35
CAPITOLO 1 - LE OSSERVABILI ASTROFISICHE 1.1) Introduzione La maggior parte delle misure astrofisiche è effettuata su fotoni provenienti dai corpi celesti in studio. Altri portatori di informazione astrofisica sono raggi cosmici, meteoriti, neutrini e onde gravitazionali. L'astrofisica moderna si avvale di osservazioni di corpi celesti in tutte le bande dello spettro elettromagnetico. Tramite tali osservazioni è possibile applicare teorie fisiche nel tentativo di studiare e spiegare i fenomeni celesti. Il presente corso è dedicato allo studio degli strumenti e delle tecniche utilizzate a questo scopo, con particolare riguardo alle limitazioni di carattere fondamentale delle misure, ed alle relative tecniche di ottimizzazione. In tabella 1.1 riportiamo una classificazione delle bande dello spettro elettromagnetico. La banda visibile è piuttosto ristretta (per motivi fisiologico-evolutivi), e con lo sviluppo di sensibili rivelatori in tutte le altre bande, le astronomie non ottiche sono passate da un ruolo complementare ad un ruolo trainante nella indagine astrofisica. Basti pensare che ogni banda ci fornisce informazioni peculiari, caratteristiche di fenomeni inosservabili nel visibile: alcuni esempi presi a caso sono l'emissione delle pulsar e delle radiogalassie nella banda Radio, l'emissione del Fondo Cosmico a 3 K nelle microonde, l'emissione termica della polvere interstellare nell'infrarosso, il fondo di radiazione X e UV, i γ burst. Va ricordato però che l'atmosfera terrestre è ben trasparente praticamente solo nel visibile e nel radio tra 1 cm e 30 m. In fig.1.1 è riportata graficamente la quota in atmosfera a cui la radiazione proveniente dall'esterno vie ne attenuata di un fattore 0.5. Questo dà un'idea della quota alla quale si deve portare l'osservatore per poter cominciare ad effettuare osservazioni astronomiche nelle diverse bande spettrali. Le osservazioni non ottiche sono quindi legate anche a progressi tecnologici quali la disponibilità dei veicoli spaziali, che hanno permesso di portare gli strumenti di misura γ, X, UV e IR fuori dall' atmosfera terrestre. 1.2) Le osservabili astrofisiche Per quanto riguarda i fotoni, si distinguono due tipi di osservabile: il flusso e la brillanza. Il flusso è la quantità totale di energia radiante che per unità di tempo attraversa l'unità di superficie, indipendentemente dalla direzione di provenienza dei fotoni. Il flusso F è quindi definito come la potenza radiante W per unità di superficie e quindi F = dW dA = h ν dn dt dA (1.1) dove con h ν abbiamo indicato l' energia associata a ciascun fotone e con [dn/ dt] il flusso fotonico. Un caso particolare e' quello di una sorgente isotropa, ovvero che emette energia uniformemente in tutte le direzioni: ad esempio una stella isolata, a simmetria sferica. Il flusso osservato da una sorgente puntiforme e' inversamente proporzionale al quadrato della distanza dalla sorgente: consideriamo due sfere concentriche centrate sulla stella e di raggio r 1 e r 2 . In condizioni stazionarie, e se non ci sono perdite di energia (assorbimenti) nello spazio tra r 1 e r 2 , la conservazione dell' energia impone che l'energia che per unità di tempo attraversa la sfera 1 sia uguale all'energia che attraversa la sfera 2. Introducendo il flusso avremo che F(r 1 ) 4 π r 1 2 = F(r 2 ) 4 π r 2 2 F(r) = K r 2 (1.2) La brillanza è la quantità totale di energia radiante che per unità di tempo attraversa l' unità di superficie, provenendo da un angolo solido unitario intorno ad una direzione prefissata. La brillanza è definita quindi come la potenza per unità di superficie e per unità di angolo solido:

CAPITOLO 1 - LE OSSERVABILI ASTROFISICHE

  • Upload
    others

  • View
    3

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

CAPITOLO 1 - LE OSSERVABILI ASTROFISICHE 1.1) Introduzione La maggior parte delle misure astrofisiche è effettuata su fotoni provenienti dai corpi celesti in studio. Altri portatori di informazione astrofisica sono raggi cosmici, meteoriti, neutrini e onde gravitazionali. L'astrofisica moderna si avvale di osservazioni di corpi celesti in tutte le bande dello spettro elettromagnetico. Tramite tali osservazioni è possibile applicare teorie fisiche nel tentativo di studiare e spiegare i fenomeni celesti. Il presente corso è dedicato allo studio degli strumenti e delle tecniche utilizzate a questo scopo, con particolare riguardo alle limitazioni di carattere fondamentale delle misure, ed alle relative tecniche di ottimizzazione. In tabella 1.1 riportiamo una classificazione delle bande dello spettro elettromagnetico. La banda visibile è piuttosto ristretta (per motivi fisiologico-evolutivi), e con lo sviluppo di sensibili rivelatori in tutte le altre bande, le astronomie non ottiche sono passate da un ruolo complementare ad un ruolo trainante nella indagine astrofisica. Basti pensare che ogni banda ci fornisce informazioni peculiari, caratteristiche di fenomeni inosservabili nel visibile: alcuni esempi presi a caso sono l'emissione delle pulsar e delle radiogalassie nella banda Radio, l'emissione del Fondo Cosmico a 3 K nelle microonde, l'emissione termica della polvere interstellare nell'infrarosso, il fondo di radiazione X e UV, i γ burst. Va ricordato però che l'atmosfera terrestre è ben trasparente praticamente solo nel visibile e nel radio tra 1 cm e 30 m. In fig.1.1 è riportata graficamente la quota in atmosfera a cui la radiazione proveniente dall'esterno viene attenuata di un fattore 0.5. Questo dà un'idea della quota alla quale si deve portare l'osservatore per poter cominciare ad effettuare osservazioni astronomiche nelle diverse bande spettrali. Le osservazioni non ottiche sono quindi legate anche a progressi tecnologici quali la disponibilità dei veicoli spaziali, che hanno permesso di portare gli strumenti di misura γ, X, UV e IR fuori dall' atmosfera terrestre. 1.2) Le osservabili astrofisiche Per quanto riguarda i fotoni, si distinguono due tipi di osservabile: il flusso e la brillanza. Il flusso è la quantità totale di energia radiante che per unità di tempo attraversa l'unità di superficie, indipendentemente dalla direzione di provenienza dei fotoni. Il flusso F è quindi definito come la potenza radiante W per unità di superficie e quindi

F = dW

dA

= hν dn

dt dA

(1.1)

dove con hν abbiamo indicato l' energia associata a ciascun fotone e con [dn/ dt] il flusso fotonico. Un caso particolare e' quello di una sorgente isotropa, ovvero che emette energia uniformemente in tutte le direzioni: ad esempio una stella isolata, a simmetria sferica. Il flusso osservato da una sorgente puntiforme e' inversamente proporzionale al quadrato della distanza dalla sorgente: consideriamo due sfere concentriche centrate sulla stella e di raggio r1 e r2. In condizioni stazionarie, e se non ci sono perdite di energia (assorbimenti) nello spazio tra r1 e r2, la conservazione dell' energia impone che l'energia che per unità di tempo attraversa la sfera 1 sia uguale all'energia che attraversa la sfera 2. Introducendo il flusso avremo che

F(r1) 4 πr12 = F(r2) 4 πr2

2→ F(r) = K

r2

(1.2)

La brillanza è la quantità totale di energia radiante che per unità di tempo attraversa l' unità di superficie, provenendo da un angolo solido unitario intorno ad una direzione prefissata. La brillanza è definita quindi come la potenza per unità di superficie e per unità di angolo solido:

B( → θ

) = dW

dA dΩ

= hν dn

dA dΩdt

(1.3)

dove [(θ)\vec] e' la direzione di osservazione (che può anche essere definita da due angoli α e δ), e dΩ è l'elemento di angolo solido centrato in tale direzione. A differenza del flusso, che è una quantità integrale, la brillanza mantiene l' informazione riguardante le direzioni di provenienza dei fotoni. Tale informazione è superflua nel caso di una sorgente puntiforme a grande distanza (tutti i fotoni arrivano dalla stessa direzione, ed è quind i sufficiente misurare il flusso), ma è essenziale nel caso di sorgenti diffuse, delle quali si debba studiare la morfologia. Una mappa di una sorgente diffusa non e' altro che una rappresentazione della brillanza di tale sorgente in funzione della direzione in cielo, e cioè di due variabili angolari (normalmente ascensione retta e declinazione, oppure latitudine e longitudine galattiche). Come esempio si riportano in fig.1.2 quattro mappe di M31 (Andromeda), ottenute rispettivamente a 430 nm (blu, pannello a), 21 cm (b), 60 µm (c) e 0.5 ÷ 4.5 KeV (d). E' evidente che ciascuno dei pannelli mostra la brillanza di M31 in funzione delle due variabili angolari ascensione retta e declinazione. Le 4 mappe sono un buon esempio di quanto detto ne l primo paragrafo rispetto all' importanza e complementarietà di osservazioni ottenibili da bande diverse. La mappa (fotografia ottica) nel blu è particolarmente sensibile alle stelle ed alle regioni HII, concentrate nelle braccia a spirale e nel nucleo. Le unità di misura usuali della brillanza sono in questo caso magnitudini per minuto d'arco quadrato. La mappa a 21 cm è sensibile all'emissione dell' idrogeno neutro (transizione iperfina nello stato fondamentale a 21.105 cm o 1420.4 MHz): questo è confinato completamente nelle braccia a spirale, e la galassia a questa lunghezza d'onda appare come un anello. Qui la brillanza è espressa usualmente tramite la temperatura d'antenna in Kelvin. Alla lunghezza d'onda di 60 µm la mappa realizzata dal satellite IRAS è sensibile soprattutto ad un anello di polveri e gas a temperatura intorno a 30 ÷ 40 K, ed all'emissione di sincrotrone presente nel nucleo della galassia. Qui le curve di livello sono tracciate in MJy/sr: il MJy (Mega Jansky) è una unità di misura del flusso utilizzata in radioastronomia (1 Jy = 10-26 W m-2 Hz-1). Nella banda X a cui era sensibile il satellite Einstein emettono principalmente sorgenti non risolte, probabilmente oggetti compatti come residui di supernova o nane bianche in sistemi binari. Qui la brillanza è espressa di solito in conteggi per s, m2, sr e KeV. 1.3) Elementi di Fotometria Gli apparati sperimentali capaci di misurare la potenza radiativa sono detti fotometri. Essi comprendono un sistema ottico (che serve a raccogliere la radiazione di interesse) ed un rivelatore (che normalmente trasforma la potenza radiativa in un segnale elettrico misurabile e registrabile). Il calcolo della quantità di radiazione trasferita da una sorgente a un sistema di misura è ovviamente fondamentale per l'astrofisica sperimentale. Introdurremmo quindi qui alcuni concetti basilari del trasferimento geometrico di radiazione (Wyatt 1978). Alla base della teoria è il raggio di luce, definito come un fascio di flusso radiativo di sezione infinitesima. Tale raggio connette due superfici infinitesime di area ∆A1 e ∆A2 poste a distanza s. Tutta la potenza radiativa del fascio che fluisce attraverso ∆A1 deve anche fluire attraverso ∆A2 (Fig.1.3 A). Si definisce la rapidità ottica (o throughput in inglese, o etendue in francese) del raggio di luce come il prodotto tra l'area efficace del raggio e l'angolo solido proiettato (perpendicolarmente alla direzione di propagazione). Vedremo che la rapidità ottica di un fascio luminoso quantifica la quantità di energia radiante trasportata dal fascio stesso. E' intuitivo che per energia radiativa costituita da fotoni che si muovono isotropicamente in tutte le direzioni, il numero di fotoni raccolti da un rivelatore sarà tanto maggiore quanto maggio re sarà l'angolo solido di raccolta e quanto maggiore sarà l'area efficace di raccolta.

Tabella 1.1: Lo spettro elettromagnetico. Per ogni tipo di radiazione elettromagnetica sono riportate le bande di lunghezza d'onda l, di frequenza n, l'energia per fotone E = hn, la temperatura T = hnk necessaria perché la materia emetta efficientemente quel tipo di radiazione, la trasparenza media

dell'atmosfera terrestre.

Fig. 1.1: Trasparenza dell'atmosfera ai fotoni. Nel grafico è riportata la quota a cui la radiazione

proveniente dal cielo è ridotta a metà. Sotto la figura sono elencati i meccanismi fisici responsabili dell'attenuazione.

Fig. 1.2: Quattro mappe di brillanza della galassia M31 (Andromeda) ottenute nel blu (a), nel radio

(b), nel lontano IR (c) ed in raggi X (d)

Fig. 1.3: Raggio di luce e sua rapidità ottica

Fig. 1.4: Conservazione della brillanza nella propagazione di un raggio di luce dal mezzo 1 al mezzo 2

Ricordiamo che l'angolo solido proiettato sotteso da una superficie A a distanza s da un punto è pari ad A cosθ/ s2, dove θ è l'angolo tra la normale alla superficie e la direzione s. Nel caso di un raggio che si propaghi lungo l'asse z, l' angolo solido proiettato può essere espresso in coordinate sferiche come dΩ = cosθdω, dove dω = sinθdθdφ è l'elemento di angolo solido geometrico in coordinate sferiche. Se si considera la superficie ∆A1, la rapidità ottica infinitesima del raggio è pari a (Fig. 1.3 B)

∆U1 = (∆A1 cosθ) ×(∆A2 cosφ/s2)

mentre se si considera la superficie ∆A2 si ha una rapidità ottica infinitesima pari a (Fig. 1.3 C)

∆U2 = (∆A2 cosφ) ×(∆A1 cosθ/s2) Le due sono evidentemente uguali, per cui si può affermare che in un mezzo omogeneo la rapidità ottica di un raggio di luce è costante. D'altra parte, dalla definizione di raggio di luce, anche la potenza radiativa è una costante lungo il raggio. Si può allora concludere che la brillanza B (rapporto tra potenza W e rapidità ottica T) è conservata lungo un raggio di luce:

B1 = ∆W

∆U1

= ∆W

∆U2

= B2 (1.4).

I risultati precedenti possono essere generalizzati al caso di propagazione del raggio di luce in un mezzo non omogeneo. Consideriamo stavolta un raggio di luce che attraversi una superficie di separazione tra due mezzi a differente indice di rifrazione (n1 ed n2), e che quindi cambi direzione a causa della rifrazione sulla superficie infinitesima ∆A (vedi fig.1.4). Prendiamo stavolta per semplicità ∆A1 e ∆A2 normali al raggio. La potenza che arriva su ∆A da ∆A1 e' quindi

∆W = B1 ∆A1∆A cosθ1 /s12

La stessa potenza dovrà ripartire da ∆A verso ∆A2, (trascuriamo qui la potenza riflessa) e si otterrà quindi

B2 = B1 cosθ1 ∆A1 /s1

2

cosθ2 ∆A2 /s22

= B1 cosθ1 ∆ω1

cosθ2 ∆ω2

(1.5)

dove con ∆ω si sono indicati gli angoli solidi dei raggi di ingresso e di uscita. Ora la relazione tra θ1 e θ2 e' data dalla legge di Snell per la rifrazione: n1 sinθ1 = n2 sinθ2 dalla quale, differenziando, si ottiene n1 cosθ1∆θ1 = n2 cosθ2∆θ2. Moltiplicando tra loro queste due ultime equazioni si ha (n2/n1)2 = (sinθ1∆θ1 / sinθ2∆θ2) (cosθ1 / cosθ2) che può essere inserita nella (1.5) ottenendo

B2 = B1

n2

n1

2

(1.6)

La (1.6) è detta teorema fondamentale della radiometria o teorema della brillanza: la quantità B/n2 è invariante in un qualsiasi raggio che si propaghi in un sistema ottico esente da perdite. L'invarianza è vera indipendentemente dal numero di componenti del sistema ottico o dai loro diametri. Nella maggior parte dei casi la sorgente e l'osservatore si trovano nello stesso mezzo. In queste condizioni il teorema della brillanza implica che è impossibile aumentare la brillanza apparente di una sorgente per mezzo di sistemi ottici comunque complicati. Se invece il rivelatore si trova in un mezzo ad indice di rifrazione maggiore di quello della sorgente, il teorema precedente garantisce una amplificazione della brillanza. Questo trucco viene utilizzato nelle cosiddette ottiche ad immersione, nelle quali il rivelatore è immerso nella lente collettrice, migliorandone così la sensibilità.

Fig. 1.5: Calcolo della potenza trasferita da una sorgente qualsiasi di brillanza B ad un collettore di radiazione di area Ac.

Fig. 1.6: Conservazione della rapidità ottica di un fascio che attraversa una lente convergente.

Torniamo ora al problema generale di nostro interesse, il calcolo della potenza radiativa trasferita dalla sorgente (area As) al rivelatore (o collettore, di area Ac). In pratica (vedi fig.1.5) si dovrà calcolare la potenza infinitesima su ciascuno dei raggi:

∆W = B ∆As cosθ∆ωs

e poi integrare su tutti i raggi possibili, cioè eseguire un integrale doppio su tutte le areole ∆As e tutti gli angoli solidi ∆ωs:

W = ⌠ ⌡

As ⌠ ⌡ωs

B dAs cosθdωs (1.7).

Quando la distanza s tra sorgente e rivelatore è grande sia rispetto alle dimensioni della sorgente che rispetto alle dimensioni del rivelatore l'equazione precedente si può semplificare in

W = B ⌠

⌡ As dAs

⌠ ⌡ωs

cosθdωs = B As Ωs = B As Ac

s2

= B Ac Ωc (1.8)

dove Ωc è l'angolo solido sotteso dalla sorgente al collettore (e non l' angolo solido intrinseco del collettore, che può essere maggiore, ma inutilizzato). Quindi, nel caso di una sorgente estesa (più estesa dell' angolo solido del rivelatore) la potenza raccolta è data dal prodotto della brillanza della sorgente per la rapidità ottica del rivelatore. Se invece la sorgente è di piccole dimensioni e non riempie il campo di vista del rivelatore, si applica la relazione W = B As Ωs. Possiamo fare un primo esempio pratico considerando come sorgente il Sole. La brillanza emessa del sole si trova facendo il rapporto tra potenza emessa dal sole e rapidità ottica del sole. La prima vale W = 3.8 ×1026 W, mentre la seconda si trova calcolando Us = ∫A cosθdAs ∫dω = πr2 ×4 π , dove r e' il raggio del sole (r = 6.96 ×108 m) e πr2 è ovviamente l'area proiettata. Allora B = 1.98 ×107 W/m2/sr, e la potenza che arriva a terra (o meglio alla sommità dell' atmosfera, che ne assorbe una quantità significativa) è W = B As Ac / s2. Sapendo che s = 1.5 ×1011 m si ha un flusso pari a 1340 W/m2 (costante solare). Consideriamo come secondo esempio il sistema ottico più semplice possibile: una lente convergente di focale f (vedi fig.1.6). La radiazione proveniente da sinistra ha una rapidità ottica pari al prodotto della superficie della lente (Ain = πD2/4) per l' angolo solido Ωin ≅πθin

2 / 4. Tutti i raggi del fascio proveniente da sinistra convergeranno nel piano focale della lente in una area di diametro d da cui usciranno verso destra con angolo solido Ωout ≅πθout

2 / 4. La rapidità ottica del fascio in uscita sarà quindi il prodotto di Aout = πd2/4 per Ωout . Dalla definizione di distanza focale della lente e' immediato vedere che θin≅ d/f. D'altra parte, e' chiaro che da ogni elemento di area nel piano focale, uscirà un fascio di radiazione di dispersione θout≅ D/f. Facendo il rapporto si ottiene subito θout / θin = D / d, e quadrando si ha subito Ain Ωin = AoutΩout. Avendo imposto la conservazione di tutti i raggi del fascio ottico attraverso la lente abbiamo ottenuto la conservazione della rapidità ottica. E' chiaro quindi che questa deriva direttamente dalla conservazione dell' energia. La conservazione della rapidità ottica può essere dimostrata anche termodinamicamente col seguente ragionamento: supponiamo che due cavità di corpo nero (vedi paragrafo 1.4) siano connesse tra loro attraverso un sistema ottico. Se le due cavità hanno la stessa temperatura, la potenza radiativa che scorre dalla prima alla seconda deve essere uguale a quella che scorre dalla seconda alla prima, in modo da non violare il secondo principio della termodinamica. Ma la brillanza delle due cavità è identica, per cui per ottenere la conservazione della potenza devono essere uguali le rapidità ottiche di ingresso e di uscita del sistema ottico. La (1.8) mostra che a parità di brillanza della sorgente, la potenza raccolta dal rivelatore, e quindi il segnale misurato, saranno tanto maggiori quanto maggiore sarà la rapidità ottica del rivelatore. L'angolo solido di sensibilità del rivelatore è detto anche campo di vista. Nel caso ideale, un rivelatore è sensibile a tutta la radiazione fino ad un ben preciso angolo rispetto all' asse ottico, mentre respinge completamente radiazione proveniente da angoli maggiori. Si usa al solito un

sistema di coordinate sferiche con l'asse z coincidente con l'asse ottico: l'angolo solido per un campo di vista a simmetria sferica, con semiampiezza α è quindi

ω = ⌠2π ⌡0

dφ ⌠α

⌡0 sinθdθ = 2 π( 1 - cosα) (sr) (1.9)

E' però più corretto utilizzare l'elemento di angolo solido proiettato dΩ = cosθdω: è questo l'angolo solido che si deve utilizzare tutte le volte che si utilizzano brillanza e flusso, perché include l'effetto di proiezione dell'area. L'angolo solido corrispondente ad un campo di vista di semiampiezza α è quindi

Ω = ⌠2π ⌡0

dφ ⌠α

⌡0 sinθcosθdθ = πsin2 α (sr) (1.10)

Va notato che il valore dell' angolo solido calcolato usando le (1.10) e (1.9) è lo stesso entro l'1% per angoli α < 10o. Per una semisfera completa la (1.9) vale 2 π (area della semisfera), mentre la (1.10) vale π (area della proiezione della semisfera sulla sua base). Il campo di vista può essere individuato anche dall'apertura relativa o f-number (f/#), che e' definito come il rapporto tra la lunghezza focale e il diametro del sistema ottico. E' quindi tanto maggiore quanto e' maggiore la distanza focale a parità di diametro di ingresso: aumenta quindi al diminuire del campo di vista. Con riferimento alla fig.1.7 si ha subito la relazione tra angolo solido del fascio e apertura numerica (tab. 1.2):

f/# = 1

2 sinα

→Ω= π

4

1

(f/#)2

(1.11)

Abbiamo visto che tanto maggiore è Ω tanta più energia trasporta il fascio luminoso. E' ben noto il caso degli obbiettivi per apparecchi fotografici, che sono tanto più luminosi quanto minore e' il loro f/#, riuscendo a concentrare sullo stesso elemento di pellicola una maggiore quantità di luce. Ad esempio si considerino due teleobbiettivi da 200 mm, il primo f/2 ed il secondo f/4. L'area del rivelatore è in ambedue i casi lo stesso fotogramma (24 mm × 36 mm), ed anche la focale è la stessa. D' altra parte l' angolo solido di uscita del primo obbiettivo è 3.9 volte maggiore di quello del secondo (vedi tab.1.2), e quindi, a parità di brillanza della scena fotografata, il primo obbiettivo concentra sul fotogramma 3.9 volte più potenza luminosa. Dalla definizione di f/# e' evidente che la maggiore luminosità del primo obbiettivo si ottiene tramite una lente di ingresso di diametro doppio di quella del secondo, e conseguentemente i costi di progetto e realizzazione del primo obbiettivo saranno sicuramente maggiori. Il campo di vista di un rivelatore non e' mai ideale. Ogni sistema di rivelazione di radiazione possiede una caratteristica funzione di risposta angolare , che ne descrive la sensibilità in funzione della direzione di provenienza dei fotoni. Normalmente la risposta angolare è massima nella direzione centrale e decresce rapidamente allontanandosi da questa. I fattori che allargano la risposta angolare sono molteplici: la diffrazione, le aberrazioni del telescopio, le dimensioni non infinitesime del rivelatore posto nel fuoco del telescopio nel caso di rive latore singolo, le dimensioni finite del singolo pixel del rivelatore nel caso di un mosaico di rivelatori. Nel caso della mappa a 60 µm di figura 1.2 l'angolo solido di sensibilità ha un diametro di circa 1 minuto d'arco, ed è dovuto alla diffrazione: IRAS aveva infatti un telescopio di 60 cm di diametro (D), che a λ = 60 µm ha una risoluzione limitata dalla diffrazione, data da 2θ ≅ 2.44 λ/ D = 2.44 ×10-4 rad = 0.84 arcmin.

Fig. 1.7: Definizione dell'f/# o apertura numerica di un sistema ottico.

Tabella 1.2: Relazione tra f/#, campo di vista q in gradi (FWHM) e angolo solido W in sr.

In generale la risposta angolare è una funzione di due variabili angolari che definiscono la direzione di provenienza della radiazione. Nel caso di sistemi a simmetria cilindrica (quali ad esempio i sistemi ottici in asse) la risposta angolare può essere funzione di una sola variabile, e cioè dell'angolo tra la direzione di provenienza della radiazione e l' asse di simmetria del sistema (asse ottico). Sia RA(α, δ) o RA(θ) la risposta angolare del sistema. Esempi di risposta angolare nel caso a simmetria cilindrica sono la gaussiana

RA(θ) = e-1/2

( [(θ)/( σ)] )2 (1.12)

e la risposta uniforme (campo di vista ideale)

RA(θ) = 1 se |θ| < θo ; RA(θ) = 0 se |θ| > θo (1.13)

Per dare una indicazione dell'ampiezza dell'angolo solido di accettazione del sistema ottico (beamsize) si dà di solito la larghezza totale a metà altezza della risposta angolare (abbreviata spesso FWHM, full width half maximum). Per una risposta gaussiana (eq.1.12) si ha FWHM = 2 σ√ 2 ln2 , mentre per una risposta uniforme si ha FWHM = 2 θo. Il flusso che arriva sul rivelatore quando l'asse ottico e' orientato nella direzione αo, δo sara' un integrale della brillanza della sorgente, in cui a ciascuna direzione α, δ si associa un peso pari alla relativa risposta angolare:

F (αo, δo) = ⌠ ⌡4π

B(α, δ) RA(θ) dΩ (1.14)

dove θ è l'angolo tra le due direzioni αo, δo e α, δ. Per ricavare una mappa della brillanza si dovrà variare la direzione dell'asse ottico ed utilizzare una procedura di deconvoluzione per invertire l'integrale (1.14). Normalmente tale inversione è possibile solo in modo approssimato, a causa degli errori sia nella misura di F che in quella di RA. 1.4: Brillanza specifica e flusso specifico Se la radiazione in esame non e' monocromatica, si definiscono il flusso e la brillanza specifiche come flusso e brillanza per unità di frequenza:

Fν = dW

dA dν

; Bν = dW

dA dΩdν

(1.15)

o di lunghezza d'onda (λ = c / ν):

Fλ = dW

dA dλ

; Bλ = dW

dA dΩdλ

(1.16)

o di numero d'onde (σ = 1/ λ):

Fσ = dW

dA dσ

; Bσ = dW

dA dΩdσ

(1.17)

Le relative unità di misura sono W/m2/Hz, W/m2/sr/Hz, W/m2/m, W/m2/sr/m, W/m2 /m-1, W/m2/sr/m-1 (sistema internazionale). A seconda della banda di lunghezze d'onda si usano comunemente unità CGS, SI o (spesso) ibride: ad es. nel visibile e' di uso comune utilizzare erg/s/cm2/A o nell' infrarosso W/cm2 /sr/µm. Le conversioni da una quantità all' altra si ricavano semplicemente da λ = c / ν → |dλ| = c d ν/ ν2→|dλ/ λ| = |d ν/ ν| e simili; quindi

λFλ = λ dW

dA dλ

= λ ν2

c dW

dA dν

= νFν = σFσ (1.18)

Fig. 1.8: Fotometro. Un sistema di misura fotometrico è utilizzato a valle di un sistema di concentrazione della radiazione (ad esempio un telescopio). Della radiazione in uscita dal

telescopio, con angolo solido W, viene selezionata la frazione incidente su una limitata area sensibile A nel piano focale PF. Le dimensioni di A sono selezionabili attraverso la rotazione della ruota porta aperture RAP. Il throughput del fotometro è AW. Il campo di vista è limitato all' angolo solido A/f2 (dove f è la focale del telescopio). Una lente di campo LC concentra la radiazione su un

rivelatore R, che produce un segnale V proporzionale alla potenza incidente W. Di solito il rivelatore è mantenuto a bassa temperatura (T) per limitarne la corrente di buio e/o il rumore. Le lunghezze d'onda di interesse sono selezionate dal filtro F, che può essere cambiato ruotando la

ruota cambia filtri RF. Il fotometro ha sensibilità dipendente dalla lunghezza d'onda attraverso la funzione efficienza spettrale e(l), che pesa in diverso modo i contributi alla misura del flusso

specifico F(l) della sorgente.

Se il sistema di rivelazione della radiazione è sensibile a più di una lunghezza d'onda, si introduce l'efficienza spettrale e(λ): una funzione che descrive la differente sensibilità del sistema di misura a differenti lunghezze d'onda della radiazione rivelata. In realtà i normali rivelatori (fotoconduttori, CCD, bolometri ...) sono sensibili ad una gamma molto ampia di lunghezze d'onda. Per selezionare le lunghezze d'onda d'interesse si pone di fronte al rivelatore un filtro, capace di trasmettere una banda ristretta di lunghezze d'onda, e di assorbire o riflettere le altre lunghezze d'onda. La composizione del filtro dipende dalla banda di lunghezze d'onda di interesse, e sarà studiata in seguito. L'efficienza spettrale è quindi il prodotto della efficienza intrinseca del rivelatore per la funzione di trasmissione del filtro: e(λ) = eR(λ) ×t(λ). Il flusso misurato dal rivelatore si otterrà come integrale del flusso specifico, pesando ogni lunghezza d'onda con l' efficienza spettrale (fig.1.8):

Fm = ⌠∞ ⌡0

Fλ e(λ) dλ (1.19)

Gli strumenti sensibili a radiazione proveniente da tutta una banda di lunghezze d'onda, sono detti fotometri. Per indicare grossolanamente la banda di sensibilità di un fotometro si usa dare la lunghezza d'onda di massimo e la FWHM di e(λ), ma una interpretazione quantitativa dei dati provenienti da un fotometro può essere data unicamente conoscendo tutta la funzione e(λ). Per contro, gli strumenti che misurano direttamente il flusso specifico o la brillanza specifica sono detti spettrometri, perché capaci di fornire lo spettro Fλ (λ) o Bλ (λ) della radiazione misurata. Nel caso dei fotometri non si deve confondere il flusso misurato dal rivelatore Fm con il flusso integrato proveniente dalla stella

F = ⌠∞ ⌡0

Fλ dλ (1.20)

E' evidente che il primo è sempre inferiore al secondo, e misurando Fm non si può in generale risalire ad F. Inoltre, nel caso le misure siano effettuate da terra, l' efficienza spettrale sarà il prodotto dell' efficienza spettrale del fotometro per l' efficienza spettrale dell' atmosfera terrestre: e(λ) = eR(λ) ×t(λ) ×eA(λ). E' possibile in certi casi stimare F (λo) dalla misura di Fλ, a patto di scegliere una lunghezza d'onda λo opportuna. Se la banda del filtro è abbastanza stretta intorno alla frequenza λo, e se la sorgente in esame non ha forti variazioni spettrali all' interno della banda (ad esempio righe), sarà una buona approssimazione sviluppare in serie F(λ) intorno a λo. Si otterrà quindi che il flusso misurato vale

Fm = F(λo) ⌠∞ ⌡0

e(λ) dλ+

dF

dλ |λo

⌠∞ ⌡0

(λ- λo) e(λ) dλ+

1

2 d2 F

dλ2

|λo ⌠∞ ⌡0

(λ- λo)2 e(λ) dλ+ ....

Se l' approssimazione lineare è sufficiente, potremo scrivere

F(λo) =

Fm - dF

|λo ⌠∞ ⌡0

(λ- λo) e(λ) dλ

⌠∞ ⌡0

e(λ) dλ

(1.21)

e se scegliamo

λo = ⟨λ⟩ =

⌠∞ ⌡0

λe(λ) dλ

⌠∞ ⌡0

e(λ) dλ

(1.22)

possiamo stimare F( ⟨λ⟩) direttamente dal flusso misurato dal fotometro:

F( ⟨λ⟩) =

Fm

⌠∞ ⌡0

e(λ) dλ

(1.23).

Nel caso più generale, in cui l'approssimazione lineare non è sufficiente, si usa definire una lunghezza d'onda efficace

λeff =

⌠∞ ⌡0

λF(λ) e(λ) dλ

⌠∞ ⌡0

F(λ) e(λ) dλ

(1.24)

che è una media delle lunghezze d'onda all' interno del filtro, pesata anche con il flusso della sorgente. Se c'è all'interno della banda passante del filtro una lunghezza d'onda particolarmente intensa, questa peserà molto negli integrali, e la lunghezza d'onda efficace si avvicinerà ad essa. E' chiaro comunque che non si può scrivere a rigore una relazione simile alla (1.23) per la lunghezza d'onda efficace, anche se ai fini pratici questo viene fatto, e spesso i risultati mostrano che questa procedura è migliore delle (1.22) e (1.23). Vale la pena di sottolineare il fatto che la lunghezza d'onda efficace dipende dalla forma dello spettro della sorgente ma non dalla sua ampiezza. 1.5) Magnitudini Nell'astronomia ottica e nel vicino infrarosso si fa uso correntemente di una scala logaritmica di flusso, definendo la magnitudine apparente m di una sorgente attraverso la relazione di Pogson (1856)

m - mo = -2.5 log F

Fo

(1.25)

dove F è il flusso proveniente dalla stella in esame, mentre mo e Fo sono magnitudine e flusso di riferimento. Si noti che al crescere del flusso misurato diminuisce la magnitudine, ed una variazione di una magnitudine indica un fattore 2.512 in flusso. Questa scala è stata introdotta nel passato per motivi storici (la classificazione di circa 1000 stelle da parte di Ipparco) e fisiologici (la sensazione prodotta nell' occhio umano da flussi crescenti varia infatti logaritmicamente col flusso). Inoltre si è notato che per stelle la cui differenza di 'grandezza' era 5 secondo la classificazione di Ipparco, il rapporto tra i flussi misurati fotometricamente è all'incirca pari a 100: la relazione di Pogson è stata quindi assunta come definizione. Le stelle più deboli visibili ad occhio nudo hanno magnitudine apparente 6 (magnitudine limite). Utilizzando un telescopio si raccoglie il flusso proveniente dalla stella su una superficie maggiore di quella della pupilla umana (che ha un diametro d = 7 mm quando è adattata al buio) e lo si concentra tutto sulla pupilla. Dalla stessa stella si raccoglie quindi una potenza maggiore. Se Plim è

la potenza limite osservabile dall'occhio umano, e mlim la corrispondente magnitudine limite, mentre D è il diametro dell'obiettivo del telescopio, si hanno le due relazioni

mlim = mo - 2.5 log

Plim / πd2

Fo mlim, Tel = mo - 2.5 log

Plim / πD2

Fo

dalle quali e' immediato ricavare la magnitudine limite visibile dall' occhio umano attraverso un telescopio di diametro D (in metri):

mlim, Tel = mlim + 5 log D

d

= 16.8 + 5 logD(m) (1.26)

Il fatto di utilizzare come rivelatore una lastra fotografica invece dell' occhio permette poi di migliorare ancora la sensibilità di 2 ÷ 4 magnitudini. Le migliori osservazioni con camere CCD hanno permesso di arrivare a magnitudine limite 30 (Tyson 1990). Esistono diversi tipi di magnitudine apparente, dipendenti dall'efficienza spettrale dei filtri che si usano nei sistemi di misura. Avremo in generale (vedi 1.19)

mx - mxo = -2.5 log

⌠∞ ⌡0

Fλ ex(λ) dλ

⌠∞ ⌡0

Fo,λ ex(λ) dλ

(1.27)

dove x indica il filtro usato ed ex è la relativa efficienza spettrale. In tab.1.3 e fig.1.9 si riportano le caratteristiche dei principali filtri usati nel visibile e vicino infrarosso. I filtri nel visibile B e V sono stati creati cercando di ricalcare, se usati con un fotocatodo S-11, i picchi di risposta della normale emulsione fotografica e dell' occhio umano. I filtri infrarossi J,K,... sono invece limitati dalle 'finestre' di trasmissione atmosferica, cioè regioni spettrali in cui l'atmosfera terrestre ha una buona trasmissione. Va notato che non ci sono finestre atmosferiche utilizzabili in tutto l'intervallo di lunghezze d'onda tra 20 µm e 350 µm a causa di forti bande di assorbimento del vapor d'acqua. In tabella sono riportate anche 6 bande millimetriche utilizzabili con difficoltà da osservatori in alta montagna. L'atmosfera torna ad essere ben trasparente a lunghezze d'onda maggiori di 5 mm. Mentre la magnitudine apparente è una misura del flusso ricevuto a terra dalla stella, ricordiamo che la magnitudine assoluta è una misura del flusso emesso dalla stella, reso indipendente dalla distanza della stella da terra. La magnitudine assoluta è definita infatti come la magnitudine apparente che la sorgente avrebbe se si trovasse ad una distanza di 10 pc (1 pc = 3.086 ×1016 m = 3.261 anni luce). La magnitudine assoluta va inoltre corretta per qualsiasi assorbimento A subito dalla luce nel cammino dalla stella al telescopio. La relazione tra magnitudine apparente m ed assoluta M per una stella che si trovi a distanza D(pc) si trova immediatamente dalla (1.2): basta immaginare di spostare la stella dalla sua posizione reale (distanza D(pc)) ad una posizione a 10 parsec da terra. Il flusso ricevuto variera' di un fattore (D(pc)/10)2 (vedi eq.1.2) e si avrà quindi M - m = -2.5 log(D(pc)/10)2, e, tenendo conto di un eventuale assorbimento pari ad A magnitudini, si ottiene

M = m + 5 - 5 log(D(pc)) - A (1.28).

Le differenze di magnitudine a lunghezza d'onda diversa danno un' idea dello spettro della sorgente (fotometria multibanda). Si definiscono gli indici di colore come differenze di magnitudini in bande diverse: X - Y = mx - my. Ad esempio B-V = mB - mV. Le quantità Fo per le varie bande (tab.1.3 ed eq. 1.27) sono state scelte per ottenere indici di colore 0 per stelle di sequenza principale di tipo spettrale A0. Vedremo che gli indici di colore sono estremamente utili per stimare in modo semplice classe spettrale, temperatura, arrossamento ed altri parametri stellari.

Tabella 1.3: Bande fotometriche standard. Per ogni banda sono riportate la lunghezza d'onda centrale lo, la larghezza a metà altezza della banda FWHM, il flusso corrispondente a magnitudine

nulla Fo.

Fig. 1.9: Trasmissioni e(l) delle bande fotometriche standard U,B,V.

1.6) Radiazione termica - Corpo Nero Molte sorgenti astrofisiche emettono radiazione di origine termica: emessa cioè da transizioni (eccitate termicamente) degli elettroni componenti la sorgente, in condizioni di equilibrio termodinamico. Un corpo nero è un gas di fotoni in equilibrio termodinamico con un contenitore. C'è quindi un equilibrio statistico tra fotoni assorbiti e fotoni emessi dalle pareti. Per poter mantenere l'equilibrio termodinamico, il contenitore deve essere capace di assorbire completamente fotoni eventualmente provenienti dall' esterno. Il corpo nero è quindi un corpo capace di assorbire completamente la radiazione incidente. Uno strumento che approssima un corpo nero è una cavità isoterma, con una apertura molto piccola rispetto alle sue dimensioni. Indipendentemente dalla natura fisica delle pareti della cavità, qualsiasi radiazione che entri dall' apertura deve essere riflessa (e parzialmente assorbita) molte volte all' interno della cavità prima di poter uscire dall' apertura: tanto che in pratica la radiazione non assorbita e' trascurabile. In generale la brillanza specifica irraggiata da un corpo ad una qualsiasi temperatura è una funzione e(ν, T, x) della frequenza ν, della temperatura T e delle caratteristiche fisiche del corpo x. Per lo stesso corpo si può definire una emissività (o potere assorbente) ε(ν, T, x) pari al rapporto tra energia assorbita dal corpo ed energia incidente su di esso. Sarà in generale ε ≤ 1, e per il corpo nero sarà ε = 1. Kirchoff (1860) dimostrò su basi puramente termodinamiche che per un corpo in equilibrio termodinamico

e (ν, T, x)

ε(ν, T, x)

= BB (ν, T) (1.29)

dove BB è una funzione indipendente dalle caratteristiche del corpo. BB è evidentemente anche la brillanza emessa da un corpo nero alla temperatura T: si capisce quindi l' importanza di tale funzione, e la generalità del principio di Kirchoff: se un qualsiasi atomo ha particolari frequenze di assorbimento, a quelle stesse frequenze deve anche emettere efficientemente. Dal nostro punto di vista, la radiazione di corpo nero si presenta quindi come la sorgente di calibrazione per eccellenza: basta conoscere un unico parametro, la temperatura, ed è univocamente determinata la sua brillanza specifica. Nessuna altra sorgente ha proprietà analoghe, ed in generale i parametri necessari per poter predire a priori la brillanza specifica di una sorgente sono molti e così indeterminati che è impossibile usare una sorgente qualsiasi come calibratore. Per dimostrare la (1.29) supponiamo di introdurre in una cavità di corpo nero un corpo non ne ro alla stessa temperatura della cavità. Siccome tutto e' in equilibrio alla stessa temperatura, l'energia radiante assorbita dal corpo deve essere identica a quella emessa (altrimenti il corpo si scalderebbe, violando i principi termodinamici), e deve quindi essere e( ν, T, x) = brillanza assorbita dal corpo = ε(ν, T, x) ×BB(ν, T). La derivazione classica di una corretta espressione per BB è impossibile, e la formula esatta fu ottenuta euristicamente da Planck (1900), introducendo l'ipotesi dei quanti: le energie possibili per la radiazione sono quantizzate, con En = nhν. Nella dimostrazione originale di Planck questa ipotesi fondamentale era quasi un artificio matematico, e solo più tardi ne fu riconosciuta la portata. Ammettendo che la radiazione sia costituita da fotoni, di frequenza ν ed energia hν, si può ricavare facilmente l' espressione di BB(ν, T). Si considera una cavità in equilibrio termodinamico con la radiazione al suo interno. Ogni stato della radiazione di frequenza ν può contenere n fotoni, e l'energia dello stato sarà En = n h ν. Per un sistema (la radiazione) in equilibrio termodinamico deve valere la statistica di Boltzmann, e la probabilità dello stato con energia En è proporzionale a e-βE

n, con β = 1 / kT. L' energia media dello stato con frequenza ν sarà quindi

⟨E ⟩ =

∑ n = 0

En e-βEn

∑ n = 0

e-βEn

= - d

ln

∑ n = 0

e-βEn

Utilizzando la formula della somma di una serie geometrica

∑ n = 0

e-βEn =

∑ n = 0

e-n βh ν = 1

1 - e- βh ν

si ottiene subito

⟨E ⟩ = h νe-βh ν

1 - e-βh ν =

h ν

e h ν/ kT - 1 (1.30)

Siccome hν è l'energia di un fotone di frequenza ν, il numero medio di fotoni di frequenza ν (detto anche numero di occupazione) è

⟨nν⟩ = 1

e h ν/ kT - 1

(1.31)

(dove si riconosce l'usuale espressione della distribuzione di Bose-Einstein per particelle con potenziale chimico nullo). A questo punto abbiamo a disposizione l'energia media di uno stato (o grado di libertà) della radiazione in una cavità isoterma. Basterà quindi moltiplicare per il numero di gradi di libertà di quello stato per ottenere la densità di energia della radiazione nella cavità e quindi la brillanza della radiazione di corpo nero. Questo approccio ha il vantaggio di essere completamente indipendente dai dettagli dei processi di emissione ed assorbimento dei fotoni sulle pareti della cavità. Il calcolo del numero di gradi di libertà (o modi) del campo elettromagnetico nella cavità è analogo al problema della corda vibrante (unidimensionale) o delle onde sonore stazionarie in una cavità (caso tridimensionale). Le onde stazionarie sulla corda possono avere una varietà di lunghezze d'onda (fondamentale ed armoniche), a patto che sia m λ/ 2 = L, dove m e' il numero intero che definisce il modo di vibrazione ed L e la lunghezza della corda. Quindi m = 2 L ν/c, e dm = 2 L dν/c. La generalizzazione tridimensionale della precedente equazione, in coordinate sferiche, è dm = 2 L3ν2 dνdΩ/ c3 e quindi la densità di stati o modi (per unità di volume, frequenza, angolo solido) è

Z (ν) = 2 ν2 / c3 (1.32).

La densità di energia dei fotoni sarà quindi in media (in energia per unità di volume, angolo solido e frequenza)

u (ν, T) = Z(ν) ×⟨E(ν) ⟩ = 2 ν2

c3 h ν

e h ν/ kT - 1

(1.33)

Il legame tra densità di energia e brillanza si ottiene semplicemente notando che per la superficie dA passeranno nel tempo dt tutti i fotoni contenuti in un cilindro allineato con l'angolo solido

considerato, lungo c dt e di volume c dA dt: quindi l'energia in esso contenuta sarà dE = u c A dt dν dΩ. Si ha quindi

Bν = dE

dA dΩdt dν

= c u (1.34)

e, nel caso del corpo nero, si ottiene la funzione di Planck per la brillanza:

BB(ν, T) = 2 h ν3

c2 1

e h ν/ kT - 1

(1.35)

La potenza contenuta in un fascio di radiazione di corpo nero sarà semplicemente

P(ν, T) dν = AΩBB(ν,T) dν = A Ω 2 h ν3

c2 1

e h ν/ kT - 1

dν (1.36)

Finora abbiamo ricavato la brillanza della radiazione in una cavità in equilibrio termico. Per generalizzare questo risultato a radiazione che si propaga nello spazio aperto, si calcolerà di nuovo il numero di modi presenti nel fascio di radiazione, e si moltiplicherà per l'energia media del singolo modo. Se consideriamo un unico modo, la sua rapidità ottica sarà limitata dalla diffrazione: infatti un fascio di radiazione di lunghezza d'onda finita deve anche avere una divergenza finita. Per calcolarla basta considerare la diffrazione di Fraunhoffer attraverso una apertura circolare (la sorgente del fascio di radiazione) di diametro d qualsiasi: si avrà

A ×Ω = π d2

4 ×

π

4

1.22 λ

d

2

≅ λ2 (1.37)

Quindi se vogliamo rendere il fascio parallelo (e quindi ridurre Ω), siamo obbligati ad aumentare l'area della sorgente, per limitare l'effetto della diffrazione (questo è il motivo per cui per ottenere alta risoluzione angolare si costruiscono radiotelescopi di grande diametro). E' ragionevole pensare che un singolo modo della radiazione abbia rapidità ottica minima, e quindi data dalla (1.37). In un fascio di radiazione non limitato dalla diffrazione il numero di modi contenuti sarà semplicemente

M = 2 × A Ω

λ2

= 2 × A Ων2

c2 (1.38)

dove il fattore 2 è stato inserito per contare le due polarizzazioni indipendenti. La potenza in un fascio di radiazione termica che si propaga nello spazio libero si otterrà moltiplicando il numero di modi M per l'energia per fotone hν per il numero di fotoni per modo (e[(hν)/ kT] -1)-1: si ottiene allora

P(ν, T) dν = M ×⟨E ⟩ = 2 A Ων2

c2 ×⟨E ⟩dν = =

2h

c2 AΩ

ν3

e h ν/ kT - 1 dν (1.39)

che è il risultato già noto (1.36) per la potenza di corpo nero, ma generalizzato al caso di un fascio di radiazione che si propaga fuori da cavità, nello spazio aperto. L' unica ipotesi di lavoro che abbiamo fatto è che il numero di fotoni per secondo e per unità di frequenza in un modo sia sempre dato da (e[(hν)/ kT] -1)-1, visto che la radiazione è di origine termica. Il risultato ottenuto, confermato sperimentalmente, giustifica questa ipotesi. Formule pratiche per il calcolo dell' emissione di corpo nero sono riportate qui sotto:

BB(σ, T) = c BB(ν, T) = 2 h c2 σ3

e[( hcσ)/ kT] - 1 =

= 1.191×10-12

σ3

e[(1.4388 σ)/ T] - 1 W/cm2/sr/cm-1 , σ in cm-1 , T in K (1.40)

BB(λ, T) = c

λ2

BB(ν, T) = 2 h c2

λ5 ( e[ hc/( λkT)]- 1) =

= 1.191×104 1

λ5 e[14388/( λT)] - 1

W/cm2/sr/µm , λ in µm , T in K (1.41)

Per il calcolo numerico di integrali sulla distribuzione spettrale, è utile introdurre la variabile adimensionale x = hν/ kT, pari al rapporto tra energia del fotone ed energia termica. La brillanza di corpo nero si scrive allora

BB(x, T) = kT

h

BB(ν, T) = 2 k4

h3 c2 T4

x3

ex - 1 =

= 2.779×10-13 T4

x3

ex - 1 W/cm2/sr , T in K (1.42)

In fig.1.10 sono graficate su scale lineari e logaritmiche curve di corpo nero con diverse temperature. Si deve notare che la brillanza emessa da un corpo nero a temperatura superiore è sempre maggiore (qualsiasi sia la lunghezza d'onda) di quella emessa da un corpo nero a temperatura inferiore (le curve di corpo nero non si intersecano). La regione spettrale a lunghezze d'onda inferiori a quella di massima emissione è detta regione di Wien (x >> 1); la regione spettrale a lunghezze d'onda maggiori è detta regione di Rayleigh-Jeans (x << 1). Il massimo dell'emissione di corpo nero si trova annullando la derivata della brillanza fatta rispetto alla variabile spettrale. Si noti che a causa delle diverse espressioni della brillanza, usando BB(ν,T), o BB(σ,T), o BB(λ,T), o BB(x,T) si troveranno lunghezze d'onda di massima brillanza leggermente diverse tra loro. Utilizzando la BB(x,T), si trova 1-e-x

m = xm/5 e quindi xm = 4.96, da cui deriva

λm T = 0.290 cm K (1.43)

La (1.43) è detta legge di Wien. Alcuni esempi: un corpo nero con T = 6000 K ha massima emissione a λm≅ 5000 Å; un corpo nero a 3 K ha massima emissione a λm≅ 970 µm ≅ 1 mm (microonde). Integrando la (1.42) su tutte le frequenze, si ottiene la relazione

B = ⌠∞ ⌡0

BBν dν =

2 k4

h3 c2 T4 ⌠∞

⌡0

x3 dx

ex -1 dx =

2 k4

h3 c2 π4

15 T4 =

σ

π T4 (1.44)

detta legge di Stefan-Boltzmann. La costante di Stefan-Boltzmann vale σ = 5.67 ×10-5 erg s-1 cm-2 K-4. Dalla (1.44) è subito evidente che un corpo nero sferico di superficie 1 m2 a temperatura ambiente (300 K) emette su tutte le direzioni ben 460 W di potenza radiativa. Su questo fatto si basano i radiatori passivi, che vengono usati sui satelliti per dissipare verso lo spazio aperto l'energia termica in eccesso, oppure per raffreddare radiativamente parti del satellite (si possono ottenere temperature di 150 K in questo modo). Nella regione delle basse frequenze (x << 1) vale l' approssimazione di Rayleigh-Jeans

BB(ν, T) = 2 ν2

c2 kT o BB(λ, T) = 2

c

λ4 kT (1.45)

Questa legge viene usata in radioastronomia per definire la temperatura di brillanza:

Tb =

c2

2 k ν2 Bν (1.46)

che è per definizione proporzionale alla brillanza, ed è quindi funzione della frequenza. Nel caso che la sorgente sia di corpo nero ed il ricevitore operi nella regione di Rayleigh-Jeans (come avviene spesso in radioastronomia), la temperatura di brillanza è costante e coincide con la temperatura della sorgente. Dalla (1.39) si può calcolare il numero medio di fotoni per unità di volume e frequenza nella radiazione di corpo nero:

n(ν, T) = 4π u (ν, T)

h ν

= 8 πν2

c3 1

e h ν/ kT - 1

(1.47)

Integrando su tutte le frequenze si ottiene

n(T) = 8 π

kT

hc

3

⌠∞

⌡0

x2

ex - 1 dx = 60.4

kT

hc

3

≅ 20.3 T3 cm-3 (1.48)

Ricordiamo che l' universo è riempito uniformemente di radiazione di corpo nero a 2.7 K : dalla (1.48) si vede che sono circa 400 fotoni per cm3. 1.7) Corpi Neri per calibrazione assoluta dei fotometri Vediamo adesso alcuni strumenti che sono stati realizzati per produrre una accurata emissione di corpo nero. Le prime misure, di interesse storico, su cui si basò Planck per la sua teoria, furono effettuate da Lummer e Pringshe im (1897) e da Rubens e Kurlbaum (1900) al Physikalische Technische Reichsanstalt Berlino. Essi utilizzarono corpi neri in ferro e in rame scaldati a temperature comprese tra 200 e 1250 oC. I corpi erano sagomati a forma di cono concavo, in modo da massimizzare il numero di riflessioni subite da un raggio all'interno del cono prima di essere riflesso fuori. In fig.1.11 è mostrata la costruzione geometrica che permette di studiare il numero di riflessioni in funzione dell'angolo di incidenza. 1.7.1) Infrarosso Termico: esperienza di Quinn e Martin Recentemente Quinn e Martin (1985) hanno effettuato una misura di precisione di σ realizzando un apparato sperimentale (fig.1.12) costituito da due corpi neri: un emettitore a temperatura ambiente (da 230 a 370 K) ed un assorbitore a bassa temperatura (da 2 a 10 K), affacciati attraverso un sistema di aperture calibrate. L'assorbitore è posto in debole contatto termico con un termostato a temperatura di 2 K, in modo che la potenza radiativa ricevuta dall' emettitore sia sufficiente a scaldarlo di alcuni gradi sopra la temperatura del termostato. La misura avviene in due fasi: dapprima si fa scaldare l'assorbitore sotto l'azione della radiazione dell' emettitore: raggiunto l'equilibrio si misura la sua temperatura Ta. Poi si chiude la zona a bassa temperatura, e si azionano delle resistenze in modo da riportare la temperatura dell'assorbitore di nuovo a Ta. La potenza elettrica dissipata in queste condizioni può essere misurata con alta precisione, ed è uguale alla potenza radiativa emessa dal radiatore ed assorbita dall'assorbitore nella prima fase, che è quanto si voleva misurare.

Fig. 1.10: Curve di corpo nero per diverse temperature della sorgente.

Fig. 1.11: Corpo nero conico. Sotto è riportata la costruzione geometrica che, per raggi non sghembi, permette di stimare il numero di riflessioni subite prima di uscire dal corpo nero.

Fig. 1.12: Apparato sperimentale comprendente due cavita' di corpo nero a diversa temperatura (273 K e 4 K) usato da Quinn e Martin per la determinazione radiometrica della costante di Stefan-

Boltzmann e della costante di Boltzmann.

Per ottenere una alta precisione di misura si devono affrontare i seguenti problemi: 1) La formula di Planck vale a rigore solo se tutte le lunghezze d'onda sono infinitesime rispetto alle dimensioni della cavità. Questo è rispettato facilmente con ottima approssimazione per la cavità a temperatura ambiente: le lunghezze d'onda in gioco sono intorno a 10 µm, e le dimensioni della cavità possono essere di alcune decine di centimetri. Invece non e' facile da realizzare per la cavità a temperatura criogenica (lunghezze d'onda in gioco tra 1 mm e 1 cm). Qui cominciano a essere importanti gli effetti della forma della cavità, che modificano il numero di modi disponibili. Baltes (1973) ha studiato il problema per una cavità cilindrica (raggio r e lunghezza L, misurate in cm), ricavando la seguente correzione alla formula di Stefan-Boltzmann:

B = σT4

1 -

2r

L

+0.85

0.1

rT

2

+

2r

L

0.1

rT

3

+ ....

(1.49)

che per T ∼ 5 K, L ∼ 10 cm, r ∼ 1 cm prevede una correzione del 2 %. D' altra parte in questa misura la potenza riemessa dall'assorbitore a bassa temperatura è essa stessa una piccola correzione nel bilancio termico risultando essere un fattore (5K/300K)4 inferiore alla potenza assorbita: una correzione del 2 % sulla potenza riemessa risulta quindi trascurabile. 2) L'angolo solido sotteso dall'emettitore deve essere noto con grande precisione. I diaframmi che limitano l'angolo solido sono circolari, con una precisione nel raggio molto migliore di 1 µm. Inoltre è stato necessario valutare attentamente i contributi di diffrazione. Infatti le lunghezze d'onda in gioco non sono infinitesime rispetto al diametro della apertura. Si avranno quindi effetti di diffrazione che allargheranno l' angolo solido sotteso dalla sorgente sull'assorbitore. Questa condizione, assieme alla 1), ha reso necessario utilizzare aperture di alcuni cm di diametro. 3) essendo la cavità aperta, le sue superfici devono avere una grande emissività, e la forma della cavità deve essere studiata in modo da massimizzare il numero di riflessioni sulle pareti. In questo modo un fascio di luce che entri subirà un numero di riflessioni all' interno della cavità tale da farlo assorbire completamente prima di rifletterlo fuori: si approssima così la definizione di corpo nero. Quinn e Martin hanno utilizzato per le superfici una vernice nera prodotta dalla 3M, composta da nero fumo, sfere di vetro di diametri tra 5 e 100 µm, ed una piccola parte di colla. Questa vernice ha una alta emissività in una ampia regione spettrale (in pratica superiore al 90 % in tutto l'infrarosso). La forma della cavità è cilindrica, ma un cono rovesciato riempie il fondo della cavità stessa, aumentando enormemente il numero di riflessioni interne. 4) La cavità deve essere isoterma. Quinn e Martin hanno utilizzato rame di spessore 5 mm (per un peso totale dell' emettitore di 40 Kg). Il risultato finale della esperienza di Quinn e Martin è la prima misura radiometrica della costante di Stefan Boltzmann, pari a σr = (5.66967 ±0.00076) ×10-8 W m-2 K-4. Questa misura, che ha una precisione di circa 100 parti per milione, permette di ricavare la costante di Boltzmann k con una precisione di 25 parti per milione (k compare alla quarta potenza); inoltre è una determinazione radiometrica di k, e quindi indipendente dalle proprietà dei gas (usualmente si ricava k dal numero di Avogadro e dalla costante dei gas R, assumendo il gas perfetto o eseguendo complicate correzioni per i gas reali; per una rassegna sulle misure di k vedi Cohen e Dumond). 1.7.2) Visibile: Calibrazione della scala delle magnitudini; colori In ambito più propriamente astrofisico, un corpo nero di precisione è stato realizzato da Tug et al. (1977) ed è stato utilizzato per ottenere una calibrazione di grande precisione della scala delle magnitudini (Johnson 1980). Infatti la relazione di Pogson (1.26) lega la magnitudine al flusso. Il flusso di riferimento Fo deve essere misurato in assoluto per alcune 'stelle standard' con le quali ci si confronterà nelle misure (relative) su altre stelle. Una delle stelle di riferimento più usate è Vega (α Lyrae), una stella brillante dell'emisfero nord. Questa è stata osservata a lunghezze d'onda del continuo, relativamente libere da righe di assorbimento stellare, sia nel visibile (da terra) che

nell'UV (da satellite). La misura a terra si fa confrontando con lo stesso telescopio la radiazione proveniente dalla stella e quella proveniente da una sorgente di corpo nero di caratteristiche geometriche note. Il telescopio viene puntato alternativamente verso la stella e verso la sorgente di corpo nero (posta a circa 300 m di distanza). Il fotometro montato nel fuoco del telescopio produce dei segnali in uscita proporzionali alla potenza ricevuta (V = ℜ W). Se i segnali misurati nei due casi sono rispettivamente Vo = ℜ A Fo e Vbb = ℜ A Ωbb BB (ν, T), si otterrà

Fo =

Vo

Vbb

Ωbb BB(ν, T) (1.50).

Si sono trascurate qui le attenuazioni introdotte dall' atmosfera terrestre in ambedue casi. A parte queste, la misura sarà precisa se il rivelatore sarà abbastanza sensibile e lineare (per cui il rapporto Vo / Vbb sarà misurato con buona precisione), se sarà possibile misurare con esattezza la distanza e le dimensioni della sorgente di corpo nero (e quindi Ωbb), e se soprattutto la sorgente di riferimento sarà un buon corpo nero. Nel caso di Tug et al., la sorgente (fig.1.13) era un corpo nero alla temperatura di fusione del platino ( 2040 K), con una apertura di diametro variabile da 0.5 a 2 mm, posto ad una distanza di 300 m dal telescopio. In questo modo i due segnali Vo e Vbb non erano troppo differenti tra loro, ed al rivelatore non erano richieste ne' una grande dinamica ne' una grande linearità. Possiamo calcolare esplicitamente le potenze misurate nei due casi. Il corpo nero, con un diaframma di 1 mm a 300 metri, sottende un angolo solido pari a 3.5 ×10-9 sr. Con una temperatura di 2040 K si ottiene dalla (1.41) un flusso di 2.4×10-9 W/cm2/µm a 0.5556 µm. La stella può essere schematizzata come una sfera, in cui ciascun elemento di superficie emette in modo isotropo con brillanza B. Dovremo calcolare quindi il flusso usando la (1.7), ottenendo

F = ⌠ ⌡ semisfera

B cos(θ) dS / R2 = B ω* / π (1.51)

dove ω* e' l'angolo solido geometrico sotteso dalla stella. Se il diametro angolare della stella è θ, sarà ω* ≅πθ2 /4. Questo è dell'ordine di 1.7 ×10-16 sr (ci è noto indipendentemente da misure interferometriche) e la sua temperatura è dell'ordine di 10000 K, per cui ci si aspetta dalla stella un flusso di 1.0 ×10-12 W/cm2/µm a 0.5556 µm. Il segnale aspettato dalla stella è quindi circa 3000 volte più debole che nel caso del corpo nero. Questo rapporto è comunque ben compatibile con l'intervallo dinamico del rivelatore, il che consente di eseguire una misura sufficientemente accurata. In realtà Tug ha utilizzato uno spettrometro all'uscita del telescopio, che gli ha permesso di misurare il flusso specifico a varie lunghezze d'onda in un intervallo relativamente ampio. Nel caso di Vega, lo spettro continuo ottenuto con questa tecnica è riportato in fig.1.14. Per lunghezze d'onda maggiori di 600 nm lo spettro è consistente con quello di un corpo nero a 10000 K moltiplicato per una costante (detta fattore di diluizione) molto piccola: 5.3 ×10-17. Questo è ovvio, essendo l'angolo solido sotteso dalla stella minuscolo. Il fattore di diluizione trovato implica una dimensione angolare della stella (usando la (1.51))

θ =

4 F(λ)

BB(λ, T)

(1.52)

pari a 3 ×10-3 arcsec. Questo è esattamente il diametro angolare ottenuto anche con misure interferometriche. D'altra parte i dati tra 400 nm e 800 nm potrebbero ugualmente bene essere descritti da un corpo nero a 16000 K, con diluizione 2×10-17. Questa ambiguità è dovuta al fatto che l'emissione di una stella non è una emissione di puro corpo nero. I fotoni con energie corrispondenti a transizioni elettroniche in ioni ed atomi subiscono l'ultimo scattering nella atmosfera stellare lontano dal centro, e creano quindi una emissione corrispondente a quella di un corpo nero a temperatura relativamente bassa (dell'ordine di 10000 gradi. I fotoni che hanno lunghezze d'onda

libere da transizioni provengo da strati più profondi della stella, e quindi più caldi. La discontinuità a 380 nm (detta di Balmer) è dovuta all'addensarsi delle righe di Balmer per λ > 365 nm, ed alla ionizzazione di Balmer per λ < 365 nm. Lo spettro di Vega è abbastanza tipico, e questo ci permette di fare alcune importanti considerazioni sull'importanza della fotometria multibanda: questa può essere utilizzata infatti per ricavare la temperatura, la discontinuità di Balmer, e l'arrossamento interstellare presente tra noi e la stella in esame. L'indice di colore B-V è legato quasi linearmente al tipo spettrale per le stelle della sequenza principale. Questo fatto è dovuto alla dipendenza di ambedue le quantità dalla temperatura della stella. Per la maggior parte delle stelle le bande B e V si trovano nella regione a lunghezze d'onda maggiori di quella di massima emissione, dove, come abbiamo visto nel caso di Vega, lo spettro è approssimativamente di corpo nero. Assumendo che i filtri B e V trasmettano rispettivamente a 440 e 550 nm, ed usando la legge di Planck (1.41) si ottiene

B-V = -2.5 log

BB(λB,T)

BB(λV,T)

= -2.5 log

3.05 e26170/T - 1

e32700/T - 1

≅ -1.21 + 7090

T

(1.53)

In realtà si dovrebbe tener conto di due fattori correttivi: la non monocromaticità dei filtri B e V e lo zero della scala delle magnitudini, tale che B-V deve essere 0 per stelle di tipo spettrale A0, che hanno temperatura di circa 10000 K (dalla 1.53 invece ci vorrebbero 5900 K per avere B-V = 0). In ogni caso una relazione empirica simile alla (1.53), ottenuta come best fit dei dati sperimentali, descrive bene la relazione tra B-V e la temperatura della stella tra 4000 e 10000 K:

B-V = -0.865 + 8540

T

(1.54)

Una altra combinazione di colori importante è la U - B: i due filtri si trovano infatti uno a destra ed uno a sinistra della discontinuità di Balmer (cfr. tab.1.3 e fig.1.14). L'indice di colore U-B permette quindi di misurare la profondità della discontinuità di Balmer nella stella in esame. Mentre l'indice B-V è sostanzialmente una misura della temperatura della stella, l'indice U-B è una funzione complicata della temperatura e della luminosità della stella. Un diagramma in cui ogni stella è un punto in un piano U-B vs B-V è detto diagramma colore - colore, e rappresenta un utile sistema di classificazione delle varie classi di stelle (fig.1.15). Le stelle più lontane sono affette da assorbimento, dovuto alla presenza nel mezzo interstellare di granelli di polvere. Nel visibile l' assorbimento e' inversamente proporzionale alla lunghezza d'onda:

Aλ = 6.5 ×10-10 [λ(m)]-1 - 2.0 ×10-4 (mag pc-1) (1.55)

e quindi i colori U-B e B-V vengono alterati (arrossamento: le lunghezze d'onda più brevi (blu) sono assorbite maggiormente, e gli spettri stellari appaiono più rossi). Il grado di arrossamento di uno spettro viene definito dagli eccessi di colore

EU-B = (U-B) - (U-B)0 EB-V = (B-V) - (B-V)0 (1.56) dove l'indice 0 si riferisce alle quantità non arrossate. Se si approssimano i filtri U, B, V come monocromatici, e si assume una distanza di D(pc), si avrà U-U0 = U0 + A(λU) D - U0 = A(λU) D ed analogamente per gli altri colori. Si ottiene quindi E(U-B) = [ A(λU) - A(λB) ] D, ed usando la relazione semiempirica (1.55) si ottiene che il rapporto degli eccessi di colore

EU-B

EB-V

= 1.027

Fig. 1.13:Esperimento di Tug per la calibrazione assoluta della scala delle magnitudini. Nel riquadro è mostrato il sistema usato per realizzare un corpo nero alla temperatura di fusione del

platino (2040 K). Il telescopio viene puntato alternativamente verso la stella di riferimento (Vega) e verso il corpo nero, a distanza di circa 300 m. In questo modo si può misurare il flusso assoluto

proveniente dalla stella e conoscere così la costante Fo di calibrazione della scala delle magnitudini (vedi eq. 1.26).

Fig. 1.14: Spettro del flusso specifico proveniente da Vega, ottenuto da terra nel visibile e vicino UV e dallo spazio nell'UV. La curva continua è un corpo grigio a 16000 K, mentre la curva

tratteggiata è un corpo grigio a 10000 K.

Fig. 1.15: Diagramma colore-colore per stelle di diverse classi spettrali (a sinistra). Risultati di

fotometria UBV per 46000 stelle (a destra).

è indipendente dalla distanza e dall' arrossamento. Se si tiene conto della non monocromaticità dei filtri, si ha una leggera dipendenza dalla temperatura stellare, ottenendo in media (per temperature tra 5000 e 30000 K)

EU-B

EB-V ⟩ = 0.79 ±0.03 .

Si definisce poi il rapporto di colore

Q = (U-B) - ⟨

EU-B

EB-V

⟩(B-V) (1.57).

Sostituendo le definizioni (1.56) si trova che

Q = (U-B)0 - ⟨

EU-B

EB-V ⟩(B-V)0

e quindi Q risulta essere indipendente dall' arrossamento, e molto sensibile al tipo spettrale. Misurando Q si ha quindi un metodo per ricavare il tipo spettrale della stella anche in presenza di arrossamento interstellare rilevante. Appare quindi evidente come la semplice fotometria UBV possa fornire una grande quantità di informazioni sulla fisica delle stelle (vedi Kitchin, pg.231 ÷ 247).

Fig. 1.16: Esperimento FIRAS a bordo del satellite COBE. L'esperimento era configurato in modo da misurare la differenza di brillanza tra la radiazione proveniente da una antenna puntata verso il

cielo (sky horn) e la radiazione proveniente da un corpo nero di precisione interno (Reference Blackbody), con temperatura variabile tra 2 e 14 K. La radiazione era analizzata per lunghezze d'onda comprese tra 1 cm e 100 mm da un interferometro a polarizzatori e rivelata da bolometri

raffreddati a 1.6 K (B). Per limitarne l'emissione termica, l'intero strumento era raffreddato a circa 4 K. Lo zero della differenza di brillanza è stato ottenuto per una temperatura del corpo nero di calibrazione pari a 2.735 K.La brillanza specifica della radiazione celeste (radiazione di fondo

cosmico) così misurata è riportata sotto lo schema dello strumento. Le deviazioni da un perfetto corpo nero sono inferiori allo 0.03% del valore massimo della brillanza.

1.7.3) Millimetrico e sub-millimetrico: COBE e il fondo a 3 K Un corpo nero di grande precisione è stato installato a bordo del satellite COBE (Cosmic Background Explorer) per studiare lo spettro della radiazione di fondo cosmico. La teoria standard del Big Bang prevede infatti che l' universo sia riempito di un bagno di fotoni termici. Questi sono stati generati durante l'epoca in cui l'universo primordiale era un plasma ad alta temperatura, e si sono raffreddati con l'espansione successiva. La loro temperatura attuale è di circa 3 K; abbiamo visto che il loro numero è circa 400 cm-3. Sul satellite COBE (esperimento FIRAS: Far Infrared Absolute Spectrometer) è stata montata una cavità di corpo nero, con temperatura regolabile da 2 a 25 K. Lo strumento (un spettrometro interferometrico a polarizzatori, vedi cap.7) misurava la differenza tra lo spettro emesso dalla cavità e lo spettro emesso dal cielo. E' quindi un esempio di misura di zero, che permette misure molto sensibili nel caso si abbia una valutazione teorica precisa dell'osservabile. Variando la temperatura della cavità è stato possibile ricavare uno spettro differenza nullo (entro gli errori di misura, dovuti al rumore del rivelatore, dell'ordine di 10-14 W cm-2 sr-1/cm-1). Questo implica che lo spettro emesso dal cielo è anche esso un corpo nero con temperatura uguale a quella del corpo nero interno (2.735 K). In fig.1.16 sono mostrati uno schema dell'esperimento ed il risultato della misura: questa rappresenta una delle prove più convincenti della teoria del Big Bang, ed uno dei più importanti risultati sperimentali in cosmologia (Mather et al., 1990). Qui le lunghezze d'onda in gioco sono intorno al millimetro. Di conseguenza il corpo nero e' stato realizzato utilizzando un assorbitore per microonde: Eccosorb CR-110. Questo materiale e' costituito da un impasto di grani di ferro di diametro ∼ 5 µm in una resina epossidica che fa da colla. Nel CR-110 ci sono circa 108 grani/cm3. In questo modo la permeabilità magnetica µ dell' impasto è molto simile alla sua costante dielettrica ε, e l' impedenza del mezzo Z = √µ/ ε approssima 1, cioè l'impedenza del vuoto. In questo modo le microonde incidenti alla sua superficie vengono riflesse molto poco, e penetrano nel materiale venendo assorbite. Bastano 0.5 mm di questo materiale per assorbire l'80 % della radiazione incidente. La forma del corpo nero è quella di di un cono rientrante con angolo di 25o. Si può vedere che un qualsiasi raggio incidente sul cono subisce almeno 7 riflessioni prima di tornare indietro verso il rivelatore. Anche se la riflettività dell'Eccosorb a queste lunghezze d'onda fosse dell' ordine del 25%, la riflettività totale sarebbe dell'ordine di (0.25)7 <∼ 10-4. Si otterrebbe quindi un corpo nero meglio di una parte su 10000. In realtà la riflettività dell'Eccosorb è decisamente inferiore, ed il limite reale sulla precisione del corpo nero di COBE (sempre dell' ordine di 1/10000) è dovuto ad effetti di diffrazione e di rugosità superficiale del cono. Per un calcolo quantitativo si deve inoltre tener conto del fatto che ciascuna riflessione e' accompagnata anche da diffusione di una frazione cospicua della radiazione, il che complica notevolmente il calcolo della riflettività. 1.8) Altre sorgenti di radiazione termica Il fondo cosmico a 3 K è l'unica sorgente astrofisica che emetta radiazione esattamente di corpo nero. Ma altri corpi celesti emettono radiazione termica, anche se non di corpo nero: se gli strati superficiali della sorgente sono parzialmente trasparenti possono trasmettere radiazione proveniente da strati più profondi a temperatura differente (e' quanto accade ne lle atmosfere stellari, come abbiamo visto nel caso di Vega). La brillanza emessa da sorgenti di questo genere può essere calcolata utilizzando le equazioni del trasporto radiativo. Val la pena di ricordare che se un corpo ha emissività inferiore ad 1, ma è isotermo, emette radiazione descritta dalla formula del corpo grigio:

GB(ν, T) = ε(ν, T) 2 h ν3

c2 1

e h ν/ kT - 1

(1.58).

I pianeti emettono radiazione infrarossa di corpo grigio corrispondente alla loro temperatura (tra 40 e 400 K), e con emissività dipendente dalla loro albedo (capacità di riflettere la radiazione solare). La polvere interplanetaria (minuscoli granelli di materiale solido presenti nel piano dell' eclittica,

con dimensioni tipiche di circa 10 µm) ha temperatura dipendente dalla sua distanza dal sole: da circa 1000 K a 0.1 unità astronomiche a circa 150 K a 3 unità astronomiche. E' naturale quindi aspettarsi che la sua brillanza non sia ben descritta da una legge di corpo nero ad una singola temperatura, ma piuttosto da una sovrapposizione continua di spettri di corpo nero a temperature differenti, e con pesi dipendenti dall'emissività e dalla densità di materiale a diverse temperature. Date le temperature in gioco, è ragionevole che il massimo di emissione della polvere interplanetaria si trovi a lunghezze d'onda intorno a 10 µm. A queste lunghezze d'onda l'emissione termica da polvere interplanetaria è talmente intensa da rendere impossibile l'osservazione di sorgenti diffuse fuori dal sistema solare. In fig.1.17 si riportano alcuni spettri di emissione interplanetaria con esempi di fit con spettro di corpo nero singolo e con sovrapposizione di corpi neri. Un discorso simile può essere fatto per la polvere interstellare, i cui grani sono più piccoli (intorno a 0.1 µm) e più freddi (intorno a 30 K nel mezzo interstellare diffuso) In fig.1.18 si riporta lo spettro di emissione della polvere interstellare diffusa nella nostra Galassia, misurato dal satellite COBE (esperimento FIRAS). In questo caso lo spettro può essere descritto da un corpo grigio a temperatura di circa 23 K, e con una emissività

ε(σ) ∼ K

σ

30 cm-1

1.65

(1.59).

La costante K dipende dalla direzione osservata in cielo, e varia da 2 ×10-6 a 2 ×10-3. Una mappa di K in coordinate galattiche è mostrata nella parte inferiore di fig.1.18.

Fig. 1.17: Brillanza della polvere interplanetaria misurata nel piano dell'eclittica dall' esperimento ZIP, montato a bordo di un razzo. A destra è mostrato un fit di corpo grigio (singola temperatura),

mentre a sinistra è mostrato un fit con una sovrapposizione di corpi grigi a diverse temperature (come aspettato da un modello fisico della nuvola di polvere interplanetaria, che è più calda in

prossimità del sole e più fredda a grandi distanze).

Fig. 1.18: Brillanza della polvere interstellare diffusa misurata nel piano della Galassia

dall'esperimento FIRAS sul satellite COBE. Si notano, sovrapposte allo spettro continuo termico della polvere, alcune righe di emissione di molecole interstellari (CO e CN).

Riferimenti Capitolo 1 Baltes, H.P., 1973, Appl. Phys., 1, 39. Cohen R., Dumond J., The fundamental constants of atomic physics, Handbook der Physik, BD35, 1. Johnson H.J., 1980, Rev. Mex. Ast. Af., 5, 25. Habing H.J., et al., 1984, Ap.J., 278, L59. Kitchin C.R., Astrophysical Techniques, Adam Hilger, Bristol, 1984. Mather J., et al., 1990, Ap.J.Lett., 354, L37. Quinn T.J., Martin J.E., 1985, Phil. Trans. R. Soc. Lond., A316, 85. Temi P., de Bernardis P., Masi S., Moreno G., Salama A., 1989, Ap.J., 337, 528. Tug H., White N.M., Lockwood G.W., 1977, Astron. Astrophys., 61, 679. Tyson J.A., 1990, in The Galactic and Extragalactic Background Radiation, 245, Bowyer e Leinert editori, IAU 1990. Wright E. et al., 1991, Ap.J., 375, 608. Wyatt C.L., Radiometric Calibration: Theory and Methods, Academic Press, New York, 1978.