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Percorso letterario, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V Percorso letterario Classe V Anno scolastico 2015 - 2016

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Percorso letterario

Classe V

Anno scolastico 2015 - 2016

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Prima di dare avvio al percorso letterario con cui ci confronteremo durante l’anno scolastico,

poniamo l’attenzione su quello che è il “nodo cruciale” della disciplina trattata: la prova scritta

di italiano (la I prova degli Esami di Stato!). La prova di italiano dura 6 ore, si può utilizzare

solo il dizionario ed è uguale in tutte le scuole (dai tecnici, ai professionali, ai licei). All’Esame

potrai svolgere la tua prova di italiano scegliendo la tipologia più adatta a te. Il Ministero

infatti propone 4 tipologie diverse:

1) TIPOLOGIA A – ANALISI DEL TESTO

2) TIPOLOGIA B – SAGGIO BREVE O ARTICOLO DI GIORNALE

3) TIPOLOGIA C – TEMA DI ORDINE STORICO

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4) TIPOLOGIA D – TEMA DI ORDINE GENERALE

TABELLA-GUIDA PRIMA PROVA ESAMI DI STATO

Tipologia Materiali forniti Consegna

Caratteristiche del testo da produrre e difficoltà

Tipologia A

ANALISI

DEL TESTO

- Un testo letterario (poesia, brano di un testo teatrale, brano di un testo narrativo o di un saggio)

- Domande relative al testo suddivise in tre categorie

o Comprensione del testo

o Analisi del testo

o Interpretazione complessiva e approfondimenti

leggere il testo

e rispondere

alle domande

- Le risposte devono essere strutturate non devono presupporre la domanda

- La difficoltà della prova cambia a seconda del testo da analizzare e delle conoscenze in possesso.

Tipologia B

Redazione di un SAGGIO

BREVE O DI UN

ARTICOLO DI

GIORNALE

1. AMBITO ARTISTICO - LETTERARIO

2. AMBITO SOCIO – ECONOMICO

3. AMBITO STORICO – POLITICO

Per ciascun ambito viene fornito:

- un argomento (ad esempio: “I giovani e la crisi”)

- una serie di documenti (brevi porzioni di testi scritti, immagini o altro, corredate da didascalie o informazioni bibliografiche)

(puoi scegliere uno degli argomenti relativi ai quattro ambiti proposti) CONSEGNE: Sviluppa l’argomento scelto o in forma di “saggio breve” o di “articolo di giornale”, utilizzando i documenti e i dati che lo

Formulazione o

di un saggio

breve o di un

articolo di

giornale

(seguendo le

indicazioni

riportate nella

colonna a

fianco)

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4. AMBITO TECNICO SCIENTIFICO

corredano. Se scegli la forma del “saggio breve”, interpreta e confronta i documenti e i dati forniti e su questa base svolgi, argomentandola, la tua trattazione, anche con opportuni riferimenti alle tue conoscenze ed esperienze di studio. Da’ al saggio un titolo coerente con la tua trattazione e ipotizzane una destinazione editoriale (rivista specialistica,fascicolo scolastico di ricerca e documentazione, rassegna di argomento culturale, altro). Se lo ritieni, organizza la trattazione suddividendola in paragrafi cui potrai dare eventualmente uno specifico titolo. Se scegli la forma dell’ “articolo di giornale”, individua nei documenti e nei dati forniti uno

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o più elementi che ti sembrano rilevanti e costruisci su di essi il tuo ‘pezzo’. Da’ all’articolo un titolo appropriato ed indica il tipo di giornale sul quale ne ipotizzi la pubblicazione (quotidiano, rivista divulgativa, giornale scolastico…). Per attualizzare l’argomento, puoi riferirti a circostanze immaginarie o reali (mostre, anniversari, convegni o eventi di rilievo). Per entrambe le

forme di

scrittura non

superare le

cinque colonne

di metà di foglio

protocollo.

Tipologia C

TEMA DI ORDINE

STORICO

Un titolo che serve da traccia per lo svolgimento

Produrre un tema sviluppando adeguatamente il titolo proposto (non si assegnano limiti di spazio)

Conoscenza dell’argomento Uso del linguaggio storico

Tipologia D

TEMA DI ORDINE

Un titolo che serve da traccia per lo svolgimento

Produrre un tema sviluppando

Conoscenza dell’argomento Evitare le

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GENERALE adeguatamente il titolo proposto (non si assegnano limiti di spazio)

banalità o le genericità

Di seguito porremo l’attenzione sulla TIPOLOGIA B – SAGGIO BREVE O ARTICOLO DI

GIORNALE.

La Tipologia B ci permette di sviluppare l’argomento o attraverso un saggio breve o attraverso

un articolo di giornale. Al suo interno prevede 4 ambiti (tu, ovviamente, ne devi sceglie e

sviluppare solo uno!):

1. AMBITO ARTISTICO-LETTERARIO

2. AMBITO SOCIO-ECONOMICO

3. AMBITO STORICO-POLITICO

4. AMBITO TECNICO-SCIENTIFICO

Di seguito, a mo’ d’esempio, ho inserito una delle prove uscite negli anni addietro. TIPOLOGIA

B, AMBITO SOCIO-ECONOMICO. L’argomento nel caso specifico è “I giovani e la crisi”. A

seguire, come si vede dall’immagine, ci sono tutti i documenti che potete utilizzare per

formulare il vostro articolo o il vostro saggio breve.

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Tutto il lavoro per la stesura di un articolo (o di un saggio breve) si basa sulla lettura, la

comprensione e l’utilizzo dei documenti. In modo pratico, ovviamente, vedremo poi in

classe come si manipola un documento e come si crea un articolo o un saggio breve.

Di seguito pongo ora le basi per poter fare sia un saggio breve sia un articolo di giornale;

individuo obiettivi e struttura di entrambe le forme di scrittura.

Per nessuno dei due tipi di scrittura ci si può, ovviamente, improvvisare. Spesso si è soliti

preferire il saggio breve perché lo si intende come una sorta di riassunto. Nulla di più

sbagliato! Il saggio breve è un testo tecnico, che utilizza un linguaggio specifico e settoriale.

Non va quindi banalizzato o inteso per ciò che non è.

Per entrambe le forme di scrittura il Ministero dice di non superare le cinque colonne di metà

di foglio protocollo.

Il saggio breve

Il saggio breve è una scrittura documentata, che appartiene al genere di scrittura

Argomentativa, con la quale viene elaborata e discussa una certa tesi, motivata in modo

rigoroso ed espressa per mezzo di argomentazioni logiche e coerenti. Il punto di partenza è la

serie di informazioni precise e circostanziate, che vengono fornite all'atto della prova, insieme

alla consegna, cioè alle richieste alle quali il candidato deve attenersi. Il saggio breve può

avere funzione o esplicativa (il suo fine è quello di fornire informazioni e di offrire spiegazioni,

spesso definendo concetti o descrivendo accuratamente stati di cose) o argomentativa (il suo

fine è quello di convincere il lettore della bontà di una determinata opinione).

Presupposti per un saggio argomentativo sono:

a. un tema su cui sia possibile disputare;

b. una spiegazione chiara della posizione sostenuta nell’eventuale controversia.

Un testo esplicativo, invece, deve rispettare i seguenti requisiti:

a. deve vertere su un argomento interessante;

b. deve presentare informazioni complete e aggiornate, utili per il proprio uditorio.

Da questo punto di vista, il saggio informativo è più semplice di quello argomentativo, che

richiede un supplemento di riflessione e una più accurata organizzazione delle idee

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L’introduzione

L’introduzione risponde a più scopi, tra i quali quelli fondamentali sono:

a. quello di introdurre il lettore nel testo, incentivandone l’attenzione;

b. quello di indicargli l’argomento di cui si tratta;

c. quello di chiarire, nel caso di un testo argomentativo, quale sia l’opinione che viene

sostenuta;

d. quello di fornire una sorta di sintetico riassunto del testo (chiamato spesso blueprint)

e. quello di introdurre i paragrafi successivi, in modo da stimolare la prosecuzione della

lettura

Schematicamente l’introduzione dovrebbe articolarsi in:

a. introduzione al testo, tesa ad interessare il lettore;

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b. presentazione dell’argomento;

c. presentazione del fine comunicativo;

d. esposizione della tesi;

e. presentazione schematica della struttura del testo;

f. aggancio ai paragrafi successivi.

Importanti sono alcuni concetti chiave:

a. argomento: è, nella sua accezione più larga, l’oggetto del discorso che si conduce nel

saggio; argomento di un saggio informativo o argomentativo;

b. tesi: in un testo argomentativo, è un enunciato in cui l’autore esprime un’opinione

precisa riguardo all’argomento che ha deciso di trattare. Nel saggio, come nella

maggior parte dei testi argomentativi tecnici, scientifici e professionali, la tesi deve essere

sempre formalizzata esplicitamente in un enunciato.

c. fine comunicativo: è l’obiettivo cui tende la scrittura; in un testo argomentativo esso

consiste nel tentativo di convincere il proprio uditorio della validità della tesi che

l’autore vi sostiene.

d. presentazione schematica della struttura del testo (blueprint) è un semplice elenco, in

formato discorsivo. In un testo argomentativo si tratta di un breve inventario delle

prove, vale a dire degli argomenti, impiegati a sostegno della tesi che si sostiene; in un

testo informativo si tratta di catalogo strutturato delle informazioni fornite.

Il blueprint ha la funzione di anticipare al lettore informazioni sullo sviluppo del testo e

per questo gli può essere molto utile in quanto sapere come verranno presentate le

informazioni ne rende più facile e piena la comprensione e permette di decidere sin dal

principio in modo ragionato se un testo è utile o no.

Il corpo del testo

Il corpo del testo si articola in capoversi; in un testo informativo, ciascuno di essi presenta un

set di informazioni collegate alla questione che si è scelto di trattare; in un testo

argomentativo propone uno degli argomenti scelti a sostegno della propria tesi.

Ogni capoverso ha la medesima struttura e, spesso, include:

1. una frase-chiave che ne costituisce il nucleo informativo - argomentativo e che ne

rappresenta, da sola, il messaggio fondamentale;

2. più frasi in cui si forniscono informazioni/sub-argomenti a supporto della frase-chiave;

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3.una frase di transizione che guida il lettore al capoverso successivo.

La conclusione

In un testo esplicativo, la conclusione include solitamente:

1.una ripresa dell’enunciato con il quale, nell’introduzione, si presentava l’oggetto del

discorso;

2.una ripresa dei set di informazioni fornite nel corpo del testo;

3.un segmento conclusivo che indichi che la discussione è giunta al termine e si ricolleghi, se

necessario, al capoverso introduttivo, in particolare a quella sua sezione iniziale in cui, con

quale artificio retorico o qualche frase ad effetto si è cercato di interessare il lettore al testo

che aveva sotto gli occhi.

In un testo argomentativo, invece, la conclusione include:

1.una riformulazione della tesi;

2.la ripresa degli argomenti fondamentali;

3.il segmento conclusivo.

Le citazioni

Per scrivere un saggio breve è importante riferire date cronologicamente esatte e

informazioni sempre precise e controllabili; di qui l’importanza di esplicitare le fonti.

All’interno del testo capita di dover riportare in modo fedele parti di altri testi (citazioni); tali

riprese devono essere sempre accompagnate da una nota a fine testo che ne chiarisca la fonte

(citazione bibliografica), in modo che il lettore possa recuperarle se interessato o

semplicemente possa controllare quanto affermato.

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Al saggio breve viene dato un titolo con la trattazione e si ipotizza una destinazione editoriale

(rivista specialistica,fascicolo scolastico di ricerca e documentazione, rassegna di argomento

culturale, altro).

L’articolo di giornale

L’articolo di giornale è principalmente un testo che informa su una notizia, che racconta un

fatto , cercando di esporre il maggior numero di elementi necessari a capirlo; può essere più o

meno lungo ma deve mettere in grado il lettore di comprendere chiaramente il tema trattato.

Fase 1. Collocazione dell’articolo

Un giornale è una struttura complessa, composta da varie parti: prima di scrivere un articolo

si deve pertanto decidere in quale di queste parti collocarlo. In generale le pagine dei giornali

sono così suddivise:

Politica interna: si occupa degli avvenimenti politici nazionali

Politica estera: si occupa degli avvenimenti politici degli altri Paesi e viene redatta

generalmente dai corrispondenti (residenti nel paese straniero) o dagli inviati (che si recano

in un paese straniero quando si verifica un fatto importante da seguire) o tramite le notizie

che vengono fornite dalle agenzie di stampa.

Cronaca: in termini giornalistici si riferisce al resoconto dei fatti di vita quotidiana locali,

nazionali o internazionali di maggior rilievo. Si divide in cronaca bianca, che tratta di

avvenimenti importanti per i cittadini sotto il profilo economico, culturale, sociale; cronaca

nera, che riguarda i delitti, i crimini e i fatti di sangue in generale; cronaca giudiziaria, che

riguarda l’andamento dei processi e delle inchieste; cronaca mondana, che riporta le notizie

relative ai personaggi famosi; cronaca rosa, che si occupa di notizie di tipo sentimentale e

commovente; cronaca locale, che riporta le diverse notizie riguardanti la vita cittadina.

Cultura: contiene le notizie relative al mondo culturale, gli articoli di critica letteraria, le

interviste a romanzieri, filosofi, artisti, i dibattiti su problemi di ordine scientifico, storico,

sociologico

Scienze: tratta le innovazioni tecnologiche e le scoperte scientifiche

Sport: riporta gli avvenimenti delle varie discipline sportive

Spettacolo: riporta le novità del mondo dello spettacolo, dal cinema al teatro, dalla musica alla

televisione.

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Economia e finanza: riferisce i fatti del mondo economico e finanziario, gli avvenimenti più

rilevanti che riguardano le banche e le maggiori imprese, l’andamento della produzione, i

listini di Borsa e i cambi delle principali monete estere

Raccolta delle notizie

Le fonti da cui i giornalisti traggono le informazioni sono le istituzioni, le forze dell’ordine, le

aziende. Molte notizie vengono raccolte dalle agenzie di stampa, ma per approfondire

l’argomento il giornalista deve svolgere ricerche, inchieste, investigazioni. Nel caso di una

prova scolastica, le informazioni vanno desunte dal testo di storia, dai documenti, dalle

ricerche (su enciclopedia, Internet), dalle interviste e dai libri (di letteratura, storia, filosofia,

economia, geografia, sociologia ecc.).

Preparazione della scaletta

Dopo aver raccolto le notizie, si prepara una scaletta dei temi da trattare per chiarire

l’argomento, ponendoli nell’ordine in cui si vogliono presentare al lettore, con una

concatenazione logica che leghi i vari punti tra loro. È bene preparare due tipi diversi di

scaletta: una relativa alla struttura dell’articolo e una relativa alla trattazione vera e propria.

L’ordine della struttura dell’articolo dovrebbe rispettare lo schema classico, diviso in tre parti:

l’inizio (detto anche «attacco» o lead, cioè l’introduzione), lo sviluppo e la conclusione,

o «chiusura».

a) Attacco o introduzione dell’argomento: esposizione degli elementi utili a riassumere il

senso e ad evidenziare la rilevanza ell’argomento trattato. L’introduzione dovrebbe indurre il

lettore a provare interesse al tema e quindi a proseguire nella lettura dell’articolo. È quindi

necessario che le prime frasi siano chiare, accattivanti e capaci di presentare l’argomento in

modo sintetico.

Oltre alla notizia, l’introduzione potrebbe contenere:

–la spiegazione delle ragioni per cui si affronta l’argomento

–la messa in evidenza dell’importanza dell’argomento

–brevissime citazioni ritenute utili a chiarire l’importanza e/o l’attualità del tema trattato.

b) Sviluppo del tema

è la trattazione vera e propria dell’argomento, che deve mettere il lettore in grado di

conoscere tutte le vicende ad esso relative

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c) Conclusioni

la sintesi conclusiva può contenere le proposte, una previsione dei possibili sviluppi o la

messa in luce delle diversi implicazioni relative al fatto.

Svolgimento

Nel testo che si costruisce per sviluppare l’argomento vi dovrebbe essere una chiara

distinzione tra la presentazione dei fatti e quella dei diversi punti di vista sull’argomento.

Gli articoli devono riportare i fatti in modo chiaro ed esauriente. Secondo il modello classico,

derivato dal giornalismo anglosassone, l’articolo deve contenere le risposte alle cinque W, le

iniziali delle seguenti parole inglesi, corrispondenti ad altrettante domande:

Who? Chi?( chi sono i personaggi coinvolti?)

What? Che cosa? (che cosa è accaduto?)

Why? Perché? (quali sono le cause che hanno provocato o favorito il fatto?)

Where? Dove? (dove si è svolto il fatto?)

When? Quando (quando si è verificato il fatto?)

La costruzione dell’articolo deve basarsi su una chiara concatenazione dei punti trattati e non

limitarsi ad una lista di informazioni (o nozioni) messe in fila una dopo l’altra. È importante,

per questo, costruire una scaletta che rispetti l’ordine cronologico oppure l’ordine causale

(causa-effetto).

Per costruire l’articolo si devono individuare le frasi-chiave, quelle cioè che delineano la

spiegazione/presentazione dell’argomento e che si desumono dal materiale su cui ci si

documenta. È possibile procedere in vario modo: evidenziando le parole e le frasi chiave dal

materiale di documentazione; costruendo una lista di punti chiave, da trattare come

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altrettanti titoletti dei paragrafi del testo da preparare; facendo una breve sintesi del

materiale di documentazione e seguendo questa traccia per sviluppare l’argomento.

Dopo la stesura del testo si procede alla correzione per controllare:

a. gli errori ortografici;

b. i tempi dei verbi: si può scegliere il presente storico, presentando i fatti passati come se

avvenissero nel presente, oppure il passato prossimo, passato remoto, imperfetto; si

può fare ricorso anche al futuro, in riferimento ad avvenimenti già avvenuti, ma

successivi al momento in cui ci si colloca idealmente.

c. la completezza;

d. la concatenazione logica tra le varie parti (temporale, causale, consecutiva,

avversativa).

Presentazione delle opinioni

Per capire più a fondo le diverse implicazioni di un fatto è opportuno evidenziare le varie

opinioni che si possono avere su di esso. Le opinioni possono essere inserite all’interno dello

svolgimento o alla fine: basta che sia sempre ben chiaro che si tratta di un commento, di cui è

necessario chiarire la fonte, cioè la persona che lo formula. Un testo giornalistico può esporre

l’opinione di chi scrive: è il caso di giornalisti prestigiosi i cui articoli si leggono proprio per

sapere cosa l’autore pensa su quel determinato argomento. L’attitudine a vedere gli

accadimenti da differenti punti di vista e di esprimere le proprie considerazioni e commenti

personali dimostra senso critico e capacità di analisi. Se costruiamo un articolo su un evento

storico, è necessario quindi riferire la fonte, cioè il documento da cui abbiamo tratto i diversi

punti di vista critici e di cui si possono riportare le citazioni, che vanno sempre poste tra

virgolette.

Scelta del titolo

Al titolo è affidato il compito di far capire immediatamente l’argomento trattato e di invogliare

alla lettura dell’articolo: è quindi un elemento importante, a cui prestare molta attenzione. Per

la sua evidenza grafica, il titolo balza subito agli occhi e deve quindi dare in breve l’idea di ciò

che è contenuto nel testo. Deve inoltre facilitare il lettore nella ricerca di una determinata

notizia, per cui deve essere chiaro e accattivante allo stesso tempo, contenere tutte le

informazioni necessarie per illustrare l’argomento, ma allo stesso tempo presentarle in modo

originale e attraente. Deve essere, insomma, denotativo e connotativo. Il titolo può essere o

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preceduto dall’Occhiello o seguito dal catenaccio che possono completare il contenuto

informativo del titolo (luogo, personaggi coinvolti…). La scelta del titolo viene fatta ad articolo

concluso, quando sono chiari tutti gli elementi presenti del testo, in modo da essere ben sicuri

che il titolo corrisponda a ciò che si è scritto.

Per attirare l’attenzione del lettore, il titolo deve coinvolgerlo emotivamente. Ecco perché in

molti casi gli articoli non si limitano a informare, ma cercano di stuzzicare l’interesse con frasi

ad effetto, che fanno leva sugli stati d’animo del lettore. Si può così fare una distinzione tra

titoli caldi puramente informativi e titoli freddi che suscitano sentimenti ed emozioni. Tra i

titoli caldi troviamo anche quelli cosiddetti «gridati», pensati cioè per fare sensazione, per

incuriosire e attirare l’attenzione.

Il CV europeo

Concludiamo questa fase introduttiva con un argomento del quinto anno che rientra fra le

conoscenze della lingua: la struttura di un CV europeo.

Il Curriculum Vitae Europeo è uno degli strumenti che possono essere utilizzati per

facilitare e favorire la mobilità delle persone.

Ancora oggi il cittadino europeo rischia di non vedere riconosciute le proprie qualifiche e

competenze in un paese diverso da quello in cui sono state maturate. La situazione è

ulteriormente complicata dalla proliferazione di titoli a livello mondiale e dai continui

cambiamenti nei sistemi nazionali delle qualifiche, negli ordinamenti scolastici ed universitari.

Per risolvere questo problema, negli ultimi anni l'Unione europea ha proposto vari strumenti

volti a favorire la trasparenza e il riconoscimento delle qualifiche, dei titoli accademici e

professionali, in modo da consentire ai cittadini di presentare e utilizzare le proprie

competenze in Europa, indipendentemente dal luogo e dal contesto nel quale sono state

acquisite.

Il Curriculum Vitae Europeo costituisce un'opportunità importante:

per l'individuo che aspira a trovare un posto di lavoro, e/o proseguire il suo percorso

di formazione, in quanto permette di valorizzare e dare notorietà anche ai percorsi di

apprendimento non formali;

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per le aziende e gli istituti di istruzione/formazione che hanno la possibilità di

riconoscere con maggior chiarezza il possesso di conoscenze, abilità e competenze,

indipendentemente dalle modalità con cui sono state acquisite e dalle qualifiche o titoli

professionali posseduti dai singoli cittadini.

Il Curriculum Vitae Europeo costituisce un modello comune di riferimento per fornire e

reperire informazioni sui percorsi formativi compiuti e sulle esperienze lavorative

capitalizzate nel tempo. L'obiettivo è quello di consentire a tutti i cittadini europei di

riconoscere e valorizzare le proprie competenze per proporsi o riproporsi sul mercato del

lavoro e della formazione con un curriculum più trasparente e spendibile in tutto il

territorio dell'Unione.

Il Curriculum Vitae Europeo accoglie in pieno le indicazioni politiche proposte dall'Unione

europea in tema di sviluppo delle risorse umane, che vanno dalla necessità di considerare

l'intera esperienza di una persona in una logica di formazione per tutta la durata della vita,

alla visibilità delle competenze ritenute utili per lavorare nella società attuale.

Il Curriculum Vitae Europeo, infatti, prende in considerazione:

sia la formazione iniziale, che le esperienze di vita e di lavoro;

sia le competenze maturate a scuola o in un ambiente formativo, che quelle acquisite

nella vita professionale e sociale;

sia le competenze tecnico-professionali tradizionali, che quelle utili nelle nuove forme

di organizzazione del lavoro e nelle nuove professioni (competenze

relazionali,organizzative, ecc.).

Il Curriculum Vitae Europeo è uno strumento a disposizione di tutti i cittadini. Non è un

certificato, bensì una dichiarazione autocertificata e volontaria.

Il CVE fornisce informazioni su:

competenze linguistiche;

esperienze lavorative;

qualifiche e titoli di istruzione e formazione;

abilità e competenze acquisite anche al di fuori dei percorsi formali di formazione.

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L'adozione di un formato standard per tutti i paesi elimina le barriere poste dai diversi

metodi istituzionali e nazionali di riconoscimento delle competenze, permettendo alle

persone di esprimere la propria storia ed esperienza in modo comprensibile per tutti.

A chi serve il Curriculum Vitae Europeo

Il CVE è uno strumento utile a diversi livelli. Ai cittadini europei, giovani e meno giovani

che:

desiderano lavorare in un paese europeo diverso da quello d'origine;

hanno acquisito un titolo di studio all'estero;

hanno avuto esperienze di lavoro in diversi paesi europei;

hanno acquisito competenze in ambiti diversi da quello formativo, non documentate da

titoli e certificati, e vogliono renderle note per trovare un lavoro adatto alle proprie

capacità e inclinazioni;

desiderano continuare il proprio percorso formativo anche in un paese europeo

diverso da quello d'origine valorizzando non solo i titoli di studio e professionali, ma le

competenze acquisite e le esperienze effettuate.

Alle aziende disposte ad assumere personale competente e motivato a svolgere i

compiti richiesti.

Il Curriculum Vitae Europeo, infatti, è uno strumento utile per gli addetti alla selezione di

personale proveniente da altri paesi europei poiché consente di effettuare una lettura

trasparente del titolo di studio e delle competenze acquisite. Agli istituti scolastici e alle

strutture formative che, attraverso il CVE, possono disporre di informazioni utili

all'inserimento delle persone nei diversi percorsi formativi.

Il Punto Nazionale di Riferimento Italia, istituito presso l'ISFOL, è la struttura incaricata dal

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e dall'Unione europea di fornire informazioni di

carattere generale sul CVE.

Il Curriculum Vitae Europeo: uno strumento multiuso

Tutto ciò che si è fatto nella vita può essere utile nel lavoro. Il curriculum vitae tradizionale,

quello in cui sono riportati i titoli di studio e le esperienze lavorative, non consente di dare

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visibilità a molte situazioni che hanno permesso di maturare alcune capacità e competenze

potenzialmente utili sul lavoro. Mentre i modelli di curricula usualmente impiegati

suggeriscono di raccontarsi attraverso i titoli acquisiti e le esperienze professionali effettuate,

il modello comune europeo di Curriculum Vitae invita invece a descrivere le

competenze acquisite e le proprie capacità personali. Il CVE è uno strumento utile anche

per chi deve selezionare il personale per la propria azienda o per conto di altre imprese.

Leggere un curriculum non è un'operazione semplice: dalle informazioni contenute in poche

pagine bisogna, infatti, riuscire a farsi un'idea della persona che si ha di fronte e delle sue

effettive capacità, a prescindere dai titoli acquisiti. Il possesso di un titolo (diploma, qualifica)

o di attestati di partecipazione a corsi di formazione professionale costituisce la

precondizione per accedere a un colloquio di lavoro.

La scelta di un candidato piuttosto che di un altro si basa, però, anche sulla

considerazione di altri fattori, in particolare:

l'esperienza pregressa in un determinato ambito di attività;

le competenze, ovvero la capacità di attivare le proprie personali risorse in determinati

contesti;

la combinazione di questi due elementi che caratterizza ciascun individuo.

Questa è la logica in cui si colloca il CVE, con l'obiettivo di rendere visibili le competenze

acquisite dai singoli individui ed i contesti in cui le persone hanno avuto esperienze di vita e di

lavoro.

Se ti è capitato di:

organizzare feste per gli amici;

allenare la squadra di calcio del tuo quartiere;

moderare il newsgroup dei tuoi ex compagni di classe; probabilmente avrai acquisito

delle competenze che in futuro ti potranno servire.

Il Curriculum Vitae Europeo ti permette di valorizzare queste esperienze e di utilizzarle per

cercare un'occupazione.

ESEMPIO SULLA COMPILAZIONE UN CURRICULUM VITAE

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Prima di cominciare: 5 principi fondamentali

1. Concentratevi sull’essenziale

• I datori di lavoro impiegano generalmente meno di un minuto per valutare un CV ed

effettuare una prima selezione dei candidati. Quindi se il primo impatto non funziona, avete

perso la vostra occasione!

• Se rispondete ad un’inserzione, assicuratevi di possedere tutti i requisiti richiesti al

candidato. L’inserzione dovrebbe specificare: le modalità per candidarsi (CV, presentazione

della domanda, procedura di candidatura on line), la lunghezza o il format del CV da

presentare, l’eventualità di una lettera di presentazione, etc.

• Siate sintetici: Il CV deve essere breve; in genere 2 pagine bastano per valorizzare il vostro

profilo. Alle volte 3 pagine possono sembrare eccessive. Se siete laureati ad esempio, inserite

le informazioni relative alla scuola secondaria superiore solo se pertinenti con la vostra

candidatura.

• La tua esperienza professionale è limitata? Allora inizia con la descrizione della tua

formazione, cercando di dare risalto alle attività di tirocinio o volontariato che hai svolto nel

corso degli studi.

2. Siate chiari e concisi

• Utilizzate frasi brevi. Evitate di usare delle frasi stereotipate. Concentratevi sui principali

elementi che caratterizzano la vostra formazione la vostra esperienza professionale.

• Fornite elementi di contesto dettagliati e specifici esempi delle attività svolte. Laddove

possibile, quantificate i risultati.

• Aggiornate costantemente il CV, soprattutto se la vostra esperienza professionale va

maturando e non esitate a adattare il CV eliminando informazioni pregresse non rilevanti per

la candidatura.

3. Adeguate il vostro CV in funzione dell’impiego ricercato

• Concentratevi sulle informazioni essenziali che rispondono ai requisiti dell’inserzione ed

enfatizzate le competenze pertinenti al tipo di impiego per il quale vi candidate.

• Non occorre menzionare una vecchia esperienza professionale che non è coerente con la

richiesta del datore di lavoro o con il tipo di impiego per il quale vi state candidando.

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• Fornite spiegazioni su eventuali interruzioni nel corso degli studi o nel corso della vostra

carriera, cercando di sottolineare le competenze che potreste aver maturato durante di tale

periodo.

• Prima di spedire il CV rileggetelo con cura, al fine di verificare ulteriormente che sia

adeguato alla candidatura richiesta.

• Non mentite nel vostro CV; rischiate di screditarvi nel corso dell’eventuale colloquio.

4. Prestate attenzione alla redazione del vostro CV

• Descrivete le vostre competenze ed abilità in modo logico e con chiarezza.

• Descrivete per prime le informazioni più importanti.

• Controllate l’ortografia e la punteggiatura.

• Stampate il vostro CV su carta bianca (fatte salve le candidature elettroniche).

• Non modificate l’impaginazione ed il font predefinito.

5. Controllate il vostro CV una volta compilato

• Rimuovete gli eventuali errori di ortografia ed assicuratevi che la sua struttura grafica sia

logica e ben definita.

• Fate rileggere il CV da una terza persona una volta compilato, per rassicurarvi che il suo

contenuto sia chiaro e facilmente comprensibile.

• Non dimenticate di allegare una lettera di presentazione.

MODELLO

INFORMAZIONI

PERSONALI Sostituire con Nome (i) Cognome (i)

[Tutti i campi del CV sono facoltativi. Rimuovere i campi vuoti.]

Sostituire con via, numero civico, codice postale, città, paese

Sostituire con numero telefonico Sostituire con telefono

cellulare

Sostituire con indirizzo e-mail

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Sostituire con sito web personale

Sostituire con servizio di messaggistica istantanea Sostituire con

account di messaggistica

Sesso Indicare il sesso | Data di nascita gg/mm/aaaa | Nazionalità Indicare

la nazionalità

ESPERIENZA

PROFESSIONALE

[Inserire separatamente le esperienze professionali svolte iniziando dalla più recente.]

I

S

T

R

U

Z

I

O

N

E

F

O

OCCUPAZIONE PER LA QUALE

SI CONCORRE

POSIZIONE RICOPERTA

OCCUPAZIONE DESIDERATA

TITOLO DI STUDIO

DICHIARAZIONI PERSONALI

Sostituire con posizione per la quale si concorre / posizione

ricoperta / occupazione desiderata / titolo per il quale si

concorre (eliminare le voci non rilevanti nella colonna di

sinistra)

Sostituire con date

(da - a)

Sostituire con il lavoro o posizione ricoperta

Sostituire con il nome e l'indirizzo del datore di lavoro (se rilevante,

inserire indirizzo completo e sito web)

Sostituire con le principali attività e responsabilità

Attività o settore Sostituire con il tipo di attività o settore

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R

M

A

Z

I

O

N

E

[Inserire separatamente i corsi frequentati iniziando da quelli più recenti.]

COMPETENZE

PERSONALI

Lingua

madre

Sostituire con la lingua (e) madre

Altre

lingue

COMPRENSIONE PARLATO PRODUZIONE SCRITTA

Ascolto Lettura Interazione Produzione orale

Sostituire con il nome del certificato di lingua acquisito. Inserire il livello, se conosciuto

Sostituire con il nome del certificato di lingua acquisito. Inserire il livello, se conosciuto

Livelli: A1/2 Livello base - B1/2 Livello intermedio - C1/2 Livello avanzato

Quadro Comune Europeo di Riferimento delle Lingue

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Competenze

comunicativ

e

Sostituire con le competenze comunicative possedute. Specificare in

quale contesto sono state acquisite. Esempio:

possiedo buone competenze comunicative acquisite durante la mia

esperienza di direttore vendite

Competenz

e

profession

ali

Sostituire con le competenze professionali possedute non indicate

altrove. Esempio:

buona padronanza dei processi di controllo qualità (attualmente

responsabile del controllo qualità)

Altre

competenze

Sostituire con altre rilevanti competenze non ancora menzionate.

Specificare in quale contesto sono state acquisite. Esempio:

falegnameria

Competenz

e

organizzativ

e e

gestionali

Sostituire con le competenze organizzative e gestionali possedute.

Specificare in quale contesto sono state acquisite. Esempio:

leadership (attualmente responsabile di un team di 10 persone)

Competenz

e

informatic

he

Sostituire con le competenze informatiche possedute. Specificare in quale

contesto sono state acquisite. Esempio:

buona padronanza degli strumenti Microsoft Office

Patente di

guida

Sostituire con la categoria/e della patente di guida

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ULTERIORI

INFORMAZIONI

ALLEGATI

Pubblicazion

i

Presentazioni

Progetti

Conferenze

Seminari

Riconoscime

nti e premi

Appartenenz

a a gruppi /

associazioni

Referenze

Sostituire con rilevanti pubblicazioni, presentazioni, progetti, conferenze, seminari,

riconoscimenti e premi, appartenenza a gruppi/associazioni, referenze: Rimuovere le voci non

rilevanti nella colonna di sinistra.

Esempio di pubblicazione:

Come scrivere un CV di successo, New Associated Publisher, Londra, 2002.

Esempio di progetto:

La nuova biblioteca pubblica di Devon. Architetto a capo del progetto e realizzazione, della

supervisione della commessa e della costruzione (2008-2012).

Dati

personali

Autorizzo il trattamento dei miei dati personali ai sensi del Decreto Legislativo 30 giugno

2003, n. 196 "Codice in materia di protezione dei dati personali”.

Sostituire con la lista di documenti allegati

al CV. Esempio:

copie delle lauree e qualifiche conseguite;

attestazione di servizio;

attestazione del datore di lavoro.

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Percorso letterario

Il percorso letterario che stiamo per avviare tocca differenti momenti della letteratura

italiana. Parte da Giovanni Verga (negli anni dell’Italia postunitaria) ed arriva sino a Giuseppe

Fenoglio (partigiano classe 1922).

Nella linea del tempo posta di seguito, inserisco i differenti autori che tratteremo (con le

rispettive date di nascita e di morti, così da poterci orientare più facilmente a livello

temporale).

GIOVANNI VERGA

Verga nacque il 2 settembre del 1840; non è chiaro il luogo di nascita, c’è chi sostiene Catania

chi invece Vizzini. Fu registrato all'anagrafe di Catania. Il padre, Giovanni Battista Catalano, era

di Vizzini, dove la famiglia Verga aveva delle proprietà, e discendeva dal ramo cadetto di una

famiglia alla quale appartenevano i baroni di Fontanabianca; la madre si chiamava Caterina Di

Mauro e apparteneva ad una famiglia borghese di Catania. Il nonno nel 1812 era stato eletto

deputato per Vizzini al primo Parlamento Siciliano. Inizialmente collocabile nella corrente

letteraria tardo-romantica (era stato soprannominato il poeta delle duchesse), intraprese nella

sua seconda fase artistica, sulla scia di Luigi Capuana, la strada del Verismo. Il primo autore

italiano, infatti, a teorizzare la “poesia del vero” fu Capuana.

Prima fase: i primi romanzi storico – patriottico

Sia in campo letterario (nella composizione dei romanzi storici e patriottici) sia in campo

politico (fondò e diresse il settimanale «Roma degli italiani»), l’attività del giovane Verga si

svolse inizialmente a Catania. Fortemente influenzato dal suo insegnante Don Antonio Abate,

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autore di opere patriottiche dal gusto romantico, Verga esordisce con un romanzo intitolato

Amore e Patria, scritto fra il 1856 e il 1857 e rimasto inedito (fu la sua prima prova

romanzesca; ne furono pubblicati solo tre capitoli).

TRAMA “AMORE E PATRIA”

Il romanzo narra un avvenimento della guerra di indipendenza americana e descrive grandi

eroi ma anche vili traditori con uno stile romantico in cui la passione amorosa si intreccia con

quella patriottica. La storia ha un lieto fine. A guerra terminata il protagonista, il colonnello

Edoardo di Walter, giovane di bell'aspetto e ardente patriota, sposa la pura e bella Eugenia di

Redward.

I suoi studi superiori non furono regolari. Iscrittosi nel 1858 alla Facoltà di legge all'Università

di Catania, non terminò i corsi, preferendo dedicarsi all'attività letteraria e al giornalismo

politico. Con il denaro datogli dal padre per concludere gli studi, il giovane Verga pubblicò a

sue spese il romanzo "I carbonari della montagna" (1861- 1862), un romanzo storico che si

ispira alle imprese della Carboneria calabrese contro il dispotismo napoleonico di Murat.

TRAMA “I CARBONARI DELLA MONTAGNA”

La vicenda si svolge nel 1810-1812 durante la guerra partigiana dei carbonari che

combattono per ottenere l'indipendenza. I Borboni, per combattere l'usurpatore Gioacchino

Murat, raccolgono uomini coraggiosi al comando del giovane Corrado. L'intreccio

avventuroso vedrà alla fine il giovane protagonista che, deluso per il tradimento dei Borboni

e di Carolina, la donna che ama, morirà restando però venerato da tutte le genti d'Italia.

Nel 1863 pubblicò a puntate sulle appendici della rivista fiorentina "La nuova Europa" il suo

terzo romanzo, "Sulle lagune", nel periodo in cui, ottenuta ormai l'Italia l'indipendenza,

Venezia è ancora sotto la potenza austriaca. Sulle lagune chiude la trilogia catanese di

ispirazione patriottica. Nell’opera è possibile cogliere i segni di un mutamento, dal

romanticismo eroico al romanticismo passionale.

TRAMA “SULLE LAGUNE”

La vicenda si svolge a Venezia nel periodo del dominio austriaco dal settembre del 1860 al

1861 e racconta la storia d'amore del giovane ufficiale ungherese Stefano de Keller e la

giovane fanciulla veneziana Giulia Collini che, dopo aver superato numerosi ostacoli, riescono

a fuggire insieme su una gondola verso Chioggia.

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Il soggiorno fiorentino

Nel 1865 lascia la provincia e si reca per la prima volta a Firenze che era in quel periodo la

capitale del Regno d'Italia per tornarvi nel '69 deciso a soggiornarci a lungo, consapevole del

fatto che per diventare un autentico scrittore doveva liberarsi dai limiti della sua cultura

provinciale e conoscere la vera società letteraria italiana umanistica. Il periodo fiorentino fu

fondamentale per la maturità artistica di Giovanni Verga.

Le CAPITALI D’ITALIA nella storia furono:

TORINO DAL 1861 AL 1865

FIRENZE DAL 1865 AL 1871

ROMA DAL 1871 IN POI

Seconda fase: i romanzi mondani

Nel frattempo, nel 1866 , pubblicherà "Una peccatrice", primo romanzo fortemente

autobiografico, nel quale lo scrittore narra, in modo passionale, la storia di un piccolo

borghese intellettuale di Catania che, ottenuta la ricchezza ed il successo, vede venir meno

l'amore per la donna amata e ne causa così il suicidio. A Firenze lo scrittore venne introdotto

nella società bene della città, frequentò la casa di Francesco Dall'Ongaro e il salotto di

Ludmilla Assing dove si ritrovava un mondo intellettualmente vario ed interessante. Sempre a

Firenze, termina nel 1871 il romanzo “Storia di una capinera”, scritto di genere sentimentale

in cui si narra la storia di un amore impossibile e di una giovane donna che è costretta a farsi

monaca nonostante il suo morboso amore per il cognato Nino.

TRAMA “STORIA DI UNA CAPINERA”

Maria, giovane figlia di un vedovo che si era risposato, all’età di sette anni, poco dopo la morte

della madre, è destinata al convento, non in seguito al manifestarsi di una sua vocazione alla

vita monacale ma per un’irrevocabile decisione familiare. Nella nuova famiglia, composta

dalla matrigna e dai due fratellastri Gigi e Giuditta, non c’è più posto per lei: il convento è la

sola via d’uscita possibile ai mali della società di quel tempo. Ha quasi 20 anni Maria quando

nel 1854 a Catania scoppia l’epidemia di colera ed è costretta quindi a far ritorno a casa,

trasferendosi con tutti i familiari nella tenuta di campagna a Monte Ilice. La storia prende

avvio proprio da questo momento quando, come farà quotidianamente, scrive una lettera alla

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compagna di noviziato, l’amica del cuore Marianna. In queste lettere Maria parla di sé, della

sua famiglia, della vita che conduce in campagna e soprattutto dell’amore pudicamente

vissuto per Nino, figlio dei loro vicini, la famiglia Valentini. L’amore di Maria, vissuto come

gioia e turbamento dapprima, si trasforma poi in passione, gelosia, ossessione, in un percorso

che presto la conduce alla follia. Nino viene dato in sposo alla sorellastra Giuditta proprio

mentre Maria è costretta dalla matrigna, accortasi dei forti sentimenti fra i due giovani, a far

ritorno in convento. Straziata e sfinita dal dolore per l’impossibilità d’amare, anche se

ricambiata da Nino, Maria muore nella cella sotterranea del convento destinata alle

mentecatte, proprio come quella capinera (di cui Verga parla nella parte iniziale del romanzo)

rinchiusa dal suo padroncino in una gabbia, privata della sua libertà, dei suoi istinti naturali.

Riporto di seguito la parte che fa da introduzione al libro, per farci un’idea più concreta

dell’opera.

“Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia; ci guardava

con occhio spaventato; si rifugiava in una angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto

allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell’azzurro del cielo, li

inseguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi di lacrime. Ma non osava ribellarsi, non

osava tentare di rompere il fil di ferro che la teneva carcerata la povera prigioniera. Eppure i

suoi custodi le volevano bene, cari bimbi che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua

malinconia con briciole di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la

meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di

beccare tristemente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due

giorni chinò la testa sotto l’ala e l’indomani fu trovata stecchita nella sua prigione. Era morta,

povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel corpicino c’era

qualcosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.

Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici di quel povero uccelletto, mi narrò

la storia di una infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo e la

superstizione e l’amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie che passano

inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato

senza osare di far scorgere le sue lacrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era

chiuso nel suo dolore ed era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo

attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava tristemente il suo miglio,

che aveva piegato la testolina sotto l’ala ed era morta. Ecco perché l’ho intitolata: Storia di una

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capinera”.

Nel 1872 Verga si trasferisce a Milano, che era in quel periodo il centro culturale più vivo

dell'intera penisola e quello maggiormente aperto alle sollecitazioni europee. A Milano si

avvicina agli scapigliati e frequenta i salotti più brillanti.

La scapigliatura fu un movimento artistico - letterario sviluppatosi nell'Italia settentrionale

nella seconda metà dell'Ottocento; ebbe il suo epicentro a Milano e si andò poi affermando in

tutta la penisola. Gli scapigliati erano animati da uno spirito di ribellione contro la cultura

tradizionale e il buonsenso borghese.

A Milano termina il romanzo "Eva" che aveva iniziato a Firenze, storia di un giovane pittore

siciliano che a Firenze brucia le sue illusioni ed i suoi ideali artistici per amore di una

ballerina, simbolo di una società materialistica, che vive di piaceri effimeri e nel disprezzo per

l'arte. In “Eva” Verga, con la protesta per la nuova condizione dell'intellettuale emarginato

dalla società borghese, si avvicina all'accesa polemica anticapitalista che caratterizza la

Scapigliatura.

A questo romanzo di carattere polemico seguono i romanzi d'analisi di sottili passioni

mondane: “Eros”, storia dell'inaridirsi progressivo di un giovane dell'aristocrazia, corrotto da

una società senza valori, e “Tigre reale” dove viene analizzato il traviamento di un giovane che

si è innamorato di una donna "fatale", divoratrice di uomini. I due romanzi, entrambi usciti nel

1875, vengono accolti dalla critica come esempio di "realismo" e di analisi coraggiosa delle

piaghe psicologiche e sociali dell’epoca.

Terza fase: il verismo

La fase verista di Verga viene fatta iniziare con Nedda, un “bozzetto siciliano e rusticano”

(come lo definisce l’autore) che segna il passaggio, nella poetica di Verga, al verismo con la

rappresentazione oggettiva e reale di una società in degrado.

Nedda è una novella che venne pubblicata il 15 giugno del 1874 sulla "Rivista Italiana" e nello

stesso anno dall'editore Brignola a Milano. L'ambiente di questa novella, collocata in Sicilia, è

la realtà rurale; i personaggi sono contadini. La protagonista, una giovane donna che vive una

situazione concreta e tragica, è ben lontana dall'astrattismo e dal sentimentalismo che appare

nelle figure femminili delle precedenti novelle. Nedda, che perde il suo uomo e il bambino

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appena nato, rimane sola.

« Era una ragazza bruna, vestita miseramente, dall'attitudine timida e ruvida che danno la miseria e

l'isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non avessero alterato profondamente

non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri,

folti, arruffati, appena annodati con dello spago, avea denti bianchi come avorio, e una certa

grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso" ».

Nedda narra la storia di una donna semplice, innocente; una rassegnata raccoglitrice di olive

di Viagrande, ma che abita a Ravanusa, chiamata la varannisa, che per aiutare la madre

ammalata e che in seguito morirà, è costretta a vagare di fattoria in fattoria in cerca di un

lavoro, sostenuta solamente dall'amore per Janu, un contadino che lavora con lei ma che,

ammalato di febbre malarica e costretto ugualmente a salire sugli alberi per la rimondatura

degli ulivi, un giorno cade e muore lasciando Nedda in attesa di una bambina. Ma la bimba,

che nasce "rachitica e stenta" presto muore. Il racconto si conclude con le parole di Nedda che,

dopo aver adagiato sul letto dove aveva dormito sua madre la povera creatura, "... cogli occhi

asciutti e spalancati fuor di misura. - Oh, benedetta voi, Vergine Santa! esclamò - che mi avete

tolto la mia creatura per non farla soffrire come me!" Mettendo in luce la cattiveria, l'aridità e

l'incomprensione di coloro che vivono nell'agiatezza di soldi, oro e argento, in Nedda Verga

confronta l'umiltà, la timidezza e la rassegnazione delle sue creature umili, con gli animali che

"non rappresentano affatto l'animalità, gli istinti brutali e il senso, come accade nel

neorealismo, rappresentano invece la pazienza, il silenzio, la mancanza di protesta e di critica.

L'animale non sta a significare un grado più basso di umanità, ma al contrario più umile della

sopportazione".

Dopo un silenzio di quattro anni, uscirà nel 1878 un racconto lontano dalla materia e dal

linguaggio della sua narrativa precedente con il titolo “Rosso Malpelo”.

Rosso Malpelo

Rosso Malpelo è una novella di Giovanni Verga, che comparve per la prima volta sul "Fanfulla"

(il Fanfulla era un quotidiano italiano dell’800; Verga collaborò al “Fanfulla della domenica”, un

supplemento letterario) nel 1878 e che venne in seguito raccolta e pubblicata nel 1880

insieme ad altre novelle uscite nel 1879-1880 in "Vita dei campi".

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Vita dei campi è una raccolta di novelle risalente al 1880. Essa comprende otto novelle:

Cavalleria rusticana; Fantasticheria; Guerra di santi; Jeli il pastore; Pentolaccia; Rosso

Malpelo; La Lupa; L’amante di Gramigna. L’ambiente è quello della Sicilia dei pastori, dei

contadini, dei pescatori, dei minatori che strappano alla vita appena il necessario per vivere.

In questi racconti spiccano personaggi tipici della vita contadina siciliana di fine Ottocento,

attorno ai quali si svolge la vicenda principale. La rappresentazione del mondo rurale è

estremamente realistica, con un’impronta di pessimismo, ma anche di romanticismo. I temi

principali qui trattati sono l’amore e la diversità. Quest’ultima si divide in diversità

dell’individuo rispetto a un gruppo di persone (Rosso Malpelo) e diversità tra classi sociali

(Cavalleria Rusticana e Fantasticheria).

Rosso Malpelo descrive la realtà di povertà e sfruttamento delle classi disagiate in Sicilia alla

fine del XIX secolo, realtà che Verga conosceva ma che emergeva altresì dalle inchieste del

Regno d'Italia da poco formatosi (1861). Principalmente, l'opera è il ritratto di un adolescente

condannato dai pregiudizi popolari e dalla violenza della gente all'emarginazione e ad una

tragica fine, similmente a quella del padre, oltre che ad un duro lavoro nelle cave di rena

siciliane.

La rena rossa

La rena rossa (indicata anche con altri termini: “ghiara”, “la russa”, “agliara”, “agghiara”, “terra

rossa”) è un materiale dall'aspetto sabbioso, caratterizzata da colori che vanno dal rosa

chiaro al rosso cupo, a volte mista a lapilli di colore biancastro o nerissimo, untuosa al tatto e

tingente.

Le cave di rena rossa

L'estrazione della rena rossa avveniva principalmente con due sistemi di scavo:

a) Si scavavano delle brevi e larghe gallerie, che partendo dal fronte della cava di pietra, si

inserivano al di sotto del banco di basalto. Questo, veniva sostenuto da pilastrini di ghiara o

puntelli di legno. Quando lo strato di rena rossa era stato sufficientemente estratto,

l'abbattimento dei pilastrini di sostegno provocava il crollo del basalto, che si frantumava.

b) Si scavavano dei cunicoli discendenti nei punti in cui le colate laviche erano meno

compatte, normalmente lungo i margini dei fronti lavici o tramite ambienti vuoti di edifici

travolti ma non completamente invasi dalla lava. I cunicoli raggiungono con leggera

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pendenza la base della colata e qui veniva cavata la rena rossa.

L'interno della cava

Lo scavo avveniva mediante l'asportazione della rena rossa e delle scorie di base (azolo)

sovrastanti; proseguiva in tutte le direzioni, seguendo lo strato più copioso di rena rossa,

spesso creando ampi saloni sostenuti dai pilastri di rena. Man mano che lo scavo avanzava

questi saloni venivano colmati con materiale di risulta realizzando muri a secco di

contenimento. L'interno delle cave era costituito da un reticolo di gallerie che si incrociano

continuamente e da ampi slarghi periferici. L'altezza della gallerie era determinata dallo

spessore del materiale cavato e normalmente non supera il metro e mezzo, escluso quelle

zone dove si sono verificati crolli nelle volte. Le volte delle gallerie erano costituite in genere

da materiale friabile.

L'utilizzo

La rena rossa era impastata in rapporto di due volumi con un volume di calce idrata per la

preparazione di malte comuni per costruzioni di muri; ed in rapporto di quattro volumi di

calce idrata e sette di rena rossa per la preparazione di malte idrauliche per intonaci esterni.

Le malte ottenute dalla miscela della rena rossa e della calce idrata trovavano largo uso nella

formazione di intonaci per esterni, interni e per l'impermeabilizzazione di coperture, riserve

e condotte idriche. L'uso della rena rossa in edilizia agli inizi degli anni cinquanta del secolo

scorso scomparve perché fu soppiantata dal cemento e le cave di estrazione caddero

rapidamente in disuso e dimenticate.

Malpelo è un "vinto" che non ha alcuna possibilità di sottrarsi al suo destino. In questa dura

realtà, in cui “il pesce più grande mangia sempre quello più piccolo”, ciascuno cerca di reagire

al male ricevuto infliggendo altrettanta sofferenza e cercando di reprimere i sentimenti di

compassione pur di sopravvivere (emblematici sono i comportamenti rudi del protagonista

nei confronti di Ranocchio e dell'asino). La novella di "Malpelo" è uno dei primi esempi dello

stile dell'"impersonalità"* dove non vi è un narratore onnisciente; vi è invece un eclissarsi

dell'autore che da un punto di vista distaccato mette in scena i personaggi, li presenta, li

giudica o li compatisce. L'imparzialità in questa novella è raggiunta da Verga attraverso la

tecnica dello "straniamento", per la quale viene mostrato strano qualcosa di diverso, o

viceversa, dal momento che viene preso un punto di vista diverso dal consueto. Verga ottiene

questo effetto attuando una regressione culturale, facendo coincidere il suo punto di vista con

l'opinione comune del villaggio di Malpelo, come è possibile evincere dall'incipit: "Malpelo si

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chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo

malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della

rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo,

aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo."

*L'impersonalità narrativa è una tecnica narrativa in base alla quale il narratore non deve

partecipare emotivamente agli avvenimenti, commentando, condannando, approvando

giudicando, infatti le conseguenze si riveleranno spontaneamente. Il narratore non allude

mai, esplicitamente, alla propria funzione, spesso si esprime imitando i modi caratteristici di

questo o di quel personaggio. Fedele all'immagine del narratore popolare usa il discorso

indiretto libero, passando, senza soluzione di continuità, dalla narrazione di un fatto al

riportare le parole o i pensieri di un personaggio.

Malpelo è maltrattato da tutti e non trova affetto neanche in famiglia perché non veniva

accettata la sua scelta di vita: la madre non si fida di lui e quando il ragazzo torna a casa dal

lavoro gli chiede sempre se ha sottratto dei soldi dallo stipendio, e per sicurezza la sorella lo

accoglie picchiandolo. Malpelo lavora con il padre, Mastro Misciu, al quale è stato dato il

soprannome di “la bestia”, in una cava dove si estrae la sabbia. I due sono molto legati: Misciu

infatti è l'unico ad avergli mai dato affetto, e Malpelo, appena gli altri operai deridono il

pover'uomo, lo difende. Un giorno il padre deve terminare un lavoro preso a cottimo, per

eliminare un pilastro dalla cava, malgrado sia molto pericoloso. Si diceva che solo un testardo

avrebbe accettato di eseguire lavori di quel genere. La sera tardi, mentre Malpelo gli sta dando

una mano, il pilastro cade all'improvviso addosso al padre. Rosso Malpelo, preso dalla

disperazione, inizia ad urlare e a scavare con le unghie fino a farle sanguinare. Quando anche

Zio Mommu viene a sapere della disgrazia, è ormai troppo tardi, perché sono passate quattro

ore e Mastro Misciu è già morto. Nessuno invece fa caso al figlio, che inutilmente, scava nella

rena lacerandosi le unghie nello sforzo di salvarlo. Dopo la morte del padre Malpelo diventa

ancora più cattivo agli occhi di chi lo osserva e riprende a lavorare alla cava proprio nella

galleria dove era morto il padre. Qualche tempo dopo alla cava viene a lavorare un ragazzino

piccolo e debole che prima faceva il muratore, ma è costretto ad abbandonare il mestiere a

causa di una caduta. Il ragazzo, soprannominato Ranocchio per il modo in cui cammina,

diventa oggetto di sfogo di Malpelo che lo tormenta: lo picchia, lo insulta, e se Ranocchio non

si difende lui continua, perché vuole che impari a reagire. In realtà il motivo di tale apparente

cattiveria è dato dal fatto che Malpelo vuole che impari la dura lezione della vita; Malpelo

infatti spesso gli dà la sua razione di cibo pur di non farlo morire di fame, oppure lo aiuta con i

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lavori pesanti. Dopo qualche tempo viene ritrovato il cadavere di Mastro Misciu: per il grave

shock Malpelo si allontana per qualche giorno dalla cava e quando torna decide di andare a

lavorare in un'altra galleria. Tutto quello che ha sono i suoi pantaloni, il piccone e un paio di

scarpe, che Malpelo custodisce come tesori. Quando un asino muore di patimenti, il carrettiere

lo getta nella sciara, Malpelo trascina Ranocchio con lui a vedere i cani mangiarselo. Secondo

Malpelo la morte è la liberazione di tutto, e per i deboli sarebbe meglio non essere mai nati.

Ranocchio invece gli spiega del Paradiso, il posto dove i vivi che sono stati brave persone

vanno a riposare in eterno. Non molto tempo più tardi Ranocchio, il quale da un po' di tempo

stava deperendo, si ammala di tubercolosi e muore. Malpelo adesso è effettivamente solo, dato

che la madre ha trovato un nuovo compagno e la sorella ha un marito e nessuno lo vuole più in

casa. Alla fine Malpelo muore alla cava: gli era stato infatti affidato il compito di verificare un

tratto di una galleria ancora inesplorato. Nessuno voleva prendersi un simile compito, ma

Malpelo accetta subito dato che non ha nessuno che possa rimpiangerlo. Quella raccontata

attraverso Rosso Malpelo è la drammatica storia che caratterizza la Sicilia della metà dell’800.

La realtà delle miniere. Oltre alle miniere di rena, in cui lavorava il protagonista dell’opera

appena raccontata (Rosso Malpelo), erano numerose in Sicilia anche le miniere di zolfo.

Il ciclo dei vinti

Parallelamente alle novelle Verga inizia a delineare il progetto di un Ciclo dei Vinti di romanzi

(mai terminati). Sulla scia del “bozzetto siciliano” (con Nedda), inizia a delineare un “bozzetto

marinaresco” "Padron 'Ntoni" (che confluirà poi nei "Malavoglia")

Nella prefazione che precedeva I Malavoglia, il primo romanzo del ciclo, Verga spiega che si

tratta di un ciclo composto da cinque romanzi (I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, La

duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni e L'uomo di lusso) che avrebbe dovuto intitolarsi "I

vinti" perché intendeva studiare il tema del progresso dell'umanità da una prospettiva che

rovesciava il trionfalismo del positivismo, quello cioè delle vittime travolte dalla "fiumana del

progresso". Si sostiene quindi chiaramente l'imparzialità e l’indifferenza del destino (il fato).

Nessuno è al sicuro dalla lotta per la vita. In realtà il titolo che Verga aveva in mente per

questa raccolta era "La marea", poiché tutti i cinque romanzi avevano come motivo centrale

quello del progresso che come una "marea" travolge tutti indistintamente. Solo

successivamente decise di optare per "I Vinti" ritenuto un titolo più adatto perché meglio

dava l'idea di ciò di cui egli stesso avrebbe parlato.

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Il primo romanzo del ciclo, come abbiamo già detto, è “I Malavoglia” del 1881. Esso narra le

vicende di una famiglia siciliana di pescatori che, sopraffatta dalle difficoltà economiche

dell'Italia post-unitaria, compie una speculazione commerciale che segnerà l'inizio di una

serie interminabile di sventure. Passeranno tra il primo e il secondo romanzo del ciclo un

lungo intervallo di ben otto anni.

“I MALAVOGLIA”

Presso il paese di Aci Trezza, nel catanese, vive la laboriosa famiglia Toscano,

soprannominata Malavoglia per antifrasi. Il patriarca è Padron 'Ntoni, vedovo, che vive

presso la casa del nespolo insieme al figlio Bastiano, detto Bastianazzo, il quale è sposato con

Maria (la Longa). Bastiano ha cinque figli: 'Ntoni, Luca, Filomena (detta Mena o Sant'Agata),

Alessio (detto Alessi) e Rosalia (detta Lia). Il principale mezzo di sostentamento è la

"Provvidenza", una piccola imbarcazione utilizzata per la pesca. Nel 1863 'Ntoni, il maggiore

dei figli, parte per la leva militare. È la prima volta che un membro della famiglia dei

Malavoglia parte per la leva nell'esercito del Regno d'Italia, e sarà questo evento (che

rappresenta l'irruzione del mondo moderno in quello rurale della Sicilia contemporanea) a

segnare l'inizio della rovina della famiglia stessa. Per far fronte alla mancanza, Padron ‘Ntoni

tenta infatti un affare comprando una grossa partita di lupini (peraltro avariati), da un suo

compaesano, chiamato Zio Crocifisso per via delle sue continue lamentele e del suo perenne

pessimismo. Il carico viene affidato al figlio Bastianazzo perché vada a venderlo a Riposto, ma

durante il viaggio la barca subisce naufragio e Bastianazzo muore. A seguito di questa

sventura, la famiglia si ritrova con una triplice disgrazia: è morto il padre, principale fonte di

sostentamento della famiglia, mentre il debito dei lupini è ancora da pagare e la Provvidenza

va riparata. Finito il servizio militare, 'Ntoni torna malvolentieri alla dura vita di pescatore

alla giornata, e non dà alcun sostegno alla già precaria situazione economica del nucleo

familiare. Le disgrazie per la famiglia non terminano. Luca, uno dei nipoti, muore nella

battaglia di Lissa (1866); ciò determina anche la rottura del fidanzamento di Mena con Brasi

Cipolla. Il debito costa alla famiglia anche la perdita dell'amata Casa del nespolo, e la

reputazione e l'onore della famiglia peggiorano fino a raggiungere livelli umilianti. Un nuovo

naufragio della "Provvidenza" porta Padron 'Ntoni ad un passo dalla morte; Maruzza, la

nuora, muore invece di colera. Il primogenito 'Ntoni decide di andare via dal paese per far

ricchezze, ma, una volta tornato ancora più impoverito, perde ogni desiderio di lavorare,

dandosi all'ozio e all'alcolismo. La partenza di 'Ntoni costringe nel frattempo la famiglia a

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vendere la Provvidenza per accumulare denaro al fine di riacquistare la Casa del nespolo, mai

dimenticata. La padrona dell'osteria Santuzza, già desiderata dallo sbirro Don Michele, si

invaghisce invece di 'Ntoni (che intanto entra nel giro del contrabbando), mantenendolo

gratuitamente all'interno del suo locale. La condotta di 'Ntoni e le lamentele del padre la

convincono a distogliere le sue aspirazioni dal ragazzo, e a richiamare Don Michele

all'osteria. Ciò diventa origine di una rissa tra i due pretendenti, che sfocia nella coltellata di

'Ntoni al petto di Don Michele, nel corso di una retata anti-contrabbando. 'Ntoni finisce

dunque in prigione e Padron 'Ntoni, accorso al processo e sentite le voci circa la relazione tra

Don Michele e sua nipote Lia, sviene in fin di vita. Ormai vecchio, il suo salmodiare si fa

sconnesso e i suoi proverbi (che accompagnano tutta la narrazione) iniziano a venire

pronunciati senza cognizione di causa. Lia, la sorella minore, vittima delle malelingue e del

disonore, lascia il paese e si abbandona all'umiliante mestiere della prostituta a Catania.

Mena, a causa della vergognosa situazione della sorella, sceglie di rinunciare a sposarsi con

compare Alfio, di cui è innamorata, e rimane in casa ad accudire i figli di Nunziata e di Alessi,

il minore dei fratelli, che continuando a fare il pescatore ricostruisce alla fine il nucleo

famigliare e ricompra la "casa del nespolo". Acquistata la casa, ciò che resta della famiglia farà

visita all'ospedale al vecchio Padron 'Ntoni, per informarlo della compravendita e

annunciargli un suo imminente ritorno a casa. È questa l'ultima gioia per il vecchio, che

muore proprio nel giorno del suo agognato ritorno: neanche il desiderio di morire nella casa

dov'era nato viene dunque esaudito. Quando 'Ntoni, uscito di prigione, ritorna al paese, si

rende conto di non poter restare a causa del suo passato: con il suo comportamento egli si è

auto-escluso dal nucleo familiare, rinnegando sistematicamente i suoi valori.

L'ambientazione è molto importante per lo svolgersi della vicenda: infatti, quello che fa da

sfondo al racconto è un paese con attività agricole o marittime di scarsa entità, volte alla

sopravvivenza più che all'arricchimento dei privati che le praticano. Il mondo ad Aci Trezza

non cambia, e non cambierà nonostante le vicende dei Malavoglia: a testimonianza di questo

aspetto, Giovanni Verga applica uno stile ripetitivo nella parte finale del racconto per creare

l'idea di ripetizione nella mente del lettore. L'autore vuole insegnarci che il progresso travolge

le classi più umili, ancora legate ai valori arcaici, le quali soccombono perdendo le antiche

usanze senza riuscire comunque ad adeguarsi alla società moderna. L'idea è quella di un

progresso impossibile ed inattuabile. Ogni personaggio viene chiamato con un nomignolo

attribuitogli dal popolo, e la famiglia stessa viene chiamata dai concittadini i Malavoglia. Verga

usa così una serie di antifrasi, per le quali il soprannome attribuito a ciascun personaggio

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indica una caratteristica opposta a quella reale. Ad esempio i Malavoglia sono così chiamati

per la loro volontà e la loro voglia di lavorare per poter sanare i propri debiti ed elevare la

loro condizione sociale. I temi principali sono gli affetti familiari e le “prime irrequietudini per

il benessere”. Emerge il cosiddetto ideale dell'ostrica. Soltanto coloro che si adattano alla loro

condizione possono salvarsi (è il caso di Alessi e di Mena)

Il concetto dell'ostrica si basa sulla convinzione che per coloro che appartengono alla fascia

dei deboli è necessario rimanere legati ai valori della famiglia, al lavoro, alle tradizioni, per

evitare che il mondo, cioè il "pesce vorace", li divori. Finché i contadini, i braccianti, i

pescatori vivono protetti dall'ambiente che li ha visti nascere e crescere, finché credono e

rispettano i valori in cui hanno creduto e che hanno rispettato i loro padri, allora, anche se

poveri, sono al sicuro. Il problema nasce quando cominciano a provare il desiderio del

cambiamento, il desiderio di migliorare, di progredire. Come l’ostrica che vive sicura finché

resta avvinghiata allo scoglio dov’è nata, così l’uomo di Verga vive sicuro finché non comincia

ad avere “smanie” di miglioramento.

Mastro Don Gesualdo

Nel 1889 esce il secondo romanzo del ciclo dei vinti, Mastro-don Gesualdo, storia dell'ascesa

sociale di un muratore che accumula grandi ricchezze ma va incontro ad un tragico fallimento

nella sfera degli affetti familiari.

“MASTRO DON GESUALDO”

Gesualdo Motta è un intraprendente e ricco uomo di Vizzini. Si è costruito la sua ricchezza con

le sue forti mani di lavoratore. Sposa Bianca Trao, discendente di una nobile famiglia decaduta

e con questa progressione sociale aumenta il suo prestigio: i suoi affari migliorano ancora, ma

la vita non gli dà che amarezze. La moglie e la figlia non lo amano ed egli morirà di cancro, a

Palermo, in una solitudine dolorosa e tragica, nel palazzo del duca di Leyra, marito della figlia

Isabella. Partecipano alla vicenda anche altri personaggi: Speranza, sorella di don Gesualdo, il

canonico Lupi, la baronessa Rubiera, don Diego e don Ferdinando Trao, fratelli di Bianca,

Diodata, la serva devota di don Gesualdo. Mastro don Gesualdo è un titanico uomo solitario,

energico, volonteroso, orgoglioso. Di fronte alle difficoltà e alle inquietudini sa rimboccarsi le

maniche, rialzarsi, lottare. La fatica fisica e spirituale cui si assoggetta rende il suo culto per la

roba privo di grettezza e di alto valore etico. Ha un bisogno insaziato d'affetto, che né la

moglie, gelida e distante, né la figlia che assomiglia come carattere alla madre, sanno colmare.

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La sua morte assurge alla dignità della tragedia. Egli muore solo, in un palazzo che gli è

estraneo, fra gente cui è indifferente, mentre il suo patrimonio viene dilapidato dagli eredi,

rendendo vana ogni sua fatica e svuotando di significato la sua esistenza. Sullo sfondo la

storia, il declino fisico e morale della nobiltà siciliana e l'ascesa della borghesia fondiaria.

Successivamente Verga lavora a più riprese al terzo romanzo, La duchessa di Leyra, ma il

lavoro non sarà mai portato a termine. Gli ultimi due romanzi del progetto, L'onorevole

Scipioni e L'uomo di lusso non verranno mai iniziati.

Il ritorno a Catania

Nel 1893 Verga torna a vivere definitivamente a Catania, pubblica ancora raccolte di novelle

ma si tratta di opere che non aggiungono niente di nuovo alla sua produzione. Dopo il 1903 lo

scrittore si chiude in un silenzio totale e la sua vita è dedicata solamente alla cura delle sue

proprietà. Anche le sue posizioni politiche diventano sempre più conservatrici e allo scoppio

della prima guerra mondiale si dichiara interventista convinto e nel dopoguerra si schiera con

le posizioni dei nazionalisti, ma senza alcun interesse militante. Viene colpito il 24 gennaio da

paralisi cerebrale e muore pochi giorni dopo, nell'anno della marcia su Roma e della salita al

potere del fascismo: 1922.

Riguardo alle novelle, oltre a Vita dei campi, Verga scrisse pure le Novelle rusticane (1883).

Le Novelle rusticane furono pubblicate nel 1883, due anni dopo i Malavoglia, e ripropongono

personaggi e ambienti della campagna siciliana. A differenza di Vita dei campi c'è la

scomparsa di eroi "normali" per lasciare spazio agli eroi titanici (riscatto che l'uomo ha in sé),

come per esempio Mazzarò ne La Roba. I temi cambiano e ce né uno prevalente, la roba (la

terra) e la lotta per il suo possesso. Questa corrode i sentimenti e diventa l'unica religione. Le

uniche leggi conosciute e rispettate sono quella dell'accumulo, dell'economia e del successo

economico. Spariscono gli individui d'eccezione come Rosso Malpelo, che davano i titoli alle

novelle e nei titoli entrano entità astratte come Libertà, Malaria, Roba. In queste novelle

appare più accentuato il conflitto tra Italia del Nord e del Sud, così come appare più importane

la lotta tra le classi sociali

La novella che propongo di seguito è un “bozzetto” che contiene al suo interno il cuore del

pensiero e della poetica verghiana, presente anche nelle opere maggiori. Il titolo della novella,

tratta da Novelle rusticane, è La roba.

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La roba

Chi comincia a leggere quest’opera si trova catapultato in una realtà che è quella siciliana; in

modo semplice e realistico Verga riesce a “dire”, riesce a descrivere la realtà intorno: “le

stoppie (parte del gambo dei cereali che resta radicato nel campo dopo il raccolto) riarse

(bruciate) della Piana di Catania, gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di

Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello”...per chi come noi questi posti li

vede giornalmente capisce quanta realtà e quanta concretezza ci sia nelle parole di Verga

(ecco perché Verga è il massimo esponente del Verismo Italiano, perché attraverso le sue

opere riesce a descrivere la verità, ciò che è stata e, sotto alcuni punti di vista, ancor oggi è la

Sicilia).

Dopo aver descritto in modo oggettivo il luogo di questa storia, Verga presenta in modo ancor

più concreto e vero la società; una società umile, di campagna, che deve fare i conti con la

malaria “il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno

della malaria” (la lettiga era il lettino usato per trasportare ammalati); una società in cui “le

donne”, incuriosite dal viandante che non conoscono,”si mettono la mano sugli occhi per

vedere chi passava”, “i muli lasciano ciondolare il capo e la coda”, e “si sente il fischio del

pastore echeggiare nelle gole”, una società in cui “la sera il sole tramonta rosso come il fuoco,

e la campagna si vela di tristezza”. Da queste parole si può capire perché tante volte nei libri di

letteratura si parla di “pessimismo-verghiano”; noi però che siamo siciliani, e conosciamo i

ritmi lenti, sentimentali e alle volte malinconici della nostra terra sappiamo che quello di cui

Verga parla è verità. Noi allora parleremo non di pessimismo ma di Verismo Verghiano. In

tutta la prima parte della novella si vede non solo dove è ambientata la storia e in che tipo di

società ma anche quanto immensa sia la “roba” di Mazzarò “Della roba ne possedeva fin dove

arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga”. La roba è per Mazzarò la proprietà (non soldì, né

vestiti!), la terra; “non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato

impiegato a fare della roba”e alla fine ne era diventato schiavo! Nella seconda parte della

novella Verga ci fa capire chi è Mazzarò. Mazzarò è un uomo che ha dedicato tutta la sua vita al

lavoro, un uomo “che si è fatto da sé” , un uomo che ha patito e sa cosa significa “sacrificio”

“quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel

che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore,

col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento”.

Dedicando tutta la sua vita alla roba Mazzarò ha dimenticato però cosa significano gli affetti

“Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle

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spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare

al camposanto”, ha passato tutta la vita da solo, “non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non

aveva altro che la sua roba” stando ben attento affinché nessuno gli rubasse la roba “e

dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo(fucile) fra le gambe”,

mangiando “pane e cipolla” per risparmiare. E tutti gli averi che un tempo erano del barone

ora erano diventati i suoi “Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch'era prima

sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: - Questo

solo, di tutta la mia roba, non fa per te “ ; e Mazzarò non sapeva che farsene di quello stemma

perché non era roba, era solo simbolo della nobiltà…ma lui non se ne faceva nulla di questo

titolo…lui voleva solo la roba! Nella parte finale della novella si capisce il dramma di Mazzarò;

egli ha passato tutta la vita a lavorare, privandosi di affetti e di sentimenti, sempre solo,

cercando di risparmiare per comperare nuova roba e ora che diventava anziano, e poteva

finalmente godersi ciò che aveva accumulato tutta la vita, la morte si avvicinava e la terra (la

roba) non poteva certo portarsela con sé! L’ultima scena ritrae un Mazzarò disperato che “uscì

nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre

e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me!”.Quest’opera dovrebbe far capire che

nella vita di ognuno di noi al lavoro, ai sentimenti, ai sacrifici e al relax deve essere dato il

giusto spazio; ci vuole l’equilibrio, la giusta misura! Mazzarò ha cercato per tutta la vita di

ottenere terre, roba…si è mostrato avaro sia di gesti che di sentimenti e alla fine è rimasto

vittima della sua stessa roba!

Nella terza fase, il modello al quale Verga si rifà è quello del naturalismo francese.

Il Naturalismo è una corrente letteraria nata in Francia nella seconda metà dell’800, in un

periodo in cui si diffonde la corrente filosofica, sociale e culturale del Positivismo (secondo il

Positivismo tutte le sfere della conoscenza e della vita umana sono soggette al metodo

scientifico; si possono cioè dimostrare scientificamente. La religione, i sentimenti vengono

rifiutati. L’unico strumento capace di spiegare la realtà è la scienza). In questo periodo,

dominato a livello sociale e culturale dal Positivismo, anche la letteratura viene vista come un

qualcosa su cui si deve applicare il metodo scientifico; questo vuol dire che la letteratura deve

essere come un trattato scientifico, deve diventare il resoconto di un’esperienza scientifica. Lo

scrittore deve descrivere la realtà nel modo più oggettivo ed impersonale possibile, lasciando

alle cose e ai fatti stessi narrati e descritti il compito di denunciare lo stato della situazione

sociale, evidenziare il degrado e le ingiustizie della società. Gli scrittori naturalisti adottano in

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genere un narratore onnisciente, che sa tutto dei personaggi e che racconta la storia in terza

persona.

A Taine (Hippolyte Adolphe Taine fu uno dei principali teorici del naturalismo) risale la

considerazione di un'opera d'arte che è determinata da fattori puramente naturali. Un'arte

vista come prodotto della natura e rappresentata con la precisione della scienza sono i punti

base di questa concezione. L'opera d'arte, come ogni espressione umana, è il risultato di tre

fattori: quello ereditario (race), l'ambiente sociale (milieu) e il momento storico (moment). Il

comportamento non è quindi legato alla libera scelta dell'uomo, ma è condizionato da fattori

a lui esterni, come l'educazione, l'ambiente sociale, le malattie, i bisogni economici. I racconti

devono quindi essere costruiti con distacco, come se si trattasse di casi clinici; l'artista deve

raccogliere i documenti umani, studiarli e descriverli con la stessa freddezza dei medici di

fronte alla malattia.

Gustave Flaubert

Lo scrittore che i naturalisti indicheranno come loro maestro sarà Gustave Flaubert, autore di

Madame Bovary (1857), per la sua teoria dell'impersonalità che fa largo uso del "discorso

indiretto libero". Flaubert aveva, con i suoi romanzi, impresso una svolta radicale alla

tradizione del realismo romantico. Nel 1857, a proposito della sua teoria dell'impersonalità,

scriverà: "L'artista deve essere nella sua opera come Dio nella creazione, invisibile e

onnipotente, sì che lo si senta ovunque, ma non lo si veda mai. E poi l'Arte deve innalzarsi al di

sopra dei sentimenti personali e delle suscettibilità nervose. È ormai tempo di darle,

mediante un metodo implacabile, la precisione delle scienze fisiche".

Émile Zola

Al metodo di Flaubert si rifà la scuola naturalistica di Émile Zola. Nel saggio su Il romanzo

sperimentale ("Le roman expérimental") che raccoglie gli scritti teorici di Zola pubblicato nel

1880 e che viene considerato l'unico Manifesto del Naturalismo, egli definisce il romanzo

"una conseguenza dell'evoluzione scientifica del secolo" e aggiunge che "il romanziere muove

alla ricerca di una verità... È innegabile che il romanzo naturalista, quale ora lo intendiamo,

sia un vero e proprio esperimento che il romanziere compie sull'uomo, con l'aiuto

dell'osservatore". Sviluppò quindi la sua concezione del romanzo come "opera sperimentale".

Nei suoi romanzi vengono frequentemente smascherate le ipocrisie e le bassezze della

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borghesia francese, con ritratti sfacciatamente realisti. In altri romanzi vengono denunciate

con vigore le miserevoli condizioni di vita delle classi più povere (come per esempio in

"Germinal", ambientato in un villaggio di minatori), o la corruzione della società del Secondo

impero, il che gli attirò l'accusa di essere addirittura un sovversivo. La poetica naturalistica

deriva dalla concezione deterministica della vita e dell'uomo e il romanzo non è altro che una

piccola parte di vita analizzata con il metodo delle scienze sia naturali che sociologiche. I

principi della teoria del romanzo sperimentale furono comunque fissati da Émile Zola in due

punti fondamentali secondo i quali lo scrittore:

deve osservare la realtà, e non inventarla, per poi riprodurla oggettivamente;

deve utilizzare una scrittura che risulti essere un documento oggettivo dal quale non

deve trasparire nessun intervento soggettivo dell'autore.

I temi preferiti della narrativa naturalista furono anti romantici in modo che la narrazione

portasse con sé una forte carica di denuncia sociale che doveva risultare dalla descrizione

scientifica ed obiettiva dei fatti.

Tra i temi principali vi erano dunque:

la vita quotidiana con le sue banalità, le sue meschinità e le sue ipocrisie;

le passioni morbose che dovevano rasentare il limite della patologia psichiatrica, come

la follia e il crimine;

le condizioni di vita delle classi subalterne, soprattutto del proletariato urbano che,

con la sua miseria (prostituzione, alcolismo, delinquenza minorile) potessero dare un

chiaro esempio di patologia sociale.

Il verismo italiano

La variante italiana del naturalismo francese è il verismo. Questo movimento letterario si

afferma nella penisola italiana e soprattutto nel meridione nel 1870. Riproduce

sostanzialmente nella sua poetica quella del Naturalismo francese, ma con caratteri

regionalistici derivanti da una situazione economica e sociale segnata dal ritardo

dell'industrializzazione e dalla centralità della questione contadina. Nel verismo il narratore

è come se fosse uno dei personaggi stessi, è al loro livello e narra i fatti con la loro mentalità.

Alla fine del 1870 quando l'Italia era stata appena costituita in unità ed i problemi esistenti si

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erano fatti più acuti e pressanti, quando la questione sociale dei rapporti fra patronato e

masse lavoratrici stava diventando pericolosa per la stabilità sociale, gli scrittori veristi

italiani elaborarono le loro teorie letterarie creando opere che modificarono il modo

d’intendere l’arte dello scrivere. Il verismo si sviluppò a Milano, la città dalla vita culturale

più feconda, in cui si raccolgono intellettuali di regioni diverse; le opere veriste però

rappresentano soprattutto le realtà sociali dell'Italia centrale, meridionale e insulare. Il primo

autore italiano a teorizzare il verismo fu Luigi Capuana, il quale teorizzò la "poesia del vero”.

La caratteristica del verismo rispetto ad altre tecniche narrative è l'utilizzo del "principio

dell'impersonalità", tecnica che, come mostrato da Verga, consente all'autore di porsi in

un'ottica di distacco nei confronti dei personaggi e dell'intreccio del racconto.

L'impersonalità narrativa è propria di una narrazione distaccata, rigorosamente in terza

persona e, ovviamente, in chiave oggettiva, priva, cioè, di commenti o intrusioni d'autore che

potrebbero, in qualche maniera, influenzare il pensiero che il lettore si crea a proposito di un

determinato personaggio o di una determinata situazione. Il verismo, come si vede in Verga –

si interessa molto delle questioni socio-culturali dell'epoca in cui vive e si sviluppa.

Ma quali sono gli aspetti che Verga riprende dal Naturalismo e per cosa invece se ne distacca?

ASPETTI UGUALI AL NATURALISMO

impersonalità dell’opera (il lettore deve avere

l’impressione non di sentire un racconto ma di

vivere fatti che si svolgono sotto i suoi occhi)

descrivere gli aspetti crudi e reali della società

che lo circonda

DIFFERENZE COL NATURALISMO

mentre secondo i naturalisti l’autore

deve educare ed istruire le persone

attraverso i suoi scritti, secondo

Verga questo non può accadere;

l’autore non può educare né tanto

meno aiutare a cambiare la realtà,

può solo “dire”, descrivere la

società che lo circonda

L’amante di Gramigna

Giovanni Verga scrisse inoltre una novella avente per protagonista proprio uno spietato e

temuto brigante che aveva un nome “maledetto come l’erba che lo porta”: Gramigna. L’opera

si intitola L’amante di Gramigna ed è una novella contenuta in Vita dei campi del 1880. Ha la

forma di una lettera scritta a Salvatore Farina (scrittore e giornalista vissuto a cavallo fra la

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fine ottocento e gli inizi del 1900). In questa novella “ci si trova faccia a faccia con il fatto nudo

e schietto”; si tratta infatti di un “documento umano interessante per tutti coloro che studiano

nel gran libro del cuore”. Da verista qual era, Verga “fotografa” la realtà schietta dei fatti; non

fa commenti, semplicemente “dice”. Il lettore si trova di fronte al “fatto nudo; la narrazione ha

l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate

per la carne”.

La storia narra di Gramigna, il brigante che da mesi mieteva terrore nelle zone di Palagonia e

Licodia. “Era solo ma valeva per dieci. Gramigna sgusciava di mano a carabinieri, soldati e

militi a cavallo. Da un capo all’altro della provincia si era lasciato alle spalle il terrore della sua

fama” e non si faceva altro che parlare di lui; del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta

disperata, lui solo contro mille, “stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa,

sotto il sole di giugno”. Peppa, una delle ragazze più belle di Licodia (“aveva oro quanto ne

poteva avere Santa Margherita”, la patrona di Licodia) che doveva andare in sposa al ricco

“compare Finu candela di sego” (notate come Verga, quasi come un cronista, riporta pure i

soprannomi), si invaghisce del “mito” di Gramigna e si rifiuta di sposare Finu. Da quel

momento in paese è un vociare di storie inventate che vedono addirittura Gramigna “venire a

trovare la ragazza di notte in cucina”. La madre, disperata, “accende una lampada del

purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore con la stola, per

scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso”. Ma a nulla servì. Peppa

scappa di casa e riesce a trovare il bandito in mezzo alle macchie fitte, nei fichidindia di

Palagonia. Lui, crudele, la manda a prendere dell’acqua nel torrente dove c’erano i carabinieri

e nel sentire le fucilate ride dicendo: “queste erano per me”. Nel vederla tornare però dal

torrente ancora viva ma tutta insanguinata, decide di tenerla con sé. E lei “lo seguì per valli e

per monti, affamata, correndo a cercargli un fiasco d’acqua o del pane a rischio della propria

vita”. Fino a che Gramigna non fu ferito e “trascinato per le vie del paese, su di un carro, tutto

lacero e insanguinato. La gente gli si calcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei in

manette come una ladra, lei che aveva dell’oro quanto a Santa Margherita. La madre dovette

vendere tutto il corredo della figlia per pagarle gli avvocati e la riaccolse in casa, povera,

malata e svergognata, e col figlio di Gramigna in braccio”. Si rinchiuse in casa e stava come una

“bestia feroce e ne uscì solo dopo che la madre fu morta di stenti e si dovette vendere la casa”.

Allora di notte, lasciando il figlio ai trovatelli, se ne andò in città, dove la avevano detto ch’era

in carcere Gramigna. “In quel fabbricato tetro, insultata e scacciata ad ogni passo, cercava fra

le sbarre Gramigna. E quando seppe che lui non era più lì ma era stato portato di là del mare,

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rimase in quel posto” buscandosi da vivere in quel fabbricato tetro, diventando lo

“strofinacciolo della caserma”.

Nel riquadro sottostante, in corsivo, riporto per intero l’opera.

L’AMANTE DI GRAMIGNA

A Salvatore Farina.

Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il

merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi -

interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò

così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e

pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col

fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello

scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato,

delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso

processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino

sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo

ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un

racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti

narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, - e un giorno

forse basterà per tutti.

Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con

metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe,

allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno

impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili;

ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile

all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che

diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano,

che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù

dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?

Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il

processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e

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l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo

modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente

invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da

sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto

di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine.

Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo

Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l’erba che lo porta, il quale da un capo all’altro

della provincia s’era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a

cavallo, lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo,

ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava il

tempo della messe, tutta la raccolta dell’annata in man di Dio, ché i proprietarii non

s’arrischiavano a uscir dal paese pel timor di Gramigna; sicché le lagnanze erano generali. Il

prefetto fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, dei compagni d’armi, e

subito in moto pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo

cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a

cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, o rispondeva a schioppettate, se gli

camminavano un po’ troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le

frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d’altro che di lui, di Gramigna, di quella

caccia accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i

compagni d’armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le pattuglie dormivano

all’impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, combatteva sempre,

s’arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia,

sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia all’intorno,

correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata,

lui solo contro mille, stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole

di giugno.

Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu

«candela di sego» che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande

e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza

piegare le reni.

La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e

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passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, «tutto di roba bianca a

quattro» come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d’oro per le

dieci dita delle mani: dell’oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano

sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno.

«Candela di sego» nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all’uscio della Peppa,

e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il

graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli

pareva mill’anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno

gli disse:

- La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi -.

Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, «Candela di sego» era rimasto a

bocca aperta.

Che è, che non è, Peppa s’era scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure.

Quello sì, ch’era un uomo! - Che ne sai? - Dove l’hai visto? - Nulla. Peppa non rispondeva

neppure, colla testa bassa, la faccia dura, senza pietà per la mamma che faceva come una

pazza, coi capelli grigi al vento, e pareva una strega. - Ah! quel demonio è venuto sin qui a

stregarmi la mia figliuola! -

Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel

giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano

dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte in cucina,

e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre teneva accesa una lampada

alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore

colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso.

Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece

pensava sempre a lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse,

assetata anch’essa, come lui.

Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò

tutte le fessure dell’uscio con immagini di santi.

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Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva

pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l’inferno nella faccia.

Finalmente si sentì che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia.

- Ha fatto due ore di fuoco! - dicevano; - c’è un carabiniere morto, e più di tre compagni

d’armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato

un lago di sangue dove egli era stato -.

Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì dalla finestra.

Gramigna era proprio nei fichidindia di Palagonia - non avevano potuto scovarlo in quel

forteto da conigli - lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla

carabina spianata.

Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell’alba, ci

pensò un momento, se dovesse lasciar partire il colpo.

- Che vuoi? - le chiese. - Che vieni a far qui?

Ella non rispose, guardandolo fisso.

- Vattene! - diss’egli, - vattene, finché t’aiuta Cristo!

- Adesso non posso più tornare a casa, - rispose lei; - la strada è tutta piena di soldati.

- Cosa m’importa? Vattene! -

E la prese di mira colla carabina. Come essa non si moveva, Gramigna, sbalordito, le andò

coi pugni addosso:

- Dunque?... Sei pazza?... O sei qualche spia?

- No, - diss’ella, - no!

- Bene, va a prendermi un fiasco d’acqua, laggiù nel torrente, quand’è così -.

Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì le fucilate si mise a sghignazzare, e

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disse fra sé:

- Queste erano per me -.

Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata. Egli le si

buttò addosso, assetato, e poich’ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine:

- Vuoi venire con me?

- Sì, - accennò ella col capo avidamente, - sì -.

E lo seguì per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco

d’acqua o un tozzo di pane a rischio della vita. Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle

fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva.

Una notte c’era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura. Gramigna balzò

in piedi a un tratto, e le disse:

- Tu resta qui, o t’ammazzo com’è vero Dio! -

Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia. Però gli

altri, più furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte.

- Ferma! ferma! -

E le schioppettate fioccarono. Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che

si strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina.

- È finita! - disse lui. - Ora mi prendono -; e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti

come quelli del lupo.

Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d’armi gli furono

addosso tutti in una volta.

Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e

sanguinoso. La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei,

ammanettata, come una ladra, lei che ci aveva dell’oro quanto Santa Margherita!

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La povera madre di Peppa dovette vendere «tutta la roba bianca» del corredo, e gli

orecchini d’oro, e gli anelli per le dieci dita , onde pagare gli avvocati di sua figlia , e tirarsela di

nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in collo. In paese nessuno la

vide più mai. Stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto

allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa.

Allora, di notte, se ne andò via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi

indietro neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto ch’era in carcere Gramigna.

Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate, cercando dove potesse

esser lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo.

Finalmente seppe che il suo amante non era più lì, l’avevano condotto via, di là del mare,

ammanettato e colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase dov’era, a buscarsi il pane

rendendo qualche servizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran

fabbricato tetro e silenzioso. Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei

fichidindia, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l’ammirazione bruta della forza, ed

era sempre per la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la

chiamavano «lo strofinacciolo della caserma». Soltanto quando partivano per qualche

spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le armi, diventava pallida e pensava a Gramigna.

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LUIGI PIRANDELLO

La vita di Luigi Pirandello è l' «involontario soggiorno sulla terra» di un «figlio del caos», come

egli stesso, scherzando, amava definirsi. Pirandello è autore di romanzi, opere teatrali, novelle.

Ricevette il Premio Nobel per la letteratura nel 1934. Soffermiamoci ora sulla sua vita; gli

avvenimenti che l’hanno segnata sono importanti per capire meglio le sue opere. Luigi

Pirandello nasce nel 1867 nella contrada di Càvusu (in dialetto significa calzone, pantalone), al

confine con la città di Girgenti (oggi Agrigento). Quella zona veniva chiamata Càvusu per il

fatto che in quel punto un fiume da tempo essiccato si divideva in due tronconi così da

assumere la forma di un paio di pantaloni. Come scrive Andrea Camilleri nel suo libro

“Biografia del figlio cambiato” (pubblicato dalla casa editrice Rizzoli nel 2000), “questo

Càvuso apparteneva metà al nuovo comune di Porto Empedocle e l'altra metà al Comune di

Girgenti...a qualche impiegato dell'ufficio anagrafe parse che non era cosa che si scrivesse che

qualcuno fosse nato in un paio di pantaloni e cangiò quel volgare "Càvusu" in "Caos"». La

famiglia era proprietaria di alcune zolfare. Dopo gli studi liceali compiuti a Palermo, rientra

nel 1886 a Girgenti, dove affianca per breve tempo il padre nella conduzione di una miniera di

zolfo e si fidanza con una cugina (rompendo in seguito il fidanzamento). Si iscrive prima

all'università di Palermo, poi passa alla Facoltà di Lettere dell'università di Roma, ma a causa

di un contrasto con il preside, il latinista Onorato Occioni, si trasferisce all'università di Bonn,

dove nel 1891 si laurea in Filologia romanza con una tesi dialettologica. Intanto ha già

esordito come poeta con Mal giocondo (1889) e con Pasqua di Gea (1891), raccolta che dedica

a Jenny Schulz-Lander, di cui a Bonn si è innamorato. Nel '92, fermamente deciso a dedicarsi

alla sua vocazione letteraria, si stabilisce a Roma, dove vive con un assegno mensile del padre.

Nell'ambiente letterario della capitale conosce e stringe amicizia con il conterraneo Luigi

Capuana (nato a Mineo nel1839 e morto a Catania nel 1915, Capuana fu uno dei massimi

esponenti del Verismo), che lo spinge verso il campo della narrativa. Compone così le prime

novelle e il suo primo romanzo, uscito nel 1901, con il titolo L'esclusa. Non abbandona tuttavia

la poesia: escono nel '95 le Elegie renane, nel 1901 Zampogna, e nel 1912 Fuori di chiave, la

sua ultima raccolta poetica. Nel 1894 sposa a Girgenti, con matrimonio combinato tra le

famiglie, Maria Antonietta Portulano, figlia di un ricco socio del padre. Si stabilisce

definitivamente a Roma, dove nascono i tre figli Stefano (1895), Rosalia (1897) e Fausto

(1899). Pirandello vive sempre con disagio il rapporto con la fragile e inquieta moglie,

avvertendo il forte peso delle norme comportamentali risalenti alle radici siciliane. Inizia una

fitta collaborazione con diversi giornali e riviste letterarie, sulle quali pubblica una ricca e

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vasta produzione narrativa che trova consensi presso il pubblico, ma indifferenza da parte

della critica. Scrive il romanzo Il turno (edito nel 1902) e lavora ai suoi primi testi teatrali che

per allora non riescono a raggiungere le scene. In opposizione all'estetismo e al misticismo

dominanti fonda con Ugo Fleres e altri amici un settimanale letterario dal titolo

shakespeariano «Ariel». Dal 1897 al 1922 insegna presso l'Istituto Superiore di Magistero di

Roma. Nel 1903 l'allargamento di una miniera di zolfo causa alla famiglia Pirandello un grave

dissesto economico: il padre Stefano perde insieme al proprio capitale anche la dote della

nuora. In seguito alla notizia dell'improvviso disastro finanziario, Antonietta, già sofferente di

nervi, cade in una gravissima crisi che durerà per tutta la vita sotto forma di paranoia. Vani

saranno i tentativi di Pirandello di dimostrare che la realtà non è come invece pare alla

moglie. Abbandonata la tentazione del suicidio, Pirandello cerca di fronteggiare la disperata

situazione, assistendo Antonietta (che verrà internata in una casa di cura solo nel 1919); e per

arrotondare il magro stipendio universitario, impartisce lezioni private e intensifica la sua

collaborazione a riviste e a giornali. Nel 1904 Il fu Mattia Pascal, pubblicato a puntate sulla

«Nuova Antologia», riscuote un successo tale che uno dei più importanti editori del tempo,

Emilio Treves di Milano, decise di occuparsi della pubblicazione delle sue opere. Nel 1908

pubblica due volumi saggistici Arte e scienza e L'Umorismo, grazie ai quali ottiene la nomina a

professore universitario di ruolo. Nel 1909 inizia la sua collaborazione, che durerà fino alla

morte, al «Corriere della Sera», su cui appaiono via via le sue novelle; e pubblica la prima

parte del romanzo I vecchi e i giovani (la seconda esce in volume nel 1913). Nel 1911 esce il

romanzo Suo marito. Scrive anche alcuni soggetti cinematografici, mai realizzati; mentre nel

1915 pubblicherà il romanzo Si gira...(riedito poi nel 1925 con il titolo di “I quaderni di

Serafino Gubbio operatore”). Nel 1915-'16 inizia la sua prodigiosa e intensa attività teatrale,

che darà vita a dibattiti e discussioni in Italia e all'estero.

*Il fu Mattia Pascal fu pubblicato nel 1904 e subito tradotto in diverse lingue. La critica non

dette subito al romanzo il successo che invece ebbe tra il pubblico. Numerosi critici non

seppero cogliere il carattere di novità del romanzo, come d'altronde di altre opere di

Pirandello. Perché Pirandello arrivi al successo riconosciuto bisognerà aspettare il 1922,

quando si dedicherà totalmente al teatro.

Il fu Mattia Pascal

Il protagonista, Mattia Pascal, è costretto a ricostruirsi un'identità perché, in seguito alla sua

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presunta morte, deve crearsi un personaggio tutto nuovo inventandogli un passato e perciò si

trova a vivere in una situazione alquanto strana. Un uomo e due vite. La prima parte del

romanzo racconta della sua gioventù trascorsa nell'ozio e nell'agiatezza più sfrenata senza

curarsi minimamente della sua situazione finanziaria, poiché sua madre aveva preso la

decisione di far amministrare tutto il patrimonio lasciatole dal marito, morto in seguito ad un

naufragio, ad un certo Malagna, che si era offerto volontariamente di aiutare la vedova Pascal

nella gestione del patrimonio, ma che in realtà aveva come unico fine quello di frodare la

famiglia e di speculare sull'eredità. Mattia Pascal narra delle sue prime avventure amorose,

dapprima con Oliva, da cui avrà un figlio, ma che non sposerà mai ed in seguito con Romilda

Pescatore, la ragazza che inizialmente Mattia voleva far fidanzare col suo amico Pomino, ma

che poi sposerà in seguito ad un fidanzamento e da cui avrà due figli che moriranno pochi

mesi dopo. Questo matrimonio non fu altro che la rovina sia economica sia psicologica di

Mattia, perché causò una serie di disagi, grazie soprattutto alla suocera, che lo condurranno

al punto di fuggire da casa. Dovette abbandonare il posto di bibliotecario fattogli assegnare

dal padre di Pomino, che gli aveva dato modo di guadagnarsi da vivere. Infatti Pascal era un

classico incompetente neanche tanto istruito e perciò era molto difficoltoso per lui trovare un

lavoro, soprattutto per i problemi finanziari in cui si trovava. Dopo la sua scomparsa, si reco'

a Montecarlo dove la fortuna l'assistì e gli fece vincere al casinò oltre ottantamila lire, ma nel

frattempo vicino al canale all'interno del suo podere della Stia venne trovato il cadavere di un

uomo che gli somigliava perfettamente e che tutti identificarono come Mattia Pascal. Mentre

tornava a casa, sul treno, mentre leggeva un giornale, trova il necrologio con scritto il suo

nome e questo fatto sconvolge radicalmente la sua esistenza. Infatti dapprima decide di

rientrare a Miragno, la sua città, per smentire la notizia, ma poi si rende conto che non è il

caso di tornare a casa per farsi defraudare dai suoi creditori e tornare alla monotona vita di

sempre, perciò prende la decisione di cambiare vita. E' proprio quest'evento la scintilla che fa

nascere, o forse emergere, il suo desiderio di libertà suprema che lo farà vivere per oltre due

anni viaggiando senza meta, costretto ad inventarsi una nuova identità e una nuova vita per

paura di ridar vita ad una persona ormai creduta morta. Infatti nel costruire il personaggio di

Adriano Meis deve tener conto di tanti particolari in modo da non destare alcun sospetto

riguardo la sua vera identità. Dopo aver viaggiato per molte città decide di stabilirsi a Roma

dove trova alloggio in casa del sig. Anselmo Paleari, un anziano borghese squattrinato ormai

solo accecato dalla fissazione dell'occulto e dal mondo della magia. In casa vive anche un'ex

pianista, la signorina Caporale, zitella ossessionata dalla sua bruttezza e dalla mancanza di un

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uomo. Il Paleari tiene in casa con se la figlia Adriana che accudisce alla casa e si prende cura

sia della caporale che di Adriano Meis, soprattutto nel periodo della convalescenza. Infatti

Mattia Pascal era strabico per via della cateratta e fu questo un particolare che gli fece

pensare di cancellare definitivamente la sua vecchia personalità facendosi operare e

cambiando così il suo aspetto che non gli era mai piaciuto. Col passare dei mesi il

protagonista s'innamora di Adriana e giunge fino quasi al punto di decidere di sposarla, ma

una serie di problemi alla fine gli fanno cambiare idea in modo del tutto inaspettato. Infatti

Adriano non avrebbe mai potuto sposarla perché in realtà era un altro, Mattia Pascal, che era

a sua volta sposato con Romilda Pescatore. Adriano Meis decide di tornare a Miragno per

riprendersi la sua vera identità che aveva perso non a causa della sua presunta morte, ma

solamente per sua volontà. Il cambio di identità gli ha creato molti problemi: nel caso in cui

avesse avuto bisogno di enti pubblici, lui risultava essere morto. Si è reso conto che solo

Romilda e la madre si sono liberate di lui e non il contrario, perché si sente in prigione e non

può entrare in relazioni strette di amicizia con nessuno per non svelare la sua vera identità.

Lascia quindi un biglietto d'addio su un ponte firmato Adriano Meis, in modo da far credere

di essersi suicidato; il giorno seguente i giornali annunciarono la morte di Adriano Meis.

Prima di giungere al suo paese passa a trovare il fratello Berto, che alla vista rimane

esterrefatto. E' proprio qui che viene a conoscenza del matrimonio di Romilda con Pomino e

perciò decide di rovinare tutto riprendendosi sua moglie. Tornato a Miragno e giunto in casa

di Pomino trova addirittura una bambina, figlia dei due coniugi ed è questa la ragione per cui

Mattia infine decide di non riprendersi Romilda. Lo sgomento che suscita la ricomparsa di

Mattia è notevole tanto da mettere in agitazione Pomino, Romilda e la vedova Pescatore, che

non lo sopportava. Nonostante la lunga litigata con questi, Mattia decide alla fine di

riprendersi la sua vera identità, ma di non rovinare il matrimonio dei due e perciò si reca a

farsi riconoscere dai concittadini, in particolar modo da don Eligio, e va a vivere insieme alla

zia Scolastica. La frase conclusiva del libro: "Io sono il fu Mattia Pascal" significa che è

ritornato ad essere ciò che era.

Proprio negli anni della grande guerra, (vissuti drammaticamente anche per la perdita della

madre e per la partenza dei figli per il fronte), scrive alcune celebri opere: Pensaci Giacomino!,

Liolà (1916), Così è (se vi pare), Il berretto a sonagli, Il piacere dell'onestà (1917), Ma non è una

cosa seria e Il gioco delle parti (1918). Nel 1918 esce il primo volume delle Maschere nude,

titolo sotto cui raccoglie i suoi molteplici testi teatrali. Nel 1920 il teatro pirandelliano con

Tutto per bene e Come prima, meglio di prima, si afferma pienamente e a partire dall'anno

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successivo raggiunge il grande successo internazionale con il capolavoro Sei personaggi in

cerca d'autore. Abbandonata la vita sedentaria degli anni precedenti, Pirandello vive e scrive

negli alberghi dei più importanti centri teatrali sia europei che americani, curando

personalmente l'allestimento e la regia delle sue opere. In questi stessi anni il cinema trae

diversi film dai suoi testi teatrali e narrativi, di cui continuano a uscire ristampe e nuove

edizioni. Nel 1922 esce il primo volume della raccolta Novelle per un anno. La sua produzione

teatrale prosegue con Enrico IV e Vestire gli ignudi (1922), L'uomo dal fiore in bocca (1923),

Ciascuno a suo modo (1924), Questa sera si recita a soggetto (1930). Nel 1924 si iscrive

formalmente al partito fascista, da cui ottiene appoggi e finanziamenti per la compagnia del

Teatro d'Arte di Roma che, sotto la direzione dello stesso Pirandello, porta per tre anni (fino al

1928) il teatro pirandelliano in giro per il mondo. L'interprete per eccellenza delle sue scene è

la "prima attrice" Marta Abba. Nel 1926 esce in volume il romanzo Uno, nessuno e centomila,

ultimo romanzo, frutto di una lunga gestazione, intessuto di interrogativi che il protagonista

rivolge direttamente al lettore, per coinvolgerlo in una vicenda "universale", un riepilogo di

tutta l’attività narrativa e teatrale dell'autore. Il dramma La nuova colonia (1928) inaugura

l'ultima stagione pirandelliana, quella fondata sui «miti» moderni, che culmina nell'opera

incompiuta I giganti della montagna. Nel 1929 è nominato membro dell'Accademia d'Italia,

dove nel '31 commemorerà Giovanni Verga.

RAPPORTI COL FASCISMO

Nel 1924 il quotidiano L'Impero pubblica un telegramma inviato da Pirandello a Mussolini:

« Eccellenza, sento che questo è per me il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e

servita sempre in silenzio. Se l'E.V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista,

pregierò come massimo onore tenermi il posto del più utile e obbediente gregario. Con

devozione intera »

Nel 1925 Pirandello è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti*, redatto da

Giovanni Gentile. L'adesione di Pirandello al Fascismo fu alquanto imprevedibile, anche tra i

suoi più stretti amici. La motivazione migliore che è stata elaborata per spiegare tale scelta è

che il fascismo lo riconduceva a quegli ideali patriottici e risorgimentali di cui Pirandello era

convinto sostenitore, anche per le radici garibaldine del padre. Pirandello vedeva nel

Fascismo la prima idea originale post-risorgimentale, che doveva essere la "forma" nuova per

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l'Italia e come modello per l'Europa. Un'altra motivazione molto più concreta è la fondazione

della nuova compagnia teatrale: l'iscrizione al partito serviva per essere sicuro del sostegno

governativo e delle sovvenzioni economiche. Tuttavia la critica fascista non esaltava le opere

di Pirandello, anche perché queste non erano in linea con gli ideali fascisti.

* Il Manifesto degli intellettuali fascisti venne redatto nel corso del Convegno per la cultura

fascista tenutosi a Bologna il 29 e 30 marzo del 1925 e fu pubblicato su quasi tutta la stampa

italiana, in primis "il Popolo d'Italia", organo del Partito Nazionale Fascista, il 21 aprile (Natale

di Roma) dello stesso anno. Alla base del testo una conferenza su Libertà e liberalismo tenuta

poco prima da Giovanni Gentile. Il Manifesto costituisce da un lato un tentativo di indicare le

basi politico-culturali dell'ideologia fascista e, dall'altro, di giustificare gli atti e gli

atteggiamenti illiberali e violenti, operati del movimento fascista e proseguiti dal governo

Mussolini.

In risposta al Manifesto di Gentile, Benedetto Croce fece il Manifesto degli intellettuali

antifascisti, che pubblicato il 1º maggio 1925 su "Il Mondo" raccolse un folto ed autorevole

gruppo di firmatari.

Nel 1934 riceve il premio Nobel per la letteratura. Si ammala di polmonite, mentre segue le

riprese a Cinecittà di un film tratto da Il fu Mattia Pascal. Muore nella sua casa romana il 10

dicembre 1936. Egli scrisse nel testamento le sue ultime volontà sul suo funerale. Pirandello è

stato avvolto in un lenzuolo bianco e portato sul carro dei poveri. Per sua volontà il corpo è

stato bruciato, per evitare consacrazioni cimiteriali e monumentali successive alla morte. Le

sue ceneri sparse per il "Caos" (la sua tenuta, nell'omonima contrada). In questa maniera si

pensa che Pirandello si sia ricreduto sul fascismo, poiché avrebbe dovuto avere i funerali di

stato, in pompa magna, come prevedeva la cerimonia fascista. Esce dopo la sua morte

l'edizione definitiva delle Novelle per un anno.

Le Novelle per un anno sono una raccolta di novelle. Pirandello scrisse le Novelle per un anno

in seguito ad un contratto che stipulò con il Corriere della sera, giornale col quale s'impegnò a

scriverne una al giorno per un intero anno. Il motivo era ovviamente economico. Pirandello

non portò completamente a termine il lavoro: le novelle pubblicate in vita furono, infatti, 241

su un totale di 365. Altre 15 furono pubblicate postume (per un totale di 256). Molto spesso

le novelle pirandelliane rappresentano il primo abbozzo per riprendere poi trame e

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personaggi nei contesti più ampi dei suoi romanzi e dei suoi pezzi di teatro.

Tratte dal ciclo Novelle per un anno, ci soffermiamo ora su una novella che ha per tematica lo

sfruttamento minorile nelle miniere e la drammatica vita degli zolfatari. La novella in

questione è “Ciaula scopre la luna”.

Ciàula scopre la luna

Il lettore viene catapultato nell’opera, che ha inizio nel momento in cui i “picconieri quella

sera volevano smettere di lavorare senza aver finito d’estrarre le tante casse di zolfo”. Il

padrone della cava, Cacciagallina, “s’apprestò contro ad essi con la rivoltella in pugno”

dicendo che dovevano restare nelle cave a lavorare, “a buttar sangue fino all’alba”, o avrebbe

fatto fuoco. I minatori, bestemmiando e facendo forza, uscirono dalla cava; “tutti meno che

uno. Chi? ‘Zi Scarda”. Un pover uomo cieco sul quale il proprietario della cava, Cacciagallina,

poteva fare tutto. Vecchio com’era, Cacciagallina lo si sfogò su di lui, scrollandolo. E ‘Zi Scarda

si lasciava scrollare pacificamente. Per lui era naturale che “quel galantuomo si doveva pur

sfogare con qualcuno”. E lo doveva fare con qualcuno gerarchicamente più in basso di lui. A

sua volto il povero ‘Zi Scarda “aveva sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi:

Ciàula, il suo caruso”. Questa parte ci richiama al principio verghiano secondo cui “il pesce più

grande mangia sempre il pesce più piccolo”. Anche Pirandello attraverso questa novella, come

aveva fatto prima di lui Verga, parla della “dura legge della sopravvivenza”. La novella

prosegue con la descrizione di ‘Zi Scarda che “quando si sentiva l’occhio pieno, posava il

piccone e stava ad aspettare che la lagrima gli colasse giù, lenta, per il solco scavato dalle

precedenti. Chi aveva il vizio del fumo, chi del vino. Lui aveva il vizio della sua lagrima”. Il

dolore per la morte del figlio (il figlio Calicchio era morto in miniera per lo scoppio di un mina;

in quell’occasione lui aveva invece perso l’occhio) e la sofferenza del duro lavoro in miniera, si

esternava così, in silenzio, con queste “tacete lacrime” che avevano ormai lasciato un solco sul

suo viso. ‘Zi Scarda prega il padrone di mandare a casa alcuni minatori per avvertire la moglie

del fatto che non sarebbe rientrato; si voltò intorno poi a chiamare il suo caruso che aveva

tredici anni, e lo chiamò col verso con cui si chiamava le cornacchie ammaestrate: “Tè, pà. Tè,

pà”. Càula stava rivestendosi per tornare a casa. “Rivestirsi per Ciàula significava togliersi

quella che un tempo era una camicia; l’unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse

durante il lavoro. Toltasi la camici indossava sul torace nudo un panciotto avuto in

elemosina”. “Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone o gli allungava un calcio,

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gridandogli: - Quanto sei bello!, egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un

riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni che avevano più di una finestra aperta sui ginocchi

e sulle natiche: si avvolgeva in un cappotto tutto rappezzato e scalzo si avviava a casa”.

Quando il suo padrone disse che “oggi per noi il Signore fa notte” e sarebbero rimasti a

lavorare, Ciàula senza fiatare, “restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete;

poi si poggiò le mani sulle reni, si stirò e disse: - Gna bonu (va bene). “Se non fosse stato per la

stanchezza, lavorare anche di notte non sarebbe stato niente, perché tanto, laggiù, era sempre

notte lo stesso”. Questo però per ‘Zi Scarda, non per Ciàula che “della tenebra fangosa delle

profonde caverne non aveva paura. Aveva paura invece del buio vano della notte”. Il buio della

notte infatti non lo conosceva; terminato il lavoro infatti tornava a casa e “si buttava a dormire

sul saccone di paglia per terra, come un cane; e inutilmente i nipoti orfani del suo padrone lo

pestavano per tenerlo sveglio. Lui dormiva fino a che, all’alba, un noto piede lo faceva

svegliare”. Mentre lavoravano, Ciàula sentiva piegarsi sotto le gambe. “Una gamba, ad un

tratto, prese a tremargli così convulsamente che, temendo di non poter reggere al peso, gridò:

Basta, basta! Ed il padrone rispose: - Che basta, carogna! E continuò a caricare”. Ciàula “non

aveva mai pensato che si potesse avere pietà del suo corpo, e non ci pensava neppure ora ma

sentiva che non ne poteva più”. Quando, attraversando le gallerie, iniziò a risalire fino alla

superficie il carico, preso dalla paura del buio della notte non pensò più alla fatica. Quella sera

però, dalla stanchezza, la sua voce emetteva un “gremito raschiato, protratto”. Risaliva,

timoroso del buio della notte. “Non vedeva ancora che lassù, lassù, si apriva come un occhio

chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento. Se ne accorse solo quando fu negli ultimi gradini.

Dapprima, anche se gli sembrava strano, pensò che fossero gli ultimi barlumi del giorno. Ma il

chiarore cresceva, cresceva sempre più. Restò sbalordito”. Il carico che portava gli cadde dalle

spalle. Sollevò le braccia e aprì le mani nere in quella “chiarità d’argento”. “Grande, placida,

come in un fresco oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sì, sapeva che cos’era ma come

tante cose che si sanno, a cui non si è mai dato importanza. E che poteva importare a Ciàula

che in cielo ci fosse la Luna?”. Si mise a sedere sul suo carico, davanti alla buca. “E si mise a

piangere, senza saperlo, senza volerlo”, per il grande conforto che sentiva, per la dolcezza che

la Luna trasmetteva. E anche se la Luna era ignara “dei monti, dei piani, delle valli e di lui”,

Ciàula non aveva più paura né si sentiva stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

***

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L’ultima novella che trattiamo di Pirandello, facente parte sempre di Novelle per un anno, è La

patente. Questa novella serve invece a farci capire l’amaro umorismo Pirandelliano.

La novella inizia con la descrizione fisica del giudice D’Andrea: un uomo magro, curvo su se

stesso come se reggesse sulle spalle un peso insopportabile. Dopo la prima descrizione fisica,

Pirandello comincia a fare una descrizione più dettagliata del giudice D’Andrea facendoci

capire chi è, com’è!... “con una spalla piú alta dell'altra, andava per via di traverso, come i cani.

Nessuno però, moralmente, sapeva rigar piú diritto di lui. Lo dicevano tutti.”. Il giudice D'Andrea

non poteva dormire, e trascorreva le notti alla finestra, guardando le stelle e spazzolandosi

con la mano i suoi “insoliti” capelli da nero (lui che era bianco)…e pensava!Questo cercare

nelle stelle una risposta alle sue inquietudini, ai suoi tormenti gli faceva capire tutta la miseria

e l’umiltà dell’uomo, un uomo consapevole solo del fatto di non sapere. “Come non dormiva lui,

cosí sul suo tavolino nell'ufficio d'Istruzione non lasciava mai dormire nessun incartamento…per

la prima volta,però, da circa una settimana, dormiva un incartamento sul tavolino del giudice

D'Andrea. E per quel processo che stava lí da tanti giorni in attesa, egli era in preda a una

irritazione smaniosa (inquieta, agitata), a una tetraggine (malinconia) soffocante.”. Il processo

che tanto fa star male il giudice D’andrea, che non riesce a capire ne tanto meno ad affrontare,

riguarda Chiarchiaro, un uomo che, definito iettatore, denuncia due giovani per diffamazione.

“Era veramente ingiusto quel processo là: ingiusto perché includeva una spietata ingiustizia

contro alla quale un pover'uomo tentava disperatamente di ribellarsi senza alcuna probabilità

di scampo. C'era in quel processo una vittima che non poteva prendersela con nessuno. Aveva

voluto prendersela con due, lí in quel processo, coi primi due che gli erano capitati sotto mano, e

- sissignori - la giustizia doveva dargli torto, torto, torto, senza remissione, ribadendo cosí,

ferocemente, l’ingiustizia di cui quel pover'uomo era vittima.”. Il giudice D’Andrea è cosciente

del fatto che tutto il paese, compresi i suoi “colti” colleghi giudici, al passaggio di Chiarchiaro

facevano gesti scaramantici, e lui da giudice razionale e non superstizioso doveva opporsi a

tutto questo! Tutta la seconda parte della novella fa sorridere e divertire il lettore perchè

descrive le reazioni del paese al solo nome di Chiarchiaro , “appena egli faceva il nome del

Chiàrchiaro si alteravano in viso e si ficcavano subito una mano in tasca a stringervi una chiave,

o sotto sotto allungavano l'indice e il mignolo a far le corna, o s'afferravano i chiodi, i corni di

corallo pendenti dalla catena dell'orologio. Qualcuno, piú francamente, prorompeva:

- Per la Madonna Santissima, ti vuoi star zitto?”

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Il divertimento all’interno della novella aumenta sempre di più fino ad arrivare al suo culmine

quando entra nell’ufficio del giudice D’andrea il famoso iettatore… “Il Chiàrchiaro s'era

combinata una faccia da jettatore, ch'era una meraviglia a vedere. S'era lasciata crescere su le

cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliuta; s'era insellato sul naso un pajo di grossi

occhiali cerchiati d'osso, che gli davano l'aspetto d'un barbagianni (gufo); aveva poi indossato

un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfiava da tutte le parti.”

Il divertimento e l’ironia continuano ancora di più nella discussione fra i due; alla fine però è

proprio da questa discussione che emerge la verità, e la verità è il dramma che ci sta dietro la

scelta di Chiarchiaro di farsi riconoscere ufficialmente come iettatore! La superstizione della

gente l’ha rovinato: “Lavoravo. Mi hanno fatto cacciar via dal banco dov'ero scritturale, con la

scusa che, essendoci io, nessuno piú veniva a far debiti e pegni; mi hanno buttato in mezzo a una

strada, con la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili, di cui nessuno vorrà piú sapere,

perché sono figlie mie; viviamo del soccorso che ci manda da Napoli un mio figliuolo, il quale ha

famiglia anche lui, quattro bambini, e non può fare a lungo questo sacrifizio per noi”. E ora che

la superstizione popolare l’ha rovinato l’unica cosa che gli resta da fare è essere sottoposto ad

un processo (per questo ha querelato due giovani, per far cominciare un processo) ed uscirne

con una patente, la patente di iettatore

“ Lei per esercitare codesta professione di giudice, anche cosí male come la esercita, mi dica un

po', non ha dovuto prender la laurea?

- La laurea, sí.

- Ebbene, voglio anch'io la mia patente, signor giudice! La patente di jettatore. Col bollo. Con

tanto di bollo legale! Jettatore patentato dal regio tribunale.”

Essendo riconosciuto dalla legge quale iettatore, “ Mi pagheranno per farmi andar via! Mi

metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti,

tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell'ignoranza? io dico la tassa della salute! Perché, signor

giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che

veramente credo d'aver ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una

intera città!”.

Di fronte a questo dramma è commovente il gesto del rigido e serio giudice D’andrea… Il

giudice D'Andrea, ancora con la testa tra le mani, aspettò un pezzo che l'angoscia che gli serrava

la gola desse adito alla voce. Ma la voce non volle venir fuori; e allora egli, socchiudendo dietro le

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lenti i piccoli occhi plumbei, stese le mani e abbracciò il Chiàrchiaro a lungo, forte forte, a

lungo.Questi lo lasciò fare.”Lo lasciò fare perché quell’abbraccio era l’unico segno di conforto

che proveniva dalla parte buona di quella “schifosa umanità” che lo aveva rovinato. Questo è

un esempio semplice e concreto di quello che in tanti libri di letteratura viene definito

“l’amaro umorismo” pirandelliano. La figura dello iettatore è una figura simpatica, divertente,

un uomo conciato come un barbagianni, peggio di un becchino, che quando passo incita a gesti

scaramantici; dietro a questa facciata ci sta però il dramma di un uomo che l’ignoranza e la

superstizione collettiva hanno portato alla rovina. L’unica amara considerazione che

Chiarchiero può fare è quella allora di sfruttare la causa della sua disgrazia per guadagnare

qualche soldo e far vivere almeno la sua famiglia (fra l’altro è un dramma che riguarda non

solo Chiarchiero ma la moglie e le figlie).

La poetica pirandelliana:

Riflessione e sentimento del contrario

Pirandello valorizza il ruolo essenziale che nella creazione artistica gioca la riflessione: “la

riflessione durante la concezione come durante l’esecuzione dell’opera d’arte, non resta

certamente inattiva: assiste al nascere e al crescere dell’opera, ne segue le fasi progressive e ne

gode, racconta i vari elementi, li coordina, li compara”. È proprio questa componente riflessiva

che si pone davanti al sentimento, ne diventa “giudice” e “lo analizza; ne scompone l’immagine;

da questa analisi, componimento ne deriva un altro sentimento: quello che potrebbe chiamarsi il

sentimento del contrario”. Per citare un famoso esempio, adottato dallo stesso Pirandello, se

dinanzi ad una vecchia signora “coi capelli ritinti tutta goffamente imbellita e parata di abiti

giovanili” ci viene da ridere, questo perché una realtà del genere è comica, essendo contraria

alle più comuni norme di comportamento. “Ma se interviene in me la riflessione, e mi suggerisce

che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi come un pappagallo, ma che

forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo

rughe e canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io

non posso riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto

andare oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto più interno: da quel primo avvertimento

del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza

fra il comico e l’umoristico”.

La depersonalizzazione

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Una delle caratteristiche dell’uomo pirandelliano è la depersonalizzazione, “per cui l’uomo

intermittentemente esce fuori da se stesso e sta a osservarsi cogliendosi in un punto, tra fisico e

metafisico, di assurdità ”. L’esperienza della depersonalizzazione dei personaggi pirandelliani

consiste nella scoperta e nella consapevolezza del valore fittizio delle forme e delle

impalcature che ci alienano da noi stessi, in una sorta di coscienza dell’assurdo del vivere.

Grottesco e pietà

Partendo la “sentimento del contrario”, l’atteggiamento che ne deriva è quello della

perplessità. “Nella sua anormalità non può essere che amaramente comica la condizione d’un

uomo che si trova ad essere quasi sempre fuori di chiave”. Siamo così dinnanzi ai due aspetti

fondamentali, reciprocamente correlati, dell’arte pirandelliana: il grottesco e la pietà. E quindi

per un verso c’è “una folla di personaggi mediocri e vocianti, eroi negativi e vittime di un

universo piccolo – borghese, privo di ideali veri, un coro affannoso e cercante, dal quale di volta

in volta emerge e si svolge un caso doloroso, una situazione senza via d’uscita, un volto su cui

sembra incidersi il non – senso della via associata, la spaventosa solitudine

dell’incomunicabilità”. Ma per un altro verso è proprio la poetica dell’umorismo che apre la via

ad un ribaltamento di prospettive, e allora l’accanimento grottesco volto a svelare i guasti

prodotti dall’incongruenza delle convenzioni porta alla pietà, nella dolente comprensione per

quelle grigie e dolenti esistenze stritolate da quei meccanismi, per la “pena di vivere così”.

La realtà e la maschera

In tutti i testi umoristici di Pirandello il tragico e il comico vengono mescolati. Nello scrittore

siciliano si assiste al superamento del verismo secondo il quale la realtà è oggettiva e

autonoma. Per Pirandello, invece, la realtà è vita, flusso continuo e tutto ciò che si stacca da

questo flusso comincia a morire. La realtà ha una molteplicità di aspetti e non può essere

conosciuta razionalmente. Anche l'identità personale dell'uomo è molteplice e da qui nasce il

concetto della maschera: sotto la maschera non c'è nessuno o, meglio, c'è un fluire incoerente

di stati in continua trasformazione. Questa mancanza di unicità determina l'annullamento

della persona che diventa così “nessuno”. La vita sociale è infatti caratterizzata

dall'incomprensione e dall'impossibilità di conoscere veramente qualcuno. L'unica via di

salvezza da questa situazione è la fuga nell'immaginazione e nell'irrazionale. Il rifiuto della

vita sociale dà luogo, nell'opera pirandelliana, ad una figura ricorrente: l'eroe estraniato, che

si esclude dai meccanismi sociali e osserva, con atteggiamento umoristico, gli uomini

imprigionati nella trappola della realtà. Ogni eroe si rende quindi conto dell'assurdità della

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vita e dunque cerca ininterrottamente un'identità alternativa all'oppressione delle

convenzioni sociali, ma ciò è impossibile. Abbiamo concluso così Pirandello; il nostro

percorso letterario continua ora con un “poeta della guerra”: Ungaretti.

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GIUSEPPE UNGARETTI

VITA

Giuseppe Ungaretti nasce nel 1888 ad Alessandria d'Egitto, figlio di due immigrati lucchesi. Il

padre operaio dello scavo del Canale di Suez, muore pochi anni dopo la nascita del poeta.

Studia alla scuola svizzera École Suisse Jacot, una prestigiosa scuola della città egiziana.

Conosce la letteratura francese attraverso la rivista "Mercure de France" e inizia a leggere le

opere dei simbolisti francesi Rimbaud, Mallarmè, Baudelaire, anche grazie ai consigli

dell'amico Moammed Sceab. Si avvicina alla letteratura italiana con l'abbonamento alla rivista

La Voce. Si trasferisce a Parigi nel 1912, dove conosce il poeta Apollinaire, con cui stringe

subito amicizia. Incontra anche Aldo Palazzeschi, Picasso, De Chirico e Modigliani. Nel 1914

Ungaretti è a Milano e sostiene la fazione interventista. Nel 1915 si arruola volontario.

Combatte sul Carso in Friuli, un paesaggio che Ungaretti ritrarrà nella sua prima raccolta Il

porto sepolto, pubblicato in 60 copie nel 1916. Il porto sepolto fa parte del nucleo originario

della poesia di Ungaretti, al centro delle successive metamorfosi editoriali, prima Allegria di

naufragi e poi L'allegria. Nel 1920 sposa Jeanne Dupoix, conosciuta nel 1918 in Francia. Si

impiega al Ministero degli Esteri. Aderisce al fascismo, firmando il Manifesto degli intellettuali

fascisti nel 1925. Nel 1923 viene ristampato Il porto sepolto con la prefazione di Benito

Mussolini, conosciuto qualche anno prima, durante la campagna interventista. Ungaretti,

irrequieto e legato alla cultura degli intellettuali francesi, si allontana dal fascismo e la

seconda metà degli anni '20 rappresenta per lui un duro periodo di povertà. Nel 1928

Ungaretti si converte al cattolicesimo, conversione che emerge nell'opera "Sentimento del

Tempo" del 1933. Nel 1936 si trasferisce in Brasile, a San Paolo, dove ottiene la cattedra di

letteratura italiana presso l'università della città. Rimane in Brasile fino al 1942. Nel 1939

muore il figlio Antonietto. Questo tragico evento è evidente in molte poesie delle raccolte Il

Dolore (1947) e Un Grido e Paesaggi (1952). Muore nel 1970 a Milano, dopo che la sua opera

era stata raccolta in un unico volume Vita di un uomo nella prima edizione della raccolta

Meridiani della casa editrice Mondadori nel 1969.

L’allegria di naufragi

L'allegria di naufragi è la raccolta di poesie più conosciuta e nota di Giuseppe Ungaretti e

viene pubblicata a Firenze, dall’editore Vallecchi, nel 1919. In essa, il poeta sviluppa il nucleo

originario dei testi pubblicati ne Il porto sepolto nel 1916, in una rarissima edizione di sole

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ottanta copie, fatta stampare durante un congedo dal fronte. Una terza edizione del testo, con

modifiche e varianti nei testi, è del 1923 quando l’autore recupera il titolo de Il porto sepolto.

Ulteriori modifiche ci sono nell’edizione del 1931, il cui titolo è solo L’Allegria: da questo

momento Ungaretti non smette mai di rimaneggiare e modificare il volume, editandolo

nuovamente nel 1931 (con il titolo L’Allegria), nel 1936 e nel 1942 (all’interno della raccolta

Vita d’un uomo), fino ad arrivare alla versione del 1969, anno precedente a quello della morte

del poeta.

Le tematiche: la guerra e il vitalismo

A causa della sua ampiezza, delle modifiche e delle aggiunte subite negli anni, L'allegria è

un'opera abbastanza varia a livello tematico. Riunisce, infatti, al suo interno versi legati

all'esperienza diretta della Prima Guerra Mondiale a poesie che ricordano alcuni momenti

della vita privata dell'autore. Il titolo dell'opera esprime la gioia che l'animo umano prova

nell'attimo in cui si rende conto di aver scongiurato la morte, drammaticamente contrapposto

al dolore per essere uno dei pochi sopravvissuti al "naufragio": questo sentimento si esprime

con particolare intensità durante il periodo al fronte, ma attraversa tutta la raccolta e si

concretizza nell'ossimoro del titolo. Lo spiega Ungaretti stesso nella Nota introduttiva alla

Allegria di naufragi del 1919, spiegando d’aver voluto esprimere:

[...] quell’esultanza d’un attimo, quell’allegria che, quale fonte, non avrà mai se non il

sentimento della presenza della morte da scongiurare.

In tal senso, una delle caratteristiche della poesia ungarettiana è quella del vitalismo,

dell’ansia di vita che si manifesta anche e soprattutto nelle condizioni più difficili ed estreme,

quali una notte in trincea accanto al cadavere di un compagno (come in Veglia), la percezione

della precarietà della vita (si veda la celebre Fratelli) o il dolore indicibile per i lutti della

guerra (San Martino del Carso). Altrove, la tensione vitalistica emerge nella riflessione su di sé

e sul senso della propria esistenza (come ne I fiumi), nella malinconia dei pochi istanti di pace

(come in Stasera) o nella riflessione sulla morte (Sono una creatura). L’Allegria obbedisce così

ad un proposito di poetica molto importante per Ungaretti: la ricerca, anche attraverso il

dolore, del nucleo originario e assoluto dell’identità umana, attraverso cui riscoprire e

ricostruire una fratellanza al di là della sofferenza. Metafora di questa ricerca si fa il “porto

sepolto”, ovvero un fantomatico porto antico della città di Alessandria che per Ungaretti

rappresenta “ciò che di segreto rimane in noi indecifrabile”.

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La poetica della “parola nuda” e la rottura delle convenzioni poetiche

L'elemento comune a tutti i componimenti è soprattutto quello autobiografico: Ungaretti

stesso definiva L'allegria un diario. Prova ne è la scansione in capitoli dell’opera

(rispettivamente: Ultime, Il porto sepolto, Naufragi, Girovago, Prime), come a narrare un

romanzo in versi dell’autore dalle prime prove poetiche fino all’esperienza della guerra, che

caratterizza contenuti e stile della prima stagione ungarettiana, contrapposta alle scelte più

misurate e “classiche” del Sentimento del tempo. Protagonista principale e indiscussa è sempre

la parola, considerata dal poeta un veicolo fondamentale nella riscoperta dell'io. Per

riconoscerle autonomia e libertà, Ungaretti sceglie di comporre sempre liriche molto brevi e

“scarne”, inframmezzate da pause che tendono a focalizzare l'attenzione sul singolo vocabolo,

per sottolinearne l'impatto semantico e la forza comunicativa; il superfluo viene

costantemente accantonato. La preferenza per la “parola nuda” (Ungaretti spiega il senso

dell’espressione in un articolo sulla rivista «La Fiera Letteraria» del 1955: “Se la parola fu

nuda è [...] era perché in primo luogo l’uomo si sentiva uomo, religiosamente uomo, e quella

gli sembrava la rivoluzione che necessariamente dovesse in quelle circostanze storiche

muoversi dalle parole. Le condizioni della poesia nostra e degli altri paesi allora non

reclamavano del resto altre riforme se non questa fondamentale”) spiega così l’abolizione

radicale della punteggiatura e il ricorso insistito allo spazio bianco sulla pagina, che isola i

versi e spezza le misure strofiche classiche. L’uso del verso libero smonta dall’interno le

strutture metriche tradizionali, modellando l’espressione poetica sull’urgenza comunicativa

dell’io; questa urgenza poi fa spesso ricorso alla figura retorica dell’analogia per consegnare

sulla pagina immagini particolarmente icastiche e pregnanti. Si tratta di tecniche che

Ungaretti mutua ampiamente dal Simbolismo francese (in particolare da Paul Valery e da

Stephane Mallarmé) ma che costituiscono anche una importante novità nella lirica italiana e

che quindi influenzeranno in maniera significativa la poesia dei decenni successivi.

Questa breve poesia porta il titolo della prima e omonima raccolta di Ungaretti, pubblicata

a Udine nel 1916. La poesia, assieme alle altre del Porto sepolto, confluirà poi nella Allegria di

naufragi del 1919 e poi nelle successive edizioni della raccolta, diventando una dele più note

della poesia ungarettiana. Il titolo del componimento è fondamentale per comprendere il

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senso della poetica ungarettiana: il porto è infatti simbolo del viaggio introspettivo del

poeta alla ricerca del mistero dell’essere umano.

Analisi

Il “porto sepolto” di Ungaretti è quindi un'immagine carica di simbolismo, in cui il dato

reale si fa tramite per comunicare una verità più remota ed universale. L'aggettivo porta

infatti con sé l'idea di un mondo sottostante e precedente: da un lato, esso allude ad un porto

di età tolemaica nella città di Alessandria, antecedente alla fondazione da parte di

Alessandro Magno che colpisce la fantasia del poeta; dall’altro “sepolto” è simbolo di un

mistero che ha in sé “un inesauribile segreto”, paragonabile a quello dell’animo umano, su

cui il giovane Ungaretti riflette e si interroga mentre è nelle trincee della Prima guerra

mondiale. A questo mistero si collega anche una specifica funzione del poeta e della poesia,

che Ungaretti chiarisce nei primi tre versi del Porto sepolto: i versi devono riportare alla luce e

poi disperdere - cioè, diffondere tra gli uomini - ciò che il poeta ha scoperto nel fondo del

porto. La poesia e l'attività del poeta sono il compimento dell'illuminazione iniziale che ha

permesso la scoperta del mistero stesso. La narrazione poetica e la parola rappresentano, agli

occhi dell'autore e di tutta una tradizione letteraria, un mezzo di conoscenza di se stessi e di

comunicazione e fratellanza con gli altri, qualcosa attraverso cui indagare l'ignoto che vive

dentro ciascuno di noi. Ed ecco che il ripercorrere le epoche, il discendere per riscoprire il

"porto sepolto" (quasi recuperando il topos classico della discesa agli Inferi, diffuso

dall’Eneide fino alla Commedia di Dante) si collegano con le tematiche prevalenti dell’intera

raccolta. Infatti la descrizione del dramma umano della guerra (si pensi a poesie celebri come

Veglia, Fratelli o San Martino del Carso) si traduce per Ungaretti nell’intima esigenza di

comunicare e condividere la “fraternità degli uomini nella sofferenza”, come egli stesso spiega

nella Nota introduttiva della raccolta. Dal punto di vista metrico, Il porto sepolto è

emblematico della produzione poetica ungarettiana: la lirica è composta da versi liberi e

molti brevi, inframmezzati da pause frequenti. La protagonista assoluta è la parola “nuda” e

la punteggiatura è del tutto assente.

Sentimento del Tempo (1933)

Le poesie di Sentimento del Tempo segnano una svolta fondamentale nella direzione di un

ritorno alla tradizione. Terminata la guerra, Ungaretti aveva continuato la sua meditazione

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sulla poesia e sulla condizione dell'uomo. La prima lo porta al recupero dell'endecasillabo e

del settenario, che non si riduce ad una pura esercitazione stilistica e metrica ma risponde

all'esigenza morale che avverte il poeta di comunicare agli uomini le sue “arcane” scoperte, di

essere insomma il poeta "veggente", teorizzato dai simbolisti. Quanto alla seconda

meditazione, sulla condizione dell'uomo, il titolo della nuova raccolta Sentimento del tempo è

fortemente allusivo: sentimento del tempo significa sentimento del veloce scorrere del tempo,

del rapido fluire delle cose, delle persone amate, che produce, per contrasto, la nostalgia del

passato e un più tenace attaccamento alla vita. Accanto a questo sentimento del fluire delle

cose appare l'altro tema della raccolta, scaturito da un avvicinamento del poeta alla fede: il

sentimento di Dio, in cui solamente si placa l'angoscia esistenziale del poeta. Ungaretti

recupera dunque i versi tradizionali, rinunciando alla frantumazione in versicoli, e li organizza

in strofe costruite su una sintassi che può anche essere molto complessa, con inversioni e

molte subordinate; è ripristinata la punteggiatura. Tutti questi elementi fanno sì che la parola

non sia più isolata, ma inserita in un discorso, con una struttura metrica e sintattica. Inoltre

Ungaretti ricerca ora un lessico più alto, preferibilmente con autorizzazione letteraria (per

essere stato usato dai poeti del passato). Mentre l’Allegria privilegiava la prima persona del

presente indicativo (a marcare un’esperienza –quella della guerra– attuale e vissuta in prima

persona), ora domina l’indicativo imperfetto, con valore evocativo; alla “lapidarietà” degli

enunciati subentra una tendenza allo sfumato, al non finito. Sarà la grammatica di questo

secondo Ungaretti (molto più di quello dell’Allegria) a fare da base all’imminente Ermetismo.

Al Sentimento del Tempo gli ermetici guarderanno come al loro vero libro–guida, per il suo

linguaggio alto e prezioso, e per la sua ricerca di analogie complicate, singolari, spesso

ellittiche e criptiche.

Il Dolore (1947)

Comprende le poesie scritte per la morte del figlio Antonietto ed altre, composte a Roma nel

1944, che esprimono l’angoscia per l’occupazione nazista.

La Terra Promessa (1950)

Doveva essere un poema, un libretto d'opera. Ma non fu condotto a termine. Il tema era la

storia del viaggio avventuroso di Enea. Del progetto restano solo alcuni frammenti, come i

"Cori descrittivi di stati d'animo di Didone", che contengono le meditazioni sulla morte, sul

tempo e sull'amore.

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Di seguito inserisco alcune sue poesie.

VEGLIA

Questa poesia di Giuseppe Ungaretti fa parte della sezione intitolata Il porto sepolto all'interno

della raccolta L'allegria nell'edizione del 1931. La data in cui il poeta l'ha composta ci indica

immediatamente che anch'essa fa parte delle “poesie di guerra” che Ungaretti scrisse

mentre si trovava soldato al fronte in occasione della prima guerra mondiale. In questi brevi

versi scopriamo tutta l'intensità di quel sentimento di allegria che l'uomo prova nel

momento in cui sfugge la morte e che dà il titolo all'intera opera. Sdraiato accanto a un

commilitone morto il poeta avverte più forte che mai la presenza della morte nella vita

umana, ma reagisce scrivendo “lettere piene d'amore” e celebrando il proprio attaccamento

alla vita. Dal punto di vista stilistico, notiamo la tipica tensione verso l'essenzialità da parte

di Ungaretti e la brevità del testo, tutto incentrato sull'uso del participio passato.

Metro: versi liberi, intessuti di richiami fonici e da ricorrenti rime o assonanze non

regolate. Evidente anche l’insistenza su alcuni suoni forti e duri, come quello della della

dentale - t - o della - r - (“intera nottata”, v.1; “buttato”, v. 2; “massacrato”, v. 4; “penetrata”, v.

10; “attaccato”, v. 16).

Un'intera nottata (tutta la notte)

buttato vicino

a un compagno massacrato

con la sua bocca digrignata (che mostra i denti…forse per dolore)

volta al plenilunio (luna piena)

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d'amore.

Non sono mai stato

tanto

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attaccato alla vita.

23 dicembre 1915

Questa poesia risale al 1915…l’Italia è da poco entrata in guerra ma il dolore e l’atrocità di

questa tragica esperienza non si fanno attendere.

(Già il titolo è fortemente significativo: Veglia; vegliare significa stare svegli nelle ore in cui

invece si dovrebbe dormire).

La scena che Ungaretti descrive è una scena cruda, schietta; concentratevi sulle parole che ho

sottolineato nella prima parte: “intera nottata”, “buttato”, compagno massacrato”, “bocca

digrignata”…se ci fate caso sono tutte parole “negative” che colgono in pieno l’ambiente in cui

Ungaretti si trova.

“intera nottata”: “tutta la notte” sottolinea la pesantezza, la lentezza e la drammaticità

della situazione (fra l’altro la notte, quando si è insonni e si sente la scansione di ogni

singolo minuto, il tempo è eterno, sembra non passare mai)

“buttato”: questa parola sottolinea ancora di più la condizione negativa che tormenta

Ungaretti; “buttato” fa pensare a qualcosa che è stato gettato, lasciato cadere…come se

si trattasse di un oggetto…ed invece è lui, una persona.

“compagno massacrato”:Mentre dalle prime parole si intuiva qualcosa di negativo ora

lo scenario appare in modo dettagliato in tutta la sua drammaticità; accanto ad

Ungaretti, insonne, buttato a terra come senz’anima, svuotato (come se fosse un

oggetto) c’è un compagno massacrato.

Il particolare della “bocca digrignata”, della bocca che mostra i denti, rende ancora più forte e

dura la descrizione; sembra che questo uomo sia morto mostrando i denti per il dolore o,

forse, visto che ha il viso rivolto verso la luna…un uomo che negli ultimi attimi della sua vita,

massacrato rivolge il viso verso il cielo e muove la bocca come a chiedere “perché?” “perché

tanto dolore intorno?”. E dal dolore per un compagno massacrato, dalla sofferenza per una

guerra che tutto sta distruggendo Ungaretti riscopre, come per miracolo, l’attaccamento alla

vita “non sono mai stato tanto attaccato alla vita”; è la forza dell’anima, è il sentimento che

riesce anche ad andare al di là del più atroce dei dolori “ho scritto lettere piene d’amore”.

SILENZIO

da L'ALLEGRIA

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Conosco una città

che ogni giorno s'empie di sole

e tutto è rapito in quel momento

Me ne sono andato una sera

Nel cuore durava il limio

delle cicale

Dal bastimento

verniciato di bianco

ho visto

la mia città sparire

lasciando

un poco

un abbraccio di lumi nell'aria torbida

sospesi

27 giugno 1916

La poesia comincia con un'affermazione poco chiara che trova conferma e certezza solo nella

parte finale. Ungaretti parla di una città che “ogni giorno s’empie di sole e tutto è rapito in quel

momento”; se nel momento in cui c’è il sole, e quindi è giorno, tutto ”è rapito” vuol dire che la

città è stata distrutta, non c’è più niente! Questa affermazione viene chiarita nella parte finale

quando dice: “ho visto la mia città sparire”; sono rimasti solo “un abbraccio di lumi”, i lumi

fanno riferimento ai ceri, i ceri accesi per quelle poche persone che hanno potuto ricevere

sepoltura.

Nella parte centrale della poesia Ungaretti sottolinea invece il legame affettivo, i ricordi: “me

ne sono andato una sera”, “nel cuore durava il limio delle cicale”.

SAN MARTINO DEL CARSO

da L'ALLEGRIA

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Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro

Di tanti

che mi corrispondevano

non m'è rimasto

neppure tanto

Ma nel mio cuore

nessuna croce manca

E' il mio cuore

il paese più straziato

Anche questa poesia fa riferimento alla guerra, una guerra che tutto, o quasi, distrugge: case,

vite. Nonostante il dolore, nonostante l’incapacità dell’uomo di opporsi a questo cieco

ingranaggio di distruzione Ungaretti riesce a pronunciare la parola “cuore”: “ma nel mio cuore

nessuna croce manca”; sta qui la grandezza dell’uomo, non dimenticare, parlare del proprio

cuore come di qualcosa che è stato straziato, provato, logorato ma che ancora c’è…la guerra

non è riuscita a distruggerlo.

Concludiamo ora Ungaretti con una poesia intitolata “La madre”; questa poesia è tratta da

Sentimento del tempo (le tre poesie che abbiamo fatto prima sono tratte invece da L’Allegria).

LA MADRE

da SENTIMENTO DEL TEMPO

E il cuore quando d'un ultimo battito

Avrà fatto cadere il muro d'ombra

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Per condurmi, Madre, sino al Signore,

Come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,

Sarai una statua davanti all'Eterno,

Come già ti vedeva

Quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,

Come quando spirasti

Dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m'avrà perdonato,

Ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d'avermi atteso tanto,

e avrai negli occhi un rapido sospiro.

1930

Ungaretti si rivolge alla madre morta; a dominare in questa poesia è il cuore, un cuore che,

dopo l’ultimo battito, riuscirà a far cadere il muro d’ombra che separa la vita dalla morte e a

condurre il poeta al Signore (dove accanto, ad attenderlo, ci sarà la madre). Dopo la parte

iniziale, che sottolinea la profonda religiosità di Ungaretti (il cuore, l’anima nel momento

della morte sopravvive al corpo e si ricongiunge al creatore, a Dio), l’autore si concentra sulla

figura della madre. Questa poesia è carica di sentimenti, di umanità; c’è la speranza, ma anche

la viva devozione cristiana, di riunirsi almeno dopo la morte alla madre, c’è nel suo cuore

l’immagine di questa mamma devota, tremante (per l’età avanzata), inginocchiata a Dio ma al

tempo stesso forte. “Ricorderai d’avermi tanto atteso e avrai negli occhi un rapido sospiro”: con

questi versi si conclude la poesia; è un’immagine di riconciliazione fra madre e figlio, due

persone che, uno nella vita l’altra nella morte, aspettavano di ritrovarsi.

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Ungaretti è considerato l’iniziatore dell’Ermetismo, la corrente poetica nata negli anni

compresi fra le due guerre. Inizialmente la definizione di ermetismo fu coniata in senso

dispregiativo dalla critica tradizionale che intendeva condannare l'oscurità e l'indecifrabilità

della nuova poesia, ritenuta difficile in confronto alle chiare strutture della poesia classica. Il

nome deriva da Ermete o Mercurio, il dio delle scienze occulte, e fu adoperato in senso

dispregiativo appunto da Francesco Flora nel suo saggio "la poesia Ermetica". I poeti ermetici

perseguono l'ideale della "poesia pura libera", cioè libera non solo dalle forme metriche e

retoriche tradizionali, ma anche da ogni finalità pratica didascalica e celebrativa. Il tema

centrale della poesia ermetica è il senso della solitudine disperata dell'uomo moderno che ha

perduto fede negli antichi valori, nei miti della civiltà romantica e positivistica e non ha più

certezze a cui ancorarsi saldamente. Egli vive in un mondo incomprensibile sconvolto dalle

guerre e offeso dalle dittature per tanto il poeta ha una visione della vita sfiduciata, priva di

illusioni. Altri temi della nuova poesia sono: l'incomunicabilità, l'alienazione (la coscienza di

essere ridotto ad un ingranaggio nella moderna civiltà di massa), la frustrazione (deriva dal

contrasto fra realtà quotidiana che è sempre deludente e i nostri sogni). I poeti ermetici

rifiutano il linguaggio e le forme della poesia romantica e positivistica a scopo celebrativo. Il

nuovo poeta non ha più miti e certezze in cui credere, perciò va alla ricerca di parole

essenziali, scabre e secche che meglio descrivano il loro stato d'animo.

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PRIMO LEVI

VITA

Nato il 31 luglio del 1919 a Torino, da genitori di religione ebraica, Primo Levi si diploma nel

1937 al liceo classico Massimo D’Azeglio e si iscrive al corso di laurea in chimica presso la

facoltà di Scienze dell’Università di Torino. Nel '38, con le leggi razziali, si istituzionalizza la

discriminazione contro gli ebrei, cui è vietato l’accesso alla scuola pubblica. Levi, in regola

con gli esami, ha notevoli difficoltà nella ricerca di un relatore per la sua tesi: si laurea nel

1941, a pieni voti e con lode, ma con una tesi in Fisica. Sul diploma di laurea figura la

precisazione: «di razza ebraica». Comincia così la sua carriera di chimico, che lo porta a

vivere a Milano, fino all’occupazione tedesca: il 13 dicembre del '43 viene catturato a Brusson

e successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli, dove comincia la sua odissea. Nel

giro di poco tempo, infatti, il campo viene preso in gestione dai tedeschi, che convogliano tutti

i prigionieri ad Auschwitz. È il 22 febbraio del '44: data che nella vita di Levi segna il confine

tra un "prima" e un "dopo". «Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione.

Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi» (P. Levi, Se questo è un uomo,

Einaudi 1998, p. 15). In fretta e sommariamente viene effettuata una vera e propria

selezione: «In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in gruppo. Quello

che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora

né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente» (Op. cit., p. 17). L’autore è

deportato a Monowitz, vicino Auschwitz, in un campo di lavoro i cui prigionieri sono al

servizio di una fabbrica di gomma. Al lager, persi nei loro pensieri, presi da mille domande,

da ipotesi continue che per quanto catastrofiche, non si avvicinano neanche lontanamente

alla verità, si ritrovano in pochissimo tempo rasati, disinfettati e vestiti con pantaloni e

giacche a righe. Su ogni casacca c’è un numero cucito sul petto. I prigionieri vengono

marchiati come bestie. Il loro compito: lavorare, mangiare, dormire, obbedire. Il loro intento:

sopravvivere. Dietro quel numero non c’è più un uomo, ma solo un oggetto: häftling, cioè

“pezzo”. Se funziona, va avanti. Se si rompe, è gettato via. Levi è l’häftling 174517.

Funzionante. Primo Levi è tra i pochissimi a far ritorno dai campi di concentramento. Ci

riesce grazie a una serie di circostanze e solo dopo un lungo girovagare nei Paesi dell'est.

Quale testimone di tante assurdità, sente il dovere di raccontare, descrivere l’indescrivibile,

affinché tutti sappiano, tutti si domandino un perché, tutti interroghino la propria coscienza:

comincia a scrivere, elaborando così il suo dolore, il suo annientamento, il suo avventuroso

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ritorno a casa. Nel '47, rifiutato dalla Einaudi, il manoscritto Se questo è un uomo è pubblicato

dalla De Silva editrice. Il libro ottiene un discreto successo di critica ma non di vendita. Solo

nel '56 la Einaudi comincia a pubblicare tutti i suoi lavori: Se questo è un uomo è tradotto in

diverse lingue, La Tregua vince la prima edizione del Premio Campiello. Nel '67 raccoglie i

suoi racconti in un volume intitolato Storie naturali adottando lo pseudonimo di Damiano

Malabaila. Nel '71 esce Vizio di forma, nuova serie di racconti e nel '78 La chiave a stella che

vince il Premio Strega. Nel '81 viene edita un’antologia personale dal titolo La ricerca delle

radici nella quale sono raccolti tutti gli autori che hanno contato nella formazione culturale

dell’autore. Nel novembre dello stesso anno esce Lilìt e altri racconti e l’anno successivo Se

non ora quando? che vince il Premio Viareggio e il Premio Campiello. Nel frattempo Levi

lavora anche come traduttore. Nell’ottobre del '84 pubblica Ad ora incerta e a dicembre

Dialogo in cui riporta una conversazione avuta con il fisico Tullio Regge. Nel novembre dello

stesso anno esce l’edizione americana del Sistema periodico e nel gennaio del '85 una

cinquantina di scritti pubblicati precedentemente su diverse testate, raccolti in un volume

unico intitolato L’altrui mestiere. Nel 1986 pubblica I sommersi e i salvati. L’11 aprile del 1987

Primo Levi muore. Dirà di lui Claudio Toscani: «L’ultimo appello di Primo Levi non dice non

dimenticatemi, bensì non dimenticate».

Primo Levi è stato autore di numerosi romanzi, racconti, poesie e memorie. Noi ci

concentreremo su due romanzi: “Se questo è un uomo” e “La tregua”. “Se questo è un uomo” è

un romanzo autobiografico pubblicato nel 1947. Egli, come ho già detto, ha vissuto la

drammatica esperienza della deportazione; per spiegare cosa sono stati i campi di

concentramento non c’è modo migliore che leggere direttamente il suo romanzo, ecco perché

vi propongo la poesia, che precede lo scritto, ed alcune parti dello stesso romanzo.

Shemà

Se questo è un uomo

“Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

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Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.”

(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p.1)

Questa poesia è la descrizione cruda, schietta, vera di quello che sono stati i campi di

concentramento, del modo in cui questi luoghi hanno ridotto i deportati. La cosa che ci deve

far riflettere, ed è il senso stesso del romanzo, è che NESSUNO DEVE NEGARE LA REALTA’

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STORICA CHE E’ ACCADUTA, NESSUNO DEVE DIMENTICARE… perché questo è l’unico modo

per far si che mai più accada.

Se questo è un uomo descrive l’epopea vissuta da Levi, dalla deportazione in un campo di

lavoro di Monowitz, un lager satellite di Auschwitz, alla successiva liberazione nel gennaio del

1945. Il libro, pensato come una testimonianza nei confronti dei “sommersi” (ovvero di chi

non è sopravvissuto alle atroci condizioni di vita del campo), viene scritto di getto da Levi e,

dopo essere stato rifiutato dall’editore Einaudi, viene pubblicato da De Silva nel 1947. Il

successo arriverà nel 1958, quando Se questo è un uomo, con l’aggiunta di alcune pagine, verrà

ripubblicato da Einaudi. Il testo è suddiviso in diciassette capitoli.

Riassunto per capitoli

Capitolo I, Il viaggio: Primo Levi si trova nel campo di transito di Fossoli, vicino Modena. Da

qui i prigionieri vengono trasportati in treno in Polonia, attraversando prima il Brennero e poi

l’Austria. Le condizioni che i prigionieri sono costretti a sopportare nei vagoni sono

disumanee molti muoiono già prima dell’arrivo. Una volta ad Auschwitz i prigionieri vengono

fatti scendere, divisi sia per sesso che per età o condizioni fisiche: spesso è semplicemente il

caso di trovarsi in una fila e non in un’altra a determinare la condanna a morte o la salvezza di

un essere umano. I selezionati salgono su degli autocarri dove vengono confiscati loro tutti gli

averi.

Capitolo II, Sul fondo: All’arrivo i prigionieri vengono lavati e rasati, ricevono le divise e sono

tatuati con un numero di riconoscimento sul braccio (Levi è così il prigioniero 174517).

Vengono radunati e contati nella Piazza d’Appello, di cui viene data una descrizione. L’autore

fin da subito capisce che l’unico modo per sopravvivere è seguire le regole del campo e evitare

questioni: il tutto rimane scolpito nella memoria per l’agghiacciante scritta che accoglie i

deportati, Arbeit macht frei (in tedesco: “Il lavoro rende liberi”). Il capitolo descrive pure la

struttura e la disposizione dei diversi edifici del campo, così come la gerarchia che regola la

vita dei prigionieri.

Capitolo III, Iniziazione: Il capitolo si concentra su due problemi fondamentali: il cibo e la

lingua. Come è difficile procurarsi da mangiare - e pertanto il pane è un fondamentale oggetto

di scambio - ugualmente è difficile comprendersi nella babele di linguaggi che affollano il

campo, tanto che Monowitz appare agli occhi del protagonista una riedizione moderna e

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perversa della biblica Torre di Babele 1. Levi passa poi a descrivere l’igiene del campo, del

tutto assente, e l’incontro avuto al lavatoio con un conoscente, che gli ricorda che smettere di

lavarsi equivale a cominciare a morire.

Capitolo IV, Ka-Be: Il capitolo prende il nome dall’abbreviazione (dal tedesco Krankenbau,

“ospedale”) con cui è designata l’infermeria del campo. Levi è condotto qui per curare una

ferita al piede: può quindi godere di una tregua di venti giorni, con cibo assicurato e riparo dal

freddo. Tuttavia, durante la convalescenza, confrontando il numero che ha tatuato sul braccio

col numero relativamente esiguo dei prigionieri di Monowitz, capisce che gran parte dei

deportati devono essere morti, e che il destino nel campo è, per gran parte degli uomini, senza

speranza. Ciò gli viene confermato anche da altri deportati ebrei, che però ostentatno

disprezzo nei confronti del protagonista, che non parla la loro lingua.

Capitolo V, Le nostre notti: Levi, terminata la convalescenza, viene assegnato al Block 45, dove

trova il suo amico Alberto. Racconta le sue notti - che poi sono le notti di tutti i prigionieri -

divise tra gli incubi e la veglia, in un sonno che non può mai essere considerato tale. I due

sogni ricorrenti sono quelli di non essere creduto una volta tornato a casa e di vedersi

sottratto il cibo.

Capitolo VI, Il lavoro: Il lavoro assegnato a Levi è trasportare le traversine di legno per la

costruzione della ferrovia. L’autore non è avvezzo ai lavori pesanti e non è di forte

costituzione, così rischia più volte di soccombere al lavoro. Per fortuna è affiancato da un

compagno di camerata, il francese Resnyk, che lavora in coppia con lui aiutandolo in più

occasioni.

Capitolo VII, Una buona giornata: Il capitolo si concentra su un momento di rottura della

routine infernale del campo: in un giorno sereno, la razione di cibo per ogni prigioniero è il

doppio del solito. Tuttavia l’angoscia della morte non abbandona gli internati, che

all’orizzonte vedono il fumo delle ciminiere di Birkenau che bruciano i cadaveri dei morti (per

lo più, donne, anziani e bambini).

Capitolo VIII, Al di qua del bene e del male: L’analisi dei commerci tra i prigionieri sono regolati

da una sorta di borsa clandestina e prevedono gli scambi di beni di prima necessità come

vestiti, cibo e utensili. Ad esempio, il valore dei vestiti scambiati varia in base al cambio della

biancheria organizzato dai tedeschi. Spesso è necessario avere degli scambi con i civili, ma

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questa è una pratica rischiosa poiché essere scoperti significa venir mandati a lavorare nelle

miniere di carbone.

Capitolo IX, I sommersi e i salvati: In un capitolo fondamentale di Se questo è un uomo Levi fa

una distinzione tra i “sommersi” e i “salvati”, corredandola con le storie di quattro prigionieri.

I sommersi, o “musulmani” (dal tedesco Muselmann, probabilmente per analogia tra un uomo

collassato a terra dallo sfinimento e un fedele islamico in preghiera), sono coloro che si

attengono pedissequamente alle regole ufficiali, finendo per essere i primi a indebolirsi e

morire. I salvati invece sono coloro che lottano per la sopravvivenza cercando di emergere e

guadagnarsi una posizione di lavoro privilegiato, come quella di Kapo (ovvero, di comandante

e controllore di altri internati).

Capitolo X, L’esame di chimica: Nel campo viene istituito un laboratorio di chimica. Primo Levi

e Alberto inizialmente partecipano trasportando cloruro di magnesio, poi, in seguito ad un

esame, sono ammessi a lavorare nel laboratorio. L’esame è particolarmente difficile perché è

solamente in tedesco, ma superarlo significa garantirsi un lavoro importante all’interno del

lager e quindi una pur minima possibilità di sopravvivenza.

Capitolo XI, Il canto di Ulisse: Levi, durante il trasporto di una cisterna di zuppa, cerca di

ricordarsi i versi canto XXVI dell'Inferno di Dante per recitarli ad un compagno francese, Jean

Picolo. Lo sforzo di trasmettere ad un ascoltatore straniero il significato e la profonda bellezza

del canto dantesco diventano, nel contesto assurdo ed alienante del capo di concentramento,

una metafora dell’esperienza della prigionia.

Capitolo XII, I fatti dell’estate: Sul finire del secondo conflitto mondiale, i bombardamenti

alleati costringono a interrompere i lavori nel campo. Se da un lato le vaghe notizie del nuovo

corso che sta prendendo la guerra accendono una pallida speranza nei prigionieri, dall’altro il

timore maggiore è quello di venir bombardati. Levi conosce Lorenzo, un civile italiano che gli

porta del pane risvegliando in lui un minimo di fiducia.

Capitolo XIII, Ottobre 1944: L’arrivo dell’inverno e la quantità di prigionieri che sono arrivati

nel campo implicano il ripetersi delle selezioni per il crematorio, temute da tutti i deportati.

Una domenica pomeriggio tocca anche a Levi parteciparvi: si tratta di spogliarsi e fare una

corsa davanti a un funzionario che delibera la sorte del prigioniero.

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Capitolo XIV, Kraus: Levi descrive le condizioni del lager, che con l’inverno sono peggiorate, e

fa il ritratto di un prigioniero, Kraus.

Capitolo XV, Die drei Leute vom Labor (in tedesco, “Le tre persone del laboratorio”): Levi viene

scelto come specialista per il laboratorio di chimica. Lavorare in laboratorio significa poter

passare la giornata al caldo ed entrare a contatto con oggetti utili per il baratto. Il personale

civile del laboratorio (tra cui anche tre donne) conversa liberamente della propria vita nel

mondo libero, generando un contrasto paradossale con le condizioni dei prigionieri.

Capitolo XVI, L’ultimo: Il capitolo è per gran parte dedicato alla figura di Alberto (cui

corrisponde la figura reale di Alberto Dalla Volta, un giovane ebreo bresciano che nel campo

diventerà il miglior amico dello scrittore), che è una figura ricordata per l’ingegno e

l’inventiva, nonché per la capacità di adattarsi alla tremenda vita del campo. Viene poi

raccontata l’impiccagione a scopo dimostrativo di un prigioniero che aveva partecipato a un

assalto a un forno crematorio e a cui i prigionieri sono costretti ad assistere. Prima di morire il

prigioniero grida: “Compagni, io sono l’ultimo!”.

Capitolo XVII, Storia di dieci giorni: Con l’avanzata dell’Armata Rossa i nazisti decidono di

evacuare i prigionieri sani e lasciare al loro destino i malati. Levi, che ha la scarlattina, rimane

in infermeria, mentre Alberto parte per quella che sarà la marcia della morte: di fatto, i

tedeschi sterminano i prigionieri rimasti nel corso dell’esodo. Levi si dà da fare per aiutare i

prigionieri che stanno peggio; ormai al campo sono rimasti solo i prigionieri malati, che danno

fondo alle scorte per sopravvivere mentre i bombardamenti russi si avvicinano al lager.

Alcune baracche vengono colpite e, mancando i tedeschi, non ci sono più acqua, elettricità o

riscaldamento. Il gelido inverno polacco fa morire molti prigionieri e impedisce ai vivi di

seppellirli. Levi e alcuni altri prigionieri riescono ad organizzarsi in una baracca e a

sopravvivere fino all’arrivo dei russi: è il 27 gennaio 1945

Vi propongo ora alcuni brani del romanzo.

1. In questo brano è rappresentata la lotta quotidiana dei deportati per rimanere umani. Una

lotta combattuta contro l’intera concezione di Lager, studiata a tavolino per annientare

l’animo degli uomini prigionieri.

Sono descritte le fatiche e le rinunce che il campo di sterminio imponeva: la possibilità di

lavarsi con la consapevolezza di sporcarsi completamente in breve tempo; molti si

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attaccavano anche a queste piccole cose pur di rimanere uomini, di mantenere una dignità che

li differenziasse dai musulmani, gli uomini, se così si potevano chiamare, ormai stanchi di

vivere e lottare che non aspettavano altro che la morte.

“Steinlauf mi vede e mi saluta, e senza ambagi mi domanda severamente perché non mi lavo.

Perché dovrei lavarmi? starei forse meglio di quanto sto? [...] Più ci penso, e più mi pare che

lavarsi la faccia nelle nostre condizioni sia una faccenda insulsa, addirittura frivola:

un’abitudine meccanica, o peggio, una lugubre ripetizione di un rito estinto. Morremo tutti o

stiamo per morire: se mi avanzano dieci minuti fra la sveglia e il lavoro, voglio dedicarli ad altro,

chiudermi in me stesso, a tirare le somme, o magari a guardare il cielo e a pensare che lo vedo

forse per l’ultima volta; [...] appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi

bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve

voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante

sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi,

privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è

rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro

consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e

asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il

regolamento, ma per dignità e proprietà. Dobbiamo camminare dritti, senza strascicare gli

zoccoli, non già in omaggio alla disciplina prussiana, ma per restare vivi, per non cominciare a

morire”

(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p. 35 – 36)

2. Il brano che segue dimostra l’ organizzazione dei "letti" dei prigionieri nei Lager.

“Non so chi sia il mio vicino; non sono neppure sicuro che sia sempre la stessa persona, perché

non l'ho mai visto in viso se non per qualche attimo nel tumulto della sveglia, in modo che molto

meglio del suo viso conosco il suo dorso e i suoi piedi. Non lavora nel mio Kommando e viene in

cuccetta solo nel momento del silenzio; si avvoltola nella coperta, mi spinge da parte con un

colpo delle anche ossute, mi volge il dorso e comincia subito a russare. Schiena contro schiena, io

mi adopero per conquistarmi una superficie ragionevole di pagliericcio; esercito con le reni una

pressione progressiva contro le sue reni, poi mi rigiro e provo a spingere con le ginocchia, gli

prendo le caviglie e cerco di sistemarle un po’ più in là in modo da non avere i suoi piedi accanto

al viso: ma tutto è inutile, è molto più pesante di me e sembra pietrificato dal sonno."

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(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p.52)

3. Questo passo è molto importante perché racchiude in sé la condizione morale in cui si

ritrovavano i deportati, ormai ridotti allo stremo delle forze, anche a causa del rigidissimo

inverno. Primo Levi sostiene che l’unica libertà ad Aushwitz era rappresentata dal suicidio, ma

per convincersene avrebbe dovuto avere le forze ed il tempo necessario per attuarlo. E’ la

testimonianza di un uomo che sembra aver perso definitivamente la propria dignità umana e

la speranza.

“24 gennaio. Libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l’immagine concreta. A porvi mente

con attenzione voleva dire non più tedeschi, non più selezioni, non lavoro, non botte, non appelli,

e forse, più tardi, il ritorno. Ma ci voleva sforzo per convincersene e nessuno aveva tempo di

goderne.”

(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, p. 152)

La tregua è un romanzo di Primo Levi composto tra il 1961 e il 1962 (anche se alcune pagine

erano già state scritte nel biennio 1947-1948) e pubblicato nel 1963. L’opera è la

prosecuzione delle vicende narrate in Se questo è un uomo e descrive il rientro a casa del

protagonista dopo la liberazione di Auschwitz, nel gennaio del 1945, fino all’ottobre dello

stesso anno, in un viaggio dalla Polonia alla Bielorussia, dalla Romania all’Austria e fino a

Torino. L’atmosfera generale è quella della liberazione dall’incubo nazista e, al tempo stesso,

della sospensione del proprio destino (di “tregua”, appunto) in attesa di ricominciare una vita

“normale”.

La tregua è suddivisa in diciassette capitoli ed è preceduta - come Se questo è un uomo con

Shemà - da un testo in versi che introduce i temi principali del libro.

Trama

L’itinerario di Levi verso casa è assai lungo e frammentato: dalla Polonia del sud, dove si

trova il campo di Auschwitz, il protagonista è condotto dalle truppe dell’Armata Rossa prima

in Ucraina e poi in Bielorussia. Da qui inizia la discesa verso la Romania e poi il transito verso

l’Austria, attraverso Ungheria e Slovacchia. Una volta passato per Monaco di Baviera, Levi

raggiunge Verona e, da lì, la città natale di Torino. Il viaggio inizia alla fine di febbraio del 1945

e si conclude nel capoluogo piemontese il 19 febbraio.

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Il primo capitolo (Il disgelo, scritto tra 1947 e il 1948) descrive l’arrivo della prima pattuglia

russa al campo di Auschwitz metre Levi e l’amico Charles stanno seppellendo il cadavere di un

compagno morto, Sómogyi. In un’atmosfera di attesa e di stasi, Levi si ammala di scarlattina

(capitolo secondo, Il Campo Grande, anch’esso databile al 1947-1948) ed è ricoverato

all’interno del campo stesso, dove ora del personale polacco sta riorganizzando le baracche.

Qui Levi conosce il giovane prigioniero Henek, che gli racconta della morte di Hurbinek, un

bambino deforme di tre anni, nato ad Auschwitz, e Olga, una partigiana slovena che lo mette al

corrente della morte di molti compagni del Lager.

Il terzo capitolo, Il greco, è successivo alla vera e propria liberazione del campo: Levi,

scampato alla precettazione di un ex Kapo, si sposta verso Cracovia e poi a Katowice in

compagnia di un personaggio memorabile, il greco Mordo Nahum, che, durante una giornata

trascorsa con Primo, consegna al protagonista la massima per cui “guerra è sempre”. Mordo e

Levi si separeranno, per poi incontrarsi successivamente nel corso dell’esodo. Nel capitolo

seguente, Katowice, Levi si fa assumere all’infermeria del campo di Bogucice, dove conosce

Galina (una giovane polacca che gli fa da interprete sul lavoro) e ritrova Cesare, con cui aveva

diviso le sofferenze ad Auschwitz e che ora è impegnato in traffici al mercato (capitolo quinto,

Cesare). L’otto maggio 1945 viene proclamata la fine delle ostilità (capitolo sesto, Victory Day)

e tutta la città è in festa: Levi, durante una partita di calcio, si ammala di pleurite ed è

nuovamente ricoverato.

Nel settimo capitolo, I sognatori, Levi descrive la propria guarigione grazie all’impegno del suo

amico medico Leonardo e dal dottor Gottlieb; segue poi una carrellata su alcuni personaggi (i

“sognatori”, appunto) che popolano la camerata e della loro tendenza a raccontare storie,

spesso completamente inventate, sulla loro vita. Giunge poi la notizia (capitolo otto, Verso sud)

che tutti i prigionieri italiani verranno condotti ad Odessa per le procedure del rimpatrio in

Italia, sotto il comando del dottor Gottlieb: Levi e Cesare festeggiano la notizia a Katowice.

Tuttavia, il treno del protagonista deve arrestarsi a Zmerinka per l’interruzione della linea

ferroviaria e poi ripartire, insieme con altri deportati italiani, in direzione nord (capitolo nove,

Verso nord). In Bielorussia, in attesa di notizie certe sul prosieguo del viaggio, Primo ritrova

Mordo Nahum. Nel capitolo dieci (Una curizetta) gli italiani devono spostarsi a piedi nel

villaggio di Staryje Doroghi: durante il tragitto, riescono a barattare i loro piatti con una

gallina (kúritza, in russo), dopo che Cesare ha provato a farsi capire da una vecchia contadina

russa imitando il verso dell’animale. I protagonisti raggiungono Staryje Doroghi grazie al

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passaggio di un carro, pagando otto rubli; una volta in paese, soggiorneranno presso il centro

di raccolta dei profughi della “Casa rossa” (capitolo undici, Vecchie strade). Qui Levi trascorre

quasi due mesi, durante i quali descrive (capitolo dodicesimo, Il bosco e la via) la vita del

paese e qualche episodio rilevante, come la macellazione di alcuni cavalli dell’esercito (che

permette al protagonista di mangiare finalmente carne dopo moltissimi mesi), i trucchi di

Cesare per procurarsi cibo e denaro, l’incontro con un soldato russo che insegna a Primo

qualche elementare termine della sua lingua.

Nel tredicesimo capitolo (Vacanza) il protagonista ritrova Flora, una donna ebrea che ad

Auschwitz più volte gli aveva procurato del cibo. Sempre in questo periodo, la vita alla “Casa

rossa” è allietata dalla proiezione di alcuni film, che suscitano l’entusiasmo di Levi e dei

compagni. Questi ultimi (capitolo quattordicesimo, Teatro) organizzano anche una

rappresentazione teatrale per tutti i rifugiati alal “Casa rossa”; in seguito, le autorità russe

comunicano che tutti i reduci italiani saranno presto rimpatriati. Inizia così il nuovo viaggio

verso sud (capitolo quindicesimo, Da Staryje Doroghi a Iasi) durante il quale Levi ritrova

Galina. Il viaggio verso occidente (capitolo sedicesimo, Da Iasi alla linea) descrive il

difficoltoso attraversamento della Romania (qui Cesare abbandona la compagnia per rientrare

a Roma per via aerea), dell’Ungheria e dell’Austria: a Linz, Levi e gli altri reduci passano sotto

la tutela americana. L’ultimo capitolo (Risveglio) narra le ultime tappe del viaggio: da Monaco,

dove Levi scopre d’essere tra i pochissimi sopravvissuti di quanti dall’Italia erano partiti per il

lager, fino a Torino. Qui l’apparente pace e la serenità familiare, in un’atmosfera onirica, sono

sempre attraversati dal ricordo lacerante del campo di sterminio:

È un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con

la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido

e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e

profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno,

a poco a poco o brutalmente, ogni volta tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti,

le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono solo al

centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di

averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era

breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo

sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo

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risuonare una voce, ben nota: una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il

comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, “Wstawać”.

Se questo è un uomo e La tregua mostrano una forte continuità tematica e narrativa che affonda

le sue radici nel processo stesso di composizione delle due opere. Se, come affermato da Levi

stesso, il libro del 1947 nasce da un urgente bisogno di racconto e di testimonianza, anche la

Tregua condivide in parte questa necessità, tanto che i primi appunti e i primi capitoli del libro sono

stati composti proprio nell’immediatezza del ritorno a casa, mentre Levi sta completando i capitoli

del suo libro più noto e conosciuto. Tuttavia, per altro verso, La tregua si distanzia da Se questo è

un uomo: se in quest’opera prevale la rappresentazione della perversa esperienza del campo di

sterminio, ne La tregua i sentimenti del protagonista sono ambivalenti: da un lato, il senso della

libertà riacquisita e dell’attesa del rientro a casa; dall’altro, l’angoscioso ricordo dei dolori e delle

sofferenze del lager, accompagnati dall’acuta percezione che, nonostante tutto, è impossibile tornare

ad una vita davvero “normale”. Il brano che meglio rappresenta la condizione di scissione del

“reduce” Levi è proprio la poesia che Levi pone ad incipit del proprio testo e che riporta in calce -

come indizio della continuità tra Se questo è un uomo e La tregua - la data dell’11 gennaio 1946,

ovvero un giorno dopo quella che compariva in Shemà:

La poesia Shemà di Primo Levi è un breve testo in versi liberi che apre Se questo è un uomo (pubblicato per la prima volta dall’editore De Silva nel 1947.

Shemà è una parola ebraica (שמע) che significa “ascolta”; essa compare nell’espressione Shemà Israel (ישראל שמע, “Ascolta, Israele”) in una fondamentale preghiera della liturgia, recitata durante le orazioni del mattino e della sera. Levi utilizza questa espressione in apertura del suo romanzo per rivolgere un forte appello al suo lettore, affinché egli presti attenzione a ciò che sta per leggere e fissi nella memoria la testimonianza agghiacciante della Shoah. La poesia riporta la data del 10 gennaio 1946, poco più di un anno dopo la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz del 27 gennaio 1945.

Sognavamo nelle notti feroci

Sogni densi e violenti

Sognati con anima e corpo:

tornare; mangiare; raccontare.

Finché suonava breve sommesso

Il comando dell’alba; «Wastawac»;

E si spezzava in petto il cuore.

Ora abbiamo ritrovato la casa,

il nostro ventre è sazio.

Abbiamo finito di raccontare.

È tempo. Presto udremo ancora

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Il comando straniero:

«Wastawac». »

(11 gennaio 1946)

La poesia fu scritta l’11 gennaio 1946, cioè quando Levi era appena arrivato dalla Russia, dopo

il tortuoso viaggio di ritorno, durato dal gennaio 1945 all’ottobre dello stesso anno. Il tema

della poesia è la paura, la paura che il lager aveva trasmesso ai prigionieri ebrei: paura della

morte, paura della fame, paura del freddo, paura dei nazisti. Questa paura veniva trasmessa

nel corpo e nei sogni dei prigionieri. Tutti i prigionieri facevano gli stessi sogni, come poi Levi

scriverà anche in un capitolo di Se questo è un uomo. I prigionieri sognano di mangiare, poiché

essi non mangiano quasi niente, sognano di tornare a casa, sognano di raccontare agli altri la

loro terrificante e atroce esperienza nel lager. Era un modo di esorcizzare la paura. Nel IV

capitolo Levi parla della campanella del campo che annuncia il comando dell’alba “Wastawac”

(Alzarsi). Questa parola – ordine spezzava il cuore dei prigionieri, perché interrompeva il

riposo, le illusioni del sogno “tornare, mangiare, raccontare”… e dava inizio alla lunga e

interminabile giornata fatta di fame, freddo, lavoro, gelo. Mentre nel prima parte Levi

ricostruisce e rievoca la vita del lager, nella seconda parte descrive la ritrovata pace della casa,

afferma che il ventre è sazio e che ha finito di raccontare agli altri la sua terribile storia. È

tempo di riprendere il lavoro della vita civile, ma sa che ben presto ritornerà la paura del

ricordare ancora il comando dell’Alba “Wstawac” che all’alba toglieva la gioia, l’illusione del

sogno. Nell’ultima pagina del libro, Levi accenna anche ad un’altra abitudine che lo

abbandonerà molto tempo dopo:

« Ma solo dopo molti mesi svanì in me l’abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo,

come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha

cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento »

Il messaggio della poesia è la denuncia delle paure subite nel lager, che non possono essere

dimenticate. Queste paure resteranno per molti anni ancora nell’anima e nel corpo di Levi, il

quale per qualche tempo avrà l’impressione e la sensazione di udire quel comando che gli

spezzava il cuore. La poesia trasmette un messaggio di tensione e di ansia, perché il comando

straniero non si ferma con il ritorno a casa, ma continuerà ancora negli anni avvenire e si

presenterà nei sogni e all’alba perché quella vita di prigioniero non si cancellerà mai.

Attraverso questo racconto – testimonianza Primo Levi riesce a descrivere in modo del tutto

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naturale e realistico la situazione materiale, paesaggistica, sociale, culturale, militare, politica

che egli visse dalla liberazione al rientro in Italia (dal 1945). Soprattutto nei mesi di aprile e

maggio Levi ricostruisce l’euforia e l’entusiasmo dei russi nella vittoria contro i tedeschi. Qui

Levi non racconta la sua vita di ex-prigioniero in un lager nazista ma la ventata di gioia dei

vincitori. Vi è anche l’intento di Levi di mettere a nudo l’anima dei russi, cosi come aveva

tentato (nel romanzo “Se questo è un uomo”) di mettere a nudo l’anima dei Tedeschi. Questa

enorme gioia dei russi per la vittoria sui nazisti è resa molto bene anche con la descrizione

dello spettacolo teatrale e dei canti patriottici dei russi. La grandezza di Levi sta nella capacità

di scrivere delle riflessioni sulla vita e sulla morte, dalla consapevolezza di non smarrire mai il

senso della vita e di non perdere mai il sentimento della speranza in una vita futura positiva e

basata sulla giustizia umana e in una società aperta all’uguaglianza di tutti i popoli della terra

senza distinzione di razza di religioni, né colore. Questo libro non solo racconta la Russia post-

bellica, né è la semplice descrizione di un viaggio di ritorno, ma riesce a tratteggiare il mondo

interiore e i sentimenti dei suoi personaggi (particolarmente significativo a riguardo è il

capitolo 7, I sognatori, in cui Levi, dopo aver descritto la fortunata guarigione dalla pleurite,

parla di alcuni compagni di camera:il moro di Verona, il Trovati, un ladruncolo, il torinese

Cravero, il signor Unverdorben, un musicista, e il siciliano D’Agata. Questi compagni di camera

hanno in comune la tendenza a raccontare fatti della loro vita trasfigurati dalla loro fantasia,

storie in gran parte inventate di sana pianta tanto da essere inverosimili… forse perché la

fantasia era l’unica cosa rimastagli per superare e andar oltre le drammatiche esperienze

vissute). Il messaggio fondamentale del libro è senza dubbio la positività delle vita e l’umanità

di molti personaggi minori. Tranne nei nazisti che erano effettivamente criminali legittimati,

assassini senza cuore, più bestie che uomini, dominate da una ideologia falsa e barbarica,

portatrice di disumanità. La tregua, come già Se questo è un uomo, testimonia la volontà di

vivere di Primo Levi; quella enorme forza interiore che insieme alla fortuna lo ha portato a

sopravvivere… ma non per lungo tempo vista poi la tragica morte.

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LEONARDO SCIASCIA

Leonardo Sciascia nacque nel 1921 nell’entroterra agrigentino, a Racalmuto, nella Sicilia delle

zolfare. Il padre lavorava in una delle miniere di zolfo della zona. Sciascia trascorse col nonno

e le zie la maggior parte dell’infanzia e il loro ricordo ricorrerà spesso nelle numerose

interviste successivamente rilasciate dall’autore, nelle quali spiegherà anche il profondo

legame con la Sicilia delle zolfare, a cui lo avvicinarono appunto il nonno ed il padre. La

produzione artistica di Sciascia è molto vasta e varia (dalle poesie, ai racconti, ai saggi, ai

romanzi), per questo noi ci concentreremo solo su “La Sicilia, il suo cuore” e sulle “Favole della

dittatura”.

VITA

Leonardo Sciascia nasce l'8 gennaio 1921 a Racalmuto, in provincia di Agrigento. La madre

proveniva da una famiglia di artigiani mentre il padre era impiegato presso una delle miniere

di zolfo locali (la storia dello scrittore ha le sue radici nella zolfara dove hanno lavorato il

nonno e il padre). A sette anni Sciascia inizia la scuola elementare a Racalmuto e ben presto si

dimostra intenso lettore. Si appassiona anche alla storia e alla scrittura. Nel 1935 si

trasferisce con la famiglia a Caltanissetta dove si iscrive all'Istituto Magistrale "IX Maggio" nel

quale insegna Vitaliano Brancati, che diventerà il suo modello e che lo guida nella lettura

degli autori francesi, mentre l'incontro con un giovane insegnante, Giuseppe Granata, gli fa

conoscere gli illuministi e la letteratura americana. Nel capoluogo nisseno trascorrerà gli anni

più indimenticabili della sua vita, come lui stesso confessa nella sua autobiografia, fatti delle

prime esperienze e delle prime scoperte della vita oltre ad imprimersi la sua formazione

culturale. Richiamato alla visita di leva viene considerato per due volte non idoneo, ma alla

terza viene finalmente accettato e assegnato ai servizi sedentari. Nel 1941 consegue il

diploma magistrale e nello stesso anno si impiega al Consorzio Agrario, occupandosi

dell'ammasso del grano a Racalmuto, dove rimane fino al 1948. Ebbe così modo di avere un

rapporto intenso con la piccola realtà contadina. Nel 1944 si unisce in matrimonio con Maria

Andronico, maestra nella scuola elementare di Racalmuto. Maria Andronico e Sciascia

avranno due figlie, di nome Laura e Anna Maria. Il suicidio del fratello Giuseppe, avvenuto nel

1948, sconvolge Sciascia lasciandogli un profondo segno nell'animo. Nel 1949 inizia ad

insegnare nella scuola elementare di Racalmuto.

Le prime opere: poesie e saggi

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Nel 1950 pubblica le "Favole della dittatura", che Pier Paolo Pasolini nota e recensisce. Il libro

comprende ventisette brevi testi poetici, "favole esopiche" classiche, con morali chiare, di cui

sono protagonisti animali Nel 1952, esce la raccolta di poesie La Sicilia, il suo cuore, che viene

illustrata con disegni dello scultore catanese Emilio Greco. Nel 1953 vince il Premio

Pirandello, assegnatogli dalla Regione Siciliana per il suo saggio "Pirandello e il

pirandellismo". Inizia nel 1954 a collaborare a riviste antologiche dedicate alla letteratura e

agli studi etnologici, assumendo l'incarico di direttore di «Galleria» e de «I quaderni di

Galleria» edite dall'omonimo Salvatore Sciascia di Caltanissetta. Nel 1956 pubblica "Le

parrocchie di Regalpetra", una sintesi autobiografica dell'esperienza vissuta come maestro

nelle scuole elementari del suo paese. Nello stesso anno viene distaccato in un ufficio

scolastico di Caltanissetta. Nel 1961 pubblica "Il giorno della civetta", che racconta la mafia a

quell'epoca.

I racconti

Gli zii di Sicilia

Nell'anno scolastico 1957-1958 viene assegnato al Ministero della Pubblica Istruzione a

Roma e in autunno pubblica i tre racconti che vanno sotto il titolo "Gli zii di Sicilia". La breve

raccolta si apre con "La zia d'America", un tentativo di dissacrare il mito dello "Zio Sam", visto

come dispensatore di doni e libertà. Il secondo racconto è intitolato "La morte di Stalin", nel

quale, ancora una volta, il personaggio è un mito, quello del comunismo che viene incarnato,

agli occhi del siciliano Calogero Schirò, da Stalin. Il terzo racconto, "Il quarantotto", è

ambientato nel periodo del Risorgimento (precisamente tra il 1848 e il 1860) e tratta del

tema dell'unificazione del Regno d'Italia vista attraverso gli occhi di un siciliano. Nel racconto

l'autore vuole mettere in evidenza l'indifferenza ed il cinismo della classe dominante

affrontando un tema già trattato da Federico De Roberto ne I Viceré (1894) e da Giuseppe

Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo. Alla raccolta si aggiunge, nel 1960, un quarto

racconto, "L'antimonio", che ebbe favorevole consenso della critica ed al quale Pasolini

dedicherà un articolo sulla rivista Officina. In esso si narra la storia di un minatore che,

scampato ad uno scoppio di grisou (chiamato dagli zolfatari antimonio), parte come

volontario per la guerra d'Abissinia ed, in seguito, per la guerra civile in Spagna.

I romanzi

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Sciascia rimane a Roma un anno e al suo ritorno si stabilisce con la famiglia a Caltanissetta,

assumendo un impiego in un ufficio del Patronato scolastico. Nel 1961 esce Il giorno della

civetta col quale lo scrittore inaugura una nuova stagione del giallo italiano contemporaneo.

Al romanzo si ispira il film omonimo del regista Damiano Damiani, uscito nel 1968. Gli anni

sessanta vedranno nascere alcuni dei romanzi più sentiti dallo stesso autore, dedicati alle

ricerche storiche sulla cultura siciliana. Nel 1963 pubblica Il consiglio d'Egitto, ambientato in

una Palermo del '700 dove vive e agisce un abile falsario, l'abate Giuseppe Vella, che

"inventa" un antico codice arabo che dovrebbe togliere ogni legittimità ai privilegi e ai poteri

dei baroni siciliani a favore del Viceré Caracciolo.

Il ritorno al saggio

Nel 1964 pubblica il breve saggio o racconto, come dice lo stesso Sciascia nella prefazione alla

ristampa del 1967, "Morte dell'Inquisitore", ambientato nel '600, che prende spunto dalla

figura dell'eretico siciliano fra' Diego La Matina, vittima del Tribunale dell'Inquisizione, che

uccide Juan Lopez De Cisneros, inquisitore nel Regno di Sicilia. La Compagnia del Teatro

Stabile di Catania, diretta da Turi Ferro, mette in scena "Il giorno della civetta", con la

riduzione teatrale di Giancarlo Sbragia. Risale al 1965 il saggio "Feste religiose in Sicilia", che

fa da cornice alla presentazione ad una raccolta fotografica ad opera di Ferdinando Scianna,

fotografo di Bagheria, dove torna l'accostamento della Sicilia alla Spagna, soprattutto per

quanto riguarda il valore e l'importanza, in ambedue le società, della superstizione religiosa e

del mito.

La commedia

Sempre nel 1965 esce la sua commedia "L'onorevole" che è una impietosa denuncia delle

complicità tra governo e mafia. Nel 1967 si trasferisce a Palermo per seguire negli studi le

figlie e per scrivere. Esce intanto per l'editore Mursia una antologia "Narratori di Sicilia",

curata da Sciascia in collaborazione con Salvatore Guglielmino. Nel 1969 inizia la sua

collaborazione con il Corriere della Sera e pubblica "Recitazione della controversia liparitana

dedicata ad A.D.", che racconta, attraverso una rappresentazione teatrale, la controversia per

la vendita di una partita di ceci per la quale il vescovado di Lipari non vuole pagare la tassa

(siamo all'inizio del '700). Il vescovo aveva scomunicato i gabellieri, ma il re, mediante

l'appello per abuso, aveva annullato la scomunica. La storia, apparentemente banale, in realtà

denuncia i rapporti tra Stato-guida dell'ex Urss e gli Stati satelliti. Le iniziali A.D. identificano

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Alexander Dubček, che fu protagonista nel 1968 della Primavera di Praga.

La pensione

Nel 1970 Sciascia va in pensione e pubblica la raccolta di saggi "La corda pazza", nella quale

l'autore chiarisce la propria idea di "sicilitudine" e dimostra una rara sensibilità artistica

espressa per mezzo di sottili capacità saggistiche. Quest'opera riporta, già dal titolo, a Luigi

Pirandello che nel suo libro "Berretto a sonagli" sostiene che ognuno di noi ha in testa "come

tre corde d'orologio, quella "seria", quella "civile", quella "pazza"". Sciascia vuole indagare

sulla "corda pazza" che, a suo parere, coglie le contraddizioni e le ambiguità ma anche

la forza razionalizzante di quella Sicilia che è tanto oggetto dei suoi studi.

Il ritorno al genere poliziesco

Il 1971 è l'anno de "Il contesto", con il quale l'autore ritorna al genere poliziesco. La vicenda si

svolge intorno all'ispettore Rogas che deve risolvere una complicata vicenda che origina da

un errore di giustizia e una serie di omicidi di giudici. Benché il romanzo sia ambientato in un

paese immaginario, il lettore riconosce senza sforzo l'Italia contemporanea. Il libro desta

molte polemiche, più politiche che estetiche, alle quali Sciascia non vuole partecipare,

ritirando così la candidatura del romanzo al premio Campiello.

L'impegno politico

Alle elezioni comunali di Palermo nel giugno 1975 lo scrittore si candida come indipendente

nelle liste del PCI; viene eletto con un forte numero di preferenze, ottenendo il secondo posto

come numero di preferenze dopo Achille Occhetto, segretario regionale del partito, e davanti

ad un altro illustre candidato, Renato Guttuso. Nello stesso anno pubblica "La scomparsa di

Majorana", una indagine sulla scomparsa del fisico Ettore Majorana avvenuta negli anni

trenta. Nel 1976 esce una ristampa delle commedie "L'onorevole" e "Recitazione della

controversia liparitana" con l'aggiunta de "I mafiosi". Nello stesso anno pubblica l'indagine "I

pugnalatori", un libro inchiesta su una vicenda avvenuta a Palermo nel 1862 che vide uccise a

pugnalate 13 persone. All'inizio del 1977 Sciascia si dimette dalla carica di consigliere del

PCI. La sua contrarietà al compromesso storico e il rifiuto per certe forme di estremismo lo

portano infatti a scontri molto duri con la dirigenza del Partito comunista

L'inchiesta sulla strage di via Fani

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Nel giugno del 1979 accetta la proposta dei Radicali e si candida sia al Parlamento europeo

sia alla Camera. Eletto in entrambe le sedi istituzionali opta per Montecitorio, dove rimarrà

fino al 1983 occupandosi quasi esclusivamente dei lavori della Commissione parlamentare

d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo

in Italia.

I contatti con la cultura francese

In questi anni aumenta i suoi viaggi a Parigi e si intensificano i contatti con la cultura francese

e nel 1978 pubblica "L'affaire Moro" sul sequestro e il processo nella cosiddetta "prigione del

popolo" ad Aldo Moro organizzato dalle Brigate Rosse. Esce nel 1979 "Nero su Nero", una

raccolta di commenti ai fatti relativi al decennio precedente, "La Sicilia come metafora",

un'intervista di Marcelle Padovani e "Dalle parti degli infedeli", lettere di persecuzione

politica inviate negli anni cinquanta dalle alte gerarchie ecclesiastiche al vescovo Patti, con il

quale inaugura la collana della casa editrice Sellerio intitolata "La memoria" che festeggia nel

1985 la centesima pubblicazione con le sue "Cronachette". Nel 1980 pubblica "Il volto sulla

maschera" e la traduzione di un'opera di Anatole France, "Il procuratore della Giudea". Nel

1981 pubblica "Il teatro della memoria" e, in collaborazione con Davide Lajolo, "Conversazioni

in una stanza chiusa". Nel 1982 esce "Kermesse" e "La sentenza memorabile", nel 1983

"Cruciverba", una raccolta di suoi scritti già pubblicati su riviste, giornali e prefazioni a libri.

Pubblica nel 1984 "Stendhal e la Sicilia", un saggio per commemorare la nascita dello

scrittore francese.

Gli ultimi anni di vita

In quegli stessi anni gli fu diagnosticato un tumore al midollo osseo. Sempre più spesso fu

costretto a lasciare la Sicilia per Milano per curarsi ma egli continua, sia pure con fatica, la

sua attività di scrittore. Nel 1985 pubblica "Cronachette" e "Occhio di capra", una raccolta di

modi di dire e proverbi siciliani, e nel 1986 "La strega e il capitano", un saggio per

commemorare la nascita di Alessandro Manzoni. Carichi di tristi motivi autobiografici sono i

brevi romanzi gialli "Porte aperte" del 1987, "Il cavaliere e la morte" del 1988 e "Una storia

semplice", ispirato al furto della Natività con i santi Lorenzo e Francesco d'Assisi del

Caravaggio, che uscirà in libreria il giorno stesso della sua morte. Nel 1986 Sciascia scrive a

Bettino Craxi, comunicandogli di aver votato per il PSI nelle elezioni regionali siciliane di

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quell'anno ed invitando il leader socialista a favorire il ricambio della classe dirigente

siciliana del partito. Nel 1987 cura una mostra molto suggestiva, all'interno della Mole

Antonelliana a Torino, dal titolo "Ignoto a me stesso" (aprile-giugno). Erano esposte quasi 200

rare fotografie scelte da Leonardo Sciascia e concesse in originale da importanti istituzioni di

tutto il mondo. Si tratta di ritratti di scrittori famosi, dai primi dagherrotipi ai giorni nostri, da

Edgar Allan Poe a Rabindranath Tagore a Gorkij a Jorge Luis Borges. Il catalogo viene

stampato da Bompiani e oltre il saggio di Sciascia "Il ritratto fotografico come entelechia"

contiene 163 ritratti e altrettante citazioni dei relativi scrittori. La chiave della mostra è forse

la citazione di Antoine de Saint-Exupéry:

« Non bisogna imparare a scrivere ma a vedere. Scrivere è una conseguenza »

Leonardo Sciascia muore a Palermo il 20 novembre 1989.

“La Sicilia il suo cuore”

Nel 1952, esce l’unica raccolta di poesie che Sciascia abbia mai scritto: La Sicilia, il suo cuore,

illustrata con disegni dello scultore catanese Emilio Greco. I componimenti raccontano,

soprattutto, la Sicilia che lo scrittore vede, sente e conosce. Immagini nitide e amare che non

trascurano il senso di fugacità della vita, il moto perenne del tempo e la descrizione dei luoghi.

I versi sono rapidi ed incisivi. Evidentemente Sciascia ha già fatto sue le leggi della sintesi e

dell’essenzialità che, nelle opere a venire, manterrà immutate.

Di seguito riporto una poesia (che riporta lo stesso titolo del lobro) facente parte di questa

raccolta.

La Sicilia, il suo cuore

Come Chagall, vorrei cogliere (descrivere) questa terra

dentro l'immobile occhio del bue.

Non un lento carosello di immagini (un susseguirsi di immagini, come su una giostra)

una raggiera di nostalgie: soltanto

queste nuvole accagliate (condensate),

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i corvi che discendono (vengono giù) lenti;

e le stoppie(gambo dei cereali che resta radicato nel campo dopo il raccolto)bruciate,

i radi ( pochi…) alberi

che s'incidono come filigrane (marchi, lavori di oreficeria).

Un miope(limitato) specchio di pena, un greve (pesante,opprimente) destino

di piogge: tanto lontana è l'estate

che qui distese la sua calda nudità

squamosa (ruvida) di luce - e tanto diverso

l'annuncio dell'autunno,

senza le voci della vendemmia.

Il silenzio è vorace (avido) sulle cose.

S'incrina (si rompe,il silenzio finisce), se il flauto di canna

tenta vena di suono: e una fonda (profonda) paura dirama.

Gli antichi a questa luce non risero,

strozzata (ridotta) dalle nuvole, che geme (piange)

sui prati stenti, sui greti (parte del letto del fiume scoperto dall’acqua )aspri,

nell'occhio melmoso delle fonti;

le ninfe inseguite

qui non si nascosero agli dèi; gli alberi

non nutrirono frutti agli eroi.

Qui la Sicilia ascolta la sua vita.

Questa poesia da cui prende il titolo la raccolta è il ritratto dell'interno della Sicilia; del suo

cuore, appunto (la Sicilia delle zolfare)! Sciascia usa delle parole molto difficili e fa riferimenti

sia all’arte che, nell’ultima parte, alla mitologia classica. Dice che “Come Chagall”, allo stesso

modo di Chagall, vorrebbe riuscire a parlare, descrivere la nostra terra così com’è, con le sue

leggi dure ed aspre. Chagall è un pittore bielorusso, di cultura ebraica, vissuto nello stesso

periodo di Sciascia; usa colori molto forti e in quasi tutti i suoi dipinti compaiono animali

simbolici come il gallo o la capra. L’occhio del bue indica le leggi dure rigide che regolano la

nostra terra (nelle Sacre Scritture il bue è “animale mondo”, porta il giogo e quindi conosce la

legge), e queste leggi sono immobili, non cambiano (immobile occhio del bue)! Il fatto stesso

che sono immobili trasmette un senso di morte (ciò che è dinamico è vita, la staticità è spesso

espressione di morte). Sciascia continua poi col dire che “non un

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lento carosello di immagini…”, non vuole fare una lenta descrizione di immagini, e neppure di

ricordi… Sciascia vuole dire, vuole parlare della Sicilia così come è realmente, con “queste

nuvole accagliate…”, condensate (per nulla cariche di pioggia anzi… asciutte, “aride”), con

questi corvi che volano giù lenti (in pochi versi è già la seconda volta che Sciascia usa la parola

“lento”… espressione di staticità che ci richiama ancora una volta alla morte), con le stoppie

bruciate ed i pochi alberi che sembrano quasi dei timbri, dei marchi. La natura di cui parla

Sciascia è certamente una natura arida, secca, in cui pochi sono gli alberi che riescono a

crescere e nel paesaggio dominano le stoppie (i gambi dei cereali rimasti radicati nel campo

dopo il raccolto) bruciate. Le piogge appaiono lontane in questa terra; l’estate è “squamosa di

luce”… è un sole talmente forte e rovente da essere squamoso, ruvido mentre l’arrivo

dell’autunno è molto diverso dalle altre zone d’Italia perché a causa del fuoco, della siccità, del

sole rovente non sono cresciute le viti e quindi in autunno non si può neppure vendemmiare.

Su ogni cosa domina il silenzio. Questo silenzio viene spezzato solo se “il flauto di canna tenta

vena di suono…” il riferimento è sia concreto (quando soffia il vento le canne emettono un

rumore simile ad un suono) che mitologico (secondo la mitologia greca Pan, dio dei pastori e

delle greggi, dalle gambe e corna caprine con il busto di uomo, fu il creatore del “flauto di

canna”. Secondo la leggenda il dio si innamorò di una ninfa degli alberi, ma lei per scappare da

Pan si trasformò in un cespuglio di canne, il dio le tagliò, le unì e ci soffiò dentro, consolandosi

con la musica. Inoltre si narra che Pan non sopportava essere disturbato durante il riposo

pomeridiano e quando ciò accadeva emetteva urli così terrificanti da scatenare il panico… e

questo spiega al verso successivo perché “una fonda paura dirama”). Sciascia continua

dicendo che gli antichi non risero a questa luce, che non riscalda ma brucia una terra già arida

e secca; una luce ogni tanto ridotta dalle nuvole (nuvole, come abbiamo già detto, asciutte, per

nulla cariche di pioggia) che piange su prati secchi (“stenti” perché non bagnati mai dalla

pioggia), sui greti dei fiumi asciutti e nelle poche sorgenti melmose (la melma è la terra molle

nel fondo dei fiumi), le sorgenti cioè rimaste secche, senza acqua. Continua ancora dicendo

che qui le ninfe (nella mitologia greca le ninfe erano le semidivinità della natura spesso

inseguite nei boschi delle divinità o dai satiri. Anche i satiri erano figure mitiche che abitavano

i boschi rappresentati spesso col vino ed il flauto) non si nascosero agli dei e gli alberi non

diedero frutti agli eroi (abbiamo già detto che la natura è talmente ostile ed arida che pochi

sono gli alberi). In questo ambiente così duro, arido, secco “la Sicilia ascolta la sua vita”…

nonostante l’eterna sensazione di lentezza, staticità, morte, nonostante tutto la Sicilia ascolta,

sente la sua vita.

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Favole della dittatura

I ventisette brevi testi che compongono le “Favole della dittatura”, invece, rappresentano

l’esordio di Sciascia. Lo scrittore le pubblicò nel 1950: costituiscono la sua opera prima. Pier

Paolo Pasolini le recensì con un saggio apparso su “La libertà d’Italia” il 9 marzo 1951,

riproposto in chiusura del libro Adelphi. La “dittatura” delle “favole” è la dittatura fascista,

nello specifico, ma si potrebbe trattare di qualsiasi dittatura. Il riferimento più immediato che

salta alla mente, come sottolinea lo stesso Pasolini, è quello con le favole di Fedro.

La favola è un breve racconto caratteristico tanto della cultura occidentale quanto di quella

orientale; in essa agiscono per lo più personaggi animali, dietro i quali si celano altrettante

tipologie di comportamento umano.

Nella tradizione occidentale la favola si lega indissolubilmente al nome di Esopo, enigmatico

personaggio vissuto tra il VII ed il VI sec. a.C. al quale viene attribuita la codificazione del

genere, nonché la sua autonoma affermazione nel panorama letterario. Il nutrito corpus di

racconti ascritti a questa figura leggendaria viene successivamente rielaborato ed ampliato

da Fedro.

Di Fedro i codici ci hanno tramandato 93 favole. Protagonisti sono gli animali. Incarnano tipi

fissi, come le maschere della commedia, secondo un processo di umanizzazione elementare:

la volpe furba, il leone prepotente, il lupo malvagio e l’agnello mite. E tutti, ovviamente, sono

protagonisti di storie umane: storie di abusi e di soprusi, dove troppo spesso prevale la legge

del più forte. Come accadeva nella vita quotidiana di 2000 anni fa. E non solo. Alla fine, il

marchio distintivo del genere della favola: la morale.

“Duplex libelli dos est: quod risum movet/et quod prudenti vitam consilio monet”

Duplice è il pregio di questo libretto: muovere al riso e insegnare a vivere con saggi

ammaestramenti.

Gli animali non sono altro che una trasposizione, nemmeno tanto velata, degli uomini. Ne

incarnano i vizi, le aberrazioni, gli errori, le debolezze, i limiti. Ventisette brevissimi

componimenti, alcuni di poche righe, che con grande lucidità ed ironia, denunciano le atrocità

del regime fascista, la falsità, l’opportunismo, l’ipocrisia dei gerarchi e la timorosa

sottomissione di chi non riesce a ribellarsi all’oppressione dei prepotenti. Si ha la sensazione

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che Sciascia, che scrive la sue “Favole” a pochi anni di distanza dalla caduta del Fascismo,

voglia sottolineare come il regime si sia affermato non solo perché guidato da persone fin

troppo dispotiche ed aggressive, ma anche per via dell’atteggiamento di umile servilismo che

in molti hanno deciso di fare proprio, per paura o per costrizione, concorrendo al successo di

un sistema che li ha poi soggiogati, annientandoli. Come nella “favola” intitolata L’Anima:

“L’asino aveva una sensibilissima anima, trovava persino dei versi. Ma quando il padrone morì,

confidava: “Gli volevo bene: ogni sua bastonata mi creava una rima”. Oppure nella sferzante e

telegrafica “Il cane”: “Il cane abbaiava alla luna. Ma l’usignolo per tutta la notte tacque di

paura”. Testi fulminanti e lucidi che, in seguito, Sciascia considerò di scarsa qualità. Eppure

contengono, in embrione, alcuni dei suoi tratti letterari fondamentali, primo tra tutti la

denuncia oltre alla volontà di utilizzare le parole, la letteratura, come arma di battaglia sociale

o politica. Pasolini scrive: “Dieci anni fa queste favolette sarebbero servite unicamente a

mandare al confino il loro autore. Quanti italiani sarebbero stati in grado di capirle? Adesso, con

un fondo di amarezza tutta scontata, Sciascia condanna, nel ricordo, quei tempi di abiezione, e

proprio con un gusto della forma chiusa, fissa, quasi ermetica, insomma: che a quei tempi era

proprio uno dei rari modi di passiva resistenza”.

Probabilmente è proprio così: la “resistenza” di Sciascia al Fascismo si è concretizzata

attraverso queste ventisette “Favole”. Un modo riservato e raccolto, ma non per questo meno

convinto o valido, di opporsi al regime.

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IL NEOREALISMO

Concludiamo questo percorso letterario con due autori (nati entrambi nel 1922) che si

chiamano, per certi aspetti ed in alcune loro opere, all’ultima fase del neorealismo: Giuseppe

Fenoglio e Pierpaolo Pasolini.

Non è facile dare una definizione di Neorealismo, dal momento che non si tratta tanto di un

movimento culturale o di una corrente letteraria dal manifesto poetico ben definito o dalle

caratteristiche comuni (come per l'Ermetismo degli anni Trenta), quanto di una tendenza e di

un "clima" complessivo della cultura e della narrativa italiana che si sviluppò fra il 1940 ed

il 1950.

Italo Calvino, nella Prefazione del 1964 al suo romanzo d'esordio Il sentiero dei nidi di ragno,

spiega che il Neorealismo “non fu una scuola, ma un insieme di voci, in gran parte periferiche, una

molteplice scoperta delle diverse Italie, specialmente delle Italie fino allora più sconosciute dalla

letteratura”. Si può quindi parlare di un orientamento di diversi autori verso un rinnovamento

tematico, contenutistico e linguistico della letteratura e del "fare" letteratura. Questa esigenza di

cambiamento coincide del resto con il mutamento della situazione politica italiana, con il passaggio

dal fascismo alla repubblica, attraverso la drammatica esperienza del secondo conflitto mondiale e

della guerra di Liberazione (ricorda sempre Calvino: "L'essere usciti da un'esperienza - guerra,

guerra civile - che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un'immediatezza di comunicazione tra

lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno

aveva la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava le

parole di bocca").

La produzione neoralista - richiamandosi sin dal nome alle esperienze del realismo ottocentesco e

del verismo verghiano - si caratterizza per l'inedito tentativo di descrivere la realtà contemporanea

di un Paese di fronte a sconvolgimenti epocali; l'attenzione per il reale (e la riscoperta di piccoli

mondi regionali e locali, prima osteggiati dalla propaganda del regime) si unisce con l'intento di

testimonianza etica e civile attraverso lo strumento del romanzo e della narrazione. Questo

interesse per i localismi, evidente nelle ambientazioni di molte opere, si esprime innanzitutto nella

scelta di dialetti e forme linguistiche regionali per far parlare i propri personaggi. Spesso poi, la

trama e il mondo rappresentato riguardano eventi assai vicini a chi legge: gli eventi sono quelli

drammatici e cruenti dell’esperienza partigiana (cui partecipano direttamente molti scrittori

neorealisti) e della liberazione dal nazifascismo, oppure delle lotte operaie e contadine; la

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letteratura diventa così anche uno strumento di denuncia e, al tempo stesso di espressione di sé.

Come spiega sempre Calvino nella Prefazione del 1964:

[...] mai fu tanto chiaro che le storie che si raccontavano erano materiale grezzo: la carica esplosiva

di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o

informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita

che avevamo appreso allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in

quel momento sapevamo ed eravamo.

Due sono i romanzi che anticipano la stagione neorealista, pubblicati entrambi nel 1941:

Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini e Paesi tuoi di Cesare Pavese. Ma è dal 1943, con la

caduta del regime fascista, fino alla fine degli anni Quaranta che si realizza il periodo più fecondo

della scrittura neorealista: nel 1945 sempre Vittorini pubblica Uomini e no, scritto nel 1944 e

considerato il primo romanzo sulla Resistenza; nel 1947, invece, escono Il sentiero dei nidi di ragno

di Calvino, Il compagno di Pavese e Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini. In questi

romanzi, che pure presentano ciascuno una propria identità, si trovano alcuni tratti comuni: un

linguaggio, un'ambientazione e dei personaggi popolari; una funzione etico-morale della

narrazione; una narrazione di vicende di vita vissuta.

Dagli anni Cinquanta, si assiste al graduale superamento della poetica neorealista, che nel frattempo

si è estesa anche al cinema, con nomi quali Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti,

Cesare Zavattini, Giuseppe De Santis e Pietro Germi. Tuttavia possiamo ancora trovare autori ed

opere che si richiamano per certi aspetti a questo modello: Il partigiano Johnny (1968) di Beppe

Fenoglio ed alcuni romanzi di Pier Paolo Pasolini (Ragazzi di vita, 1955 e Una vita violenta, 1959).

GIUSEPPE FENOGLIO

Beppe (Giuseppe) Fenoglio nasce nella capitale economica delle Langhe, ad Alba (Cuneo), il 1

marzo 1922 da Amilcare e Margherita Faccenda. Frequenta il liceo; qui incontra due

insegnanti di gran valore: il professore di filosofia, Pietro Chiodi, e quello d’italiano, Leonardo

Cocito — entrambi antifascisti e partigiani combattenti. Agli anni del tanto amato liceo risale

la sua fortissima passione per la lingua e la letteratura inglese e americana: per James,

Lawrence, Conrad, Yeats, Coleridge, Shakespeare.

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In seguito s’iscrive alla Facoltà di Lettere di Torino, ma per la chiamata alle armi interrompe

gli studi universitari, senza mai più riuscire poi a conseguire la laurea. Nel 1943 frequenta un

corso per allievi ufficiali; quindi viene trasferito a Roma, da dove, dopo l’armistizio dell’8

settembre, riesce a tornare ad Alba. Qui si arruola tra i partigiani, prima in un gruppo

comunista, poi, nell’estate del ’44, in formazioni monarchiche, nei cosiddetti «azzurri» o

«badogliani», e precisamente nel reparto di Enrico Martini Mauri e di Piero Balbo. Negli ultimi

mesi di guerra è ufficiale di collegamento con la missione inglese di stanza nel Monferrato. Nel

corso della lotta armata sulle colline i suoi genitori vengono arrestati per rappresaglia dai

fascisti, ma poi rilasciati. Dopo la liberazione, ritorna — e per sempre — nella sua amatissima

Alba. Solamente nelle Langhe, Fenoglio, il gentleman-writer dal carattere duro e ostinato,

ritroso e selvatico, ritrova e riconosce intero se stesso e il mondo. S’impiega pertanto come

procuratore presso un’azienda vinicola, la ditta Marenco: lavoro che fino alla fine non vorrà

mai abbandonare. «Se andassi da un’altra parte — confessa a sua madre — non troverei più il

tempo per scrivere». Infatti, è proprio all’indomani della guerra che Fenoglio inizia a dedicarsi

alla narrativa. Molti dei suoi manoscritti sono vergati sul retro delle carte commerciali della

ditta. La sua vita si svolge così, tra gli affetti familiari — nel 1960 sposa Luciana Bombardi e

nel 1961 nasce la figlia Margherita — e il lavoro d’ufficio, la passione per lo sport e la

dedizione alla scrittura.

Il suo esordio letterario, tuttavia, non è affatto facile. Nel 1949 l’editore Einaudi rifiuta la sua

prima raccolta Racconti della guerra civile; e l’anno successivo Elio Vittorini, sempre per

Einaudi, gli consiglia di sacrificare il romanzo La paga del sabato per ricavarne due racconti.

Solamente nel 1952 Vittorini gli pubblica, nella collana di narrativa I gettoni, di Einaudi, la

raccolta di racconti I ventitre giorni della città di Alba. Poi, nel 1954, sempre nella stessa

collana, esce il romanzo breve, centrato sul mondo delle Langhe, La malora.

L’anno successivo viene pubblicata, sulla rivista «Itinerari» con il titolo La ballata del vecchio

marinaio, la traduzione di The Rime of the Ancient Mariner, di S.T. Coleridge, ristampata nel

1964 (e poi nel 1966) da Einaudi. Deluso dalla sfavorevole accoglienza della critica e dalle

riserve espresse da Vittorini su La malora, rompe con Einaudi e nel 1959 pubblica presso

Garzanti il romanzo Primavera di bellezza, per il quale nel ’60 gli viene assegnato il Premio

Prato.

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Nel 1962, inoltre, vince il Premio Alpi Apuane per il racconto Ma il mio amore è Paco, apparso

sul n.150 di «Paragone». E proprio in Versilia dove è andato a ritirare il premio, per la prima

volta, in modo acuto e allarmante si fa sentire il male che presto lo condurrà alla morte.

Nella notte tra il 17 e il 18 febbraio 1963 Fenoglio muore a Torino per un cancro ai polmoni.

Nello stesso 1963 viene edita, insieme con Una questione privata, la raccolta di racconti Un

giorno di fuoco, che ottiene il Premio Puccini-Senigallia. Lo stesso volume viene riedito nel

1965, ma con il titolo Una questione privata.

Postumi appaiono, inoltre, Frammenti di romanzo su «Cratilo» (luglio 1963), Aloysius Butor su

«45° Parallelo» (1964) e L’affare dell’anima su «Fenoglio inedito» (1968). Dai manoscritti,

raccolti ad Alba in un apposito Fondo Fenoglio — che tanti problemi filologici e critici hanno

sollevato — sono stati ricavati anche altri volumi: Il partigiano Johnny, vincitore del Premio

Prato (1968), e La paga del sabato (1969).

E ancora sono usciti Un Fenoglio alla prima guerra mondiale (1973), La voce nella tempesta

(1974), riduzione teatrale del romanzo di Emily Brontë, Wuthering Heights (Cime tempestose)

e Il vento nei salici (1982), traduzione di The Wind in the Willows, di Kenneth Grahame.

Nel 1978 è stata pubblicata, infine, presso l’editore Einaudi l’edizione critica delle sue Opere,

diretta da Maria Corti.

Concludiamo questo percorso con il romanzo di Fenoglio che esprime il sentire ed il patire

della Resistenza italiana (incompiuto e pubblicato postumo nel 1969); un romanzo che può

essere definito come “una delle rappresentazioni più originali e riuscite della Resistenza”: “Il

partigiano Johnny”.

“E nel momento in cui partì si sentì investito […] in nome dell’autentico popolo d’Italia, a

decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente

più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto”. Il protagonista è Johnny, il

partigiano Johnny.

Johnny è uno studente di Alba che aderisce alla Resistenza dopo l’8 settembre 1943 “Partì

verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel

vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale

dimensione umana”. Johnny vive la lotta come una scelta assoluta, “si sentiva come può

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sentirsi un prete cattolico in borghese od un militare in borghese: armi razionalmente celate

sotto il vestito, il segno era sempre su lui: partigiano in Aeternum”

E’ significativo che Johnny militi prima tra i partigiani Rossi (garibaldini) e poi tra gli Azzurri

(badogliani); la sua scelta non sembra essere ideologica, bensì esistenziale. Partecipa alla

liberazione della città di Alba, che viene però rioccupata dai fascisti. La situazione dei

partigiani peggiora anche per l’approssimarsi della stagione invernale. Dopo un improvviso

scontro con una pattuglia fascista, cui segue una precipitosa fuga, Johnny si trova solo, senza i

compagni Pierre e Ettore che crede morti. Egli, allora, si immagina e presagisce anche la

propria fine; insieme al timore, questo pensiero gli infonde un forte sentimento di orgoglio e

di coscienza del proprio compito di partigiano.

“Il crepuscolo nella valletta ispessiva, mentre il cielo sulle colline restava straordinariamente,

argenteamente chiaro, quasi una luminosa effusione delle stesse creste. Le desiderò

subitamente e marciò su verso di esse. A mezzacosta, quella superiore luminosità già

declinava, lasciando il posto a una cinerea effusione nella quale veleggiava immobile il disco

bianco del sole. Si sforzò e raggiunse la cresta. Da una sella ebbe una parziale visione della

città, accosciata in un’ansa del fiume, sotto la pressura di vapori e destino. Avrebbe ricevuto

ancora quella sera stessa la notizia della morte di Pierre ed Ettore, Johnny si immaginò il

serpente di quel funebre bisbiglio attraverso stanze gelide, disperati nascondigli, per la notte

desolata. E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui, ritto sull’ultima collina,

guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua

morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno. Scattò il capo e acuì lo sguardo come a

vedere più lontano e più profondo, la brama della città e la ripugnanza delle colline

l’afferrarono insieme e insieme lo squassarono, ma era come radicato per i piedi alle colline.

[…] Si mosse, camminò, non sapeva dove andasse, i suoi piedi lo portarono a Cascina della

Langa. E quando riconobbe contro il cielo nero il suo più nero sagomo, ne fu lieto e grato ai

suoi piedi e si disse che era proprio lì che desiderava arrivare. Grande era il cozzo del vento

nei rami dei grandi, vecchi alberi a prova di tempesta”

Anche l’amore, a cui inizialmente cede, appare ai suoi occhi un’inutile distrazione, un

tradimento della causa e la passione per Elda è solo passeggera. “Nel buio corridoio Johnny

conobbe Elda dal suo veleggiante fruscio e dal suo strano, amaro profumo, immediatamente

distintivo della sua personalità” Il suo mito è il comandante Nord che crede nella buona

guerra e sa incitare i compagni. Sul finire del romanzo, Johnny incontra un mugnaio che lo

ospita e lo invita a ritirarsi dalla guerra. Il mugnaio di Benevello porta i due morti ed il

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ragazzino al paese. Poi il mugnaio parla con Johnny, gli fa notare che è l'ultimo partigiano

rimasto su quelle colline e lo invita a nascondersi fino a guerra conclusa. Johnny rifiuta

l'invito, sicuro di voler continuare a combattere e a mantenere fino alla fine un impegno che,

prima di tutto, è con se stesso. “Tutto, anche la morsa del freddo, la furia del vento e la

voragine della notte, tutto concorse ad affondarlo in un sonoro orgoglio. - Io sono il passero

che non cascherà mai”. In seguito alla disfatta di Alba, Johnny andrà incontro alla morte in una

imboscata alla vigilia della Liberazione, per fedeltà verso i suoi vecchi compagni. “Johnny si

alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomatico. Due mesi dopo la guerra era finita”.

PIER PAROLO PASOLINI

A quarant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, così titola un articolo pubblicato nei giorni

scorsi su La Stampa di cui riporto la parte introduttiva: “nel 1972 Pasolini scrive che è la

morte a compiere un fulmineo montaggio della vita di ciascuno; è lei che sceglie i momenti

veramente significativi e li mette in successione, facendo del presente, incerto, indeciso, luogo

dei possibili, qualcosa di stabile, di chiaro, e dunque di descrivibile: ‘Solo grazie alla morte, la

nostra vita ci serve ad esprimerci’. Frase lapidaria che solo tre anni dopo suonerà come una

premonizione, per quello che oggi ci appare il più importante intellettuale italiano della

seconda metà del Novecento, lo scrittore più noto, forse il meno letto, tuttavia il più citato e il

più discusso. Perché? Per capirlo bisogna riavvolgere il nastro della sua esistenza, compiere

quel montaggio partendo dal luogo originario, Casarsa delle Delizie, paese da cui viene la

famiglia materna. Nel Friuli delle origini ci sono la madre, il mondo arcaico dei campi, la

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giovinezza, la lingua che precede ogni lingua, l’esistenza prenatale cui agogna. È il Paradiso

terreste. Da lì verrà cacciato”.

Pasolini nasce nel 1922 a Bologna. Primogenito di Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria, e

di Susanna Colussi, maestra elementare. Il padre, di vecchia famiglia ravennate, di cui ha

dissipato il patrimonio, sposa Susanna nel dicembre del 1921 a Casarsa. Dopodiche' gli sposi

si trasferiscono a Bologna.

Lo stesso Pasolini dirà di se stesso: "Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa

della societa' italiana: un vero prodotto dell'incrocio... Un prodotto dell'unita' d'Italia. Mio padre

discendeva da un'antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una

famiglia di contadini friulani che si sono a poco a poco innalzati, col tempo, alla condizione

piccolo-borghese. Dalla parte di mio nonno materno erano del ramo della distilleria. La madre di

mia madre era piemontese, cio' non le impedi' affatto di avere egualmente legami con la Sicilia e

la regione di Roma".

Nel 1925, a Belluno, nasce il secondogenito, Guido. Visti i numerosi spostamenti, l'unico punto

di riferimento della famiglia Pasolini rimane Casarsa. Pier Paolo vive con la madre un

rapporto di simbiosi. Nel 1928 è l'esordio poetico: Pier Paolo annota su un quadernetto una

serie di poesie accompagnate da disegni. Il quadernetto, a cui ne seguirono altri, andrà

perduto nel periodo bellico.

Negli anni del liceo dà vita ad un gruppo letterario per la discussione di poesie. Conclude gli

studi liceali e, a soli 17 anni si iscrive all'Università di Bologna, facoltà di lettere. Collabora a "Il

Setaccio", il periodico del GIL (Gioventù italiana del littorio) bolognese e in questo periodo

scrive poesie in friulano e in italiano, che saranno raccolte in un primo volume, "Poesie a

Casarsa". Partecipa inoltre alla realizzazione di un'altra rivista, "Stroligut", con altri amici

letterati friulani, con i quali crea l' "Academiuta di lenga frulana". L'uso del dialetto

rappresenta in qualche modo un tentativo di privare la Chiesa dell'egemonia culturale sulle

masse. Pasolini tenta appunto di portare anche a sinistra un approfondimento, in senso

dialettale, della cultura.

Scoppia la seconda guerra mondiale, periodo estremamente difficile per lui, come si intuisce

dalle sue lettere. Viene arruolato sotto le armi a Livorno, nel 1943 ma, all'indomani dell'8

settembre disobbedisce all'ordine di consegnare le armi ai tedeschi e fugge. Dopo vari

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spostamenti in Italia torna a Casarsa. La famiglia Pasolini decide di recarsi a Versuta luogo

meno esposto ai bombardamenti alleati e agli assedi tedeschi. Qui insegna ai ragazzi dei primi

anni del ginnasio. Ma l'avvenimento che segnerà quegli anni e' la morte del fratello Guido,

aggregatosi alla divisione partigiana "Osoppo". La morte di Guido avrà effetti devastanti per la

famiglia Pasolini, soprattutto per la madre, distrutta dal dolore. Il rapporto tra Pier Paolo e la

madre diviene così ancora più stretto, anche a causa del ritorno del padre dalla prigionia in

Kenia:

Nel 1945 Pasolini si laurea discutendo una tesi intitolata "Antologia della lirica pascoliniana e

si stabilisce definitivamente in Friuli. Qui trova lavoro come insegnante in una scuola media in

provincia di Udine.

In questi anni comincia la sua militanza politica. Nel 1947 si avvicina al PCI, cominciando la

collaborazione al settimanale del partito "Lotta e lavoro". Diventa segretario della sezione di

San Giovanni di Casarsa, ma non viene visto di buon occhio nel partito e, soprattutto, dagli

intellettuali comunisti friulani. Le ragioni del contrasto sono linguistiche. Gli intellettuali

"organici" scrivono servendosi della lingua del novecento, mentre Pasolini scrive con la lingua

del popolo senza fra l'altro cimentarsi per forza in soggetti politici. Agli occhi di molti tutto ciò

risulta inammissibile: molti comunisti vedono in lui un certo cosmopolitismo e un'eccessiva

attenzione per la cultura borghese. Questo, di fatto, è l'unico periodo in cui Pasolini si sia

impegnato attivamente nella lotta politica, anni in cui scriveva e disegnava manifesti di

denuncia contro il costituito potere demoscristiano. Il 15 ottobre del 1949 viene segnalato ai

Carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenne: è l'inizio di una delicata ed umiliante

trafila giudiziaria che cambierà per sempre la sua vita. Dopo questo processo molti altri ne

seguirono, ma è lecito pensare che se non vi fosse stato questo primo procedimento gli altri

non sarebbero seguiti. E' un periodo di contrapposizioni molto aspre tra la sinistra e la DC, e

Pasolini, per la sua posizione di intellettuale comunista e anticlericale rappresenta un

bersaglio ideale. La denuncia per i fatti del 1949 viene ripresa sia dalla destra che dalla

sinistra: prima ancora che si svolga il processo, il 26 ottobre 1949. Pasolini si trova proiettato

nel giro di qualche giorno in un baratro apparentemente senza uscita. Espulso dal PCI, perde il

posto di insegnante e si incrina momentaneamente il rapporto con la madre. Decide allora di

fuggire da Casarsa, dal suo Friuli spesso mitizzato e insieme alla madre si trasferisce a Roma.

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I primi anni romani sono difficilissimi, proiettato in una realtà del tutto nuova e inedita quale

quella delle borgate romane. Sono tempi d'insicurezza, di povertà, di solitudine. Pasolini,

piuttosto che chiedere aiuto ai letterati che conosce, cerca di trovarsi un lavoro da solo. Tenta

la strada del cinema, ottenendo la parte di generico a Cinecittà, fa il correttore di bozze e

vende i suoi libri nelle bancarelle rionali. Finalmente trova lavoro come insegnante in una

scuola di Ciampino. Sono gli anni in cui, nelle sue opere letterarie, trasferisce la mitizzazione

delle campagne friulane nella cornice disordinata della borgate romane, viste come centro

della storia, da cui prende spunto un doloroso processo di crescita. Nasce insomma il mito del

sottoproletariato romano. Prepara le antologie sulla poesia dialettale; collabora a "Paragone",

una rivista di Anna Banti e Roberto Longhi. Proprio su "Paragone", pubblica la prima versione

del primo capitolo di "Ragazzi di vita".

Angioletti lo chiama a far parte della sezione letteraria del giornale radio, accanto a Carlo

Emilio Gadda. Sono definitivamente alle spalle i difficili primi anni romani. Nel 1954

abbandona l'insegnamento e si stabilisce a Monteverde Vecchio. Pubblica il suo primo

importante volume di poesie dialettali: "La meglio gioventu'". Nel 1955 viene pubblicato da

Garzanti il romanzo "Ragazzi di vita", che ottiene un vasto successo, sia di critica che di lettori.

Il giudizio della cultura ufficiale della sinistra, e in particolare del PCI, è però in gran parte

negativo. Il libro viene definito intriso di "gusto morboso, dello sporco, dell'abbietto, dello

scomposto, del torbido..". La Presidenza del Consiglio (nella persona dell'allora ministro degli

interni, Tambroni) promuove un'azione giudiziaria contro Pasolini e Livio Garzanti. Il

processo da' luogo all'assoluzione "perche' il fatto non costituisce reato". Il libro, per un anno

tolto alle librerie, viene dissequestrato. Pasolini diventa però uno dei bersagli preferiti dai

giornali di cronaca nera; viene accusato di reati al limite del grottesco: favoreggiamento per

rissa e furto; rapina a mano armata ai danni di un bar limitrofo a un distributore di benzina a

S. Felice Circeo.

La passione per il cinema lo tiene comunque molto impegnato. Nel 195 collabora al film di

Fellini, "Le notti di Cabiria", stendendone i dialoghi nella parlata romana, poi firme

sceneggiature insieme a Bolognini, Rosi, Vancini e Lizzani, col quale esordisce come attore nel

film "Il gobbo" del 1960. In quegli anni collabora anche alla rivista "Officina" accanto a

Leonetti, Roversi, Fortini, Romano', Scalia. Nel 1957 pubblica i poemetti "Le ceneri di

Gramsci" per Garzanti e, l'anno successivo, per Longanesi, "L'usignolo della Chiesa cattolica".

Nel 1960 Garzanti pubblica i saggi "Passione e ideologia", e nel 1961 un altro volume in versi

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"La religione del mio tempo". Nel 1961 realizza il suo primo film da regista e soggettista,

"Accattone". Il film viene vietato ai minori di anni diciotto e suscita non poche polemiche alla

XXII mostra del cinema di Venezia. Nel 1962 dirige "Mamma Roma". Nel 1963 l'episodio "La

ricotta" (inserito nel film a più mani "RoGoPaG"), viene sequestrato e Pasolini e' imputato per

reato di vilipendio alla religione dello Stato. Nel '64 dirige "Il vangelo secondo Matteo"; nel '65

"Uccellacci e Uccellini"; nel '67 "Edipo re"; nel '68 "Teorema"; nel '69 "Porcile"; nel '70

"Medea"; tra il '70 e il '74 la triologia della vita, o del sesso, ovvero "Il Decameron", "I racconti

di Canterbury" e "Il fiore delle mille e una notte"; per concludere col suo ultimo "Salo' o le 120

giornate di Sodoma" nel 1975. Il cinema lo porta a intraprendere numerosi viaggi all'estero:

nel 1961 e', con Elsa Morante e Moravia, in India; nel 1962 in Sudan e Kenia; nel 1963 in

Ghana, Nigeria, Guinea, Israele e Giordania (da cui trarrà un documentario dal titolo

"Sopralluoghi in Palestina"). Nel 1966, in occasione della presentazione di "Accattone" e

"Mamma Roma" al festival di New York, compie il suo primo viaggio negli Stati Uniti; rimane

molto colpito, soprattutto da New York. Nel 1968 e' di nuovo in India per girare un

documentario. Nel 1970 torna in Africa: in Uganda e Tanzania, da cui trarrà il documentario

"Appunti per un'Orestiade africana". Nel 1972, presso Garzanti, pubblica i suoi interventi

critici, soprattutto di critica cinematografica, nel volume "Empirismo eretico".

Essendo ormai i pieni anni settanta, non bisogna dimenticare il clima che si respirava in quegli

anni, ossia quello della contestazione studentesca. Pasolini assume anche in questo caso una

posizione originale rispetto al resto della cultura di sinistra. Pur accettando e appoggiando le

motivazioni ideologiche degli studenti, ritiene in fondo che questi siano antropologicamente

dei borghesi destinati, in quanto tali, a fallire nelle loro aspirazioni rivoluzionarie.

Tornando ai fatti riguardanti la produzione artistica, nel 1968 ritira dalla competizione del

Premio Strega il suo romanzo "Teorema" e accetta di partecipare alla XXIX mostra del cinema

di Venezia solo dopo che, come gli viene garantito, non ci saranno votazioni e premiazioni.

Pasolini è tra i maggiori sostenitori dell'Associazione Autori Cinematografici che si batte per

ottenere l'autogestione della mostra. Il 4 settembre il film "Teorema" viene proiettato per la

critica in un clima arroventato. L'autore interviene alla proiezione del film per ribadire che il

film è presente alla Mostra solo per volontà del produttore ma, in quanto autore, prega i critici

di abbandonare la sala, richiesta che non viene minimamente rispettata. La conseguenza è che

Pasolini si rifiuta di partecipare alla tradizionale conferenza stampa, invitando i giornalisti nel

giardino di un albergo per parlare non del film, ma della situazione della Biennale. Nel 1972

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decide di collaborare con i giovani di Lotta Continua, ed insieme ad alcuni di loro, tra cui

Bonfanti e Fofi, firma il documentario 12 dicembre. Nel 1973 comincia la sua collaborazione al

"Corriere della sera", con interventi critici sui problemi del paese. Presso Garzanti, pubblica la

raccolta di interventi critici "Scritti corsari", e ripropone le poesia friulana in una forma del

tutto peculiare sotto il titolo di "La nuova gioventu'". La mattina del 2 novembre 1975, sul

litorale romane ad Ostia, in un campo incolto in via dell'idroscalo, una donna, Maria Teresa

Lollobrigida, scopre il cadavere di un uomo. Sarà Ninetto Davoli a riconoscere il corpo di Pier

Paolo Pasolini. Nella notte i carabinieri fermano un giovane, Giuseppe Pelosi, detto "Pino la

rana" alla guida di una Giulietta 2000 che risulterà di proprietà proprio di Pasolini. Il ragazzo,

interrogato dai carabinieri, e di fronte all'evidenza dei fatti, confessa l'omicidio. Il processo

che ne segue porta alla luce retroscena inquietanti. Si paventa da diverse parti il concorso di

altri nell'omicidio ma purtroppo non vi sarà arriverà mai ad accertare con chiarezza la

dinamica dell'omicidio. Piero Pelosi viene condannato, unico colpevole, per la morte di

Pasolini.

Le fasi letterarie

Le opere di Pier Paolo Pasolini, autore delle più svariate esperienze (dalla poesia alla

narrativa, dalla critica al cinema e al teatro) si possono suddividere in quattro periodi: il

primo periodo, quello del mito contadino, va dalle Poesie a Casarsa del 1942 fino all'ultima

parte dell'Usignolo della Chiesa Cattolica; il secondo periodo, del mito sottoproletario,

comprende con fasi diverse tutto il decennio degli anni cinquanta; il terzo periodo estende il

mito precedente al cinema integrandolo con il mito del Terzo mondo e il quarto periodo,

quello della crisi, dove non scrive più versi ma accentua la produzione critica e teorica sulla

lingua, la letteratura e il cinema. L'esordio poetico di Pasolini è nel dialetto di Casarsa luogo

amato dei suoi soggiorni estivi dove egli scopre la vita e la natura. Il dialetto di questa zona

occidentale del Friuli è un dialetto che il poeta usava nella vita quotidiana e senza alcuna

tradizione letteraria, era la lingua materna incontaminata ed estranea alle forme moderne che

veniva usata in quel piccolo idilliaco mondo. Pasolini individua nel dialetto la lingua intatta

dalle contaminazioni della letteratura e della vita borghese sulla quale può agire con una

spontanea sperimentazione che, a poco a poco, sarà sostenuta da idonei strumenti filologici-

linguistici.

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Poesie a Casarsa

« Fantassùt, al plòuf il sèil/ tai spolèrs dal to paìs,/tal to vis di rosa e mèil/ pluvisìn al nas il

mèis./....Fantassùt, al rit il Sèil/ tal barcòns dal to paìs,/tal to vis di sanc e fièl/ serenàt al mòur

il mèis. »

(Ploja tai cunfìnsda Poesie a Casarsa, Libreria Antiquaria Mario Landi, Bologna 1942)

« Giovinetto, piove il Cielo/ sui focolari del tuo paese, sul tuo viso di rosa e miele, nuvoloso

nasce il mese/....Giovinetto, ride il Cielo/ sui balconi del tuo paese,/sul tuo viso di sangue e

fiele,/rasserenato muore il mese »

(Pioggia sui confini, Poesie a Casarsa)

Le Poesie a Casarsa vengono pubblicate a Bologna nel 1942 e riscritte nel friulano istituzionale

per la pubblicazione del volume La meglio gioventù nel quale verranno raccolte con la

traduzione dello stesso autore in italiano. La cultura letteraria dell'autore è la poesia

provenzale di Peire Vidal, l'Ungaretti dalla parola essenziale, il Leopardi dal ritmo dolente e

gran parte della poesia francese, spagnola e catalana, da Verlaine a Mallarmé, da Jiménez a

Lorca e Machado

Consapevole della consunzione della lingua italiana del Novecento, Pasolini adotta la poesia

dialettale per recuperare il valore semantico e mitico della parola orale e non scritta

rappresentativa di una comunità che nel dialetto riconosce se stessa. Semplici paesaggi

friulani fanno da sfondo alle "Poesie a Casarsa" immersi in un'atmosfera struggente che rende

fragile la serenità di questo mondo arcaico sul quale incombe un presagio di morte e

corruzione. Si affiancano temi e simboli tipici della tradizione poetica decadente con la figura

centrale di Narciso come simbolo sospeso tra la serenità dell'infanzia, l'adolescenza e la morte

vista come l'unica possibilità per evitare la perdita nel mondo adulto dell'innocenza.

La meglio gioventù

« ...Jo i sarài ' ciamò zòvin/ cu na blusa clara/ e i dols ciavièj ch'a plòvin/ tal pòlvar

amàr./Sarài ' ciamò cialt/ e un frut curìnt pal sfalt/ clìpit dal viàl/ mi pojarà na man/ tal grin

di cristàl. »

(Il dì da la me muàrtda La meglio gioventù, Sansoni, Firenze 1954)

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« ...Io sarò ancora giovane,/ con una camicia chiara /e coi dolci capelli che piovono/ sull'amara

polvere./ Sarò ancora caldo/ e un fanciullo correndo per l'asfalto/ tiepido del viale, /mi

poserà una mano/ sul grembo di cristallo. »

(Il giorno della mia morte)

La meglio gioventù, pubblicata a Firenze dalla casa editrice Sansoni nel 1954, raccoglie la

maggior parte delle Poesie a Casarsa e tutte le altre poesie friulane di Pasolini coprendo un

arco di tempo che va dal 1939 al 1940 fino al 1953. Non sono comprese in questo volume

alcune poesie pubblicate sui volumetti dell'"Academiuta di lenga furlana" e altre poesie

disperse che saranno raccolte in seguito dalla Società filologica friulana a Udine nel 1965 con

il titolo Poesie dimenticate. Nella valutazione delle poesie friulane dal 1942 in poi è necessario

ricordare alcuni avvenimenti che hanno segnato la poetica pasoliana in questo arco di tempo.

Importante senza dubbio è la forte spinta istituzionale che la poetica friulana in generale

riceve dalla fondazione dell'Academiuta che rende chiari lo scopo e la ragione del suo utilizzo.

Si aggiunge a questo l'esperienza della resistenza che porta a recuperare il tema storico e

politico e soprattutto lo studio che Pasolini compie in quegli anni della poesia popolare e

dialettale in Italia. Da questo attento studio derivano all'autore gli strumenti linguistici

necessari che gli danno la possibilità di usare la lingua friulana sfruttando al massimo tutte le

sue potenzialità.

La poesia in lingua italiana

Tra il 1943 e il 1949, contemporaneamente alla poesia in lingua friulana, Pasolini affronta la

poesia in lingua italiana con una serie di scritti che verranno pubblicati solo nel 1958 in un

volume dal titolo L'Usignolo della Chiesa Cattolica.

L'Usignolo della Chiesa Cattolica

« (...male cose facendo davanti agli occhi del signore Dio nostro.) Sì, quegli Occhi...oh quanto/

mi hanno guardato./ Furono ciechi, chini,/ spalancati, ironici./Fui un povero evaso/ al lume di

quegli Occhi./ »

(Baruch, L'Usignolo della Chiesa Cattolica, Longanesi, Milano 1958)

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Attraverso la raccolta L'Usignolo della Chiesa Cattolica è possibile seguire il consolidarsi della

struttura psichica e ideologica di Pasolini. La raccolta presenta una grande varietà di forme e

di modi stilistici "affermando un bisogno di offrire tutto se stesso a un contesto, a un mondo di

valori collettivi". La religiosità particolare di Pasolini si manifesta nella raccolta attraverso un

percorso ideologico che va dalle suggestioni di una religione tradizionale, con i suoi valori e i

suoi riti condivisi, alla scoperta del marxismo che diventa esplicita nell'ultima poesia La

scoperta di Marx. Nei versi della raccolta si sente ancora l'influenza dell'ermetismo anche se

presto il poeta si muove in direzione di una poesia più attenta alle forme della realtà. Una

poesia che si allontana sempre di più dalla lirica novecentesca e si riallaccia al realismo

dell'Ottocento e guarda più da vicino al ritmo narrativo del Pascoli dei "Poemetti" per

giungere, solo più tardi, a certe seduzioni di autori amati, come Saba, Bertolucci, Caproni,

lontano in ogni caso dalla linea novecentesca.

Le ceneri di Gramsci

« Ah, noi che viviamo in una sola/ generazione/ vissuta qui, in queste terre ora/ umiliate, non

abbiamo nozione/ vera di chi è partecipe alla storia/ solo per orale, magica esperienza;/ e

vive puro, non oltre la memoria/ della generazione in cui presenza/ della vita è la sua vita

perentoria. »

(da Il Canto popolare, Le ceneri di Gramsci,Garzanti, Milano 1957)

Con Le ceneri di Gramsci, pubblicate nel 1957 da Garzanti, Pasolini presenta undici poemetti

quasi tutti scritti in terzine e sul modello di quelli del Pascoli pur nella grande libertà dei

singoli versi. I poemetti che formano la raccolta sono stati scritti tutti tra il 1951 e il 1956,

molti dei quali già pubblicati sparsi precedentemente. Protagonista delle Ceneri è la nuova

realtà storica del sottoproletariato romano che il poeta vuole rappresentare così come è,

perché la salvezza è quella di rimanere dentro a quell'inferno con la volontà di capirlo.

Pasolini sa che di quel popolo lo attrae non la sua millenaria lotta ma la sua allegria e

riconosce in se stesso una contraddizione, quella di amare un mondo che odia.

I poemetti del 1956 sono più ricchi di problematica storica e il tema centrale è l'alternarsi di

speranza e disperazione che alla fine, nel Pianto della scavatrice, diventa accettazione

dolorosa delle ferite provocate dai cambiamenti. Questa tematica produce continui mutamenti

di tono che passano da momenti di conversazione dimessa a lunghi discorsi di forte

eloquenza, descrizioni di una realtà più bassa che si alternano a squarci storici e mitici. La

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poetica delle Ceneri consiste nel proposito dichiarato dal poeta di riuscire a recuperare alla

poesia i caratteri logici, storici e razionali utilizzando strumenti linguistici prenovecenteschi.

La poesia come diario intellettuale

Nelle raccolte successive il poeta non analizza più le sue interne contraddizioni ma si fa carico

di motivi ideologici e polemici più chiari. Il poeta mette in risalto il carattere negativo della

storia con il degrado sempre più evidente del mondo politico e intellettuale e di quello della

stessa vita sociale italiana. La poesia diventa in questo caso una specie di diario che, in una

forma non ancora piana, cerca di esprimere tutti i motivi che Pasolini sente nascere dentro di

sé ma che non riesce ancora a sviluppare in un'esposizione saggistica. In queste ultime

raccolte l'impegno stilistico si allenta nella foga di dire tutte le proprie ragioni e sembra

trascurare la forma della propria poesia il cui uso è, in questo caso, solo ideologico proprio nel

momento in cui accusa, come dice il Berardinelli, "un aggressivo e ricattatorio ideologismo

poco attento al linguaggio"

La religione del mio tempo

« E non so più, ora, quale sia/ il problema. L'angoscia non è più/ segno di vittoria: il mondo

vola/ verso sue nuove gioventù,/ ogni strada è finita, anche la mia./...Negando il mondo, nego

le sue nuove ère,/ o provo per esse furia indiscriminata/vedendo contaminata/ ognuna d'esse

da un'ugual miseria. »

(da Al sole in La religione del mio tempo, Garzanti, 1961)

L'opera che esce nel 1961 da Garzanti comprende sei sezioni ed è organizzata in tre parti: La

ricchezza, A un ragazzo e La religione del mio tempo nella prima parte, Umiliato e offeso,

composto da epigrammi e Nuovi epigrammi nella seconda parte, mentre la sezione Poesie

incivili costituisce da sola la terza parte. Si sente in questa opera la crisi che impedisce a

Pasolini di continuare con l'organica costruttività razionale e storica che lo aveva guidato

nelle "Ceneri di Gramsci". Netta si affaccia la polemica contro il presente privo ormai di ogni

spirito religioso e il poemetto lascia spesso il posto all'epigramma e alla canzone indirizzata

per lo più a critici e dal taglio moralistico. Il piano stilistico ha minore rilevanza e gli strumenti

espressivi diventano più funzionali. Si avverte da una parte la necessità di revisione e

dall'altra una forma di distacco dal mondo del sottoproletariato. Il poeta ha preso pienamente

conoscenza del mondo borghese e consapevolezza della diversità da esso, diversità che è

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anche rifiuto delle istituzioni. Crolla anche la fiducia nel sottoproletariato e quindi anche

l'identificazione politica che Pasolini aveva con fatica raggiunto.

Poesia in forma di rosa

« Quanto a me/ho lasciato il mio posto/di soldato non assoldato, di non voluto/volontario:il

cinema, i viaggi, la vergogna.../Lo sapevo, lo sapevo già nel sogno:ma svegliandomi/mi son

trovato ai margini. Altri protagonisti sono entrati/non volontari essi!, e, partite le

rondini/sono loro a calcare il palcoscenico.... »

Poesia in forma di rosa, che esce, sempre da Garzanti, nel 1964 è composta da componimenti

che vanno dal '61 al '63, più un lungo poemetto in appendice intitolato Vittoria ed è la più

ampia delle raccolte di Pasolini.

In essa Pasolini afferma in modo ossessivo la delusione per gli sviluppi della vicenda politica e

intellettuale italiana e gli pare ormai inutile tutta la dialettica, piena di illusioni, degli anni

cinquanta. Il poeta, deluso e amareggiato, abiura quel mondo di ideali giovanili che ritiene

perduto per sempre. Nasce con questa raccolta il mito della "Nuova Preistoria" "quando la

Società ritornerà natura" dovuto alla delusione stessa della storia e dalla presa di coscienza

che "la Rivoluzione non è più che un sentimento" e a fondarla saranno i barbari, cioè le plebi

meridionali e del Terzo Mondo. La raccolta si presenta con una grande differenziazione sia

tecnica che linguistica nella metrica e nello stile. I poemetti in terzine, nei quali il poeta

esprime la volontà di costruire, si alternano alle sequenze di endecasillabi e ai versi tra le dieci

e le tredici sillabe senza divisioni strofiche ai quali si accostano brani di prosa ritmati. Ultimo

l'espediente della disposizione grafica che appare nella Seconda poesia in forma di rosa, dove

le parole sono disposte in modo da richiamare la forma di un petalo di rosa.

Trasumanar e organizzar

« Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza di libertà: un sistema stilistico è troppo

esclusivo. Adotto schemi letterari collaudati, per essere più libero. Naturalmente per ragioni

pratiche. »

Trasumanar e organizzar è l'ultima raccolta di versi di Pasolini. Uscita nel 1971 raccoglie le

poesie scritte durante la lavorazione di Medea e alcuni versi precedentemente pubblicati sulla

rivista "Nuovi Argomenti". Come in "Poesia in forma di rosa" la raccolta accumula poesie di

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vario tipo non organizzate lungo una linea tematica e stilistica. Con "Transumanar e

organizzar" si chiude un ciclo ben preciso; dalla certezza che è impossibile per l'uomo

adattarsi alla Società, alla convinzione che l'uomo non può vivere senza la Società. Nei versi di

questa raccolta Pasolini si lascia andare all'oratoria con una denuncia aggressiva che riguarda

la difficoltà di "trasumanar", cioè di uscire dalle condizioni umane date.

Pasolini scrittore

Se nella poesia Pasolini esprime il fondo più nascosto della propria presenza nel mondo, nella

narrativa egli entra nella realtà stessa per cogliere il senso concreto e le voci della vita

collettiva. Mentre narra, egli cerca di cogliere il nucleo primitivo delle cose e, appropriandosi

del valore di esse e delle persone, di entrare fisicamente in contatto con il mondo che ama e al

quale partecipa con infinita spontaneità. L'azione e la costruzione narrativa non sono per

Pasolini importanti, quello che conta è cercare di identificarsi con il mondo che rappresenta.

I racconti autobiografici

Amado mio

Per questo motivo i due racconti autobiografici della giovinezza, pubblicati postumi nel 1982

sotto il titolo Amado mio, sono tra le sue opere più sincere e vibranti. In esse si sente la

partecipazione commossa e completa di un mondo primigenio del quale egli scopre la

bellezza. Il primo racconto, Atti impuri, si presenta sotto forma di diario frammentario degli

avvenimenti tra il '46 e il '47 e in esso la diversità dell'autore, anche se velata da un lieve

senso di colpa, è ancora vissuta come trionfante innocenza. Il racconto Amado mio, il cui titolo

è stato suggerito da una canzone cantata dall'attrice Rita Hayworth nel film Gilda del 1946, è

scritto in terza persona e si svolge su uno sfondo più corale.

Il sogno di una cosa

Un'altra opera che contiene elementi autobiografici e che si collega al neorealismo, è il

romanzo scritto tra il 1948 e il 1949, che originariamente portava il titolo I giorni del lodo De

Gasperi, ma che fu pubblicato solamente nel 1962 con il titolo Il sogno di una cosa, titolo tratto

da una citazione di Marx. La tematica principale è quella dei contadini e della lotta. Nelle esili

storie che compongono il romanzo, viene rappresentata la vita dei giovani friulani con gli

ideali, le aspirazioni e le delusioni politiche provate alla fine della guerra. Il romanzo è scritto

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in un italiano uniforme ed è articolato con concretezza, i dialoghi hanno una forte oggettività e

le descrizioni del paesaggio infondono una malinconica eleganza.

I romanzi delle borgate romane

Con i romanzi che descrivono la vita delle borgate romane, la narrativa di Pasolini raggiunge i

risultati più originali. Tra questi vi è Alì dagli occhi azzurri, pubblicato nel 1965 e che

comprende tutti i bozzetti e i racconti che l'autore era andato raccogliendo durante gli anni

cinquanta e i primi anni del sessanta, che troveranno la loro sintesi nel romanzo Ragazzi di

vita del 1955 e Una vita violenta del 1959. Pasolini descrive affascinato il mondo che sta ai

margini della vita cittadina rappresentato da giovani vite che vivono tra piccole avventure,

giochi, atti teppistici, semplici occasioni di ogni giorno nel tentativo di soddisfare primari

bisogni. L'autore riesce così a cogliere, in quella umanità che possiede qualcosa di primitivo e

animalesco, una sorta di autenticità e bellezza. I romanzi, dal punto di vista narrativo, sono

assai semplici e costruiti attraverso un'attenta analisi linguistica che riesce a superare il

compromesso neorealistico tra lingua e dialetto. L'italiano di cui si serve la voce narrante è

schematico ed elementare, mentre il romanesco parlato dei personaggi è ricco di

deformazioni e stravolgimenti. Si sente in questi romanzi il rapporto di Pasolini con

l'esperienza di Carlo Emilio Gadda.

Ragazzi di vita

« Cominciava a schiarire. Sopra i tetti delle case si vedevano striscioni di nubi, sfregati e

pestati dal vento, che, lassù, doveva soffiare libero come aveva soffiato al principio del mondo.

In basso, invece, non faceva che cianciare qualche pezzo di manifesto penzolante dai muri o

alzare qualche carta, facendola strusciare contro il marciapiede scrostato o sui binari del tram.

Come le case si allargavano, in qualche piazza, su qualche cavalcavia, silenzioso come un

camposanto, in qualche terreno lottizzato dove non c'erano che cantieri con le armature alte

fino al quinto piano e praticelli zellosi, allora si scorgeva tutto il cielo. »

Ragazzi di vita, pubblicato nel 1955 ha un carattere sperimentale. Il romanzo è formato di otto

capitoli che raccontano le giornate di un gruppo di giovanissimi sottoproletari che, malgrado

la loro voglia di vivere, sono destinati alla prigione, alla prostituzione o alla morte precoce

tranne Riccetto, più che protagonista elemento che aggrega i numerosi personaggi, che trova

un lavoro e riesce ad integrarsi nella società consumistica. Il paesaggio tipico del romanzo è

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quello delle borgate ai margini di una periferia sporca e misera sul quale, tranne in alcuni

paesaggi notturni dal tono crepuscolare, spicca un sole ossessivo. Alcuni di questi paesaggi

sembrano anticipare certe caratteristiche del cinema di Pasolini, mentre altri elementi

avvicinano il romanzo al alcuni dei miti del periodo friulano. Il tema di spicco è quello di una

pura condizione dell'infanzia e dell'adolescenza contrapposta a quella corrotta del mondo

degli adulti.

Una vita violenta

« Io ho voluto descrivere, con la massima fedeltà e precisione possibile, una sezione del

mondo: un mondo penoso, atroce, malgrado la solare vitalità che lo pervade. Un mondo che va

modificato e recuperato. La strada per farlo è quella indicata in una Vita violenta, ossia la

coscienza politica di classe. Ciò esclude qualsiasi nostalgia di esso. »

Nel 1959 viene pubblicato il romanzo Una vita violenta che si basa invece sulle vicende di un

giovane che, dopo numerose gesta teppistiche, giunge ad una coscienza politica ma morirà per

un atto di eroismo. In questo romanzo si ha pertanto il ritorno dell'intreccio e del personaggio

protagonista che viene presentato come un eroe positivo. L'intento di Pasolini è quello di far

conoscere il percorso di vita di un ragazzo dall'inferno delle borgate verso la salvezza di una

coscienza politica, intento documentato da una dichiarazione da lui fatta nel 1959 in seguito

ad una inchiesta sul romanzo e pubblicata in "Nuovi Argomenti".

Alì dagli occhi azzurri

Alì dagli occhi azzurri esce nel 1965 e comprende tutti i lavori di Pasolini datati tra il 1950 e

l'anno della pubblicazione. In esso pertanto si possono individuare tutte le fasi precedenti, dal

primo incontro con Roma al nascere del mito del sottoproletario e alla sua crisi, fino alla

formazione del mito del Terzo Mondo e della Nuova Preistoria. Nel volume sono raccolti venti

brani di cui ben cinque appartengono al primo anno romano, il 1950, tre compiuti o iniziati

nel 1951 e cinque scritti dal 1961 in poi. Appartengono quindi all'opera i testi letterari che

corrispondono ai film omonimi di Accattone, Mamma Roma e La ricotta oltre al progetto di un

romanzo intitolato Il rio della grana, mai scritto, del quale rimangono poche pagine costituite

da appunti e schemi stilati tra il 1955 e il 1959. Dalla lettura dei cinque brani datati '50, che

sono più che altro degli studi di carattere sperimentale, si osserva inoltre come la scelta

stilistica non sia avvenuta con facilità ma come dietro ad essa ci sia stato uno studio profondo.

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Le sceneggiature

Pubblicate da Garzanti in volume sono le quattro sceneggiature corrispondenti a Il Vangelo

secondo Matteo del 1964, Uccellacci e uccellini del 1965, Edipo re del 1967 e Medea del 1970.

Uccellacci e uccellini e Medea sono particolarmente importanti perché permettono di

ricostruire tutto il retroterra culturale e letterario dell'opera cinematografica di Pasolini.

Il rapporto tra film e sceneggiatura e le numerose fasi della lavorazione vengono chiarite negli

appunti premessi a "Uccellacci e uccellini" sotto il titolo di Confessioni tecniche e nella accurata

documentazione delle varie fasi di "Medea" raccolte con il titolo Visioni della Medea

(trattamento). Queste ultime indicazioni sono già organizzate e numerate con tutte le

indicazioni tecniche del film da girare. Il volume riguardante la Medea raccoglie anche

l'intervista fatta alla Callas, che interpreta il film, oltre le poesie scritte dall'autore durante la

lavorazione del film stesso.

Il teatro

La produzione teatrale di Pasolini avviene contemporaneamente all'elaborazione di

"Teorema". Nel 1967 appare sul n. 7-8 di "Nuovi Argomenti" Piliade e nel 1969 sul n. 15

Affabulazione. Sempre su questa rivista era apparso nel '68 il Manifesto per un nuovo teatro

dove Pasolini sosteneva la necessità di un teatro libero da formalismi e ricco di contenuti, un

"teatro di parola" da opporsi al "teatro della Chiacchiera e al teatro del Gesto e dell'Urlo, che

sono ricondotti a una sostanziale unità:

1. dallo stesso pubblico (che il primo diverte, il secondo scandalizza);

2. dal comune odio per la parola (ipocrita il primo, irrazionalistico il secondo").

Questo teatro avrebbe dovuto rivolgersi alla classe operaia ed essendo "Teatro di Parola"

doveva scrivere testi nell'italiano scritto e letto ed essere un "rito culturale".

Il teatro, per Pasolini, doveva essere un teatro che, pur ponendosi dei problemi e dibattendo

delle idee, non doveva necessariamente proporre delle soluzioni.

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INDICE

ARGOMENTO PAGINA

Prima prova scritta Esami di Stato: tipologie 2

Saggio breve 7

Articolo di giornale 11

Curriculum Vitae Europeo 15

Introduzione percorso letterario 24

Giovanni Verga 24

Naturalismo e Verismo 39

Luigi Pirandello 50

Giuseppe Ungaretti 63

Ermetismo 73

Primo Levi 74

LeonardoSciascia 88

Neorealismo 98

Giuseppe Fenoglio 99

Pier Paolo Pasolini 103