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3 Atti della terza edizione del convegno letterario ADI-SD a cura di Barbara Peroni Ufficio Scolastico per la Lombardia

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Atti della terza edizione del convegno letterario ADI-SD

a cura di Barbara Peroni

Ufficio Scolastico per la Lombardia

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progetto grafico www.miteintransigente.itfinito di stampare aprile 2006

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In questo volume sono stati raccolti gli ATTI della terza edizione del convegno letterario “Milano da Leggere”, organizzato dalla associazione ADI-SD, tenutosi al-l’Universtià Statale di Milano il 15 e 16 Dicembre 2005.

Lo scritto mantiene i caratteri della comunicazione orale, rispecchiandone l’imme-diatezza e l’estemporaneità. E’ la trasposizione fedele di tutte le relazioni.

Un doveroso ringraziamento va al prof. Mario G. Dutto, Direttore Generale dell’Uf-ficio Scolastico per la Lombardia, che per il terzo anno consecutivo ha permesso lo svolgersi del convegno e questa pubblicazione.

Quest’anno si ringrazia anche la SILSIS-Mi per il generoso contributo alla pubblica-zione degli Atti, a sottolineare la costante attenzione della comunità scientifica alla formazione degli insegnanti.

Per ultimi, ma non per importanza, si ringraziano i professori Rino Caputo, Clau-dio Milanini, Francesco Spera, Gianni Turchetta che hanno presieduto le sessioni del convegno con generosa disponibilità e grande professionalità.

Barbara Peroni, Direttivo ADI-SD

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Indice

Presentazione e saluto delle autorità p. 9

ROBERTO BIGAZZI, Università di SienaLa guerra di Rubè p. 12

RAFFAELE DE BERTI, Università Statale di MilanoRizzoli e il cinema tra le due guerre p.22

BARBARA BRACCO, Università di Milano - Bicocca1915-1918. Milano, capitale del fronte interno p.38

MAURO NOVELLI, Università Statale di MilanoIl sacco di Milano. Delio Tessa, “Caporetto 1917” p.53

FRANCESCO VARANINI, Università di PisaLo sport come moderna festa crudele: il dio di Roserio p.60

ALBERTO CADIOLI, Università Statale di MilanoLa guerra di Carlo Emilio Gadda p.68

PAOLO GIOVANNETTI, Università IULM Milano“Per la trincea ripartito è qualcuno” Poeti a Milano nella grande guerra p.76

REMO CESERANI, Università Statale di BolognaRappresentazioni della guerra p.90 PIETRO CATALDI, Università per Stranieri di SienaLa «patria tradita». Un filmato di Toscanini del 1943 p.101 GIULIANA NUVOLI, Università Statale di MilanoLa guerra dei poveri p.111

GIOVANNI FALASCHI, Università di PerugiaAltro effetto della guerra: la crisi interiore p.121

CTRL Z, Università IULM MilanoAlla periferia di nessun centro (filmato) p.135

SERGIO D. ALTIERI, ScrittoreGuerra asimmetrica: a che ora è la fine del mondo? p.140

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GIUSEPPE LANGELLA, Università Cattolica di MilanoEcce homo. Sulla letteratura della guerra alpina p.143

SILVIA MORGANA, Università degli Studi di MilanoLeggere per non dimenticare:lettere dai lager di internati militari italiani (1943-44) p.153

RINO CAPUTO, Università di Roma “Tor Vergata” Modi di dire la guerra da Milano all’Italia: il tumulto p.166

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Buongiorno e benvenuti.Il mio compito è particolarmente piacevole; devo ringraziare:Il Magnifico Rettore, professor Enrico Decleva, che ci ospita per due giorni in questa bellissima aula magna dell’Università Statale di Milano,il Direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia, dottor Mario Dutto, che continua a sostenere “Milano da Leggere”, rendendolo, con il suo appoggio, un appuntamento annuale,i presidenti di sessione F.Spera, R.Caputo,C. Milanini,G.Turchetta, per la loro dispo-nibilità e competenza,i relatori tutti, che vengono da ogni parte d’Italia, offrendo il loro tempo e la loro pre-parazione scientifica,il pubblico numeroso, tra cui vedo soci fedeli, coinvolti dal lavoro dell’associazione. Un grazie ancora a tutti quelli che hanno contribuito e contribuiscono oggi alla riu-scita delle due giornate di studio: al grafico, ai tecnici, alle studentesse del Gentileschi, al servizio d’ordine, e a tutti quelli che sto forse dimenticando.

Questo convegno riafferma la convinzione dell’associazione sulla necessità e sulla validità di un raccordo tra Università e Scuola che è sempre stato un punto di forza dell’ADI-SD, ed è il presupposto che ci fa impegnare per creare rapporti di collabo-razione in tutta Italia. È proprio in questi incontri che si concretizza il disegno di coniugare la didattica quotidiana con i fondamenti scientifici, creando un circolo di esperienze culturali con-divise e spendibili nel lavoro quotidiano. Va aggiunto che l’aggiornamento sui temi letterari ci sembra sempre più essenziale in un momento di cambiamenti nella cultura scolastica di cui siamo piuttosto sconcer-tati se non preoccupati.

Quest’anno, dopo lo studio degli scrittori milanesi di nascita o di adozione, dopo aver affrontato l’icona Manzoni, abbiamo pensato di affrontare il tema della guerra, puntando l’attenzione sempre su Milano, per riflettere insieme sulle “grandi cose del passato, e farle entrare nella nostra vita”.

Presentazione del convegno:Apertura lavori

BARBARA PERONIDirettivo nazionale ADI-SD

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Anche ripercorrendo i drammi della prima guerra mondiale e della seconda si di-mostrerà come la letteratura sia un campo di saperi completo, tanto che molti autori ci si presenteranno come pluriprospettici.Si è cercato di creare un percorso tematico, che, partendo dal recupero della tradizio-ne, problematizzi le tante pagine sulle due guerre mondiali.

La speranza di tutti noi è che attraverso la riflessione e lo studio il celebre verso “dulce et decorum est pro patria mori” appaia in tutta la sua menzogna, perchè “solo i morti hanno visto la fine della guerra”.

ELIO FRANZINIPreside della facoltà di lettere dell’Università Statale di Milano

La guerra, lo si sa, ed è banale dirlo, è uno degli orrori quotidiani con cui l’umanità non solo convive, ma che sempre di nuovo genera, caricando in questo modo la propria esistenza di un assurdo, ripetitivo e immane peso di dolore. La “catarsi” dall’incon-cepibile, la possibilità cioè di “purificarsi” dalla negatività da cui questa tragedia è intrisa, passa forse, come ricorda Aristotele, proprio dalla letteratura, che è un modo per afferrare il senso intimo e profondo della storia e della sua tragicità. E’ per questo motivo che Convegni come quello che oggi qui si apre sono autenti-camente importanti: un’importanza, prima ancora che culturale, etica e politica, nel senso che si aiuta, attraverso il sapere e le sue consapevolezze, a comprendere il senso della “polis”, e del genere umano, al di là delle follie che esso stesso genera. A questo “serve” l’opera d’arte. E, appunto, perché vi sia arte - e l’emozione inter-soggettiva non sia semplicemente connessa a un grande evento di straordinario impat-to emotivo – è necessario che tale emozione non sia priva di “riferimento” oggettuale, si connetta cioè a opere “vere”, a fatti narrati, alla trasfigurazione letteraria dell’even-to, che mette insieme l’eternità e l’istante. E’ su questo piano, in cui lo sguardo este-tico-sentimentale e intersoggettivo incontra l’opera con le sue qualità, che si innesta la dimensione, essenziale per la letteratura e la critica, del giudizio, risultato di una qualificazione oggettuale dell’esperienza, divenuta comunicazione, insegnamento, monito e discorso condiviso. Il giudizio connesso all’esperienza dell’opera è un piano “valutativo” che pone le basi per un discorso assiologico che non si riferisce soltanto all’intrinseco “valore” dell’opera. E’ invece un valore più ampio, che conduce all’interno di un’intenzionalità “motivazionale”: il valore dell’opera non è quindi un assoluto astratto, bensì un per-corso che determina le proprie specificità attraverso atti storicamente qualificati, che rendono il valore una dimensione della storia, costitutivo della storicità stessa. L’arte, infatti, non è la creazione di una fantasia soggettiva, ma, indipendentemente dai processi costruttivi che hanno prodotto quegli oggetti che ne costituiscono l’in-sieme, rivela, loro tramite, sul piano descrittivo, una struttura di senso che la rende – nel suo essere coagulo di affettività, oggetto di giudizio e orizzonte di valore – una

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specifica “regione”, che si caratterizza, come aveva teorizzato Goethe, e prima di lui Leonardo, in quanto organo interpretativo capace di far comprendere gli aspetti for-mali, qualitativi, intersoggettivi, mitici, simbolici, sincronici della nostra realtà, nel momento in cui essa concretizza in opere specifiche la nostra esperienza qualitativa e motivazionale del mondo circostante. E tale comprensione è tanto più importante quanto più questa realtà presenta tutte le contraddizioni e le grandezze dell’umana vicenda. E’ per tali motivi che, mio tramite, la Facoltà di Lettere e Filosofia è orgogliosa e felice di portare il proprio saluto a questo Convegno. Convegno che si innesta su un’at-tività, quella dell’ADI, che merita non un plauso non formale, bensì un grazie sincero capace di riconoscere tutta la passione che gli organizzatori e gli illustri relatori hanno impegnato per comprendere un tema di straordinaria attualità e complessità. Iniziative come questa hanno l’ulteriore merito di porsi come punto di raccordo tra la comunita’ scientifica e il mondo della scuola, come momento di riflessione su temi fondanti nella formazione degli insegnanti e nella loro crescita culturale.

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ROBERTO BIGAZZIUniversità di Siena

La guerra di Rubè 1

Rubè, anzi, Filippo Rubè, chi era costui? Come forse sapete, è il personaggio che dà il nome a un romanzo del 1921 di uno scrittore siciliano a sua volta non proprio famo-so, Giuseppe Antonio Borgese. Ma non è detto che la notorietà misuri l’importanza di uno scrittore o di un testo, specie in una critica come quella della nostra letteratura, che allinea di decennio in decennio e di manuale in manuale sempre gli stessi autori e le stesse opere. Partiamo allora tranquillamente dall’ipotesi che Rubè appartenga a quella piccola schiera di grandi romanzi che, nel primo Novecento, si fanno strada tra le varie avanguardie più o meno letterariamente eversive per offrire una acuta diagno-si narrativa della realtà contemporanea. Filippo Rubè, dunque, è un giovane avvocato siciliano, di un piccolo paese, arrivato a Roma per fare carriera forse anche politica. Mortogli il padre che lo manteneva nella capitale, gli sono restate una madre e due sorelle, che si levano il pane di bocca per permettergli di restare a Roma, in attesa che sia baciato dalla fortuna. Invece di inseguire la fortuna, Rubè diventa un acceso interventista nel periodo che precede lo scoppio della prima guerra mondiale; coerentemente si arruola, ha un momento di crisi quando pensa di essere un vigliacco, ricattandola moralmente seduce una giova-ne, Eugenia, con cui si fidanza, poi durante la guerra si comporta bene, viene ferito e quindi decorato. Di guerra guerreggiata non se ne vede molta, perché è tutta filtrata dai problemi interiori del protagonista. Una volta ristabilito dalla ferita, va in mis-sione a Parigi, dove conosce una splendida donna, Celestina, moglie di un generale francese, e dove si guadagna la stima del suo capomissione, un ufficiale che nella vita civile è un industriale milanese, De Sonnaz, il quale, finita la guerra, lo fa assumere da suo fratello a Milano; qui Rubé arriva proprio a metà libro, a guerra appena finita, facendosi presto raggiungere da Eugenia, che ha appena deciso di sposare. Siamo così a metà libro e prima di entrare a Milano, ragioniamo su questi dati, e ci accorgeremo che Rubè, come altri personaggi di romanzi famosi tra Otto e Novecento,

1. Lascio a questo intervento il suo carattere orale, ma tra i pochi contributi critici degli ultimi anni voglio almeno citare per il suo impianto innovativo il saggio di O. Innocenti, Rubè, in Quindici episodi del romanzo italiano (1881-1923), a cura di F. Bertoni e D. Giglioli, Bologna, Pendragon, 1999, pp. 361-82. Tutte le citazioni di Rubè sono dall’ed. con introduzione di Lu-ciano De Maria, Milano, Oscar Mondadori, 1974, con la sola indicazione della pagina.

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ha la caratteristica di rivivere nella propria storia quelle di tanti suoi illustri predeces-sori; l’autore gliele fa rivivere per dimostrare il fallimento di consolidate ma vecchie formule esistenziali (nonché narrative) e eventualmente sperimentarne qualcuna nuo-va. Questa caratteristica ci aiuterà a interpretare le pagine milanesi del romanzo. Per cominciare dalla formula più nota, il giovane che come Rubè si muove dalla provincia alla città per tentare la sorte è il personaggio principale di molti romanzi europei e italiani ottocenteschi: basta ricordare ‘Ntoni Malavoglia, ma in questo caso punterei soprattutto al Pirandello de I vecchi e i giovani (1913), dove la partenza per Roma implica oltretutto un progetto politico, come in Borgese, e dove viene in primo piano quel senso di soffocamento dei giovani da parte dei vecchi, quella mancanza di prospettive di rinnovamento e quindi il bisogno di rivoltarsi che tormentano anche Rubè:

La gioventù? Che poteva la gioventù, se l’avara paurosa prepotente gelo-sia dei vecchi la schiacciava così, col peso della più vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l’espiazione rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione d’ogni orgoglio e lo spettacolo di tante brutture? Ecco come l’opera dei vecchi, qua, ora, nel bel mezzo d’Italia, a Roma, sprofondava in una cloaca; mentre sù, nel settentrio-ne, s’irretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giù, nella bassa Italia, nelle isole, vaneggiava apposta sospesa, perché vi durassero l’inerzia, la miseria e l’ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a formar le maggioranze anonime e supine! Soltanto, in Sicilia forse, or ora, la gioventù sacrificata potrebbe dare un crollo a questa oltracotante oppres-sione dei vecchi e prendersi finalmente uno sfogo, e affermarsi vittoriosa! (L. Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia, vol. II, Milano, Mondadori, 1975, p.421)

Borgese è più giovane di Pirandello, e ormai non è più interessato al dibattito tra cen-tro e periferia, tra governo centrale e governo isolano. Formatosi in mezzo ai roventi dibattiti delle riviste di primo Novecento, nello scontro tra il riformismo giolittiano e il nazionalismo eversivo, lo scrittore ha problemi più complicati a partire proprio da un problema di identità. Di solito, infatti, questi figli migranti vanno a finire male, perché la società non si apre al loro progetto di conquista e di rinnovamento; e questo è ben chiaro nella memoria genetica di Filippo Rubè, che non riesce a sperare né in un progetto di fortuna economica attraverso l’avvocatura né in un progetto politico:

[...] a tarda sera, mettendo la chiave nella serratura della camera mobiliata, lo poteva cogliere un subitaneo ribrezzo come se stesse per vedere l’anima sua simile a un anfiteatro dopo la rappresentazione del circo equestre: un infinito sbadiglio con cicche di sigarette e bucce di arance. (p.6)

La sua condizione di impotenza, di inettitudine, dichiarata fin dall’inizio del libro, è a sua volta tutt’altro che nuova, perché già prevista nei programmi verghiani e nei ro-manzi tra Otto e Novecento, tra Svevo e Tozzi: i loro personaggi sono, appunto, inetti - una conseguenza dell’essere artisti o intellettuali o aspiranti tali in una società che li guarda invece con sospetto perché non sa cosa farsene. Basta ricordare come nella

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prefazione ai Malavoglia Verga aveva tracciato l’immagine delle varie classi sociali, aggiungendo a popolo, borghesia e aristocrazia le due classi speciali dei politici e degli artisti, definendo questi ultimi uomini di “lusso”, cioè superflui, inutili nella società moderna:

Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo bor-ghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vi-vaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue e ne è consunto

Se sono superflui, sono però – come si vede - anche coloro che comprendono tutti gli aspetti della società e ne soffrono perché non possono agire né per avvantaggiarsene né per cambiarli: e per questa inquietudine sono comunque pericolosi, e quindi guar-dati con sospetto in tutti i romanzi tra Otto e Novecento. Ma rispetto ai personaggi di Verga, Svevo e Tozzi, quello di Borgese ha deciso di giocare una carta che gli altri non avevano; ha deciso di reagire all’inettitudine bruciandola nella esaltazione esasperata della guerra: “La guerra risanatrice del mondo sarebbe stata la sua medicina” (p.24). Una dichiarazione, questa, che riecheggia le celebri formule del futurismo e in par-ticolare di Marinetti sulla guerra come “igiene del mondo” (su cui cadrà anche l’ironia del finale della Coscienza di Zeno). Per completare il quadro, il padre di Rubè ha qual-che consonanza con quello di Andrea Sperelli, il protagonista del Piacere di D’Annun-zio, che aveva lasciato al figlio il motto habere non haberi, cioè bisogna dominare, non essere dominati: un programma non lontano da quel ‘o tutto o niente’ che è il motto del padre di Rubè, sempre presente nella memoria del figlio. Dunque Rubè fa i conti con la cultura più recente, quella che in nome del futuro e della violenza (e del superuomo), del disprezzo e della paura per la società di massa, aveva dato alla letteratura compiti e forme diverse da quelle tardo ottocentesche, im-pegnate nel conoscere proprio quella società. Così, raccontando il suo personaggio, Borgese analizza con gli strumenti del realismo quelle correnti di pensiero che ave-vano ferocemente avversato proprio ogni idea di conoscenza realistica della società, favorendo invece la restaurazione del principio di autorità contro l’ascesa dei movi-menti popolari. E lo scrittore Borgese comprendeva bene quel vasto movimento di giovani eversori piccolo-borghesi, visto che anche lui era stato uno di loro, quando aveva diretto giova-nissimo, con spiriti dannunziani, la rivista “Hermes”. Ma alla fine della guerra, quando Borgese scrive il suo libro, molti di quei giovani eversori piccolo-borghesi stavano appunto reclamando un ritorno all’ordine, contro il presunto disordine della sinistra, e nel reclamarlo lo affidavano al nascente squa-drismo fascista (quando non anche alla Chiesa) nelle cui file erano confluiti molti antichi interventisti. Lo scrittore e il suo personaggio rifiuteranno questa strada. In altre parole, Borgese vede nella cultura dell’interventismo un campo da indagare per capire il torbido dopoguerra in cui scrive il suo romanzo, tra impulsi rivoluzionari

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della sinistra e squadrismo fascista ben visto o tollerato sia dal potere politico che da quello economico. Per questo il nostro romanzo viaggia tra Roma e Milano, oltre che in Sicilia: un itinerario inedito, perché di solito i protagonisti di tanti romanzi del tempo o se ne stanno imprigionati nella loro provincia (ad esempio, quelli di Tozzi a Siena) o nella loro città (come quelli di Svevo a Trieste), o vanno dalla provincia alla città, in particolare dal Sud a Roma (come è il caso già indicato di vari personaggi pirandelliani), ma un simile movimento tra provincia, capitale economica e capitale politica è una prerogativa credo esclusiva di Borgese, a cui una simile geografia (che si allarga per di più ad altri luoghi) serve anche per spiegare il passaggio dalla vecchia alla nuova letteratura. Ecco allora il senso del percorso di Rubé. Approdato a Roma con idee vecchie - la professione di avvocato, la politica, che non possono realizzarsi neanche narrativa-mente - la guerra gli offre qualcosa di nuovo, perché la sua ferita e la relativa meda-glia gli aprono le porte di Parigi e poi di Milano: e a Milano arriva quasi a trentacinque anni, nel mezzo del cammin della sua vita, quando deve decidere se restare nella selva oscura o intraprendere il cammino della salvezza, sempre che esista e che ci sia un Virgilio disposto a guidarlo. Ma appunto a Milano scoprirà che le strade praticabili sono sì molte, ma illusorie. Vediamo dunque finalmente questo arrivo, nell’immediato dopoguerra, in quella che Rubè descrive alla madre come “la vera capitale d’Italia” “dove contava di trovare una clientela più ricca e di aprirsi una strada negli affari” (p.188). Il lettore che a metà romanzo inizia questo capitolo XIII sa che non può più aspettarsi una Milano popo-lare, colorita e talora sentimentale alla maniera di Verga, Bertolazzi e De Marchi; ca-somai il futurismo e l’accenno agli affari fanno prevedere una Milano proiettata nella modernità, frenetica tra un affare e l’altro. Ma la scelta di Borgese è diversa:

Era pure passata di poco la mezzanotte quando, verso mezzo dicembre (1918), Filippo Rubè, ormai definitivamente in borghese, arrivò a Milano. Ma la città che non conosceva e l’Italia che rivedeva dopo più di un anno erano così diverse da Parigi ch’egli ebbe, uscendo sul piazzale della stazione, l’im-pulso di voltarsi, come se potesse rifare la strada a ritroso. Le lampade ad arco s’anemizzavano nella nebbia mucillaginosa, e le sagome dei viaggiatori, discesi gli scalini, si scioglievano in un lago di tenebra translucida. (p.183)

Questa è una Milano fredda, nebbiosa, buia, invasa dalla solitudine, senza allet-tamenti da grande metropoli, e sembra sconosciuta a Rubè perché è sconosciuta alla letteratura precedente: non ha nulla infatti della Milano scapigliata o verista ma non sembra neanche una metropoli pulsante di vita futurista notte e giorno. Con un fac-chino che gli porta la valigia, Rubè inizia a piedi la lunga, penosa ricerca di un alber-go, e prima di sistemarsi in una “stamberga che tanfava” fa in tempo a incontrare un commilitone, Garlandi, un ufficiale a cui Rubè ha visto uccidere a sangue freddo un proprio soldato; a completare il ritratto, Garlandi si presenta come reduce da una pri-gionia che forse è stata soltanto un imboscamento. Ma Garlandi è uno che ha fiutato il vento che tira:

Vedi, questo è un tempo che chi non arricchisce col commercio è un fesso. Che gli rispondo al mio figliolo, se un giorno ne ho uno e mi dice: idiota di

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un genitore, sei stato alla guerra, ti sei scampata la pelle e non sei diventato nemmeno milionario? Sono sulla buona strada, sai? (p.187)

Ritroveremo Garlandi, ma per ora seguiamo Rubè che finalmente, appena si è ri-preso, si reca nella fabbrica metallurgica Adsum di De Sonnaz, dalle parti di Seveso, dove il suo vecchio colonnello di Parigi lo presenta frettolosamente al fratello Adolfo, il proprietario vero, “uno fra i più famosi capitani d’industria della nuova generazio-ne, non ancora all’apogeo, ma in via, dicevano i frettolosi profeti, di conquistare una potenza da ricordare esemplari americani” (p.189). Ecco dunque finalmente un ele-mento di modernità, da paragonare addirittura al mitico modello americano. Adolfo espone a Rubè la sua visione:

Io credo che molti miei colleghi s’illudono immaginandosi che la guerra sia stata la malattia e la pace sia la salute. La guerra era una specie di salute un po’ esaltata, e la pace, il dopoguerra, sarà una depressione tremenda. Dapper-tutto, sa?, ma in Italia un po’ peggio che altrove, perché il paese è debole, e ci sono sciagurati anche in casa nostra che ci vogliono defraudare dei frutti della vittoria. Se non si pensa presto a rinsaldare i vincoli e a stringere i freni, l’or-dine sociale e la prosperità delle industrie passeranno brutti quarti d’ora. [...] Non parlo per me personalmente; sia ben persuaso che sono al sicuro, e posso spatriare quando voglio e continuare a far milioni dove voglio. E’ il paese che è a mal partito. Mi accorgo già che voglia di lavorare non ce n’è più e che le idee bolsceviche dilagano. (p.190)

Dunque, Adolfo De Sonnaz è lucido nella diagnosi riguardante la recessione eco-nomica post-bellica, ma molto reazionario nella soluzione politica fatta intravedere: i “frutti della vittoria” spettano solo alla classe dirigente e consistono chiaramente nell’arricchimento, minacciato dagli “sciagurati”, dai bolscevichi che, secondo una accusa ricorrente, non hanno voglia di lavorare e producono agitazione sociale. Ov-viamente per un tipo simile, tanto futuribile da essere già pronto per la delocalizzazio-ne, i dipendenti devono avere come unico obbiettivo la fabbrica e contentarsi di poco lavorando molto: così De Sonnaz consiglia a Rubè di non prender moglie e lo assume in prova per tre mesi. In altre parole, al dipendente si richiede dedizione assoluta, ma il padrone può chiudere e riaprire quando e dove gli conviene. Rubè, che ha tanti difetti ma non manca mai di lucidità, fa presto a tirare le somme:

Che voleva quel pescecane? Metterlo come spia fra gl’impiegati e le mae-stranze? [...] Allora si ripeté le cose oscure e banali che il commendatore gli aveva compitate sui freni da stringere e sull’ordine sociale da preservare. Che strano mestiere era il suo, dopo vent’anni di studi, dieci di professione e di stenti, e tanto arrabattarsi! Guardiano dell’ordine sociale nel dopoguerra industriale. (p.191)

Ma Rubè sa che l’alternativa è tornare agli stenti di Roma e decide di resistere, mettendocela tutta, prendendo un secondo lavoro gratis presso l’avvocato Giacone, e facendosi apprezzare da tutti per il suo zelo. Può bastare davvero lo zelo, può bastare il fatto che De Sonnaz valuti subito positivamente la capacità che ha Rubè di control-

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RAFFAELE DE BERTIUniversità Statale di Milano

Rizzoli e il cinema tra le due guerre

1. I rotocalchi illustrati Gli anni Trenta sono una stagione particolarmente felice per la diffusione di ogni tipo di rivista cinematografica: da quelle più popolari come “Cinema Illustrazione” e “Stelle” alle pubblicazioni di maggior impegno culturale come “Cinema” e “Bianco e Nero”. Un grande successo di vendita lo riscuotono le riviste stampate a rotocalco. Una tecnica nata negli Stati Uniti alla fine dell’800, che consente grandi tirature a co-sti contenuti e che si diffonde anche in Italia, soprattutto grazie ad Angelo Rizzoli, a partire dagli anni Venti. Si tratta di pubblicazioni corredate di molte immagini e che si rivolgono, prevalentemente, a un pubblico popolare. Il formato più consueto è compre-so fra 12 e 16 pagine e presenta in copertina, generalmente, una fotografia di un’attrice o di un attore . La periodicità è quasi sempre settimanale. I contenuti sono costituiti da cineromanzi e novelle tratti da film, biografie e articoli sulla vita dei divi, spesso di fantasia o provenienti dalle agenzie di stampa delle majors americane, sull’ambiente di Hollywood e di Cinecittà con varie notizie curiose e di cronaca rosa. Inoltre, ci sono anticipazioni sui film in lavorazione, interviste agli attori e ad altri personaggi che lavorano nel cinema e l’immancabile rubrica di corrispondenza con i lettori, dove si dispensano consigli di ogni tipo. Frequenti sono anche i referendum e i concorsi a premi che mettono in palio prodotti di bellezza o la possibilità di entrare nel mondo del cinema come attori. La critica ai film si riduce, nella maggior parte dei casi, a un breve riassunto della trama, a pochissime righe di commento con qualche notazione morale e di costume. Nei rotocalchi molto spesso il film è solo il pretesto per scrivere d’altro o parlare dei suoi interpreti. In conclusione cinema e stampa a rotocalco sono parti di un unico sistema integrato in cui ciascuno favorisce il consumo dell’altro e in cui prevale un atteggiamento pedagogico che può influire, in una certa misura, sul modo di pensare e sugli stili di vita del pubblico.

1. Per maggiori informazioni sulle riviste del periodo si rimanda a Davide Turconi, Camillo Bassotto, Il cinema nelle riviste italiane dalle origini ad oggi, Edizioni mostracinema, Vene-zia, 1972; Lucilla Albano, Volontà-impossibilità del cinema fascista. Riviste e periodici degli anni Trenta in Italia, in AA.VV., Nuovi materiali sul cinema italiano 1929-1943, cit, pp. 101- 136 e a Riccardo Redi (a cura di), Cinema scritto. Il catalogo delle riviste italiane di cinema

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Tra le tante testate cinematografiche del periodo1 che corrispondono, in linea di massima, alle caratteristiche delineate si possono ricordare per la loro grande diffu-sione “Cine-Romanzo”, nata nel 1929 e che nel 1935 prende il nome di “Cine illustra-to” passando dalla casa Editrice Popolare Milanese a Rizzoli, “Cinema Illustrazione”, edito sempre da Rizzoli, che inizia le pubblicazioni nel 1930 e si fonde, a sua volta, con “Cine illustrato” nell’agosto 1939 2, “Stelle” (1933-1938) e “Film” (1938-1945) 3. In sintesi la formula vincente di queste pubblicazioni si basa da una parte sulla cen-tralità delle figure dei divi, ripresi e raccontati sia sul set che nella loro vita quotidiana, e dall’altra parte sulla trasposizione dei film in cineromanzi. Nel periodo tra il 1934 e

1907-1944, Associazione italiana per le ricerche di storia del cinema, Roma, 1992. Si veda-no, inoltre, Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Il cinema di regime 1929-1945, vol.2, Editori Riuniti, Roma, 1993 e Lorenzo Pellizzari, La critica cinematografica in Italia 1929-1959, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. Teorie, strumenti, memorie, vol.V, Einaudi, Torino, 2001, pp.445-484. 2. “Cine illustrato” proseguirà fino al 1960.3. Con la costituzione della Repubblica di Salò “Film” si trasferisce da Roma a Venezia e pro-segue la pubblicazione fino all’aprile del 1945, per poi riprendere l’uscita nel marzo del 1946. Si veda Adriano Aprà, Nota su “Film” in AA.VV., Nuovi materiali sul cinema italiano 1929-1943, Quaderno della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema n.71, Pesaro, 1976, pp.148-151 e Lorenzo Pellizzari, La critica cinematografica in Italia 1929-1959, cit, p. 473-474. 4. Un cambiamento legato, evidentemente, alla nascita di Cinecittà (1937) e soprattutto all’entrata in vigore, nel 1938, delle leggi sul monopolio cinematografico e al contrasto con le grandi case di produzione Hollywoodiane.

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il 1939 è evidente anche il progressivo spostamento del baricentro d’interesse da Hol-lywood a Cinecittà e il tentativo, dopo il 1938 4, d’incrinare il mito dei divi americani

5. Marco Ramperti, Lady Lou, “Cinema Illustrazione”, 3 gennaio 1934, pp.8-96. Assia Noris, Assia Noris: come immagino Hollywood, “Cinema Illustrazione”, 31 luglio 1935, p.7

per sostituirli con gli attori italiani.

2. Il cinema tra sogno e quotidianità Nei rotocalchi grazie ai divi, protagonisti nei film come nelle riviste, si crea una sorta di unico grande mondo cinematografico, dove le ombre dello schermo si cala-no nella vita di tutti i giorni, annullando le differenze fra personaggio e attore. Per i lettori la vita privata di Marlene Dietrich, Mary Pickford Ramon Novarro, Mae West e di tanti altri attori diventa familiare e fa tutt’uno con i ruoli che interpretano nei film. Le stesse biografie dei divi non sono che la riscrittura, in chiave realistico-quotidiana, della fiaba di Cenerentola dove il successo può arrivare, inaspettatamente, per chiunque. E’ il caso di Mae West che Marco Ramperti, sulle pagine di “Cinema Illustrazione”, scrive di aver visto in un ristorante di Hollywood pochi giorni prima di

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diventare famosa:

Ad uno dei tavoli, servita con più abbondanza ma con meno ossequio, stava una florida dama sui venticinque, che per la sua mole matronale non era certo da considerarsi un’attrice: bensì una benestante forestiera, di passaggio per Hollywood […] La riconobbi , venuto in Italia, da una vignetta di Cinema illu-strazione: l’ignota trangugiatrice era l’ormai celebre Mae West, la quale aveva avuto tempo, in venti giorni soltanto, di uscire dall’ombra d’un ristorante per entrare nella luce della gloria. 5

A tutti, magri e grassi, belli e brutti è concesso, almeno sulle pagine dei rotocalchi, il sogno di poter diventare attori famosi a Hollywood:

Ognuno immagina a suo modo. Certo che laggiù ce n’è per tutti i gusti, ed è il paese della felicità. […] E non c’ è nessuno che in cuor suo non senta che diventerà attore e che porterà ad Hollywood il prezioso contributo della sua personalità, presto o tardi. 6

Se da una parte le biografie romanzate fanno sognare poco probabili carriere arti-stiche, dall’altra parte i tanti servizi fotografici sulla vita privata degli attori hanno lo scopo di rendere tutto, apparentemente, più realistico e di dare la possibilità ai lettori di conoscere meglio gli ambienti, i vestiti, le pettinature e gli atteggiamenti dei divi preferiti. Lo scopo è quello di far apparire il mondo del cinema non solo come un luogo di sogni irraggiungibili, ma come una realtà più vicina alla quotidianità dei lettori, almeno in alcuni suoi aspetti facilmente imitabili come un taglio particolare di capelli o il modo di fumare una sigaretta. Le riviste puntano sulla descrizione della vita quotidiana delle star hollywoodiane in articoli come: Con Marléne dalla modista e dalla sarta 7, I divi a tavola 8, Cosa fanno quando piove 9, Volete un vestito di Mirna Loy? 10. In questo modo si diffondono, almeno a livello dell’immaginario se non an-cora come pratica consueta, una serie di mode relative all’alimentazione, al vestirsi, all’arredamento, al tempo libero, che trovano nei film e nella stampa cinematografica più popolare il loro modello.

3. I rotocalchi popolari di Rizzoli L’ex martinitt Rizzoli, con grande intuito pragmatico, ha perfettamente capito i meccanismi di funzionamento della nascente industria cultura italiana dove la lettura non è più solo riservata a un numero ristretto di persone, ma si apre sempre più a nuove

7. Grazia Pisa, Con Marléne dalla modista e dalla sarta, “Cine Illustrato”, n.583, ottobre 1936, p.38. Ubaldo Magnaghi, I divi a tavola, “Cinema Illustrazione”, 31 luglio 1935, p. 39. (articolo non firmato), Cosa fanno quando piove, “Stelle”, 31 agosto 1935, p.910. Owen, Volete un vestito di Myrna Loy?, “Cinema Illustrazione”, 17 luglio 1935, p.1311. Cesare Zavattini, Un’autobiografia, Einaudi, Torino, 2002, p.6812. Per maggiori informazioni sull’ attività di Rizzoli e dei suoi collaboratori rimando ad Al-berto Mazzuca, La erre verde: ascesa e declino dell’impero Rizzoli, Longanesi, Milano, 1991.

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fasce sociali. Da conquistare c’è tutto un pubblico potenziale a cui si possono offrire una serie di prodotti mediali, dalla stampa, alla radio, al cinematografo per occupare il tempo libero. Nel 1933, quando Rizzoli decide di fondare una casa di produzione cinematografica, è già impegnato in una serie d’iniziative editoriali di successo. Il suo capolavoro è stato nel 1927 l’acquisizione di un pacchetto di testate in crisi della Mondadori. Tra queste ci sono i mensili “La Donna”, “Comoedia”, il settimanale “Il Secolo Illustrato” e il quindicinale “Novella” che pubblica racconti di autori impor-tanti come Pirandello e D’Annunzio, ma con scarso successo di vendita. “Novella” viene trasformato in un rotocalco popolare con periodicità settimanale, ottenendo uno strepitoso successo che la porta nel giro di pochi anni dalle settemila copie di Mon-dadori a ben centocinquantamila. La nuova formula mescola, sapientemente, servizi e foto sui divi del cinema con la pubblicazione a puntate di romanzi sentimentali di Milly Dandolo, Salvator Gotta, Mura, Luciana Peverelli. Mura tiene una rubrica fissa di corrispondenza con i lettori. Alla rivista collaborano giovani intellettuali come Marotta e Zavattini e quest’ultimo ricorda come «bastava pubblicare la faccia di una certa diva che “Novella” saliva. Era una delle chiavi del successo dei rotocalchi di Rizzoli» 11. Il mondo del cinema e la vita dei divi affascinano il pubblico femminile e diventano ingrediente fondamentale anche di altre pubblicazioni di Rizzoli. Nel 1930

13. Il Super Revisore, in “Cinema illustrazione”, 5 marzo 1933, p.2

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nasce “Cinema Illustrazione Presenta”, dove Zavattini, firmando con vari pseudonimi, scrive le sue immaginarie corrispondenze da Hollywood. Nel 1933 esce il primo nu-mero di “Lei”, un settimanale interamente dedicato alle donne. Il pubblico femminile è il target privilegiato dei rotocalchi popolari di Rizzoli che come afferma lo stesso Zavattini «sono riviste ancillari scritte per le serve ma lette anche dalle padrone» 12. In realtà Zavattini non si muove mai dagli uffici della redazione milanese di “Cinema Illustrazione”. Nei suoi articoli i dati reali sui divi, sui film e sul mondo di Hollywood in generale sono rielaborati con piena libertà creativa, fino al punto di scrivere inter-viste mai fatte, ma sempre con personaggi esistenti e in modo assolutamente verosi-mile. Zavattini probabilmente utilizza come informazione di base quanto arriva dagli uffici stampa delle case di produzione americane. In ogni caso i suoi articoli sono una testimonianza preziosa, pur con la loro sottile vena ironica e grottesca che li attraver-sa, sulla ricontestualizzazione del mondo di Hollywod nella cultura italiana. Come si è detto i rotocalchi non sono semplicemente la vetrina pubblicitaria delle case di produzione americana e degli uffici stampa che curano l’immagine dei divi, ma, appunto, finiscono per svolgere una funzione sociale che spinge verso una ge-nerale modernizzazione dei costumi sociali, pur in un continuo confronto e lavoro di mediazione con i modelli più tradizionali della società italiana. In questo senso “Ci-nema Illustrazione” è uno degli esempi più interessanti da studiare sia per il grande successo di vendita che per aver avuto prima come caporedattori e poi come direttori Giuseppe Marotta e Cesare Zavattini. Tra i tanti indicatori del costume sociale dell’epoca presenti nella rivista uno dei più significativi è la corrispondenza con i lettori nella rubrica “Lo dica a me e mi dica tutto”, tenuta da Marotta, che si firma con lo pseudonimo Il Super Revisore. Non ven-gono riportate le lettere inviate, ma attraverso le risposte si capiscono perfettamente le domande dei lettori. L’ironia è il filo conduttore scelto da Marotta, ma i consigli dati, pur in toni scherzosi, si preoccupano di conservare i canoni di comportamento e i valo-ri morali più tradizionali propagandati dal regime fascista, mitigando od opponendosi decisamente in alcuni casi a quelli eccessivamente spregiudicati di Hollywood. La maggior parte delle lettere riguarda questioni d’amore o di etichetta. Spesso le risposte fanno ricorso a proverbi e “saggezze popolari” in una forma comunicativa che punta su facili stereotipi o classiche forme retoriche. Ecco di seguito alcuni esempi:

Fra la civetteria e la scontrosità, credimi, è saggio attenersi al giusto mezzo 13

Non mancano anche consigli più specifici alle ragazze su come comportarsi con l’altro sesso per conservare intatte le proprie virtù e raggiungere lo scopo del matri-monio:

Un cuore che batte per due uomini contemporaneamente non è un cuore normale… Dei due dovresti preferire quello che ti garantisce il matrimonio a

14. Il Super Revisore, in “Cinma illustrazione”, 8 febbraio 1933, p.215. Il Super Revisore, in “Cinema illustrazione”, 29 marzo 1933, p.216. Il Super Revisore, in “ Cinema illustrazione”, 8 febbraio 1933, p.2

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più breve scadenza. Il matrimonio mi è noto anche come il miglior regolatore cardiaco per le ragazze nelle tue condizioni 14.

Ami un uomo sposato e diabolicamente bello, ma sei onestissima? Lo cre-do, ma se tu potessi spingere la tua onestà fino al punto di amare un uomo anche modestamente bello purché scapolo, ho idea che sarebbe meglio per te, e per la società: Non dobbiamo soltanto dominare i nostri cattivi istinti, ma cercare di liberarcene 15.

Sempre con l’uso dell’ironia si danno i consigli più vari:

Ti dissuado dal dimagrire perché le donne magre sono ormai al bando 16.

Non trovo niente di strano nel fatto che tutte le ragazze desiderino diventare dive; stranissimo sarebbe che qualcuno le prendesse sul serio. Quale giovane non sogna di diventare ministro, o generale? Naturalmente l’enorme maggio-ranza farà sempre a tempo ad assumere il titolo di usciere o di soldato, non privo del resto di soddisfazioni 17.

Dal piccolo campionario di citazioni riportata si può osservare come nella rubrica di corrispondenza con i lettori si trattano i temi più vari e ben poco il cinema. Con toni tra il serio e il faceto viene proposta una piccola grammatica esemplare del compor-tamento sociale molto coerente, dove ogni trasgressione è bandita per riaffermare un sistema di regole e tradizioni sociali italiane già consolidate. Norme di vita quotidiana che dai racconti delle esperienze dirette dei lettori appaiono meno granitiche di quel-lo che si vuol far credere. Nelle cronache e nelle biografie sulla vita delle star, oltre alle notizie su diete, vestiti e sport praticati, la maggior preoccupazione dei recensori è sempre di criticare atteggiamenti troppo spregiudicati e di sottolineare, invece, i richiami ai valori della famiglia, dell’amore e del matrimonio come vincolo indisso-lubile. Tornando più in generale alla politica industriale di Rizzoli verso il cinema vale la pena soffermarsi sul suo tentativo molto lungimirante, anche se non otterrà il successo sperato, di entrare direttamente nella produzione cinematografica, pensando di sfrut-tare il potenziale pubblicitario costituito dalle sue riviste per “creare” una diva italiana che possa contrastare lo strapotere di quelle americane.

4. “La signora di tutti” e l’avvento del divismo italiano 18

I milanesi che nel mese di dicembre del 1934 passeggiano sotto i portici settentrio-nali del centro della città possono vedere esposto, in una vetrina della famosa pasticce-

17. Il Super Revisore, in “Cinema illustrazion”, 5 marzo 1933, p.218. Sul film La signora di tutti ci sono due recenti studi: Antonio Costa I leoni di Schnider, Bulzoni, Roma, 2002, pp. 143-157 e Paola Valentini, La radio e il cinema, in Fausto Colom-bo-Ruggero Eugeni, (a cura di), Il prodotto culturale, Carocci, Roma, 2001, pp. 215-235. In particolare Costa analizza il rapporto fra il romanzo e il film, Paola Valentini le relazioni fra film, sonoro e radiofonia.

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ria Motta, un grande ritratto di Isa Miranda, interprete del film La signora di tutti. Al centro della stessa vetrina è esibita anche la Coppa del Ministero delle Corporazioni, vinta dalla pellicola diretta da Max Ophuls, nel mese di agosto, alla Mostra del cinema di Venezia, quale film italiano tecnicamente migliore. Negli stessi giorni le immagini dell’attrice milanese tappezzano anche le edicole della città e sono esibite in altre ve-trine di negozi lussuosi come la profumeria Giviemme. La signora di tutti è in programmazione, in contemporanea, nelle più importanti sale cinematografiche nazionali come il “Corso” di Roma e l’“Odeon” di Milano. La prima proiezione milanese è del 29 novembre 1934 e i giornali scrivono di un ecce-zionale spettacolo di gala:

Lo spettacolo è stato accolto con crescente entusiasmo dal pubblico magni-fico che era convenuto al battesimo di questo film italiano, di Novella-Film. In prima fila, tra le autorità cittadine che davano con la loro persona un alto significato alla serata, si notava S.A.R. il Duca di Bergamo. 19

La serata all’Odeon rappresenta il punto finale di una precisa e ben orchestrata stra-tegia di lancio pubblicitario del film iniziata nel mese di gennaio con un concorso per la ricerca dell’ attrice protagonista, passata attraverso una serie di ampi servizi sulla stampa delle riprese del film negli studi della Cines di Roma o nella splendida villa di Canzo della famiglia Rizzoli, per approdare alla proiezione nel mese di agosto durante la Mostra del cinema di Venezia e, infine, lasciare gli spettatori in attesa della pre-sentazione pubblica fino a novembre. Motore di questa operazione che ricalca, in via nazionale, il modello hollywoodiano è Angelo Rizzoli, che utilizza per questo scopo i diversi periodici di sua proprietà. Angelo Rizzoli, visto il successo della ricetta cinema più romanzi d’appendice e la forte disponibilità di denaro liquido, comincia a pensare di produrre direttamente dei film, in un momento che, tra l’altro, appare favorevole perché tutti auspicano la rina-scita del cinema italiano. Nel 1933 viene fondata la casa di produzione “Novella-Film”, che punta a sfruttare il marchio già noto della casa editrice milanese come garanzia per gli spettatori. Probabilmente consigliato da Ettore Margadonna, intellettuale e cri-tico cinematografico che collabora a “Cinema Illustrazione”, Rizzoli decide di ridurre in pellicola La signora di tutti, un romanzo di Salvator Gotta pubblicato dall’ editore milanese nello stesso anno e pubblicizzato come «una drammatica vicenda di passione e d’amore, che si svolge nella tumultuosa cornice della vita moderna» 20. La scelta del primo film è coerente con il progetto di costituire la prima moderna industria culturale italiana che punti all’integrazione di più mass-media al suo interno. Salvator Gotta è uno degli autori di maggior successo del periodo e i suoi racconti e romanzi escono a puntate proprio su “Novella”. Il modello produttivo e pubblicitario a cui ispirarsi, non può essere che quello americano, ben conosciuto attraverso i mate-riali delle agenzie di stampa delle grandi majors hollywoodiane che quotidianamente arrivano negli uffici di piazza Carlo Erba, sede delle redazioni dei vari periodici.Forse per la prima volta nel cinema italiano si punta a una strategia di lancio di un film con una campagna pubblicitaria di lungo respiro nel tempo e una precisa articolazione

19. Le prime a Milano, in “Lei”, 11 dicembre 1934, p.1220. “Lei”, 24 ottobre 1933

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sulla stampa. Una prima considerazione di partenza è che una componente determinante del suc-cesso dei film americani sono i divi, ma nel cinema italiano del periodo scarseggiano e perciò quale migliore occasione per una nuova casa di produzione di scoprirne una nuova.

5. Nascita di una diva Nel primo numero del gennaio 1934 tutti i periodici della Rizzoli pubblicano in bella evidenza il seguente annuncio:

Le donne italiane sono le più belle del mondo. Il nostro cinema deve ri-velarle. Novella-Film la nuova impresa cinematografica italiana si accinge a tradurre in film il romanzo di Salvator Gotta La signora di tutti il più brillante avvenimento letterario del 1933. Le candidate (di età non superiore ai 25 anni che ritengono di possedere le doti fisiche e intellettuali per interpretarne la protagonista, spediscano subito il maggior numero di fotografie non ritoccate, alla Sede di Novella- Film, Piazza Carlo Erba, 6 Milano. Il 1934 rivelerà la nuova Stella del Cinema Ita-liano? Lettrici, a Voi!

Nei numeri successivi il medesimo annuncio su “Lei”, rivista che intende rivolgersi a un pubblico femminile più colto e sofisticato rispetto alle altre testate di Rizzoli, si apre con la frase: «Si cerca la Brigitte Helm italiana…» 21. La Helm è un attrice tedesca, interprete di film d’autore come Metropolis (1927) di Fritz Lang, de L’Argent (1929) di Marcel L’Herbier e Atlantide (1932) di G.W. Pabst. “Cinema Illustrazione” propone invece come modello la più popolare Greta Garbo:

Si cerca la Greta Garbo italiana…In Italia non mancano le donne che per bellezza e talento potrebbero oscurare tutte le dive che lo schermo ci ha fin qui rivelato 22.

Come si vede una strategia pubblicitaria articolata e raffinata perfino nella scelta dei modelli d’attrice proposti nel concorso. In ogni caso il dato che emerge in modo chiaro è l’intenzione di realizzare un film che superi i ristretti confini nazionali per affermarsi nel mercato europeo e fare concorrenza al cinema americano. La scelta come regista di Max Ophuls, che aveva appena diretto Liebelei, tratto dall’omonimo testo teatrale di Arthur Schnitzler, conferma il tentativo di Rizzoli di puntare molto in alto, a un successo internazionale de La signora di tutti con la ricerca, consapevole o meno, di uno stile europeo per un nuovo grande cinema italiano. Al concorso partecipano più di duemila candidate per il provino finale sono selezio-nate diciannove candidate e la scelta di Ophuls cade sicura su Isa Miranda, esclaman-do quando la vede: «Ecco la signora di tutti» 23. L’attrice milanese non è una debuttante

21. “Lei”, 16 gennaio 1934, p.1422. “Cinema Illustrazione Presenta”, 24 gennaio 1934, p.523. Intervista di Isa Mirando in Francesco Savio (a cura di), Cinecittà anni Trenta, Bulzoni, Roma, 1979, p.789.

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BARBARA BRACCOUniversità di Milano - Bicocca

1915-1918.Milano, capitale del fronte interno

La prima immagine proposta in questo saggio ha ai nostri occhi qualcosa di teatra-le; al centro della scena il mitico Masso del Grappa, oggetto fisico e al tempo stesso luogo simbolico della guerra appena vinta, addobbato per l’occasione con bandiere (appena leggibile è la scritta della Società Lombarda Garibaldini – Milano, con il volto dell’eroe dei due mondi), a sinistra un fante quasi sull’attenti con lo sguardo rivolto verso il fotografo, a destra un gruppo di ufficiali intenti a parlare tra loro, dietro una folta schiera di donne in gramaglie, bambini con i vestiti buoni della “festa”, mentre sullo sfondo è ben riconoscibile il Castello Sforzesco di Milano. La fotografia (fig. 1), opera dello studio Strazza, riproduce un momento delle celebrazioni che si tennero il 4 novembre 1921 anche nel capoluogo lombardo - come in altre città italiane - in coincidenza con il rito del Milite Ignoto, che ebbe – come è noto – il suo principale palcoscenico a Roma, all’Altare della Patria. Trasformata in cartolina e riprodotta in migliaia di copie, l’immagine ebbe certamente larga diffusione a ricordo di una del-le manifestazioni locali tenute contemporaneamente alla cerimonia più significativa dell’Italia dell’immediato dopoguerra: la scelta del corpo del soldato senza nome ad opera di una madre, il lungo viaggio in treno della salma da Aquileia a Roma tra ali di uomini e donne in lacrime, il passaggio tra le vie della capitale fino alla tumulazione della bara alla presenza di tutte le autorità – e in primo luogo del sovrano - nel cuore dell’Altare della Patria, furono le tappe dell’unico rito che si sia riuscito forse a trovare un punto di equilibrio tra le molte e contrastanti forme del lutto 1 . Dietro a quell’immagine, così naturale e al tempo stesso studiata, c’è una storia difficile e dolorosa che la società europea e italiana dell’epoca cercò a più riprese e a tutti i livelli di rappresentare: oltre dieci milioni di morti in tutta Europa, molti di più i feriti e i mutilati. Il bilancio per l’Italia, entrata in guerra un anno più tardi, è molto pesante; seicentocinquantamila caduti che è – non va mai dimenticato - il più alto numero di vittime registrato nella storia nazionale. Tuttavia le cifre relative ai morti, feriti, mutilati non rendono fino in fondo il significato di un evento drammaticamente fondativo della modernità e della sua capacità distruttiva nella storia del secolo appena passato. I mezzi di distruzione, perfezionati dalla tecnologia militare, conferirono da

1. B. Tobia, L’Altare della Patria, Bologna, Bologna, Il Mulino, 1998.

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allora in poi alla guerra una serialità industriale che avrebbe raggiunto il suo pun-to più drammatico trent’anni più tardi con la seconda guerra mondiale e i campi di sterminio. Dopo il 1918 nulla sarebbe stato più come prima e l’impossibilità di molti ex-combattenti (in molti casi un’incapacità tragicamente psicologica) di ricordare e al tempo stesso di dimenticare quanto avevano vissuto sui campi di battaglia ne è forse la testimonianza più forte e significativa 2. Nel quadro di una guerra apparsa a molti intellettuali dell’epoca e ancor di più nel-le ricostruzioni degli anni successivi come l’apocalisse della modernità, Milano e la Lombardia pagarono un prezzo altissimo: oltre diecimila morti sono milanesi, 24.300 lombardi. Si tratta di uno dei bilanci locali tra i più tragici dell’intera esperienza ita-liana nel conflitto. Basta guardarsi attorno per comprendere il segno lasciato dalla grande guerra nella vita lombarda e milanese; non c’è paese, cittadina e città che non

Fig. 1: cartolina commemorativa per il 4 novembre 1921

Fig. 2: da “L’Illustrazione Italiana”, 20 maggio 1917

2. S. Audoin-Rouzeau e A. Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, introduzione di A. Gibelli, Torino, Einaudi, 2002.

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abbia il suo monumento, lapide, viale della rimembranza a ricordo dei concittadini ca-duti al fronte e non solo, come nel caso del monumento di Porta Vittoria a Milano che significativamente unisce ai nomi dei diciotto abitanti della zona morti per il primo bombardamento aereo quelli dei soldati originari della medesima zona. Opere dettate dal bisogno di elaborare un lutto vasto e profondo che hanno accolto decenni più tardi i nomi e la memoria dei caduti della seconda guerra all’insegna di una continuità nella pietà. Milano e la Lombardia non furono solo un serbatoio di uomini per la guerra nazio-nale, ma anche e soprattutto capitale del fronte interno, come si diceva allora, vero e proprio centro propulsore della mobilitazione bellica. Il capoluogo in particolare sem-bra aver svolto un ruolo che non fu mai passivo ma fortemente attivo. Lo fu certamente nell’ambito industriale tra i più conosciuti dalla pubblicistica e dalla storiografia. Da qui infatti partivano le principali partite di mezzi bellici. Armi di piccolo e grosso calibro, automezzi, persino i primi aerei (impiegati non nelle operazioni di guerra ma a fini logistici) venivano dalle officine meccaniche e siderurgiche milanesi a cui lo Stato italiano commissionò per tutta la durata del conflitto un numero via via sempre più alto di materiali bellici (fig. 2). Ma l’elemento che più stupisce è un altro: l’aspetto quantitativo fu fortemente e ovviamente collegato alla qualità. La produzione di mas-sa presupponeva e soprattutto incentivava sistemi industriali sempre più efficienti e avanzati sotto il profilo tecnologico. Da questo punto di vista Milano e la Lombardia rientravano perfettamente nei parametri dell’industria europea più avanzata. La modernità del contributo milanese alla guerra va però al di là dei dati industriali. Almeno sotto altri due aspetti il capoluogo può essere indicato come vero e proprio modello della mobilitazione bellica. Esso fu infatti teatro delle principali trasforma-zioni sociali. Non è possibile in queste pagine ripercorrere le vicende, anche dramma-tiche, che coinvolsero i cittadini milanesi (a Milano si costruì l’immagine dell’operaio imboscato), ma basterà ricordare un aspetto apparentemente secondario, se non di puro costume, per evocare il senso della radicale trasformazione avviata dalla metro-poli. L’impiego massiccio delle donne in fabbrica e nei settore dei servizi in sostitu-zione dei lavoratori non specializzati (inviati al fronte) può essere infatti visto come la svolta epocale nella storia dei rapporti di genere. La presenza di signore e signorine non solo nel mondo chiuso dell’industria ma anche nei ruoli - sconvenienti per la mo-rale di allora - di postine o alla guida dei tram cittadini fu molto di più dell’inizio della emancipazione femminile; era l’incipit quasi scioccante di un cambiamento profondo della cultura e nell’immaginario collettivo. Il cambiamento veniva però anche dall’alto, cioè dalle istituzioni cittadine. Milano fu infatti anche modello di valore nazionale per quanto riguarda le attività di assisten-za organizzate dal Comune, guidato dal 1914 – per la prima volta nella sua storia – da una Giunta socialista. Lo spirito di servizio che caratterizzò il lavoro della Giunta e del Sindaco, Emilio Caldara, non era in contraddizione con le posizioni pacifiste del partito socialista. Si trattava piuttosto di pensare a una copertura assistenziale il più larga possibile che poco o nulla aveva a che vedere con un vuoto patriottismo, ma con l’idea, modernissima, per così dire, di welfare. Da qui una struttura comunale che capillarmente si occupò delle principali esigenze di civili e dei militari. Dal problema degli alloggi al sostegno per le famiglie dei richiamati, dalla raccolta di abiti all’invio di beni di conforto ai soldati, la fitta rete delle opere assistenziali costruita dal Comune di Milano fu un esempio – solo apparentemente contraddittorio con le idee del partito

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3. M. Punzo, La Giunta Caldara. L’amministrazione comunale di Milano negli anni 1914-1920, Milano, Carialo, 1986.4. Combattere a Milano. 1915-1918. Il corpo e la guerra nella capitale del fronte interno, a cura di Barbara Bracco, Milano, Editoriale il Ponte, 2005.

di maggioranza - di mobilitazione totale3. Della modernità bellica Milano fu capitale anche per un altro aspetto che è a tanti anni di distanza ancora più importante: essa fu centro della propaganda interventista. Città a guida socialista, il capoluogo lombardo costituì per tutta fase della neutralità, fino al cosiddetto “maggio radioso”, il principale palcoscenico delle manifestazioni a favore della entrata dell’Italia in guerra. I vari Corridoni, Battisti, De Ambris, D’An-nunzio e Mussolini passarono tutti a Milano per arringare le masse e dar corpo – nel vero senso della parola - a un interventismo che era sì minoritario ma determinato a presentarsi come coscienza critica della nazione. Mai come nella grande guerra il cor-po si prestava a un uso non di rado consapevolmente teatrale e ricattatorio, sempre e comunque con finalità prettamente politiche. Certo le potenzialità persuasive del cor-po erano già state evidenziate dalla retorica politica dei decenni precedenti, soprattut-to nell’ambito di quel socialismo rivoluzionario che aveva affidato all’istrionismo dei suoi capi il compito di mostrare plasticamente le capacità rigeneratrici della politica. Ma era con il conflitto che il corpo del politico diveniva perno dello spettacolo della politica, facendosi vero e proprio manifesto delle virtù sacralizzanti della guerra. Solo così si spiega per esempio la presenza attiva dei mutilati e invalidi nelle celebrazioni pubbliche organizzate dopo l’entrata dell’Italia nella conflagrazione europea: i segni corporali diventavano metafora della guerra, le ferite e le mutilazioni divenivano cioè la testimonianza santificante dell’esperienza bellica così come le stimmate dei santi avevano in età medievale e moderna testimoniato la mistica rigenerazione in Dio 4 . La guerra impose definitivamente l’idea che la politica e la nazione sono - nelle forme più alte e significative - esperienze profondamente corporali. Tuttavia per la maggior parte degli italiani il contatto diretto, fisico, con la guerra fu per loro fortuna solo indiretto. Certo il lutto per la perdita di un parente o familiare (che colpì quasi tut-te le famiglie italiane) o la vista di un mutilato segnarono la vita di intere generazioni di civili, ma per essi la guerra fu essenzialmente un’esperienza virtuale. La battaglia, la vita militare, le trincee e la stessa morte furono visibili qualche volta attraverso la fotografia, pesantemente condizionata da filtri politici, più spesso attraverso le rap-presentazioni edulcoranti dell’iconografia, manifesti e cartoline. Ancora una volta la grande guerra ci si presenta come l’evento fondativo della modernità perché per la prima volta si impose l’uso massiccio delle immagini come principale strumento di persuasione. Certo già nella seconda metà dell’800, la grafica commerciale e i ma-nifesti politici avevano abituato gli occhi degli europei a “vedere” il messaggio pro-pagandistico. Ma il conflitto poneva alle istituzioni, ai partiti, alle associazioni civili la sfida certamente più difficile: rappresentare un dramma di enormi proporzioni e raggiungere un numero pressoché illimitato di uomini e donne, “spettatori” e al tempo stesso protagonisti di quella tragedia. Milano fu parte attiva di questa massiccia azione di persuasione, anzi in ambito nazionale fu il principale laboratorio di una gigantesca operazione culturale, luogo privilegiato dove la politica di massa incontrava e si fondeva con la comunicazione di massa. Con le sue case editrici e le sue tipografie pronte a sfornare migliaia di mani-

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Come è noto, le assonanze ingannano. Da tutti i punti di vista l’opera in versi di Delio Tessa va situata agli antipodi rispetto a quella di Trilussa 1, il quale – vale la pena di ricordarlo – nella prima metà del secolo scorso fu semplicemente il poeta più amato dagli italiani, come dimostrano le centinaia di edizioni delle sue rime in romanesco, le applaudite tournée in patria e all’estero, i dischi in cui declama propri componimenti, infine la chiamata tra i banchi del Senato. Se tutto ciò non è valso a conservare a Tri-lussa l’apprezzamento della critica, a Tessa pare capitato in sorte un destino diametral-mente opposto. Avvocato schivo e un pò blasé, nato e vissuto a Milano tra il 1886 e il 1939, compose un esiguo grappolo di «saggi lirici» in meneghino, editi per la prima volta in L’è el dì di Mort, alegher! (Mondadori 1932), che passò pressoché inosservato, così come i versi riuniti postumi in Poesie nuove e ultime (De Silva 1947). La fama di Tessa andò tuttavia lievitando nei decenni successivi, tanto che da tempo viene annoverato tra i poeti maggiori – non dialettali, ma tout court – del nostro Novecento. Per comprenderlo, basta leggere le pagine che gli vollero dedicare tra gli altri Franco Fortini, Luigi Baldacci, Giovanni Raboni, Pier Vincenzo Mengaldo e Dante Isella, che per Einaudi vent’anni or sono preparò una fondamentale edizione completa delle poesie tessiane, ristampata nel 1999 in tascabile. Tra i rari ammiratori tempestivi, si

MAURO NOVELLIUniversità Statale di Milano

Il sacco di Milano.Delio Tessa, Caporetto 1917

13 novembre 1917. – Rastatt. – Campo

Fine delle speranze, annientamento della vita interiore.Angustia estrema per la patria, per la mia povera patria, per la mia terra; pensiero fisso della Lombardia, del Lago di Como, della Valtellina, del Varesotto: terrore di vederli presi dai tedeschi?

C.E. GADDA, Giornale di guerra e di prigionia

1. Peraltro i due poeti si conoscevano, e anzi ebbero modo di esibirsi insieme a Venezia nel corso di una serata di dizioni, rievocata da Tessa in un pezzo apparso su “L’Illustrazione Ti-cinese” il 30 maggio 1936, dove si profonde in elogi al collega, ribaditi due anni più tardi sul “Corriere del Ticino” (entrambi gli articoli si possono leggere in D. Tessa, Critiche contro ven-to. Pagine “ticinesi” 1934-1939, a cura di G. Anceschi, Casagrande, Lugano 1990).

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aggiunga, può contarsi nientemeno che Benedetto Croce, il quale nel 1933 ebbe a spendere parole calorose su “La Critica”, reduce da un simposio in margine al quale Tessa – impareggiabile dicitore – aveva recitato un suo poemetto, lasciando basiti i commensali. 2 Quel poemetto, di 410 versi, si intitola Caporetto 1917. Sebbene lo eseguisse di rado, Tessa l’aveva in repertorio sin dall’estate successiva alla fine della Grande Guerra, quando con esso tornò alla poesia, che aveva coltivato intorno al 1910, in un manipolo di liriche francamente mediocri, nei casi migliori al livello di epigoni portiani ormai scordati, come Giovanni Barrella o Guido Bertini. Per cogliere immediatamente il cambio di passo operato in Caporetto, conviene guardare al sottotitolo: «L’è el dì di Mort, alegher!» Sonada quasi ona fantasia. L’ossimoro, che darà titolo e tono com-plessivo all’unica raccolta edita in vita, è oggi l’esclamazione proverbiale che accom-pagna ogni discussione sul poeta meneghino. Con ogni evidenza, l’accostamento di morte e allegria intende sfregiare uno dei soggetti standard della tradizione dialettale, il giorno dei morti, da secoli veicolo prediletto per intonare accorate, nostalgiche rie-vocazioni di uomini e scorci travolti dalla cieca macina del tempo. Tessa non guarda neppure alle declinazioni del tema proposte da autori che apprezzava, come Pascoli, De Marchi, o certi simbolisti belgi. Decide invece di scaraventarlo in prima linea, ravvivando un glorioso filone municipale di impegno civile in versi dialettali. Si volge dunque alla tragedia della guerra, colta dalle retrovie nei giorni più difficili, quando una città allo sbando tratteneva il fiato in attesa di una disfatta apocalittica. Il 2 novem-bre 1917, una settimana dopo la rotta di Caporetto (avvenuta nella notte tra il 24 e 25 ottobre), il poeta immagina di ritornare dalla consueta visita ai defunti, mentre attorno si scatena la sarabanda di un assurdo giorno di festa:

Torni da vial Certosa,torni di Cimiteriin mezz a on someneride cioccatee che vosa,de baracchee che cantae che giubbiana in santa pas con de brasc la tosa.

L’è el dì di Mort, alegher!Sotta ai topiett se balla, se rid e se boccalla;passen i tramm ch’hin negherde quij che torna a càper magnà, boccallà:scisger e tempia... alegher

fioeuj, che semm fottuu!(vv. 1-15) 3

2. Cfr. C. Linati, “El Tessa” [1943], in Id., Il bel Guido e altri ritratti, a cura di C. Lavezzi e A. Modena, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1982, p. 71. L’intervento di Croce è raccolto in Id., Pagine sparse, III, Laterza, Bari 1960, pp. 90-94.

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«L’è el dì di Mort, alegher!», nuovamente. L’attenzione non va posta soltanto sul-l’amara ironia del verso, ma anche sul deittico (l’è: è oggi, è qui), primo esempio della carica attualizzante in cui va riconosciuta la chiave di volta dei «saggi lirici». Già nel-l’incipit, in effetti, si coglie la tecnica attraverso la quale Tessa perviene ai tipici effetti di “simultaneità” della sua maniera, che molti interpreti hanno correlato alla pittura futurista. Non meno rilevante, d’altronde, è il debito con la macchina da presa, se è vero che l’intero poemetto si fonda sul convergere di diegesi istantanea e movimento nello spazio del poeta. È appunto la passeggiata, come già in Primavera 1912 e nelle vette a venire (De là del mur in testa), lo schema di riferimento fondamentale per le narrazioni tessiane. Al riguardo, occorre tuttavia specificare che il poeta milanese, più che a D’Annunzio o a Palazzeschi, di cui pure tiene conto, si rifà primariamente a Baudelaire, cui tributava una sconfinata ammirazione.

Se poeta non soltanto fa rima ma si identifica con profeta Carlo Baudelaire lo è stato veramente[,] perché il nostro mondo ormai in avanzata decomposi-zione morale nonostante gli sforzi per farcelo parere diverso lui lo vide ancor prima che nascesse. E poi in Baudelaire si sente l’odore della folla, si vede la sua Parigi che egli amò di un amore che sembra aver le radici nell’odio. 4

Non sarebbe arduo estendere al flâneur tessiano – inorridito e affascinato al tempo stesso dalla modernità urbana, dalle fauci della folla – le notissime considerazioni di Walter Benjamin sull’esperienza dello choc nell’autore dei Fiori del male. A ben guardare, la presa diretta in cui scorre, dall’inizio alla fine, Caporetto 1917, si può leggere come il sussultante referto di un trauma, che prende forma in tempi e luoghi delineati con precisione, per scaricarsi in tutti i livelli testuali, ivi compresi metrica5 e sintassi, dinamizzata da centinaia di puntini, interrogative ed esclamazioni. Ne risul-ta un originale sincopato, in cui alle osservazioni del poeta si alternano brandelli di urla, richiami, sirene e canzoni, catturate con prontezza (scolta, dà a trà, vàrdela...) e piegate a echi tenebrosi. Si assiste, in altre parole, all’impiego di una rumoristica frastornante, degna di Berlin Alexanderplatz, il romanzo di Alfred Döblin, uno dei vertici dell’espressionismo letterario europeo. L’etichetta si attaglia perfettamente a Tessa, anche con un occhio ai più cupi esemplari della cinematografia weimariana. A qualificarlo come espressionista contribuisce il ricorso a una tematica ruotante intorno a morte, follia, degrado e consunzione, sostenuta dall’ossessivo ricorso alle iterazioni:

3. Qui e in seguito si ricorre – con qualche ritocco – alla traduzione approntata da Dante Isella nell’edizione tessiana a sua cura (Einaudi, Torino 1988): «Torno da viale Certosa, torno dal Cimitero in mezzo a un semenzaio di avvinazzati che vociano, di fracassoni che cantano e scherzano in santa pace a braccetto della ragazza. È il giorno dei morti, allegri! Sotto le pergole si balla, si ride e si tracanna; passano i tram neri di quelli che tornano a casa per mangiare e sbevazzare: ceci e tempia... allegri ragazzi, che siamo fottuti!».4. D. Tessa, Baudelaire cattolico, “Corriere del Ticino”, 21 luglio 1936 (ora in Id., Critiche contro vento, cit., pp. 31-32). 5. A proposito dei ritmi sfrangiati, le originali strofe eptastiche e il ruolo delle rime in Capo-retto 1917 sia consentito rimandare alla mia monografia I «saggi lirici» di Delio Tessa, LED, Milano 2001, pp. 97-99.

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«c’è un leit-motiv nel periodo che sempre ritorna, c’è un chiodo che si vuol mandare sempre più addentro!». L’ultima uscita, nella Dichiarazione che apre la raccolta del 1932, conclude una lun-ga serie di rilievi che attestano le maniacali premure tessiane nei confronti dell’aspetto fonico dei testi. «Come un fascio di musiche si affida all’esecuzione canora, così i miei saggi lirici attendono la voce del dicitore», afferma nella Nota finale. Non per nulla il sottotitolo di Caporetto 1917 propone un’interpretazione musicale del poemetto, So-nada quasi ona fantasia; mentre l’autografo appare predisposto a mo’ di partitura, scandito da inchiostri diversi a seconda dei parlanti e dalle indicazioni per l’esecuzio-ne, che accompagnano le prime strofe: «Baccanale funebre, trionfale burlesco, rapido, grave e amaro, senza pensiero quasi lieto, fortissimo, ondante, funereo e così via.» 6 È questo il paesaggio sonoro su cui scende nebbiosa la sera del 2 novembre. Il pen-siero va ai contadini tramutati in fanti e diretti al macello, morti o fuggiti «a furia de traij ciocch, | de ciappaij per el cuu, | de mandaij a cà busca» (vv. 17-19). Tessa coglie con amara lucidità le ragioni a monte del discusso “tutti a casa” esploso nel corso della rotta. D’altra parte la pietà per chi soffre alimenta il livore nei confronti dei neutrali-sti, per il quale prende a prestito accenti del Porta più indignato. «Rogn, deslippa | e generaj de pippa» (vv. 85-86) hanno condotto il paese sull’orlo del baratro. Sgomenta, Milano teme che gli austro-tedeschi riescano a dilagare nella pianura, sino a occupare la Lombardia, come era accaduto in Friuli e in parte del Veneto, da dove provengono notizie confuse di violenze, stupri e saccheggi. La città tornerebbe così sotto un domi-nio ancora impresso nella memoria degli anziani, dal momento che gli Asburgo se ne erano andati da neppure sessant’anni. Da questa congiuntura prende avvio un’articolata visione dello sfacelo che pareva alle porte, un altro movimento “simultaneo”, stavolta non nello spazio, ma nel tempo. Se nella realtà l’esercito italiano si attestò sul Piave, Tessa tratteggia la lettura del bol-lettino di un ulteriore tracollo militare, nel fremente acquario della Galleria Vittorio Emanuele. Le voci si intrecciano febbrilmente, a un passo dalla boccioniana rissa: chi sbraita di un nemico ormai in marcia verso l’Adda, chi ingiuria i disfattisti, chi sente tuonare i cannoni alle porte della città. Per sottrarsi alle imminenti razzie non resta che fuggire in direzione opposta a quella del Renzo manzoniano, verso il Ticino 7, a piedi nel fango insieme ai «paisan» (v. 232), braccati dai raid degli aeroplani, mentre al-l’orizzonte i roghi degli stabilimenti vampeggiano tra le brume. Come è prassi nel po-pulismo letterario nostrano 8, nella sventura il poeta si sente affratellato ai contadini. Costoro, sfiniti e rassegnati, nulla hanno a che spartire tanto con la «missolta di locch» (vv. 36-37) che schiamazza in viale Certosa, quanto con la rivoluzionaria «loccaja» (v. 112) che spadroneggia nel centro storico, e arriva – al culmine della visione – a issare la bandiera rossa sulla Madonnina. Dinanzi alla furia dei sovversivi, che travolge i luoghi simbolo del potere ecclesiastico e secolare, si comprende bene lo smarrimento di un cattolico liberale quale Tessa fu. Di qui la scelta di ritirarsi ai margini, di far

6. Ne dà conto Isella negli apparati critici della sua edizione tessiana, a p. 526.7. Nell’episodio il nesso coi Promessi Sposi si misura a partire dalle voci atterrite, che ricalca-no – come ha notato Isella – l’inizio del cap. XXIX del romanzo, quando si prospetta la calata in Valsassina dei Lanzichenecchi. 8. Si veda su questo punto il classico studio di Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, Einaudi, Torino 1988 (prima ed. 1965).

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Ottavio Bottecchia: il ciclismo come guerra La mattina del 3 giugno 1927 Ottavio Bottecchia esce per allenarsi. Emerso da una estrema povertà attraverso il ciclismo, è ricco e famoso, ha vinto due Tour de France nel ‘24 e nel ‘25. Un contadino lo trova agonizzante, sul ciglio della strada a Peonis, vicino a Gemona, testa insanguinata, escoriazioni su tutto il corpo. Polizza vita paga-ta, 500 mila lire alla famiglia. Pratica liquidata in fretta. Era nato a Borgo Minelle di San Martino Colle Umberto, nella Marca Trevigiana, i1 1° agosto 1894. Di povera famiglia, porta il nome, appunto, dell’ottavo figlio del mugnaio France-sco. «La mia infanzia? Uguale a quella di tanti altri bimbi della campagna italiana, in classe d’inverno, mentre l’estate dovevo aiutare i genitori». A scuola solo per due inverni, «mio padre volle fare di me un operaio con possibilità di lavorare anche in cattiva stagione o stagioni morte. Così, a dodici anni, divenni apprendista calzolaio». Manovale edile; carrettiere a Sacile, caricando e scaricando tronchi della foresta del Cansiglio. I Bottecchia acquistarono quattro cavalli ed avviarono un’attività di trasporto in proprio. «Furono anni felici», ricordava Ottavio. Partecipa a qualche corsa per dilettanti con una bicicletta inadeguata, che era del fratello Giovanni. Allo scoppio della guerra il governo requisisce i cavalli e i carri. Erano troppo vi-cini alla zona di operazioni. Lui, poco più che ventenne, venne la chiamata alle armi. Caporale nel 6° bersaglieri ciclisti, esploratore d’assalto,

una volta compii una lunga corsa in bicicletta attraverso la montagna, portan-do sul dorso una mitragliatrice, destinata ad un posto di vedetta che ne era sfornito. Quel giorno, mi spinsi attraverso passaggi e mulattiere che solo le capre erano in grado di superare, Galibier o Izoard erano niente. La pesante mitragliatrice a bandoliera poi non alleggeriva certo la mia macchina. Arrivai alla postazione in tarda serata. Il giorno dopo ebbi la gioia di apprendere dal luogotenente Gallia l’utilità del mio raid: gli Austriaci avevano attaccato nel corso della notte, e il loro tentativo era fallito grazie alla mia mitragliatrice.

Poi torna a fare il muratore, anche in Francia, a Clermont Ferrand. Ma non campa.

FRANCESCO VARANINIUniversità di Pisa

Lo sport come moderna festa crudele:il dio di Roserio

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Scopre allora il valore della professionalità sviluppata in guerra. E diviene ciclista professionista. Non c’è soluzione di continuità tra guerra e dopoguerra. Il reduce lotta per la sua sopravvivenza. Lo sport, possiamo dire, è la prosecuzione della guerra. E’ in sé una guerra.

Bartali: il ciclismo come prosecuzione della guerra Comunicato Ansa delle ore 12:

Roma 14 luglio. Stamane, verso le 11,30, mentre l’onorevole Togliatti usciva dalla porta del palazzoni Montecitorio, in compagnia dell’o. Leonilde Jotti, veniva affrontato da un giovane, che poi si è appreso essere tale Antonio Pal-lante, studente universitario venticinquenne, il quale gli sparava contro alcuni colpi di rivoltella –sembra quattro– tre dei quali lo raggiungevano in varie parti della regione toracica.

Incidenti a Roma, morti a Napoli, Livorno, Genova. Il 14 luglio 1948 in Francia, festa nazionale. Per il Tour, a Cannes dopo dodici tappe, è giorno di riposo. Bartali ha 21 minuti di distacco da Louison Bobet. Il 15 luglio il Ministro degli Interni Scelba accusa il PCI di strumentalizzare lo sciope-ro per fomentare una insurrezione civile. L’Unità quella stessa mattina accusa il gover-no di trasformare il cordoglio spontaneo in un attacco repressivo. A Torino gli operai sequestrano l’Amministratore Delegato Valletta, che con grande senso di responsa-bilità rifiuta l’intervento dell’esercito e ammonisce i dieci operai che lo controllano: “Intanto andate a lavorare altrimenti domani vi licenzio tutti e dieci”. Quel giorno il Tour riprende con il tappone alpino da Cannes a Briançon, attraverso le scalate dell’Allos, del Vars e e dell’Izoard. In Italia le comunicazioni ferroviarie, stradali e telefoniche sono interrotte. La ten-sione è palpabile. Iniziative spontanee sfuggono al controllo degli stessi attivisti dei partiti. A Milano, alle 17 e 30, è prevista una manifestazione in Piazza del Duomo. Alle 17 e 15 radio accese nei bar portano la notizia. Gino Bartali è passato primo su ognuno dei colli, sta dominando la corsa, sull’Izoard sta recuperando tutto il ritardo. In discesa forerà, tenendo tutti col fiato sospeso. Ma dal dramma si passa alla gioia. La folla, al di là delle appartenenze politiche, si abbraccia. Migliorarono intanto le condizioni di Togliatti ma permaneva in Italia una situazio-ne tesa, preoccupante. Il 16 Bartali vinse anche ad Aix les Bains e conquistò la maglia gialla. Togliatti sta meglio, finisce lo sciopero, si allentava la tensione. Domenica 18 luglio a Losanna Bartali, che festeggia il trentaquattresimo complean-no, ancora primo. Dieci anni prima, lo stesso giorno, Bartali aveva vinto a Marsiglia.Bartali sarà maglia gialla a Parigi, dieci anni dopo la prima vittoria. I due momenti chiave di una carriera duramene segnata dalla guerra – dal ’41 al ’45 il Giro d’Italia non si corre, dal ’40 al ’46 il Tour non si corre. Nel ’49, così come nel ’52, a vincere il Tour sarà Fausto Coppi, che in classifica si porta a poco più di un minuto da Bobet.

Cronache sportive: altri drammi Il 29 giugno 1951 si corre il Giro del Piemonte: a poche centinaia di metri dall’arrivo

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Fausto e Serse Coppi, gregario del fratello, in vicinanza del Motovelodromo stanno preparando la volata. Serse urta con la ruota un altro corridore, o forse infila malau-guratamente la ruota nel binario del tram. Cade, picchia la testa contro il marciapiede. Si rialza, conclude la corsa, ritorna in bici in albergo. Due ore dopo lamenta dolori alla testa, e perde improvvisamente conoscenza. Trasportato all’Ospedale, viene visitato immediatamente. Ma prima ancora che si possa tentare di operarlo muore in conse-guenza di una emorragia cerebrale. Inutili gli estremi tentativi per rianimarlo compiuti dal grande chirurgo Dogliotti, muore nelle braccia di Fausto Tour de France 1960. Quell’anno Jaques Anquetil, vinto il Giro d’Italia, non parte-cipa. Il favorito è un altro passista francese, l’astro nascente Roger Rivière. Il 10 luglio, quattordicesima tappa Millau-Avignon. Rivière forse senza motivo rischia il tutto per tutto per seguire Gastone Nencini nella discesa del Col du Perjuret. Cade rovinosa-mente. Si frattura il bacino, salva la vita, ma non si riprenderà mai veramente. Carriera finita. Muore nel 1976.

Il tempo: dopoguerra, guerra fredda, equilibrio del terrore Anni Cinquanta: cortina di ferro, guerra fredda, stallo atomico. L’esportazione del conflitto sull’altro, su un nemico esterno, implica un rischio enorme, mette in gioco la stessa nostra sopravvivenza, perché l’aggressione dell’altro si ritorce su noi stessi. Pos-siamo distruggere l’altro, ma non per questo inibiremo la sua capacità di aggredirci a sua volta. E’ un equilibrio del terrore, che vede ognuno sotto minaccia, sotto ricatto. Se è pericoloso, o impossibile, esportare aggressività e conflitto al di fuori del pro-prio gruppo, del proprio mondo, allora è importante chiedersi come gestire le pulsioni all’interno del proprio gruppo, del proprio mondo. Perciò la riflessione sul conflitto è in quegli anni al centro della riflessione sociologi-ca. Il famoso saggio di Lewis Coser che mostra l’impossibilità di negare e rimuovere il conflitto 1 non aggiunge molto, in realtà, a quanto aveva scritto dieci anni prima Robin. M. Williams Jr. «Conflict result conscious pursuit of exclusive values», nota Williams. E si chiede come sostituire al conflitto - «focused upon the removing competitors» - la competizione «focused upon reaching a goal». 2 In termini più formali, riflettono sul tema agli inizi degli anni Sessanta Aumann e Schelling - non a caso insigniti del premio Nobel per l’Economia nel 2005: è un tema attuale: la minaccia terroristica è diversa dalla minaccia atomica, ma gli effetti inibi-tori, il senso di impotenza che ne derivano sono del tutto simili. Robert J. Aumann ci mostra come sia l’“altruistic behavior” che il “revengeful behavior”, «make sense when viewed from the perspective of a repeated game, but not from the perspective of a one-shot game». E’ il Folk Theorem: se un gioco non si basa su una partita unica ma viene ripetuto nel tempo, allora verranno a crearsi dei meccanismi di credibilità e di reputazione in grado di condurre le parti a comporta-menti di tipo cooperativo. Secondo Aumann la guerra fredda tra Stati Uniti ed Unione Sovietica non è sfociata nell’apocalisse nucleare perché ognuno dei contendenti sape-va che l’altro avrebbe cooperato solo se, e nella misura in cui, il primo avesse fatto

1. Lewis A. Coser, The Function of Social Conflict, 1956.2. Robin. M. Williams Jr., The Reduction of Intergroup Tensions, 1947.

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altrettanto. Qualsiasi deviazione dall’equilibrio cooperativo avrebbe indotto l’altro a concretizzare la minaccia di ‘premere il grilletto’ (trigger strategy). Thomas C. Schelling precisa però che l’equilibrio cooperativo si afferma solo se esiste la disponibilità soggettiva ad accettare la sconfitta, e rinunciare a ciò che sem-bra irrinunciabile: «il potere di vincolare un avversario può dipendere dal potere di vincolare sé stessi». «Nella contrattazione la debolezza può essere un fattore di forza, la libertà può rivelarsi libertà di capitolare, e rompere i ponti dietro di sé può risultare la giusta strategia per sconfiggere il nemico». 3

Polemologia a Milano Da noi, a Milano, torna su questi temi Franco Fornari. In via Papa Gregorio, vicino a piazza Vetra, fondato da Fornari, aveva sede negli anni ‘60 l’Istituto di Polemologia, Si occupava di “scienza dei conflitti”, Nella linea di Melania Klein lo psicoanalista italiano usa la lezione freudiana per interpretare il senso della guerra. Il conflitto, attraverso la guerra, è esportato al di fuori del gruppo. La parte cattiva di me, è attribuita all’altro, a un nemico esterno. Gli oggetti d’amore sono in pericolo per la mia inadeguatezza, per la mia incapacità di cura e di attenzione, ma io mi libero della colpa attribuendola, paranoicamente, al nemico esterno. L’identificazione di un nemico dunque serve a mantenere il conflitto lontano da noi, al di fuori del gruppo, del mondo, della cultura cui apparteniamo. Ora però, sostiene Fornari –tornando sui temi di Williams, Coser, Aumann e Schelling– la situazione atomica mette in crisi questo meccanismo proiettivo. Se la guerra è guerra atomica, comporta il rischio di vedere sparire l’intera umanità, compresi noi stessi, (Fornari parla di ‘prospettiva pantoclastica’). Non esiste più il dentro e il fuori. Non si può più pensare il nemico come esterno. La guerra non può più essere usata come modo per esportare il conflitto. Si deve quindi tornare ad accettare la violenza ed il conflitto all’interno del nostro gruppo, del nostro mondo, della nostra cultura. Al senso di colpa –un automatismo dell’Es– è doveroso sostituire la responsabilità, che è una scelta dell’Io. 4

Il ciclismo come prosecuzione della guerra con altri mezzi Negli anni ‘50 il ciclismo è prosecuzione della guerra, e della battaglia politica, con altri mezzi. Se la guerra non si può più fare, se la guerra distrugge e annichila, resta lo sport. Modo per oggettivare pulsioni, per incanalare gli istinti aggressivi perso uno scopo. Come per Ottavio Bottecchia, per operai, per lavoratori manuali il ciclismo –così come la boxe– è la via per una possibile emancipazione. Il modo per cercare responsa-bilmente e realisticamente un futuro di agiatezza. Attraverso l’estrema fatica, lo sfrut-tamento di quella che appare l’unica vera risorsa personale: il corpo, la forza fisica. Forza fisica indirizzata a uno scopo. Oltre il conflitto - «focused upon the removing

3. Thomas C. Schelling, The Strategy of Conflict, 1960.4. Franco Fornari: Psicoanalisi della guerra atomica, Edizioni di Comunità, 1964; Psicoana-lisi della guerra, Feltrinelli, 1966; Dissacrazione della guerra. Dal pacifismo alla scienza dei conflitti, Feltrinelli, 1969; Psicoanalisi della situazione atomica, Rizzoli,1970.

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Il 22 maggio del 1915, “Il Popolo d’Italia” pubblica, facendo seguire un breve com-mento di approvazione, una lettera che invoca la chiamata alle armi degli studenti. Lo scritto è significativo, per restituire il clima nel quale si muovevano i giovani volontari, e vale la pena di leggerlo per intero:

Egregio Signor Direttore, Una disposizione ministeriale stabilisce una sessione speciale di esami per gli allievi ingegneri, dal 24 maggio al 24 giugno. Ora: mentre gli Italiani di ogni classe si trovano già o saranno fra qualche giorno chiamati sotto le armi, è cosa intollerabile per dei galantuomini di venti anni languire in uno stato di apatia civile, per attendere a degli interessi di studio che non hanno verun carattere di preparazione militare. Mentre quotidianamente assistiamo alla partenza dei nostri fratelli d’armi, che, per accorrere alla difesa suprema della patria, lasciano i campi, le officine, le occupazioni di ogni genere, noi ci sen-tiamo bruciare indosso questi abiti borghesi, che ormai sono per dei giovani sani e robusti causa di insopportabile vergogna.Crediamo che tutti i nostri compagni, entusiasti organizzatori di dimostra-zioni nelle vie cittadine, siano concordi con noi nell’invocare come un sacro diritto la nostra reale partecipazione alla guerra. 1

Tre le firme in calce: Fornasini Emilio - Gadda Carlo Emilio - Luigi Semenza. Si può incominciare da questa lettera, per una lettura delle annotazioni diaristiche di Gadda degli anni 1915-1919: dall’arrivo a Edolo, in Valcamonica, dove Gadda era stato destinato in prima nomina come sottotenente, all’impegno sul fronte, ai campi di prigionia, ai giorni del ritorno a Milano, infine, riacquistata la libertà nel gennaio del 1919. Sebbene nate come scrittura privata, alcune pagine del diario erano state fatte cono-scere, in tempi diversi, su giornali e riviste, finché nel 1955 furono raccolti in volume tre dei cinque taccuini di diario rimasti (un sesto era andato perduto), sotto il titolo che

ALBERTO CADIOLIUniversità Statale di Milano

La guerra di Carlo Emilio Gadda

1. Le carte militari di Gadda, a cura di G. Ungarelli, Milano, Scheiwiller, 1994, p. 72.

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poi rimarrà definitivo di Giornale di guerra e di prigionia. 2 Nelle successive edizioni, nel 1965 3 e nel 1992 4 , vennero aggiunte le parti non ancora pubblicate, e nell’edizione del 1992, compresa nel quarto volume delle Opere di Carlo Emilio Gadda, uscite sotto la direzione di Dante Isella, venne anche inserito, sotto il titolo Diario di Caporetto, un lungo Memoriale sui fatti della battaglia dell’Isonzo, durante la quale Gadda fu catturato dagli Austriaci. La scelta dell’editore, discutibile sul piano filologico per la raccolta di scritture nate con intenti e registri diversi, mostra però bene una possibile lettura di queste pagine come documento biografico, in un’ottica che richiede il quadro completo degli eventi cui ha partecipato il giovane diarista poi diventato scrittore. In questo intervento si seguirà invece un percorso di lettura diverso, per il quale è neces-sario seguire solo le pagine del diario, separandole da quelle del Memoriale. Quando Gadda, coerentemente con la lettera ricordata all’inizio, abbandona gli stu-di di ingegneria al Politecnico di Milano per partire volontario, non ha ancora compiu-to 22 anni. Pochi giorni dopo l’arrivo a Edolo, comprato un quaderno il 24 agosto 1915 e indicato minuziosamente giorno e luogo dell’acquisto, Gadda dà il via al diario con questa prima annotazione:

Le note che prendo a redigere, sono stese addirittura in buona copia, come vien viene, con quei mezzi lessigrafici e grammaticali e stilistici che mi avan-zeranno dopo la sveglia antelucana, le istruzioni, le marce, i pasti copiosi, il vino e il caffè (p. 443).

In queste righe, nelle quali si rivela uno stretto legame tra la vita quotidiana, con le sue difficoltà, e la scrittura che entra in questa vita nei momenti di pausa, sembra quasi introdotta una giustificazione («in buona copia, come vien viene»), davanti a un possibile giudizio negativo sullo stile. Non era un fatto insolito tenere un diario, anche se lo facevano soprattutto gli ufficiali 5 (i soldati, quando non erano analfabeti, si limi-tavano a mandare lettere con annotazioni sulla loro vita), ma senz’altro era insolita la scelta di inserire, nelle prime righe, una giustificazione sulla scrittura: scelta che, letta naturalmente a distanza di tempo e ponendo sullo sfondo l’intera produzione gaddia-na, rivela già una personale originalità. Le pagine del primo taccuino, quello che viene chiamato il «giornale di campa-gna», sono strettamente legate alla volontà di partire volontario; nel dichiarare in più occasioni la propria impazienza al combattimento Gadda presenta i tratti di un gio-vane di alti ideali, convinto, coerentemente con i valori borghesi e nazionali ai quali è

2. Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Firenze, Sansoni, 1955.3. Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Torino, Einaudi, 1965.4. Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, in Saggi Giornali Favole II, Opere di Carlo Emilio Gadda, v. IV, a cura di Claudio Vela, Gianmarco Gaspari, Giorgio Pinotti, Franco Gavazzeni, Dante Isella, Maria Antonietta Terzoli, Milano, Garzanti, 1992. Le citazio-ni avranno tutte come riferimento questa edizione, per cui ci si limiterà a indicare nel testo il numero di pagina. 5. Scrittore e pittore già affermato, Ardengo Soffici già nel 1918 diede alle stampe i suoi taccuini di guerra: cfr. A. Soffici, Kobilek. Giornale di battaglia, Firenze, Libreria della Voce, 1818, poi ripubblicato nel 1919 da Vallecchi, che nello stesso anno dà alle stampe La ritirata del Friuli: note di un ufficiale della seconda armata.

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stato educato, che il dovere più grande sia servire la patria. E’ già presente, per altro, un’esagerazione personale nell’interpretazione di quei valori, per cui il sottotenente Gadda dichiara apertamente che la propria affermazione come individuo e la piena manifestazione della propria identità sono inscindibilmente legate all’impegno perché quei valori siano fatti trionfare: da qui l’affermazione, quasi un grido, «Ma io devo e voglio combattere» (p. 481). Anche proprio per l’obiettivo personale che si è posto, Gadda reagisce con malumo-re e rabbia di fronte alla cattiva conduzione della guerra, agli sprechi del bene collet-tivo, al disinteresse per gli altri, all’indifferenza per la patria. Le citazioni potrebbero moltiplicarsi, ma basteranno poche frasi per darne conto in modo significativo:

In questi giorni ebbi nuove ire contro i generaloni, persone certo poco ca-paci. Raramente visitano il fronte, il fronte vero; e soprattutto non conoscono affatto la montagna (p. 464).

E ancora, in particolare, si veda questa lunga accusa, da leggere per esteso:

I nostri uomini sono calzati in modo da far pietà: scarpe di cuoio scadente e troppo fresco per l’uso, cucite con filo leggero da abiti anzi che con spago, a macchina anzi che a mano. Dopo due o tre giorni di uso si aprono, si spac-cano, si scuciono, i fogli delle suole si distaccano nell’umidità l’uno dall’altro. Un mese di servizio le mette fuori d’uso. – Questo fatto ridonda a totale dan-no, oltre che dell’economia dell’erario, del morale delle truppe costrette alla vergogna di questa lacerazione, e, in guerra, alle orribili sofferenze del gelo! […] Quanto delinquono coloro che per frode o per incuria li calzano a questo modo; se ieri avessi avuto innanzi un fabbricatore di calzature, l’avrei provo-cato a una rissa, per finirlo a coltellate. Noi Italiani siamo troppo acquiescenti al male; davanti alle cause della nostra rovina morale diciamo: «Eh ben!», e lasciamo andare. (pp. 466-467)

Anche una delle frasi immediatamente successive rivela la severità del giovane sol-dato contro l’incapacità dei governanti:

Ma Salandra, ma quello scemo balbuziente d’un re, ma quei duchi e quei deputati che vanno a “veder le trincee”, domandino conto a noi, a me, del come sono calzati i miei uomini… (p. 467).

O ancora:

Se queste mie memorie saranno lette in futuro, chi leggerà sappia che la discordia nelle file del nostro esercito, nella compagine della nostra vita na-zionale è novanta volte su cento il frutto di imbecillità e di frivolezze… (p. 578).

Si potrebbero accumulare esortazioni e invettive, lodi per gli eroi e condanne per gli incapaci o per gli egoisti attenti solo al proprio io. Gli improperi contro gli egoisti, in particolare, rappresentano una significativa anticipazione delle imprecazioni contro il

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pronome di prima persona che si leggerà nella Cognizione del dolore. L’osservazione della conduzione della guerra e del comportamento sia delle gerarchie militari sia di molti commilitoni fa entrare in crisi la convinzione, fino ad allora data per scontata dal giovane Gadda, che la Patria fosse per tutti un valore supremo. Ed ecco allora la dolente considerazione: «Il mio popolo, la mia patria che tanto amai, mi appaiono alla prova ben peggiori di quanto credevo» (p. 486), e la «delusione nei riguardi della vita cittadina», come scrive durante una licenza a Milano, il 15 febbraio 1916, perché l’abitante della città, che «con la beneficenza continua mostra di amare i combattenti», tuttavia «pure si diverte, passeggia, chiacchiera come se nulla fosse» (p. 523). Non è difficile scorgere in questa delusione i germi di tante pagine delle opere succes-sive, nelle quali si esprimerà, in nome del rigore morale, la totale condanna di coloro che, nonostante la responsabilità e il dovere di guidare l’Italia, pensano solo al proprio tornaconto: tra questi, in primo piano, i rappresentanti della borghesia italiana e i capi del fascismo, che di quella borghesia avrebbe dovuto essere l’espressione politica.Strettamente legato al tema della delusione si fa strada il contrasto tra ordine e disor-dine, che, sviluppato ampiamente nei romanzi più noti di Gadda, è individuabile, nelle pagine del Giornale, come elemento costitutivo dell’orizzonte dentro il quale il giova-ne ufficiale colloca se stesso e il proprio mondo. Si veda questa citazione:

La seconda ragione della mia indolenza e prostrazione [la prima era «l’ozio assoluto, nei riguardi militari, che prostra il corpo e lo spirito»] è un’antica, intrinseca qualità del mio spirito, per cui il pasticcio e il disordine mi annien-tano. Io non posso fare qualcosa, sia pure leggere un romanzo, se intorno a me non v’è ordine. […] Io che mi sono immerso con gioia nelle bufere di neve sull’Adamello, perché esse bufere erano nell’ordine naturale delle cose e io in loro ero al mio posto, io sono atterrito al pensiero che il soffitto del mio abitu-ro sgocciola sulle mie gambe: perché quella porca ruffiana acqua lì è fuor di luogo, non dovrebbe esserci: perché lo scopo del baracchino è appunto quello di ripararmi dalle fucilate e dalla pioggia (21 luglio 1916, pp. 570-571).

E ancora:

Ma il disordine c’è: quello c’è, sempre, dovunque, presso tutti: oh! se c’è, e quale orrendo, logorante, disordine! Esso è il mare di Sargassi per la nostra nave (24 luglio 1916, p. 575).

E’ dentro questo quadro, per altro, che viene a farsi strada, da un lato, la rivisitazio-ne della propria adolescenza come periodo di sofferenza («Tutte le volte che rivado nel passato, non ci vedo che dolore», p. 486), e, dall’altro, la consapevolezza della propria particolare e morbosa sensibilità, «una forma patologica del cuore, di origine nervosa, dovuta alle violente emozioni da cui fu contristata la mia infanzia» (p. 547). Il soldato che scrive della propria esperienza viene delineando, annotazione dopo annotazione, la parabola di un personaggio: quello del giovane volontario che, partito con molto entusiasmo, si trova, via via che passano i mesi, a fare i conti con una realtà che non corrisponde a quella costruita nei sogni eroici a lungo coltivati. Prima di approfondire questo spunto tematico, tuttavia, è opportuno aggiungere altre considerazioni, che si muovono per una via diversa, autonoma ma comunque in-

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1. “Qual è il fiume di Milano?”; ovvero: “Quali sono i fiumi di Milano?” A queste domande si può dare una facile risposta geografico-naturale: i fiumi sono il Lambro e l’Olona. Noi milanesi, a ben vedere, quasi non ce ne accorgiamo più, se è vero che l’Olona lo percepiamo solo quando straripa, il Lambro è ridotto a una roggia puzzo-lente, ed entrambi si inalveano dentro la città per riapparire a sud, fuori dalla nostra vista (e olfatto, beninteso). In realtà, la stragrande maggioranza di noi – dovendo pensare a un “fiume” davvero milanese - pensa al Naviglio, ovvero ai Navigli, come sarebbe meglio dire. Le ragioni sono fin troppo evidenti, e non c’è forse bisogno di illustrarle: i Navigli – in particolare il Grande e il Pavese, nonché la Darsena che li collega – sono il corso d’acqua che a Milano svolge il ruolo, nelle pratiche sociali e nell’immaginario, di un vero e proprio fiume. Non per caso, un’impressione del genere ebbe anche un non milanese come Giuseppe Ungaretti. Tutti o quasi tutti conosciamo una sua importantissima poesia che si intitola I fiumi, molto spesso letta anche a scuola. Trascrivo la prima stesura della sua parte conclusiva, che è affidata a una lettera a Giovanni Papini: 1

I miei fiumi si mettono in filachilometri e chilometri passo a passoin un batter d’occhi millannie io li riconoscoa uno a unocome un accorto comandantequest’è il Niloe quest’è l’Arnoquest’è il Naviglioe quest’è la Sesiaquest’è il Serchioe quest’è il Po

PAOLO GIOVANNETTIUniversità IULM Milano

“Per la trincea ripartito è qualcuno”Poeti a Milano nella grande guerra

1. Giuseppe Ungaretti, Poesie e prose liriche, 1915-1920, a cura di Cristiana Maggi Romano e Maria Antonietta Terzoli, Milano, Mondadori, 1989, p. 30.

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e quest’è la Sennae quest’è la mia vitache in ognuno vi traspare

Ora non èche una corolla di tenebre

Curiosamente, tra i fiumi di Ungaretti non c’è ancora l’Isonzo, che poi avrà una fun-zione simbolica fondamentale nella redazione definitiva del componimento; mentre è presente il Naviglio. La cosa, in fondo, non ci stupisce perché il poeta vive a Milano quando scoppia la prima guerra mondiale, e subito dopo si arruola volontario: certo ha considerato questo particolare “fiume” una tappa nodale della sua vita recente (del resto, nel catalogo troviamo anche il Sesia, che sigla Vercelli, vale a dire la città in cui Ungaretti, dopo aver lasciato Milano, si unisce all’esercito in attesa di raggiungere il fronte). Dunque: Ungaretti; prima guerra mondiale; Milano. Mi sembra un utile punto di partenza per il mio discorso. Al di là dell’evento curioso appena osservato, quello del giovane Ungaretti con Milano è un rapporto importante e forse poeticamente de-cisivo. Ricordiamo che L’allegria comincia con una sezione intitolata Ultime, datata 1914-1915 e collocata, potrei dire persino “ambientata”, a Milano. Tanto più che tale capitolo della raccolta costituisce la premessa necessaria all’esperienza di trincea vis-suta dall’“uomo di pena” Ungaretti, fante italiano della grande guerra. A loro volta, le Ultime sembrano raccontare una storia, realizzano un percorso ascendente, secondo uno sviluppo temporale che culmina con una poesia, intitolata Popolo, dai contenuti dichiaratamente interventisti. Evoca di scorcio – associandole analogicamente ad altri contenuti - immagini delle manifestazioni di piazza che a Milano chiedono la parteci-pazione dell’Italia al conflitto: 2

Brulicano già gridid’un vento nuovo

Alveari nascono nei monti di sperdute fanfare [...]

O Patria ogni tua età s’è desta nel mio sangue

Sicura avanzi e cantisopra un mare famelico

Appunto, la Milano che voglio raccontare è una Milano poetica legata alla guerra, una città che si militarizza. E’ una militarizzazione precocissima, peraltro: se pensia-

2. Giuseppe Ungaretti, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Milano, Mondadori, 1969, pp. 16-7.

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3. Clemente Rebora, in Le poesie (1913-1957), a cura di Gianni Mussini e Vanni Scheiwiller, Milano, Garzanti, 1994, pp. 188-9.

mo che Filippo Tommaso Marinetti aveva occupato il territorio cittadino, con armi per lo meno simboliche, fin dal 1912. In quell’anno aveva dato alla stampe un poema in versi liberi - scritto in francese -, intitolato Le monoplan du Pape (poi tradotto come L’aeroplano del Papa), in cui è raccontata una possibile guerra dell’Italia contro l’Au-stria. E’ un racconto profetico, come lo definirà Marinetti stesso: il culmine allegorico si realizza proprio nell’immagine di un volo, da parte dell’io poetante, sopra il Duomo milanese, nel corso del quale la cattedrale cittadina viene implicitamente distrutta (più esattamente, è preconizzato il suo “trasloco” dal centro cittadino). Insomma, la guerra era già stata portata a Milano, per iniziativa dell’immaginario poetico: e i suoi protagonisti, in particolare il nemico austriaco, saranno gli stessi del 1915. Quando, dopo l’estate del 1914, la guerra si annuncia come prossima, sono mol-ti i poeti a sostenere la necessità dell’intervento. Vi propongo la conclusione di un componimento scritto da un poeta mitissimo, che poi diventerà sacerdote cattolico, Clemente Rebora. La poesia è intitolata Fantasia di carnevale: 3

[...]Perché si redima nel rischio Il tètano dell’uomoLa nausea del mondo,In sprazzi di respiroAvvèntaci alla prova,Martirio che irrora,Olocausto vivo!Se no, nel guizzo feliceD’un giorno ben triste,Ai passanti innocentiScaglieremo le bombe,Colmeremo le tombeChe la carie dell’ore ci aprì.Del resto, il destinoHa stomaco sano,Per smaltire anche noi...

A cena, intanto. Olà,Del festino: carne al sangue,Rosso vino forte,Evviva l’appetito della morte!

Sono versi non facili, dominati dall’arduo stilismo espressionista caratteristico di quest’autore. Ma la parte finale è chiara: siamo nel febbraio del ’15, appunto a Milano, e il soggetto enunciatore reclama l’entrata in guerra dell’Italia, minacciando altresì – in caso contrario - di lanciare bombe per le strade, di uccidere per vendetta i poltroni borghesi. Un poeta certo non truculento si apre dunque ai temi che c’interessano, al mito della violenza; e, di nuovo, suggerisce una guerra già pienamente collocata nella

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città. Per capire l’entusiasmo che caratterizza tale clima interventista, può essere utile osservare due immagini. La prima è una tavola parolibera del futurista napoletano Francesco Cangiullo (fig. 1), intitolata Milano – Dimostrazione: 4 è una stilizzazione di piazza Duomo, dove le persone sono rese con il disegno degli slogan gridati dai ma-nifestanti. Nella seconda immagine (fig. 2) - che tra l’altro casca a fagiolo in un giorno in cui i relatori che mi hanno preceduto, Cadioli e Varanini, hanno parlato di biciclette e ciclisti - vediamo i volontari ciclisti milanesi che si preparano a partire per il fronte. E’ divertente pensare, dal nostro punto di vista, che la bicicletta sia stata considerata uno strumento di guerra, anche perché alcuni fra i più bellicosi interventisti futuristi (Marinetti in testa, peraltro) appunto sono andati al fronte pedalando. A questo pro-posito, ho trovato dei bruttissimi versi che commemorano l’evento, il viaggio ciclistico da Milano alle zone in cui si combatte; l’autore è un Luigi Scarpini, e il suo è un vero e proprio inno - scritto nel luglio 1915: 6

4. La tavola era uscita in “Gli avvenimenti”, I, 117, 19-26 dicembre 1915; la traggo dal catalogo della mostra Marinetti e il futurismo a Milano (Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, 10 ottobre-18 novembre 1995), Milano, De Luca, 1995, p. 62.5. In Marinetti e il futurismo a Milano cit., p. 63.6. Il testo è contenuto in A. Virgilio Savona – Michele L. Straniero, I canti della grande guer-ra, Milano, Garzanti, 1981, pp. 139-40.

A Trieste, o ciclisti lombardi,il cannone vi chiama concordi.Accorrete a combatter gagliardiil pugnace nemico oppressor.

A Trieste serrati in ischieresotto il Duce sapiente Cadorna,dispiegate le vostre bandiere,pegni sacri di fede e d’amor.

Fig. 1

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2. Insomma, se nella realtà storica della prima guerra mondiale Milano è una città di retrovia, cioè appartiene al fronte interno, in poesia è viceversa pienamente coinvol-ta nella guerra. Nell’immaginario dei poeti, Milano è sul fronte “esterno”, combatte in prima linea, è attraversata dal conflitto armato. Nei versi di tanti poeti si realizza in pieno questa tendenza a violentare, bellicizzandola, la città, a cogliervi un vero e proprio scenario di morte. Ma diamo ancora per un attimo un’occhiata al reale-reale, alle forme della vera guerra che hanno toccato Milano. In via Tiraboschi, quasi all’angolo con via Mu-ratori, c’è un monumento (figg. 3 e 4), chiamato ancora dai vecchi milanesi “I trì ciucch” (perché i tre personaggi allegorici raffigurati sono visti come tre ubriachi che si sostengono reciprocamente): la sua funzione è ricordare il bombardamento del 14 febbraio 1916 sulla zona di porta Romana. Gli aeroplani austriaci quel giorno erano riusciti a raggiungere Milano uccidendo una quindicina di civili, i cui nomi sono elen-cati sulla lapide. Un po’ di guerra in senso pieno a Milano c’è stata veramente, appunto. Ma i poeti seguono un loro percorso, particolarmente radicale, che spesso esaspera certe con-traddizioni. Un esempio davvero emblematico è la tavola parolibera di Paolo Buzzi (fig. 5) intitolata Un attimo della mia giornata a palazzo Monforte. 7 L’autore è un futurista milanesissimo, molto legato Marinetti, che ha lavorato per tutta la sua vita in prefettura. La poesia visiva in oggetto “descrive” una giornata a palazzo Monforte, sede appunto della prefettura. In alto a sinistra si vede il tavolo di lavoro del poeta, e la scritta rovesciata dice di un desiderio di morte connesso alla figura del padre e,

7. Uscita sull’“Italia futurista”, 7, 1o ottobre 1916, la traggo da Paolo Buzzi, Futurismo. Scritti, carteggi, testimonianze, a cura di Mario Morini e Giampaolo Pignatari, Milano, Palazzo Sor-mani, 1983, vol. II, p. 229.

Fig. 2

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Si può affrontare il fenomeno della guerra, come esperienza vissuta e come rappre-sentazione di tale esperienza, da diversi punti di vista. Si può cercare, rispetto all’espe-rienza, di distinguere fra i diversi periodi storici, tenendo conto dei molti elementi che compongono il fenomeno guerra: non solo le sensazioni personali del soldato, i richiami ideologici all’eroismo o quelli più profondi alle forze istintive o ai modelli di comportamento che muovono l’uomo: l’aggressività, la voglia di menar le mani, lo scatenamento degli istinti, fra stupri e bottini, concessi alle truppe dopo la vittoria e in qualche modo codificati, oppure la paura, l’angoscia, oppure lo spirito di sacrificio, o la volontà di avventura; ma anche la tecnica militare, le regole che da sempre gover-nano i conflitti e stabiliscono armi proprie e armi improprie, il rapporto fra militari e popolazioni civili, la distinzione fra soldati di professione, che fanno il mestiere delle armi, ed eserciti di popolo, quelli che piacevano a Machiavelli, o la guerra delle parole a contrasto o a sostegno della guerra delle armi. (la guerra delle parole è stata ampia-mente presente nella storia, dai latini a D’Annunzio alla disinformacija praticata dai servizi segreti nei tempi moderni) Quanto alle rappresentazioni (diari, scritture di memoria, rievocazioni a distanza, romanzi di invenzione, narrazione filmiche; si veda per esempio, l’antologia a cura di Sebastian Faulks e Jörg Hensgen, 1999), anch’essi possono essere distinti a secondo del registro stilistico e della modalità rappresentativa scelta: dallo stile epico che dà voce all’esaltazione eroica, a quello romanzesco che presenta la guerra come una oc-casione di bella avventura (come in un famoso testo del poeta provenzale Bertran de Born Be’m platz lo gais temps de Pascor) o di messa alla prova degli ideali cavallere-schi [Domenichelli 2002], a quello comico-grottesco (anch’esso con una lunga tradi-zione fino al buon soldato Švejk di Jaroslav Hašek [1921-23] o all’aviatore Yossarian di Erich Heller [1955]). C’è poi il problema del rapporto fra esperienza (un’esperienza spesso estrema e scioccante) e memoria. Su questo problema, relativamente alla prima guerra mondiale, ha attirato l’attenzione Walter Benjamin nel bellissimo saggio su Il narratore [1936], là dove parla del forte indebolimento dell’arte del narrare verificatosi nel Novecento:Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte

REMO CESERANIUniversità Statale di Bologna

Rappresentazioni della guerra

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ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile [il termine tede-sco è Erfahrung; come è noto, al centro della teoria di Benjamin c’e la differenza tra Erfahrung – esperienza vera (o accumulata), e Erlebnis – esperienza vissuta]. Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana di libri di guerra, era stata tutto fuorché esperienza [Erfahrung] passata di bocca in bocca. E ciò non stupisce. Poiché mai esperienze [Erfahrungen] furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione, di quelle fisiche dalla guerra dei materiali, di quelle morali dai detentori del potere. Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo umano. [trad. it. 1962, p. 236]

Questo pensiero di Benjamin pone il problema della novità scioccante della guerra moderna di trincea e delle sue conseguenze sulla capacità di percezione dell’esperien-za fatta [Erlebnis] da parte dei soldati e sulla capacità di raccontarsela, farsene una ragione, scriverla. Si tratta di esperienze umane sconvolgenti, che hanno coinvolto singoli individui e intere collettività stravolgendone la vita, ponendoli in contatto quo-tidiano con l’esperienza estrema della morte e della catastrofe, segnandoli per sempre, a volte nel corpo con cicatrici e deformazioni irrimediabili, altre volte meno visibil-mente ma anche più profondamente nella memoria, nel modo di percepire e ragionare, nella personalità. C’è molto di vero nella tesi di Benjamin. Alcuni grandi libri sulla guerra sono il prodotto di una fase successiva, di una scrittura memoriale: per esem-pio quelli di Erich Maria Remarque [1929], Siegfried Sassoon [1957], Emilio Lussu [1938], Louis Ferdinand Céline [1936], fino a David Malouf [1982]. Va tuttavia preci-sato, senza smentire la tesi di Benjamin sulla sostanza scioccante dell’Erlebnis di chi ha passato giorni terribili nelle trincee, e della sua difficoltà a divenire Erfahrung, che ci sono state anche molte testimonianze - sia pure frammentarie, disorientate, confuse – in diari, lettere, e, guarda caso, in molte poesie. Basta ricordare le liriche di Ungaret-ti, Owen e tanti altri in Germania, Francia, Russia. Italia (su cui Cortellessa 1998). C’è quindi un problema di rapporto fra l’esperienza della guerra e la memoria. Ma c’è stata anche, a proposito della prima guerra mondiale, e qui si coglie un aspetto significativo del ruolo svolto dalla letteratura, una preparazione all’evento, una specie di addestramento delle posizioni ideologiche, degli atteggiamenti culturali, della sen-sibilità collettiva. La cosa è tanto più significativa in quanto la prima guerra mondiale viene spesso presentata come un avvenimento inaspettato, uno “scoppio” irrazionale, scatenato da un evento occasionale e periferico, che prese di sorpresa un mondo tutto immerso nei piaceri e negli autocompiacimenti della belle époque. La guerra immi-nente e catastrofica è stata, in realtà, anticipata da una serie di romanzi, appartenenti a un genere nuovo che potremmo chiamare fantastorico, pubblicati soprattutto in In-ghilterra, ma diffusi in tutto il continente europeo. Uno studioso inglese, specialista dell’argomento, I. F. Clark, in una serie di studi e antologie (1995, 1997) ha riesumato questi testi, che mi paiono molto interessanti e che hanno coinvolto, oltre a personaggi poco noti, anche alcuni importanti scrittori della letteratura europea come H. G. Wel-les, Julius Verne, Conan Doyle. Clark, nell’introduzione all’antologia del 1995, defini-sce questi scrittori «Combattenti di carta» impegnati in guerre di fantasia; potremmo aggiungere di fantascienza, perché l’attenzione alla tecnologia militare e alle possibili

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novità della guerra aerea, di quella missilistica, dei cannoni a lunga gittata è in questi testi molto forte. Il primo a lanciare il nuovo genere è stato un oscuro ufficiale inglese divenuto scrit-tore: George T. Chesney. Egli ha pubblicato nel 1871 sulla rivista “Blackwood” e su-bito dopo in libro a sé un testo intitolato The Fall of England? The battle of Dorking, Reminiscences of a Volunteer. Il narratore di questo testo, che si immagina scriva attorno al 1925, racconta ai nipoti la grande avventura vissuta da lui come volontario durante un’immaginaria invasione dell’Inghilterra cinquanta anni prima. L’invasione, di cui sono autori i tedeschi (essi non sono identificati come tali, ma i soldati tra di loro parlano tedesco), è avvenuta fra la sorpresa della popolazione inglese e anche del governo, nonostante i non pochi avvertimenti che si erano avuti negli anni precedenti. L’Inghilterra è stata trasformata da paese prospero, che viveva trasformando nelle sue fabbriche le materie prime importate da tutto il mondo, che dominava i mari e i com-merci, in una landa desolata, preda del folle “comunismo”, il quale ha rovinato i ricchi senza riuscire a dare veri benefici ai poveri. L’attacco ha trovato l’esercito inglese impreparato, convinto che la Manica e le difese costiere fossero una garanzia suffi-ciente e la sconfitta militare è stata ignominiosa. Ci sono state insurrezioni in Irlanda, in India e problemi seri in America e in Canada. Il nemico si è annesso l’Olanda e la Danimarca. Il narratore, che lavorava a Londra e risiedeva nel villaggio di Dorking, racconta minutamente gli avvenimenti: la confusione delle comunicazioni; l’uso di tecnologie avanzate da parte degli avversari (per esempio siluri che affondano la nave ammiraglia inglese); la funzione dei giornali, che seguono gli avvenimenti grazie a un cavo sotterraneo; il crollo della borsa e la svalutazione della sterlina; il tentativo di organizzare squadre di volontari; gli invasori che arrivano nel villaggio di Dorking e uccidono un bambino; le loro gozzoviglie con grandi pezzi di carne e irrisioni ai vo-lontari inglesi, bravissimi a fuggire; il crollo dell’impero inglese, con l’indipendenza delle colonie; il passaggio ai nemici di Gibilterra e Malta, e così via. Il grande successo del romanzo di Chesney (che fu tradotto quasi subito in tedesco) ha prodotto una vera e propria moda del genere, con tutta una serie di romanzi del tipo “la guerra del futuro”, “future war novels”, “Zukunftkrieg-Romanen”. Forse l’autore più popolare è stato William Le Queux, un curioso personaggio, console a San Mari-no, corrispondente dal fronte della Guerra balcanica negli anni 1912-13, probabile af-filiato dei servizi segreti, autore di The Great War in England in 1897 (1897). Ma se ne possono ricordare parecchi altri, come per esempio William L. Clowes (1894), George Griffith (1895), Matthew P. Shiel (1898), i cui romanzi sono stati ripubblicati di recente nella collana Sources of Science Fiction. Future War Novels of the 1890s, a cura di G. Locke. Non mancarono in Inghilterra le parodie, da parte di scrittori legati al Punch come A. A. Milne e P. G. Wodehouse. E su un piano più apertamente apocalittico e fantascientifico si mossero nientemeno che Arthur Conan Doyle, il creatore di Sher-lock Holmes, e H. G. Wells, il primo con il racconto The Poison Belt, pubblicato nel 1913, anticipatore dei disastri della guerra chimica, il secondo con un romanzo straor-dinariamente profetico, basato sugli sviluppi della guerra aerea, che sembra anticipare più che gli sviluppi della prima guerra mondiale, quelli della seconda e delle guerre successive, sino all’attacco dell’11 settembre alle torri gemelle. Si può sorridere del fatto che Wells, in The War in the Air (1907), abbia pensato che i protagonisti della futura guerra aerea sarebbero stati i dirigibili, anziché gli aeroplani, e che la guerra aerea avrebbe risolto ogni futuro conflitto (Vietnam e Iraq sembrerebbe smentire que-

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sta previsione). E però alcune delle rappresentazioni di Wells hanno una straordinaria potenza e la sua descrizione del caos prodotto dall’attacco aereo nella città di New York (capitolo VI) fa venire i brividi alla schiena e fa pensare, oltre che ai romanzi e ai film apocalittici prodotti dopo la seconda guerra mondiale, agli avvenimenti reali a cui abbiamo assistito. Ma lasciatemi cambiare argomento e prendere in esame un libro bello e importante di Alberto Casadei intitolato Romanzi di Finisterre [2000]. In questo libro l’autore analizza il modo in cui alcuni grandi scrittori hanno trattato il tema della seconda guerra mondiale in una serie di importanti romanzi: Thomas Mann nel Doctor Faustus [1947], Beppe Fenoglio nel Partigiano Johnny [1968, postumo], Günther Grass nel Tamburo di latta [1959], Ibuse Masuji ne La pioggia nera [1965]), Claude Simon nella Battaglia di Farsalo [1969], Thomas Pynchon ne L’arcobaleno della gravità [1973] e David Grossman in Vedi alla voce amore [1986]. A questi fanno corona molti altri testi nei quali viene trattata l’esperienza della guerra. Su questi testi Casadei si sofferma meno distesamente, e tuttavia la descrizione critica che ne dà, è acuta e fulminante. Due sono le tesi di fondo di Casadei: 1) che la seconda guerra mondiale sia stata un avvenimento sconvolgente, a cui si deve un cambiamento radicale nei modi di vita e in quelli della rappresentazione letteraria del Novecento; 2) che essa abbia provocato una netta spaccatura nel sistema culturale e letterario, costringendo gli scrittori a trovare forme nuove per rappresentare una realtà nuova (lui parla, alludendo a Erich Auerbach [1946], di un nuovo «realismo»). Recensendo il libro sulla rivista “Novecento” dell’Istituto storico di Modena ho già detto [Ceserani 2000] tutto il bene possibile di questo libro e in particolare delle ottime analisi critiche che Casadei offre ai lettori dei suoi romanzi. Sono rimaste in me alcune perplessità, che si sono anche accresciute dopo che abbiamo assistito a tutta una serie di nuove guerre, da quella del Golfo, a quelle dei paesi balcanici, a quella dell’Afganistan a quella, che mi sembra si possa definire tranquillamente, guerra, fra Israeliani e Palestinesi, a quella dell’Irak. Permettemi di ripetere quanto ho scritto nel 2000 recensendo il libro di Casadei, aggiungendo qua e là alcune note di commento. Come sempre avviene nei lavori di critica tematica, due fattori molto importanti per la buona riuscita dell’impresa sono la scelta del tema e quella della campionatura. Nel modo in cui Casadei ha orientato le sue scelte rispetto a questi due fattori risie-dono secondo me i motivi di fondo sia degli eccellenti risultati da lui raggiunti sia, probabilmente, di alcune perplessità che nutro su alcune delle impostazioni e alcuni dei risultati del suo lavoro. Certo, la scelta del tema della guerra, in particolare di quel grande avvenimento veramente mondiale o globale che fu la seconda guerra mondiale (assai più mondiale e globale, in verità, di quanto fosse stata la prima grande guerra) gli ha consentito di allineare una serie di testi di grande spessore e qualità, con una selezione molto sicura anche nella campionatura, condotta con ottimo fiuto su un ma-teriale narrativo amplissimo (anch’esso, a ben considerare, “mondiale”). Devo anzi aggiungere che la selezione, sia dei testi principali sia di quelli, assai numerosi, di contorno, mi sembra nel complesso molto convincente, con una sola vera eccezione: io avrei promosso Il re degli ontani [1970] di Michel Tournier a protagonista di un intero capitolo; lo sento centrale e imprescindibile in un panorama di questo tipo. E però sono anche portato a pensare che si debba proprio alla scelta del tema e della campionatura, pur in sé abbastanza felici e perseguiti con grande coraggio, l’origine dei dubbi sia di carattere teorico sia di carattere storiografico che continuo a nutrire, pur dopo avere

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PIETRO CATALDIUniversità per Stranieri di Siena

La «patria tradita».Un filmato di Toscanini del 1943

Milano, la guerra, Toscanini. Non dovrebbe essere necessario spiegare, proprio in questa città, le ragioni che stanno alla base di questo trinomio. Ma poiché nessuna memoria storica sembra ormai al sicuro, varrà la pena di ricordare che allorché il Gran Consiglio del Fascismo depose Mussolini, la notte del 25 luglio 1943, alla mattina la Scala apparve ricoperta di numerosi manifesti inneggianti a Toscanini e al suo ritorno (foto 1). E lo stesso fenomeno si ripeté poche settimane più tardi, subito dopo il bom-bardamento della notte del 15 agosto, su un teatro duramente ferito dalla distruzione (foto 2). Pare fra l’altro che la trovata costasse un pestaggio al responsabile dell’ini-ziativa. Che cosa intendeva segnalare questo gesto spericolato? Quale simbolo a tutti chiaro evocava? E che valore aveva la dedica che uno dei maggiori milanesi del secolo, Delio Tessa, aveva posto al suo capolavoro, La poesia della Olga, pubblicato nel 1924 con l’epigrafe: «Al maestro Arturo Toscanini, devotamente»? Non sono sicuro che, all’altro capo cronologico della dittatura rispetto ai manifesti scaligeri, Tessa intendes-se rivolgere la sua devozione solo al musicista, che da qualche anno aveva permesso alla Scala di riaprire, dopo la parentesi postbellica, rapidamente trascinandola al più alto livello artistico. In quella devozione, piuttosto, si agita un segnale etico, e perfino politico; teso a riconoscere, come faranno negli anni successivi tanti altri intellettuali europei e americani, da Paul Valéry ad Albert Einstein, il valore di Toscanini quale «uomo-faro», secondo la bella definizione di Stefan Zweig. Se la Scala è il luogo forse più intensamente simbolico di Milano, Toscanini è stato senza dubbio l’uomo-simbolo della Scala, che egli avrebbe reinaugurato il 26 maggio 1946, dopo aver contribuito personalmente con ingente somma ai lavori di ricostruzio-ne (foto 3). Il legame fra Toscanini e la città era d’altra parte antichissimo, avendo egli suonato alla Scala quale secondo violoncello alla prima dell’Otello (1887), direttore lo stesso Verdi, lavorandovi poi quale direttore per varie stagioni (nel 1896, dal 1898 al 1903, dal 1906 al 1908) e ricevendo fra l’altro l’incarico prestigiosissimo, a soli tren-taquattro anni, di dirigere Va’ pensiero per i funerali di Verdi nel 1901 (foto 4). Nel foyer della Scala sarebbe stato esposto il feretro del Maestro dopo la sua morte, nel 1957, in vista del seppellimento nel cimitero cittadino (foto 5). Il legame fra Toscanini e la Scala, e dunque fra Toscanini e Milano, si fonda su due ordini di ragioni: artistiche, da una parte, e anzi, per meglio dire, artistico-organizza-

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tive; ed etico-politiche, dall’altra. Infatti a Toscanini si deve la promozione del teatro milanese al vertice della qualità mondiale in campo lirico, allorché nel periodo 1920-1929 egli vi diresse un numero impressionante di messe in scena, portando a compi-mento la propria rivoluzionaria concezione della organizzazione teatrale e musicale. Decisiva era, certo, la qualità proverbiale dell’interprete, cui si devono per esempio il rilancio della fortuna verdiana, la diffusione di moltissimi capolavori wagneriani in Italia, il sostegno a molti moderni come Debussy, Ravel e Stravinskij, nonché ai musicisti della giovane scuola italiana (Puccini in primis); ma un ruolo significativo giocava anche la valorizzazione della professionalità in tutti i suoi aspetti, con una ca-pacità di ottenere da ciascuno il massimo che non poteva certo trovare habitat migliore dell’efficienza meneghina. Dal punto di vista organizzativo, sarebbe davvero lungo e complesso ricostruire le modificazioni operate da Toscanini. Ma si pensi almeno che fino alla sua gestione i quattro ordini di palchi erano di proprietà dei palchettisti, che durante le rappresentazioni capitava di cenare nei retropalchi, e che insomma il teatro era considerato uno svago e soprattutto un luogo di ritrovo. Ma non meno importanti

Foto. 3

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Per lungo tempo la guerra l’hanno raccontata i vincitori, e qualche volta in prima persona: «Gallia est omnis divisa in partes tres», recita uno dei più celebri inizi di res gestae. Siamo di fronte, in questi casi, a racconti incompleti, parziali e quindi falsi. Falsi, in particolare perché tendono, di norma a obiettivi celebrativi o di giustificazio-ne postuma; lo sguardo è a una direzione e la prospettiva ridotta. Ogni tanto giungeva una voce diversa: quella di chi la guerra la subiva. Voce disso-nante e flebile e, comunque, di seconda mano. Era il letterato a farsi interprete di storie che appartenevano al popolo, agli sconfitti o, comunque, a chi il potere non l’aveva. Poi, con la crescente alfabetizzazione, le cose sono cambiate: e le testimonianze scritte di prima mano hanno iniziato a restare, e a costituire una forma nuova di raccontare la guerra. Così, accanto ai generi istituzionali del romanzo, della novella, del resoconto storico d’autore, sono da collocare altri generi: i diari; le raccolte di lettere di soldati, deporta-ti, prigionieri; le raccolte di documenti di varia natura; i pamphlets; i libelli; le canzo-ni; gli articoli di giornale; i resoconti dei corrispondenti di guerra; le trascrizioni dei dibattiti e delle tavole rotonde; le interviste. Nel vario panorama di questi testi ci soffermeremo proprio su queste ultime, e vedre-mo come la storia che esse narrano sia di natura profondamente diversa dal racconto sia del “potere” sia del “letterato”.

Le interviste assumono un’importanza particolare per la varietà degli attori che ne sono i protagonisti, sia per gli esiti cui pervengono: 1. Ci sono interviste d’autore fatte da scrittori a personaggi colti (non di rado scrit-tori essi stessi) che intervengono, prima della pubblicazione, sul testo medesimo. In queste, di norma, il contributo dell’intervistato e dell’intervistato è alla pari: la lettura e l’interpretazione degli eventi soggiace alle stesse leggi e si regola su meccanismi simili. 2. Vi sono interviste d’autore fatte da scrittori a gente comune, nelle quali il peso del primo è dominante, e dove la testimonianza dell’intervistato può essere indirizzata verso l’obiettivo che l’intervistatore si prefigge. In casi non infrequenti il materiale rac-colto è selezionato e manipolato artatamente, e la sua fisionomia ultima può risultare

GIULIANA NUVOLIUniversità Statale di Milano

La guerra dei poveri

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1. I. Calvino, Le notti dell’UNPA, in L’entrata in guerra, Milano, Mondatori, 1994, p. 63.2. Materiali interessanti in M. Isnenghi, Le guerre degli Italiani. Parole, immagini, ricordi (1848-1945), Bologna., Il Mulino, 2005.3. A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005, p.175

molto distante dal racconto dell’intervistato. 3. Vi sono, infine, le interviste artigianali, quelle fatte nell’ambito, per esempio, di iniziative scolastiche o di associazioni che non si avvalgano di professionisti.

Nessuno di questi testi garantisce, di per sé, la veridicità degli eventi narrati, almeno se facciamo riferimento al testo nel suo complesso. La verità, piuttosto, è da cogliere nel dato frammentario, nella frase non calcolata, nella giustapposizione di elementi eterogenei e talvolta discordanti. L’intervistato non ha, di norma, il tempo di orga-nizzare il suo racconto seguendo un disegno precostituito: il frammento di memoria richiamato dalla domanda si muta, di solito, in enunciato veridico; anche nel caso di frammento d’autore, come nel caso del gioco della maschera antigas, come lo ricorda Italo Calvino:

Queste sono per noi! – Subito cercammo di calzarcele in capo. Respirare era difficile, l’interno delle maschere aveva uno sgradevole odore di caucciù e di magazzino, così, con le teste trasformate in quelle di enormi formiche viste al microscopio, ci esprimevamo in muggiti inarticolati e giravamo semiciechi per gli androni della scuola 1

Memoria di ragazzino, come quelle di cui, in gran parte ci serviremo. Abbiamo pre-so, come campione, interviste fatte a individui che, al tempo degli eventi bellici erano bambini o adolescenti: perché fra i tanti poveri, i più poveri sono loro; loro sono i più indifesi, e la loro memoria è la meno contaminata.

La “guerra dei poveri”, da sempre, è la guerra di coloro che non decidono, che la guerra la subiscono: in particolare le donne e i ragazzini; è la guerra della gente co-mune che viene trascinata obtorto collo; imbonita, di plagiata, malpersuasa ma che, come vedremo, si rivela resistente, forte e lucida. 2

Il regime fascista, come ogni regime, aveva educato al mito della morte per la patria e della morte giovane: Omero ne aveva compreso il fascino creando il personaggio di Achille. La morte del combattente poteva apparire morte bella perché era una morte giovane, dissociata dalla decrepitezza della vecchiaia e associata alla forza, alla virili-tà, alla buona salute, appunto alla bellezza della gioventù. Scrive Antonio Gibelli:

Si tratta di un mito etico ed estetico che subì, nei fatti, uno scacco spaventoso proprio nel corso della Grande Guerra, quando morire giovani divenne una regola e la morte prese forme massificate e oscene, anche se non mancò il ten-tativo di rilanciarlo proprio per fronteggiare le conseguenze destabilizzanti del disastro. 3

In termini di storia della cultura e di elaborazione del lutto, di immaginario e di

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«peso dei morti sui vivi» 4, tutto ciò era destinato a lasciare un’eredità non trascurabi-le. Di fronte a questa nuova strage degli innocenti, il poeta inglese Owen fa ricorso al tema biblico del sacrificio di Abramo, qui portato alle sue estreme conclusioni, benché lo stesso angelo gli suggerisca una via d’uscita: «Ma il vecchio non volle saperne e trucidò il figlio / e metà del seme d’Europa, uno per uno» 5.

Nell’Europa del 1914-1918, dio non ferma la macellazione rituale e i “vecchi” uc-cidono i “giovani” in massa. Nelle pagine dello storico britannico John Keegan, uno dei primi a guardare dal di dentro le battaglie e le carneficine del 1916, la visione dei giovani combattenti pronti a entrare in azione, vittime sacrificali in fila per il macello sul fronte delle Somme nell’estate del 1916, richiama alla mente le schiere delle vittime dello sterminio nazista:

Le lunghe, docili file di giovani infagottati nelle divise, gravati di fardelli, con un numero al collo, che avanzavano in un paesaggio sconvolto verso lo sterminio che li attendeva fra i reticolati 6.

In quel conflitto si definiscono così le due facce della guerra: «quella sacrale dei propositi (almeno per quanto riguarda i volontari), quella oscena degli esiti, che assu-me un valore di precedente fatale per la storia europea.» 7 : e niente è più osceno dello spreco di giovani agnelli sacrificali. Ma veniamo alle interviste, tra cui abbiamo selezionato alcune di quelle relative alla guerra a Milano; tra queste prenderemo come campione due testi assolutamente lontani fra loro. Il primo è un’intervista d’autore, quella di Daniela Padoan, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz 8, fatta a tre donne Liliana Segre, Goti Bauer, Giuliana Tedeschi che molto hanno scritto e detto (anche nelle scuole) sulla loro esperienza e sull’olocausto.

Perché ho scelto la testimonianza di tre donne? Perché esse sono “poveri” più dei loro compagni di sventura di sesso maschile; perché sono state più violate e meno ascoltate. C’è un passaggio molto interessante, in un articolo di Elena Loewenthal 9: «Forgiata da un’alchimìa lessicale che invoca la deci-frazione, Zhakor, la parola ebraica che si usa per dire ‘memoria’, giunge dalla stessa radice che significa ‘uomo’ nel senso di ‘maschio’. [Invece] a indicare

4. L’espressione è di S. Audoin-Rouzeau e A. Becker, Retrouver la guerre, Paris, Gallimard, 2000, p. 7: “Ciò che è la materia stessa della Storia: il peso dei morti sui vivi”. Cfr. anche: S. Audoin-Rouzeau, La guerre des enfants 1914-1918, Paris, Colin, 1994.5. W. Owen, La parabola del vecchio e del giovane, in Poesie di guerra, a cura di S. Rufini, Torino, Einaudi, 1985.6. J. Keegan, The face of battle, 1976 [Trad. it. Il volto della battaglia, Milano, Mondadori, 1978, p. 275].7. Antonio Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005, pp. 175-76. Cfr. G. L. Mosse, le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 1990.8. D. Padoan, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Au-schwitz, presentazione di Furio Colombo, Milano, Bompiani, 2004.9. E. Loewenthal, La forza della memoria, “La Stampa”, 25 gennaio 2002.

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Dopo lo studio di Claudio Pavone sulla “moralità della Resistenza” del 1991 e i molti contributi di altri, precedenti o successivi a questa data, non sono più misteriosi i mo-tivi e le modalità del passaggio dei più giovani alla Resistenza. Non sono state invece studiate le reazioni di uomini nati ancora nell’Ottocento o ai primi del Novecento al passaggio della guerra. Gli unici contributi che esistono al riguardo direi che sono due miei brevi saggi sepolti in una rivista e negli atti di un convegno e pressoché ignoti. In questa sede riprendo alcune di quelle osservazioni ampliandole e vi aggiungo delle considerazioni tratte dalla vicenda di alcuni pittori. Le fonti cui attingere per documentare il tema delle reazioni al passaggio della guerra e alle sue devastazioni sono gli epistolari e i diari. Per quanto riguarda i pittori ovviamente la produzione artistica e, quando vi sono, gli scritti di vario genere.

Ottone Rosai

Ottone Rosai (Firenze 1885) muore a Ivrea, dove si trovava occasionalmente, nel 1957. Ma fiorentino del tutto, anzi diciamo il rappresentante più autentico, in pittura, della fiorentinità del Novecento se questa esistesse. Il padre suicida nel 1922, mobiliere indebitato, lascia la famiglia nella più orrenda miseria. Povero per molti anni, Ottone non fa studi regolari perché espulso un paio di volte dalle scuole; l’unica cultura scolastica, ma molto importante per lui, gli viene dall’aver frequentato l’Accademia. Personaggio difficile, aggressivo e manesco, a volte invece dolcissimo e indifeso come un bambino. Fiorentino becero e popolano d’Oltrarno, sostanzialmente dialet-tofono. E’ violentemente antiborghese, antiaccademico, ribelle per costituzione. E’ fascista, direi anche squadrista, ma fu un fascista difficile che creò grane anche alle varie istanze del regime. Considerato anche poco raccomandabile, perché giocatore (credo che questo fosse soprattutto un vizio di gioventù) e omosessuale, quindi travia-tore di giovani. Mussolini ne detestava il ribellismo anarcoide. Era detestato anche dai critici più raffinati, (Longhi, Pallucchini, e si parva licet Ojetti), amato invece dagli intellettuali più giovani (Vittorini, Pratolini, Bilenchi), e da alcuni grandi pittori

GIOVANNI FALASCHIUniversità di Perugia

Altro effetto della guerra:la crisi interiore

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(Morandi, Sironi, Carrà, quest’ultimo però dovette sopportare i suoi improvvisi sbalzi d’umore e la sua aggressività. Come anche capitò al suo protettore della prima ora, Soffici, e a Edoardo Persico, fondatore della Galleria d’Arte “Il Milione”, la più impor-tante galleria milanese dopo il 1930. Così come anche capitò con Papini). Ha rapporti difficili, fatti di alti e bassi, con Montale, che certamente snobbava questo fiorentino incolto e popolano “maleducato”. Violento contestatore della chiesa romana e del papato, sostanzialmente perché isti-tuzioni, ha una sua religiosità naturalistica da primitivo. E’ cristiano, riducendosi per lui il Cristo al Cristo Patiens, al sofferente che si carica dei dolori del mondo. Concepi-sce l’arte come una missione cui l’artista si dedica mettendo al centro l’umanità intera sofferente e desiderosa di riscatto. Gli amici, data la sua indigenza, caldeggiano per lui l’ottenimento di riconoscimenti ufficiali: nel 1939 Bottai lo nomina professore di Figura Disegnata al R. Liceo arti-stico; nel 1942 ha la cattedra di pittura all’Accademia. Ora non ha più l’assillo delle preoccupazioni economiche che aveva contraddistinto la sua esistenza fino ad allora, ma vive ugualmente un periodo di incertezza e insicurezza per motivi ovviamente politici. L’8 settembre 43, mentre passeggia di notte, com’era sua antica abitudine, con alcuni amici, fra cui lo scrittore Piero Santi, viene avvicinato da un gruppo di giovani antifascisti, che ne conoscevano le imprese, e malmenato. Per questo motivo la notte abbandona lo studio di Via S.Leonardo, dove era andato ad abitare nel 1933 e che era isolato, e va a nella casa della moglie in via dei Benci, pressoché nel centro della città. Nel 1944, ritenendo, come fascista noto in città, che la sua casa non sia sorvegliata, dà ospitalità al giovane pittore partigiano Enzo Faraoni, rimasto ferito in un attentato da lui preparato con altri. In seguito ospiterà addirittura Bruno Fanciullacci, anch’egli fe-rito e ricercato dai fascisti come gappista pericolosissimo (era uno del commando che aveva ucciso Giovanni Gentile). Nell’agosto 1944, liberata Firenze, ne viene richiesta l’epurazione dall’insegnamento. Episodio poco simpatico, non tanto in sé quanto per-ché i richiedenti erano altri pittori, il più noto dei quali Arrigoni. La richiesta riguar-dava anche Colacicchi e Capocchini fra gli altri.

I critici hanno già rilevato la crisi che Rosai attraversa a cominciare dal 1939 e che successivamente si aggrava, salvo la cosiddetta fase di Chiesanuova, corrispondente a un periodo di villeggiatura in cui il pittore trova un po’ di requie nel 1942. Nel 1941 dipinge poco, quindi nella sua pittura si registra uno scombussolamento, evidente in questi dati: 1. la scelta di dipingere autoritratti, che egli non abbandonerà fino alla morte, di-pingendone circa una ventina solo tra il 1942 e il 1944 (Pier Carlo Santini), mentre dell’intera sua attività precedente ne conosco soltanto due: l’autoritratto in figura di teppista, acquerello su carta molto noto e riprodotto, di data incerta ma comunque fra il 1911 e il 1912, e un autoritratto a olio del 1933. Questi del periodo di guerra sono contraddistinti da immagini violente, che nulla hanno da invidiare ai dipinti dei grandi espressionisti tedeschi, per quanto vi si possa captare la lezione degli autoritratti di Van Gogh: qui fronti aggrottate (è talora ricordata dai contemporanei la ruga profonda che tagliava verticalmente la fronte del pittore, così come appare dalle descrizioni di lui e dalle fotografie), zigomi molto rilevati, rughe, pieghe ai lati della bocca o sulle guance come squarci, linee fortemente deformanti, colori violenti e molto accesi e contrasti molto forti. In una storia ideale del ritratto Rosai dovrebbe essere collocato

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in una linea che va da Van Gogh a Ligabue. E’ un’esperienza questa in cui Rosai rag-giunge l’apice dell’espressività con autentici capolavori, alcuni dei quali senz’altro del 1947. Il suo interesse per i volti appare rivolto anche a quelli degli amici più cari o dei personaggi più insigni, come documentano i noti “tondini”, piccoli olii su tela, molti dei quali proprio del 1939-43. 2. Parallelamente, proprio negli anni 1943-44, dipinge tele di soggetto religioso. Si sa che frequenta la chiesa di S. Procolo dove La Pira fa celebrare la Messa dei poveri, per altro fatta istituire da lui stesso: un disegno del 1945 (L.Cavallo, n.126) è proprio intitolato così. I soggetti preferiti sono le crocifissioni due delle quali risalgono al 1943, una è fortemente dominata dalla gamma cromatica del rosso, che si estende da quello acceso del manto di San Giovanni a diversa gradazione più tenue del corpo di Cristo, fino al giallo. Si può pensare a un rapporto simpatetico, per la disposizione delle figure, con la crocifissione di Masaccio. E’ dello stesso anno la tela, abbastanza grande (140 x 190) Operaio in croce, in cui predomina un colore rosa cupo tendente al violaceo che si estende dalla figura del crocifisso allo sfondo di fabbriche e ciminiere. Ebbene, la testa dell’uomo è molto somigliante a quella devastata dal dolore e dallo smarrimento della serie degli autoritratti, come se al pittore fosse indifferente la varietà dei volti umani perché tutto riconducibili a un Volto solo, quello assoluto dell’uomo-Dio. Rosai sembra aver toccato la radice del suo cristianesimo e della sua profonda convinzione di artista quale derelitto che fa dono di sé all’umanità. Da una foto della sua camera risulta che a capo del letto era appesa proprio una crocifissione evidentemente dipinta da lui. Il tema non viene esaurito con gli anni di guerra: nel 1950 c’è un’altra crocifis-sione a olio e il disegno di un Giovinetto crocifisso.

Piero Calamandrei

Fiorentino, classe 1889 (muore nel 1956). E’ stato uno dei più grandi giuristi italiani; titolare della cattedra di Diritto processuale in varie Università, dal 1925 continuati-vamente a Firenze. Nonostante abbia dato un contributo notevole all’elaborazione del nuovo codice civile, riuscì a non compromettersi mai col fascismo. Anzi fu in stretto rapporto con Giovanni Amendola e col gruppo antifascista del “Non mollare” (quindi con Salvemini). Nel 1941 aderisce a “Giustizia e Libertà”, nel 1942 partecipa alla fon-dazione del Partito d’Azione per il quale viene eletto alla Costituente, contribuendo alla elaborazione della nostra carta costituzionale. Nel dopoguerra fonda la rivista po-litico-letteraria “Il Ponte” e si attiva, con scritti e conferenze, per la celebrazione della Resistenza e la divulgazione dei principi della nostra costituzione.

Alla sua morte fu presa in considerazione dalla famiglia e dagli amici l’idea di pub-blicare il corpus intero delle sue opere politiche e letterarie, ma il figlio Franco giudicò inopportuna la pubblicazione del diario non volendo che fosse reso pubblico il suo rapporto conflittuale col padre negli anni di guerra e temendo che ne venisse diminui-ta la figura morale col pubblicare un diario pieno di barzellette e aneddoti sul regime, nel quale l’autore si dimostrava angosciato e impotente di fronte ai fatti catastrofici di quegli anni. Questi argomenti non furono i motivi veri del ritardo nella pubblicazione di questo lunghissimo testo, però ci illuminano bene sulla fisionomia edificante ed eroica con cui nel 1956 si riteneva, a sinistra, di dover consegnare alla storia le figure

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di antifascisti. Il figlio però autorizzò più tardi la pubblicazione e vi premise uno scrit-to in cui ci offre sincera testimonianza delle sue passate perplessità. Dunque il Diario 1939-1945 è stato edito in due grossi tomi solo nel 1982 (La Nuova Italia) a cura di Giorgio Agosti, che vi ha premesso un’eccellente introduzione.

Il Diario è a suo modo tragico, come confermano anche le barzellette che continua-mente vi si leggono: esse erano l’unico modo per aggredire il regime da parte di un uomo solo che si era condannato all’impotenza. L’autore è abbastanza lucido da vedere che la linea di resistenza cui la sua generazione era ridotta coincideva col proprio tavo-lo da lavoro, da cui non si potevano mandare proclami ma solo maledizioni. In data 4 maggio 1939 annota: «scrivo tanto per protestare, tanto per far sapere a me stesso, ri-leggendomi quello che ho scritto, che c’è almeno uno che non vuol essere complice». Uno dei percorsi da seguire all’interno di questo lunghissimo diario è la caduta del-le certezze di questo intellettuale che definiremmo “europeo”, l’Europa essendo per lui costituita dall’Occidente escluse ovviamente Spagna Italia e Germania. In data 3 settembre 1939 annota a proposito della Francia: «la mia patria di uomo europeo sta per gettarsi volontariamente nell’incendio, per difendere la libertà di tutti gli uomini civili», e il 4 ottobre: «Io amo la Francia con tenrezza: mi par che essa sia quello che di più prezioso ha saputo produrre la civiltà». Caduta la Francia e affermatasi la tendenza collaborazionista scrive il 7 luglio 1941 «Un anno fa si piangeva sulla sorte della Francia. Ma che n’è avvenuto della Francia? Chi ci pensa più? L’Inghilterra sta per espugnare Beirut: pare una cosa naturale: non si pensa più che a difenderla ci sono i francesi. Non son più francesi: sono diventati anche loro quella folla anonima dei nemici che non c’importa più di veder morire». Ma alla data del 28 agosto 1941 ha la notizia dell’attentato al collaborazionista francese Laval e scrive: «Paul Colette, gio-vane di 20 anni, ha tirato contro il traditore Laval: c’è ancora un francese di 20 anni capace di questo sacrificio. La Francia è ancora viva […]». Se questa è la situazione della Francia non restava che sperare nell’Inghilterra. Ca-lamandrei ci informa di leggere poco i giornali, ovviamente per protesta contro la falsità delle informazioni, ma ascolta sempre Radio Londra pur non comprendendo nulla d’inglese. Nel febbraio 1941 ascolta un discorso di Churchill che non capisce ma annota: «naturalmente ero commosso». Ma l’Inghilterra sembra tergiversare, e questo egli lo imputa all’opportunismo affaristico che sembra aver sempre contraddistinto la sua politica. Registra allora le sconfitte dei tedeschi sul fronte russo, ma i sovietici sono per Calamandrei e i suoi amici un enigma; si teme che contrattino la pace con la Germania senza preoccuparsi del resto dell’Europa. Conseguente alla caduta della speranza di un’ Europa che tenga testa ai nazifascisti cade anche l’ideologia ottimistica dello storicismo che era l’asse portante dell’ideolo-gia di questo intellettuale liberaldemocratico. Il quale ancora il 7 gennaio 1941 anno-tava: «Si conferma così storicamente la mia sensazione che risale al 1922: che i fascisti sono stranieri, che la dominazione fascista è stata una dominazione straniera»; questo in pieno accordo ovviamente con l’interpretazione crociana. Ma nell’andamento vit-torioso della guerra nazifascista questa certezza viene meno. Alla data del 12 agosto 1941 scrive:

Anche questo dello storicismo è uno dei modi con cui gli uomini cercano di nascondere questa continua illogicità della loro condotta, in cui il pensiero

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e l’azione vanno ognuno per conto suo. Se si volesse essere coerenti colla nostra filosofa, l’idea della nostra mortalità, ella brevità di questa nostra ap-parizione, della precarietà di tutto ci porterebbe coerentemente al suicidio o all’inerzia fatalistica: tutto è uguale, nulla conta. E invece tutti si continua a lavorare disperatamente, febbrilmente, come se tutto questo avesse uno sco-po, obbedendo a un incosciente e irreprimibile impulso vitale. Si sa che nulla serve a nulla, eppure si lavora e si fatica per far qualcosa: questa escogitazione dello storicismo è un modo per cercare di nascondere questa contraddizione.

E cita Leopardi, come sospeso tra nichilismo e lavoro.

Questo problema della crisi dello storicismo è centrale per identificare l’insufficienza del metodo idealistico e dei suoi strumenti di spiegazione dei fenomeni storici. Non è una cosa da poco, se si pensa che all’incirca nello stesso periodo un grande intel-lettuale come Giaime Pintor, poco più che ventenne, manda in soffitta lo storicismo e apre all’esistenzialismo. La stessa cosa Cesare Luporini, nato nel 1909, e i migliori rappresentanti dell’intellighentsjia italiana, in particolare settentrionale (esistenziali-sti, fenomenologi e marxisti). Allo storicismo era inevitabilmente connessa la visione laica della storia. E’ Luigi Russo che scopre le carte in una conversazione privata a tre, con Pietro Pancrazi. Il quale nella Pasqua 1941 si mette all’occhiello un ramoscello dorato di ulivo benedetto, e Russo:

“Ecco Pancrazi che s’è già convertito al cattolicesimo”. “E tu, al posto di queste superstizioni che ci hai?” “La storia…” “E non capisci che se non c’è il mondo di là, una formicola e la storia valgono lo stesso? E il mio rametto d’ulivo e la tua libertà e tutte le opere di bene valgono lo stesso?”. Disse Rus-so: “Lasciatemi questa illusione”. E noi: “E tu lascia a chi l’ha l’illusione di queste superstizioni…”. (p.328).

In questo passo, a parte il disarmante semplicismo con cui gli amici scambiano le loro idee, è rilevante che Calamandrei le registri come sintomi di una caduta delle loro illusioni. Calamandrei e Pancrazi cominciano evidentemente a prendere sul serio la religione come fonte di illusioni ora che la fede nella razionalità della storia si è rive-lata un dogma inutile, e comunque altrettanto illusorio (altre pagine sull’argomento le 228-34). E il giurista liberal-democratico si rende conto non solo della sconfitta del-l’idealismo ma anche di quella che potremmo chiamare la sconfitta dell’illuminismo. Annota:

Uno dei più gravi errori del liberalismo e della democrazia è questo: di cre-dere che la diffusione delle idee di libertà, di giustizia morale e di dignità umana abbiano la virtù taumaturgica di creare uomini degni di essa; ed arriva a dichiarare felici i popoli i cui dittatori sono liberali e non autoritari.

Trova continue conferme della degenerazione della letteratura e degli intellettuali alla moda, che lui chiama indistintamente gli ermetici, e fra cui annovera il figlio Franco. Scrive:

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In realtà queste letterati, che paiono sentir la simpatia per gli uomini, sono degli egotisti incorreggibili, per i quali tutti gli altri uomini, genitori com-presi, servono soltanto a popolar di figurine il teatrino dinanzi al quale essi stanno assisi in panciolle per fare il resoconto” (27 luglio 41)

e poco sotto:

essi dividono il mondo in due categorie: quelli che faticano per far nella vita la loro parte, e quelli (la classe eletta) che descrivono le fatiche degli altri stando in panciolle, e magari artisticamente si commuovono della loro bella resistenza.

Se prova tenerezza è invece per i soldati che stanno partendo e che vede alla stazio-ne. D’altra parte nessuna classe sociale sembra essere dotata di quei valori morali sui quali si potrebbe contare per un eventuale processo di rinnovamento: borghese di na-scita e di condizione, Calamandrei riconosce nella sconfitta generale quella della pro-pria classe, fatta di “milioni di servi, disposti a servire senza discernimento qualunque idea che sia imposta dal padrone. Parlo della borghesia più che del popolo” (I, p.238). Impressiona in questo diario il forte richiamo esercitato dalla religione fin dall’inizio della guerra: precocemente il 25 gennaio 1940 immagina un redde rationem per il duce che, anche se lontano, sarà inevitabile:

Ieri sera alle messa sentivo squillare la tromba del giudizio: Nihil inultum remanebit. Questo è il gran conforto della fede: la religione è una fede nella giustizia, più che una fede nella gioia e nella eternità personale. La religione cristiana finisce i secoli in un gran giudizio: per poter tollerare i dolori del-la vita, non c’è altro che sperare che tutte le infamie vengano al termine e alla sentenza […] La giustizia del giorno finale non distinguerà i politici dai privati. Mussolini sarà un delinquente senza altre qualifiche. Dattela, MER-DONE.

Soprattutto nei primissimi anni di guerra, quando il disorientamento è maggiore e il pessimismo è totale, il diario appare molto spesso come un coacervo di frammenti, annotazioni anche minute che informano su fatti di vita quotidiana, familiare e pro-fessionale, e soprattutto registrano pareri e comportamenti di amici e nemici. Erano, questi liberali tagliati fuori dalla vita politica, uomini che cercavano certezze e tro-vavano solo voci, le quali finivano per incrinare anche le loro più robuste certezze. In questa condizione deprimente le sue riflessioni sull’umanità sono spietate. Non solo la propria classe, ma tutti gli appaiono innegabilmente bestiali. Il 5 giugno 1941 annota:

Siamo illusi, da lontano ci immaginiamo gli uomini sui quali fidiamo come forniti di quelle qualità che noi più stimiamo: intelligenti veritieri, disposti ad ogni sacrificio. Invece gli uomini sono, anche in Francia, anche in Inghilterra, anche in America, povere bestie che si muovono secondo l’interesse e che a un certo momento abbandonano la partita per stanchezza e tornaconto […] Anche sotto i tedeschi gli uomini continueranno a fare all’amore, a mangiare,

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CTRL ZUniversità IULM Milano

Alla periferia di nessun centro

Alla periferia di nessun centro, documentario realizzato da: Ctrl Z Formato: Mini DvDurata dell’estratto: 26’ 51”

L’idea di realizzare un documentario sulla città di Milano ci fu lanciata dal regista Marco Pozzi, che all’interno del Corso di Laurea in Televisione, Cinema e Produzione multimediale che noi frequentiamo presso l’Università Iulm, ci insegnava a muovere i primi passi nel mondo del cinema. Accogliemmo la proposta con entusiasmo: raccon-tare Milano, in fondo, non sembrava un’impresa così ardua. Sbagliato. Le prime riu-nioni, fatte di infiniti brainstorming e bellissime idee, ci fecero scontrare con la nostra naturale e giustificata inesperienza: imparammo che era necessario confrontarsi con i mezzi a disposizione e che, a volte, un’idea grandiosa può restare solo sulla carta se non si fanno dei calcoli con la realtà. I nostri mezzi erano soltanto delle telecamere di-gitali, nemmeno un soldo e nove teste molto creative ed entusiaste. Ma non ci scorag-giammo e , a poco a poco, le nostre idee iniziarono a prendere una forma. Raccontare una città complessa e sfaccettata come Milano attraverso un punto di vista che non fosse né scontato né banale, è sempre stata la nostra priorità: lo spirito più profondo di questa città è sfuggente, difficile da congelare in un’immagine o in una parola. Milano cambia, muta, si trasforma, e lo fa in continuazione. Noi, con il nostro film, cerchiamo di seguirla: nessuno di noi lo ha mai deciso, nessuno ha scelto razionalmente di lavo-rare in questa maniera ma, quasi fosse una necessità, l’approccio a questo progetto è lentamente diventato una sorta di improvvisazione. Se sfogliando il giornale leggiamo che un sommergibile attraverserà la città o che nelle stazioni della metropolitana verrà simulato un attacco terroristico, con un giro veloce di telefonate e e-mail, mettiamo in piedi una troupe che si precipiterà a filmare tutto. Può anche capitare che qualcosa ri-manga inutilizzato: a volte creiamo e poi cancelliamo. Come quando si scrive qualcosa su un documento Word: se non ci piace più, basta schiacciare i tasti Ctrl Z. Milano che non si lascia raccontare, Milano che va inseguita, Milano che non ti permette di capire qual è il punto da colpire per tirare al bersaglio: in questo senso crediamo di trovarci alla periferia di nessun centro. Non sappiamo ancora dove ci troveremo alla fine di questo film. Lasceremo che le immagini, accostate le une alle

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altre, dialoghino tra loro, raccontandoci una città che, forse, ci sembrerà di non aver mai conosciuto prima. Gli estratti del film presentati al convegno sono soltanto tre, una piccola ma interes-sante porzione dell’intero documentario. Abbiamo scelto di proiettare la sequenza de-dicata alla zona della Bicocca, le interviste in Piazza Cadorna relative al monumento Ago, filo e nodo e l’intervista al poeta milanese Franco Loi.

La Bicocca

Prima degli anni ’80 il nome Bicocca era associato a quello di Pirelli, indicando quella zona alla periferia di Milano in cui avevano sede le fabbriche della nota azienda milanese. Oggi la Bicocca è nota per ospitare il distaccamento dell’Università degli Studi di Milano e il Teatro degli Arcimboldi, costruito durante il periodo in cui La Scala era chiusa per restauro. Attorno al polo culturale costituito dal binomio Arcimboldi – Bicocca è seguito un consistente sviluppo edilizio. L’intero progetto, firmato dall’architetto Gregotti, segue lo stile del razionalismo, segnato dalle architetture squadrate e dalle linee rette. La Bicocca è stato uno dei luoghi di Milano che più ci hanno interessato fin dall’ini-zio del nostro progetto. L’idea che avevamo di questa zona era quella di un quartiere – fantasma, di giorno vivacizzato dalla presenza degli studenti universitari ma poi privo di una presenza umana costante. Un non luogo in cui l’insediamento umano non si sviluppa naturalmente, ma segue un progetto costruito razionalmente come le linee rette di Gregotti. La Bicocca per questa sua duplice vita diurna e notturna ci appariva inoltre come una metafora dell’intera città di Milano, riempita di giorno da migliaia di pendolari che non la abitano. Ci chiedevamo quindi come vivessero gli abitanti di un quartiere che non offre infra-strutture se non un’Università e un teatro (recentemente si è aggiunto un multisala). In realtà sembra che i milanesi non abbiano particolarmente a cuore l’estetica della zona (che potrebbe essere comparata a un’opera di De Chirico) e che apprezzino invece l’abbondanza di spazio e la modernità delle costruzioni.

Ago, filo e nodo

Dal gennaio 2000 in Piazza Cadorna domina il monumento Ago, filo e nodo, creato dall’artista svedese Oldenburg e posto al centro del piazzale dall’architetto Gae Aulen-ti, che ne ha ripensato l’immagine. L’enorme scultura è composta da un ago d’acciaio, piantato nel terreno, alto 19 metri e da un filo in vetroresina armata lungo 86 metri. Il filo è infilato nell’ago, gli si avvol-ge attorno, e sbuca, come se passasse sotto l’asfalto, in un’enorme vasca d’acqua. L’ago è lo strumento che sottolinea il legame, spesso invisibile, tra la città e la sua produttività, il nodo rappresenta il punto di partenza di un processo produttivo il cui percorso è sottolineato, in concreto, dal filo. L’opera è insomma una grande metafora della produttività della città di Milano. Bene, noi tutto questo lo sappiamo. Ma i mi-

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lanesi, cosa ne pensano? Conoscono il significato della scultura? E la apprezzano dal punto di vista estestico? Noi glielo abbiamo chiesto, e il risultato sono delle interviste surreali e divertenti. Ecco qualche risposta:

1. Non ti saprei dire il significato di questa cosa… Io credo che sia l’ago, metaforica-mente parlando, di quell’ago un po’ fastidioso che entra nei corpi nostri, no? in qualche maniera… i corpi di quelle persone che credono non sia possibile vivere in un’altra maniera… solo che qua subentra il paradosso perché mi sembra proprio fatto da quel-le persone che credono che esista… che sia questa la vita giusta da vivere, no?… in qualche maniera…

2. Quello vorrebbe essere la moda che c’è a Milano, ago, cotone e non so… filo, ago… perché l’industria della moda…però io la vedo inconsapevole…

3. Il significato per loro sarebbe quello: che lo straniero che arriva da Malpensa deve considerare che l’ago col filo lega Malpensa a Milano… a me mi sembra una cosa diffi-cile però che l’ago col filo così… che lo straniero che arriva vede e decide il legamento Milano-Malpensa…

4. Perchè l’hanno comprato, non so, non mi ricordo da dove… un tale li aveva fatti e poi non era riuscito a venderli ed è venuto qui a Milano…

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Franco Loi

Franco Loi è nato a Genova nel 1930, ma vive a Milano fin da quando era bambi-no. Ha pubblicato una ventina di libri di poesia in dialetto milanese tra cui Stròlegh (1975), Teater (1978), L’aria (1981) e Isam (2002). Nel 2005 gli è stato assegnato il Premio Librex-Montale. Loi rappresenta una personalità importante nel panorama letterario milanese e, so-prattutto, incarna la visione di una Milano che non c’è più: il ricordo di quella piccola Amsterdam racchiusa dalla cerchia dei Navigli, di quella città dal fascino così straor-dinario che, nell’Ottocento, era definita da Stendhal come la più bella città d’Europa. Una città aperta all’altro, che ha fatto dell’operosità il suo credo e in cui perfino la spiritualità si manifesta nell’agire materiale delle persone. Quella di Loi è una lettura poetica con cui avevamo necessità di confrontarci, una visione radicata nel passato che era indispensabile per comprendere l’inafferrabile presente. Ecco i motivi che ci hanno spinto a intervistarlo. L’incontro con Loi è stata una delle prime tappe del nostro percorso e, inevitabilmen-te, ne ha influenzato i tracciati. Il poeta ci ha portato a riflettere su tematiche significa-tive quali l’operosità, la vocazione commerciale della città e il suo fermento strutturale che ha da sempre alimentato la nascita di importanti movimenti sociali. L’intervista che abbiamo realizzato si presenta come un viaggio - racconto in una Milano d’altri tempi tra racconti d’infanzia e rime in dialetto. Dopo un breve tragitto in macchina, infatti, Loi ci ha portato sui luoghi della sua giovinezza, nel quartiere del Casoretto, e qui il poeta ha passeggiato nelle vie del rione e dei suoi ricordi. Ci ha raccontato quindi delle serate trascorse sui gradini della Camera del Lavoro a parlare con gli amici o a suonare la chitarra e di quella serie di personaggi bizzarri che popo-lavano la periferia milanese di allora: «Il Pasqualone, nuotatore grosso e grasso, ma agilissimo che andava in giro in bicicletta con le gambe sopra il manubrio e sfidava chiunque a fare giochi di agilità» era solo uno dei tanti. Infine, siamo arrivati davanti a quella “villa scüra” in via Martini dove è ambientata la poesia che lo stesso Loi andrà a recitare subito dopo. Il componimento fa parte della raccolta L’angelo ed è la storia di un uomo che, professandosi un angelo, viene rin-chiuso in manicomio e qui descrive il paradiso come l’insieme dei momenti più belli della propria esistenza, di quegli attimi di incantamento che illuminano di bellezza la vita degli uomini e che li situano in armonia con il mondo. Uno di questi momenti di incantamento è quello descritto nella poesia: il ricordo di un bambino che spiava una giovane novizia mentre si spogliava da dietro una finestra attraendo gli sguardi e i sogni del gruppo di piccoli amici:

“Te sé segür?” “Se te disi che par, di ser,de vèss al cine…” “Ma… biott?” “Biott”…”E de quand?”Che sera sensa lüna, in via Martini:la villa scüra e vèrta la fenestra…“Vah, sü la müra el Topo…” “Brütt bastard…”“Feníss che vègn no…” e par un sògn……el cachi, el prefüm di tilli, di müghètt,i facc de fögh, e là, due che’l bricòcchsa pèrd dré del scirés e la veranda

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del Luciano svapora i sces, l’inoraquél snegràss che l’è la sera del giardin,là, tra la nostra e la villa di mònegh,sü la müra a recâm del temp de guèra,gh’è la banda del Zonca, el Mario Ferro,Giorgio, L’Avar, i fradellin Lungun…“Sé fan?” “Sté vö che fan? Se fan di segh!”E la nott nera la va tra i rös slavadegh,l’erga canadesa, i grand lassü,e fina i pappatas rúnzen interna,j öcc di fjö, l’indurmentàss di fiur- quj cinq che pend’ me zücch de la fenestra,e quèla stansa vöja nel prefüm…“E’lura? Sé la fa?” “L’è dumâ vöna?”“Mí me par lunga…” “Cittu!”…Carnesina‘na sottoveste se sfira ne la lüs.Un gran silensi. A la bas’giur l’è l’ariaA möv i brasc, quèl spettenàss de ner,e ne l’uscüritâ la dansa bianca,de quj tendin’ me nívur, ché se arsai spall de fonna tra i cavèj nel ciel…“La mònega?” “Nuvissia…” “Diu!... La se volta…”e nel duls cör de magg, biàncur’ me lüna,i do tettin în un suspir de lé.“Tè ‘ist?” “Û’ist…” “Madona…” …Dulsa,nel möess, se smorsa la fenestra,un gatt el scappa, luntan se sent un tram.

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Guerra asimmetrica. Quanto poco conosciuto possa essere questo concetto, storica-mente parlando, non è nè nuovo nè inedito. Come la definizione stessa suggerisce, una guerra asimmetrica è un conflitto in cui una delle parti belligeranti è in possesso di una quantità soverchiante di uomini, mezzi e logistica rispetto all’altra. Di conseguenza, la parte belligerante in condizioni di inferiorità è costretta a utiliz-zare la configurazione del terreno e mezzi “non convenzionali” – virgolette d’obbligo – nello sforzo di ridurre la asimmetria. Uno dei casi più eclatanti di guerra asimmetrica, o quanto meno di “battaglia asimmetrica”, è la Battaglia delle Termopili. Forse i guerrieri spartani che stallarono l’avanzata di un milione di soldati erano davvero solamente trecento. Forse erano di più, oppure di meno. A tutti gli effetti, la gola delle Termopili si rivelò il fattore geo-grafico determinante nello sforzo del “livellamento della simmetria”. Pressochè tutte le guerre combattute dall’Impero Romano nei secoli della sua espansione furono guerre asimmetriche. I romani avevano dalla loro la disciplina, l’organizzazione e la tattica. Elementi questi che portarono i romani a trionfare quasi sistematicamente. Per contro, nell’era del primo imperatore Augusto, la sconfitta delle legioni di Varo nella Selva Nera a opera del capo germano Arminio è un altro esempio eclatante di “livellamento della simmetria” del conflitto. Falsi messaggi indussero Varo a deviare sempre più in profondità in aree ignote e a densa forestazione. L’effetto distruttivo del-l’assalto a tenaglia lanciato dai germani di Arminio venne magnificato proprio dalla scarsa conoscenza del terreno dello scontro da parte dei romani. Tre secoli dopo, nella cruciale Battaglia di Adrianopoli, combattuta in Asia Minore attorno al 350 d.C., la asimmetria dello scontro era livellata dalla fiera determinazione della fanteria dei Goti, i quali sbaragliarono fanteria e cavalleria romana prendendo anche la testa dell’Imperatore. Da prettamente asimmetrica, la guerra pre-caduta del-l’Impero Romano di Occidente aveva superato la cuspide simmetrica e stava spostan-dosi verso una asimmetria in senso opposto.

Per intuito e per definizione, qualsiasi guerra di guerriglia è una guerra asimme-trica.

SERGIO D. ALTIERIScrittore

Guerra asimmetrica:a che ora è la fine del mondo?

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Saltando in avanti di quasi millecinquecento anni rispetto alla Battaglia di Adria-nopoli, quello che gli storici identificano come “Conflitto Peninsulare” – il tentativo di conquista della penisola iberica da parte di Napoleone Bonaparte – resta un esempio da manuale di guerra asimmetrica. Le forze spagnole, sostenute dalla fanteria inglese – la celebri Green Jackets – erosero fino all’osso il più potente esercito d’Europa. L’ultima guerra simmetrica della storia europea fu la Prima Guerra Mondiale. Tal-mente simmetrica, infatti, da tramutarsi in guerra di trincea. La Prima Guerra Mon-diale aveva la tecnologia del XIX Secolo ma ancora la strategia dei ranghi schierati frontalmente, evoluzione nemmeno troppo evoluta della primaria Falange Macedone. La Prima Guerra Mondiale fu un controsenso bellico. Il quale portò a un farnetican-te stillicidio di assalti reciproci verso posizioni tatticamente trascurabili e strategica-mente inutili. Nella sola Battaglia di Verdun, 1916-1918, si calcola caddero un milione e duecentomila soldati da ambo le parti senza che il fronte si spostasse mai per più di qualche chilometro. In sostanza, la Prima Guerra Mondiale venne vinta dalla parte belligerante che non aveva più soldati da mandare al macello. I massacri della Prima Guerra Mondiale – e le evoluzioni tecnologiche nel venten-nio successivo - spostarono il concetto bellico verso la “guerra di movimento”, asse portante della Seconda Guerra Mondiale. Le folgoranti blitz-krieg di Hitler furono simultaneamente il trionfo della guerra asimmetrica e l’apoteosi della guerra di movimento. La storia però ci insegna che quello che doveva essere un conflitto della durata di sei mesi, si tramutò in olocausto dilatato su sei anni che portò alla distruzione quasi completa dell’Europa Occidentale e della Unione Sovietica fino agli Urali. Nella Seconda Guerra Mondiale, la asimmetria della guerra si spostò progressiva-mente da una parte belligerante all’altra: dall’Asse agli Alleati. La sua conclusione – cento divisioni sovietiche lanciate contro Berlino, i bombardamenti nucleari ameri-cani di Hiroshima e Nagasaki - fu l’orgia della asimmetria rovesciata. Nessuna guerra combattuta dopo la Seconda Guerra Mondiale è stata una guerra simmetrica. Semplicemente perchè non poteva esserlo.

Il problema più grosso della guerra asimmetrica è squisitamente politico. Nelle società avanzate contemporanee – così aperte e soprattutto così “democrati-che” – il caduto in guerra è diventato un imbarazzo elettorale. Nessuna brave madre voterà per un nuovo mandato il governo che ha mandato suo figlio a crepare per cause più o meno scure in luoghi più o meno remoti. Nell’ultima fase della totalmente asimmetrica Guerra del Vietnam gli stati Uniti avevano mezzo milione di uomini, tre flotte e svariate migliaia tra aerei ed elicotteri. Gli Stati Uniti furono costretti a ritirarsi, la loro coesione sociale era in pezzi, la loro economia era bancarotta. I sovietici furono parimenti costretti a ritirarsi dall’Afgani-stan e quel conflitto puramente asimmetrico fu una delle cause primarie della fine del comunismo in Russia. Come la prima guerra dell’Iraq, 1990, anche l’attuale seconda guerra dell’Iraq – eretta sulla frode delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein - è puramente asimmetrica. Sussistono pochi dubbi su come stia andando. La Coalition of the Willing è ormai sgretolata. Gli Stati Uniti hanno gettato a fondo perduto qualcosa come due-mila miliardi di dollari. L’intero quadrante del Golfo Persico è destabilizzato in modo terminale. Non esiste una exit strategy americana.

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GIUSEPPE LANGELLAUniversità Cattolica di Milano

Ecce homo.Sulla letteratura della guerra alpina

Col suo carico immancabile di gesta e di carneficine, con le sue prove continue di coraggio e di adattamento, allo stremo della resistenza fisica e oltre, coi suoi cruciali appuntamenti, soprattutto, con la morte annunciata e con quella che non bussa neppu-re alla porta, ma colpisce a tradimento, la guerra in divisa rappresenta il più clamoroso e radicale sovvertimento della vita in abiti borghesi, dei suoi ritmi, dei suoi comodi, delle sue occupazioni quotidiane e persino, in certo modo, del suo destino. Benché in buona parte da ascrivere al retaggio polemico dell’ideologia vociano-lacerbiana 1, gli spiriti anti-borghesi di cui sono intrisi, in particolare, due classici della ‘grande guerra’ come Con me e con gli alpini di Piero Jahier e Le scarpe al sole di Paolo Mo-nelli riflettono la piena coscienza di questo irriducibile contrasto, stigmatizzando la «città tumultuosa […] che odora di vizio e di vigliaccheria» 2. Il fatto è che, nel bene e nel male, la guerra sottrae chi la prova al ‘grigiore’ delle giornate che si susseguono uguali e insignificanti sull’asse di un tempo in folle, senza storia e senza movimento 3. Un’esistenza insulsa e gelatinosa non poteva sopportare il peso di una storia, nonché pubblica, neppure privata, né quindi dar luogo a un mythos, alla proiezione di un desti-

1. Sul ruolo avuto dalle riviste fiorentine d’anteguerra nella campagna interventista, cfr. M. Isnenghi, Il mito della grande guerra (1970), Il Mulino, Bologna 1997, pp. 77-178. Si veda inoltre C. Donati, Gli scrittori e la guerra, in Letteratura Italiana Contemporanea, diretta da G. Mariani e da M. Petrucciani, Lucarini, Roma 1979, I, pp. 881-895. 2. P. Monelli, Le scarpe al sole. Cronache di gaie e tristi avventure di alpini di muli e di vino, Mondadori, Milano 1971, p. 68. Ma la princeps è Cappelli, Bologna 1921. M. Schettini, nell’antologia La prima guerra mondiale. Storia/Letteratura, Sansoni, Firenze 1965, p. 697, riporta qualche stralcio dell’«esame di coscienza» da cui prende le mosse il libro di Monelli, per sottolineare quanto, nel favore fin troppo ingenuo e baldanzoso inizialmente accordato dal-l’autore all’eventualità di una guerra, avesse influito, appunto, «il fastidio per la vita borghese», «vuota» e «mediocre», col suo «studio muffoso» e l’ostinazione della «carriera». Di Con me e con gli alpini si dirà più avanti: ma cfr. in particolare, per questo aspetto, Consolazioni del militare e Etica del montanaro.3. Per questo, nella sua monografia Isnenghi ha avuto buon gioco ad inseguire, attraverso le numerose testimonianze letterarie fiorite a ridosso della guerra (prima, durante e dopo), il filo rosso di una giustificazione esistenziale dell’evento. Così, per limitarci ai due libri appena

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no comune nell’intreccio di una vicenda esemplare. Per riaprire, perciò, una riflessione a tutto campo sul senso della vita, sulla dignità dell’uomo e sui valori da coltivare, e insieme per salvare una residua possibilità di racconto, la letteratura del Novecento non ha trovato di meglio che affidarsi a qualche brusca e drammatica interruzione forzata degli affari correnti, a cominciare dal contrappasso violento della guerra, in-comparabilmente più devastante della peggiore catastrofe naturale. Tenendo vivo il sentimento tragico dell’esistenza, il racconto della guerra ha consentito l’estremo pro-trarsi, in piena modernità, di un genere letterario altrimenti condannato all’estinzione per mancanza di materia, come quello dell’epica. E invece Emilio Lussu può porre a epigrafe di Un anno sull’Altipiano il motto di Baudelaire «J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans» 4. Nelle forme antiretoriche tipiche della scrittura novecentesca, le memorie di guerra sono quel che resta delle antiche canzoni di gesta 5. Ha scritto Giulio Bedeschi, al termine delle sue Centomila gavette di ghiaccio, dei superstiti di due campagne assurde e disastrose, prima tra i «valloni fangosi» e le «pie-traie d’Albania» e quindi nel gelo sterminato della steppa russa: «la loro era una lunga e così tragica storia quale di rado gli uomini sono condannati a vivere sulla terra» 6. L’esperienza della guerra rappresenta, per l’uomo contemporaneo, la saison en en-fer per eccellenza, e tanto più brutale e sconvolgente quanto meno attesa e desiderata. Nel suo ‘inferno’ artificiale Rimbaud si era infatti tuffato sua sponte, ricorrendo con lucida determinazione alle pratiche del vizio e del disordine morale per sfuggire alla morsa dell’alienazione borghese. L’inferno, invece, desolatamente comune, elementa-re e protratto delle trincee e delle marce estenuanti, delle bombe e della fame, della cancrena e della prigionia, sorpassa ogni più azzardata previsione, impone all’uomo in guerra la cruda legge di una necessità estrinseca e imperativa, davanti alla quale è giocoforza soccombere, piegarsi o morire. Basta una «fucilata», al tenente degli alpini Paolo Monelli, per avvertire che la «macchina» della guerra

ti ha preso dentro inesorabilmente. Ci sei. Non ne uscirai più. Non ci cre-devi forse ancora, fino a ieri, giocavi con la posta della tua vita come con la certezza di poterla ritirare 7.

citati, Con me e con gli alpini è «una testimonianza non dubbia di quanto sia consistente e pri-maria la disposizione psicologica alla guerra, la fruizione esistenziale della grande occasione […]. Il senso di spreco dell’esistenza, di rivolta psicologica alla massificazione, l’aspirazione a una totale rimessa in questione della vita, che s’erano espressi nel burocrate Gino Bianchi e nelle poesie interventiste, rappresentano la condizione preliminare del senso di appagamento, di realizzazione personale, che domina il tenente degli alpini. Anche qui, la guerra ripaga della vita. Le ridona dignità e valore. Riscatta dalla quotidianità». Non diversamente da Jahier, l’au-tore delle Scarpe al sole aderisce alla guerra con «la sensazione di vivere una stagione unica, irripetibile, della propria esistenza di individuo – qualcosa che ripaga alla fine delle sofferenze e delle stanchezze» (Il mito della grande guerra, cit., pp. 188 e 214).4. E. Lussu, Un anno sull’Altipiano, Edizioni Italiane di Cultura, Parigi 1938; poi Einaudi, Torino 1945.5. Ma per un quadro più esauriente della «sopravvivenza dell’epica» in età moderna si veda S. Zatti, Il modo epico, Laterza, Roma-Bari 2000, particolarmente pp. 5-15. A questo libro si rimanda anche per una grammatica generale del codice epico.6. G. Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio (1963), Mursia, Milano 1994, p. 418.7. P. Monelli, Le scarpe al sole, cit., p. 18.

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Ma la guerra non si può accettare con riserva, arrogandosi la facoltà di decidere fin dove rischiare e quando. Neppure a chi si è offerto di andarci volontario, è concesso di considerarla alla stregua di una roulette in cui puntare a capriccio. La guerra, cieca e tiranna, s’impadronisce degli uomini, li riduce alla sua mercé. Ma proprio perché rappresenta un’esperienza-limite dai contorni infernali, essa pone drammaticamente l’uomo di fronte alle domande capitali del proprio essere al mondo, obbligandolo a fare una cernita rigorosa di ciò che conta davvero da quanto è inessenziale. La guerra è infatti una scuola – per dirla con Jahier – di «vita assoluta», in cui il soldato pencola, vittima predestinata, sull’orlo della morte sempre in agguato8. Nella coscienza di chi combatte, la morte non è un’incognita aleatoria, un’eventualità più o meno remota, ma uno sbocco pressoché obbligato. Per questo essa diventa misu-ra della vita, mettendo a nudo la ridicola inconsistenza delle passioni meschine, delle fisime e dei rancori che tanto affannano gli uomini in borghese. Quando «il destino ti scaraventa […], con un calcio, nella mislea» – annota Monelli – guai se non hai ancora imparato a gettare «il fardello delle cose vane dietro la schiena» 9. La contemplazione quotidiana della morte è una via aurea, ancorché increscio-sa, per giungere alla scoperta delle verità più importanti: «Ora noi andiamo verso la morte. È una strada senza bugie» 10. E Jahier fa il proposito di «profittare ogni giorno / di questa chiarezza di moribondo che la guerra ha donato» 11. Se il senso ultimo della vita non si coglie che sul punto di lasciarla, l’esposizione continua alla morte propria dell’uomo in guerra costituisce un osservatorio tragicamente privilegiato, di straordi-naria lucidità. L’estrema familiarità con la morte fa anzi del combattente una categoria a sé, definibile proprio a partire dall’imminenza di un destino segnato: Jahier si tiene per «moribondo», mentre Monelli, memore forse del saluto che i gladiatori, prima di affrontarsi nei circhi romani, lanciavano all’imperatore, si iscrive nella classe dei «morituri, presi nel macinio della battaglia disperata» 12. E non c’è lettore del Sergente nella neve, il piccolo capolavoro di Mario Rigoni Stern sulla campagna di Russia, cui non sia rimasta impressa la domanda mille volte ripetuta da Giuanin, come un tarlo che non cessi mai di rodere e scavare: «ghe rivarem a baita?» 13

Per questo, in certi momenti l’angoscia della morte si attacca, anche senza volerlo, alla pagina, come il viscido mare di fango dell’Albania battuta dalla pioggia o la neve gelata del terribile inverno russo. E tanto alto è stato il prezzo pagato alla guerra in termini di vite umane e di «inaudito patire», che non a torto Bedeschi ha potuto defi-nire le sue Centomila gavette di ghiaccio una «storia di dolore e di morte», «vista, per così dire, dalla parte» dei «caduti» 14. La memorialistica alpina è costellata di croci e di mesti, pietosi riti di sepoltura. Basti qui ricordare, nel libro di Manlio Cecovini, il ri-cupero della salma del capitano Ferroni, precipitato in un salto della montagna durante

8. P. Jahier, Scoramento e tentazione, in Con me e con gli alpini, Libreria della «Voce», Firen-ze 1919. Ma si cita dall’edizione Vallecchi delle Opere, III: Ragazzo - Con me e con gli alpini, Firenze 1967, pp. 212-213. 9. P. Monelli, Le scarpe al sole, cit., pp. 78-79.10. P. Jahier, Criticano, in Con me e con gli alpini, cit., p. 134.11. P. Jahier, Fratello, in Con me e con gli alpini, cit., p. 151.12. P. Monelli, Le scarpe al sole, cit., p. 132.13. M. Rigoni Stern, Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia (1953), Einaudi, Torino 1962, pp. 20, 31, 140 e passim.14. G. Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, cit., pp. VII-VIII.

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una marcia notturna, mentre infuriava la tormenta:

Afferrammo il cadavere per un braccio e lo voltammo di schiena. Non avrei mai pensato che un cadavere potesse pesare tanto. Eravamo tutti tre grandi e forti, ma ci costò fatica a metterlo supino. Della faccia si vedeva davvero poco: un gran naso quasi blu e la bocca aperta piena di neve. Gli occhi non si vedevano perché il ghiaccio aveva steso una patina uniforme dai sopraccigli agli zigomi. Il resto era coperto dal passamontagna. Scozziero, ch’era il più stanco, fu messo alla funicella; Zilio ed io tirammo. Alle dodici e mezzo eravamo sotto lo strapiombo. Legammo la corda alla funicella da ripiego che pendeva dall’alto e demmo il segnale. Prima salì la corda e poi il cadavere. Si alzò tra di noi, stretti nel piccolo disagevole piano inclinato; si alzò proprio in piedi, grande e orrendo, colle braccia pendule e la testa che sussultava con grotteschi inchini. Giganteggiò enorme sulla punta dei piedi come un burattino apocalittico e infine fu un uomo impiccato, un giustiziato appeso alla forca. Colle facce rivolte all’insù l’ultima cosa che vedemmo di lui furono gli scarponi dalle suole chiodate; grandi scarponi che ballavano e sbattevano uno contro l’altro come fossero vivi, ancora vivi 15.

Nessuno vorrà negare, a questa pagina di raccapricciante bellezza, capace di avvol-gere la scena in un’atmosfera da incubo surrealista, le più alte onoreficenze letterarie. Peraltro, in quel «burattino apocalittico» c’è la consapevolezza di trovarsi totalmente in balìa del destino, vittime sacrificali di un’idea superiore o di un disegno di cui s’ignorano, non di rado, vantaggi e contenuti. Il «popolo digiuno» di Jahier «non sa perché va a morire» 16, né hanno le idee più chiare gli alpini di Monelli:

Ma che sanno essi, ma che so io di quello che succede? Nulla. Si combatte si va si resta, numero nella massa che ondeggia, che manovra su questa fronte di montagna dai ghiacciai ai giaroni dolomitici – e nel cuore un rancore sordo, uno strazio di non sapere di non vedere, ombre nel fondo d’una valle nera che vanno senza una risposta al loro domandare, rifuggendo da un male ignoto, affrettando a Dio sa quale male maggiore. Gregge. Domani ci diranno: Alt, e muori qui. E si morderà la neve lì, ignorando se ciò ha giovato o no, se almeno il sacrificio vuol dire una vittoria duecento chilometri più in là, per lo meno un paese salvato dal bombardamento, una riscossa favorita per più felici tem-pi. […] Ma dispacci cifrati e sigle e misteri ronzano le notti nei fili, quando noi s’è all’appostamento; e c’è lontano lontano di qui, in un bel castello ovattato di tappeti e di arazzi, un ufficiale che scrive, un dattilografo che copia, un piantone che esce, un colonnello che sacramenta: la nostra mitologia, gli dèi misteriosi che tirano i fili del nostro destino. Questa è la guerra. Non il rischio di morte, non la rossa girandola della granata che accieca e seppellisce in un turbine sonoro […]: ma sentirsi così marionette nelle mani di un burattinaio ignoto gela talvolta il cuore 17.

15. M. Cecovini, Ponte Perati. La Julia in Grecia, Vallecchi, Firenze 1966, p. 158.16. P. Jahier, Dichiarazione, in Con me e con gli alpini, cit., p. 115.17. P. Monelli, Le scarpe al sole, cit., pp. 54-55.

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La struttura frammentaria di questa letteratura di gesta, che anche quando non adotta manifestamente la forma-diario 18 allinea in sequenza puramente cronologica episodi slegati, bozzetti o rapide annotazioni, trova proprio nell’estrema precarietà della sorte e nell’ignoranza dei piani escogitati dai comandi militari la sua ragione fondante. L’assoluta mancanza d’intreccio non dipende, cioè, dalla scelta preventiva del genere letterario in cui collocare la narrazione, ma traduce la condizione al buio dei soldati al fronte, pedine mosse da lontano, continuamente in balìa di ordini supe-riori di cui non sono in grado di valutare né il movente, né la logica, né la portata, né la strategia. Chi fa la guerra non sa neppure cosa lo attende domani, se dovrà combattere, presidiare il suo posto o invece occupare un altro punto dello scacchiere. Chi decide per lui, il ‘burattinaio ignoto’ che tiene in pugno i fili della sua come di innumerevoli altre vite e le intreccia in un’unica storia, rimane completamente inaccessibile, mente fuori campo che come una Sibilla disperde i decreti della sua volontà per i mille rivoli dei fonogrammi, delle consegne e dei fogli di servizio. Al povero soldato, ‘numero nel-la massa che ondeggia’, non giunge che un frammento infinitesimo di quella volontà, dal quale non è più possibile risalire alla visione d’assieme. A lui tocca solo obbedire, e ‘consolarsi’ di questo. Scrive Jahier: «non hai da pensare a domani. Il tuo destino non dipende da te, ti viene da fuori. Tu sei un uomo che nasce alla sveglia e muore alla ritirata» 19. Il senso ultimo del suo sacrificio gli sfugge. La guerra, per lui, non è un in-treccio, ma un semplice séguito di azioni. La vita al fronte si vive e si muore giorno per giorno, alla cieca. Per chi combatte, la storia procede semmai in un’unica direzione, verso l’incontro, fortuito o coatto, in ogni caso assai probabile, con la morte. Si comprende, allora, come mai questa letteratura di memorie scarti a priori la pro-spettiva dall’alto e dall’esterno caratteristica della storiografia e dei dispacci militari, che per dominare col proprio sguardo onnisciente l’intero teatro delle operazioni fini-scono per appiattirlo sullo scacchiere virtuale di un atlante o di una carta topografica, riducendo la guerra a uno spostamento di bandierine. La moderna scrittura di gesta opta al contrario – e non avrebbe potuto essere altrimenti – per una rappresentazio-ne delle vicende belliche dal basso e dall’interno, rinunciando piuttosto alla visione d’insieme pur di seguire da vicino le sorti di un gruppo di uomini in carne ed ossa, per i quali la guerra, combattuta in prima linea, non studiata a tavolino, resta un fatto

18. Almeno di passaggio, vorrei qui ricordare, per il loro cospicuo valore documentario, altre due cronache della spedizione alpina sul Don, concepite entrambe in forma diaristica: il Diario, appunto, di Ferruccio Panazza (tenente di artiglieria in forza alla 33a batteria della Tridentina), pubblicato dall’Ateneo di Brescia come supplemento ai Commentari del 1997; e Vita quoti-diana durante la campagna di Russia (1942-1943), di Pasquale Grignaschi (sottotenente della 124a compagnia artieri della Cuneense), edito da Interlinea, Novara 2000, con l’eccezionale corredo di oltre 100 fotografie inedite scattate dall’autore. Si noti, peraltro, che i due resoconti sono il frutto di una rielaborazione successiva di appunti originariamente quanto mai scarni e lacunosi. Il mantenimento del genere letterario iniziale, con la rinuncia che comporta al punto di vista, nettamente più comodo in simili circostanze, del memorialista onnisciente che rievoca a posteriori, risponde a un proposito di fedeltà all’esperienza dominante e caratteristica di ogni uomo in guerra, vale a dire l’impossibilità di azzardare qualsiasi ragionevole previsione su quanto potrà accadere nel futuro anche immediato.19. P. Jahier, Consolazioni del militare, in Con me e con gli alpini, cit., p. 189.

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SILVIA MORGANAUniversità degli Studi di Milano

Leggere per non dimenticare:lettere dai lager di internati militari italiani

(1943-44) 1

Non volevi la guerra, e sì, l’hai fatta.Eri un bravo, e scrivevi: “Mamma, quandofinirà questa vita disperata?”E scrivevi ai fratelli come a figli,aspri rimbrotti, amorosi consigli.“Posso non ritornare, il babbo è un santoper noi; vi ho dato solo che dolori;perdonatemi, cari genitori”

UMBERTO SABA

1. La presentazione in Powerpoint a questo Convegno è stata ideata e curata dal mio allievo Oscar Brambani, che qui ringrazio.2. U.Saba, Il Canzoniere, Torino, Einaudi, 1961, p.1593. T.De Mauro, Storia linguistica dell’italia unita

Lo stile epistolare dei soldati italiani della Grande guerra è evocato nelle Poesie scritte durante la guerra in cui Saba, rivolgendosi a «Nino / Tibaldi che non torni a chi t’aspetta / che non torni da Monte Sabotino», ne stilizza alcuni tratti emblematici di scrittura popolare (l’uso incerto delle doppie e del che connettivo generico: dispe-ratta, solo che dolori). 2 I due conflitti modiali hanno rappresentato momenti cruciali anche per la storia lin-guistica italiana: fenomeni di grande portata avviati dopo l’Unità, come il progressivo indebolimento dei dialetti e l’avanzata dell’italiano, furono potenziati in modo deci-sivo dalla mescolanza di milioni di soldati di diversa classe sociale e provenienti da diverse regioni. E’ stato giustamente osservato che la Grande Guerra chiude il primo imponente processo di trasformazione sociolinguistica del nostro paese, innescato da fattori sociali ed economici quali l’industrializzazione , l’inurbamento, le emigrazioni all’interno e all’estero, la burocrazia, la scuola. 3 Due furono infatti le conseguenze della situazione creata dal conflitto: l’aumento dell’italofonia, per il bisogno di co-municare e di intendersi, che rendeva indispensabile abbandonare l’uso esclusivo del

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proprio dialetto e impiegare l’italiano; e l’incremento dell’alfabetizzazione, per l’esi-genza di mantenere attraverso le lettere una “conversazione a distanza” con la fami-glia, che imponeva anche a persone delle classi inferiori di acquisire una certa abilità alla scrittura 4. La prima significativa raccolta di testimonianze di italiano scritto dalle classi subalterne furono proprio le lettere dei prigionieri italiani della Grande Guerra trascritte dal linguista austriaco Leo Spitzer 5, che durante il conflitto era addetto alla censura: interessi prevalentemente antropologici e psicologici stavano alla base della raccolta di Spitzer, che tuttavia sottolineava lo straordinario valore di documentazione linguistica delle lettere, scritte in massima parte da persone dialettofone di scarsa cultura. Non per niente proprio il libro di Spitzer ha avviato in Italia, negli anni ’70, il settore di ricerche sul cosiddetto “italiano popolare”, o meglio sulla scrittura popo-lare: un filone di studi significativo anche per le sue connessioni con i problemi delle strategie comunicative e dell’educazione linguistica 6. Sull’onda di questi interessi per la scrittura popolare sono state pubblicate negli ultimi decenni varie raccolte di lettere di militari: ricordo Sanga 7, Foresti 8, Bellosi 9 e in particolare Revelli per la documentazione relativa alla seconda guerra mondiale 10. Non sono state invece finora oggetto di attenzione le lettere scritte da una parti-colare tipologia di deportati militari, gli internati nei lager tedeschi dal 1943 al 1945, denominati IMI (Internati militari italiani): un acronimo che prese corpo solo a partire dal 20 settembre 1943, data in cui Hitler ordinò che i soldati italiani catturati in seguito all’armistizio dell’8 settembre (e diventati quindi nemici del Reich) dovevano essere considerati “internati militari”. La conseguenza più grave di tale etichetta fu di carattere giuridico, non potendo godere - ecco l’astuzia burocratica nazista - gli IMI della Convenzione di Ginevra, applicabile solamente ai Kriegsgefangenen (prigionie-ri di guerra), come lo erano i prigionieri inglesi, francesi, americani, per fare degli esempi. Le conseguenze principali di questo particolare stato giuridico furono, da un lato,il divieto di ricevere pacchi viveri e vestiari dalla Croce Rossa Internazionale; dall’altro lo sfruttamento degli IMI come manodopera, soprattutto nelle industrie belliche del Reich. Lo scarso interesse politico e storiografico nei confronti di questo aspetto della

4. Sulla efficacia del servizio militare nel diffondere l’uso di italianismi nel dialetto e nel promuovere una koiné italiana popolare interdialettale, e delle scuole reggimentali nel ridurre la percentuale di analfabeti v. De Mauro, storia cit.ASI 1900 p.1625. Italienische Kriegsgefangenenbriefe, Bonn, 1921, trad.it.Lettere di prigionieri di guerra italiani 1915-1918, Torino, Boringhieri , 1976, con una Nota linguistica di Laura Vanelli.6. Una sintesi del dibattito sul concetto di “italiano popolare” in A.Masini, L’italiano contem-poraneo e le sue varietà, in I.Bonomi, A.Masini, S.Morgana, M.Piotti, Elementi di linguistica italiana, Roma, Carocci, 2003, p.54 e ss.7. G.Sanga, Lettere di soldati e formazione dell’italiano popolare unitario, in La grande guer-ra: operai e contadini lombardi nel primo conflitto mondiale (Milano 1980)8. F.Foresti, Italiano e italiano popolare nella corrispondenza di soldati della grande guerra, in Era come a mietere. Testimonianze orali e scritte di soldati sulla Grande guerra con imma-gini inedite, Biblioteca Comunale S.Giovanni in persiceto, 19829. G.Bellosi, la voce in un pezzo di carta in Verificato per censura.Lettere e cartoline di soldati romagnoli nella prima guerra mondiale, Il ponte vecchio, cesena, 200210. N. Revelli, L’ultimo fronte, lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mon-diale (Torino 1971)

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deportazione militare ha mantenuto ancora oggi l’acronimo IMI sconosciuto ai più.Claudio Sommaruga, ex IMI milanese e studioso della deportazione, sottolinea nel suo volume Per non dimenticare anche il generale disinteresse editoriale per la docu-mentazione e la letteratura dell’internamento:

Va ricordato che, per il disinteresse della gente e le rimozioni dei reduci, l’editoria dell’internamento, a differenza di quella della deportazione, è di fatto ignorata dai grandi editori e dai librai ed è scarsamente presente nelle biblioteche. Si sviluppa per lo più a carico degli autori o delle associazioni, appoggiandosi a piccoli editori o tipografie prestanome, con scarse sponso-rizzazioni, tirature limitate, (poche centinaia di copie) e distribuzione circo-scritta. Esiste poi una memorialistica sommersa di inediti: almeno 5000 diari e agendine segrete annotati “a futura memoria” ma poi rimasti nei cassetti o tutt’al più fotocopiati per parenti o amici. Sono quaderni ingialliti, sempre meno leggibili e intellegibili senza gli autori, reperibili per caso ma che do-vrebbero venire rastrellati dalle associazioni, ma preziosa per i ricercatori storici e i laureandi. 11

Di conseguenza, molto resta ancora da pubblicare e da documentare sulla sorte che vide coinvolti alcune centinaia di migliaia di nostri militari nel periodo intercorrente dall’8 settembre fino al termine del conflitto: «ovvero, coloro che, una volta disarmati dai tedeschi e catturati, si rifiutarono di collaborare 12». Su 810.000 soldati catturati dai tedeschi dopo la proclamazione dell’armistizio, 94.000 diventano collaboratori imme-diatamente in seguito alla cattura e 103.000 sono gli optanti - altro modo per definire i collaboratori - nei Lager. I restanti 613.000 si sono rifiutati di collaborare col Reich e con la RSI. Un’occasione significativa per non dimenticare è offerta dalle circa 3000 lettere e cartoline di Internati Militari italiani depositate a Milano presso la sede della Fonda-zione “Memoria della Deportazione - Archivio e Biblioteca Aldo Ravelli (via Dogana 3): essa, sin dalla sua recente apertura, si propone come centro di documentazione sulla deportazione, a disposizione di studiosi e studenti. Le lettere degli IMI fanno parte del Fondo Pirola, e sono attualmente in corso di pubblicazione da parte di Oscar Brambani, che sta proseguendo il lavoro di inventariazione e trascrizione avviato per

11. Ivi, pag. 7. Si aggiunga, inoltre la pubblicazione di 400 memorie e antologie contenenti testimonianze di reduci, in genere editi in proprio, con tirature modeste (300-200 copie per titolo), oggi fuori catalogo e difficile da reperire; si aggiungano 300 saggi postumi, anch’essi a tiratura limitata.12. «Ci illudevamo che i tedeschi ci avrebbero trattato umanamente, secondo la Convenzione di Ginevra del 1929 sui prigionieri di guerra, tutelati da una nazione neutrale e assistiti dalla Croce Rossa…Nossignore! Dal 20 settembre, per poterci sfruttare di più e senza controlli, i nazisti ci definiscono, con un falso storico, “disertori di Badoglio e soldati di Mussolini in attesa di impiego” e ci marcarono le divise con “IMI” (INTERNATI MILITARI ITALIANI), uno status illegale in paesi belligeranti! Poi a Sandbostel, due gerarchi fascisti ci invitano ad arruolarci come “legionari” in reparti speciali di SS italiane, ma fanno fiasco: su 10.000 soldati e 225 ufficiali recluteranno solo 84 soldati e 2 ufficiali.»

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Nella lettera datata “Roma, 9 Febbrajo 1889” Pirandello così racconta ai suoi fami-liari l’esperienza vissuta di una dimostrazione di piazza a Roma:

Miei carissimi, siamo in pieno stato d’assedio. Le botteghe tutte chiuse, perfino i caffè. Un panico generale. Pattuglie di bersaglieri, di guardie di pubblica sicurezza, di guardie di città, di carabinieri, corrono (con a capo un delegato parato per l’occorrenza coi distintivi dell’ordine) le vie principali della città. Nelle piazze, dinanzi ai palazzi delle ambasciate, dei ministeri, e dei varî uffici governativi, al principio di ogni strada e negli sbocchi più frequentati stazio-na la truppa armata, ma per fortuna con l’imposizione di non reagire che in caso di estrema difesa. Jeri i danni sono stati gravissimi. Nella colluttazione a ponte di Ripetta, e in varî altri punti della città, molti i feriti, due guardie conciate malamente. Deplorando gli atti sconsigliati di vandalismo, questi operai rivoltosi io gli scuso e per una semplicissima ragione: hanno fame e vogliono lavorare. Jeri mattina si sono riuniti ai Prati di Castello, invitati dalla Commissione eletta precedentemente da loro stessi, la quale doveva comuni-care la risposta dell’on. Fortis, sottosegretario al ministero dell’interno. Ma lo scopo della riunione è degenerato: non si ha più fiducia nel governo; hanno gridato: - abbasso i ciarlatani! Bisognava trovarsi sul posto e udire quei di-scorsi, che erano fiamme. Tutti d’una volontà, in men che ve lo dico, si sono slanciati per le vie – alla cieca – e con sassi, con bastoni, a calci, a pugni, han rotto vetri, scassinato porte, devastato negozi con furia, con impeto nella grande ubbriachezza di distruzione. Jeri son passato per via Frattina – è una desolazione a vedere…Così via S.Lorenzo in Lucina, così via Due Macelli, così via del Tritone, via Quattro Fontane e molte e molte altre. Jeri sera Roma offriva uno spettacolo novo, imponente: un’agitazione, un fermento non mai veduti. Questa vecchia Roma dei nepotini di Remo (vera canaglia) si desta dal torpore che la possiede da tempo, come se qualcuno finalemnte si fosse de-ciso di darle quel calcio che come i cani di Colonia descritti da Enrico Heine, domanda a ogni piede, tanto per scuotersi un po’. Avrete letto senza dubbio

RINO CAPUTOUniversità di Roma “Tor Vergata”

Modi di dire la guerra da Milano all’Italia: il tumulto

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1. Cfr. L.Pirandello, Epistolario Familiare Giovanile 1886-1898, Firenze, Le Monnier, 1986, pp. 33-34 (d’ora in poi EFG con l’indicazione della pagina).2. L.Pirandello, Suo Marito in L.P. Tutti i Romanzi, a cura e con introduzione di G.Macchia e con la collaborazione di M.Costanzo, volume primo, pp. 587-873, in part. p. 592.3. EFG, 20, del 27 novembre 1887.

la narrazione dei fatti su pei giornali; ma vi assicuro che resta molto inferiore alla realtà delle cose. Si tratta di ben peggio, che i giornali non dicano o non possano dire. Son rivolgimenti cagionati da un’idea che sempre più s’impone, più tosto che da favorevoli condizioni di cose. Oggi non è tutto finito. Non si è riusciti ad impedire una seconda sommossa. Una gran febbre agita tutta la città. Pare di essere a Parigi 1.

Risalta intanto in via preliminare l’insopprimibile istanza letteraria: la ‘realtà delle cose’ ha sempre bisogno, per Pirandello, del sussidio delle rappresentazioni della fan-tasia coagulate in immagini espresse dalle parole. La “canaglia” erede degenere della romanità è assimilata ai “cani di Colonia” (ma sono quelli di Stoccarda in Deutsch-land, ein Wintermaerchen, un poemetto di Heine) e merita calci. L’immagine tornerà in Suo Marito in un altro “tumulto”, come si vedrà, e sarà espressa in modo contrasti-vamente chiastico:

- Cani! – gridò il mercante panciuto, rizzandosi ansante, paonazzo.Sotto il carretto stava sdrajato, più placido dello spazzino, un vecchio cane spelato, con gli occhi tra le cispe socchiusi: al – Cani! – del mercante levò appena il capo dalle zampe, senza schiuder gli occhi, solo raggrinzando un po’ le orecchie, dolorosamente. Dicevano a lui? S’aspettava un calcio. Il calcio non venne; dunque non dicevano a lui; e si ricompose a dormire 2.

Del resto Pirandello indulge allo straniamento umoristico imprevedibile: la cana-glia talora è “onesta” così come i gentiluomini sono “ladri”. Il contesto è sempre quel-lo, artistico e politico-ideologico, della discrasia tra l’apparenza e la realtà dei fatti, dei pensieri e dei modi dell’essere. Si veda una delle primissime lettere inviate da Pirandello ai genitori appena giunto a Roma:

Qui, dove io affogo, è il mondo piccino, dove il fittizio predomina e strozza il naturale, dove tutto è legge, costume, uso, menzogna e ipocrisia, il mondo della canaglia onesta e dei galantuomini ladri. Io andrei con una scure in mano a rovinare quest’ultime rovine d’un’età gloriosa, che il tempo e gli uo-mini oltraggiano con la viltà d’oggi, che lungamente avrà un dimani; andrei a rovinarle, perché? Mi fanno più male in vederle ancora in piedi, che non mi facciano meraviglia e stupore. Questa terza Roma, è purtroppo bisantina! 3.

Il giovane studente universitario immigrato dalla Sicilia è pervaso da impetuoso sdegno morale e civile, già attraversato tuttavia da una vena disperante, come si evince dalla chiusa della lettera succitata, non a caso incentrata su un episodio di vita accade-mica poco noto sia nella biografia di Pirandello che in quella, peraltro molto differente, di Antonio Labriola:

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All’università oggi grande dimostrazione di studenti: hanno fischiato un professore, Antonio Labriola, che jeri spingeva gli operai a insorgere. Molti e molti però lo hanno applaudito – si è fatto un baccano, un baccano inde-scrivibile: vi rimando al principio del canto terzo dell’Inferno dantesco. Tra tanti fischi e tanti applausi distruggentisi per comporre un pandemonio, io ho riso, conservando il mio sangue freddo, oltre che per imposizione del medico, anche perché più che a rabbia mi moveva a pietà tutta quella gente ragione-vole, che ragionava così malamente e in diverso modo, senza rispetto alcuno alle opinioni che possono benissimo esser contrarie, ma debbono discutersi sobriamente in un luogo, che almeno dovrebbe esser fatto per questo. Come andrà a finire? 4.

E’ pur sempre il giovane siciliano già orientato al pessimismo politico, alla convinta sfiducia nella finalità costruttiva della “politica” vista come inganno interpersonale e sociale e, infine, come “fango”. Si ricordi la lettera inviata ai genitori dal neo studente che descrive efficacemente la peripezia disforica di un curioso e davvero implausibile candidato palermitano: Menico La Licata.

Costui, come Don Chisciotte, è un pazzo, e vorrebbe, nel suo intento, rad-drizzare il mondo. E’ un povero venditore di uccelli e vive solo con l’uccella-tura[…] Ora, da che han proposto la sua candidatura, non si vede più nel suo posto di vendita[…] il disgraziato nutre cieca fiducia nei voti, che egli sogna, e non ha dubbio alcuno sulla sua elezione[…] L’altra sera l’han fatto parlare ai suoi elettori. Sa leggere a pena; se sappia scrivere non so. Ha i capelli e la barba, lunghi, gli occhi vitrei, come di pazzo, alto, bruno, portamento ardito; quel cappello a cencio tirato sugli occhi gli dà l’aria di un tribuno. Un tribuno che andrà a finire al manicomio[…] Oggi, domenica, giorno di elezione, io sto in casa. Mi annoja e mi rattrista questa bassa comedia di affaristi che venduto l’onore e la dignità, fan camorra e diguazzano nel fango e del fango si com-piacciono e vi ingrassano! Buon per loro e per me, che posso fare il dottore 5.

Pirandello non prende parte e partito, a Palermo come a Roma. La democrazia, si sa, diventerà per lui “tirannia mascherata da libertà”, come fa dire a Adriano Meis nel Fu Mattia Pascal e a Palermo come a Roma egli si erge al disopra delle parti e dei partiti per ridere e irridere, sia pure amaramente, le illusioni degli individui e delle masse: i primi interpretati come intraducibili maschere e le seconde sostanzialmente ridotte a generica e aggressiva ‘folla’; e tanta parte della Weltanschauung pirandellia-na è geneticamente rintracciabile in queste immagini e in queste vicende trascritte nel testo epistolare giovanile 6. Ma, tornando al “tumulto”, Pirandello trascrive quasi fedelmente le scene descritte

4. EFG, 34.5. EFG, 6.6. Cfr. per il riscontro del Fu Mattia Pascal L.P., Tutti i Romanzi, volume primo, cit., p. 448. Di particolare rilievo appare, sempre più, la ricerca di E.Providenti, Pirandello impolitico in “Bel-fagor”, rispettivamente a. LII, n. 309, fasc. III, pp. 253-273; a. LIII, n.317, fasc. V, pp. 253-273 e

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nella lettera del febbraio 1889 nell’esordio del romanzo Suo Marito. E, di contro alla testimonianza soggettiva e quasi personale della lettera giovanile, nel romanzo del 1906 è uno dei personaggi secondari, il sofisticato letterato Raceni, che compie con-trovoglia e, soprattutto, costretto da ineludibili cirscostanze, la peripezia attraverso la “dimostrazione”. Nella folla in tumulto, narra Pirandello, Attilio Raceni rimane infine “ soffocato, pesto, boccheggiante come un pesce” 7. Ma è interessante notare lo svolgimento parossistico della vicenda:

Un clamor confuso, lontano, un corri corri di gente verso Piazza Vene-zia[…] Ciarifanno. Attilio Raceni si voltò a guardarlo come per compassione. – Dimostrazione? E perché?...Lo spazzino osservò: - Hanno sciorto er co-mizzio… - E vogliono far la festa ai vetri, - aggiunse l’altro. – Sente? Sente? Un turbine di fischi si levò dalla prossima piazza e, subito dopo, un urlìo che arrivò al cielo. Il tumulto vi doveva essere grande. – C’è er cordone, nun se passaa[…] Attilio Raceni s’avviò di fretta, contrariato[…] Ora ci voleva anche la cana-glia che reclamava per le vie di Roma qualche nuovo diritto[…] Innanzi a piazza Venezia il volto d’Attilio Raceni si allungò come se un filo interno glie-l’avesse a un tratto tirato. Lo spettacolo violento gli riempì la vista e lo tenne lì un pezzo a bocca aperta, sopraffatto e compreso. La piazza rigurgitava di popolo. I cordoni dei soldati erano all’imboccatura di via del Plebiscito e del Corso […] Nel dispetto rabbioso contro tutta quella feccia dell’umanità che non voleva starsi quieta, sorse improvvisamente ad Attilio Raceni il proposito disperato d’attraversare a furia di gomiti la piazza. Pè pè pèèèè. La tromba. Il primo squillo. Scompiglio, serra serra: molti sospinti dalla piena nel forte del tumulto, volevan sguizzare e bàttersela, ma non potevano far altro che divincolarsi rabbiosamente, presi com’erano, pigiati e incalzati tutt’intorno da altri a ridosso, mentre i più facinorosi, concitando, volevano rompere la calca, o meglio, cacciarsela davanti, tra fischi e urli più tempestosi di prima 8.

“Sospinti dalla piena nel forte del tumulto”: l’immagine, che, pure, registra, come si è già anticipato, un’esperienza di vita vissuta dell’autore Pirandello, trasferita nel personaggio del romanzo, è tuttavia letteralmente ripresa, nei sintagmi espressivi, dai Promessi sposi di Alessandro Manzoni 9. Infatti, nel capitolo XI, la narrazione mette a fuoco la peripezia di Renzo che, dopo essere arrivato a Milano e dopo aver trascurato il consiglio del frate portinaio del convento di attendere in chiesa con la sua preziosa “pressante” missiva, guarda “verso l’interno della città, dove il brulichìo era più folto e più rumoroso” (p. 236). Manzoni sottolinea, con una prima e già icastica metafora incentrata sui movimenti scomposti dell’acqua, che “il vortice attrasse lo spettatore”. Poi, nel successivo capitolo XII, “Renzo rimaneva indietro, non movendosi quasi, se

a. LIV, n. 319, fasc. I, pp. 25-45; ora in Elio Providenti, Pirandello impolitico (dal radicalismo al fascismo), Roma, Salerno, 2000. 7. Cfr. Suo Marito, cit., p. 594.8. Suo Marito, cit., p. 593.9. Cfr., d’ora in poi, con l’indicazione della pagina nel testo, A.Manzoni, I Promessi Sposi, a cura di S.S.Nigro, vol. II, tomo II, Milano, “Meridiani” Mondadori, 2002.

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