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Rolfed48 2012 Discografia Bill Evans Recensioni migliori Album Antonio De Florio

Bill Evans

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Recensioni migliori lavori del grande pianista Bill Evans

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Page 1: Bill Evans

Rolfed48

2012

Discografia Bill Evans Recensioni migliori Album

Antonio De Florio

Page 2: Bill Evans

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Bill Evans (http://ettoregarzia.blogspot.it/2010/12/bill-evans.html) Sebbene il pianista Bill Evans venga considerato uno dei musicisti jazz più influenti della storia, molti

avventori non ne comprendono la portata musicale: nelle varie biografie ricavate dai libri pubblicati per

celebrare la sua carriera artistica o in quelle ricavate da siti internet (in articoli a lui dedicati) si ricalcano gli

aspetti “decorativi” della sua musica e meno quelli “artistici”: più musicista e meno compositore. Evans non

sarà ricordato solamente perchè capitò nel momento giusto del jazz, jazz che in quegli anni stava iniziando

ad intraprendere un nuovo percorso di modernità che non era solo esplorazione dell’avanguardia ma anche

recupero del passato “normale” della civiltà musicale, ma soprattutto per aver dato modo al jazz di

raggiungere un pubblico più vasto, con un linguaggio più diretto, semplice nell’ascolto, spogliato di orpelli e

di qualsiasi banalità, teso alla ricerca di uno spirito musicale “positivo”. Dopo gli esordi profondamente

immersi in una nuova caratterizzazione del be bop a prova di quei tempi (inizio anni sessanta), Evans che

aveva un’ottima preparazione classica, capì che era possibile riprodurre nel jazz lo stesso sentimentalismo

che i musicisti romantici e impressionisti avevano profuso nella musica colta, operando nel jazz una delle

prime “moderne” forme di fusione tra generi: gli accordi erano jazz, soprattutto di tipo modale, mentre

l’improvvisazione ricalcava quella classica, specie quella di Chopin e Debussy; in particolare a lui si deve la

nuova concezione del trio nel jazz, poiché inizia l’era delle interazioni tra piano, contrabbasso e batteria (il

trio storico con Scott la Faro e il favoloso drumming di Paul Motian) in un nuovo clima “confidenziale”, non

“lounge” così come l’artista si preoccupava di non fornire nei suoi dischi e soprattutto nei concerti, in una

sorta di dialogo in cui ogni strumentista in maniera democratica e raffinata poteva esprimere il suo

potenziale. Il periodo iniziale della sua carriera comprenderà già diversi episodi che lo inseriranno tra i

migliori esponenti del jazz ove però gli umori e i pensieri irradaviano felicità e compiacimento artistico,

caratteristica che verrà man mano smussata nella parte finale della carriera in cui prenderanno vigore gli

aspetti più drammatici e catartici. Molto di quello che si sente oggi nel jazz e nella musica in generale,

rimanda a quel trio storico, spesso in un processo di imitazione che non fa altro che stabilizzare la funzione

musicale di Evans. L’artista americano, che ebbe una vita infelice per molti aspetti, ma era di una serietà

invidiabile sul lavoro, fu varie volte snobbato dalla critica che non riteneva importanti i suoi cambiamenti: il

commento sfavorevole maggiore veniva dalla considerazione che Evans aveva solo migliorato le velleità

artistiche dei maggiori compositori di standards americani e che mancava di un repertorio personale: ma

queste critiche saranno destinate a cadere, quando si capì che Evans era riuscito nell’intento, direi solitario,

di usare temi di altri, con una capacità di personalizzazione che andava oltre il concetto di riproposizione

dello standard; poi, negli ultimi dieci anni della carriera fece contenti anche i cultori della “composizione”,

poiché il sound si arrichiva sempre più di episodi che erano frutto della sua inventiva, delle sue vicissitudini

personali (purtroppo tragiche), aumentando in maniera considerevole l’apporto “emotivo” del trio, sebbene

una parte della critica continuò a trascurarlo: il suo momento migliore che purtroppo fu anche il suo canto del

cigno “You must believe in spring” (con il trio Gomez-Zigmund), pubblicato postumo alla sua morte, fu

l’esempio lampante del punto in cui era arrivato Evans; l’interplay tra i musicisti migliorava di intensità e di

valenza artistica e come in molte altre occasioni dove il musicista sfodera il suo capolavoro nella difficoltà

personale, qui il pianista americano firmò probabilmente il suo capolavoro, nonché uno dei must della

musica in generale, in un clima arroventato nell’animo per la scomparsa delle persone care nonché, penso,

di quella sciagurata vita personale, che era magnifica correttezza nei rapporti esterni e “droga” all’interno.

Oggi, a trent’anni dalla sua morte, il suo gesto artistico, il suo esempio di musicista aperto, sempre attento a

comunicare il suo stato, rimane insuperato nelle nuove generazioni, ma soprattutto quello che rimane è quel

modo di suonare perennemente in bilico tra il corso pianistico dell’ottocento e quello del jazz moderno

tipicamente americano del novecento, che gli ha procurato un posto di eccellenza nell’olimpo della musica di

tutti i tempi.

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Bill Evans Trio - Everybody Digs Bill Evans - 1958

Aveva da poco abbandonato il sestetto di Miles Davis – anche se, tre mesi dopo, accettò il suo invito a partecipare

all'incisione di "Kind Of Blue", uno dei capolavori del jazz moderno – il pianista forse più lirico nella storia del jazz,

quando, accantonando la propria ritrosia, timidezza ed

insicurezza caratteriali, registrò, come leader, il secondo album

in studio. La cui copertina riportava a caratteri cubitali delle

brevi note elogiative, autografate da quattro insigni musicisti, a

dimostrazione di quanto il suo apparire sulla scena musicale

avesse impressionato il mondo del jazz. E infatti Davis e

Cannonball Adderley, sassofonista di quel gruppo stellare,

stilano le note iniziali e finali: "Ho certamente imparato molto

da Bill Evans. Egli suona il piano proprio nel modo in cui

dovrebbe venire suonato"; "Bill Evans ha gusto ed originalità

non comuni e l'abilità ancor più rara di far considerare la sua

interpretazione di un pezzo come il modo più esatto di

suonarlo". Proprio quest'ultima affermazione trova ampio

riscontro nell'ascolto del disco. Brani plurinterpretati, come ad

esempio "Night And Day", suonano nuovi per la scelta ritmica,

l'esposizione della linea tematica, la dolcezza

dell'improvvisazione. Il merito va equamente condiviso con il

contrabbassista Sam Jones, dal pulsare sicuro pur nella sua discrezione, e con il pirotecnico e fantasioso

batterista Philly Joe Jones. Gustosissimi e stimolanti, i frequenti breaks a battute variabili tra Evans e Philly Joe

tengono desta l'attenzione a partire dal brano iniziale, "Minority', in cui l'apparente tranquillità del pianista sembra

scossa dalle tumultuose figurazioni su piatti e tamburi. A rendere ancor più ricco il programma, nel disco trova spazio

una seconda sessione in trio, incisa un mese dopo la prima, nella quale al posto di Sam Jones compare un

contrabbassista che assieme a Philly Joe dette vita ad una delle più apprezzate sezioni ritmiche di Miles Davis: Paul

Chambers. Il suo periodare è immediatamente riconoscibile per i suoi caratteristici, nasali assolo con l'archetto.

Particolarmente poetici, infine, i tre brani per piano solo, tra i quali spicca "Peace Piece", rivelatore del pensiero

musicale dell'indimenticabile pianista.

Bill Evans Trio - Portrait In Jazz SACD - 1959

"Portrait in Jazz" rappresenta il terzo lavoro di Bill Evans come leader, dopo "New Jazz Conceptions" (1956) e

"Everybody Digs Bill Evans" (1958), e a differenza dei suoi

precedenti album non presenta brani per pianoforte solo, ma solo

registrazioni in trio. "Portrait in Jazz" è stato anche il primo

album di Evans con il talentuoso contrabbassista Scott LaFaro

(entrambi avevano suonato nell'album di Tony Scott "Sung

Heroes" registrato nel mese di ottobre del 1959, ma avevano

suonato in tracce separate). La collaborazione di Evans con

LaFaro avrebbe raggiunto il suo apice con le loro registrazioni al

Village Vanguard del giugno 1961. Purtroppo LaFaro sarebbe

morto in un incidente stradale poco dopo (il 6 luglio 1961), all'età

di soli 25 anni (Evans fu così scioccato dalla morte del suo

bassista che aspettò a lungo prima di formare un nuovo trio). In

questo album il repertorio è costituito fondamentalmente da

standard a cui si affiancano due composizioni originali "Peri's

Scope", brano che Evans non avrebbe registrato nuovamente

prima del 1967, e "Blue in Green", composta con Miles Davis e

precedentemente registrata da Evans per lo storico album "Kind of Blue".

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Bill Evans Trio - The 1960 Birdland Sessions

Le registrazioni presenti in questo CD precedono le leggendarie performances live al Village Vanguard nel 1961 di più

di un anno. Versioni incomplete di questi brani sono state pubblicate

precedentemente su LP, ma appaiono qui su CD nella loro interezza. Si

tratta delle sessioni complete al Birdland del più leggendario dei trii di Bill

Evans e fanno presagire il miracolo musicale che si verificherà nel giugno

del 1961 al Village Vanguard le cui sessions a mio parere rappresentano

l'evento più straordinario della storia del jazz e una delle massime

espressioni della creatività musicale di tutti i tempi.

Bill Evans Trio – Explorations - 1960

La bonus-track di “Explorations” si intitola “The Boy Next Door”, ed è una pregevole rilettura di una canzone targata

Hugh Martin-Ralph Blane, risalente addirittura al 1944 e divenuta presto uno standard con tutti i crismi.

Ed in effetti Bill Evans potrebbe essere il ragazzo della porta accanto,

quantomeno se si abitasse un quartiere vaporoso ed elegante di

periferia, scrigno di villette a schiera e di giardini verdissimi che

nascondono oltre le tendine delle finestre giovani aristocratici e

pensosi. Sempre impeccabilmente in giacca e pantaloni, sempre gentili

e signorili, ma capaci di portare sulle spalle il peso del mondo intero e

nel cuore drammi personali laceranti.

Evans era tutto questo: artista “nobile” per eccelenza, musicista

classico ed al contempo superbo interprete del linguaggio del jazz e

della sua mobilità senza freni, eterno studente e coltissimo

intrattenitore, ma anche pioniere dell'improvvisazione modale capace

di incantare Miles Davis (con cui contribuirà a scrivere alcune fra le

pagine più entusiasmanti di tutto il genere).

L'ombra della depressione l'ha sempre circondato come fosse un cattivo odore, eppure il pianista è riuscito a celare

dietro la celestialità del suo tocco il peso terribile di una vita segnata come poche altre dalla solitudine e dal senso di

perdita.

Ogni tanto, nella sua musica si intravede qualche spiraglio di luce: una melodia sinuosa e spensierata, un cambio di

ritmo effervescente, tonalità e giochi sontuosi (che possono riuscire soltanto a chi può dare del “tu” al pianoforte).

Ed “Explorations”, pur forse meno toccante di altri momenti della lunghissima carriera del nostro, rappresenta sotto

questo profilo un invidiabile punto di equilibrio, uno di quei gioielli che puoi collocare sulla punta della montagna

sperando che non arrivi una folata di vento a privarli dell'unico appiglio: merito ovviamente anche dei suoi storici

collaboratori (Scott La Faro e Paul Motian), interpreti eccellenti di quello che rimane forse il trio più celebre di tutto

il jazz.

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“Israel”, tanto per fare un esempio, inventa con la mano destra una melodia brillante e spumeggiante, mentre la sinistra

si limita ad un accompagnamento assorto e sottile, giocato sulla scansione regolare di quattro accordi maggiori per

battuta, così da risultare defilato ed essenziale

Altrettanto luminose (pur non prive di chiaroscuri) sono le due versione (“take 1” e “take 2”) di “Beautiful Love”, ove

Evans impersonifica il concetto di imprevedibilità, dimostrando tutta la sua forza espressiva. I suoi brani sembrano aver

preso una direzione precisa, quando decidono di disorientarti a forza di sferzate di accordi ed impennate che ti

catapultano nel pieno di qualche inestricabile labirinto. “Haunted Heart” ritorna su sentieri più consuetamente

malinconici e riflessivi, espressione pura dell'artista Bill Evans e di tutto il suo mondo interiore, frutto di

un'introspezione spinta sino alle conseguenze più estreme.

Lo stesso vale per “How Deep is the Ocean”, piccola gemma adombrata da una struggente tristezza. Amara riflessione

arricchita dal tocco nobile e pulitissimo di Bill, da un incipit melodico sempre dolce e soffuso, da una maestria che pare

collocarsi al crocevia fra jazz ed impressionismo.

Bill Evans - The Complete Village Vanguard Recordings, 1961 (3CD)

Basterebbero queste tre parole per farvi capire l'importanza di quest'opera; qui c'è tutto, ogni singola nota suonata in

quell'incantevole serata del 25 Giugno 1961, giorno in cui Bill

Evans e il suo Trio scrissero una delle pagine più importanti della

storia della musica, suonando per il pubblico newyorchese

del Village Vanguard, inconsapevole di assistere ad un esibizione

che rappresenta una vera e propria pietra angolare per il Jazz.

Si perché in quella notte estiva il Trio, composto da Bill Evans al

piano, Scott LaFaro al contrabbasso e Paul Motian alla batteria,

fece effettivamente la storia, rivoluzionando il concetto di

improvvisazione e di interplay, raggiungendo un nuovo apice di

comunicazione e spontaneità musicale.

Qui c'è la grazia e la purezza del pianoforte di Evans che si

intreccia magistralmente con la vigorosa cavata del contrabbasso

di LaFaro; ci sono le candide e fragili ballate guidate dalle

sapienti mani del pianista americano, sempre attente e abili a

scegliere la nota giusta al momento giusto, come in "My Foolish Hearth" o in "Porgy ( I Loves You, Porgy)"; ci sono le

suadenti ritmiche di Motian, mirabile nel continuo destreggiarsi tra spazzole e bacchette, a sostenere composizioni

come "Alice in Wonderland" e l'incantevole "Waltz for Debby"(gustosissima combinazione tra ballata e frizzante

swing).

In queste note c'è ricerca di un equilibrio perfetto, ed è incredibile pensare come questo equilibrio venga raggiunto in

modo cosi spontaneo, in un eccellente connubio tra libertà e razionalità musicale, tra anima e corpo.

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Waltz For Debby – 1961 http://www.ondarock.it/jazz/recensioni/1961_billevanstrio.htm

E’ nel 1959 che ha inizio uno dei sodalizi artistici più intensi ed

importanti della storia del jazz: quello tra il pianista Bill Evans, il

batterista Paul Motian ed il contrabbassista Scott LaFaro. Assieme

incideranno cinque dischi in due anni, conquistando gradualmente

pubblico e critica sino a diventare, a detta di molti, il più importante trio

jazz del XX secolo. Ma su cosa si basa questa eccellenza? Anzitutto

sullo stile di Evans: un pianismo sobrio ed elegante, ma in grado di

regalare solo di grande intensità. Improvvisazioni dove ogni singola

nota pesa come un macigno, per senso melodico, armonico insomma

per giustezza. In Evans vi è inoltre la capacità di eclissarsi ed

accompagnare, talvolta con solo una manciata di accordi, le incursioni

solistiche del più sanguigno LaFaro; dote che spesso è merce rara per i

solisti. Il secondo vertice è appunto il ventitreenne contrabbassista Scott

LaFaro, conosciuto da Evans qualche anno prima durante un’audizione

per Chet Baker. Lo stile di LaFaro, pur essendo alimentato da una certa volontà di protagonismo, è ampiamente

bilanciato dal grande talento e dall’intelligenza con cui interagisce con Evans. Se a questo aggiungiamo il drumming

cerebrale e ricercato di Paul Motian, il quadro è completo. Nei due anni successivi a quel 1959 il trio acquista sempre

più coesione e si avvicina gradualmente a quell’idea di trio a three-person voice — one voice, per usare le parole dello

stesso Motian.

Il miracolo musicale si compie domenica 25 giugno 1961: il trio in forma smagliante registrò cinque sessioni, due nel

pomeriggio e tre la sera, durante l’ultimo giorno d’ingaggio al leggendario ‘Village Vanguard’ di New York. Il

materiale registrato durante queste sessioni diede vita a due album gemelli, l’uno indispensabile complemento

dell’altro: ‘Waltz for Debby’ e ‘Sunday at the Village Vanguard’.

Tra il chiacchiericcio ed il rumore di bicchieri, tipico delle registrazioni al Vanguard, ‘Waltz for Debby’ ha inizio con

una versione molto delicata di ‘My foolish heart’, Evans introduce il tema e sviluppa il brano mentre LaFaro lo

incornicia con poche note di contrappunto e Motian, alle prese con le spazzole, accompagna con grande sapienza.

‘Waltz for Debbie’, più movimentata, privilegia la vena più swing di Evans e la tecnica di LaFaro mentre ‘Detour’ è

una tenue ballad. ‘Some other time’ si apre con lo stesso tema di ‘Flamenco Sketches’ di Davis suonato da LaFaro per

poi lasciar spazio ad un splendido solo di Evans dove sembrano riecheggiare delle citazioni proprio del pezzo presente

in ‘Kind of Blue’. La burrascosa ‘Milestone’, ritmicamente ardita, diventa materia da forgiare per Motian e Lafaro, il

quale regala un solo memorabile, tutto pause ed accelerazioni fino a smorzare il pezzo. La versione di ‘Porgy’ che

chiude il disco è un altro esempio dello stile di Evans, una ballad dolce ma mai stucchevole.

Purtroppo dieci giorni dopo queste storiche registrazioni LaFaro perderà la vita in seguito ad un incidente stradale.

Questo tragico avvenimento segnerà la vita e l’arte di Evans: con la dipartita di LaFaro se ne era andato, oltre che un

amico, l’elemento ‘anarchico’ della musica del trio. In seguito Evans ripropose il trio con altri, ottimi, comprimari ma

ormai la magia era svanita assieme al giovane Scott.

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Bill Evans Trio - Time Remembered - 1962

In questo Cd vi sono 13 gemme tratte dal cofanetto di 12 CD "Bill Evans:

The Complete Riverside Recordings" e disponibili per la prima volta su

singolo CD. Evans rimane il più influente pianista improvvisatore dai tempi

di Bud Powell, per il sound espressivo, il fraseggio sognante, la profonda

cantabilità e la singolare concezione della scansione ritmica. Questo set

contiene 5 brani di piano solo, 4 delle quali sono dell'aprile del 1962 data in

cui Evans ritorna in sala di incisione dopo la prematura scomparsa di Scott

La Faro, leggendario bassista del magico Bill Evans Trio delle Village

Vanguard Sessions, che lo segnò profondamente. Il resto del programma fu

inciso nel maggio del 1963, da vivo allo Shelly's Manne-Hole e vede

all'azione Chuck Israels al contrabasso e Larry Bunker alla batteria. con

questo eccellente trio Bill porta la forma-canzone all'apice dell'espressività e

della comunicazione emozionale.

The Bill Evans Trio - Moon Beams - 1962

Moon Beams è un album del 1962 ed è il lavoro registrato dal primo trio

di Evans dopo la morte di Scott LaFaro. Con Chuck Israels al basso al posto di

LaFaro, Evans ha registrato diversi pezzi durante le sessioni di maggio e giugno

1962. Moon Beams contiene una raccolta di ballate registrate durante questo

periodo. I brani più sostenuti ritmicamente sono stati inseriti in "How My Heart

Sings!. Su tutti spiccano 'Re: Person I Knew' e 'Very Early' autentici capolavori a

firma Evans.

Bill Evans & Jim Hall – Undercurrent - 1962

La parola "undercurrent" suggerisce una corrente sotterranea, invisibile in superficie, ma dotata di un potente

magnetismo, che attira e incatena i sentimenti più profondi. Un

titolo davvero calzante, perché questa musica levigata e mai sopra

le righe, alla lunga si rivela capace di trascinare e di assorbire

l'ascoltatore molto più di qualsiasi sfavillante prova di virtuosismo

strumentale. Per assonanza viene in mente anche l'ormai

leggendario "understatement" anglosassone, quella tipica facoltà,

sconosciuta specialmente a noi italiani, di dire senza dire, di

comunicare molto senza per forza dover urlare e gesticolare. Ecco,

questo disco, oltre che un capolavoro del jazz di tutti i tempi, è

anche una splendida lezione di understatement da parte di due

maestri dei rispettivi strumenti, incontratisi nel pieno della loro

maturità artistica, ormai già consacrati, eppure entrambi privi della

pretesa di primeggiare l'uno sull'altro, che pure sarebbe stata

legittima. Specie per Bill Evans, entrato già nell'èlite dei migliori

pianisti jazz grazie ai suoi lavori in trio, ma soprattutto grazie al contributo dato a "Kind Of Blue", pietra miliare di

Miles Davis. Ma anche per Jim Hall, per il quale si cominciavano a fare paragoni lusinghieri, per esempio con Charlie

Christian, uno dei più grandi chitarristi jazz di un passato allora piuttosto recente. Dalle scarne notizie biografiche sui

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due (intervista a Jim Hall) sembra che la proposta sia venuta da Bill Evans nel modo più semplice, tipo "Ti andrebbe di

fare un disco, magari solo noi due in duo?". Quel che è certo è che la realizzazione fu così perfetta ed equilibrata che

ancora oggi si impone come un modello di raffinatezza e, cosa più importante, si ascolta con il godimento assoluto che

solo un disco senza tempo può dare, e questo non solo grazie alla tecnica ineccepibile dei due musicisti, ma anche

grazie ad un "lifting" di registrazione che non fa apparire neanche una ruga in un disco che è pur sempre datato 1962.

Come succede per i grandi solisti classici, che quando suonano musica da camera in duo (o in trio) dimenticano per un

po' il loro narcisismo da primedonne e i loro sfoggi di bravura, così in questo saggio esemplare di "jazz da camera" il

chitarrista è al servizio del pianista e viceversa, e per tutto il disco sembra di cogliere una tacita intesa nello scambiarsi

le parti di solista e accompagnatore, spesso più volte all'interno dello stesso brano. Se Bill Evans esce allo scoperto con

il suo tocco felpato, più classico che jazz, ecco che Jim Hall lo copre con note essenziali e staccate, e altrettanto fa il

piano di Bill quando la chitarra di Jim sgrana le sue tenere collane di note perlacee (chi è abituato alle fragorose chitarre

rock rimarrà un po' sorpreso dalla tanta delicatezza che si può estrarre da questo strumento). La scelta dei brani è quella

tipica degli altri lavori di Bill Evans: spiccano standards classici come "My Funny Valentine" (Rodgers-Hart) e

"Stairway To The Stars" (Parish), più un delizioso valzerino firmato John Lewis ("Skating In Central Park" ), e altre

melodie meno famose ma altrettanto adatte ad essere prese come spunto per un dolce e saggio chiacchierio tra

pianoforte e chitarra. La sola e bellissima "Romain" è opera di uno dei due (Jim Hall), ma fin dall'introduzione

pianistica si può notare che il Gershwin delle "Piano Songs" non è stato dimenticato dal nostro chitarrista. Ma è

veramente impossibile trovare qualcosa che non va: di eccessi non se ne parla nemmeno, di noia meno che mai,

nonostante che una cinquantina di minuti di musica dolce e melodica, di soffici "ballads" come "I Hear A Rhapsody" e

"I'm Getting Sentimental Over You" possano far nascere questo timore. C'è poco da fare: quando la tecnica è così

assoluta e la sapienza nell'interpretare brani non sempre di prim'ordine è tale da trasformarli in altrettanti gioielli, allora

si può anche fare a meno o quasi del ritmo, pur rimanendo nel jazz. Sublimato, dall'aspetto trasparente e quasi

incorporeo, eppure grande jazz immortale.

Bill Evans – Interplay - 1962

Chi era Bill Evans in quel 1962? Il pianista che Miles Davis aveva voluto in Kind Of Blue per la sua abilità con le

armonizzazioni modali, unico bianco in un sestetto all black, e qualcosa vorrà pur dire. Quello che pochi mesi dopo

escogitò assieme a Paul Motian e Scott La Faro una dimensione

nuova per il trio, scardinando i consueti rapporti tra ritmo e

melodia, innescando tensioni inaudite nel rapporto "lucidamente

anarchico" tra pianoforte, batteria e basso. E che, quasi cercando la

chiave segreta dell'essenzialità, portava avanti una carriera votata

alla sottrazione, come aveva appena testimoniato lo splendido

Undercurrent in coppia col chitarrista Jim Hall. Un alieno in casa

Riverside, pù o meno. Ma uno splendido alieno. Che comunque

non si rivelò immune all'attrazione gravitazionale dell'hard-bop. E

come avrebbe potuto, con tutto il bendiddio copiosamente elargito

dalla Blue Note un capolavoro via l'altro, punteggiando i contorni

d'un periodo aureo che significava modernità, successo, spuma

dell'onda? C'era la sfida di un suono che era una disputa di

equilibri, di forza ed elasticità, timbri che sgomitano per

emanciparsi mentre s'impastano agli altri in una costante

formidabile dialettica tra uno e molti, tra io e noi. Bill Evans

raccolse la sfida. Eccome se la raccolse. Confermò Hall, il lirismo discreto, fluido della sua chitarra. Pretese una sezione

ritmica di primissimo piano, Percy Heath già bassista del Modern Jazz Quartet e Philly Joe Jones, l'immenso Philly Joe,

batteria ovvero turbine tribale e geometrico del leggendario quintetto di Miles. A proposito di tromba, entrò in squadra

anche Freddie Hubbard, reduce da un folgorante biennio - appunto - per Blue Note, latore di uno stile esuberante,

impeto giovane e genio febbrile. In scaletta cinque standard e un originale di Evans, ovvero la title-track,

emblematicamente intitolata Interplay: incedere blues arguto e circospetto, sostrato sottilmente irrequieto per gli assolo

che non sono mai lasciati a se stessi, sempre qualcosa che spinge, avvolge e sprona. Condizione ideale perché ai

rispettivi talenti sia consentito sgranare numeri tanto brillanti quanto felpati. Che pure esigerebbero superlativi: quello

vibrante di Hall, il solitamente pensoso Evans, un Hubbard munito di sordina e mai tanto davisiano. Il resto è uno

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swingare agile, dinamicissimo, talora impetuoso, di un'eleganza carezzevole ma sotterraneamente tumultosa. Che in

When You Wish Upon A Star rallenta i battiti, s'illanguidisce amarognola, disperde malanimo in un alone di

morbidezza opaca, come il ritratto sonoro di un intero modello di vita intimamente malato. E' il disco che consacra Bill

Evans, lo completa conferendogli quel titolo di leader che fino ad allora poteva apparire inadeguato a causa della sua

indole defilata, di quel porsi laterale e spesso refrattario alla logica delle (big) band. Amo pensare a Interplay come ad

una contraddizione risolta, il culmine di una carriera che proseguirà senza cedimenti fino alla morte dannatamente

prematura, nel 1980.

Bill Evans Trio - How My Heart Sings – 1962

Il ritorno di Bill Evans alla piena attività nel 1962 è venuto quasi un anno dopo le sue celebri registrazioni trio al

Village Vanguard. Appena dieci giorni dopo da quell'evento, il bassista

Scott LaFaro perì in un incidente stradale. Evans, profondamente

scosso, si ferma dall'attività per quasi un anno dopodichè ricostituisce il

suo trio con lo stesso Paul Motian alla batteria e Chuck Israels al

basso. La loro prima esecuzione in uno studio è avvenuta per un

duplice scopo: fare un album interamente di ballads, Moonbeams, e

uno "normale" nello stesso lasso di tempo come è appunto"How My

Heart Sings". Il produttore Orrin Keepnews pensò che registrare otto

pezzi lenti in una session poteva risultare troppo snervante, di

conseguenza, il contenuto dei due album scaturì da repertorio misto

ottenuto da tre giorni di registrazione e il risultato finale è stato di due

ottimi lavori aggiunti al catalogo di Evans.

Bill Evans Trio - At Shelly's Manne-Hole - 1963

At Shelly’s Manne-Hole è l’ultimo album realizzato da Bill Evans per

l’etichetta che lo aveva lanciato nell’universo discografico. Anche se

questo fatto sarebbe già più che sufficiente per conferire a questo disco un

grande significato storico, non bisogna dimenticare che fu anche una delle

due sole occasioni in cui la Riverside registrò dal vivo questo grande

pianista (l’altra riguarda un indimenticabile concerto che vide Evans

grande protagonista al Village Vanguard). In ogni caso, la caratteristica

più significativa di questo disco è rappresentata dal fatto che i brani incisi

nel corso di due serate allo Shelly Manne’s di Hollywood costituiscono le

uniche testimonianze sonore dell’eccellente ma effimero terzo trio di

Evans: infatti, dopo la scomparsa di Scott LaFaro, Bill e Paul Motian

vennero affiancati dal contrabbassista Chuck Israels e nel 1963 il

batterista di Los Angeles Larry Bunker diede un contributo tanto breve

quanto efficace alla leggenda di Evans.

Bill Evans - Conversations With Myself - 1963

Una delle teorie-intuizioni più importanti nella storia del jazz moderno. L'improvvisazione con tre pianoforti

sovrapposti utilizzando il procedimento tecnico delle sovraincisioni per una sorta

di interplay solitario. Conversation with Myself diventa così un vero e proprio

interrrogarsi e rispondersi in vari stati d'animo dell'artista. Alla base della geniale

idea di realizzare una musica per trio suonata da un unico musicista ci sono gli

insegnamenti del grande Lennie Tristano [...] Evans si addentra in questo

straordinario universo e lo scruta senza sosta nei più nascosti angoli sonori,

catturando l'essenza della sua musica e del suo espressivo pianismo.

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Bill Evans - Empathy + A Simple Matter Of Conviction – 1962-1966

Questa ristampa del 1989 di Empathy + A Simple Matter Of

Conviction mostra i primi anni di questo leggendario pianista.

Empathy è stato registrato nell'estate del '62, a soli 13 mesi dopo che

Evans aveva perso il suo straordinario giovane bassista, Scott La

Faro, in un incidente automobilistico fatale. Anche se separati da

oltre quattro anni di tempo, in entrambi i casi al lirico pianista si

unisce il batterista Shelly Manne, mentre al basso si propone Monty

Budwig in Empathy ed Eddie Gomez in A Simple… (quest'ultimo

faceva il suo debutto in sala di incisione con Evans).

Bill Evans-Monica Zetterlund - Waltz For Debby (Japan mini LP) - 1964

Questo CD del 1964 che vede la vocalist jazz svedese a fianco del trio di Bill

Evans (con Chuck Israels al basso e Larry Bunker alla batteria) è una di quelle

stranezze spesso presenti nel catalogo di Evans. La session è perfetta. Il

Lirismo di Evans ben si adatta ad una cantante sofisticata ed equilibrata come

Monica Zetterlund. C'è un po’ di freddezza in questa registrazione, nel senso

che manca un po’ di calore timbrico (questione prettamente tecnica). Si tratta

di un unico inconveniente, tuttavia, il lavoro è uno dei più belli nella

discografia di Evans.

Bill Evans - Trio 64 - 1964

Nella sterminata discografia del pianista Bill Evans Trio ’64 è una

gemma che si staglia tra gli altri dischi del periodo per la presenza di

una ritmica inedita fino ad allora. Dopo la morte nel 1961 di Scott

LaFaro, bassista storico di Evans, il trio aveva faticosamente trovato un

nuovo equilibrio con l’accoppiata Chuck Israels (basso) e Larry Bunker

(batteria). Qui Evans ritrova il fido Paul Motian alla batteria e dà spazio

ad un giovane Gary Peacock al basso che, dopo un’esperienza sulla

West Coast , aveva incontrato Paul Bley a NY e di lì a poco inizierà a

lavorare con Albert Ayler. Trio ’64 fu registrato in realtà a New York

nella settimana di Natale del 1963.

Page 11: Bill Evans

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Bill Evans Trio - Trio '65 - 1965

Anche se tutte e otto le selezioni di questo CD edizione Verve sono

stati registrati in tante altre occasioni dal pianista Bill Evans, queste

interpretazioni mantengono una caratteristica di unicità. Qui lo

ritroviamo con il bassista Chuck Israels e il batterista Larry Bunker (il

suo trio regolare 1963-1965), Evans suona versioni definitive di brani

come "Israel" di Johnny Carisi, "How My Heart Sings", "Who Can I

Turn To", e "If You Could See Me Now". Vera e propria pietra miliare

nella sterminata discografia del Genio di Plainfield.

Bill Evans - California Here I Come – 1967

La maggior parte dei trii jazz composti da un bassista e un batterista forniscono un semplice supporto ritmico per il

leader. Con i vari trii di Bill Evans si assiste ad un confronto

paritetico tra i vari componenti. Registrato nel '67 e inizialmente

pubblicato come doppio LP nel 1982, e ora ristampato su un unico

CD di 75 minuti, California Here I Come è un esempio di tale

interplay. Non così influente come il suo innovativo trio dei primi

anni '60 con Scott LaFaro e Paul Motian, questo gruppo con il

bassista Eddie Gomez e il batterista Philly Joe Jones è comunque una

chiara testimonianza della grazia e della magia che fluisce da uno dei

pianisti più influenti del jazz. Bill Evans era una persona molto

riservata e riuscì a comunicare nel modo più efficace attraverso il

pianoforte. Con le sue dita rende cantabili le melodie di "Polka Dots e

Moonbeams" e da un tocco leggerezza ad "Alfie", una delle prime

versioni per pianoforte di quella canzone (l'originale fu un grande hit

pop per Dionne Warwick dall’omonimo film del '66). Spesso criticato

per non “ascoltare” abbastanza, il batterista Jones spinge il pianista ad

un fraseggio più percussivo in "In a Sentimental Mood" e "On Green Dolphin Street". Uno dei migliori nel suonare

jazz in 3/4, ad Evans si unisce il bassista Gomez che trasmette un senso di gioia in "Waltz G". Tutti i brani di

California Here I Come sono brevi, ma i musicisti riescono a tirar fuori tutto quello che si può esprimere in quattro o

cinque minuti. Con il suo lirismo e la sua forza, questo disco mostra perché Evans continua a influenzare generazioni di

musicisti, 44 anni dopo questa performance e 32 anni dopo la sua morte prematura.

Page 12: Bill Evans

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Bill Evans - At Town Hall - 1967

Quando si parla di piano moderno si pensa sempre e solo a Bill

Evans, perché è la quintessenza del piano e perché il suo approccio

armonico-ritmico è stato il punto di partenza per un paio di

generazioni successive (Hankcock, Corea, Jarrett, Mehldau). Partito

sulla scia di Bud Powell, ha via via eleborato un linguaggio pianistico

essenziale, armonicamente avanzato, ritmicamente solido anche nei

tempi lentissimi, che ha trovato la sua apoteosi nella formula del trio.

Si può dire che il piano trio è stato portato al massimo dei risultati da

Evans, esplorato nei suoi vari aspetti e potenzialità, grazie anche a dei

partners molto efficaci ed affiatati (Scott LaFaro, Eddie Gomez,

Chuck Israel, Paul Motian, Joe LaBarbera ecc.). "At Town Hall" è la

registrazione di un memorabile concerto tenuto da Evans nel tempio

della musica classica 15 giorni dopo la morte dell'amato padre ed è

una delle vette più alte mai raggiunte dal geniale pianista. Capolavoro

assoluto la suite per piano solo scritta in memoria del padre che

rappresenta forse il suo vertice compositivo fra i suoi tanti capolavori.

Bill Evans – Alone - 1968

Il pianoforte è probabilmente lo strumento per eccellenza. Da secoli continua a incantare con i suoi impareggiabili suoni

e la carica emotiva unica che gli appartiene. Uno strumento che non si è fermato ad essere protagonista di una sola

scuola musicale o di un singolo genere; quindi lo si trova nei grandi

maestri classici della musica come Beethoven e Chopin, nel jazz, nel

blues e nel rock e anche in molte canzoni pop. Universale è il suo

utilizzo, forse perché è l'unico strumento in grado di poter sorreggere

da solo anche più di un'ora di musica ed è perfetto per accompagnare

qualsiasi altra forma musicale. Altro fattore che ne ha favorito la

diffusione su così larga scala è la semplicità con cui lo si può far

suonare: non servono virtuosismi polmonari come con il sassofono o

l'oboe, né una lunga e faticosa ricerca dell'intonazione come nei

strumenti fretless quali il violino o il violoncello. No, basta premere

con la giusta forza dei tasti per far uscire suoni puliti e intonati (salvo

che il pianoforte sia accordato, ovvio). Di Bill Evans sono molto

conosciuti soprattutto i trii con cui rivoluzionò il jazz modale e sono

passati in secondo piano i concerti solitari anche se Alone (1968) è

considerato tra i più grandi capolavori per pianoforte solo, per cui

ricevette anche un grammy, in questo album si trova quel Bill Evans che si isolava dal mondo e si rifugiava nel suo

strumento, in solitudine, per dar vita ad una comunicazione emotiva senza pari. In Alone il musicista si isola dal mondo

per entrare nello strumento e al contempo coinvolgere gli uditori nella tela musicale creata da Bill Evans; entrare in se

stessi per raggiungere tutto il mondo. Alone va ascoltato immedesimandosi pienamente nella riflessiva e sensibile

personalità di Evans. Sempre più viene confermata l'unicità del pianoforte come strumento unico nel panorama

musicale, in grado di regalare emozioni irripetibili. Sì, è vero... il pianoforte è lo strumento principe, non è un caso se

tutti i grandi compositori del passato erano dei maestri di questo e ancora oggi è amato e suonato più di ogni altro.