19, squadra ad inviti aperta a tutti i giocatori del Regno Unito. A un tratto i

Baa-Baas, come familiarmente chiamati, vengono ricacciati indietro da un calcio dei neozelandesi.

Tutto lo stadio si aspetta che quel pallone venga raccolto e spedito in rimessa laterale: pericolo

scampato, tempo per rifiatare. Nessuno si aspettava un contrattacco, men che mai che quel contrattacco

potesse concludersi con la più bella meta di tutti i tempi20, realizzata al termine di un'azione

lunghissima iniziata da Phil Bennett e passata da John Dawes, Bob Wilkinson, Tom David e Derek

Quinnell prima di trovare finalizzazione nel gallese Gareth Edwards.

Figura 34. Nel 1973 i Barbarians sfidarono gli All Blacks al Cardiff Arms Park; più che per il risultato la partita va ricordata per la meta più spettacolare nel gioco del rugby.

In poco più di trenta secondi l'ovale passa tra le mani di sette giocatori, e sei di questi erano tutti

gallesi. Anni dopo Gareth Edwards, l'autore di quella segnatura, confidò di aver chiamato in gaelico la

palla al suo compagno. Si conoscevano bene, erano compagni di nazionale, e con la maglia rossa del

Galles in quegli anni stavano sbalordendo il mondo intero.

Oltre Manica, fino al 1968, il rugby non è che avesse fatto molto per cambiare il suo Dna. Ci si

azzuffava parecchio, poi a un certo punto il pallone finiva tra le mani di uno dei mediani che con una

pedatona lo scaraventava più in là. E più in là si ricominciava: altre zuffe, altre ammucchiate. 19 Barbarian Football Club: selezione di rugby a inviti più famosa del mondo. 20 http://www.youtube.com/watch?v=ZMd7PQavavw&feature=player_embedded , Rugby - All Blacks vs Barbarians 1973

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Fino a quando non comparve Carwyn James. Faceva il professore e sul campo era uno che sapeva

leggere gli uomini meglio di chiunque altro.

"Il rugby è un gioco cerebrale", così si presentò. In disaccordo con le politiche federali di allora, scelse

di non volersi mai sedere sulla panchina della nazionale. Artigiano intransigente prese la sua rivincita

nel 1971 quando a capo della spedizione dei British Lions21 andò a vincere in Nuova Zelanda, risultato

mai replicato da nessun altro. Rientrò in patria e guidò il Llanelli fino a farlo diventare la squadra più

forte dell'epoca tanto che nel 1972, un anno dopo l'affronto subìto, gli All Blacks ripresero la via del

Galles per un’informale rivincita e cancellare la sconfitta subita.

Epilogo? Ripersero i neozelandesi.

Figura 35. I British Lions durante la gara contro gli All Blacks in terra neozelandese.

Tutto il Galles beneficiò dei suoi insegnamenti. Da Bridgend a Cardiff fino a Newbridge fiorì un nuovo

modo di interpretare quello sport che portò i Dragoni22 a vincere sette Cinque Nazioni in dieci anni.

21 Selezione ufficiale dei migliori giocatori di rugby delle isole britanniche: Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda. 22 Nome per indicare la nazionale gallese, che deriva dalla bandiera nazionale del Galles.

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Schivo ma generoso, ai suoi diceva: "Prendete rischi, sbagliate, ma finché vi dimostrerete avventurosi

io non me la prenderò".

Carwyn James è morto poco più che cinquantenne in una stanza di un hotel di Amsterdam.

Olanda, paese digiuno di rugby, ma avventuroso come nessun altro.

Negli sport di squadra, come nelle organizzazioni di impresa, il processo attraverso il quale veniamo in

contatto con la complessità per il perseguimento del successo tende a valorizzare il metodo per arrivare

al risultato. Nuovamente non importa quello che si fa, ma come lo si fa.

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135

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136

Qualità della performance, non solo singolo risultato

La valorizzazione dei processi nelle imprese

L’obiettivo di un’organizzazione d’impresa è di creare valore e ricchezza per gli stakeholder. Questo

valore, infatti, non si ottiene per caso, non si riflette solo attraverso il controllo dei costi, né tanto meno

con il controllo degli indicatori tradizionali dello stato patrimoniale. Le imprese non sono create con

l’ottica di essere messe in liquidazione, ma per creare valore e ricchezza per i propri portatori di

interessi e necessita focalizzazione, impegno, pianificazione, organizzazione, conoscenza e capacità di

governo.

Il management ha sempre gestito l’impresa tenendo sotto controllo il conto economico e focalizzando,

come unico scopo, l’aumento del profitto e la soddisfazione dell’azionista. Se domandassimo oggi ai

manager dell’esecutivo di un’impresa e ai vari operatori economici qual e’ secondo loro la ragion

d’esistere di un’impresa, con ogni probabilità risponderebbero che la “missione dell’impresa è di

creare valore per l’azionista”.

La risposta in ogni modo non è sbagliata, ma non è nemmeno accettabile. Si può estendere pertanto il

concetto di soddisfazione, ampliando l’orizzonte dai clienti anche a tutte le altre parti interessate e

possiamo trovarci d’accordo sul fatto che la missione dell’impresa e’ creare valore per i clienti,

soddisfare gli obiettivi di business e di immagine e soddisfare tutti coloro che sono legati all’azienda da

un rapporto di interscambio (azionisti, impiegati, business partner e società/comunità); allora questa

organizzazione è perfettamente in sintonia con i tempi e con il proprio intento strategico.

Il modello ideale di riferimento per l’eccellenza nel business, dovrebbe essere costituito in sintesi da tre

elementi fondamentali i quali sono legati da relazione causa-effetto:

− fattori sistemici: caratterizzano l’organizzazione come sistema e indirizzano l’impresa verso il

proprio intento strategico e i propri obiettivi. In sintesi sono la leadership, le strategie e i piani, la

gestione delle risorse umane, la gestione delle risorse tecniche, finanziarie e informative, e le

architetture organizzative che sono i modi attraverso i quali si utilizzano le risorse disponibili per

raggiungere i fini dell’organizzazione.

− processi: costituiscono le catene del valore attraverso il quale l’azienda realizza il proprio

intento strategico e i propri obiettivi e dell’impresa stessa;

− risultati di business e di immagine: esprimono la realizzazione dell’intento strategico e degli

obiettivi.

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Puntando lo sguardo sui processi da parte delle organizzazioni, nell’abitare sistemi complessi, la

quotidianità operativa occupa la maggior parte delle risorse manageriali. I manager sono portati a

gestire le attività e i piani a breve periodo. L’inondazione dei problemi e dei reclami li costringono a

focalizzare e a gestire solamente le emergenze. Si riduce di conseguenza a non avere più tempo per la

pianificazione e il governo dell’efficacia ed efficienza dei processi, bensì a inseguire i problemi più

visibili, quelli più evidenti e immediati. La gestione dell’emergenza si consolida in questo modo e

diventa il suo approccio e il lavoro quotidiano del manager.

In questa situazione i manager dimenticano che il processo è il luogo dove si genera il valore. La

mancanza degli obiettivi e della misurazione dei risultati reali porta a una gestione caotica, ad hoc per

ogni situazione e il confronto tra gli obiettivi stabiliti e i risultati viene a mancare del tutto.

Il cammino, dunque, che porta al raggiungimento degli obiettivi di business e di immagine passa

attraverso il valore che viene creato nei processi dell’organizzazione. Ciò che può dare ad

un’organizzazione la possibilità di raggiungere un vantaggio competitivo non è un singolo prodotto, ma

la sua capacità di governare i processi.

Per assicurarsi il vantaggio competitivo l’impresa deve studiare i processi con cura e li deve governare

e migliorare continuamente. Il successo del business è in ogni caso frutto dei risultati di un processo di

eccellenza. Per ottenere risultati di processo eccellente, occorrono un processo con una struttura di

prim’ordine, le persone giuste per eseguirlo e l’ambiente adatto in cui esse possano operare.

Figura 36. Modello per l'eccellenza nel business.

In conclusione quel modo di governare l’azienda, incentrato sul profitto e’ inadeguato. Un’attenzione

esclusiva al capitale, al profitto e alla soddisfazione dell’azionista può distrarre il management da ciò

che realmente conta.

Se si comunica al dipendente che il suo obiettivo è di creare ricchezza per l’azionista, non gli si dice

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assolutamente nulla; si contribuisce all’impoverimento dello spirito e della sua motivazione e prima o

dopo l’obiettivo che gli è stato dato viene a mancare.

Il successo dell’impresa fallisce con la cessazione della giusta tensione, allineamento e orientamento di

tutti i componenti che costituiscono l’organizzazione verso l’intento strategico.

Le imprese raggiungono il successo duraturo, realizzano profitti e rimangono nel business nel lungo

termine solo se forniscono valore a tutti gli stakeholder e assicurano la fidelizzazione dei clienti. La

focalizzazione solo dell’azionista o altri obiettivi non strategici possono portare al successo effimero,

sia come business sia come immagine, ma sicuramente non assicura la competitività a lungo periodo.

Non esiste in ogni modo un’organizzazione perfetta. Esiste l’organizzazione con il proprio DNA, la

propria configurazione, architettura organizzativa, risorse, capacità, leadership e intento strategico.

Invece di cercare la forma organizzativa perfetta, i manager devono imparare a creare il modello ideale

di riferimento, il modello eccellente dell’organizzazione, che deve essere adatto al compito da

realizzare.

È responsabilità dei manager e di tutta l’organizzazione cercare, sviluppare, provare e spingere

l’impresa reale ad avvicinarsi al più possibile al modello ideale di riferimento che esprime l’eccellenza

per il proprio business.

Chi al di là del risultato agonistico vorrà offrire soprattutto una testimonianza della propria fede nel

gioco, potrà lasciare un'eredità di verifica non forse immediata, ma valida in un tempo più lungo.

Lo sport di squadra offre un esempio alle organizzazioni d’impresa.

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L’eccellenza negli sport di squadra

Un gioco di squadra vincente nel metodo: la squadra più forte di tutti i tempi

Luglio 2007. Il mensile “World Soccer23”, rende nota la classifica delle migliori squadre di club di ogni

epoca. «The best football team of all the times is Milan…» la migliore squadra del mondo e’ il Milan

allenato da Arrigo Sacchi, davanti al Barcellona di Cruijf e al Real di Puskas, Gento e Di Stefano.

Era il Milan della programmazione e del paradosso. Più della vittoria contava il modo in cui la si

otteneva.

L’avventura inizia nel 1987/88. Non inizia benissimo per la verità. Dopo la vittoria all’esordio a Pisa,

al debutto a San Siro il Milan perde in casa con la Fiorentina (0-2). Alla terza il Milan fa 0-0 a Cesena,

ed al termine di una partita giocata benissimo Sacchi dirà: “Oggi ho visto la squadra che vincerà lo

scudetto”.

La stagione più bella fu quella 1989/90. Dopo la conquista della Coppa Intercontinentale e della

Supercoppa Europea, la squadra rimase in lizza in tutte le competizioni fino alla fine. Perderà lo

scudetto in modo del tutto immeritato, perderà la finale di Coppa Italia, ma vincerà, ancora una volta, il

trofeo più ambito: la Coppa dei Campioni. A proposito del campionato: indimenticabile l’ultima partita

disputata in casa, a Bergamo per la verità, a scudetto già perso: tutta la squadra fu portata in trionfo dai

tifosi, che tributò un applauso a Sacchi che lo indusse alle lacrime di commozione. Per Sacchi fu il

massimo delle soddisfazioni: si realizzava quella rivoluzione che lui aveva sempre cercato, e cioè un

pubblico che applaudiva la sua squadra non per aver vinto (quindi per il risultato) ma per aver

dimostrato di essere la squadra che giocava un gran calcio.

“Quel Milan ha vinto due coppe intercontinentali, due coppe campioni e due supercoppe europee.

Vinse un solo scudetto e un altro lo perse in modo assai strano, ma solo perché giocava in campionato

per allenarsi a vincere nel mondo. Che fa la crociata per il calcio del Duemila e ne affida poi il

comando a un parvenu di campagna, uno che al massimo allenava in serie B, pieno di belle idee nella

testa, come i cassetti dei poeti sono pieni di sogni. E’ da questo paradosso che nasce la nuova frontiera

del calcio, il glamour fatto pallone della fine anni Ottanta e l’inizio dei Novanta.24”

23 www.worldsoccer.com 24 Giancarlo Dotto, La squadra perfetta, Mondadori, Milano 2008. Cap: La perfezione e’ di questo mondo.

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Mentalità: dalla passione per il bel gioco ad una nuova filosofia

“Il calcio e’ come la pittura, come la musica.

Nasce dalla testa, non dai piedi o dalle mani”

Arrigo Sacchi

Non si era mai visto in un secolo di pallone una squadra italiana giocare in quel modo. Prima ancora

che di un modulo, Sacchi si fa portavoce di una filosofia di gioco affrancata dal tradizionale

pregiudizio legato alla natura casalinga o esterna dell'impegno. Per la prima volta una squadra italiana

adotta il medesimo atteggiamento in casa e in trasferta, in quanto in ogni caso punta a imporre il

proprio gioco prima che a sterilizzare quello altrui. In un’amichevole nel maggio 1988 in terra inglese,

ne fa le spese Alex Ferguson e il suo Manchester United: un sonoro 0-3 per i rossoneri.

“Bella e padronale fino all’arroganza. Che fosse a San Siro o al Bernabeu, a Como o a Pisa, a Napoli

o Barcellona, a Manchester o a Tokyo. Un’arroganza mai arrogante, educata e casomai necessaria,

figlia naturale del lusso tecnico, tattico e fisico di cui disponeva fino allo spreco. Che confutava

l’italianista Gianni Brera e spazzava via l’elementare domanda che ci assillava da sempre: perché mai

le squadre italiane sono grandi in casa e coniglie fuori? E ci dava una risposta: “ tutto e’ nella mente,

fuor della mente non c’e’ che il niente.”

Figura 37. Arrigo Sacchi durante la consueta lezione di filosofia calcistica a Milanello.

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“Quel Milan lavorava sulla mente per uscire dalla mente. Era come la musica di Rossini. Aspirava al

tutto per guadagnare il niente. Lo zen applicato al calcio. Ingaggiava psicologi ma aboliva la

psicologia. Costruiva attraverso l’esercizio ossessivo. Che sfiorava e in certi casi toccava la

perfezione. Quando non e’ stata perfetta per novanta minuti (Milan-Real Madrid, 19 aprile 1959, 5 a 0

San Siro), lo e’ stata per cinque minuti, mezz’ora mezzo tempo, in decine di altre partite. Squadra

raccolta in trenta metri, da Baresi a Van Basten. Difensori allineati sulla linea della metà campo,

orchestrati dietro dal grande Kaiser Franz. Il paradosso del difendersi avanzando, a distanza siderale

sulla linea dell’area e dal portiere che, mai come nel Milan di Sacchi, ha liricamente conosciuto la

solitudine. Un gigantesco catenaccio sospeso sul vuoto. Che non soffriva mai di vertigine perché la

squadra era solidale. Come le pattuglie di acrobati che si lanciano nell’abisso tenendosi per mano e

disegnando geometrie nello spazio. L’unica squadra italiana che avrebbe potuto abolirlo il paracadute

(spesso il portiere liquidato con un senza voto dai pagellatori delle tribune stampa, per assenza

d’opera). 25”

Figura 38. Milan allenato da Arrigo Sacchi, nella stagione 1988/89

25 25 Giancarlo Dotto, La squadra perfetta, Mondadori, Milano 2008. Cap: La perfezione e’ di questo mondo.

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Dopo l'avvento di Sacchi il calcio italiano non è più stato lo stesso: parole come “pressing”,

“ripartenze”, “zona alta”, “difesa alta”, “squadra corta”, competenze e mentalità vincente sono

diventate patrimonio di tutto il movimento.

Arrigo anni dopo racconta: «Tutto cominciò in uno studio televisivo. Il conte Rognoni mi fece andare in

tv a Cesena con Trapattoni. Allenavo il Parma e illustrai il mio calcio: divertimento, spettacolo, gioia,

lavoro e applicazione. Alla fine un cameraman mi disse: finirà che la prende Berlusconi».

Arrigo vinse col Parma a San Siro ed eliminò dalla Coppa Italia il Milan di Liedholm, poi passato a

Capello: un Bortolazzi qualsiasi che fa fuori Wilkins, Hateley e Baresi. Ebbe ragione il cameraman:

Berlusconi telefonò. Arrigo era stato a Coverciano insieme con Zeman. I vecchi allenatori lo

rifiutavano, ma lui si sentiva più coach degli altri: la professione come fede. Da giovane guadagnava

bene: aveva una Porsche, girava l'Europa e vendeva partite di scarpe. E quando era ad Amsterdam

andava a vedere l'Ajax e l'Olanda, i suoi miti. Piantò tutto per 200mila lire all'Alfonsine, nei dintorni

romagnoli del calcio dilettantistico. Un pazzo.

Tornando alla telefonata di Berlusconi, dopo un incontro tra i due c’e’ una folgorazione: Sacchi brucia

Capello, efficace sostituto di Liedholm nel finale della stagione 1987.

L'ingaggio di Sacchi suona blasfemo alle orecchie dei più, un azzardo che il Milan rischia di pagare

caro, anche se dall'Olanda arrivano due tipi ben referenziati, Gullit e Van Basten.

Ma come potrà gestire tanti campioni il mister che viene dalla provincia calcistica più marginale?

Gli inizi in effetti sono stentati e crescono i primi timori attorno al tecnico che da Parma ha voluto

portarsi i terzini Mussi e Bianchi, pur avendo Tassotti e Maldini, e il regista Bortolazzi, giovane

bravino ma fuori categoria tra gli altri dello spogliatoio rossonero. Il Milan viene fatto a fette

dall'Espanol nel secondo turno di Coppa Uefa e quelli che la sanno lunga sulle vicende di San Siro

scommettono sul siluro: il famoso panettone Arrigo dovrà mangiarlo a Fusignano.

Invece Berlusconi tiene duro, facendo quadrato attorno al tecnico così simile a un apprendista stregone.

A primavera, quando il Napoli di Maradona crolla improvvisamente in vista del traguardo, il Milan

lancia lo sprint e coglie lo scudetto, grazie anche a una straripante salute atletica.

La leggenda di Arrigo è avviata e tutti scoprono il nuovo fenomeno. Il suo Milan è costruito su trame di

gioco provate e riprovate in allenamento, rese possibili da un’esasperata preparazione atletica e dalla

maniacale cura con cui il tecnico educa gli allievi.

I superficiali parlano di zona, ma il progetto tattico è ben più ampio. Grazie a carichi di lavoro atletico

settimanale sconosciuti alla maggior parte della concorrenza e fedele alla scuola olandese, Sacchi esige

un pressing ossessivo, che inaridisce le fonti di gioco avversarie fin dall'altrui area di rigore, e tiene

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corta la squadra con la tattica del fuorigioco e i rapidi contrattacchi, che ribattezzerà "ripartenze".

La nuova filosofia, portata dall'allenatore di Fusignano, ha modificato profondamente l'idea di calcio

nella nostra penisola: metodi di allenamento moderni, visione della squadra come unico organismo e la

mentalità vincente del team. Queste sono le eredità di Sacchi, l'allenatore che più degli altri e’ stato

capace di innovare il modo di fare gioco di squadra nel calcio.

A pieno diritto si può tratteggiare l'avvento di Sacchi sulle grandi ribalte del calcio italiano nella

seconda metà degli anni Ottanta come l'evento più innovativo dell'ultimo scorcio del secolo.

Non conta solo vincere ma fare spettacolo.

Un gioco che si doveva imporre sempre: era il modo a dover incantare. Come nelle organizzazioni

d’impresa, anche nello sport la passione e la ricerca dell’eccellenza nei processi di raggiungimenti degli

obiettivi, fanno la differenza.

Metodo e disciplina: il singolo al servizio del collettivo

“Un giocatore può dirsi arrivato quando riesce a pensare per undici”

Arrigo Sacchi

“In allenamento i giocatori faticano come bestie e soprattutto all’inizio smadonnano, ma poi in campo

si divertono da pazzi, il piacere di trovarsi a mille all’ora anche bendati, la voluttà un po’ barbara del

pallone strappato al rivale. Una squadra capace di trasformare una partita di pallone in un incubo per

gli avversari e in una festa sabbatica per sé e per i propri tifosi. Un gioco che si doveva imporre

sempre. Il Milan di Sacchi era una macchina condannata a vincere, non dai suoi talenti, ma da come

questi talenti erano motivati, assemblati e messi al servizio di una missione superiore. Non giocava

contro le avversarie, giocava contro i propri limiti. Undici giocatori sempre attivi, con o senza palla,

in ogni zona del campo. Il Milan di Capello vinse di più, almeno in Italia, ma non era così stupefacente

alla vista. Grande ma dimenticabile. Vinceva sempre, quasi sempre, ma non ti annegava, non dava

l’idea del destino e dell’ineluttabilità’. Equazione impossibile di grazia potenza e di estetica, quel

Milan. L’altra grande fortuna fu che quei campioni erano tutti giovani e smaniosi di vincere. Appena

percepirono che il pazzo di Fusignano aveva un metodo, cominciarono ad assecondarlo. Sacchi

detestava il calcio all’italiana.26”

26 26 Giancarlo Dotto, La squadra perfetta, Mondadori, Milano 2008. Cap: La perfezione e’ di questo mondo.

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Figura 39. Sacchi e Marco Van Basten durante le classiche simulazioni di gioco durante l'allenamento.

Appena arrivato, Sacchi impose subito il suo metodo di allenamento e la sua gestione dello spogliatoio,

in maniera rigida e senza guardare in faccia a nessuno. Tutti si resero conto che dovevano lavorare allo

stesso modo, dai più famosi ai ragazzi appena arrivati. Il credo sacchiano era uno solo: lavoro, lavoro,

lavoro, e Sacchi ebbe anche la fortuna di trovare nel Milan giocatori straordinari non solo in campo, ma

anche sotto il profilo umano: campioni come Baresi, Costacurta, Ancellotti adottano il metodo dando

l'esempio in campo di quanto può essere importante la collaborazione e il sacrificio per la squadra,

abbracciando in toto le idee rivoluzionarie del mister romagnolo. Carichi di lavoro pesanti, rigidezza

negli orari, ossessione maniacale nella cura delle posizioni da tenere in campo sono le caratteristiche

principali che all’inizio creano difficoltà ai giocatori nell’adeguarsi ai nuovi metodi.

Ma come giocava quel Milan? Sacchi propone un rivoluzionario 4-4-2. Il pressing e’ alto, costante e

parte dai due attaccanti. Sacchi pretende che alla fase difensiva partecipino tutti, gli avversari vanno

attaccati dal momento che prendono palla, senza aspettare che arrivino nella propria trequarti. Per

attuare un pressing simile le linee devono mantenere le distanze, essere compatte ed attuare movimenti

il più possibile sincronizzati per evitare spazi non coperti ed essere pronte a ripartenze fulminanti.

La squadra si schierava, dunque, con quattro difensori in linea (sparisce il libero), con due marcatori

centrali e due esterni che difendono e allargandosi, ripropongono e fanno ripartire l'azione.

La difesa protetta dai meccanismi del centrocampo e’, posizionata alta sul campo, costantemente alla

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ricerca della trappola del fuorigioco, col movimento chiamato sempre da un difensore centrale (Baresi).

I terzini (Maldini-Tassotti) sono molto propositivi anche in fase offensiva arrivando sovente sul fondo a

crossare. A tal scopo Sacchi li schiera un po' più avanti rispetto ai due centrali per permettere loro di

seguire meglio la squadra durante la fase offensiva. Il centrocampo è schierato in linea in fase difensiva

mentre in fase offensiva si dispone a rombo con Ancelotti vertice basso e motore della squadra,

Donadoni che si insinua spesso tra le linee dietro le due punte, Colombo a destra pronto alle

scorribande sulla fascia e Rijkaard centrocampista universale; a turno però uno dei due mediani si

inserisce in fase di attacco, sia centralmente che sulla fascia. I due attaccanti hanno funzioni

leggermente diverse con Gullit appena dietro a Van Basten che invece si muoveva più vicino all'area di

rigore avversaria; entrambi però con movimenti sincronizzati per crearsi spazi sempre abbastanza

centrali. Le fasce diventano territorio di conquista dei due terzini.

Tutti in campo devono svolgere un doppio ruolo con compiti importanti sia in fase difensiva che in

quella offensiva. Il movimento coordinato tra i reparti e tra gli stessi giocatori dà alla squadra una

compattezza mai vista prima, mentre il movimento continuo senza palla in fase di attacco sarà

devastante per le difese di allora schierate a uomo. Alla fine la squadra imposta e impone il proprio

gioco, aggredisce l’avversario e lo obbliga a sottostare al proprio ritmo. Anche se in vantaggio, non si

risparmia ma continua ad attaccare con la stessa intensità, virtù che, grazie appunto alla grande

organizzazione, non impedisce al Milan di avere una delle difese meno perforate.

“Io ho sempre pensato a un calcio globale, ho sempre pensato di avere una squadra non di avere un

singolo, e quindi allenavo la squadra per migliorare il singolo, non partivo dal singolo per arrivare

alla squadra.”

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Collaborazione: creare sinergia e a muoversi sono le competenze

“Il calcio si gioca senza palla.

La palla la devi toccare una volta sola e se non la tocchi e’ ancora meglio!”

Arrigo Sacchi

Altro punto su cui Sacchi lavorò molto fu il movimento senza palla: fu una rivoluzione copernicana!

Prima dell'avvento di Sacchi al Milan, anche in serie A, il movimento che gli allenatori curavano

maggiormente era quello del portatore di palla, i suoi compiti e le sue capacità erano primarie.

In un calcio dominato a quei tempi da marcature fisse, dove le partite si risolvevano spesso in duelli tra

attaccanti e marcatori: era il portatore di palla che aveva il compito di trovare un compagno libero,

mentre il marcatore doveva togliergli palla.

In questa maniera il calcio era poco collaborativo, non era un vero e proprio movimento corale, per

questo Sacchi curava con molta attenzione i movimenti degli uomini senza palla, che proponendosi con

i loro scatti e movimenti offrivano più possibilità al portatore di palla, partecipavano attivamente alla

manovra d'attacco e rendevano spettacolari le azioni offensive.

Sacchi pretende che il lavoro dei giocatori senza palla deve essere martellante, il pressing deve risultare

asfissiante e il reparto difensivo deve essere pronto a salire per accompagnare l'azione dei compagni e

agevolare il fuorigioco.

“Durante la fase di pressing devi sapere quando è più giusto coprire lo spazio o andare sull'uomo e

devi avere una collaborazione costante, si difende collettivamente, questa fu la differenza: mentre in

Italia si difendeva individualmente e il riferimento principale è quasi sempre l'avversario e quasi mai il

compagno. Ma se deve essere una squadra... se non c'è una connessione col compagno, un

collegamento, non sei una squadra. Noi in fase difensiva avevamo tre riferimenti: l'avversario, il

pallone e il compagno, e dovevamo sempre capire quando era più giusto coprire lo spazio o quando

era più giusto invece marcare l'uomo e aggredirlo.”

Gli avversari, i primi tempi, non abituati ad essere attaccati in tutte le zone del campo, trovavano grosse

difficoltà a costruire le azioni, perdendo i punti di riferimento e finendo per essere soffocati dal ritmo

imposto dai rossoneri.

Rispondendo alla domanda circa la differenza tra uno sport di squadra e uno sport singolo, Sacchi

racconta: “La differenza e’ data dalla connessione che si trasforma in sinergia. Ma se non c'è un

collegamento la connessione sarà minima e la sinergia sarà minima. Per far questo quindi e’ utile

muovere undici giocatori in modo organico e che siano nelle distanze giuste e che si vadano a

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smarcare nei tempi giusti e che in fase difensiva siano nelle posizioni giuste, nelle coperture giuste:

avere in poche parole undici giocatori in posizione attiva con la palla e senza la palla.”

Che la realtà sia "complessa" significa, in ultima analisi, che, quale che sia il fenomeno che stiamo

considerando – lo sport di squadra oppure l'economia di mercato -, il tutto di quel fenomeno e’

superiore e non risolvibile nella somma della parti che lo costituiscono. C'è insomma una specie di

"valore aggiunto" della totalità che le parti singolarmente prese non prevedono e che, se isolatamente

considerate, non lasciano predeterminare. Esso risulta come un’emergenza imprevedibile

dall'interazione delle parti. Una squadra è molto di più dei suoi undici giocatori.

Le organizzazioni contemporanee sono chiamate a rispondere all’inaspettato agendo efficacemente

all’interno di un contesto mutevole. Nel realizzare tale bisogno possono imparare molto dai giocatori di

una squadra, che si dispongono con passione all’inaspettato al fine di promuovere un cambiamento

efficace e non solo un esecuzione efficiente.

Il calcio è un gioco di squadra che richiede il massimo livello di capacità di comunicazione e

collaborazione. Il giocatore deve acquisire la coscienza di sviluppare il senso del gioco collettivo, la

solidarietà, l’aiuto reciproco e deve subordinare gli interessi personali a quelli del gruppo.

L’individuo è formato per la squadra.

Improvvisazione: dal copione sino alla creatività flessibile

“Il fatto e’ che solo dentro un copione la creatività può esaltarsi.

Fuori dal copione c’e’ solo estemporaneità e pressapochismo.”

Arrigo Sacchi

L’esperienza nel campo della pratica sportiva vuole rivalutarne i suoi aspetti positivi di creatività, di

invenzione, del saper fare e creare sul momento. Con tale capacità arriviamo a concludere una

mappatura degli elementi chiave per lo sviluppo di quel gioco di squadra sinergico con una

predisposizione ai processi per raggiungere il successo.

Cosa accade quanto siamo posti di fronte a una situazione di gioco complessa? Se non siamo in

possesso degli opportuni strumenti e mentalità rischiamo di sentirci confusi e disorientati. Qualcosa di

simile può accadere anche nelle organizzazioni, nelle quali il bisogno di una “bussola” diventa ancora

più fondamentale. Detto in altri termini: se non siamo in grado di leggere un senso condiviso in quel

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che facciamo, rischiamo di sentirci disorientati. E quindi di perderci.

Il termine improvvisazione è generalmente inteso in senso negativo come sinonimo di approssimazione

e di impreparazione. Dall’inglese e’ possibile sdoganarne il significato, così ampliando anche i

tradizionali confini dell’apprendimento.

Nella parola “improvisation27” possiamo vedere distintamente:

− a(c)tion: azione, cioè l’atto che fa succedere qualcosa.

− (to) improv(e): migliorare

− is: (quello che) c’e’

Sotto tale lente, similmente nell’approccio che ci ha visto rivalutare il termine “educare” come la

capacità di tirare fuori e non di inserire contenuti, andiamo a leggere nell’improvvisazione: l’atto di

migliorare quello che già c’e’.

Il miglioramento, infatti, inteso come “il fare sempre di più e meglio” di Sacchi nel percorso verso

l’eccellenza e nelle dinamiche della valorizzazione e’ un concetto chiave anche nella gestione dei

processi organizzativi.

Nell’osservazione e nell’abitare sistemi complessi, dove l’inaspettato può accadere l’improvvisazione

aiuta a trovare una lettura indispensabile del contesto per creare un’alternativa ad una situazione ideale.

Nelle situazioni stabili che vengono meno e nel percorso di valorizzazione delle competenze rispetto

all’inflessibilità’ dei ruoli, la capacità d’improvvisare e quindi di mettere in moto il proprio potenziale

creativo risulta indispensabile.

Non ci sono piani e strategie infallibili, bensì giocatori che pensano prima degli avversari e fanno

fronte ad una situazione di gioco, ogni volta in maniera differente e unica. Per capire come efficacia e

flessibilità vadano di pari passo potremmo puntare lo sguardo sul contenuto di gioco espresso dalla

squadra di Sacchi. Il profeta romagnolo, infatti, consapevole della mutevolezza delle condizioni in

campo, educava i suoi giocatori dal metodo per allenare l’improvvisazione: “Lavoro, applicazione,

gioco di squadra, aiuto reciproco: questo ci vuole. La fantasia è un surplus, viene quando sai. Se non

sai non c'è fantasia. Van Basten mi criticò, e io lo portai in panchina: «Visto che sai di calcio mi dirai

che fare...».28”

L’obiettivo oltre che vincere e’ sempre stato convincere e indispensabile per farlo era trovare le

distanze giuste e le sinergie perfette. Per ottenere i movimenti di squadra necessari si intensificano le

sedute di allenamento a Milanello e si mandano a memoria schemi e movimenti provando e riprovando 27 Michael Gold-Dario Villa, Trading Fours, Art For Business Edizioni, 2012. 28 CFMT: Accademia Sport e Management: quello che lo sport ha da insegnare al management. Performance di squadra: incontro con Arrigo Sacchi.

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149

fino alla nausea situazioni di gioco.

In allenamento disponeva gli 11 senza palla: si muovevano a vuoto in un disegno astratto.

Nell’interpretazione del sistema complesso nel campo da gioco, sia dal punto di vista dei movimenti

che nella tempestività degli stessi, assume una particolare rilevanza l’intelligenza o meglio

l’improvvisazione nel leggere una situazione e in “accordo” con i propri compagni mettere in atto

un’azione tesa a rispondere con successo.

L’approccio, dovendo sfondare abitudini rigide e non portando ad una gratificazione nel breve periodo

negli interpreti, dovette attendere la rottura di schemi mentali precostituiti e tanto impegno. Pertanto

nella prima stagione il Milan mostrò due facce: quella del girone di andata che metteva in risalto le

difficoltà dei calciatori ad apprendere, e di conseguenza a sviluppare le tattiche impartite

dall’allenatore, e quella del girone di ritorno, quando il Milan divenne una macchina praticamente

perfetta. La squadra raggiunse risultati eccezionali per quanto riguarda il sincronismo dei movimenti in

campo e si potrebbero passare ore a riguardarsi le partite per cogliere la spettacolarità del movimento

dei giocatori che accorciano o allungano gli spazi a seconda della situazione di gioco.

Quando si affronta un contesto in cambiamento, l’unico metodo che permette di agire in modo efficace

e innovativo e’ quella della flessibilità. Questo e’ quello che si significa davvero improvvisare.

Il risultato di un’improvvisazione risulterà inaspettato come le circostanze di una partita; il processo e il

cambiamento, infatti, implicano un assumersi dei rischi e abbandonare zone di confort come “oggi non

importa come giochiamo ma l’importante e’ vincere”. Tale visione esprime la strada che porta

all’impegno teso all’eccellenza.

In conclusione una frase di Zeman che suona come una sfida ma anche come ancora un paradosso per

le organizzazioni: “Il risultato e’ casuale, la prestazione no29”. La volontà e’ di riassumere

l’intenzione ma anche la necessità di abitare il sistema complesso del gioco e delle organizzazioni con

il focus verso i contenuti, i valori e il modo con cui si fa quello per cui si ha passione.

29 Giuseppe Sansonna, Zemanlandia: due o tre cose che so di lui

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150

Apprendimento. Nelle organizzazioni in cui le persone espandono continuamente le loro

capacità di generare risultati, che davvero desiderano, vengono coltivati nuovi e molteplici

modelli di pensiero. Lo sport di squadra e il processo teso all’eccellenza offrono una lettura del

contesto in continuo cambiamento in cui le aspirazioni collettive sono libere i svilupparsi e le

persone continuano ad “apprendere come apprendere”

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Conclusioni

Dal mondo aziendale una considerazione alla base: la mancanza di concretezza, d’improvvisazione,

d’immaginazione, di disponibilità ad assumersi rischi e di divertimento.

Due le domande alla base dello studio: in che modo il gioco può aiutare la cultura manageriale a

valutare soluzioni originali a problemi complessi? Come è possibile aiutare i manager ad avviare azioni

concrete nel contesto organizzativo che risulta sempre più astratto?

Una tra le scuole di business e centri di ricerca manageriale migliori al mondo, l’IMD di Losanna nel

dicembre 1998 pubblica un breve articolo dal titolo «In search for original strategies: how about some

serious play». Gli autori dell’articolo Johan Roos e Bart Victor, in quel periodo professori nei corsi di

General Management and Strategy e di Organizational Behaviour and Leadership, illustrano i risultati

di una ricerca sulle potenzialità delle teorie costruzionistiche all’organizzazione d’impresa:

“Serious play30 significa riconoscere un obiettivo chiaro come esaminare una potenziale minaccia per

il business o cercare di riconoscere un portfolio di prodotti interamente nuovo. Il gioco diventa un

contesto nel quale i rischi possono essere presi senza rischio, nel quale l’inimmaginabile può essere

immaginato senza paura nel quale l’insperato può essere realizzato senza alcuna esitazione. Per

immaginare in modo proficuo dobbiamo avere la possibilità di compiere delle scelte che appaiono

significanti.”

Dal contributo e dall’illustre gruppo di lavoro tra Lego e IMD sarebbe nato il progetto di Lego Serious

Play: tanti mattoncini di plastica al servizio del mondo del business per favorire l’impiego della

fantasia e lo sfruttamento dell’imprevedibile a scopi aziendali.

Da tale approccio si e’ sviluppato e ha preso forma il desiderio di Learning Playing: esplorare le

dinamiche del gioco nella prospettiva alternativa degli sport di squadra.

30 Lindholm Mikael, Previ Leonardo, Stokholm Frank, Lego Story, Egea 2012

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153

Pensare al futuro, non fermarsi al qui e ora ma cercare di rivolgere lo sguardo avanti per fare in modo

che ogni processo sia utile a stimolare ogni trasferimento di abilità da un ambito all’altro.

Dalle esperienze raccontate dallo sport di squadra dobbiamo trarre degli stimoli che portino a leggere

non più solo un giudizio negativo, o una critica alla modernità, bensì una presa di coscienza, una nuova

consapevolezza, per riuscire così ad andare avanti in un continuo processo valoriale, perché ogni

vissuto e ogni racconto è testimonianza di creatività.

Se e in quale misura frequentare l’attività sportiva offre opportunità di costruire un percorso di

avvicinamento al presente? Tale esperienza può essere un momento di apprendimento che esca dalle

frontiere dello sport ed entri nella quotidianità delle persone?

Rispondendo a tali necessità ho cercato di elaborare alcuni strumenti per poter intelleggere con

maggiore efficacia la nostra contemporaneità, per trovare elementi che siano fonte d’ispirazione, per

comprendere al meglio il proprio presente quotidiano e le ragioni di alcuni fenomeni, per poter capire

meglio gli altri, per trovare, perché no, piacere e senso nel proprio lavoro. Portare il modello sportivo

nelle organizzazioni d’impresa, per accompagnare le persone all’interno di un percorso di costruzione

di senso legato al loro pensare e agire quotidiano, fondamento necessario per poter essere creativi,

innovativi e reattivi al contesto e alla situazione di continuo cambiamento in cui oggi ci troviamo.

Il fondamento principale, quindi, è stato valutare l’esperienza attraverso lo sport soprattutto in termini

di variazione di prospettive, nella continua crescita del proprio pensare ed agire, disposizione al

cambiamento, consapevolezza delle proprie caratteristiche, rottura di alcune abitudini mentali e

soprattutto relazionali, capacità di affrontare e valorizzare l’errore e l’imprevisto.

Portare nelle imprese il modello degli sport di squadra in quanto allenamento alla diversità,

raggiungimento di obiettivi condivisi, improvvisazione, in una parola apprendimento.

Nel percorso ho esplorato quanto importanti siano le responsabilità e le possibilità che ognuno di noi ha

di contribuire al successo della propria organizzazione. L’esperienza sportiva come occasione per

portare la quotidianità dell’individuo dentro il suo luogo di lavoro, e una metafora quella sportiva che

intende far proseguire la strada che porta il pensiero creativo dentro le organizzazioni per diventare

oltre che strumento per l’arricchimento delle nostre conoscenze, un principio per l’apprendimento

organizzativo.

E’ nell’esplorazione di un legame che questo elaborato e’ arrivato a delle conclusioni.

Nel coinvolgimento in uno scambio tra esperienza sportiva e business, i vocaboli si sono contaminati,

le identità divenute incerte e i risultati imprevedibili; tale trasferimento in conclusione non intende

essere una risposta, bensì una domanda che ci da la possibilità di chiederci se puntare lo sguardo sulle

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attività umane nella quale ogni individuo può fare esperienza di creatività coltivando una passione può

aiutare a capire cosa sta succedendo in un periodo così complesso e critico per l’economia e se può

aiutarci a migliorare le nostre attività.

Learning Playing si pone come un approccio nuovo, un contributo all’innovazione, facendo tesoro delle

fonti di apprendimento per affrontare con maggiore consapevolezza la propria quotidianità; la

valorizzazione del capitale umano nelle organizzazioni d’impresa passa attraverso il gioco, il

divertimento e le competenze di cui ciascun essere umano dispone.

L’obiettivo di dare all’impresa un senso che vada oltre il profitto, e reinvestire per migliorare la vita di

chi lavora, per valorizzare e recuperare le bellezze del mondo.

Raccontare e frequentare lo sport è stata una palestra fondamentale per acquisire capacità e competenze

che sono decisive in ogni campo d’azione professionale: dal problem solving, alla capacità di

improvvisazione, dal pensiero divergente, all’intelligenza estetica fino alla capacità più preziosa: farsi

domande sul senso di quello che facciamo tutti i giorni.

La sfida e la visione del percorso Learning Playing stanno proprio in questo elemento chiave: creare

contenitore per trattenere e rielaborare pensieri, valori e modelli di comportamento che provengono dal

mondo dello sport di squadra e creare una “sede”, un contesto stabile che funga da punto di riferimento

in grado di coniugare l’esperienza dello sport con il bisogno di innovazione del management,

trasformando l’esperienza sportiva in suggestioni manageriali.

Learning Playing e’:

…contribuire a mettere le persone nella condizione di esprimere la propria eccellenza in

un contesto complesso e sfidante;

…valorizzare le occasioni di apprendimento che lo sport di squadra spontaneamente

produce, con il suo orientamento all’eccellenza, la ricchezza di esperienze sedimentate ed il

denso bagaglio di competenze diffuse;

…avere l’opportunità di sostenere ed accrescere il processo di diffusione, apprendimento

e sviluppo delle competenze chiave: passione, interdipendenza, responsabilità e

improvvisazione, affinché vivano, come comportamenti distintivi, nell’attività quotidiana di tutti

noi.

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Le narrazioni hanno travalicato i confini dello sport. E proprio perché la storia ci insegna che non si

tratta di solo sport, vale forse la pena citare ciò che disse nel 1978 Joseph Ratzinger, allora arcivescovo

di Monaco di Baviera, che spiegò come «l’aspetto positivo che è alla base del gioco» sia

«l’esercitazione alla vita e il superamento della vita in direzione del paradiso perduto».

Ecco che allora se guardiamo allo sport di squadra non solo come pura e sacrosanta occasione di

divertimento, ma anche come opportunità per ricordarci e reimparare che “L’uomo non vive di solo

pane perché il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della libertà, una

libertà che si nutre però della regola, della disciplina, che insegna l’affiatamento e la rivalità leale”,

l’approccio Learning Playing potrebbe darci qualcosa di più della semplice metafora.

La scommessa iniziale di delineare un’ipotetica Intelligenza Sportiva giunge alla consapevolezza e si

pone come la capacità di apprendere, di risolvere problemi, conflitti o situazioni ed, inoltre, di trasferire

ciò che si è appreso in situazioni diverse.

Se all’inizio del nostro percorso se ci avessero chiesto chi considerate particolarmente intelligente,

potendo scegliere tra chi volete, dai conoscenti alle persone più famose, probabilmente ci sarebbe

venuto in mente il nostro compagno di studi che prende 30 in tutti gli esami o magari il vecchio

Einstein, con tanto di capelli spettinati e linguaccia. Alla conclusione del nostro percorso potremo

anche considerare che vi sono stati atleti che con le loro gesta sui campi di mezzo mondo hanno

cambiato la percezione comune della figura dello sportivo: se prima quest’ultimo era semplicemente

visto come una persona dotata di un gran fisico, ma allo stesso tempo di un’ignoranza abissale, gente

come Jordan o Maradona hanno fatto capire al mondo che esiste anche un’altra forma di intelligenza,

quella, appunto, sportiva. Intendiamoci, probabilmente il Pibe de Oro era poco al di sopra della soglia

dell’analfabetismo; la sua superiorità, oltre che tecnica, era però quella di saper intuire la situazione di

gioco nella sua interezza in una frazione di secondo più velocemente di tutti gli altri, come se sapesse

già quello che stava per accadere, e agiva di conseguenza. Jordan, perfezionista se ce n’e’ uno, aveva

una conoscenza a dir poco completa del sistema di gioco in cui era inserito, per cui aveva sempre la

situazione sotto controllo e sapeva sempre cosa fare in ogni contesto, unendo una straordinaria

superiorità tecnica ad una capacità innata di lettura della situazione.

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Bibliografia e sitografia

Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse tuo amico per

la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.”

J. D. Salinger

RIPENSARE L’APPRENDIMENTO: DIVERSITÀ, FARE E DIVERTIMENTO

Howard Gardner, Educazione e sviluppo della mente: Intelligenze multiple e apprendimento

Howard Gardner, L' educazione delle intelligenze multiple: dalla teoria alla prassi pedagogica

Howard Gardner, Formae mentis: saggio sulla pluralità dell'intelligenza

Howard Gardner, Cinque chiavi per il futuro

99u.com: Scott Belsky, Experience Trumps Theory: Reviving the Apprenticeship Model

Gareth Morgan, Images: le metafore dell'organizzazione

Ken Robinson, Out of Our Minds: Learning to be Creative

Peter M. Senge, La quinta disciplina

Rsa Animate: Changing Education Paradigms

Ted Talks (www.ted.com):

− Ken Robinson says schools kill creativity

− Sir Ken Robinson: Bring on the learning revolution!

− John Hunter: Teaching with the World Peace Game

− Charles Leadbeater: Education innovation in the slums

− Sugata Mitra: The child-driven education

The Economist: Peter Drucker, The next society

INTELLIGENZA SPORTIVA

Francesco Casolo, Il corpo che parla: comunicazione ed espressività nel movimento umano

Osvaldo Soriano, Pensare con i piedi

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Npr.org: Frank Deford, Catholic Universities See True Path To Salvation: Basketball

Seth Godin, Why do we care about football?

PLoS ONE: T.Vestberg , R.Gustafson , L.Maurex , M.Ingvar , P.Petrovic , Executive Functions Predict

the Success of Top-Soccer Players

Corriere della Sera: G. Giorello, Perché siamo diventati molto più intelligenti rispetto ai nostri antenati

Corriere della Sera: Antonino Michienzi, Il segreto di Messi e’ nel cervello

RUOLI E POSIZIONI

Federico Buffa, Black Jesus: the anthology

Mit Sloan Analytics Conference: Muthu Alagappan

The Wall Strett Journal: Chris Herring, The Rise of the Position-Less Player

Wired: Jeff Beckham, Analytics Reveal 13 New Basketball Positions

Massimo Bergami, Ettore Messina, Dialogo sul team: note di organizzazione da un anno di basket

CFMT, Accademia Sport e Management: Valerio Bianchini

Richard L. Daft, Organizzazione aziendale

RESPONSABILITÀ INDIVIDUALE E COLLETTIVA

Statsheet: NCAA Basketball, Big 12 Conference Tourney 1st Round

Statsheet: NCAA Basketball, Pervis Pasco

Cbssports: NCAA College Basketball Game Tracker, Colorado vs. Kansas State

Pervis Pasco Fiasco - In all it's glory

CFMT, Accademia Sport e Management: Julio Velasco

Keidel R, Team Sports models as a Generic Organizational Framework

Gian Paolo Montali, Scoiattoli e tacchini

Phil Jackson e Charley Rosen, Più di un gioco

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Marco Paolini, Gli album di Marco Paolini

Marco Paolini, Bala Omo

VALORE DEL PROCESSO

Mundial Film: Germania 1974

Storie di calcio, Olanda '74: Arancia Meccanica

Radio Olanda, Alec Cordolcini, Calcio totale e sfortuna mondiale. Olanda contro Belgio, anno 1973

The Greatest Try of All Time, 1973 All Blacks vs. Barbarians

BBC Documentary, We Beat The All Blacks. How Llanelli beat the All Blacks?

David Bolchover, Chris Brady, Il manager come allenatore: gestire il team in azienda

CFMT, Accademia Sport e Management: Arrigo Sacchi

Storie di calcio, Arrigo Sacchi

Ilsole24ore: Francesco Pacifico, Arrigo Sacchi e l'arte del pallone

Giancarlo Dotto, La squadra perfetta

99u.com: Jocelyn K. Glei, Hacking Habits: How To Make New Behaviors Last For Good

Charles Duhigg, La dittatura delle abitudini

Michael Gold, Dario Villa, Trading Fours

Giuseppe Sansonna, Zemanlandia: due o tre cose che so di lui

Massimiliano Palombella, Francesca Spaziani Testa, Zemanologia: filosofia di gioco e di vita di un

genio del calcio

Pietro Trabucchi, Perseverare e’ umano

Ted Talks (www.ted.com): John Wooden: the difference between winning and succeeding

Michael Jordan spot commercial My Fault

Jafar Panahi, Offside

Lindholm Mikael, Previ Leonardo, Stokholm Frank, Lego Story

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