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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA’ DI BOLOGNA FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione 3° Indirizzo: Esperto nei Processi Formativi ______________________________ “SELF-HELP”: UN VIAGGIO NELLA SALUTE MENTALE" Tesi di Laurea in: Pedagogia speciale Relatore Presentata da

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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA’ DI BOLOGNA

FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONECorso di Laurea in Scienze dell’Educazione

3° Indirizzo: Esperto nei Processi Formativi

______________________________

“SELF-HELP”: UN VIAGGIONELLA SALUTE MENTALE"

Tesi di Laurea in: Pedagogia speciale

Relatore Presentata da Prof. ANDREA CANEVARO MASSIMO COSTA

Sessione : Prima

Anno Accademico: 2002/03

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A mio padre, scomparso il 25 marzo di quest’anno.

Ringraziamenti

Non posso misconoscere l’influsso di molte persone che a vario titolo e in modi diversi, hanno contribuito alla realizzazione di questo lavoro. A partire dal relatore Andrea Canevaro, Luigi Guerra, Renzo De Stefani, Marcello Macario, Cesare D’Ecclesiis, Roberto Marchioro, Daniela Cantoni, Roberto Pezzano, Paolo Cassi, Mirco Moroni, Paolo Carta, Rita Cadonna, Alessandra Biancardi, all’ amico Gino per avermi ascoltato e incoraggiato, Fernanda, Daniela, Stefania, la mia compagna Sabrina, mia madre e mia sorella per aver creduto che tutto ciò un giorno si sarebbe realizzato, Manlio, Cristiano e i miei amici dell’autoaiuto.A tutti un grazie di cuore.

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INDICEINTRODUZIONE ……………………………………………………… PAG.

1 LA STORIA DEL SELF HELP PAG. 1.1 Dai primordi allo stato moderno PAG.1.2 La situazione in Italia PAG.1.3 Uno sguardo all’autoaiuto dentro la salute mentale PAG.

2 PERCHE’ L’AUTOAIUTO ? PAG.

2.1 Un viaggio dentro il bisogno del sociale PAG.2.1.1 Una premessa PAG.2.1.2 I gruppi di autoaiuto: una risorsa per la comunità PAG.2.1.3 Salute e malattia nella nostra società PAG.2.1.4 La società del capitale PAG.2.1.5 Dal capitale al digitale PAG.2.1.6 Riprendere la marcia dalle comunità locali PAG.2.2 Quali approcci teorici PAG.2.2.1 Per orientarsi PAG.2.2.2 La teoria della complessità: quadro di riferimento teorico PAG.2.2.3 La complessità e l’autoaiuto: alcune contaminazioni PAG.2.2.4 I gruppi d’incontro C. R. Rogers PAG.2.2.5 Cos’è la relazione d’aiuto PAG.2.2.6 Conclusioni provvisorie PAG.2.3 La crisi del welfare state PAG.2.3.1 Alcuni cenni preliminari PAG.2.3.2 Ancora sulla crisi del welfare state PAG.2.3.3 Il mercato sociale PAG.2.3.4 Brevemente: il Terzo Settore PAG.2.3.5 Una panoramica generale sull’autoaiuto PAG.

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3 COS’E’ L’AUTOAIUTO PAG.

3.1 In cerca di una definizione PAG.3.2 La teologia dell’alcoholics anonymous di Gregory Bateson PAG.3.2.1 Breve premessa PAG.3.2.2 La preghiera della serenità PAG.3.2.3 Alcuni fondamentali PAG.3.3 Descrizione analitica dell’autoaiuto PAG.3.3.1 Mettiamoci d’accordo sui termini PAG.3.3.2 C’era una volta …. PAG.3.3.3 L’autoaiuto oggi PAG.3.3.4 Lo sviluppo dell’autoaiuto PAG.3.3.5 Lo sviluppo dell’autoaiuto negli Stati Uniti PAG.3.3.6 Il gruppo a.m.a.: un esempio PAG.3.3.7 Cos’è la mutualità PAG.3.3.8 La mutualità come valore aggiunto PAG:3.3.9 Cosa s’intende per promozione della salute PAG.3.3.10 La Carta di Ottawa PAG.3.3.11 Migliorare la salute mentale PAG.3.3.12 I gruppi di auto mutuo aiuto (a.m.a.) in Italia PAG.3.3.13 Cosa sono i gruppi di auto mutuo aiuto PAG.3.3.14 I gruppi di auto muto aiuto nel campo del disagio psichico PAG.3.3.15 Chi attiva i gruppi di auto mutuo aiuto PAG.3.3.16 Come nascono i gruppi di auto mutuo aiuto PAG.3.3.17 Il ruolo del facilitatore PAG.3.3.18 La valutazione PAG.

4 AUTO AIUTO E SALUTE MENTALE PAG.

4.1 Una critica all’approccio psichiatrico tradizionale PAG.4.1.2 Breve premessa PAG.4.1.3 “ Le cure” PAG.4.1.4 Sulla 180; una legge di difficile applicazione PAG.4.1.5 Conclusioni provvisorie PAG.4.2 Uscire dalle cure psichiatriche PAG.4.2.1 Introduzione PAG.

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4.2.2 La storia di Ron Coleman a le “Parole ritrovate” PAG.4.3 Uno sguardo alla salute mentale di Parma PAG.4.3.1 Premessa PAG.4.3.2 Il Centro di Salute Mentale (C.S.M.) 24 Ore PAG.4.3.3 Ancora sul C.S.M. 24 Ore PAG.4.4 Il C.S.M. 24 Ore di S. Polo di Torrile PAG.4.4.1 Le funzioni PAG.4.4.2 Gli strumenti PAG.4.5 “Quelli che l’a.m.a.” PAG.4.5.1 Un'altra storia PAG.4.5.2 Registrazione di un incontro di autoaiuto PAG.4.5.3 Esperienze PAG.4.5.4 Schegge di autoaiuto PAG.

5 RIFLESSIONI CONCLUSIVE PAG.

6 BIBLIOGRAFIA PAG.

7 ALLEGATI PAG.

Trasformare i confini in soglieÈ l’impresa virtuosa di chi

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Fuori da ogni dentroSi mette in giocoE si prende giocoDi convenzioni e pregiudizi.

Dove e quando qualcuno fa spazio e tempoPerché l’AltroAbiti lo spazio e il tempo comuniDella libertà e della responsabilitàIl confine si trasforma in sogliaE il dappertutto nella casa di tutti.

Alex Langer

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INTRODUZIONE

La società in cui viviamo è una società dal malessere diffuso, dove sistema sanitario e medicina ufficiale hanno perso la prerogativa di curare, di promuovere la salute delle persone, incrementando per ragioni legate al bisogno di controllo, la riproduzione della società con le sue ingiustizie. La salute e la malattia, sono gestite da sistemi che utilizzano una logica che fomenta la quantità, il generale, l'indefinito. L’individuo non appartiene a sé stesso, è costretto a sottostare alle regole del sistema ( anche quelle implicite) e a conformarsi al modello sociale vigente. Il malessere diffuso nasce appunto dall’incapacità di percepirsi come persone autonome, liberi dai condizionamenti sociali e responsabili della propria vita.Questa situazione che in misura diversa riguarda tutti gli individui genera molto spesso ansia e frustrazione, disagio e malattia.La medicina ufficiale che in un certo qual modo dovrebbe farsi carico di questa situazione, si conforma invece alla logica del sistema sociale; e così ogni giorno siamo bombardati da messaggi in cui proliferano le “sane abitudini” di lunga vita uniformemente valide per tutti, i regimi dietetici universali, la pubblicità di luoghi incantevoli, suggerimenti pratici per la buona riuscita nel lavoro, della coppia, integratori per ogni evenienza, farmaci miracolosi.Salute e malattia vengono così considerate come qualsiasi altro elemento, che permette alla società di riprodursi e sono via via diventate nell’era della tecnica, un affare scientifico, artificiale, che non riguarda più l’uomo.

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«La banalizzazione della vita e della morte nell’approccio tecnologico ha portato a dimenticare il legame sacro che le congiunge e le separa; la morte diventa solo un fallimento della medicina e della conoscenza umana, ed è allontanata nelle sale d'anatomia patologica»1.

In questo panorama assai poco allettante, ho cercato di spiegare come l’autoaiuto, questo inconsueto approccio di cura, meglio di autocura, al disagio sociale e psichico, possa divenire sempre più una risorsa importante e irrinunciabile per i cittadini, ma anche per le istituzioni.Dopo aver in modo succinto ricostruito la storia del self help, rifacendomi ad autori come Mara Tognetti Bordogna, Phyllis Silverman e Luigi Colaianni, ho cercato di trovare delle connessioni fra teoria (anche se una teoria vera e propria del self help stenta ancora a “decollare”), bisogno di autoaiuto della comunità intera e crisi dello stato sociale. Tutto ciò riguarda la seconda parte di questo lavoro che ho chiamato “Perché l’autoaiuto”.Nella terza parte “Cos’è l’autoaiuto”, ho descritto analiticamente, riferendomi al modello di Alcolisti Anonimi, che a mio parere rimane l’esperienza più significativa a tutt’oggi di questa pratica e/o filosofia di vita, quali sono le caratteristiche e i principi fondamentali di questo nuovo orientamento.Nell’ultima sezione che ho chiamato “Autoaiuto e salute mentale” ho descritto, forse in modo poco comprensibile e un po’ caotico, a testimonianza comunque dell’esperienza ancora in corso, il gruppo di autoaiuto da me promosso e sponsorizzato, insieme ad

1 Colaianni L.,Un contributo per una revisione dell’idea di cura, www.servizisociali.com, sito web.

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alcuni utenti del Servizio di Salute Mentale, servizio, presso cui lavoro dal lontano 1987. Nelle conclusioni finali ho affrontato e sviluppato alcuni input e/o sollecitazioni, che questo tipo di ricerca mi ha stimolato in questo anno e mezzo di studio e esercizio di scrittura.

1. LA STORIA DEL SELF HELP

1.1 Dai primordi allo stato odierno

La storia dell’auto aiuto è abbastanza varia e complessa nonostante la letteratura sul tema concordi ormai tutta ad attribuire al russo P. Kropotkin (agli inizi del 900’) una prima teorizzazione di questa “filosofia pratica”. Nel suo Mutual Aid: A Factor in evolution, (1901) sottolineava che una caratteristica di questi gruppi fosse proprio la prassi dell’aiuto reciproco.Prendendo in considerazione un lungo periodo di tempo che va dalle formazioni primitive di gruppo ( se così si può dire) a quelle più compiute della società dell’ultimo 800’, Kropotkin mette in risalto come l’uomo, in modo naturale e funzionalmente alla propria sopravvivenza, tende ad unirsi agli altri e a fare gruppo, allora per far fronte alla difficoltà di procurarsi il cibo e soddisfare i suoi bisogni primari,( scaldarsi, difendersi dai nemici, ecc.)ai nostri tempi per imparare a fronteggiare le difficoltà, i problemi di ordine sociale e/o psicologico.

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Nel Medioevo, sempre secondo Kroptkin, i gruppi che con una espressione dei nostri giorni potremmo definire A.M.A. ( questo acronimo che sta per auto-mutuo-aiuto sarà meglio dipanato nel prosieguo del lavoro di ricerca, in quanto la letteratura da me consultata rivela qualche insidia a tal proposito. Infatti qualche autore evidenzia la differenza tra l’espressione classica self help e/o auto aiuto e quella più completa e confacente al nostro tempo di auto-mutuo-aiuto, sostenendo che le due espressioni appartengono rispettivamente a due periodi diversi e contigui) estesero il loro campo d’azione oltre l’ aiuto naturale legato alla sopravvivenza fisica.L’autore tende a rimarcare che in questo periodo storico come del resto anche in quelli successivi la cosiddetta pratica del mutuo aiuto era molto ridotta e limitata ai membri del gruppo; venivano esclusi gli stranieri e/o gli handicappati che potevano fruire soltanto di aiuti occasionali da parte di organizzazioni religiose.E’ soltanto con il processo di industrializzazione ed il conseguente incremento dei problemi ad esso connessi, problemi di ordine sociale, economico e sanitario, all’interno di un contesto più amplio ed inedito, con una popolazione sempre in crescita, che si sviluppano i concetti di assistenza reciproca, di solidarietà, basati sul mutuo aiuto.Dapprima in Inghilterra per poi pian piano espandersi ovunque, nacquero le Friendly Societies , ovvero piccoli gruppi di lavoratori in cerca di sostegno e con lo scopo comune di affrontare le difficoltà legate al “vivere quotidiano”.Nonostante la “nazionalizzazione” successiva di queste problematiche, ( lo stato comincia a farsi carico del benessere dei suoi cittadini) le società di sostegno

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continuano, in modo evidentemente conciato, ad operare e a programmare le loro attività, mantenendo legami di amicizia fra i propri membri.Nel XIX secolo oltre a queste forme associative si accostarono quelle delle cooperative di produzione e consumo ( lattai della Svizzera, società per azioni di Spagna, Francia, Portogallo, ecc.) presenti in tutta Europa, mentre negli Stati Uniti si sviluppano sempre a causa dei nuovi bisogni e squilibri provocati dal processo di industrializzazione le Trade Unions, vere e proprie aggregazioni di mutuo aiuto che si occupano non solo di questioni legate al mondo del lavoro, ma anche personali e familiari. Queste organizzazioni si impegnano a far fronte ai problemi della gente e costituiscono un valido supporto soprattutto nei periodi più duri ( malattia, disoccupazione, ecc.). Nel 1905 la Women’s trade Unions Ligue fondò a New York una scuola per donne lavoratrici.La grande depressione degli anni trenta determinò la nascita su base locale di molte istituzioni educative attraverso programmi fondati sull’aiuto reciproco e sull’impegno dei partecipanti, ovvero sul modello del mutuo aiuto.E’ in questo scenario politico-sociale che nasce nel 1935 negli Usa il gruppo più famoso di auto aiuto, Alcolisti Anonimi, dal quale a mio parere, si cominciano a definire in modo preciso quali debbano essere i principi di questo nuovo sistema e/o pratica di autocura.L’idea, i principi e le regole che guidano l’associazione sono mutuate dal movimento luterano dell’ Oxord group , gruppo religioso protestante , che aveva come fine principale la rinascita spirituale di tutta l’umanità e che guidato da Frank Bechman2, fonda la sua filosofia di vita 2 Tognetti M., Promuovere i gruppi di self help, Franco Angeli, Milano, 2002

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su principi spirituali e la ri-conquista di valori forti quali la condivisione dell’esperienza, l’onesta, la buona volontà, l’amore.La luce che permise la nascita del primo gruppo di alcolisti Anonimi ad Akron nell’ Ohio si accese nel 1935 durante una conversazione fra un agente di borsa di New York ed un medico della città.Qualche tempo prima l’agente di cambio si era liberato dalla dipendenza dell’alcol e trovatosi durante un viaggio d’affari a parlare con un altro alcolista, per l’appunto un medico di quella cittadina, gli portò il suo messaggio di sobrietà.S’accorse da subito che parlare della sua esperienza ad un alcolista ancora nel problema gli faceva bene ed era un buon modo per mantenersi lontano dalle vecchie abitudini.Dopo una notte passata a parlare di sbornie il dr. Bob, così si chiamava quel medico chirurgo, riuscì a smettere di bere e l’agente di borsa Bill, a conservare la sua sobrietà vacillante.

“Noi di Alcolisti Anonimi siamo un centinaio di uomini e di donne che sono usciti da uno stato fisico e mentale che sembrava senza speranza . Spiegare con precisione agli altri alcolisti come ci siamo recuperati, è lo scopo principale di questo libro”.

Così cominciava la breve prefazione alla prima edizione del 1939 del libro di Alcolisti Anonimi.In queste poche e semplici parole troviamo tutti “gli ingredienti” e le caratteristiche del moderno auto aiuto: il/i problema/i prima di essere affrontato viene condiviso, da persone che ne hanno avuto esperienza diretta, in modo che chi aiuta è a sua volta aiutato e viceversa.

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In questo periodo, che possiamo chiamare pionieristico, la grande stampa americana da risalto a questa “nuova tecnica” di autocura ed in poco tempo, gli alcolisti recuperati diventano più di 8000 (inizio del 1941) e l’associazione degli A.A. negli U.S.A. diventa un’istituzione nazionale.Negli stessi anni, sulla falsa riga di A.A. nascono l’associazione dei genitori dei bambini con handicap(“American Association of Retarded Children”) e il ( Recovery Inc.”), gruppi di familiari di pazienti psichiatrici3.Riguardo la salute mentale le prime esperienze spontanee d’auto aiuto risalgono ai club dei dimessi dai manicomi americani negli anni ’30, teorizzate in seguito da J. Bierer nel 1948, sotto la dizione di club socio-terapeutici.Dalla prima metà degli anni ’70 la filosofia dell’auto aiuto comincia a svilupparsi in molteplici direzioni. Nascono i primi gruppi e/o movimenti per i diritti civili, il movimento delle donne, ecc.All’interno di questo contesto molto variegato, in opposizione al tradizionale sistema psichiatrico istituzionale, cominciano ad affacciarsi i primi gruppi di self help costituiti da ex pazienti psichiatrici.Mentre si cercano strutture alternative ai manicomi, comincia pian piano a modificarsi l’approccio alla malattia mentale. Meno farmaci e più attenzione ai diritti dei malati e ai loro bisogni come persone.La depsichiatrizzazione è un po’ il leit motiv di questi anni, basti pensare alla grande lotta di Franco Basaglia culminata con la legge 180 del ‘78 sulla chiusura dei manicomi, peraltro mai attuata in modo definitivo.

3 ibidem, pag. 40

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Ma lo sviluppo dei gruppi di auto aiuto e più in generale correlata alla crisi dello stato sociale ed assistenziale: lo stato riesce sempre meno a far fronte ai bisogni dei cittadini vieppiù quando si ha la necessità di servizi particolaristici e personalizzati.In questo vuoto per così dire lasciatoci in eredità dallo Stato, le persone cominciano ad organizzarsi sviluppando forme di solidarietà sempre più rispondenti ai loro bisogni multiformi e dapprima nei paesi anglosassoni, poi anche nel nostro paese i gruppi di self help si espandono con una certa rilevanza.In Francia, Russia, Olanda, Polonia ecc., oltre che ai paesi in via di sviluppo sbocciano varie forme di solidarietà intorno alla questione salute, che possiamo definire realtà di auto aiuto “in fieri”.Anche in Italia, sebbene un po’ in ritardo rispetto agli altri paesi europei e agli Stati Uniti, nascono nei primi anni ’70 alcuni gruppi di auto aiuto quali ad es. Alcolisti Anonimi, I club degli alcolisti in trattamento, gruppi di diabetici, di neuropatici, di obesi.Nel nostro paese possiamo individuare diverse cause che spiegano il ritardo nello sviluppo del self help. Alcune di queste sono legate alla forte istituzionalizzazione della politica in quel periodo , oltre al fatto che l’auto aiuto, almeno nella fase iniziale, resta confinato e sconosciuto alla maggior parte delle persone. Non c’è ancora curiosità e gli operatori stessi faticano a riconoscere modelli epistemologici nuovi e pratiche che si discostano dai cosìdetti saperi forti. I gruppi dal canto loro faticano a diventare visibili in quanto per la maggior parte autogestiti e molto concentrati sulle attività interne al gruppo, poco attenti ai bisogni di interscambio fra dinamiche interne ed esterne.

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Dagli anni ’80 in poi, grazie al ruolo attivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Regione Europea, inizia a svilupparsi una complessa strategia di strumenti metodologici e di risorse a disposizione degli individui, atti a favorire una elevata qualità di vita e di migliorarne gli aspetti relativi alla salute.La salute viene sempre più intesa, come condizione di benessere fisico e mentale e viene presentata come “patrimonio” personale ma anche sociale, che pone l’accento sull’ importanza dei soggetti interessati ad essere più responsabili ed a partecipare attivamente alla costruzione del proprio stato di salute.I poteri organizzati devono favorire questi processi fornendo strumenti e risorse.Questi concetti, per il momento appena delineati, costituiscono l’impalcatura concettuale della Carta di Ottawa del 1986 nella quale si evince l’importanza del ruolo assegnato al personale dei servizi per la salute ed ai gruppi professionali e sociali, di : “mediatori per conciliare i differenti interessi della società a favore della salute”; in altre parole vengono riconosciute e legittimate le scelte, le decisioni degli individui relativamente all’ambito della salute personale, fisica e mentale, attraverso la diffusione di una logica di restituzione e stimolazione dell’empowerment delle conoscenze e delle competenze personali.“ Tutti ( l’individuo, i gruppi comunitari, i professionisti della sanità, le organizzazioni di cura e di governi) devono collaborare per instaurare un sistema di cura che contribuisca alla salute”[….]“ La salute è creata e vissuta nel quotidiano …..consiste nell’occuparsi di sé e degli altri ….prendere decisioni …

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essere padroni delle condizioni della propria esistenza, vegliando affinché la società crei le condizioni “4 .Questo contesto favorisce la crescita del self help, contribuisce a creare grande interesse intorno a questo “modello” , ancor più importante, contribuisce a realizzare quelle condizioni, quel clima, quel terreno fertile, dove solidarietà, integrazione e aiuto reciproco, cioè i valori del self help crescono “in salute e senza disturbo”.

1.2 La situazione attuale in Italia

A tutt’oggi si contano innumerevoli realtà di auto aiuto e diverse sono le tipologie e gli obiettivi dei gruppi stessi. Seguendo la traccia delineata da Mara Tognetti Bordogna, che nel suo ultimo libro”Promuovere i gruppi di self help” attraverso una ricerca svolta dal CRN e dalla Fondazione Italiana per il Volontariato, riporta ed evidenzia alcune tipologie di base dei gruppi di mutuo aiuto, abbiamo:

gruppi di auto aiuto in senso tradizionale del termine come ad esempio gli Alcolisti Anonimi, i C.A.T. (Club di Alcolisti in Trattamento),

gruppi con lo scopo di migliorare le condizioni dei suoi soci e dei loro familiari in evidente

4 O.M.S., La Carta di Ottawa per la promozione della Salute 1989, “Salute e territorio”, n. 64-65, 1989

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difficoltà, come ad esempio l’associazione dei bambini Down, l’associazione degli stomizzati

gruppi con finalità di prevenzione , ricerca-informazione.

Senza entrare troppo nel merito della ricerca ( in questi anni ne sono state effettuate veramente tante, sia per quel che riguarda il self help, sia per quel che riguarda le cosìdette associazioni ombrello ed il volontariato tout court), ribadendo che questo lavoro di ricostruzione storica è già stato effettuato da diversi autori, emergono dall’indagine alcuni dati tuttavia degni di menzione.Innanzitutto, si rileva che i gruppi locali di mutuo aiuto rappresentano in Italia circa il 15% di tutte le Associazioni locali di volontariato censite, nella banca dati del centro Nazionale per il Volontariato5 (sono 2730). Altro dato interessante della ricerca, riguarda come la presenza dei gruppi di self help sia proporzionale alla dimensione della città. Nei Comuni ad esempio con più di 500.000 abitanti la presenza di gruppi di self help è abbastanza consistente, circa 42 per ognuna delle cinque città maggiori.Si registra invece una concentrazione inferiore (8,9%) nei Comuni da 50.000 a 500.000 abitanti. Per quanto riguarda i Comuni con popolazione compresa tra i 5.000 e i 50.000 abitanti si rileva che la presenza dei gruppi di self help diminuisce significativamente.Nei Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti , tale presenza scende ulteriormente: 1 gruppo di auto aiuto per 19 Comuni appartenenti a tale classe.Ancora un dato interessante della ricerca, se si prende 5 Tognetti M.,Promuovere i gruppi di self help,op. cit., pag. 45

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in considerazione la distribuzione regionale dei gruppi di auto aiuto, riguarda il maggior sviluppo di servizi pubblici in quelle regioni dove il self help è più evoluto. L’area a maggior concentrazione di gruppi è quella del Nord Est italiano, nella fattispecie il Veneto seguito dalla Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Emilia Romagna e Toscana.Questo dato sembra essere un tratto caratteristico dell’auto aiuto italiano.Molte altre ricerche condotte in Italia negli anni ’90 ci danno conferma di una maggiore presenza di gruppi nelle regioni del Nord.

In una ricerca svolta dalla Fondazione Devoto6per conto del Ministero degli Affari Sociali si evince che il Self Help si sviluppa maggiormente laddove vi sono i servizi pubblici, ciò vale per tutto il terzo settore7.L’indagine evidenzia poi come il self help segua un percorso formativo tradizionale, legato sostanzialmente alla condivisione di un problema e dei vari modi per fronteggiarlo, evolvendo in seconda battuta verso forme organizzative più complesse e differenziate.Infine, i dati relativi ad una più elevata concentrazione di gruppi di self help in contesti metropolitani, va attribuita oltre alla presenza forte di servizi pubblici come già detto, alla maggiore esigenza di “visibilità” degli individui interessati, proprio in considerazione dell’estraneità che questi ambiti possono presentare. E’ il bisogno di appartenenza a farla da padrone.

6 Fondazione A. Devoto, Indagine conoscitiva sulle Associazioni di auto aiuto e di tutela della sa lute, 30.9.19997 Tognetti M., Lineamenti di Politica sociale, Angeli, Milano, 2002 (III ed.)

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Secondo poi una rilevazione svolta nel 1998 su auto denuncia (Noventa 1998, fare nota ) in Italia sarebbero presenti 4.000 gruppi di auto aiuto di cui:

3640 che si occupano di problemi legati al comportamento ( 3383 per persone e famiglie alcol correlate, 182 per persone e famiglie droga correlate, 70 per disturbi dell’alimentazione, 5 per i tabagismi),

181 che si occupano di problemi psicosociali ( 15 per persone depresse, 40 per disturbi dell’affettività, 17 per donne che hanno subito violenza, 7 per famiglie separate, 12 per famiglie affidatarie, 6 per minorenni e giovani, 30 per la salute mentale, 34 per persone HIV correlate, 20 per persone con problemi correlati all’area penale),

19 che si occupano di persone e/o famiglie con disabilità

78 che trattano malattie cronicizzati ( 3 per persone allergiche, 8 per persone con alzheimer, 1 per persone cardiopatiche, 11 per diabetici, 1 per persone con distrofia muscolare, 1 per persone epilettiche, 10 per persone con malattie ipofisarie, 2 per persone con sclerosi multipla, sistemica, laterale, amiotrofica, 2 per persone con psoriasi e malattie della pelle, 1 per parkinsoniani, 10 per malattie rare, 14 per persone trapiantate, 14 per persone affette da tumore

23 che si occupano di problemi relativi all’identità e alla emarginazione sociale ( 10 per persone omosessuali, 13 per persone senza fissa dimora)

Secondo una valutazione che comprende il periodo 1972-1998, in Italia i gruppi di auto aiuto organizzano

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circa 40.000 persone, sono coinvolte 40.000 famiglie e 120.000 persone . In questo lasso di tempo sono nati in media 154 gruppi per anno, 1 gruppo ogni 3 anni, con un incremento dal 7% al 30% : si sono svolti 200.000 incontri all’anno con 400.000 ore di attività; circa 400.000 persone della Comunità locale ogni anno sono state sensibilizzate; il 60% dei gruppi di auto aiuto utilizza un facilitatore esterno ( 2500 persone) e il 50% è localizzato nel Nord Italia.Il risparmio teorico annuo è calcolabile in 30 miliardi di vecchie lire; sono state formate complessivamente circa 10.000 persone di cui il 25% opera nei e con i gruppi.Evidentemente per loro stessa natura, oltre che per il loro buon funzionamento, i gruppi di auto aiuto sono di piccole dimensioni, gruppi informali di difficile individuazione. Gran parte di questi, contrariamente alle agenzie sociali, non hanno un ufficio, un telefono, ma solo un luogo dove le persone si incontrano liberamente e gratuitamente per condividere delle esperienze insieme.Se da un lato tutto ciò è funzionale ai principi dell’auto aiuto, dall’altro, nonostante la ricerca sopracitata ne evidenzi un incremento negli ultimi anni in svariati ambiti, la difficoltà di pubblicizzare e di promuovere il “pianeta” self help ( vedremo nel prosieguo di sviluppare meglio questo argomento) all’interno delle istituzioni, ne limita fortemente ( a mio parere) l’efficacia.

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1.3 Uno sguardo generale all’autoaiuto dentro la Salute Mentale

Solo da qualche anno si parla in Italia di auto aiuto per persone affette da disturbo mentale, mentre in America ed in alcuni paesi d’Europa già all’inizio degli anni ’70 nascevano i primi gruppi .Differenze di organizzazione territoriale, oltre a quelle più significative di carattere socioculturale, hanno per così dire condizionato e modellato le diverse tipologie di gruppo a seconda per l’appunto della diversa collocazione geografica. A parte comunque alcune differenze legate alla diversa cultura ed alla lingua, permangono numerose somiglianze e tratti comuni, a partire dal bisogno di appartenenza e di riconoscimento che viene comunemente definito come fratellanza.Le frequenti esperienze di ospedalizzazione e/o cure psichiatriche delle persone affette da disagio psichico, che all’entrata nel gruppo fungono da “collante” che unisce e sviluppa il senso di appartenenza delle persone coinvolte, si trasformano via via in risorsa e competenza per gli altri membri del gruppo, a volte per le istituzioni preposte all’ assistenza e alla cura.La capacità di proposta si aggiunge e si sostituisce a quella di opposizione8: si può parlare quindi di reali acquisizioni strategiche.Nel 1992 si costituisce con sede negli U.S.A. la rete mondiali degli utenti di psichiatria con delegazione presso la Federazione Mondiale della Salute Mentale.“L’agire locale e il pensare generale”9, la cura degli aspetti più individuali insieme al grande interesse per il 8 Pini P., Auto aiuto e salute mentale, in “Promuovere i gruppi di self help”, Franco Angeli, Milano 20029 ibidem, pag. 232

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confronto molto allargato di tipo internazionale e transculturale, rappresentano forse la forza maggiore dell’auto aiuto e una vera sfida a quanto si configura come rigida difesa di interessi particolari.Se si prende come riferimento gli Stati Uniti d’America non possiamo dimenticare i grandi movimenti di lotta degli anni ’70 per la conquista dei diritti delle minoranze oppresse.Sono gli anni della lotta contro il razzismo, delle battaglie delle donne per le pari opportunità sociali, della conquista dei diritti civili dei pazienti psichiatrici. Per quel che riguarda quest’ultimi, il clima anti-istituzionale di quegli anni, la psichiatria sociale, l’antipsichiatria10, a ragione o a torto, hanno promosso e divulgato idee nuove, stili di lavoro meno oppressivi, un modo di “trattare” con le persone più rispettoso. Questo nuovo modo di pensare alla malattia mentale e alle sue implicazioni , ha contribuito notevolmente a costituire il back ground, quel terreno sul quale prolifica e si sviluppano i sistemi di autocura.Tengo a precisare, in relazione al taglio di questo lavoro di ricerca sull’auto aiuto”, cioè quello di tracciare delle connessioni tra pratica, teoria, storia e bisogno sociale , che il riferimento ai movimenti di lotta sopracitati contro il mentalismo, sono puramente contingenti e privi di significato ideologico. Un buon modo a mio avviso per affrontare ed analizzare la complessa controversia relativa alla malattia mentale, gli strumenti e le risposte che le istituzioni mettono in campo per le persone che ne sono state colpite, è quello di non schierarsi pro o contro l’istituzione, ma di mantenere un atteggiamento equilibrato rivolto più a 10 Laing. R.D., Cooper D., Reason and violence: A decade of Sartre’s thought, Tavistock, London, 1964

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comprendere i bisogni individuali espressi, piuttosto che a presupporne valutazioni teoriche ed universalistiche.Le cose però a ben vedere non sono così semplici: ogni scelta adottata, decisione presa, sono comunque frutto di riflessioni personali, sociali, economiche e politiche.Quando la condizione di una persona portatrice di un disturbo mentale viene vissuta ( non sempre per fortuna) come un peso o addirittura come un pericolo sociale, non si è evidentemente sintonizzati con quei valori di solidarietà e di rispetto delle differenze, caratteristici dell’auto aiuto; invece di promuovere la responsabilità ed il protagonismo delle persone colpite dalla malattia, restituendo loro dignità ed un posto nella comunità, si accentuano le differenze e la separazione con l’isolamento ed i ricoveri nelle strutture protette. Da notare il paradosso: queste strutture nate per proteggere gli utenti del servizio di salute mentale dalla società( se mai ve ne fosse bisogno!!), in realtà “proteggono la società da queste persone.Negli anni ’80, anche l’Inghilterra muove i primi passi verso l’auto aiuto presentando elementi d’integrazione con i vari servizi . La più grande Associazione di Salute Mentale inglese, Mind, propone in quegli anni interventi alternativi a quelli “classici” del servizio pubblico, offrendo reali opportunità di scelta a tutti quegli utenti che avevano trovato degli stimoli positivi nell’auto aiuto. Anche in Italia, verso la fine degli anni ’80, alcune esperienze fiorentine si arricchiscono di nuovi contenuti al contatto con il movimento internazionale del Self Help. I convegni di Prato a partire dall’89 sono stati di stimolo e di riflessione su tutto il comparto organizzativo della Salute Mentale, ed hanno coinvolto oltre agli utenti interessati anche gli operatori dei

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servizi( a vari livelli di responsabilità) i familiari, il terzo settore.Nel 1993 viene fondata con sede legale a Prato l’Associazione Nazionale per la Salute Mentale su sollecitazione dell’ERC (European Regional Council)-WFNM che da tempo ne indicava la costituzione.11

Si lavorò molto allo statuto cercando di coinvolgere più persone possibile. Uno dei motivi, forse il principale, che ha spinto alla creazione dell’associazione è stato quello di far uscire da posizioni di privilegio gli operatori pubblici, a differenza degli utenti, pagati per le mansioni svolte.Un associazione dove tutti fossero volontari avrebbe arrecato maggiore chiarezza di rapporti e consentito ulteriori sviluppi nella relazione utenza-servizi.L’interesse crescente suscitato dalle nuove prospettive di rapporto con l’utente, che da soggetto da osservare diventa soggetto operante o addirittura collega, provoca un forte impatto sul modo usuale di concepire i rapporti terapeutici, riabilitativi ed assistenziali in senso lato.12 Alla costituzione dell’AISME altre realtà di auto aiuto partecipano con il loro contributo attivo.E’ il caso dei Cavalieri di San Giacomo gruppo di self help che muove i primi passi nell’estate del ’90 quando un gruppetto di volontari, alcuni utenti del Servizio Psichiatrico di Verona Sud ed il dr. Paolo Vanzini, dopo aver svolto alcuni allenamenti a scopo ludico, hanno cominciato a partecipare regolarmente ogni domenica, alle camminate non competitive organizzate dalla “ Unione Marciatori Veronesi”.13 11 Pini P. op. cit., pag. 23312 Pini P., Auto aiuto e salute Mentale:,Fondazione “ Istituto Andrea Devoto”, Firenze, 199413 Tesi di specialità di Vanzini P., L’esperienza dell’auto aiuto nel campo psicosociale a Verona, 1994/1995

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Dopo circa un anno, più di 50 persone sono in contatto con il gruppo e partecipano con una certa continuità alle varie attività svolte. Nel 1993 ha luogo a Trento il primo Convegno “ Le parole ritrovate” che mette assieme utenti psichiatrici, familiari, operatori, amministratori e cittadini, con l’idea appunto di darsi convegno.

“Non si tratta semplicemente di dare le parole a chi non l’ha sinora avuta, si tratta piuttosto di ritrovare assieme le parole…” 14

Fare assieme senza distinzioni di ruoli, ha permesso e permette tutt’ora,” di uscire dalle sacche della sofferenza disperata”, dell’impotenza o della delega insignificante. Questo è lo spirito delle Parole ritrovate, che da quel lontano 1993 di da convegno ogni anno Trento.Nel 1995, su iniziativa di alcuni operatori del privato sociale e di alcune persone frequentanti gruppi di auto mutuo aiuto, nasce a Trento l’associazione “A.M.A.”, con l’idea di collegare e sviluppare le diverse realtà esistenti sul territorio trentino ( C.A.T. club alcolisti in trattamento, gruppi per famiglie affidatarie, gruppi per familiari di persone con problemi psichici ed altri) e promuoverne delle nuove; si è cercato partendo da esperienze già collaudate di favorire la nascita di gruppi che si occupassero di problemi non ancora affrontati. L’associazione cresce e si sviluppa in fretta, producendo una reale risorsa di auto mutuo aiuto. Mentre i servizi convenzionali sono organizzati per erogare prestazioni dirette, l’A.M.A. si pone come supporto ed integrazione 14 Atti del Convegno, Le parole ritrovate. Culture e pratiche di condivisione nelle politiche di salute mentale. Esperienze a confronto, Trento, Ottobre 2000

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a questi ed è finalizzata a rendere possibile l’auto mutuo aiuto nella comunità.A tutt’oggi, soprattutto in riferimento all’ambito della salute mentale, una collaborazione forte tra Azienda Sanitaria e Comune di Trento, ha permesso di dare risposte chiare agli abitanti del comprensorio, in tema di protezione e promozione della salute mentale. Il progetto ”Amicittà”15 è una delle iniziative di questa collaborazione, il cui obiettivo è quello di migliorare le relazioni interpersonali nella città di Trento. Senza entrare nel dettaglio del progetto, mi preme sottolineare come questa iniziativa(Dicembre 2000), frutto di una collaborazione di più partners (istituzionali e non)sia stata costruita dentro la pratica del fare insieme, salvaguardando quei principi di partecipazione e condivisione tanto cari all’auto aiuto, confidando che il cambiamento è sempre possibile e presente in ogni esistenza umana, sana o sofferente che sia. …. tutto il resto è ancora storia dei nostri giorni ….

15 De Stefani R., Rafforzare l’azione della Comunità. Tre esempi di azioni per favorire la solidarietà sociale e la partecipazione della comunità alla promozione della salute, Punto Omega, Rivista quadrimestrale del Servizio Sanitario del Trentino, Anno III/2001, n. 5-6, Agosto 2001

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2. PERCHE’ L’AUTOAIUTO ?

2.1 Un viaggio dentro il bisogno del sociale

2.1.1 Una premessaLe società premoderne hanno fatto uso e abuso dei sistemi informali d’assistenza , basti pensare alle reti fondate su legami tra parenti, vicini, o in ogni caso, persone che avevano un grado di conoscenza e di confidenza tale, da permettersi un reciproco aiuto sia sul piano materiale sia su quello emotivo.Il sistema informale è composto da terapeuti naturali (natural helpers)16, i quali si differenziano dagli operatori del sistema formale in quanto non sono addestrati per dispensare aiuto, hanno semplicemente una relazione con la persona cui l’aiuto è rivolto.Con la modernità tuttavia questo tipo di sistema tende al declino: ivalori dell’individualismo, la crisi della famiglia patriarcale, lo sviluppo del lavoro femminile, l’eclissi della comunità basata sul vicinato portano ad una difficile svolta nel sostegno sociale. Una società fondata sul lavoro e sul mercato lascia poco spazio ai rapporti di parentela e di amicizia, il tempo “dell’uomo per l’uomo” è sempre più risicato e meno importante.. La nostra epoca fa dell'accelerazione del tempo e della sua velocizzazione il suo tratto tipico17 così che l'individuo non ha più punti di riferimento, si sente in balia degli eventi, non trova senso in un mondo in cui le cose sono solo in grado di fluidificarsi.16 Maguire L., Il lavoro sociale di rete. L’operatore sociale come mobilizzatore e coordinatore delle risorse informali della comunità, Erickson, Trento, 199517 Elias N., Saggio sul tempo, Il Mulino, Bologna, 1986

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Nella società premoderna a differenza della nostra, la figura dell’adulto prende su di sé il compito di educare, è colui che trasmette il sapere e l’amore per la vita, stimola la conoscenza, insegna ai giovani le norme di convivenza sociale, promuove la cultura della propria gente, tramanda le tradizioni. In questo contesto i valori di solidarietà, di sostegno ai membri della comunità e l'inclinazione all'aiuto sono tratti culturali caratteristici. La comunità , quindi, si presenta come una sorta d'autoaiuto allargato, una grande rete fondata sulla condivisione dei problemi di tutti i membri che ne fanno parte e sulla ricerca collettiva di soluzioni.Ma cos’è in parole povere una comunità? Tante sono le definizioni e tanti gli aspetti messi in rilievo dalla letteratura di riferimento. In virtù del lavoro di tesi che vado ad esporre, parlare di comunità significa in primo luogo poter parlare di vita.Nella comunità18 , non esiste la proprietà privata, la solidarietà è globale e spontanea, le credenze sono di tipo religioso, i membri sono scarsamente individualizzati, predominano gli interessi collettivi, così come la volontà comune.L’individuo ha un’identità perché vi appartiene, s’identifica in essa: è quello il suo posto e non ne esistono altri. Certo, non è libero, fa parte della comunità, però è un individuo “individuato”, non è virtuale, non è merce di scambio. La comunità è qualità e la sua forza consiste proprio nel fatto che i nuovi nati, sono educati al suo valore; contiene di per sé tutto ciò che è importante e che ha senso. Il grande salto evolutivo della comunità che ha portato 18 Gallino L., Dizionario di sociologia, Utet, Torino, 1993

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l’individuo ad essere materia che vive, però si interrompe per dare spazio ad un altro tipo di società, che lascia l’autonomia all’individuo.Tonnies19 denuncia il prevalere nella società industriale degli aspetti istituzionali a discapito della naturalezza e dell’immediatezza del legame comunitario. Con l’avvento della società borghese, comincia quella grande rivoluzione culturale che va via via modificando i valori della società, gli stili di vita degli individui, perfino i comportamenti quotidiani.Impossibile non fare credito agli studi di Durkheim.Durkheim20 conosce la comunità, come la società. Una società guidata dalla solidarietà meccanica rappresenta un modello (e/o forma) di tipo segmentato, ove la somiglianza è l’unico criterio di differenziazione. L’insieme delle credenze e dei sentimenti comuni dei membri che ne fanno parte, viene definita coscienza collettiva21 ed è quest’ultima che guida la solidarietà in questo tipo di società. Per l’Autore, il salto “evolutivo” è dato dalla divisione del lavoro: si passa da una forma di società dove la divisione del lavoro è nulla ad una dove è avanzata. La divisione del lavoro fonda un nuovo tipo di solidarietà, basata sulla interdipendenza degli individui. La coscienza collettiva decresce in favore dello sviluppo della coscienza individuale e la società segmentata lascia il posto ad una differenziata dove il legame tra soggetto e società , non è più dato dall’appartenenza bensì dall’attività svolta. Tutto diventa artificiale senza capacità di vita propria.

19 Tönnies F., Introduzione, a cura di Treves, R., in “Comunità e Società”, Comunità, Milano, 1971.20 Russo A., Letture sociologiche, (a cura di), Baresi, Bologna, 199521 Durkheim, E., La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano 1996.

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2.1.2 I gruppi di autoaiuto: una risorsa per la comunità

I gruppi di autoaiuto stanno assumendo all’interno della “realtà comunitaria” locale e non, un rilievo crescente. Svariate patologie, stati di disagio e problemi quotidiani, vengono sempre più affrontati dal basso, facendo leva sulle motivazioni, l’interesse e le esperienze delle persone direttamente coinvolte, piuttosto che sull’esclusiva presa in carico di professionisti e dell’istituzione. Tutti questi input di energia immessi dal basso hanno spesso comportato sviluppi impensabili per molte iniziative di cura.Infatti i gruppi di autoaiuto sono strumenti diretti nelle mani degli individui che vogliono concorrere in modo attivo al mantenimento della propria salute e/o al monitoraggio e alla cura della propria malattia.Il fenomeno è emergente e riflette una sorta di crisi dei modi con cui la salute e la malattia sono da sempre considerate e affrontate.I servizi sociosanitari sono un obiettivo privilegiato delle politiche di welfare state e delle politiche sociali che da sempre cercano di tutelare il benessere dei cittadini, punto cardine per ogni Stato democratico, il quale non può prescindere dal bisogno primario della qualità della vita, intesa come diritto sancito dalla legge di poter vivere in salute ed in pace.

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La centralità del tema, permette di mettere ancora più in evidenza le incapacità del sistema sanitario d’essere funzionale ai propri compiti.Si è soliti parlare di crisi del welfare per intendere come appunto lo Stato non sia più in grado di farsi carico dei bisogni di tutti i suoi cittadini.A tal proposito si possono individuare tre diversi modelli di welfare22 state:- il modello residuale ove lo Stato appunto interviene

solo quando necessario, soprattutto qualora il bisogno non riesce a trovare risposta altrimenti;

- il modello istituzionale in cui lo Stato ha un ruolo principalmente di bilanciamento degli effetti negativi del sistema economico;

- il modello totale ove lo Stato ha il compito di offrire uno standard minimo di benessere in quanto diritto ascritto di cittadino.

L’ideologia eccezionalistica intende la malattia come fatto straordinario, e come tale, gli interventi possono avvenire solo a posteriori in quanto la patologia che ha causato la malattia non è prevedibile. In sostanza, la malattia è vista come fatto individuale che colpisce il singolo .L’ideologia universalistica, detta anche delle cause sociali invece, considera la malattia come conseguenza di condizioni socioeconomiche inadeguate; è pertanto possibile prevenire e curare agendo sull’individuo ed il suo ambiente.La differenza tra le due è a ben vedere molto forte: se la prima accentua la malattia come condizione genetica dell’individuo, la seconda mette in risalto i fattori ambientali legati al tipo di società.22 Tognetti M., Politiche di self help, in : “Politiche sociali tra cambiamenti normativi e scenari futuri”, Mariani G., Tognetti M. (a cura di), Angeli, Milano, 1995

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Il tipo d’ideologia dominante scelta dallo Stato incide fortemente sui servizi di cura e di assistenza, sulle politiche sociali.L’ideologia eccezionalistica pone i medici specializzati come strumento di cura, quella universalistica invece, è senza dubbio più incline alla responsabilizzazione del soggetto e alla sua partecipazione attiva, al miglioramento del contesto in cui vive.Ma ciò che è ormai di dominio pubblico, è che i medici non possono risolvere tutto; le nuove conoscenze e le teorie quali ad esempio quella della complessità di Maturana e Varela mettono a nudo il paradigma scientifico come unico metodo di indagine, avviando l’utilizzo di procedimenti idiografici (più possibilisti) più consoni e più adatti a osservare i comportamenti dell’uomo.Per ovvie ragioni, alcune relative all’ambito di pertinenza di questo lavoro, altre legate “all’organizzazione” dei vari aspetti del lavoro proposto, non mi dilungherò in spiegazioni ulteriori, ma affronterò la questione in un paragrafo a parte. Qui basti il breve cenno di menzione. Seguendo Colaianni, si può pensare però di confrontare la cultura sanitaria dei sistemi d'assistenza con la cultura del self-help. Nella prima chi ha il problema è un paziente o un utente; si enfatizza la malattia, ciò che manca, le conoscenze specialistiche e, quindi, la tendenza a procedere per protocolli standard; il cambiamento è individuale. Nella cultura del self-help la persona porta risorse, si enfatizzano la salute, la fiducia(le qualità umane), i sentimenti e gli effetti concreti immediati. Improvvisare, adattarsi, raggiungere lo scopo, sono gli

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obbiettivi. Il cambiamento è nel rapporto tra persona e contesto23.Nel breve saggio”Per una ecologia dell’autoaiuto”24 ne descrive in maniera puntuale e sagace gli elementi peculiari. Dice:” Pensarsi parte di un sistema, di un sistema più grande di noi , che ci contiene e ci sostiene, rimanda alla percezione , ormai debole, delle connessioni ecosistemiche, ambientali, biologiche, politico, economiche, culturali che ci vincolano e tramite le quali vincoliamo le specie e il pianeta. Ritenere che la salvezza possa arrivare dall’esterno ci porta a non considerare la ricchezza di capacità e di risorse auto correttive che l’ecosistema possiede. Ogni sistema vivente è capace di riparazione e quanto più è complesso, tanto più la sua sorte è imprevedibile”25 Il mutuo aiuto comincia con l’autoaiuto, nel momento in cui la persona riconosce l’esistenza di un problema e si attiva in cerca di aiuto. Tutto ciò si verifica quando chi aiuta e chi viene aiutato condividono fatti, vissuti, emozioni di un medesimo problema . Le persone che frequentano un gruppo sono unite da uno stesso disagio, cercano da sé stessi di aiutarsi attivandosi in prima persona, nell’intento di fronteggiare al meglio le situazioni della propria esistenza , di umanizzarla attraverso la riduzione della distanza fra essa e la realtà dei bisogni, di accettarla in quanto vissuta in prima persona.

23 Colaianni, L., I gruppi d'autoaiuto: cosa sono?, www.servizisociali.com, sito web.24 Colaianni L., Per una ecologia dell’auto aiuto, in “I gruppi di auto aiuto”, Collana a cura di Animazione Sociale Università della Strada, Edizioni Gruppo Abele, Torino,1996 25 ibidem, pgg. 69, 70

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2.1.3Salute e malattia nella nostra società

La società postmoderna è un mare di paradossi26. Chi soffre viene “classificato” in base alla diagnosi compiuta e curato con le medicine, la tanto agognata pillolina miracolosa. E’ così che appare più evidente il limite della medicina tradizionale, sempre più orientata a “curare i sintomi” della malattia e non a prendersi cura della persona e del suo stato di salute. Infatti le cause più comuni di alcune malattie dell’uomo moderno( depressione, nevrosi, malattie di origine psicosomatica, ecc.) dipendono a volte dalla difficoltà di riconoscersi dei bisogni, bisogni che diventano improrogabili a causa di quel continuo martellamento psicologico operato dai media, dai comunicatori di professione, che ci propinano sempre quel modello di uomo vincente (ricco, bello e di successo), modello al quale, la maggior parte degli individui vorrebbe assomigliare ma che produce tanta frustrazione in quanto troppo distante dalla realtà quotidiana e dal vissuto della gente. E’ la società del mercato che provoca frammentazione e disgregazione. Gli individui non hanno più la percezione dell’unità e dell’autonomia. I concetti di salute e di malattia designati dalla medicina ufficiale, l’uno inteso come “normalità” l’altro come “devianza”, non sono più in linea con i bisogni reali dell’uomo d’oggi.Per la medicina ufficiale, l’uomo è un insieme di reazioni biochimiche prevedibili e “riparabili” con i farmaci, la

26 Un paradosso è una "cosa" che non può essere spiegata (per esempio l’enunciato: «Questo enunciato è falso» è irrisolvibile). Per capire il paradosso si deve ricorre a cose che non sono dette nell’enunciato; il paradosso spinge ad applicare nuove distinzioni in modo ricorsivo per essere spiegato (Si veda: Luhmann, N, Osservazioni sul moderno, Armando, Roma, 1995).

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chirurgia, quant’altro, vale a dire una sommatoria di dati e parametri quantitativi. «Le presunte "pillole della felicità" fanno rientrare l’individuo all’interno del sistema di riproduzione delle merci, un sistema che non conosce la vita e la storia dell’umano»27. Notare la palese contraddizione: da una parte la medicina in quanto sottosistema sociale riproduce la sua logica distorta, dall’altra in quanto scienza centrata sulla vita è costretta a confutare la sua stessa ragion d’esistere. In altre parole, mentre esercita il controllo sociale promuove la ricerca ed è sempre pronta per nuove sfide e proiettata su frontiere sconosciute. Salute e malattia vanno quindi rivisti e anche in funzione di una società che ha subito profondi mutamenti .La rivoluzione tecnologica nelle comunicazioni e la differenziazione funzionale28 hanno cambiato il modo di essere della società stessa e il rapporto con l’individuo; quest’ultimo è sempre più isolato e solo nella sua sofferenza. All’aumento spasmodico della tecnica, la salute degli individui diventa questione marginale, anziché essere un affare vitale e rientrare all’interno di una pianificazione degli organi governativi preposti a quel compito, viene sempre più considerata alla stregua di un bisogno individuale e come tale risolvibile dai singoli. In questa società, infatti, è importante che gli individui reggano il ritmo della vita moderna imposto dal quotidiano, malgrado il disagio molto diffuso, legato di sovente alle precarie condizioni di lavoro, a questioni legate alla difficoltà di trovare alloggio, quant’altro.27 Galimberti U., Platone ci dice chi sono i drogati, "La Repubblica", 23/04/99.28 Luhmann N., De Giorgi R., Teoria della società, Angeli, Milano, 1992.

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Nel momento in cui, la società sembra emanciparsi dalla comunità, diventa incapace di “proteggere” gli individui, producendo malessere , dissociazione e malattia nei più fragili. Tutto ciò ci viene spiegato con la teorizzazione della differenziazione sociale, del filosofo tedesco George Simmel, riconosciuto da tutti come il padre del pensiero moderno, che con le sue intuizioni getta le basi per la comprensione del sistema sociale postmoderno . A Simmel si deve la spiegazione dell’evoluzione societaria che ha comportato la creazione di cerchie sociali sempre più ristrette, quasi a diventare "su misura" per ciascun individuo, una nicchia personale data dall’appartenenza ad un gruppo. Ogni singolo può appartenere a più gruppi contemporaneamente, avere quindi più cerchie sociali. L’incrocio di queste cerchie sociali forma un sistema di coordinate che connotano il singolo in modo sempre più preciso all’aumentare dei gruppi ai quali appartiene. L’intersecazione delle cerchie sociali è dunque come una rete al centro della quale sta il soggetto. L’individuo entra in diversi ambiti senza riconoscersi totalmente in uno solo. In questo modo egli è svincolato dalle ascrizioni ma, d’altra parte, subisce la perdita dell’identità e la spersonalizzazione29. La teoria dei sistemi di Luhmann ci fornisce poi un quadro lucido e per certi versi spietato della società postmoderna. Il processo di differenziazione, teorizzato da Simmel, nella nostra epoca diventa estremo. La differenziazione è differenziazione funzionale dei sistemi che diventano autopoietici e autoreferenziali, secondo lo scopo del sistema stesso. Tutto ciò che non entra nel sistema si trova nell’ambiente e da questo il sistema prenderà 29 Simmel G., La differenziazione sociale, Laterza, Bari, 1982.

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solo ciò che serve alla sua riproduzione. Si può pensare al sistema, in generale, che ha subito ad opera dell’evoluzione la differenziazione in sottosistemi adatti a funzioni diverse (sottosistema dell’economia, sottosistema politico, sottosistema della famiglia, ecc.). Il sistema si crea dall’ambiente tramite una distinzione e proprio perpetuando questa distinzione in modo ricorsivo, esso mantiene la propria identità senza confondersi con l’ambiente. E’ quindi chiuso e produce da sé i propri elementi, anche se è solo con il rimando all’ambiente che esso può riprodursi. Il sistema poi è molto meno complesso dell’ambiente, cioè si crea per riduzione della complessità, stabilizzando la differenza tra interno ed esterno. Ogni sistema (o sottosistema) compie una specifica prestazione riduttiva.La società può essere compresa solo se concepita come sistema sociale tra gli altri, in particolare, la società è «quel sistema sociale che istituzionalizza le ultime basilari riduzioni»30. In tutto questo meccanismo l’apporto dell’uomo è escluso, è semplicemente ambiente del sistema. Non dipendono da lui le scelte che il sistema compie per riprodursi, le fa da sé, in base al suo codice guidato dal senso sistemico, un senso tecnico che attualizza una possibilità per lasciare sullo sfondo tutte le altre. I sistemi sociali, dice Luhmann, non consistono di uomini concreti ma da azioni identificate dal senso. Come dire: l’uomo non può nulla nei confronti del dilagare del sociale tecnico.

30 Luhmann N., in Habermas J. - Luhmann N., Teoria della società o tecnologie sociali, Etas Kompass, Milano, 1973.

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2.1.4 La società del capitale

La società capitalistica è fondata sull'economia monetaria e sul valore di scambio che porta tutte le cose ad essere merci. Merce significa che ogni cosa comprende implicitamente una differenza tra due valori, un valore d’uso ed un valore di scambio, a prima vista in conflitto fra loro. Il valore d’uso è la competenza di un prodotto di soddisfare i bisogni, è la qualità di un determinato bene, qualcosa di pratico e di concreto. Il valore di scambio rende i beni qualitativamente tutti uguali e quantitativamente tutti diversi, ogni cosa è cancellata dalla propria essenza, dalla storia, dalla cultura. Per essere scambiati i beni devono essere valutati e per essere valutati devono essere posti in rapporti numerici tra loro, cioè resi commensurabili. A tal proposito devono avere un denominatore comune, il denaro. In quanto valore di scambio, il denaro è anche merce per eccellenza, quindi ha anche un valore d’uso ed il conflitto di cui sopra, non esiste, perché il denaro è sia valore d’uso sia valore di scambio.Con il capitale tutto è reso merce, tutto, non solo i beni di produzione31; il capitale è generalizzazione, è 31 In un articolo apparso su "La Repubblica", Umberto Galimberti (Non usate l’infanzia, "La Repubblica", inserto "Donna" del 04/05/99), parla della cultura e dell’educazione dei bambini di oggi, troppo spesso resi strumenti del benessere presente e non intesi, a dispiacere, come uomini del futuro. I bambini diventano merci anzi, merci che producono merci. Cito da Galimberti: «Una volta che il mondo è guardato come merce, come prodotto, come materia prima, che è poi lo sguardo privilegiato del mercato, il bambino che nella comunità umana, a differenza di quella animale, dovrebbe essere il destinatario della trasmissione culturale, diventa, come tutte le merci, un anello della catena della produzione materiale». Se anche i bambini sono merci per la società di

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l’affermazione del sociale allo stato puro. Lo stato del capitalismo nasce per trasformazione della produzione. Il mondo rurale, il feudo, la manifattura artigianale, la corporazione vengono lentamente ma inesorabilmente superate. La separazione dei lavoratori dai mezzi di sussistenza è il presupposto, l’essenza del rapporto capitalistico. I capitalisti possiedono i mezzi di produzione e i lavoratori la forza lavoro. Nel momento in cui avviene questa separazione ha inizio l’era del capitale in quanto il lavoro non è più concreto e tutt’uno con i mezzi di sussistenza,le materie prime, ma mezzo per produrre ricchezza. Col passare del tempo all’interno di questo sistema di produzione si accumulano dei potenziali produttivi. L’unico vero fine diventa quello di aumentare il proprio capitale da investire e l’unico modo per farlo è il lavoro. Quest’ultimo, come qualsiasi altra merce, ha un valore, dato dal tempo socialmente necessario per produrlo. Il lavoratore libero è un lavoratore in generale, pronto a qualsiasi impiego della sua forza lavorativa. Una parte della giornata lavorativa è usata dal lavoratore per produrre i mezzi di sussistenza per sé stesso, che gli permettono la riproduzione della sua forza lavoro, l’altra parte della giornata lavorativa, lavora per un altro uomo, il capitalista.Lo scopo del capitalista è aumentare questa parte di lavoro e per farlo utilizza gli strumenti in suo possesso: da una parte cerca di prolungare la giornata lavorativa, dall’altra fa in modo che diminuisca il tempo di lavoro necessario per produrre un bene. Con l’introduzione della macchina e la divisione del lavoro, si compie quel processo che prende il nome di rivoluzione industriale, oggi, significa che anche da bambini si è elementi di riproduzione del sistema, senza apporto vitale.

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che porterà il “vecchio mondo” a cambiamenti strutturali, politici, economici, culturali e sociali, contrassegno indelebile della società moderna. La messa in valore del mondo delle cose fa crescere in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Si è compiuta la sottomissione reale e non solo formale del lavoro al capitale. Questo è il processo che porta Marx ad affermare che la proprietà privata32 e quindi la divisione del lavoro, che ne è la sua faccia speculare, è una conseguenza del processo d'alienazione. Nel valore di scambio c’è tutta la modernità, c’è tutta la spiegazione della dipendenza da qualcosa di esterno. Il sistema sociale è autonomo, si deve riprodurre, l’individuo diventa una sua funzione, ambiente del sociale che contribuisce alla sua riproduzione.La nuova società evanescente, è cosi che viene soprannominata, è una società ove le determinazioni sono provvisorie, dove tutto rientra nel codice della circolazione allargata del capitale finanziario, dove tutto è instabile. I mercati funzionano in tempo reale e su scala mondiale, dominano tempo e spazio, così da renderli concetti vuoti e relativi. Ma è su questo vuoto e su questo relativo che viene fondata l'esistenza degli individui, perché è con questo vuoto e relativo che gli individui hanno a che fare33. Il denaro, invade tutti i campi, anche quelli che un tempo gli sfuggivano, quali la cultura, anch'essa colonizzata dalle logiche economiche.La società passa da una differenziazione segmentaria, 32 Marx K., I manoscritti economico- filosofici del ’44, (in Opere filosofiche giovanili), coll. “I classici del pensiero”, Fabbri, Bologna, 1996, p. 96.

33 De Benoist A., Il denaro: sovrano, tiranno o nemico?, "Gazzetta di Parma", inserto "Sottosopra" del 23/09/99.

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quella della comunità, ad una stratificata quale la società borghese dell’avvento del capitalismo, ad una società differenziata funzionalmente34. Via libera all’informazione, sganciata dai referenti empirici, al posto del sapere. I supporti tecnologici di mediazione divengono sempre più indispensabili per la comunicazione, spostando il focus sul contenuto in sé e per sé. Emerge il singolo, esso non è più parte di una collettività, esso è singolo individuo. L’individuo diviene universale e astratto perché tolto dalle sue radici d’appartenenza. È la società del capitale che mistifica “l'umano”, riempiendolo di concetti, valori e principi, che intendono sbandierare l'uguaglianza degli individui, le pari opportunità, ma che producono soltanto omologazione e frustrazione. La società borghese apparentemente preoccupata di dare a tutti le stesse opportunità, in realtà contribuisce ad aumentare le differenze sociali35

confondendo l’individualismo con il diritto degli individui ad essere unici, ma non per questo diversi.

2.1.5 Dal Capitale al digitale Anche la società del capitale tramonta e dalla sua dissoluzione e dal “progresso del sociale” s’introduce 34 Luhmann N. - De Giorgi R., op. cit.35Morgagni E., Russo A., (a cura di), Letture di sociologia dell’educazione, Clueb, Bologna, 1996. Con particolare riferimento a Jencks.

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una ulteriore frattura nella percezione individuale tra il bios e il logos . Se la comunità è riproduzione del sociale nell’ordine della qualità, se il capitale è riproduzione del sociale nell’ordine della quantità, il “sociale emergente” si sostituisce alla vita e ai singoli individui.È l'ultima tappa dell'evoluzione sociale ed è quella dove il denaro rivela, inequivocabilmente, la sua vera essenza. «Che cos'è infatti il denaro? Molto più di un mezzo di scambio e di pagamento, è un equivalente generale ed universale, che permette di ricondurre tutte le qualità, tutte le differenze ad un unico significato calcolabile. È il segno dell'equivalenza generalizzata»36. Sono le stesse espressioni che Luhmann utilizza per dirci come non importi la sostanza degli elementi che permettono la riproduzione del sistema. Ogni selezione, ogni scelta non è vincolante, ciò che è non è attualizzato in un momento rimane sullo sfondo dei possibili per essere attualizzato, eventualmente, in un'operazione successiva. Per questo motivo Luhmann afferma che il caso non esiste perché ciò che chiamiamo caso altro non è che una possibilità non considerata.Il sociale è un sistema che deve far diventare tutto denaro e astrazione, per potersi riprodurre. De Benoist afferma, acidamente, «dopo la schiavitù e il salariato, siamo al brevetto delle catene genetiche o dei frammenti di DNA in vista di una commercializzazione potenziale del genoma umano»37.Il processo è ancora più visibile nella comunicazione che diventa uno scambio di merci dove parole e contenuti, fluttuano nel mercato indipendentemente 36 De Benoist A., cit.37 De Benoist A., cit.

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dall’emittente e dal mezzo di supporto .Nasce il digitale, proprio nel momento in cui il lavoro diviene una forza astratta, una merce di scambio. Ma cosa significa digitalizzare? Cos’è un processo di digitalizzazione? Una definizione tecnica può essere semplificata e compendiata così : quando due sistemi devono in qualche modo comunicare tra loro, ossia scambiarsi dati e informazioni, lavorando in modo diverso, si ha bisogno di opportune conversioni per far sì che i dati possano essere letti e trasferiti da un sistema all’altro.Digitalizzare significa approssimare con una funzione discreta un fenomeno rappresentato da una funzione continua, da segnali analogici continui a segnali digitali formati da "0" e "1"; significa, in altre parole, non usare il vero segnale elettronico presente nel filo, ma convertirlo in una indicazione comprensibile che si adegui al campione, formato esclusivamente da bit a valenza dicotomica, "0" o "1"(assenza o presenza di segnale). Questo processo crea oltre il significato del segnale una realtà costruita ad hoc, permette di comporre e ricomporre i bit, scomporre e ricomporre il segnale originario.Dalla qualità del messaggio analogico, si passa alla quantità del messaggio digitale in formato numerico; con la digitalizzazione le cose diventano semplici ma perdono le loro caratteristiche di specificità e unicità. La tecnologia digitale ormai dilagante nella nostra società, con i suoi strumenti sempre più sofisticati,( computer, palmari, cellulari a tecnologia wap, ecc.) ha aumentato vertiginosamente velocità e capacità d’informazione, al punto che paradossalmente, la troppa informazione ha prodotto un effetto contrario alle premesse, inibendo la capacità stessa di

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comunicare. “Pensare e fare” del digitale perforano la nostra vita quotidiana, entrano nelle relazioni sociali, quindi nella politica, nell’economia, nella scienza.La mercificazione della persona diventa un processo quotidiano: è la realtà delle cose e solo partendo da questa premessa si possono cercare spiegazioni e/o obiezioni.Ma come è stato possibile? Quali sono le vere ragioni di questa rivoluzione/involuzione? L'uomo è da sempre un essere relazionale; la vita sociale lo porta ad uscire da sé stesso per incontrare l’altro (basti pensare alla relazione individuo-mondo). Non può esistere solo l’individuo con la sua connaturata individualità, esiste quella persona nel mondo, esiste l’individuo che interagisce e si fa persona per entrare nel mondo38. Lo sfaldamento della comunità, con l’ingresso del capitale, porta ad un vuoto che viene immediatamente colmato dalla società capitalistica. Cambiano i modi, ma l’intento rimane sempre quello e cioè un luogo, meglio, un posto, in cui l’individuo possa rimanere ancorato alla sua vita senza “perdersi”. Per questo si è esseri relazionali39: si esce da sé stessi e si entra nel mondo e lì s’impara ad amare, a volere bene, ad emozionarsi. I sentimenti sono relazionali, come dire, ci vuole un oggetto per dire io amo, io voglio bene, io sento; se il mio amore non assume la forma della socialità, non posso amare. Fin tanto che la società, seppur nella forma del capitale, riesce a formare individui in grado di uscire da sé stessi senza “scollarsi”, in grado di mantenere saldo un legame tra mondo interno e mondo esterno, tutto si 38 Bertolini P., L’esistere pedagogico, La Nuova Italia, Firenze, 199839 Iori V., Lo spazio vissuto. Luoghi educativi e soggettività, La Nuova Italia, Firenze,1996

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riproduce e trova la sua legittimazione con il consenso degli individui. Quando però questi individui non trovano più posto nel mondo, non sanno più dove sbattere la testa, vengono ripetutamente misconosciuti perché quel mondo a cui si riferiscono, ha il solo scopo di rigenerare sé stesso senza alcun elemento vitale, allora non si dà forma alle relazioni. Solo se esiste solidarietà fra mente, corpo e cervello, si creano relazioni sociali: l’uomo che esce da sé e non trova il suo posto, soffre e si ammala. La nostra società postmoderna - funzionalista - differenziata – globalizzata, è arrivata a questo punto: non sa più riconoscere l’individuo, non ha più bisogno di lui, le importa solo riprodursi. Il moderno è realtà virtualizzata e la virtualizzazione del reale è la generalizzazione degli eventi, la perdita di materialità che caratterizza la nostra età postmoderna. Le cose perdono il loro valore materiale perché ciò che conta è soltanto il valore informazionale. Come ogni cosa, anche l’individuo subisce la virtualizzazione della realtà, diviene cioè ambiente con il quale il sociale può rigenerare la sua essenza. Se il sociale deve rendere tutto virtuale per potersi riprodurre, l’uomo non può certo pensare di sottrarsi al processo di riproduzione del sociale, bensì adattarsi alla sua evoluzione, esautorato dal mantenere vitale e concreto il legame tra interno e esterno, tra individuo e mondo, per consentire al sociale di perpetrare la sua vocazione di auto-riproduzione. Tutto ciò che incontra sulla sua strada diviene ambiente sul quale riprodursi, anche l’uomo che diventa inevitabilmente luogo di un sociale che si autogenera. L'evoluzione antropologica della società ha condotto il denaro a dematerializzarsi, «la carta di credito, la

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tessera bancaria, la telematica, appiattiscono il valore d'uso sul solo valore di scambio, e fanno dello scambio un fenomeno impalpabile, immateriale, che ormai può fare a meno di rappresentazioni concrete come la moneta, la banconota. Lo scambio monetario si trasforma così in semplice movimento di segni operato sul valore astratto»40. Ma dove ha imparato l’astrattizzazione il sociale? Cosa rimane dell’uomo in questo passaggio?In un articolo di Umberto Galimberti apparso su "La Repubblica"41 viene affrontato il tema di bioetica su come la scienza riesca a trasformare il corpo in organismo, rendendo la vita funzionale ai suoi organi.Cosa succede all’individuo quando si ammala? Galimberti argomenta così: «il corpo da potenza operativa nel mondo, da soggetto di intenzioni diventa, quando sono afferrato dalla malattia, oggetto intenzionato, ed io, che prima vivevo per il mondo, mi trovo improvvisamente a vivere per il mio corpo»42. Se la funzionalità organica viene confusa con il senso della vita, allora l’esistenza viene ridotta a “puro quantitativo biologico” nel quale non ci si può davvero riconoscere.Sempre su "La Repubblica"43 è apparso un articolo sul dibattito tra scienziati e filosofi, tenuto a Milano, sul rapporto mente e corpo. Hanno partecipato il linguista americano Noam Chomsky, lo scrittore e semeologo Umberto Eco, il biologo Edoardo Boncinelli e il filosofo Umberto Galimberti44. Chomsky riferisce in particolar modo sulle capacità 40 De Benoist A., cit.41 Galimberti U., Il vero limite della vita, "La Repubblica", 21/05/96, corsivo suo.42 Galimberti U., Il corpo, Feltrinelli, Milano, 198743 Pace G. M., Quanti misteri dentro la testa, "La Repubblica", 10/06/1999.44 Hanno partecipato anche il premio Nobel Rita Levi Montalcini e il cardinale Ersilio Tonini. Ha coordinato Massimo Piattelli Palmarini.

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creative umane e del linguaggio, suo campo di studio45.Eco ci dice che l’unico modo per osservare la mente è analizzare il linguaggio, e che essa è aggredita dal difetto e dall’eccesso d’informazione.Boncinelli riferisce dei progressi della scienza e come essa si stia avvicinando a comprendere «il gioiello dell’evoluzione biologica: la corteccia cerebrale»46. Ma il posto d’onore spetta a Galimberti che spiega, quando la scienza ha incominciato a studiare la biologia ha aperto il mondo interno dell’uomo. Ma la scienza progredisce sulla base della quantità e questo significa ridurre il corpo a organismo, a cosa. In questo modo il «corpo del mondo e della vita»47 scompare dal pensiero scientifico. La nascita della psichiatria e della psicologia dimostra come la medicina, che è quantitativa, non possa risolvere malattie che sono qualitative. «La medicina non riscontra nulla di quantitativamente anomalo in una persona con turbe psichiche. Per tutte le risposte che l’organismo non sa dare quando viene interpellato come corpo vivente è necessario costruire uno scenario alternativo, più spirituale, che chiamiamo psiche». L’unica etica che la scienza sa seguire, dice sempre Galimberti, è quella del «si deve fare tutto ciò che si può fare, si deve scoprire tutto ciò che si può scoprire», indipendentemente dagli esiti e dalla responsabilità di ciò che può accadere. Questa etica è in contraddizione con la nostra capacità 45 Noam Chomsky ha segnato il passaggio ad una nuova fase della psicolinguistica, sviluppando la sua teoria della linguistica generativo-trasformazionale. Il modello chomsckiano rappresenta la competenza linguistica come un insieme di regole di generazione e di interpretazione che permettono al parlante di accoppiare una serie infinita di suoni ad una serie infinita di significati. (Per il pensiero di N. Chomsky si può fare riferimento a Antinucci, F., - Castelfranchi C., Psicolinguistica, Il Mulino, Bologna, 1976).46 Boncinelli E., in Pace G. M., Quanti misteri dentro la testa, "La Repubblica", 10/06/1999.47 Galimberti U., in Pace G. M., cit.

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di metabolizzare le scoperte della scienza e di inserirle in un mondo che è a misura d’uomo.Anche il sociologo Morin sembra avere a cuore la questione, egli infatti afferma: «non c’è più malato, ma tanti pezzi malati48: fegato, cuore, polmone. Proprio l’etica impone di cambiare la medicina. Il medico che decide e prescrive, che si pronuncia con termini incomprensibili, assume un ruolo da "mago esoterico".

La società moderna si autodescrive: informazioni su informazioni, comunicazioni su comunicazioni. Luhmann è spietato ma impeccabile: i sistemi sono autoreferenziali e autopoietici, creano di per sé i propri elementi, di cui le comunicazioni sono gli ultimi irriducibilili. Lo scopo primario, come più volte detto, è quello di riprodursi attraverso la generazione di comunicazioni vieppiù virtuali, perché sganciate dal loro referente. La comunicazione si volatilizza dal supporto materiale e vaga solo per essere compresa in quanto tale. Le osservazioni di secondo ordine49 ci dicono che se qualcosa non è osservato, non esiste. Comprendere la comunicazione significa allora comunicare. Questa è la comunicazione in Luhmann e questa è la forma della riproduzione e della sopravvivenza del sistema.

48 Edgar Morin, sociologo francese, ha partecipato alla quattro giorni che Bologna ha dedicato a "Salute e Malattia", Simposio promosso dall’Associazione nazionale medici direzioni ospedaliere, tenuto nell’ex chiesa di S. Lucia. La sua posizione è apparsa sul "Corriere della Sera" del 28/10/98 in un articolo di Serena Zoli, Morin: «La medicina fa a pezzi l’uomo».49 Il costruttivismo radicale, i cui padri fondatori sono matematici come Von Foester e biologi come Maturana, intende per osservazioni di secondo ordine l’osservazione dell’osservazione. È un cambiamento forte di paradigma perché permette di comprendere nell’osservazione l’osservatore, esplicitando che ogni osservazione è sempre il punto di vista di chi osserva e che, quindi, non esistono scelte oggettive ma solo costruzioni in base alle proprie caratteristiche, conoscenze, scopi, ecc.

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2.1.6Riprendere la marcia dalle comunità locali

U no sguardo In questa prima parte ho cercato di descrivere in sintesi come si è evoluta la società nell’ultimo secolo e di come parallelamente, a mio avviso, si sono modificate le idee rispetto ai concetti di società, di uomo, di salute, concetto quest’ultimo che riguarda più da vicino l’argomento del mio lavoro di tesi. A proposito di salute abbiamo assistito ad un cambiamento “di rotta” passando da una idea di prevenzione della malattia, cavallo di battaglia della scienza medica e quindi dell’approccio clinico, ad una di promozione della salute, più in sintonia con il “mondo moderno” e i nuovi approcci teorici e metodologici delle scienze sociali: in breve, sono cambiati i bisogni dell’uomo.Alcune cose sono già state dette, altre verranno trattate dettagliatamente in seguito , nella sezione dedicata alla crisi del welfare state. In questo scritto, seguendo il “taglio relazionale” di P. Donati, intendo semplicemente ampliare l’ambito di comprensione dell’auto aiuto, le prospettive di un suo sviluppo, a partire dal quel “reticolato” di occasioni ed opportunità che il territorio attraverso le comunità locali, dovrebbe mettere a disposizione dei suoi abitanti, in forza della conoscenza specifica dei problemi e delle caratteristiche peculiari del proprio habitat.

Afferma Donati:” L’idea-base è che la cura dei problemi sociali deve essere fondata sulla Comunità come contesto il più

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possibile autonomo nella gestione di tali problemi.”50

La prima conseguenza che questo nuovo modo di concepire la politica sociale e la sua organizzazione ci induce è quella di ri- considerare la salute dei cittadini come un bene che non è dato a priori, ma può/deve essere costruito nel tempo con il contributo dei cittadini stessi e delle famiglie. La comunità è il luogo pubblico per antonomasia, dove le responsabilità degli individui che abitano e vivono in quel luogo e i loro problemi soggettivi, si interconnettono con la responsabilità collettiva della Comunità stessa, legata al mondo del lavoro, all’ istruzione, al funzionamento dei servizi sociali, ecc.Non è più sostenibile un modello “unico e per tutti” di politica sociale, avulso dai vissuti e dalle esperienze dei cittadini e da un loro coinvolgimento attivo, pena la ri-proposizione di servizi generici poco efficaci ed antieconomici. Per questo ed altri motivi, che nella trattazione verranno via via approfonditi, è necessario riprendere il cammino dalle comunità locali.Si è parlato molto di Comunity care e come sempre in questi casi si corre il rischio che diventi solo uno slogan di facciata, per legittimare in un certo qual modo l’assenza dello stato e/o il venir meno di responsabilità pubbliche collettive. In Europa come la letteratura in materia ci suggerisce, Comunity care designa tutte le forme organizzative, formali e non, che si occupano di welfare in un determinato contesto locale, a differenza degli Stati Uniti d’America, in cui s’intende con tale termine soltanto l’aiuto e le cure messe in atto da forme spontanee di gruppo, quali il gruppo famiglia, i gruppi 50 Donati P., Teoria relazionale della società, Franco Angeli, Milano, 1998

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amicali, l’autoaiuto.La “care” nel suo significato originario ed etimologico di “prendersi cura di” può essere letta in modo antitetico all’idea prettamente sanitaria di curare “produrre guarigione” 51.Questa distinzione è fondamentale in quanto al vecchio modo di considerare la salute e la malattia come concetti tra loro contrapposti, dove il primo esclude il secondo o viceversa, si propone un nuovo approccio non più volto ad “escludere la malattia” (alcune malattie non si possono guarire completamente), ma diretto ad apprendere come fronteggiarla. Nella nostra società le cosiddette cure informali rappresentano una emergenza congiunta all’aumento delle persone che necessitano di assistenza a lungo termine: oltre ad essere aumentata l’età media della vita delle persone grazie alle continue scoperte scientifiche e ad una rinnovata qualità della vita, molte delle malattie per le quali in passato si moriva, oggi sono diventate malattie croniche, che se affrontate in modo adeguato permettono a chi ne è colpito di sopravvivere per tempi molto lunghi. Le recenti politiche di comunity care sono state criticate da chi ha visto in questi orientamenti il venir meno la responsabilità dello stato nella tutela dei diritti di cittadinanza e il tentativo di delegare soprattutto alle donne il peso dell’assistenza e della famiglia.L’implementazione di tali politiche ha però avuto il pregio di evidenziare i diversi aspetti delle attività di cura , così da permettere una riflessione e una proposta, che permette di coniugare le esigenze di salvaguardia della propria sfera personale con gli interventi sostitutivi esterni, lenitivi e, possibilmente, 51 Bortoli B., Case management, “Lavoro sociale”, volume 1, n.2, aprile 2002

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testimoni di un interesse non strumentale52.La comunity care suggerisce K. Spencer53 dovrebbe essere concepita come modalità di formulazione, implementazione e verifica delle politiche sociali intese in senso lato, cioè come programmi comprensivi di Comunità.In altre parole oltre ad assolvere funzioni di tipo tecnico ed economico, le Comunity care hanno una valenza prettamente culturale e politica.Una garanzia contro il rischio che queste politiche vengano sfruttate dai governi per scaricare ai cittadini e alle famiglie le responsabilità dei costi sociali, è proprio quella di costituire organizzazioni autonome intermedie54 sia a livello regionale, che nazionale ed europeo.Queste organizzazioni che nascono in seguito alla crisi del welfare state si dimostrano più attente ai bisogni reali della gente e quindi più capaci di ottenere sostegno e cooperazione da coloro che servono direttamente. Gli individui si relazionano fra loro e in tal modo soddisfano dei bisogni garantiti dalla relazione stessa: bisogno di essere compresi, di appartenere, di socializzare, ecc.L’incrocio tra diversi tipi di cura informale come il sostegno psicologico, l’accudimento fisico, ecc. e le risorse relazionali (educazione, integrazione sociale, autostima ) ci forniscono le chiavi di lettura della care in un quadro sistematico che ne mette in rilievo la complessità, sia sul versante “delle cause”, sia su quello degli effetti sul benessere. 52 DHSSI, in Lavoro sociale, 1991, vol. 1, n.2, pag. 13153Donati P., op. cit., pag. 450 54 Donati P., op. cit. pag.466

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2.2 Quali approcci teorici

Come già accennato nel paragrafo introduttivo le ragioni principali, per cui risulta a mio avviso, di fondamentale importanza l’auto aiuto sono essenzialmente tre:la prima riguarda senza ombra di dubbio il vuoto che la società postmoderna tutta incentrata sui valori del denaro e del mercato ha lasciato negli individui, vuoto che si traduce nei soggetti più deboli in disagio sociale, depressione, nevrosi.L’Organizzazione Mondiale della Sanità a tale riguardo , sta sviluppando una complessa strategia, degli strumenti metodologici al fine di aumentare la qualità della vita e di migliorarne la salute individuale, familiare, collettiva.La salute, intesa come condizione di benessere fisico, mentale, sociale, è proposta come idea irrinunciabile della vita degli individui.In particolare, gli stili di vita personali e comunitari, sono i contesti in cui la salute può esprimersi o ridursi, ed è tramite il coinvolgimento delle persone , delle famiglie e dei leader della comunità locale che tali fattori possono migliorare.La seconda ragione, interconnessa alla prima, riguarda la crisi dello stato assistenziale ovvero l’impossibilità dello Stato moderno di farsi carico interamente della salute dei cittadini( molti i problemi, in parte legati al diminuzione delle nascite nei paesi occidentali, quindi alla impossibilità di pagare le pensioni, fornire servizi gratuiti adeguati ecc., in parte legati allo sviluppo indomito del mercato e della tecnologia, non più al servizio dell’uomo ma al contrario che si serve dell’uomo per produrre ricchezza). Inevitabile la crisi del

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welfare state e del modello sociale imperniato sul mercato che fa diventare i ricchi sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri.Della crisi dello stato sociale e di come l’auto aiuto sia una valida alternativa sarà argomento del prossimo paragrafo.La terza ragione, per certi versi la più nobile delle tre, risponde perfettamente alle nuove idee di scienza e di uomo. Sarà proprio questo l’argomento trattato di seguito.

2.2.1 Per orientarsi

Per molto tempo filosofi, scienziati e intellettuali, seguendo il cliché della scienza come verità univoca e totalizzante, hanno cercato di spiegare i fenomeni in modo completamente oggettivo, senza prevedere i difetti e le limitazioni dovute agli strumenti delle osservazioni.In questo modo il saper umano sarebbe dovuto crescere progressivamente e la conoscenza diventare sempre più completa ed esaustiva.Con la rivoluzione epistemologica degli anni ’80 però, i progressi della fisica e lo sviluppo della teoria dei sistemi prima, delle teorie dell’auto-organizzazione e dell’autopoiesi poi, i concetti di sistema e di complessità hanno gradualmente preso piede nei paradigmi scientifici contemporanei, ponendo in evidenza i limiti

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dell’oggettività e la hibris insita nel concetto di onniscienza.55

Si è cominciato a concepire il tempo come luogo di costruzione e la scienza ha iniziato a porre attenzione non più ai fenomeni generali e ripetibili, bensì a quelli particolari ed occasionali. Un vero e proprio cambiamento di prospettiva.Ad esempio in fisica ci si è resi conto che è possibile effettuare le misure solamente in un luogo determinato , e che esse sono relative alla particolare situazione nella quale vengono effettuate56.Nell’ambito poi della teoria generale dei sistemi si è chiarito che i confini tra un sistema ed il suo ambiente vengono sempre stabiliti dall’osservatore e non esistono in natura come si è sempre pensato in passato. Di conseguenza a diversi punti di vista corrispondono confini diversi tra sistema ed ambiente. Viene affermandosi lentamente l’idea di una epistemologia complessa, nell’ambito della quale, possano articolarsi diversi approcci e possibili universi di discorso sulla conoscenza.Nel pensiero complesso non vi è spazio per l’idea di una conoscenza perfetta ed esaustiva, in quanto esso si alimenta di incompletezza e di incertezza.E’ necessario abbandonare le spiegazioni lineari e adottare un tipo di spiegazione in movimento, circolare, nella quale per giungere ad una comprensione del fenomeno ci si sposta continuamente dalle parti al tutto e dal tutto alle parti57.

55 Loriedo C., Picardi A., Dalla teoria generale dei sistemi alla teoria dell’attaccamento. Percorsi e modelli della psicoterapia sistemico relazionale, Franco Angeli, Milano, 200056Ibidem, pag. 182 57 Morin E., Il metodo. Ordine disordine organizzazione, Feltrinelli, Milano, 1983

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2.2.2 La teoria della complessità: quadro di riferimento teorico

Questa sezione è stata da me pensata in riferimento ai principi dell’epistemologia complessa, come nesso tra filosofia e pratica dell’auto aiuto e prospettiva relazionale sistemica.Ma cos’è per l’appunto un sistema?Un sistema è un mondo di relazioni possibili entro il quale sottosistemi si aggregano creando ritmi biologici propri per cui la stabilità dell’insieme è maggiore di quella delle singole parti. La rete di relazioni che dinamicamente si costruisce tra sottosistemiè caratterizzata da molteplici punti d’entrata, dall’oscillazione continua tra stati di equilibrio , disequilibrio e riequilibrio, dalla fondamentale proprietà di contemporanea apertura e chiusura. Un sistema infatti può essere allo stesso modo capace di scambi con l’esterno o capace di autoregolazione e autotrasformazione, in altre parole può essere rispettivamente aperto o chiuso58. “ La porta che cigola per indicarti che il momento di aver paura…nella lettura tutto bisogna immaginarselo…la lettura è un atto di creazione permanente”.59

Un interessante, e spero chiarificatore parallelismo può essere fatto con la scrittura e la lettura di un romanzo. In breve esiste una sfera del possibile, con un punto dove si comincia e si “direziona” la storia.58 Ibidem, pag. 19259 Pennac D., Come un romanzo, Feltrinelli, Milano, 1998

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Con il foglio ancora bianco, prima dell’inizio della stesura, il romanzo può snodarsi in qualsiasi direzione. Nel momento in cui lo scrittore inizia a scrivere la sfera del possibile lentamente e inesorabilmente si modifica. Alcune traiettorie diventano via via più probabili.Nel momento in cui lo scrittore traccia dei “segni” crea delle relazioni che contribuiscono ad intessere la storia. L’intreccio rende più stabili e credibili le trame di ogni singolo personaggio in quanto esiste una serie di relazioni che legano i diversi protagonisti e le comparse. Esistono diversi eventi, appartenenti o esterni alla vicenda, che ne modificano la traiettoria, così come se includendo nel sistema del romanzo autore e lettore possiamo dire che la vicenda assume direzioni e significati diversi in funzione delle variazioni che esistono nel contesto di chi scrive come di chi legge.Chiarire cosa significa sistema, ma soprattutto cominciare a ragionare in termini di sistemi, vuol dire per me, stimolare una riflessione utile a connettere i processi educativi, riabilitativi e d’ integrazione sociale, attraverso la trasversalità del concetto di intervento.Inoltre dovrebbe permettere di riconoscere l’unicità di ogni persona, nell’insieme delle relazioni che si costruisce nei diversi contesti, in specie quelli significativi, caratterizzati da elezioni affettive, relazionali e cognitive, dalle quali ogni intervento non dovrebbe mai prescindere.

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2.2.3 La complessità e l’auto aiuto: alcune contaminazioni

E’ ancora una volta l’idea di complessità che mi porta a trovare delle connessioni con l’auto aiuto. Il concetto di sistema auto-organizzatore è nato come modalità di concepire gli esseri viventi alla stregua di macchine cibernetiche con particolari proprietà60.In quest’ottica la vita può essere considerata come un continuo processo di computo di sé, ovvero un processo cognitivo, ed un essere vivente può venir visto come una sorta di calcolatore biologico. Poiché l’attività di computo di un essere vivente dipende dalla sua struttura , ed è tale attività che permette all’essere vivente di sopravvivere e quindi di mantenere tale struttura, si parla di auto-organizzazione: è infatti la struttura del sistema vivente che dà origine a questa attività di computo e contemporaneamente ne deriva61.Dalla teoria della costruzione sociale poi, si evince che ogni conoscenza si sviluppa nello spazio tra persone ed è soltanto attraverso il procedere con gli altri che un essere umano giungerebbe a sviluppare il senso della propria identità. Secondo questa prospettiva la conoscenza è dunque prodotta socialmente. 62

Nel confronto con gli altri, nella fattispecie dell’auto aiuto, con altri che condividono uno stesso problema e/o condizione di sofferenza, s’innescano dei meccanismi di identificazione per cui i propri problemi 60Atlan H., Complessità, disordine e autocreazione del significato. In Bocchi G., Ceruti M., “La sfida della complessità”, Feltrinelli, Milano, 1985 61 Ceruti M., La hybris della conoscenza e la sfida della complessità. In Bocchi G., Ceruti M. (a cura di):”La sfida della complessità”, Feltrinelli, Milano, 1985 62 Izzo A., Storia del pensiero sociologico, Il Mulino, Bologna, 1994

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diventano quelli di tutti, diventa possibile trovare delle soluzioni comuni ed imparare attraverso le esperienze dei “compagni di viaggio” che mettono a disposizione del gruppo ( e quindi anche di sé stessi) modi personali ed inediti di affrontare gli “ostacoli”. Parlare, ascoltare, condividere esperienze, fa tutto parte di quel processo di ri-costruzione della propria identità e dell’auto stima, che si realizza nella pratica dell’auto aiuto.Dice Maturana: “Conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una determinata situazione”63

La conoscenza si pone in relazione con l’ambiente secondo un criterio di adeguatezza e non più di rappresentazione oggettiva.Al tradizionale concetto di verità si sostituisce quello di viabilità: è viabile ovvero adeguata, la conoscenza del mondo che permette ad un organismo di sopravvivere tra i vincoli dell’esperienza.Anche questo concetto si adatta molto bene (a mio avviso) alla filosofia dell’auto aiuto che non propone soluzioni predefinite e/o risposte precostituite, ma fornisce, mette a disposizione degli individui che ne fanno parte, delle conoscenze (per lo più pratiche), degli strumenti, alcune possibilità di trovare delle soluzioni adeguate alle proprie necessità, un nuovo modo di vivere.In ambito psicodinamico, svilupperò meglio questi aspetti nel paragrafo dedicato all’auto aiuto e alla salute mentale, c’è chi ha fatto notare come analista ed analizzando, siano entrambi parti del medesimo campo e che la cosìdetta neutralità dell’analista, metafore quali l’analista come specchio, quant’altro, siano in realtà concetti superati, in quanto sembra non sia 63 Maturana H., Varela F. J., The tree of Knowledge. New Science Library, Boston, 1984. Trad. It.: “L’albero della conoscenza”, Garzanti, Milano, 1987

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possibile “star fuori dall’osservazione” e che l’osservatore per quanto bravo e obiettivo non possa far altro che interpretare la realtà, attraverso i suoi codici linguistici e di pensiero.Solo poche considerazioni:la prima che cercherò di calare nella realtà del self Help è quella relativa al concetto di distanza terapeutica, concetto al quale i professionisti della psiche umana sembrano essere tanto “affezionati”.Questa idea di essere competenti “a tutti i costi” nasce da molto lontano e cioè dalla nascita della società borghese, che pone i professionisti( della politica, del sociale, della salute, )ai gradini più alti della scala sociale, garantendogli” potere contrattuale” e la possibilità di esercitare la propria professione indipendentemente dalla loro reale competenza, legittimando la conoscenza e/o i saperi non in quanto tali, cioè realmente posseduti, ma come conseguenza dell’acquisizione di ruolo.In verità, soprattutto in ambito di disagio sociale, pare non essere sufficiente l’intervento del professionista,(la consulenza, la terapia, le sedute)che nella migliore delle ipotesi si riduce a qualche colloquio settimanale. La possibilità di confrontarsi gratuitamente, di condividere esperienze con persone che a causa della sofferenza causata dal loro disagio sono giocoforza diventati degli “esperti” oltre che l’ opportunità di incontrarsi in qualsiasi momento della giornata per condividere le proprie “disgrazie”, sembra sortire un miglior effetto terapeutico. Scrive Galimberti: “ Terapeutica è solo la frequentazione con partecipazione emotiva”.64

64 Galimberti U., Il vero limite della vita, cit.

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Altra considerazione a margine della precedente è che il passaggio da uno stato di “passivizzazione” (il professionista che dà indicazioni) ad uno di “attivazione”(la testimonianza di un membro del gruppo che racconta come è andata per lui) sempre in tema di salute e benessere tout court, è di per sé curativo. Il modello auto aiuto, mi si passi l’espressione, non ha che fare con la cura e/o la guarigione clinica come il tradizionale modello medico, ma con l’apprendimento a fronteggiare i sintomi della malattia; non cura ma si prende cura delle persone.

“ Quando curi una persona puoi vincere o perdere, quando ti prendi cura di una persona puoi solo vincere”.

(Patch Adams)

2.2.4 I Gruppi d’incontro di C.R. Rogers

Carl Rogers è uno dei più importanti psicologi degli Stati Uniti facente parte della cosìdetta corrente umanistica. Egli si fa promotore di gruppi d'incontro nei quali si possono trovare le origini del fenomeno del self-help, soprattutto per alcune caratteristiche di base, quali la spontaneità e l'incarnazione di un desiderio proveniente dalla gente, piuttosto che dalle istituzioni.I gruppi d'incontro nascono in concomitanza con la proliferazione, negli Stati Uniti, di fenomeni di gruppo, quali i T-groups (avviati dallo psicologo sociale Kurt Lewin), gruppi d'addestramento d'altro tipo, gruppi

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psicoterapeutici. I T-groups, in particolare, sono gruppi d'addestramento nell'arte dei rapporti umani in cui si insegna agli individui ad osservare la natura delle loro interazioni con gli altri e quella del modo di procedere del gruppo. Gruppi di questo tipo sono spesso impiegati dalle industrie per facilitare i rapporti di fiducia e d'impegno tra colleghi. Quasi contemporaneamente all'esperienza di Lewin, si svolge quella dei gruppi di counseling, fondati appunto da Rogers, orientati principalmente all'accrescimento della persona, allo sviluppo e al miglioramento della comunicazione e dei rapporti interpersonali. Lo stesso Rogers riferisce che, col passare del tempo, i gruppi d'addestramento e quelli di consulenza si sono fusi andando a costituire la tendenza allo sviluppo rapido d'esperienze di gruppo intensive negli Stati Uniti65. La stessa denominazione "incontro" suggerisce «una visione dell'uomo che pone l'accento sulle responsabilità e l'autenticità»66.Il gruppo d'incontro «o gruppo d'incontro basilare, tende ad esaltare la crescita della persona e il suo sviluppo, il miglioramento della comunicazione e dei rapporti interpersonali attraverso un processo d'esperienza diretta»67. Il gruppo è ristretto, non strutturato, non direttivo, senza selezione dei membri e sceglie direzioni personali. Il leader è un facilitatore dell'espressione dei sentimenti e dei pensieri da parte dei membri del gruppo, non è una figura intrusiva e/o “dirottatrice” delle dinamiche, come succede di proposito nei gruppi psicoterapeutici puri. 65 Rogers C. R., I gruppi di incontro, Astrolabio, Roma, 197566Mucchielli R., Apprendere il counseling. Manuale di autoformazione al colloquio d’aiuto, Ericksons, Trento, 1996 67 Rogers C.R., I gruppi d’ incontro, op. cit., p. 12

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Assomigliano molto a gruppi autonomi e sono autogestiti dai membri stessi, con un aggancio professionale per farli decollare.L'organismo nella sua totalità è una caratteristica essenziale in Rogers, che vede in esso lo strumento che libera l'attualizzazione delle risorse individuali.Molte le similitudini con i gruppi d'autoaiuto, già da queste premesse che Rogers fornisce, delucidandoci sul fenomeno dei gruppi d'incontro.La gran diffusione e la capacità di aggregare numerosi individui è stata possibile grazie al carattere spontaneo e non organizzato del gruppo, che invoglia le persone a farsi carico di sé stesse e del loro disagio. Il gruppo porta ad una maggiore indipendenza personale, ad una fuoriuscita dalla solitudine che stimola il cambiamento della persona in difficoltà.Nel gruppo numerosi sono i processi comunicativi e psicologici, che vengono affrontati, si passa dall'indagine personale alla descrizione dei sentimenti passati, si lavora sulla narrazione dei sentimenti negativi, l'investigazione del materiale individuale significativo, l'espressione di sentimenti interpersonali nel gruppo, l'accettazione di sé stessi, su come affrontare i cambiamenti, la rottura delle facciate, il feedback, il confronto, l'assistenza reciproca dentro e fuori dal gruppo, l'espressione dei sentimenti più intimi, al fine di ri-costruire una immagine di sé più adeguata68.Il cambiamento, fine ultimo del gruppo d'incontro, riguarda aspetti come la sensibilità, gli affetti, le emozioni, ossia una maggiore consapevolezza dei

68 Per approfondire le dinamiche psicologiche sottostanti ai processi e vederne degli esempi tratti da riunioni dello stesso Rogers, si rimanda a: Rogers, C.R., I gruppi di incontro, op. cit.

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propri sentimenti e di quelli altrui, quindi più equilibrio e agio nella condizione della propria esistenza.Come anche l'Autore si preoccupa di avvertire, il gruppo può portare anche degli svantaggi, dei rischi e dei fallimenti. Spesso, per esempio, il cambiamento può presentarsi in modo precario ed essere confinato alla sola esperienza della seduta, oppure l'individuo che ha espresso e esternato a fondo i suoi pensieri, alla fine realizza che non ha risolto i problemi per i quali aveva iniziato l'esperienza di gruppo. Un altro problema è quello dei "vecchi esperti" che, avendo già avuto esperienze in altri gruppi, tendono a comportarsi come veterani presuntuosi, renitenti alla riflessione, poco inclini al confronto e a mettersi in gioco.Solo riflettendo sulle dinamiche contingenti del gruppo di incontro, sulla capacità personale di partecipare e sentirsi parte attiva di quel gruppo, sulla storia della propria vita, si possono trovare gli “ingredienti giusti” e ricevere le informazioni, quella forza necessaria per accettare di cambiare; le esperienze pregresse in altri gruppi e/o con altre persone, fanno parte di un bagaglio individuale non necessariamente utile e applicabile a tutte le esperienze di gruppo.Il ruolo dell'agevolatore, nonostante il suo scarso apporto da leader, è fondamentale in specie come catalizzatore della comunicazione.Rogers lo teorizza alla stregua di una persona, non è un esperto o un professionista ma una persona per l’appunto, a contatto con gruppi di persone centrati sulle medesime. Questo contesto esalta l'umanità dell'agevolatore che saprà essere maggiormente efficace tanto più sarà reale nelle sue interazioni con i membri del gruppo. Per questo, può diventare agevolatore chiunque abbia le capacità umane di

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portare un gruppo di persone all'apertura e alla risoluzione dei problemi.I gruppi d'incontro di Rogers sono un ideale contro la disumanizzazione della società sempre più tecnologica e impersonale, sono un tentativo per affrontare, superare l'isolamento e l'alienazione dell'individuo nella vita quotidiana. Il gruppo rende reale la percezione che non siamo sempre da soli.Secondo l'Autore, porta soprattutto all'accrescimento e alla realizzazione personale. È un'occasione vera per migliorare i rapporti con sé stessi e con chi ci sta accanto, un'occasione per vivere compiutamente la propria esistenza e sviluppare le proprie potenzialità.In un clima di libertà e “d'agevolazione”, i membri del gruppo si avviano a diventare più spontanei, aperti alla loro esperienza, più capaci nei rapporti interpersonali.Come già accennato nella prima parte in questa stessa dissertazione, la psicologia umanistica ci aiuta a capire quali cose un fenomeno di gruppo può portare alla superficie e quali può far fuoriuscire dai suoi membri. Da soli non si può risolvere tutto, il gruppo può avvicinare i nostri comportamenti “all'apertura”, favorire il cambiamento della vita quotidiana che a volte ci sottopone ad una situazione di disagio e di sofferenza.La filosofia, l'etica dei gruppi d'incontro, è molto simile a quella del self-help, anche la figura del facilitatore e il modo di risolvere i problemi incentrato sulla comunicazione e sulle interazioni delle dinamiche di gruppo.Tenendo conto che l'esperienza di Rogers si sviluppa nell’America degli anni Settanta, mi sembra un buon

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esempio di quello che per altri versi, seguendo più modelli, diventerà in modo legittimo e riconosciuto da tutti una pratica di autocura collaudata: l'autoaiuto.I gruppi d'incontro, sono infatti “terapie per normali", cioè persone che non hanno necessariamente sintomi nevrotici o psicotici. Come chiariscono Palmonari e Rombauts69, Rogers intende focalizzarsi sul mondo del cliente, perché ritiene che ogni individuo ha dentro di sé una forza di base che è all'origine della crescita e dello suo sviluppo . Il compito dell'incontro di gruppo, assieme al facilitatore, è quello di creare le condizioni favorevoli per premettere a questa forza di operare e far sì che la persona tenda alla propria autorealizzazione.Il disagio e la sofferenza sono spesso dovuti alla non conoscenza e al rifiuto della propria esperienza di vita dolorosa, ed è per questo che diviene inaccettabile parlare di sé.Nel corso degli incontri di gruppo l'individuo impara la condivisione e impara, liberamente e spontaneamente, ad accettare la propria esperienza.È basilare in Rogers, e per estensione per tutta la psicologia umanista, il rispetto della persona e la fiducia nelle sue potenzialità. Il gruppo è un gruppo di pari e pertanto, anche l'agevolatore deve essere considerato tale, deve poter essere persona, come si diceva poc’anzi, per non dare e/o fare valutazioni oggettive ma esprimere i suoi sentimenti alla stregua dei membri del gruppo. Il facilitatore si pone “al di dentro” del mondo del gruppo e comunica anch'egli sullo stesso piano . È 69Palmonari A. - Rombauts J., Presentazione al lettore italiano in Rogers C.R., “La terapia centrata sul cliente”, Martinelli, Firenze, 1970

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l'unica maniera per fornire aiuto perché il rapporto tipicamente professionale è troppo incanalato e rigido, non permette la congruenza tra “quello che si è e quello che si fa”. La relazione d'aiuto è caratterizzata dalla valorizzazione delle risorse personali e dalla possibilità d'espressione. Solo la condivisione dei sentimenti fa cadere le barriere e il gruppo, formato da persone reali che si mostrano reali e quindi imperfette, incentiva la cadute delle barriere psicologiche di difesa, nei confronti della situazione dolorosa.I gruppi d'incontro hanno assunto negli Stati Uniti un carattere di vero movimento sociale, persone che hanno in comune l'alienazione provocata dalla società contemporanea, il rifiuto di parametri tradizionali di salute e malattia, e la rivendicazione dell'utilità dell'espressione dei sentimenti e della spontaneità.Come affermano Quaglino e Stella70, la cultura, la tradizione, le norme della società sono un freno inibitore alla spontaneità e alla creatività dell'individuo. Il gruppo d'incontro avendo le caratteristiche di massima espressività e di assenza di norme, diviene uno strumento liberatorio per le persone.

2.2.5 Cos’è la relazione d’aiuto.

70 Stella S. - Quaglino G.P., Prospettive di psicosociologia. Un’introduzione alle metodologie di analisi e di intervento nei gruppi e nelle organizzazioni, Angeli, Milano, 1993

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Innanzitutto cercherò di dare una definizione di quello che intendo per relazione d’aiuto e per fare ciò faccio riferimento al contributo di Fabio Sbattella . Nel suo “aiutare ad aiutarsi” dice Sbattella, la relazione d’aiuto è una relazione specificatamente umana.

Si tratta di “un rapporto biunivoco, mediato e realizzato attraverso strumenti comunicativi, che coinvolge due o più soggetti attivi, intenzionali, caratterizzati da diverse peculiarità e collocati in un contesto ecologico” 71.

Ogni relazione umana è caratterizzata dunque dallo scambio reciproco sebbene ciò che viene scambiato non sempre si pone sullo stesso piano. Accade in qualsiasi tipo di relazione, da quella di potere a quella economica, da quella amicale a quella di aiuto vero e propria, che alcuni elementi della relazione stessa vengano condivisi da un membro all’altro in modo reciproco e circolare.Gli elementi scambiati variano naturalmente a seconda del tipo di relazione e possono essere beni, servizi, informazioni, emozioni, ecc.Altra premessa che si evince dalla definizione di Sbattella è che ogni soggetto umano è attivo per definizione, quindi intenzionale.Su questo punto che merita evidentemente di essere approfondito mi limito per ora a rimarcare che questo aspetto della posizione umana è oggi confermata anche in ambito scientifico.Oltre a Maturana e Varela che parlano dell’uomo come sistema che si autodetermina, sono degne di menzione le ricerche sul sistema nervoso centrale che hanno contribuito a scoprire che il cervello non è una tabula 71 Sbattella F., Aiutare ad aiutarsi. Principi e metodologie delSelf Help, Edizioni Unicopli, Milano,1997

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rasa, dove tutto può essere immesso dall’esterno, ma è al contrario, attivamente esposto agli input ambientali, cioè in grado di selezionare quegli stimoli che gli sono utili e funzionali.Tale premessa si rivela essere di fondamentale importanza, in quanto “sancisce” a mio avviso, la condizione per cui una persona colpita per esempio da sofferenza psichica, non può essere considerata semplicemente come paziente ( soggetto che si aspetta che qualcun altro gli fornisca le soluzioni del proprio problema) ma come una risorsa, in grado, se sufficientemente supportato, di attivarsi,di prendere decisioni proprie e prendersi cura di sé stesso.A questo proposito non si può disconoscere che prima di essere un paziente, un individuo è una persona, con un proprio progetto di vita e una storia personale. Dice Canevaro “[…] la relazione d’aiuto deve comportare la restituzione di una storia.[…] relazione come incontro di storie”, e ancora una volta occorre fare attenzione al rischio che l’aiuto diventi l’elemento che soffoca o esclude la relazione e quindi l’incontro di storie.72 Canevaro ci avverte poi della difficoltà di andare incontro all’altro senza spirito di dominio73 , soprattutto se il ruolo che ci viene assegnato ci conferisce potere all’interno della relazione (es. medico-paziente, insegnante-allievo, ecc.). Molto spesso non ci rendiamo conto di come cerchiamo negli altri la conferma delle nostre opinioni e di quanto siamo disposti a sostenerle pena l’acuirsi di conflitti e incomprensioni sterili.Queste riflessioni mi inducono ad essere il più rigoroso possibile nell’affrontare questo argomento e prima di entrare nello specifico della relazione d’aiuto, mi 72 Canevaro A., Chieragatti A., La relazione di aiuto, ed. Carrocci, Roma, 199973 ibidem, pag.62

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sembra utile e necessario, rimarcare l’importanza del linguaggio. Dire “un paziente” al posto “di una persona colpita da o affetta da”, significa sostenere un approccio alla relazione basata fondamentalmente sugli aspetti clinici, poco incline a considerare la storia del soggetto, le sue risorse, le sue ragioni, ma rivolta sostanzialmente a curare più che a prendersi cura; significa mantenere una relazione asimmetrica dove da una parte c’è un tecnico esperto e dall’altra un paziente che sta male.Credo di comprendere le ragioni di tutto ciò, ovvero la necessità intrinseca al bisogno di comunicare e di attribuire alle parole un significato condiviso. Questo succede in ambito scientifico (medico, tecnico, ecc.) come in altri contesti ed è proprio in questi altri contesti che a mio avviso risiede la “degenerazione” del linguaggio. Ognuno di noi, quando si presenta dice il proprio nome e cognome, professione, ecc., nel servizio di Salute Mentale invece (forse non in tutti!) il tal paziente, quello schizofrenico, quel depresso, ecc. Questo vecchio modo di esprimersi (purtroppo ancora in uso, funzionale alla concezione custodialistica del manicomio), corrobora il mantenimento dello stigma nei confronti delle persone affette da malattia mentale e che crea il suo uguale e contrario nell’idea-mito del medico stregone-guaritore (il medico-mito cura il paziente-stigma).Ma le cose sono alquanto più complesse. Oggi sappiamo per esempio che nel processo di guarigione un soggetto guarisce meglio e prima se partecipa attivamente alle cure, conosciamo l’importanza della compliance e della relazione interpersonale medico-paziente, sappiamo come sono diventati prioritari gli

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aspetti psicologici e i vissuti di malattia dei pazienti, le loro aspettative. Credo alla luce delle cose dette poc’anzi che gli operatori dei servizi di cura, debbano essere più professionali, a partire proprio da un utilizzo più appropriato del linguaggio e da una comunicazione scevra da significati ambivalenti.

Nelle relazioni d’aiuto occorre alimentare o recuperare una dimensione di professionalità. Significa evitare il dilettantismo, che si identifica con interventi approssimativi, condotti con faciloneria, senza capire esattamente in che contesto e con quale identità si ha a che fare […]. Professionalità in questo senso non significa tanto svolgere una professione, ma guardare la realtà con il gusto dell’impegno della comprensione profonda, vivendo l’aiuto[…] come impegno che percorre tutta una esistenza.74

Ma se è vero che ogni relazione di aiuto è una relazione umana non è vero il contrario.Proseguendo in questa (breve e non esaustiva) esposizione, al fine di capire come nell’auto aiuto si stabiliscano delle relazioni molto simili al tipo di relazione d’aiuto tradizionalmente intesa, esaminiamo nel dettaglio gli altri aspetti messi in luce dalla definizione di Sbattella. Per adesso ci basti sapere che la “relazione di auto aiuto” è una relazione d’aiuto particolare.Innanzitutto occorre sottolineare che la relazione d’aiuto è diretta cioè realizzata principalmente fra due soggetti( esistono situazioni in cui la relazione d’aiuto comprende più soggetti che indirettamente interagiscono con la persona portatrice di un bisogno e contribuiscono ad alleviargli la sofferenza, ma per non dilatare eccessivamente i confini dell’argomento preso 74 ibidem, pag. 72

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in esame consideriamo la relazione d’aiuto come una relazione a due). Il limite temporale poi, presupposto fondamentale della relazione d’aiuto, nonostante una relazione umana possa durare tutta la vita( anche l’auto aiuto può durare tutta la vita) indica che caduto il requisito del bisogno cessi inevitabilmente anche la relazione. Più precisamente la relazione d’aiuto può anche trasformarsi, ma prima o poi se non si stabiliscono tempi ed obiettivi precisi, si corre il rischio di cronicizzare il bisogno.Altro rischio nondimeno infrequente è quello che la relazione d’aiuto fagociti ogni altro aspetto di una relazione interpersonale ponendo il soggetto bisognoso di aiuto in posizione asimmetrica e sempre in posizione di incompetenza.75 C’è da dire indubitabilmente che i ruoli non paritari nella relazione d’aiuto debbono essere correttamente compresi e cioè chi si fa riconoscere come portatore di un bisogno crede di non aver le necessarie risorse per farvi fronte e conseguentemente delega un altro soggetto(l’altro polo della relazione)ritenuto mutuamente(da entrambi i soggetti ) in grado di farlo o perlomeno di facilitare al soggetto bisognoso l’accesso a tali risorse.In ogni caso bisogna tenere presente che l’asimmetria della relazione riguarda soltanto il bisogno in quanto tale e che nulla vieta che in tempi e/o contesti diversi chi è aiutato possa diventare aiutante: in questo frangente (a mio parere) si può a ragion veduta parlare di mutuo aiuto. Altro aspetto a mio avviso non secondario e che merita di essere precisato, per definire ulteriormente la 75 Sbattella F., Aiutare ad aiutarsi, op. cit., pag. 27

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relazione d’aiuto, è quello legato al concetto di bisogno, più volte da me utilizzato in questo paragrafo.Come dice Sbattella è la sofferenza che precisa l’ambito del bisogno76, sebbene anche questo concetto sia piuttosto complesso, spaziando dal dolore fisico a quello esistenziale, dall’ansia inespressa all’angoscia gridata.Altri autori definiscono la relazione d’aiuto evidenziando altri aspetti che ne caratterizzano la sua natura.Un autore che a mio avviso si avvicina molto nelle sue considerazioni all’auto aiuto è Vicini (1993), che sottolinea l’importanza della circolarità della relazione d’aiuto e soprattutto la definisce come una sorta di relazione tra pari, caratterizzata dalla crescita reciproca77.La definizione di relazione d’aiuto può anche differenziarsi da quella di processo, che quest’ultimo può comprendere. Secondo Lerma (1992) infatti processo di auto aiuto è:

L’azione teoricamente fondata, metodologicamente ordinata, attraverso cui gli operatori, collocati nel contesto dei servizi sociali, rispondono ai bisogni singoli e collettivi dell’utenza, attivando le proprie competenze professionali, le risorse istituzionali, le risorse personali e familiari dei richiedenti. Suo scopo fondamentale è di produrre un cambiamento nel modo di affrontare i problemi, di prevenire la cronicizzazione del bisogno, di promuovere iniziative di solidarietà sociale.78

Più della relazione d’aiuto tradizionalmente intesa (ad esempio la relazione terapeutica caratterizzata da regole rigide di setting, dove il contratto psicologico fra 76 ibidem, pag. 3077 Vicini M.A., La relazione d’aiuto come risposta ai bisogni del soggetto HIV positivo, in Cargnel A.,Vicini M.A. ( a cura di ), “La solidarietà della sfida L’Aids”, Piemonte, Casale Monferrato, 199378 Lerma M., Metodo e tecniche del processo di aiuto, Astrolabio, Roma, 1992

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le parti è esplicitato e riconosciuto da entrambi i poli della relazione), comprende indubbiamente la pratica dell’auto aiuto. Le differenze riguardano, oltre le dinamiche interne al gruppo, le regole (implicite ed esplicite) che lo governano.Il tipo di relazione amicale sembra meglio esprimere la filosofia e il pensiero dell’autoaiuto, in quanto la relazione è paritaria e contraddistinta da un legame emotivo forte, nonché dal riconoscimento reciproco.L’idea chiave è che l’associazione tra persone aventi bisogni analoghi, possa generare risorse adeguate per affrontare i/il problema/i che li unisce79. Si tratta forse dell’accezione più innovativa ed interessante della relazione d’aiuto.

2.2.6. Conclusioni provvisorie

“Interrogare e interrogarsi non è lasciare la realtà che ci circonda così com’è.”80 In queste poche righe ho cercato di connettere (spero di esservi riuscito almeno in parte) la filosofia dell’auto aiuto con i contributi teorici brevemente descritti fino ad ora, con lo scopo di trovarne spiegazioni chiare sull’utilizzo pratico e legittimarne così anche i presupposti teorici.

79 Sbattella F., op. cit., pag. 3480 Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1997

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2.3 La crisi del welfare state

2.3.1 Alcuni cenni preliminariIl Wefare state del secondo dopoguerra nasce e si sviluppa in tutta Europa, sull’onda dello stato di diritto e dell’equazione stato uguale a pubblico. La sua impalcatura ha rappresentato storicamente una garanzia per il benessere della società e dei suoi membri.E’ un dato di fatto , che per molti anni lo Stato si è fatto garante ed è diventato primo erogatore di beni e servizi a titolo pressoché gratuito, soprattutto in materia di educazione, salute, e sicurezza sociale. Nel perseguire tali obiettivi però ha anche generato nuovi problemi, di tipo economico, culturale, politico.Negli ‘70 e ’80 lo stato sociale è progressivamente entrato in una crisi profonda, caratterizzata da un sentimento di insoddisfazione contro alcuni suoi aspetti, troppo burocratici, troppo costosi, assistenzialistici e inefficaci. E tuttavia il ruolo dello stato non dovrebbe esaurire il proprio compito nel favorire il passaggio dalla dimensione privata a quella pubblica dei servizi alla persona.Come dice Ota De Leonardis,

l’equazione di pubblico e statuale e la responsabilità diretta dello stato nella erogazione di beni e servizi sociali ha condotto, alla lunga, a esiti contradditori rispetto all’esigenza cui intendeva rispondere , cioè creare la sfera pubblica, corresponsabilità sociale, su quei beni e servizi e sui processi della loro produzione e fruizione. La messa a regime delle politiche e dei servizi sociali e l’istituzionalizzazione di poteri, culture, modi di fare e di parlare

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dati per scontati, ha disattivato con la discussione pubblica anche la corresponsabilità nella determinazione dei problemi e delle soluzioni d’interesse collettivo.81

Mentre s’interrompe l’elaborazione collettiva e la costruzione del nesso tra benessere individuale e sociale, da una parte lo stato diventa paternalista e dall’altra i problemi e i bisogni delle persone vengono riconsegnati al singolo cittadino e alla sua famiglia. Il passaggio dalla dimensione privata a quella pubblica, che fonda la “genesi del Welfare state” e che lo stato cerca di interpretare, come abbiamo appena visto senza successo, ricorda metaforicamente un”bel contenitore vuoto”.Dice ancora De Leonardis:

il passaggio in questione è fatto di processi sociali, non di decisioni politiche o di atti amministrativi[…]: come ha acutamente osservato Nancy Fraser a proposito dei bisogni, in gioco nella storia dello sviluppo del welfare (e in parte della sua crisi) non sono i bisogni stessi e i beni per soddisfarli, bensì il “discorso” sui bisogni, le loro interpretazioni, i conflitti e i poteri sulla loro definizione e sul loro riconoscimento.82 In altre parole,utilizzando la metafora sopracitata, il contenuto che riempie in modo pregnante e significativo quel contenitore tanto bello quanto insignificante perché privo di senso e direzione, è il processo di costruzione delle istituzioni stesse da parte dei cittadini, cioè la possibilità di essere parte di quel processo attraverso la partecipazione attiva.Esiste oggi una abbondante letteratura sulla crisi del welfare state e delle politiche sociali, che non intendo riesaminare qui. Comunque sia, sembra oggi 81 De Leonardis O., In un diverso Welfare, Feltrinelli Editori, Milano, 199882 ibidem, pag.38

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insufficiente tentare di interpretare la crisi alla luce dei conflitti ideologici e/o schierarsi da una parte o dall’altra della “barricata”.I governi quali che siano i partiti politici al potere, concordano che la crisi dello stato sociale evolva in un nuovo modello che accresca e non diminuisca la capacità di venire incontro ai bisogni sociali delle popolazioni. Come suggerisce Donati la situazione deve essere letta in modo innovativo e discontinuo. C’è una modificazione in atto della concezione e della pratica della cittadinanza: “ si deve passare dalla cittadinanza industriale a quella post-industriale”83.Riprenderò questo concetto nel paragrafo del mercato sociale, alla fine di questa sezione sul welfare state.

2.3.2Ancora sulla crisi del Welfare state

Se analizziamo un po’ più da vicino, per gli aspetti di pertinenza di questo lavoro, la cultura e la pratica organizzativa dei servizi sociali convenzionali ci accorgiamo chiaramente delle contraddizioni che ne emergono.Prendiamo per esempio le professioni sociali, di cui ho già fatto breve cenno in un’altra sezione di questo lavoro.Innanzitutto, pur costruite su una impalcatura burocratica di stampo pubblico, sono organizzate secondo il modello specialistico e privatistico della libera professione.83 Donati P., Teoria relazionale della società, op. cit., pag. 468

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La competenza e le conoscenze sono di “proprietà” del professionista, che nell’esercizio della sua professione, tende a difendere il proprio ambito d’intervento, sia nei confronti degli utenti, ma anche degli altri colleghi o collaboratori. Si intuisce una sorta di resistenza a comunicare in modo chiaro, a trasmettere le informazioni in modo corretto, a confrontarsi e a socializzare le conoscenze.Inoltre, lo spazio delle relazioni di servizio è fondato prettamente sul principio del setting specialistico.Le porte rigorosamente chiuse incutono soggezione e sudditanza, gli ambienti hanno spesso un aspetto “ospedaliero”, si sottolineano i valori legati al concetto di privacy, quant’altro.Ma la matrice più evidente del privatismo, come fa notare bene De Leonardis, si è radicata nella cultura del servizio attraverso la dominanza del modello della relazione duale tra prestatore e beneficiario della prestazione stessa.

Il suo archetipo, e forse anche il tramite principale della sua pervasività nelle culture professionali e organizzative, è quello clinico, la relazione medico-paziente;[…] La relazione duale recide legami, sottrae socialità ed esclude altre relazioni dal campo delle azioni e delle scelte pertinenti su problemi sociali. La valenza privatistica della relazione duale si esplica nel fatto che, da un lato, le competenze di uno dei due attori in gioco si configurano come appropriazione e segretezza-esclusività ed esclusione -delle risorse materiali e cognitive su cui si svolge la relazione: vi ha la sua parte anche il principio burocratico del segreto d’ufficio, di cui già Merton segnalava gli esiti potenzialmente privatistici;[…]84

84 De Leonardis O., op. cit., pgg. 41,42

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Oltre a ciò, il problema e/o disagio di cui un individuo è portatore, è fonte di separazione e divisione da coloro i quali quel problema non hanno. E quando questo accade (purtroppo molto spesso!!) si acuiscono le preoccupazioni, cresce la sofferenza e mentre questa aumenta, in una sorta di reazione a catena, diminuisce la comunicazione e l’isolamento diventa una condizione coatta.Un aspetto contradditorio sul quale vale la pena aprire una parentesi riguarda il concetto di cittadinanza sociale, concetto sul quale si è detto tanto, ma che a mio avviso ha assunto significati diversi, qualche volta equivoci, almeno per quel che pertiene la sua valenza pubblica.Da un punto di vista squisitamente concettuale, i diritti sociali che tanto spazio hanno avuto nell’idea di cittadinanza, sono costruiti e trattati alla stregua del diritto privato. Da un lato, i diritti soggettivi sono garantiti per legge, dall’altro sono relegati nell’ambito dell’autonomia privata dei cittadini.

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In altre parole e nelle pratiche quotidiane, significa che la giustizia sociale è derubricata85 a giustizia distributiva e che i problemi assumono un carattere oggettivo, vengono cioè classificati e sottratti alla discussione pubblica, a quel lavoro di interpretazione collettiva che ha accompagnato lo sviluppo delle istituzioni del welfare come arene pubbliche.Si può sostenere che il welfare state ha disatteso le ragioni della sua stessa esistenza e del suo sviluppo in quanto mero distributore di beni e servizi( rispondendo sempre più a bisogni individuali e privati) invece di produrre beni pubblici e soprattutto quel bene pubblico che è la socialità intesa proprio come partecipazione attiva al discorso pubblico sulla definizione dei problemi e sulla ricerca di soluzioni. Lo si dovrebbe considerare, come suggerisce Paola Di Nicola, alla stregua di un sistema complesso di solidarietà istituzionalizzata, che agisce a più livelli e coinvolge una molteplicità di istituzioni e soggetti di cura.86 Ma la sua crisi è segnata da una sonora reazione sociale contro il “paternalismo statale”, in cui convergono sia le critiche progressiste sia quelle, per ragioni diverse, neoliberali. E’ proprio attraverso questa crisi che emerge una nuova attenzione verso altri approcci nel campo delle politiche sociali e che si sviluppa il mercato sociale, sorretto fondamentalmente dalle capacità di autorganizzazione e autoregolazione della società civile.

85 ibidem, pag.4586 Di Nicola P., Reti di auto aiuto: Il mix formale–informale, in “Il seme e l’albero”, n.1, 1998

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2.3.3Il mercato sociale

Il mercato sociale è un fenomeno per nulla uniforme, attraversato da numerose incoerenze e contraddizioni e aperto ad ulteriori sviluppi.E’ un mercato sui generis e si configura come un programma alternativo al welfare state, in cui vengono rivalutate le virtù del mercato che accompagna lo sviluppo delle politiche neoliberali e che costituisce la forma più razionale di allocazione delle risorse sociali.Nell’idea di mercato sociale confluiscono però, anche scambi di beni e servizi non mediati dal denaro, commerci sociali che non appartengono alla logica di produzione delle merci, relazioni di reciprocità. Un esempio per tutti, il lavoro informale di cura svolto in prevalenza dalle donne, non è mai stato realmente sostituito ne da relazioni mercantili, ne tantomeno da quelle burocratiche del welfare state.C’è in sostanza un lato buono del mercato che riguarda la sua capacità originaria di moltiplicare le relazioni ed i legami sociali.Un impulso molto forte alla crescita del mercato sociale è comunque l’enfasi che la società civile impiega ad organizzarsi e ad autoregolarsi. Pian piano le politiche sociali diventano qualcosa di più e di diverso dal welfare state.Tradizionalmente la politica sociale è stata intesa come politica dello stato, che attraverso i suoi servizi ha garantito quote di assistenza a tutti, soprattutto ai soggetti più deboli e socialmente marginali.

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In questa operazione di istituzionalizzare i diritti sociali di base, lo stato del benessere Keynesiano, ha incontrato seri limiti strutturali e di legittimazione. 87

Diventa sempre più evidente che il modello post bellico del welfare state, troppo “normativo” e troppo “centralizzato” non è più in grado di far fronte ai nuovi bisogni.Riallacciandomi brevemente al cenno fatto nell’introduzione di questa sezione sulla trasformazione del concetto di cittadinanza, proverò a spiegarne le ragioni e a dire meglio in cosa consiste.Donati sostiene, che per quanto in maniera ancora difficile e dolorosa, stanno emergendo una nuova sensibilità e capacità diverse, volte a costruire le regole per il benessere sociale.

In primo luogo: le difficoltà di fare una pianificazione ex ante ha portato a nuovi modelli di programmazione concertata, negoziata, flessibile, che può essere ri-orientata in itinere. Essa deve soprattutto valorizzare l’autonomia di ogni unità operativa.In secondo luogo: la frammentazione dei soggetti delle sub-culture per il ben-essere ha dato vita a nuovi modelli di azione decentrata e autonoma, con il fiorire della cooperazione, del volontariato, della mutualità, dell’auto aiuto, e di altre forme di politica sociale” dal basso”88.

In altre parole si può sostenere che è finita la centralità dello stato in materia di politica sociale e che le decisioni da prendere devono essere l’espressione di tutti i gruppi sociali interessati al benessere della comunità.Le azioni locali di politica sociale diventano sempre più autonome, slegate dalle “direttive superiori”dello stato, 87 Donati P., op. cit., pag. 444 88 Donati P., op. cit. , pag. 447

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in una logica di relazioni di rete funzionalmente alle svariate realtà particolari e ai servizi di cura che tengano conto dei bisogni dei singoli. Oltre ad un diverso ruolo dei cittadini che da fruitori diventano vieppiù “consumatori” di prestazioni, nasce una nuova imprenditoria nel campo della produzione dei servizi. E’ lo spazio per lo sviluppo del terzo settore che può assumersi il compito di offrirne alcuni dai contenuti apparentemente antitetici, quali la solidarietà e la libertà , l’efficienza e l’orientamento al cliente, ma più consoni e attenti ai bisogni reali dei cittadini.Il processo di crescita del mercato sociale è inesorabilmente avviato e De Leonardis ci avverte di alcuni pericoli possibili. Primo fra tutti la sua tendenza ad alimentare e legittimare la cultura del privatismo creando inevitabilmente opportunismo e irresponsabilità verso i beni comuni e la loro manutenzione attraverso l’enfasi della soggettività e del mercato.Infatti prende corpo via via, una razionalizzazione delle politiche del welfare, basata sulla centralità delle politiche di bilancio. Le leggi finanziarie che si succedono negli anni’80 inaspriscono il prelievo fiscale mediante la “filosofia dei tetti di spesa e dei ticket”89 senza correggere l’iniquità del sistema di contribuzione( negli anni ’80 ” i conti nazionali registrano, rispetto alla spesa sanitaria complessiva, un aumento della spesa sanitaria sostenuta dalle famiglie con il loro reddito. Essa è passata dal 16,7% nel 1980 al 22% nel 1987”,90)89 Donati P., Risposte alla crisi dello stato sociale. Le nuove politiche sociali in prospettiva sociologica , Franco Angeli, Milano, 198590 Pedulla G., Programmazione, governo delle risorse e identificazione dei bisogni , in “Il bene salute tra politica e società”, (a cura di) Rossanda M. e Peretti I., supplemento a “Democrazia e

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Ma il privatismo è un processo culturale che viene da lontano ed ha nell’individualismo il suo cavallo di battaglia che da sempre contrasta con i dettami culturali della vita pubblica.Diceva Habermas, la sfera pubblica91 è dei privati cittadini riuniti per l’appunto in pubblico, che discute di problemi e fini comuni. Soltanto in questa sfera l’azione è propriamente tale e gli individui sono davvero attori. Sembra essere ai nostri giorni, un fenomeno ri-emergente, intrinseco alla democrazia e alla cittadinanza, ed il rischio che stiamo correndo è quello di eliminare dalla scena gli attori e di sostituirli nel gioco competitivo del mercato, con dei vincitori e dei perdenti. Forse allora appare più che mai opportuno ridisegnare uno spazio collettivo e ripensare a cos’è pubblico, fuori dalla sua tradizionale e riduttiva identificazione nello stato, consapevoli che tracce di privatismo albergano nel funzionamento degli apparati pubblici così come nelle forme organizzative dei servizi sociali tradizionali.In questo senso il privatismo simbolizza un modus vivendi che va al di là, a mio parere, del fascino che esercita il mercato e può trascendere gli schieramenti politici e le vecchie divisioni fra ricchi e poveri, destra e sinistra, intellettuali ed incolti, “impegnati e non so”92

Non vorrei cadere nelle trappola della retorica e/o peggio ancora nel discorso da bar, ma diventa ogni giorno più difficile sottrarsi a quel processo di omologazione operato dai network , da quell’idea fluttuante nell’aria che si respira, che tutto va usato e consumato in fretta, che nuovo è meglio di vecchio, che

Diritto”, n. 1-2 , pp. 197-199.91 Habermas J., Il discorso filosofico della modernità, Editori Laterza, Bari, 198892 Gaber G., “Dialogo tra un impegnato e un non so”, 1972

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non ci si può più fermare ….. che ormai siamo troppo avanti.

Avverte De Mello: “La vita è quella cosa che ci accade mentre siamo occupati a fare altri progetti”93.

Tornando al nostro mercato sociale, al di là della necessità ormai confermata da tutti, di coniugare l’esigenza economica a quella sociale, il valore del mercato a quello dell’uomo, bisogna capire cosa significa tutto questo in termini pratici.Non si tratta evidentemente di trovare le giuste proporzioni e/o delle strane alchimie, quanto piuttosto come ci fa sempre osservare de Leonardis, quali forme organizzative devono assumere i servizi, pubblici e non, considerando che il “materiale” che manipolano è precisamente sociale, relazionale, comunicativo, culturale e simbolico.94 Oggi, viene definita una buona organizzazione di servizio, quella in grado di generare “altra organizzazione”95, di metter in forma le relazioni sociali; in definitiva di dar forma al legame sociale.Tra le varie miscele possibili, una formula suscettibile di costituire un’alternativa sia al vecchio welfare state che alle politiche di semplice privatizzazione, sembra essere quella che gli addetti ai lavori chiamano il welfare mix.Questa formula tenta di rispondere per così dire a tre istanze fondamentali:

contrastare gli effetti di burocratizzazione del monopolio statale nell’erogazione dei servizi sociali

93 De Mello A., Messaggio per un’aquila che si crede un pollo, Edizioni Piemme, Casale Monferrato,1995 94 De Leonardis O., op. cit., pag.2095 ibidem, pag. 21

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potenziare i valori di integrazione e solidarietà presenti nella società civile che si esprimono nelle iniziative di volontariato e nelle imprese nonprofit

aumentare l’efficienza dei servizi attraverso l’immissione di regole di mercato e della concorrenza tra fornitori di servizi stessi

Tuttavia anche questo tentativo a ben vedere presenta numerosi punti critici. Basti pensare al cosiddetto Terzo Settore, considerato dai più l’elemento innovativo del welfare mix, per rendersi immediatamente conto di quanto sia in realtà un campo eterogeneo per tipi di esperienze e organizzazione .

“Terzo settore” designa genericamente tutte le organizzazioni che non sono ne aziende orientate al profitto ne burocrazie pubbliche: una definizione dunque soltanto in negativo che comprende fenomeni eterogenei come il nonprofit, il volontariato, le organizzazioni non governative, i gruppi di autoaiuto, la mutualità, le fondazioni ecc.Qui è il caso di precisare che il mercato sociale non è un altro nome del Terzo Settore. Quest’ultimo è per l’appunto uno dei settori che agiscono nello sviluppo del mercato sociale, nel quale esercitano una forza attiva altrettanto importante sia le trasformazioni in senso manageriale dello stato sia l’attivismo di imprese e mercati nel campo delle prestazioni sociali.

Prima di affrontare in maniera più approfondita il discorso sul cosiddetto Terzo Settore, in continuità con le suggestioni fornitemi dalla lettura del testo: “In un diverso welfare” di Ota De Leonardis, ritengo che la questione importante da affrontare riguardi più che altro la qualità dei processi sociali dentro cui vengono forgiati “i mix”.

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Penso a come si costruiscono, ai modi, ai processi attraverso i quali le miscele prendono forma. E ancora alla partecipazione e alla qualità della comunicazione sociale, al grado di apprendimento.Queste qualità molto spesso generano conflitto e le conseguenti reazioni di chiusura che assumono i discorsi e le pratiche operative ci danno la dimensione della pressione alla conformità a cui noi tutti siamo soggetti e alla tendenza delle organizzazioni a rifuggire dal conflitto non riducibile a competizione.E’ nelle pratiche delle organizzazioni come nei singoli si esplicano pubblicità e privatismo, sia nel welfare state, che nel welfare mix.Allora in questione sono le condizioni affinché non soltanto gli enti pubblici, ma anche le organizzazioni della società civile nel mercato sociale, si riconoscano e operino concretamente come istituzioni capaci di alimentare la sfera pubblica della società civile e siano rispetto allo “statalismo” certamente più “modeste” per usare una espressione di Crozier, o più”efficienti” per usare una espressione alla moda: purché modestia ed efficienza si misurino su quella capacità.96

2.3.4Brevemente: il Terzo SettoreIl Terzo settore rappresenta un fenomeno sociale complesso e in forte espansione nella nostra società : con la sua valenza economica, politica, sociale e culturale, contribuisce a consolidare i valori di 96 De Leonardis O., op. cit., pag. 95

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solidarietà e cittadinanza. Pur non condividendo la definizione di “Terzo settore” perché presuppone una contrapposizione ad altri settori quali lo stato, il mercato, la famiglia, adottiamo questa terminologia poiché è quella più usata nel dibattito attuale del nostro paese. Preferiremmo utilizzare la dizione Terzo Sistema, perché anche sul piano definitorio presuppone una maggior articolazione con altri settori: il pubblico, il privato profit, la famiglia. 97 La questione del terzo sistema e/o terzo settore che dir si voglia, va collocata dentro il dibattito sul modello organizzativo e istituzionale delle politiche sociali e dei possibili rimedi alla crisi del welfare state.Del welfare mix ho fatto cenno nel paragrafo precedente e riprendendo brevemente il discorso sulla qualità dei processi sociali che dovrebbe attivare, mi preme sottolineare il ruolo del terzo settore, di come e quanto ha e può ancora contribuire alla costruzione del concetto di cittadinanza.Già a partire dal secondo dopoguerra e ancora prima, il fenomeno dell’associazionismo è una realtà ormai consolidata che aumenta a dismisura negli anni ottanta e novanta.Sulla base della fiorente letteratura possiamo distinguere tre fasi evolutive dell’agire solidaristico in Italia98:

la prima fase, fra l’inizio degli anni ‘50 e la seconda metà degli

anni ’60, in cui si parla di volontariato, è caratterizzata da

97 Tognetti M., Politiche sociali e terzo settore: il ruolo del self help, in”Sociologia e professione”, n. 31, 1998 98 ibidem, pgg. 46-47

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azioni che seguono una logica assistenziale e soddisfano quei bisogni un po’ particolari che altrimenti lo stato lascerebbe scoperti. Molto forte è la presenza egemonica della Chiesa; formalmente non vi è relazione strutturata fra pubblico e privato, se non per la parte di sostegno economico da parte del pubblico;

la seconda fase che possiamo datare fra la seconda metà degli

anni sessanta e la prima metà degli anni ottanta è caratterizzata da grandi cambiamenti nel campo delle politiche sociali. Sono gli anni del Welfare state e dell’affermazione del modello assistenziale di tipo universalistico, dell’aumento dell’intervento pubblico. Nel paese cresce l’impegno solidaristico con conseguente strutturazione della scelta volontaria non solo a carattere individuale e/o a matrice religiosa. In questi anni crescono come funghi organizzazioni completamente autonome dalla chiesa;

la terza fase che va dalla seconda metà degli anni ottanta ad

oggi, in cui il Terzo Settore non ha più un ruolo marginale,

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s’inserisce a pieno titolo nella nuova forma di welfare che ipotizza una pluralizzazione di attori e l’autorealizzazione personale.

Oggi il Terzo Settore come lo intendiamo noi , produce beni di tipo relazionale non ascrivibili ai beni privati e nemmeno a quellipubblici, nonostante sia ancora forte l’interdipendenza determinata dal massiccio finanziamento pubblico che ha permesso il suo sviluppo. Per capire lo sviluppo repentino e composito del Terzo Settore sembra necessario porre l’attenzione su un grande cambiamento avvenuto in questi anni, nella cosìdetta società occidentale: la crisi del lavoro tout court.“Non è più possibile concepire la disoccupazione come se si trattasse di un problema personale, o di un fenomeno ciclico o congiunturale . Complessivamente ,essa sembra dipendere piuttosto – per l’effetto cumulativo della globalizzazione, delle trasformazioni tecnologiche, della ristrutturazione dei sistemi produttivi - dai cambiamenti di fondo che hanno avuto luogo nella modalità e nella locazione dei processi produttivi.”99 Si assiste da un lato ad una concentrazione di alcuni lavori altamente specializzati, ancora pochi per la verità, in confronto all’altro polo costituito da forme di lavoro precario e sottopagato. In questa realtà chi ne fa le spese è quella fascia di popolazione più debole che 99 Church K., Fontan J.M., Lachance E., Shragge E., L’impresa sociale: un “cavallo di Troia” nel mondo del profitto ? in “ Lavoro Sociale”, volume 2, n.1, Aprile 2002

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finisce inevitabilmente nel novero dei servizi sociali, composta per lo più da disoccupati, giovani in crisi, tossicodipendenti, utenti del servizio di salute mentale, ecc. Per questo motivo quando si parla di terzo settore, che per definizione si occupa di questa fascia di popolazione, diventa necessario parlare di solidarietà. Organizzata nel volontariato è considerata dai più la risorsa principale delle politiche e dei servizi sviluppati in questo ambito. Poiché il richiamo alla solidarietà è spesso rituale e un po’ inflazionato, va ricordato per inciso, il significato particolare che assume nell’accezione di senso comune, non certamente in linea con il suo significato etimologico originario. Infatti nella sua accezione più comune rimanda al concetto di altruismo, di buona educazione e disposizione d’animo verso il prossimo, che non ha nulla a che fare con la sua definizione scientifica, introdotta e codificata dalla sociologia, in cui essa è sinonimo di connettivo sociale.Com’è noto è stato Emile Durkheim, il padre fondatore della Sociologia, che la descrive in termini di legame sociale e che designa il modo in cui si produce integrazione sociale. Implica norme, valori condivisi, istituzioni100. E’ in termini di legame sociale che mi interessa sviluppare questo concetto, non foss’altro per l’argomento che ho deciso di trattare in questo lavoro di tesi.La solidarietà di tradizione cristiana cui fa riferimento un parte del Terzo Settore mi lascia un po’ perplesso in 100 Brano da Robert Alun Jones, Durkheim E.: Un’introduzione a quattro impianti importanti. Colline di Beverly, Ca: Sage Pubblications, Inc., 1986, pgg. 24-59

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quanto pone l’attenzione sul mondo interiore della coscienza singola, sull’intera umanità, piuttosto che sui rapporti interpersonali, sulla società.La questione importante è a mio a parere che tipo di relazioni sociali genera la solidarietà, attraverso le sue pratiche di aiuto e di cura; ha un rapporto molto stretto con il dono e quando non c’è reciprocità del donare e il dono segue il principio della gratuità, da una parte genera gratitudine, ma dall’altra un potente legame di dipendenza.Come osserva Marcel Mauss, se non vi è reciprocità o reciprocazione “ donare equivale a dimostrare la propria superiorità” e accettare senza ricambiare” equivale a subordinarsi, a diventare cliente o servo, farsi più piccolo, cadere più in basso”101. Questa possibilità di donare/si reciprocamente, di mettere in comune “ forza, fede e speranza”102 è uno dei principi fondanti l’auto aiuto.

2.3.5Una panoramica generale sull’auto aiutoFra le diverse formazioni sociali che costituiscono il Terzo Settore possiamo includere con limitato entusiasmo, spiegherò meglio in seguito l’ossimoro, il pianeta auto aiuto, che rappresenta senz’altro una risorsa importante per lo sviluppo di nuove politiche sociali, soprattutto in Italia dove il fenomeno è ancora poco indagato.101 Mauss M., Saggio sul dono, in “Teoria generale della magia e altri saggi”, Einaudi, Torino, 1965102 Alcolisti Anonimi, Prefazione, op. cit.

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Più volte ho sottolineato nel breve ed incompleto scritto sullo sviluppo del Terzo Settore, come abbiano influito cause legate sia alla crisi dello stato sociale per i motivi che ho in parte enucleato, sia per una ricerca sempre più frequente e mirata dei modelli di intervento capaci di soddisfare le aspettative dei “consumatori” dei servizi sociali, le loro esigenze particolaristiche e quelle più collettive.L’ incremento dei gruppi di self help è una delle possibili risposte a questa nuova esigenza di redistribuire ai cittadini gli strumenti per il monitoraggio e la promozione della propria salute attraverso un loro diretto e più responsabile coinvolgimento personale.Naturalmente non tutti gli studiosi sono d’accordo nell’includere questo soggetto sociale nel Terzo Settore. Noventa, Nava, Oliva103, sottolineano ad esempio l’importanza di distinguere i gruppi di mutuo aiuto dal volontariato, in quanto (a loro dire) sorgono e sono composti da persone che si trovano a condividere problemi di tipo fisico, psichico e sociale, che determinano sofferenza nella loro vita individuale e familiare, diversamente dai volontari che solitamente non sono portatori di malattie e/o handicap. Non è mia intenzione in questo momento sviluppare l’argomento ma soltanto prendere atto che questa pratica di cura, meglio di autocura, non è alternativa per così dire “ne allo stato ne al mercato”, si presenta invece come qualcosa di specifico e autonomo, rispondendo a domande e bisogni diversi, fuori dalla logica formale e burocratica dei servizi tradizionali.Molti i motivi del ritardo nello sviluppo del self help in Italia, uno fra tutti la forte istituzionalizzazione degli

103 Noventa A., Nava R., Oliva F., Self-help, Edizioni gruppo Abele, Torino, 1990

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interventi di politica sociale, oltre ai motivi intrinseci legati alla “genesi” di questo modello . “ L’auto aiuto non parla di sé”104; questo è uno dei suoi principi spirituali fondamentali, quello per l’appunto di trattare i problemi con discrezione e segretezza. In alcuni gruppi, quelli soprattutto di prima fondazione( Alcolisti Anonimi ne è un valido esempio) questa segretezza e rispetto delle storie personali è come codificata nel programma “dei dodici passi” alla voce anonimato, una specie di prontuario che i membri del gruppo utilizzano quotidianamente per monitorare e migliorare i propri difetti di carattere.Altri motivi che rallentano lo sviluppo del self help sono la difficoltà a riprodurre un modello epistemologico discreto e riproducibile, così come il paradigma delle scienze naturali ci hanno insegnato, soprattutto perché il suo “sapere esperienziale” di tipo induttivo, contrasta non poco con i saperi forti105 della comunità scientifica, ancora legata al paradigma “dell’esperimento”.Fortunatamente alcune di queste resistenze stanno via via scomparendo permettendo così ai gruppi di proliferare.

Dice Folgheraiter:” Uno dei più sicuri risultati della scienza moderna è la certezza che non esistono certezze, che ogni sapere è provvisorio e superabile, che gli spazi di ignoranza umana nella conoscenza delle cose restano inalterati nonostante ogni apprezzabile e pur grande progresso che nel frattempo si accumuli”106.

104 Renzetti C., Verso l’auto aiuto, in “I gruppi di auto aiuto”, (Quaderni di animazione e formazione), Edizione Gruppo Abele, Torino, 1996 105 Tognetti M., La sociologia al capezzale del medico e del malato, in Tognetti M. ( a cura di ), “I confini della salute”, Franco Angeli, Milano, 1989 106 Forgheraiter F., Editoriale. “Lavoro sociale”, volume 3, n. 1, aprile 2003

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L’auto aiuto oltre a introdurre cambiamento e innovazione per i membri che ne fanno parte, produce e diffonde una nuova cultura del benessere, anche per le persone che non sono direttamente coinvolte ( Familiari di ex alcolisti, amici di ex pazienti psichiatrici).La presenza del self help è il segno concreto della crescita della complessità, di una maggiore autonomia sia del sistema informale sia di quello formale, non di una loro contrapposizione; il self help si propone come sinergia nel tentativo di costruire mondi e scenari nuovi, in cui i legami siano caratterizzati da reciprocità.

3 COS’E L’AUTO AIUTO

3.1 In cerca di una definizioneLa presenza di una moltitudine di gruppi eterogenei, con scopi e organizzazioni diverse, dà una visione del fenomeno self help altamente complessa e articolata, tale da non permetterne un’unica definizione.Il mutuo aiuto si verifica quando chi aiuta e chi è aiutato condividono fatti, emozioni e vissuti di uno stesso problema.Gli individui che partecipano al gruppo sono “mossi” da uno stesso bisogno e/o disagio e cercano di aiutarsi

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reciprocamente, di umanizzare le svariate forme di assistenza nell’intento di avvicinarle alla loro realtà.Secondo Tognetti M. ciò che connota l’attività dei gruppi di self help è dato dallo scambio di aiuto che sta alla base delle capacità terapeutiche dei gruppi. Questi inoltre costituiscono dei social support107, in quanto sono un tipo di risorsa che si utilizza e allo stesso tempo si fruisce da parte degli individui che entrano nel gruppo .Numerose ricerche evidenziano questo ruolo di social support nell’alleviare sofferenze fisiche e psichiche.Sempre secondo Tognetti M. questi gruppi contribuiscono poi a sviluppare due tipi di fiducia, personale e interpersonale. Proprio quest’ultima costituisce una preziosa risorsa per attivare la solidarietà e l’aiuto reciproco, in quanto l’atto fiduciario origina un meccanismo di riduzione della difficoltà e dell’incertezza. Nell’auto aiuto la fiducia è di fondamentale importanza, in essa s’innesta il lavoro reciproco fra i membri.Queste caratteristiche peculiari ed altre ancora, hanno indotto gli studiosi a cercare di darne una definizione universale, tuttavia difficile da trovare per svariati motivi.Secondo Katz e Bender 108per esempio:

“ I gruppi di self help sono strutture di piccolo gruppo, a base volontaria, finalizzate al mutuo aiuto ed al raggiungimento di particolari scopi. Essi sono di solito costituiti da pari che si uniscono per assicurarsi reciproca assistenza nel soddisfare bisogni comuni, per superare un comune handicap o un 107 Secondo Meo A., Relazioni, reti e social support, social support, sono tutte quelle informazioni che inducono o contribuiscono a rafforzare l’idea di essere amato, stimato, apprezzato; di appartenere ad una rete che favorisce la comunicazione e lo scambio.108 Katz A.H. & Bender E.I., in Bertoldi S.(a cura di), I gruppi di auto mutuo aiuto e l’esperienza dell’Associazione A.M.A di Trento, giugno 2000

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problema di vita, oppure per impegnarsi a produrre desiderati cambiamenti personali o sociali.I promotori e i membri di questi gruppi hanno la convinzione che i loro bisogni non siano, e non possono essere, soddisfatti da o attraverso le normali istituzioni sociali.I gruppi di auto aiuto enfatizzano le interazioni sociali faccia a faccia e il senso di responsabilità dei membri. Essi spesso assicurano assistenza materiale e sostegno emotivo; tuttavia altrettanto spesso appaiono orientati verso una qualche causa, proponendo un’ideologia o dei valori sulla base dei quali i membri possano acquisire o potenziare il proprio senso di identità personale”. Secondo Katz gli elementi connotanti di questa definizione109 sono sei:

I gruppi di auto aiuto implicano sempre interazioni faccia a faccia

Le origini di questi gruppi sono di solito spontanee, anche se alcuni di questi sono istituiti da servizi sociali

La partecipazione è personale I membri esprimono condivisione e si impegnano

in particolari azioniIl gruppo parte sempre da una condizione di

difficoltà, condivisa da tutti i membriI gruppi diventano: gruppo di riferimento, punto di

connessione e identificazione con altri, una base per l’attività e una fonte di autorinforzo

Gli incontri che avvengono nei gruppi permettono lo scambio di esperienze autentiche, per quanto riguarda il problema condiviso, che solo coloro che hanno vissuto il problema possono avere, pertanto questo tipo di sapere si colloca su un piano diverso basato sulla conoscenza empirica.109 Katz A.H. & Bender E.I., in Silverman P.R.(a cura di)), I gruppi di mutuo aiuto, Erickson,Trento, 1989

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Altra interessante definizione è quella di Lavoie e Stewart110 , per i quali un gruppo di auto aiuto è un tipo di risorsa comunitaria che privilegia l’aiuto reciproco tra i pari, che incoraggia la condivisione di un sapere derivante dalla loro esperienza e la cui leadership si trova nelle mani degli stessi membri. Secondo Ascoli 111, il movimento dell’auto aiuto è un alternativa all’apparato pubblico, sempre più burocratizzato e lontano dalle persone. Le organizzazioni nascono quale risposta alle nuove patologie e sopperiscono le carenze e i limiti dell’intervento pubblico.Ascoli inoltre colloca questi gruppi nella sfera delle solidarietà secondarie, distinguendoli dalla famiglia e dai rapporti di vicinato che vengono considerati tipi di solidarietà primarie.

Pini112 ha definito il self help utilizzando la metafora del Jolly, “il matto che serve in tutti i giochi e che può violare le regole che le altre carte più banali devono rispettare.”

Questo significa che l’auto aiuto può essere applicato in qualsiasi ambito assistenziale, in quanto è in grado di modificare le regole dei servizi tradizionali.Silverman113 invece definisce i gruppi di auto aiuto come reti sociali artificiali dove i punti di maglia, sono proprio i soggetti portatori di uno stesso problema. Questo fatto colloca il self help all’interno del sistema informale dei servizi sociali, in contrapposizione a quello

110 Lavoie F., Steward M, Groupes d’entraide et les groupes de sautien : une perspere canadienne, in « Revue canadienne de santementale de munautaire » n. 14, 1995111 Ascoli A., Welfare state e azione volontaria, in “Stato e Mercato”, n. 13, 1985 112 Pini P., Auto aiuto e salute mentale, Fondazione Andrea Devoto, Firenze,1994 113 Silverman P.R., I gruppi di auto aiuto, Erickson, Trento, 1989

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formale, che non è sempre in grado di soddisfare la varietà e la complessità dei bisogni.Attualmente la definizione di self help proposta da Katz e Bender è quella maggiormente condivisa anche perché riesce a mettere in evidenza il maggior numero di punti caratteristici.Facendo un piccolo riassunto di quanto detto, si evince che il self help è una “pratica di autocura” fondata sulla capacità dei soggetti che ne fanno parte, di produrre relazioni sociali significative, in grado di sviluppare un nuovo senso di appartenenza e di autostima, produrre cambiamenti che durano nel tempo.I gruppi di auto aiuto oltre ad essere una risorsa in sé e per sé, rappresentano un’integrazione e un rafforzamento alle risorse già presenti sul territorio. Allo stesso tempo possono essere anche una forma di critica al sistema pubblico, in quanto sorgono per soddisfare un determinato bisogno, ancora inevaso.I gruppi coinvolgono più livelli e dimensioni, creano e attivano legami facendo assumere un ruolo attivo all’individuo che diventa protagonista del proprio percorso di cura. La partecipazione alle attività dei gruppi, favorisce tra le altre cose il processo di empowerment114, poiché l’individuo e i membri del gruppo percepiscono e vivono una situazione di autoefficacia e di competenza, frutto della fase di “coscientizzazione” della propria situazione. Il confronto che scaturisce dentro al gruppo, permette alle persone coinvolte di rendere più facile la convivenza con la malattia, eliminando almeno in parte quel processo di

114 Per empowerment s’intende quel processo di ampliamento (attraverso il miglior uso delle risorse attuali e potenziali acquisibili) delle possibilità che il soggetto può praticare e rendere operative e tra le quali quindi può scegliere. Definizione ricavata dall’articolo di Oliva F.,1995, Il movimento di auto aiuto, in Animazione sociale, n.3.

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etichettamento attraverso l’accettazione di un nuovo status.

3.2 La teologia dell’alcoholics anonymous di Gregory Bateson (Tratto da “Verso un’ecologia della mente)

3.2.1 Breve premessaIn questa sezione dedicata alla comprensione dell’auto aiuto come pratica di auto cura e dei suoi strumenti, mi preme rimarcare come il modello degli Alcolisti Anonimi possa in qualche modo essere considerato “il prototipo”, dal quale poi si sono evolute varie applicazioni in ambiti di disagio e problematiche diverse.

3.2.2 La preghiera della serenità

inglese: God,grant me the serenity to accept the things I cannot changecourage to change the things I canand wisdom to know the difference.

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 francese: Mon Dieu,donne-moi la serenitè d'accepter les choses que je ne peut pas changerle courage de changer le choses que je peutet la sagesse d'en comprendre la difference.  

Spagnolo Dios miodame la serenidad de aceptar las cosas que no puedo cambiar,el corage de cambiar las que puedoy la sabidurìa de conocerne la diferencia tedesco: Gottgebe mir die Gelassenheit, Dinge hinzunehmen, die ich nicht ändern kann, den Mut, Dinge zu ändern, die ich ändern kann,und die Weisheit, das eine vom anderen zu unterscheiden.

Italiano

Signore concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare,la forza di cambiare quelle che posso

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e la saggezza di conoscerne la differenza115

Dany (A.A.)

3.2.3 Alcuni fondamentaliUno dei principi fondanti la teologia di Alcolisti Anonimi riguarda la concezione del Potere Superiore.Come si evince dal programma spirituale adottato dalla fratellanza, specificatamente nel secondo passo, tale Potere altro non è che una specie di Dio “ come ognuno può concepirlo”116 che ha il compito di riportare alla ragione l’alcolista smarrito. In genere tale forza viene ritrovata nel gruppo.Questo passaggio sembra essere d‘importanza basilare, in quanto stabilisce che l’aiuto fornito dai compagni di viaggio è indispensabile per procedere spediti nel percorso di recupero. E’ il passo dell’affidamento, in cui l’alcolista attivo riconosce il proprio fallimento ( toccare il fondo) e si affida ai consigli dei membri più esperti.Dal punto di vista cibernetico il rapporto in cui “io” mi trovo rispetto a qualunque sistema sarà diverso dal rapporto in cui “tu” ti trovi rispetto a un sistema simile. La bellezza del bosco nel quale passeggio è il mio prendere atto sia dei singoli alberi sia dell’ecologia totale del bosco in quanto sistemi117

Questo riconoscimento estetico è ancora più eclatante quando parlo con una persona.115 Alcolisti Anonimi, Preghiera della serenità, cit.116 A.A., Dodici passi, dodici tradizioni,Trad. It. della III edizione americana117 Bateson G., op. cit., pag. 382

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Resistendo a questo potere, in altre parole rifiutando di farsi aiutare, per l’alcolista non c’è via di scampo, la sua china diverrà ogni giorno più profonda e disastrosa.

L’unità di sopravvivenza ( sia nell’etica sia nell’evoluzione) non è l’organismo o la specie, ma il più ampio sistema o potere in cui la creatura vive: se la creatura distrugge il suo ambiente distrugge se stessa. 118

Tuttavia, nonostante la bontà, questo potere non punisce e non premia.Il rapporto giusto tra ogni individuo ed il suo Potere Superiore è di tipo complementare in contrapposizione all’orgoglio dell’alcolizzato che rimanda sempre ad una relazione di tipo simmetrico. La qualità ed il contenuto del rapporto tra ogni individuo e il Potere sono indicati e riflessi nella struttura sociale dell’A.A. L’aspetto secolare di questo sistema, la sua conduzione, sono delineati in “Twelve Tradizions”119, supplemento a “Twelve Steps”; il rapporto dell’uomo con il potere è descritto in quest’ultimo documento.

I due documenti si sovrappongono nel dodicesimo passo, il quale prescrive l’aiuto ad altri alcolizzati come un esercizio spirituale, senza il quale non è possibile un buon percorso di recupero.Altro caposaldo della teologia di A.A. è l’anonimato. Oltre ad una evidente funzione di protezione dei suoi membri da una “notorietà vergognosa”, l’anonimato, col crescere della fama e del successo dell’associazione, ha avuto una funzione di vero e proprio contenimento per quegli individui che hanno 118 ibidem, pag. 382119 ibidem, pag. 384

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sentito la tentazione di avvantaggiarsi personalmente del nuovo status di membro della fratellanza ( in politica, nell’istruzione, in altri campi).Bill W. uno dei due fondatori dell’associazione avverte in una sua pubblicazione di questo rischio e di come mettersi in mostra abbia rappresentato per la sua esperienza personale una insidia molto pericolosa.

A ciò possiamo aggiungere che l’anonimato è anche una profonda enunciazione della relazione sistemica fra la parte e il tutto.120

A questo proposito la preghiera della serenità riportata in varie lingue all’inizio di questa sezione, conferma la complementarietà della relazione parte-tutto mediante la semplice tecnica di invocazione di questa relazione. L’alcolista attraverso la preghiera sviluppa caratteristiche personali quali l’umiltà e l’onesta, atrofizzate (per cosi dire)dal lungo e reiterato abuso di alcol. Se i doppi vincoli provocano angoscia e disperazione e distruggono le premesse epistemologiche personali a un qualche livello profondo, ne segue, viceversa, che, per sanare queste ferite e per sviluppare una nuova epistemologia, sarà opportuno l’intervento di qualcosa che sia in qualche modo inverso rispetto al doppio vincolo. Il doppio vincolo porta alla conclusione disperata che “Non vi sono alternative”, mentre la Preghiera della Serenità scioglie esplicitamente colui che prega da questi legami che lo fanno impazzire. 121

Da un punto di vista prettamente sistemico A.A. differisce da altri sistemi naturali come ad esempio la

120 ibidem, pag. 385121 ibidem., pag. 386

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famiglia in quanto persegue un unico fine, trasmettere il messaggio al dipendente che soffre ancora. Per fare ciò utilizza gli altri membri della fratellanza e la sua organizzazione. Non è tanto diversa in questo senso da qualsiasi altra struttura che ha come fine quello di arricchirsi e/o di aumentare (ad esempio) il proprio capitale.Tuttavia com’è stato ampiamente dimostrato dalla storia dell’Associazione, l’unico scopo è diretto verso l’esterno e mira a un rapporto non competitivo col mondo aperto.

La variabile da massimizzare è una complementarità e ha la natura “del servizio” più che del dominio.122

3.3 Descrizione analitica dell’auto aiuto 123

3.3.1 Mettiamoci d’accordo sui termini

l’auto-aiuto (self-help): riconoscere il problema e attivarsi in cerca di aiuto

il mutuo-aiuto (mutual-help):

122 ibidem., pag. 387123 Tratto da De Stefani R. e modificato dallo scrivente. Materiale usato nei corsi di sensibilizzazione alla cultura e alla pratica dell’auto aiuto, organizzati dall’Associazione “La Panchina” di Trento. Materiale ad uso interno.

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condividere l’esperienza e ricavarne vantaggio reciproco

Nella pratica si passa di solito dall’auto-aiuto al mutuo-aiuto. Oggi nel linguaggio corrente auto-aiuto, mutuo-aiuto, auto-mutuo-aiuto hanno praticamente lo stesso significato.Si parte dall’aiutare se stessi, all’aiutare gli altri, fino ad arrivare all’ aiuto reciproco.

Solitamente si parla:in generale, di auto-aiuto

in riferimento ai gruppi, di auto-mutuo-aiuto

3.3.2 C’era una volta…

L’auto-aiuto nasce con l’uomo, la sua storia è quella dell’uomo.

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L’auto-aiuto ce l’abbiamo nel sangue, nel DNA della specie umana.

Quando le comunità umane muovono i primi passi e/o si trovano a dover cercare risposte a bisogni primari inevasi (cibo, casa, ecc.) a proteggersi contro pericoli esterni che ne minacciano la loro esistenza, uno degli elementi necessari alla sopravvivenza è la cooperazione, il sostegno reciproco, il mettersi assieme per far fronte a problemi comuni.

Nelle società in via di sviluppo, i bisogni primari faticano a trovare dei riscontri seri e il sostegno reciproco, mantiene un valore fondamentale affinché tali bisogni trovino una risposta adeguata.

Nelle collaborazioni tra Nord e Sud del mondo, si comincia a capire che non vi è solo il “ricco” che dona al “povero”, ma vi è reciprocità e scambio, un arricchimento vicendevole di saperi e di esperienze.

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3.3.3 L’auto aiuto oggi

A quali bisogni risponde nella nostra comunità:

Quello di far si che persone e famiglie che condividono uno

stesso problema personale, familiare, sociale, legato ad una condizione di sofferenza esistenziale, di disagio sociale, di malattia protratta nel tempo, abbiano un’occasione per affrontarle assieme e migliorare la qualità della loro vita.

L’auto-aiuto, la mutualità sono parti importanti in ogni

ragionamento che ci troviamo a fare sulla crescita delle nostre comunità, delle nostre famiglie, di noi stessi, del pianeta.

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3.3.4 Lo sviluppo dell’auto aiuto

Nessuna comunità può funzionare senza un’ampia varietà di scambi informali di auto aiuto.In alcuni casi questi scambi informali possono diventare formali e più strutturati, tramite la costituzione di gruppi, di organizzazioni di auto aiuto.

Questo passaggio di solito si verifica quando:

il problema è molto sentito le risposte sono parzialila discussione del problema, per la sua natura (delicatezza, pregiudizi), risulta più facile in

un ambito strutturato

il problema riguarda un numero elevato di persone

il problema riguarda persone che non abitano così

vicine da unirsi in gruppi informali di vicinatoil problema riguarda un numero ristretto di

persone

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che non possono incontrarsi nelle reti informali

(Adattato da “I gruppi di mutuo-aiuto” di Phyllis R. Silverman ed. Erickson)

Lo sviluppo dell’auto aiuto è stato maggiore nelle società dove la cultura e i costumi ha stimolato di più i cittadini ad occuparsi in prima persona dei propri problemi, dove vi è meno delega e stato sociale, come l’abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni.

Questo spiega perché l’auto aiuto si sia sviluppato soprattutto negli Stati Uniti a partire dai primi decenni del 900.

In Italia lo sviluppo dell’auto aiuto è più recente, ma si sta diffondendo con molta rapidità e anche con alcune caratteristiche specifiche

3.3.5 Lo sviluppo dell’auto aiuto negli Stati UnitiI gruppi a.m.a. negli Stati Uniti coinvolgono più di 10 milioni di persone e riguardano tutti i possibili campi del disagio umano.

I più numerosi sono i gruppi promossi dalle persone e dalle famiglie che condividono il problema (gruppi di self-help) e che nel tempo possono espandersi fino a raggiungere dimensioni notevoli (vedi l’esperienza di Alcolisti Anonimi, i club degli alcolisti in trattamento, ecc.)

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Ci sono anche gruppi promossi dai servizi (mutual help support group). In questi gruppi il facilitatore è messo a disposizione dal servizio ed è presente in una fase iniziale per promuovere il gruppo.

3.3.6 Il gruppo a.m.a.: un esempio

Recovery, Inc. è una Associazione di pazienti psichiatrici ed ha come obiettivo prioritario quello di prevenire le ricadute.

È stata fondata nel 1937 dallo psichiatra Abraham Low. All’inizio era diretta da professionisti con l’obiettivo di responsabilizzare sempre di più i pazienti. Per questo motivo con gli anni le attività e i gruppi a.m.a. andarono via via sviluppandosi.

Nel 1952 Low maturò il convincimento che i membri del gruppo dovevano ricoprire anche il ruolo di facilitatore e i professionisti uscirono dalle attività dei gruppi.

Attualmente i gruppi di Recovery negli Stati Uniti sono più di 1000 e sono collegati in rete. La sede centrale è a Chicago e fornisce un supporto organizzativo. Vi sono dei coordinatori regionali volontari che aiutano nella formazione dei facilitatori.

È significativo che Associazioni di questo tipo siano presenti e forti in USA e in Inghilterra e quasi del tutto assenti in Italia e nei paesi mediterranei

3.3.7Cos’è la mutualità

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La cultura e la pratica dell’auto-mutuo-aiuto si esplicano in alcune forme di scambio. Ecco alcune definizioni estensive di mutualità:

“Associarsi per una reciproca tutela ed assistenza” (Devoto-Oli)

“Forma di aiuto scambievole tra cittadini per garantire agli stessi uguali diritti dopo aver adempiuto uguali doveri” (Zingarelli)

Ma soprattutto è:

(ri) dare a ciascuno responsabilità e protagonismo

promuovere la salute

umanizzare i servizi

favorire le collaborazioni

Perché interessarsi alla mutualità?

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È un’occasione per riflettere su un approccio non tradizionale al tema della salute mentale e al disturbo psichico

E’ un’occasione per riflettere assieme:persone che hanno un disturboi loro familiarigli operatori dei servizii cittadini

E’ un’occasione per pensare assieme delle cose nuove da fare

L’attuale situazione dei Servizi di salute mentale non sempre è soddisfacente

Qualche volta gli operatori: si sentono frustrati dalla mancanza di risultatinon si sentono abbastanza protagonisti

Qualche volta i familiari:si sentono poco ascoltatisono arrabbiati e fanno la guerra ai servizi

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Qualche volta gli utenti: non si sentono soggetti attivi protagonisti e responsabili del proprio

cambiamento

3.3.8 La mutualità come valore aggiunto

Le parole chiave della mutualità :

la responsabilità personaleil protagonismo di ciascunola corresponsabilitàla reciprocitàla persona (e la famiglia) come risorsail cambiamento è possibilela fiducia e l’ottimismol’importanza dell’esperienzala soluzione dei problemi la semplicitàl’umanità

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Ciascuno è un po’ responsabile per tutti, nessun uomo è un’ isola,il pianeta azzurro

Dal dire al fare cosa significa credere che Giovanni (e la sua famiglia):

non è solo un problema ma anche una risorsa (sa l’inglese, ama lo sport, alleva criceti, legge libri gialli, rammenda le calze, annaffia i fiori…)

può cambiare (basta con: “è il solito Giovanni, ha la solita crisi, non c’è niente da fare…”)

ha responsabilità e protagonismo (possiamo fare molte cose assieme, dentro e fuori i Servizi)

ha un sapere, un’esperienza molto importanti (proviamo a vedere cosa succede in un gruppo voci)

può dare e ricevere aiuto (sempre e comunque)

La mutualità nei servizi di Salute Mentale e più in generale in una comunità, porta acqua al mulino del:

fare con

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meno delega, più responsabilità

insieme è meglio

La mutualità promuove cultura e naturalmente promuove igruppi a.m.a.

La mutualità promuove salute perché promuove responsabilità

3.3.9 Cosa s’intende per promozione della salute

Per promozione della salute s’intende quel processo che consente alle persone di esercitare un maggior controllo sulla propria salute e di migliorarla.S’intende altresì:

identificare e realizzare le proprie aspirazioni

soddisfare i propri bisogni

modificare l’ambiente o adattarvisi

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la salute come risorsa di vita quotidiana

non come obiettivo

un concetto positivo che insiste sulle risorse sociali e personali

la responsabilità della salute non è responsabilità esclusiva del settore sanitario

3.3.10 La Carta di Ottawa (OMS, 1986)

Per promozione della salute s’intende quel processo che consente alle persone di esercitare un maggiore controllo sulla propria salute e di migliorarla.La salute vive e cresce nelle piccole cose di tutti i giorni. (a scuola, sul lavoro, in famiglia, nel gioco, nell’amore…)La salute si crea avendo cura di se stessi e degli altri, sapendo controllare e decidere dei propri comportamenti, facendo in modo che la comunità in cui si vive favorisca la conquista della salute per tutti” 124.

124 Carta di Ottawa per la Promozione della Salute. Organizzazione Mondiale della Sanità – 1986)

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“Se la salute non inizia con la persona, la casa, la famiglia, il luogo di lavoro e la scuola, non sarà mai raggiunto l’obiettivo della salute per tutti.Anche se prendiamo l’esempio dei paesi industrializzati, l’autocura, l’autoresponsabilità e l’autogestione della persona, della famiglia e della comunità rappresentano il 50-60 % di tutte le cure.Sfortunatamente i professionisti della salute raramente amano dare fiducia alla gente ad un tale livello che possano acquisire potere sulle proprie decisioni che hanno a che fare con la loro salute.”

(H. Mahler)

3.3.11 Migliorare la salute mentale

Migliorare la salute mentale richiede attenzione alla promozione e alla protezione della salute mentale lungo tutto il corso della vita, in particolare nei gruppi svantaggiati sotto il profilo sociale ed economico.

Programmi ben costruiti per la salute nei luoghi di vita e di lavoro possono aiutare le persone a raggiungere un senso di coerenza, a costruire e mantenere relazioni di mutuo sostegno, ad affrontare le situazioni e gli eventi che provocano stress.

(Health 21, OMS)

3.3.12 I gruppi di auto mutuo aiuto (a.m.a.) in Italia

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In Italia lo sviluppo dei gruppi a.m.a. è stato ed è molto più lento e solo in questi ultimi anni stanno cominciando a diffondersi rapidamente.

Il primo gruppo a.m.a. che si è diffuso in Italia è stato quello degli Alcolisti Anonimi.

A partire dal 1980 si sono diffusi i Club degli alcolisti in trattamento che oggi sono la presenza a.m.a. più numerosa (più di 2000 gruppi), pur con alcune loro caratteristiche specifiche.

Oggi i gruppi stanno crescendo rapidamente in molti ambiti:

AlcolFumoDimagrireFamigliari di ragazzi con handicap Famigliari di persone con disagio psichicoDisturbi alimentariFamigliari di persone con AlzeihmerDonne operate al senoPersone con depressione, ansia, attacchi di panicoSeparati e divorziatiDonne maltrattate

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DializzatiLuttoDonne che amano troppoGioco d’azzardoMobbingEcc. ecc.

Uno degli ambiti in cui i gruppi stanno crescendo di più è quello del disagio psichico.Questa crescita è dovuta fondamentalmente a 3 fattori:

la diffusione del disagiola durata nel tempo del disagiola promozione fatta da molti servizi

I gruppi a.m.a. sono strutture di piccolo gruppo a cui si accede per libera scelta.

I partecipanti al gruppo*:

condividono un problema (disagio personale, comportamentale, familiare, sociale, condizione di malattia)

si incontrano per darsi sostegno reciproco

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cercano in questo modo di migliorare la qualità della

propria vita

* membri, soci SI* utenti NO

3.3.13 Cosa sono i gruppi di auto mutuo aiuto

I gruppi a.m.a. sono delle reti sociali “artificiali” che si creano appositamente per produrre aiuto e sostegno.

I nodi della rete sono le persone che condividono il problema, che cercano aiuto e lo forniscono a loro volta. a chi è nelle stesse condizioni.

I gruppi a.m.a. non offrono terapie nel senso tradizionale e giuridico del termine.

Sono “terapeutici”, se terapeutico significa occasione di cambiamento e di miglioramento della qualità della vita.

Le basi del gruppo:La gratuitàLa parità

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il protagonismoIl valore del sapere e dell’esperienza La libertà di partecipareL’apertura ai nuovi ingressiL’apertura alla comunità di appartenenza

La vita del gruppo:Il climaL’amicalitàL’ascoltoLa tolleranzaLa relazione non verbale

I pensieri del gruppo:Siamo tutti risorseCambiare è possibileIl tempo gioca a nostro favore

Il funzionamento del gruppo:Un luogo e un orario fissi

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La durata (1h e ½) La periodicità (una volta alla settimana)La puntualitàLa partecipazioneIl diarioIl giroLa riservatezzaNon si fuma

Il futuro del gruppo:La moltiplicazioneLa cultura che cambia, nel gruppo ma anche

nella comunità

3.3.14 I gruppi di auto mutuo aiuto nel campo del disagio psichico

I principali gruppi a.m.a. presenti nel campo del disagio psichico si attivano:

a partire dal tipo di problema condiviso:

124

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Familiari di persone con disagio Persone con problemi di depressionePersone con problemi di ansia e attacchi di

panicoPersone che sentono vociPersone con problemi di psicosi Persone con disturbi alimentari (anoressia-

bulimia)

a partire dal tipo di bisogno condiviso:

Socializzazione (di solito è un gruppo misto)AbitareLavoroBisogni/interessi più settoriali

Vi sono molti gruppi che riguardano tematiche di salute mentale in senso più ampio (essere genitori, aver perso un figlio, amare troppo, ecc.)

3.3.15 Chi attiva i gruppi di auto mutuo aiuto

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Direttamente le persone che condividono il problema o le loro Associazioni:

Familiari di persone con disagio (spesso tramite le loro associazioni)

Persone depresse, ansiose, con attacchi di panico

I Servizi pubblici e le istituzioni:

Gruppi di socializzazione, dell’abitare, del lavoroPersone che sentono le voci

Le Associazioni ombrello:

Qualsiasi tipo di gruppo

Vi sono poi gruppi che nascono per iniziativa autonoma di singoli operatori

3.3.16 Come nascono i gruppi di auto mutuo aiuto

Un gruppo attivato da chi ha il problema nasce per passaparola e/o per conoscenza diretta esperita nelle associazioni di familiari e di utenti, per esperienze di condivisione fatte in altri contesti

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Un gruppo attivato dai servizi nasce tramite la pubblicizzazione dell’iniziativa agli interessati

Un gruppo attivato dalle Associazioni ombrello nasce in funzione della richiesta di persone interessate,in collaborazione con i servizi e le associazioni di utenti e familiari

In alcune situazioni possono essere utili 1-2 incontri preliminari per chiarire alcuni aspetti del problema, i principi ispiratori e di funzionamento del gruppo. In altre situazioni si parte direttamente col gruppo.

3.3.17 Il ruolo del facilitatore

Il facilitatore è un membro del gruppo con la funzione di favorire gli scambi e le comunicazioni.Vi sono gruppi con e gruppi senza facilitatore.Nel mondo la stragrande maggioranza dei gruppi non ha un facilitatore, nei gruppi a.m.a. italiani invece è spesso presente .Il facilitatore a volte condivide il problema, a volte no (in questo caso spesso è un operatore dei servizi)

Quando il facilitatore è un operatore la sua presenza può essere a termine e avere un chiaro ruolo di promotore iniziale o durare nel tempo, perché l’operatore è diventato a tutti gli effetti un membro del gruppo.

In tutti i casi non è mai il facilitatore a fare il gruppo

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Pensiamo ai milioni di gruppi che ci sono. Se ci sono e sono in continua crescita, vuol dire che funzionano e che farli nascere non è stato poi così difficile. Il miglior modo per superare le paure è partecipare ad un gruppo.Partecipando si capisce e s’impara

3.3.18 La valutazione

L’esperienza e il buon senso ci suggeriscono che un gruppo a.m.a.

non danneggiapuò servire a pocopuò servire a molto

In altri termini è un buon investimento. Non sempre e non in tutte le situazioni bastano il buon senso e l’esperienza, per cui diventa necessario valutare i gruppi a.m.a.In Italia siamo in ritardo, ma stiamo recuperando.Ecco un esempio di valutazione di cui si propone il modello125 allegato in appendice:

125 Questionario di valutazione dei gruppi di auto-mutuo-aiuto, Coordinamento Gruppi di Automutuoaiuto-ISS, marzo 2001

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scheda VAMA

4 AUTO AIUTO E SALUTE MENTALE

4.1 Una Critica all’approccio psichiatrico tradizionale4.1.2 Breve premessaLa mia esperienza di educatore professionale (ormai quindicinale) nel Servizio di Salute Mentale di Parma, mi ha portato ad inserire questo capitolo sui medicinali perché le persone che si rivolgono alla psichiatria per essere aiutate, assai spesso si vedono prescrivere dei farmaci. La frequenza di questo tipo di risposta è la conseguenza naturale dell’interpretazione del fenomeno, da parte della maggioranza degli psichiatri.

4.1.3 “Le cure” Le cure, espressione utilizzata ancora dalla vecchia guardia infermieristica per indicare i farmaci usati nel trattamento delle psicosi si distinguono in fenotiazine, tioxanteni, butirrofenoni e dibenzepine. Negli ultimi anni sono state introdotte altre molecole come la pimozide o il risperdone, che hanno dimostrato proprietà neurolettiche importanti. Esercitano in varia misura la loro attività sui diversi sistemi

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neurotrasmettitoriali a livello del sistema nervoso centrale (noradrenalina-NA, acetilcolina-Ach, istamina-H, serotonina-5HT), ma si ritiene che il loro effetto antipsicotico sia legato alla loro attività sulla dopamina (DA).L’attività di blocco sui recettori per la dopamina (azione antidopaminergica) è responsabile sia dell’azione antipsicotica, sia di alcuni effetti indesiderati legati a questi farmaci (effetti extrapiramidali ed endocrini). 126

Inibendo le vie dopaminergiche, i farmaci neurolettici modificano in modo specifico alcune funzioni del cervello: riducono l’iniziativa e la capacità d’intrapresa, l’interesse per il mondo esterno, l’affettività , senza peraltro alterare le capacità intellettive. A dosi elevate possono provocare sedazione profonda e limitazione nei movimenti, nonostante non siano dei sedativi veri e propri. Nei pazienti schizofrenici producono una diminuzione dei sintomi allucinatori, dei pensieri disorganizzati e incoerenti, del comportamento aggressivo, favorendo la collaborazione con l’ambiente. A tali effetti terapeutici si accompagnano spesso anche effetti neurologici: sono utili nel trattamento delle forme acute e croniche della schizofrenia e sono attivi fin dalle prime settimane. In alcuni casi, il solo effetto di un neurolettico è un aumento di distanza dai sintomi psicotici, mentre le paranoie e le allucinazioni si indeboliscono, ma rimangono presenti sullo sfondo.I neurolettici hanno anche un effetto positivo sulle fissazioni e sulle idee distorte o paranoiche, come ad esempio la convinzione di essere sempre spiati o che

126 Tesi di Laurea in Psicologia “Il sostegno fra i pari” di Giovara S. e Chiarlo A., 2002, in corso di pubblicazione.

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qualcuno possa provocare una ecatombe, avvelenare il cibo, quant’altro.Brevemente, gli effetti maggiori sono di tipo neurologico e riguardano il controllo motorio ( effetti extrapiramidali) con distonie acute, acatisia e spesso sintomi parkinsoniani; gli effetti endocrini sono mediati da un’aumentata produzione di prolattina che porta a disturbi del ciclo mestruale e della lattazione; sono da citare anche gli effetti ipotensivi e quelli a livello cardiaco, mediati dal blocco dei recettori adrenergici. Altri, benché meno frequenti, sono: visioni confuse, secchezza della mucosa labiale, aumento dell’appetito e problemi sessuali. Se vengono presi per un periodo di almeno sei mesi, i farmaci neurolettici possono causare la discinesia tardiva. Si tratta di uno stato caratterizzato da movimenti involontari, particolarmente della lingua e dei muscoli facciali, ma può anche interessare altre parti del corpo. Questi effetti collaterali, nonostante farmaci di nuova generazione come la clozapina ed il risperidone ne attenuino l’azione, inducono molto spesso le persone a cessare l’assunzione della terapia farmacologa; assai utili nel controllare le psicosi, sono anche potenzialmente pericolosi. Non è sempre necessario prenderli in maniera continuativa per un periodo prolungato, benché nel caso della schizofrenia, una dose di mantenimento possa essere effettivamente utile. In generale, comunque la prescrizione di farmaci resta un’operazione delicata, da progettare con cautela e soprattutto “su misura”, anche se moltospesso i servizi, quelli pubblici in primis, assai complessi e caotici, disattendono questa aspettativa. Sempre più persone si rivolgono al servizio di Salute Mentale e non c’è tempo per personalizzare la terapia; gli psichiatri

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stanno più al sicuro quando continuano a fare le cose già “collaudate” in passato e difficilmente si assumono il rischio di diminuire e/o cambiare i farmaci in questione, tendono invece ad utilizzarli in abbondanza per proteggersi da eventuali ritorsioni, quali denuncie operate da familiari di pazienti aggressivi, tentativi di suicidio, quant’altro. Questi fatti riducono la ‘scatola d’arnesi’ a disposizione del medico alle opzioni ‘più sicure’: terapia farmacologia “decisa”, ricovero in struttura protetta, TSO, Diagnosi e Cura. Dobbiamo però chiederci quanto siano efficaci questi mezzi di trattamento a disposizione dei medici, rispetto alla finalità di ottenere la guarigione.Come ci fanno osservare alcuni studiosi (Ciompi, Saraceno e De Luca), il miglioramento clinico e funzionale di (un cosìdetto) paziente, dipende più da fattori ambientali non controllati, quali i progetti e le aspettative di operatori, familiari, ecc., che da interventi focalizzati sui pazienti stessi. Ciò indica l’importanza fondamentale delle variabili “extratecniche ed extracliniche”127 nel determinare la riuscita/fallimento della riabilitazione. Rimane comunque indiscutibile, che per alcune persone i farmaci abbiano prodotto cambiamenti di vita salutari, e che per queste persone l’uso di farmaci abbia sortito grandi benefici. La ricerca ha infatti mostrato che un buon 33% di persone che usano neurolettici migliora fino a non richiedere più assistenza psichiatrica. Ma ciò non avviene per il restante 66% che nella migliore delle ipotesi ottiene benefici in modo assai limitato.

127 Saraceno B., De Luca L., I modelli teorici della riabilitazione: rilevanza e significati per la pratica, “Rivista di riabilitazione Psichiatrica e Psicosociale”, vol. I, n. 1-3, Idelson: Napoli, 1992

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È insieme pericoloso e inutile, considerare i farmaci qualcosa di più di una strategia a breve termine vieppiù quando si tratta di persone con problemi di salute mentale.Gli effetti a lungo termine dei farmaci psicotropi non sono ben conosciuti, specialmente nel caso dei cosiddetti neurolettici atipici o dei nuovi antidepressivi come il prozac. Sappiamo che il Prozac crea dipendenza, contrariamente a quanto sostengono i produttori. Sappiamo che almeno una persona alla settimana muore come diretta conseguenza di trattamenti neurolettici e che molti utenti avvertono gli ‘effetti collaterali’ dei farmaci come peggiori dei sintomi per cui sono prescritti. Questa ignoranza di comodo riguarda anche altri fattori, basti pensare al problema dei cambiamenti di personalità che si possono avere come diretta conseguenza dei trattamenti farmacologici.Altrettanto grave è il rischio di dipendenza.Per molti il dilemma da affrontare se si smette con i farmaci riguarda non tanto ‘le ricadute’, quanto le conseguenze dell’astinenza da farmaci. Breggin nel suo classico Toxic Psychiatry128 scrive:

“A causa dei problemi di astinenza, i pazienti dovrebbero cercare di smettere con i farmaci mentre ricevono supporto emotivo e sociale da altri e con la supervisione di qualcuno a conoscenza del processo. Si dovrebbe comprendere che i sintomi di astinenza possono incoraggiare il medico e il paziente stesso a riprendere il farmaco prematuramente, mentre ciò di cui il paziente ha realmente bisogno è il tempo di guarire dal farmaco.”Significativa è l’esperienza di Ron Coleman:

128 Breggin P., Toxic Psychiatry, St.Martins Press , New York, 1991

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“Per me smettere con l’assunzione di neurolettici è stata una delle cose più difficili che io abbia mai fatto. Anche se pensavo di capire cosa mi stava succedendo quando smisi con i farmaci (fui costretto a sballare, perché il mio psichiatra non volle sostenermi con un regime a scalare), niente mi avrebbe potuto preparare alla realtà dell’astinenza.A parte il sudore e i brividi, il malessere e l’insonnia, sentivo ancora più voci del solito. Avevo anche visioni (esperienza mai provata prima), allucinazioni centrate sul corpo (un’altra cosa nuova), e i miei pensieri divennero disordinati e confusi. Aggiungete una paranoia crescente e potete ben vedere che durante tutto il processo di astinenza ero un perfetto candidato per un ricovero motivato da ‘ricaduta dovuta a non-compliance’129.Sarebbe molto meglio se le persone affette da malattia mentale potessero optare per alternative senza farmaci (drug-free) e nel caso fossero indispensabili, ottenessero il sostegno necessario per affrontare l’astinenza in modo strutturato.”130

È la proprio la mancanza di un approccio centrato sulla persona che condanna a mio parere l’approccio farmacologico. I farmaci non sono dati su base individuale (per quell’individuo), ma in considerazione dei macro-fattori elaborati dall’industria farmaceutica, attraverso sperimentazioni cliniche e una metodologia insufficiente e molto discussa. Il problema drammatico degli psicofarmaci è ancora una zona d’ombra della psichiatria: quanto male possono fare a medio-lungo termine e quanto bene a breve termine. Il costume che ha prevalso storicamente e che poi si è imposto a tutt’oggi, è la sottovalutazione sistematica della “questione negativa” (gli ‘effetti avversi’), mentre 129 Non compliance. La non accondiscendenza, dove compliance è la compiacenza che coloro che sono giudicati affetti da disturbi mentali devono dimostrare verso l’istituzione, la diagnosi ed il trattamento.130 Coleman R., Guarire dal male mentale, Manifesto Libri, Roma, 2001

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è stata enfatizzata “la questione positiva”, cioè l’’efficacia’.Tale benevolenza ha dato un’immagine distorta del profilo benefici-rischi, cioè del bilancio tra “quanto bene e quanto male” può fare uno psicofarmaco a colui che lo assume, che dovrebbe poi essere il criterio base per giudicare qualsiasi pharmakon (che come sappiamo è termine dall’etimo ambivalente, da sempre “medicamento” “veleno” insieme). Oggi soltanto a sprazzi e in qualche rara occasione ci si preoccupa di mettere il dito sulla piaga, ed è appunto il caso di Breggin: nel libro sul Prozac, solleva la gravissima questione di come il cervello nella sua intrinseca plasticità si riorganizzi per compensare l’aumento forzato di serotonina provocato dai farmaci di quel tipo e di come se usato per lunghi periodi, provocare episodi “maniacali” improvvisi, con casi di suicidio e/o omicidio.In un suo libro precedente, Toxic Psychiatry (St. Matrin Press, 1991), aveva denunciato punto su punto la gravità dei danni neurologici che tutte le classi di psicofarmaci possono produrre. In particolare i neurolettici, scompensano il sistema motorio generando effetti “parkinsoniani” (come i tremori, le posture e i movimenti incontrollati degli occhi e della bocca).Che questo sia il prezzo da pagare per il vantaggio a breve di controllare i deliri, è qualcosa di storicamente deciso in funzione più del controllo sociale , che della persona che vive la drammatica esperienza. Perciò Breggin ha definito (con grande impeto) i neurolettici “la camicia di forza chimica”.Phil Thomas parla di due livelli di intervento farmacologico, l primo basato sull’uso di piccole dosi di farmaco, specialmente nel caso degli antipsicotici, e lo chiama dosaggio terapeutico; un secondo livello

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d’intervento, basato su alti dosaggi, che chiama controllo sociale. Nel suo libro The Dialectis of Schizophrenia131 scrive:

“Le preoccupazioni per l’uso di alte dosi di neurolettici si sono concentrate su due aree in particolare. Molti psichiatri ed infermieri psichiatrici che lavorano in reparti ospedalieri, trovano che le condizioni date in questi reparti contribuiscono al bisogno di alte dosi di farmaci”.

E continua dicendo che nella sua esperienza i giovani medici tirocinanti sono chiamati più spesso a prescrivere i farmaci, quando lo staff è ridotto. L’uso dei farmaci come mezzo di controllo sociale non è niente di nuovo: spesso nella storia si è cercato di affrontare i problemi sociali utilizzando soluzioni chimiche. È importante comprendere che i farmaci da soli non sono sufficienti a curare le persone ed a consentirne un pieno recupero: come regola, essi sono solamente un aiuto, uno dei tanti strumenti a disposizione del curante per alleviare la sofferenza di chi è affetto da malattia mentale.

4.1.4Sulla 180; una legge di difficile applicazione In un clima come ben sappiamo di fermento innovativo e sulla scia delle lotte studentesche ed operaie che appoggiano la chiusura definiva degli ospedali psichiatrici, il 13 Maggio 1978 viene approvata dallo

131 Thomas P., The Dialectics of Schizophrenia, Free Association, London, 1997

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stato italiano la legge 180, detta anche legge Basaglia132.I principali elementi innovatori della legge possono essere così riassunti:

“Divieto di costruire nuovi ospedali psichiatrici e di far entrare i pazienti nuovi in quelli già esistenti, i quali devono essere gradualmente superati ed utilizzati diversamente” (art. 64). “Il trattamento sanitario obbligatorio per la malattia mentale (TSO) (art. 34) deve essere attuato nel rispetto della dignità della persona, dei suoi diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura e deve essere accompagnato da iniziative volte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”.

Il TSO (art. 33,34,35) viene proposto da un medico e deve essere convalidato da un secondo medico dell’Azienda Sanitaria Locale. Entro le 48 ore dalla convalida viene disposto dal sindaco e notificato al giudice tutelare. Questo TSO può essere effettuato in condizioni di degenza e in questo caso vi sono appositi reparti ospedalieri ( Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura). La legge non fissa un limite di durata del TSO ma nel caso in cui questo “debba protrarsi oltre il settimo giorno e nei casi di ulteriore prolungamento” (art. 35) in quanto il paziente continua a star male e continua a rifiutare di curarsi volontariamente, lo psichiatra deve motivare questo fatto al sindaco che ne deve informare il giudice tutelare. Inoltre la legge cancella il giudizio di pericolosità sociale, che giustificava l’intervento della polizia e della magistratura.

132 Riforma sanitaria e psichiatrica: La regione e le unità sanitarie locali per l’attuazione della legge 180. Atti del seminario: “I presidi semiresidenziali e residenziali in psichiatria”. Ravenna, 1981. Dipartimento Sicurezza Sociale della Regione Emilia-Romagna.

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4.1.5 Conclusioni provvisorieQuesto breve cenno sulla legge Basaglia, 25 anni dopo la sua emanazione è stato per me “un passaggio obbligato”, oltre per la specificità dell’argomento proposto in questo lavoro, per la nota polemica dei nostri giorni, mi riferisco alla proposta di legge Burani Procaccini, legge che prende il nome dal ministro che l’ha proposta e che ha innescato una reazione di protesta molto dura fra i sostenitori della legge Basaglia.Il 10 Luglio scorso l’onorevole Burani ha presentato alla XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati il testo che raccoglie le proposte di modifica della legge 180.Una prima caratteristica della proposta è costituita dall’abrogazione delle norme ( di cui agli art. 34, 35 e 64 della legge 833/78) che recepivano tale legge e integravano le attività di assistenza psichiatrica nel Servizio sanitario nazionale.In parole povere ci troviamo di fronte a una “legge speciale” per la psichiatria, in quanto le persone affette da disturbi mentali hanno condizioni e opportunità di esercitare il proprio diritto di cittadinanza, diverse da quelle degli altri cittadini, anche per il tempo dell’intera vita. Senza entrare in profondità della questione, non è questo l’ambito, mi preme tuttavia segnalare insieme agli amici dell’auto aiuto, il mio biasimo per il maldestro tentativo di restaurazione del ministro. Chiarita la mia posizione, d’altra parte chi ha conosciuto la filosofia dell’auto aiuto non ha dubbi su che sponda stare, in riferimento alla legge 180, mi premeva invece

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sottolinearne l’attualità e l’alto contenuto morale, sociale e politico. Con la 180 cambiano radicalmente le idee e i concetti di malattia mentale, ma soprattutto si modificano gli strumenti per fronteggiare la malattia. Con uno slogan: più sociale, meno medicine.Si prefigura la creazione di un sistema psichiatrico nuovo, costituito da momenti differenziati di intervento sanitario e sociale in risposta ai bisogni diversificati dei cittadini , per cui il ricorso al ricovero ospedaliero diventa solo una tra le possibili soluzioni allo stato di disagio/malattia.Cambiano i luoghi della riabilitazione: l’intervento si sposta dallo spazio limitato/limitante dell’ospedale ai presidi extra ospedalieri, in cui il collegamento con il territorio e quindi con l’ambiente naturale del soggetto rappresentano un momento importante e qualificante dell’intervento stesso. In altre parole significa affrontare i problemi là dove si manifestano, nella “complessità del reale che li determina e li condiziona, utilizzando tutte le risorse contenute nel territorio.” 133

4.2 Uscire dalle cure psichiatriche4.2.1Introduzione

133 Zani B., Palmonari A., (a cura di ) Manuale di psicologia di comunità, Il Mulino, Bologna, 1996

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Arrivati questo punto è necessario rivedere le concezioni di salute e di malattia, sfatare i miti psichiatrici che pervadono la nostra cultura. Quando delle persone si rivolgono al servizio di Salute Mentale oltre a dover subire “la pena” del trattamento, devono fare i conti con lo stigma della malattia mentale. Ancor oggi purtroppo l’ideologia medico-psichiatrica impera al punto da mistificare il disagio e la sofferenza psichica, come malattia che solo gli esperti sono capaci di trattare. Gli individui che non si adattano ai ruoli sociali loro assegnati, le persone disturbate, gli infelici o i depressi, possono facilmente vedersi attribuire se si rivolgono con una certa frequenza al servizio di salute mentale, un’etichetta psichiatrica indelebile e diventare soggetti (o forse si dovrebbe dire ‘oggetti’) di un trattamento coatto. A volte capita , che qualcuno si rivolga direttamente e volontariamente a una struttura per trovare sollievo, una risposta ai propri problemi, e allora potrebbe scoprire prima o poi, che non gli verrà offerto alcun aiuto e che avrà sempre più difficoltà ad andarsene. “C’è ancora molto da fare per costruire un sistema di valide alternative. Lavorando insieme, quelli che una volta erano pazienti, possono costruire delle alternative, occuparsi veramente dei bisogni delle persone e aiutarsi l’un l’altro ad acquisire autonomia[…] ”134.

134 Chamberlin J., Da noi stessi, Primerano, Roma, 1990

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4.2.2La storia di Ron Coleman a le “Parole Ritrovate” (Traduzione inedita )

Buongiorno a tutti. E’ un vero piacere essere qui a Trento. Ringrazio moltissimo gli organizzatori per aver promosso questo convegno.Mi chiamo Ron Coleman e nel 1982 mi hanno diagnosticato la schizofrenia per poi dirmi nel 1987 che era diventata cronica .Nel 1991 mi hanno riferito che la mia malattia era la schizofrenia tipica .Sono cresciuto in una famiglia metà scozzese e metà irlandese, anche marxista .Da bambino volevo fare il prete e a dodici anni volevo andare in seminario a studiare . Mi dispiace , non ci sono riuscito. Il parroco locale si è ammalato e d è stato sostituito con un parroco più giovane. A dire il vero più che un parroco era un pedofilo . Sono stato stuprato da questo giovane prete ed ho perso il desiderio di prendere i voti . Ciononostante ho avuto un vantaggio in questo momento della mia vita, quello di avere un vero e proprio amore per il rugby. Giocavo veramente molto bene ed evidentemente questo sport mi ha permesso di recuperare dal trauma . Poi mi hanno anche detto però che non sarei mai diventato un grande giocatore . Sembrava che il mio, destino fosse quello di una vita ordinaria . Ancora oggi a distanza di molto tempo dallo stupro trovo difficile entrare in una chiesa Un giorno insieme alla mia squadra di rugby entrò in bar una giovane donna e fu subito amore a prima vista.

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Credo che l’amore sia l’ultima esperienza psicotica .La giovane donna era un’artista una scultrice , si chiamava Annabelle. Ci siamo subito fidanzati . Annabelle mi insegnò la differenza fra abuso e controllo , mi insegnò l’amore , come fare l’amore , sopratutto mi insegnò ad apprezzare la cultura . Questo fu il periodo più bello della mia vita , fino naturalmente all’arrivo della mia moglie attuale (sorriso ironico). Un sabato tornando a casa vidi Annabelle sdraiata sul divano . Tentai di svegliarla ma non ci fu niente da fare. Allora chiamai un’ autoambulanza che la portò in ospedale dove perì dopo tre giorni. Lasciai la Scozia e mi arruolai nell’esercito, dove feci vita segregata ; gli unici momenti in cui mi concedevo qualche chiacchiera erano quando andavo all’allenamento di rugby. Congedato dall’esercito andai a lavorare a Londra in una compagnia finanziaria. Un giorno , forse un sabato , mi feci male mentre giocavo , mi portarono in ospedale e mi dissero che non potevo più giocare. Sei settimane dopo e per la prima volta ho sentito una voce che mi parlava dietro alle spalle . Stavo lavorando al computer e quella voce mi diceva che avevo sbagliato procedimento. Mi voltai e scoprii che non c’era nessuno. Andai al bar ad ubriacarmi. All’inizio non andai dal medico, ma dopo un pò di tempo è stato necessario. Ho perso quasi subito il mio lavoro, la casa e tutto quello che avevo nella vita. Raccontai al mio medico che continuavo a sentire queste voci, per la precisione sei tipi di voci ed il mio medico mi disse di rivolgermi ad uno specialista, senza specificare. Se mi avesse detto uno psichiatra sarei scappato subito, perchè andare dallo psichiatra non è certamente senza stigma. Mi hanno preso e mi hanno messo in questo sistema, dove sono stato isolato ed dove ho perso tutti i diritti, la

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stima di me stesso, sempre soggetto a controllo e dove tutti erano interessati alle mie voci. Non mi lasciavano rischiare nulla e mi hanno riferito che sarei rimasto malato per tutta la vita. Questo sistema a me non piaceva perchè creava dipendenza nelle persone che giorno dopo giorno perdevano contatto con il mondo. Mi piacerebbe chiedervi, quante persone lavorano nel sistema psichiatrico? ( brusio generale di disapprovazione) Quante persone di voi entravano nel sistema per mantenerlo così com’è, funzionale al controllo e alla custodia, senza considerare i diritti dei pazienti? ( aumenta il brusio e la disapprovazione). Quanti di voi sono d’accordo ad affidare completamente i propri figli alla cura e all’ educazione di “altri” ?Quanti utenti secondo voi potrebbero dire che questo sistema è buono per la mia vita? Nessuno. Quanti professionisti dicevano che il loro lavoro consisteva nel ridare una vita normale a queste persone? Quante persone andavano a richiedere i loro cari? Quante persone come me dicevano : “io voglio avere diritto di vivere la mia vita”? Nel sistema di “mantenimento” tutto ciò non è possibile. Il cosidetto sistema di mantenimento riduce tutto ad una ottica biologica, dove chi è ammalato lo resta per sempre. Le mie aspettative erano quelle di ritornare ad una vita normale molto presto. Mi dicevano che se avessi preso le medicine per dieci giorni sarei guarito, ma dieci giorni sono diventati dieci mesi, dieci anni.Dopo dieci anni sentivo esattamente le stesse voci di quando mi sono ammalato. Forse sono peggiorato, anziché sentire sei voci ne sentivo sette. Poi incontrai una donna che diventò molto importante nella mia vita. Era una assistente sociale. Questa operatrice mi ha introdotto in un gruppo di uditori di voci. E’ stata per

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me la prima guida fuori dal sistema di mantenimento classico. E’ arrivata in ospedale dov’ero ricoverato, mi ha detto che le persone si raccontavano le loro esperienze e che questo mi avrebbe aiutato.Io le risposi che era pazza e che non sarei mai andato a questi gruppi. Però ero rinchiuso in ospedale e lei mi disse che finito il gruppo saremmo andati a bere una birra e questo fece molta attrazione in me. Non avendo bevuto una birra da molto tempo pensai che fosse una buona idea. Cominciò tutto non per curiosità di questo gruppo ma per bere per l’appunto una birra. Nel gruppo qualcuno mi ha chiesto se sentivo delle voci. Mi hanno detto per la prima volta che quelle voci erano vere, cioè che anche loro le avevano sentite. A questo punto cambiai idea sui gruppi e questa persona diventò la mia guida. ( breve introduzione della traduttrice che sottolinea come da questo momento in avanti inizia il processo di guarigione).Scoprii che dovevo imparare dalla mia esperienza. Il senso di “proprietà” è l’inizio della guarigione.Gli operatori, i medici, non avendo avuto le nostre stesse esperienze dolorose possono aiutarci fino a un certo punto, poi dobbiamo pensarci da soli a ritrovare le forze e la via della guarigione. Dovevo scegliere fra essere malato o essere normale. Per poter fare questa scelta prima dovevo riappropriarmi di quello che era mio e questo voleva dire affrontare le mie voci. La voce del prete mi raccontava che andavo all’inferno e solo quando ho potuto dire che non è stata colpa mia quello che è successo ho cominciato a star meglio. Molte persone che sentono queste voci sono state in un modo o nell’altro abusate. Il problema maggiore non è tanto sentire le voci quanto sentirne la colpa, la

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responsabilità: l’idea di trattare la malattia piuttosto che comprenderne le cause. Bisogna curare le persone e non i sintomi. Quando tratti con la causa tratti con la realtà. Nel percorso di guarigione bisogna accettare la malattia, ma bisogna anche lavorare sull’autostima. Se mi sento sempre colpevole non mi posso perdonare e non posso intraprendere un percorso di guarigione.Ci sono tre aspetti della colpevolezza che devono essere correttamente affrontati:Il primo riguarda la responsabilità personaleIl secondo l’orientamento sessualeIl terzo inerisce alla colpevolezza delle cose che ho goduto ( aspetto del quale nessuno vorrebbe mai parlare).Solo comprendendo questi tre aspetti della colpevolezza scoprii che ero innocente e quindi in grado di ricominciare a vivere.La colpevolezza delle cose che ho goduto, cioè il terzo aspetto è stata la cosa più dura da ingoiare. Il fatto di aver goduto scoprii nel tempo, era legato ad un fattore biologico e non al piacere di essere stato abusato.Quando ho capito questo concetto ho cominciato a perdonarmi. Tanta gente mi aveva detto che non ero colpevole, ma solo quando io solo, ho capito questa cosa, telefonai al prete dicendogli che aveva solo tre giorni per recarsi alla polizia, se no ci avrei pensato io stesso. Adesso questo prete è rinchiuso in monastero. Come tanta gente ha fatto un patto con la chiesa, la scelta era fare tre anni in prigione o il resto della vita in monastero. Lui ha scelto questa seconda via. La cosa importante nella guarigione è quella di spostare il paradigma. In occidente solo il 33% delle persona

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affette da schizofrenia guariscono. In India guarisce l’87% .Dove vi piacerebbe ammalarvi di schizofrenia? In occidente o in India? La guarigione deve essere un obiettivo a cui tutti aspirano: utenti, familiari, operatori. Questa è una condizione indispensabile affinché si attivi il processo: avere l’aspettativa, la speranza di guarire.Ci sono numerose cose che possiamo cambiare subito, a partire dalla credenza che una persona possa guarire. Se sistema di cura e familiari non credono nella guarigione come possiamo guarire?Il compito e l’ambizione dei professionisti, degli operatori è quello di credere per primi nella guarigione, diversamente come fanno a trasmettere che guarire è possibile? Bisogna promuovere l’indipendenza e l’interdipendenza delle persone affette da schizofrenia, piuttosto che la cultura della dipendenza.Bisogna rischiare, dare la possibilità al paziente di rischiare, e quando si sbaglia, leggere l’errore non come patologia ma come parte normale della vita. In Inghilterra per esempio l’assistente sociale è più preoccupata della pulizia dell’appartamento, di quello che sente e prova il paziente. Perché se l’appartamento è in disordine allora la testa è in disordine. Io dico all’assistente com’era la sua casa stamani quando si è diretta al lavoro? Perché la nostra casa dev’essere diversa? Se noi stessi non crediamo di poter guarire, se non crediamo che la gente meriti di aver qualcosa, di essere ascoltata, se non creiamo le occasioni per lasciare le strutture psichiatriche, siamo anche noi parte del problema e non della soluzione.Possiamo scegliere se essere parte del problema o della soluzione. Io lavoro nell’istituzione oggi, perché credo

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che le persone possano guarire. Se non credessi in questo fatto avrei fatto il commercialista, avrei guadagnato di più.Credo che tutti abbiano il sacrosanto diritto di guarire ed avere almeno una possibilità nella vita. L’Italia, paese dove iniziò la rivoluzione psichiatrica, ha l’obbligo morale di continuare la strada intrapresa.La rivoluzione non è stata fatta per mantenere i pazienti nelle Comunità, ma per conservare i diritti di cittadinanza. Per me il significato di guarigione è indissolubilmente legato a quello di cittadinanza.

4.3 Uno sguardo alla salute mentale di Parma4.3.1 Breve premessa Dopo questa breve premessa necessaria per introdurre il contesto in cui si svolge la mia esperienza di facilitatore del gruppo di auto mutuo aiuto (“quelli che l’ama”) sorto all’interno del servizio di Salute Mentale, descriverò in modo analitico la struttura psichiatrica di riferimento, nel tentativo di spiegare la morfologia e le caratteristiche peculiari del gruppo, grazie anche alla sua particolare collocazione. La Steinberg ci avverte che i fattori sistemici quali, l’ambiente organizzativo, il luogo, le esperienze di gruppo pregresse, condizionano la possibilità che il gruppo possa ben funzionare.135

135 Steinberg D. M., L’auto/mutuo aiuto. Guida per i facilitatori di gruppo, Erickson, Trento, 2002

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4.3.2 Il Centro di Salute Mentale (C.S.M.) 24 ore I ntroduzione: Con il lento ma inesorabile superamento dell’Ospedale psichiatrico i servizi territoriali vengono articolati in un modo completamente nuovo.All’interno dell’Azienza Sanitaria Locale (ASL) di Parma c’è il Dipartimento di Salute Mentale(DSM) preposto per tutelare per l’appunto la salute mentale della popolazione nell’area geografica a cui fa riferimento. Svolge attività di prevenzione, cura e riabilitazione, coordina e gestisce i diversi presidi che lo compongono. Il DSM è composto dai Centri di Salute Mentale, concepiti come fulcro del trattamento e punto di partenza della presa in carico dell’utente, sia da un punto di vista clinico sia sociale.Abbiamo poi il servizio psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) reparto collocato all’interno dell’ospedale civile e adibito al trattamento delle acuzie. I Centri Diurni preposti alla riabilitazione psicosociale dell’utente, promuovono i percorsi di inserimento sociale e lavorativo attraverso trattamenti semiresidenziali. Da ultimo le Comunità protette sono articolate su diversi gradi di protezione: Comunità ad alta, media, bassa intensità assistenziale e case alloggio.Così inquadrato il servizio di Salute Mentale di Parma permette di far fronte a svariate esigenze:

gestire in modo adeguato la deistituzionalizzazione dei lungo degenti( persone con un lungo passato manicomiale) grazie ad interventi riabilitativi e d’integrazione sociale in un

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ottica di reinserimento (lento ma progressivo) nel tessuto cittadino

riabilitare quei soggetti in carico al servizio che rischiano di rimanervi in modo permanente ( i cosiddetti nuovi cronici)

rispondere tempestivamente alle crisi acute temporanee.

4.3.3Ancora sul C.S.M. 24 OreC aratteristiche strutturali e organizzative: Collocato nell’Unità Operativa Parma Nord, il C.S.M. è articolato in due sedi:

a Colorno dov’è collocata fisicamente la sede con gli ambulatori dei medici, lo studio degli educatori, il Day Hospital (per terapie infusive)

a S.Polo di Torrile (a 6 Km di distanza da Colorno e a 18 Km da Parma) dov’è collocata la residenza con i suoi 10 posti letto occupati da utenti psichiatrici provenienti non solo dal territorio di competenza, ma anche dal Dipartimento tutto. Il C.S.M. 24 ore funziona inoltre come Centro Diurno, soprattutto per quelle persone in carico al servizio già dimesse o che fruiscono di progetti riabilitativi individualizzati.

Gli operatori delle due sedi fanno parte di un’unica equipe funzionale, composta da 5 medici, 2 educatori, 17 infermieri. Mentre gli infermieri ( 3+3 ) a Colorno garantiscono una apertura del servizio ambulatoriale e domiciliare di 12 ore, a S.Polo (11 unità) garantiscono il turno sulle

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24, più il medico psichiatra referente della struttura ed un educatore a tempo pieno (In passato e solo per un anno, ha collaborato anche una psicologa borsista). Tale equipe funzionale, oltre a svolgere attività assistenziali e riabilitative, si dedica alla promozione della salute mentale in tutto il territorio di competenza (attualmente di 28.000 abitanti, ma che secondo atto aziendale dovrà comprendere quanto prima una popolazione di 70.000). In questo modo si cerca di praticare la continuità terapeutica, privilegiando le situazioni più gravi che richiedono programmi e trattamenti complessi e prolungati.L’idea di formare una equipe unica, a parte qualche problema iniziale di natura prettamente sindacale, legato all’insofferenza di qualche operatore ad accettare spostamenti continui senza aver riconosciuto nessun tipo di indennità, ha facilitato la comunicazione nell’equipe permettendo una maggior flessibilità degli interventi proposti. Ad esempio in situazioni di urgenza quali il T.S.O. , un infermiere in servizio alla residenza di S.Polo, può temporaneamente supportare i colleghi e/o viceversa in caso di malattia, un infermiere in servizio al territorio, può facilmente sostituire un turnista. Gli infermieri del territorio poi, supportano quasi quotidianamente le attività che si svolgono a S.Polo (di cui farò menzione dettagliata nel prosieguo di questa descrizione), accompagnando gli utenti in loco e partecipando attivamente alla programmazione e allo svolgimento delle stesse.

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4.4 Il C.S.M. 24 Ore di S.Polo di Torrile D escrizione del luogo La casa è spaziosa, circondata da un piccolo giardino e aperta su una piazza chiusa al traffico automobilistico . Al piano terra ci sono due grandi soggiorni, utilizzati uno per le attività riabilitative, l’altro per la riunione di servizio e per il pranzo degli utenti, un cucinino, una guardiola infermieristica e tre bagni, mentre al primo piano (collegato con ascensore) vi sono cinque camere da letto ( due/tre posti letto ognuna, più bagno-doccia), l’ambulatorio medico, uno spogliatoio per gli infermieri. In tutto, la parte residenziale, consta di dieci posti letto per brevi degenze, due di appoggio per progetti individualizzati sulle attività diurne.Per le urgenze vi è sempre un medico reperibile, sia di giorno che di notte; è sempre possibile attivare anche la reperibilità infermieristica.Come si evince dalle cose dette , al C.S.M. 24 ore di S.Polo di Torrile, affluiscono utenti psichiatrici da tutta la provincia di Parma, circa il 40% dei ricoveri vengono compiuti da altre unità operative. (Tabella dell’attività del C.S.M. relativa agli anni 2001 e 2002, allegata in appendice)

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4.4.1Le funzioniL avoro condiviso . La riunione quindicinale con il direttore dell’Unità Operativa è il luogo deputato dall’Equipe per la discussione, il confronto, la progettazione, la condivisione delle decisioni. Oltre a questo spazio di programmazione generale, al quale partecipano oltre ai medici referenti delle diverse strutture, i coordinatori infermieristici e gli educatori professionali(uno dei quali è lo scrivente), ogni struttura facente parte dell’Unità Operativa ha la sua riunione settimanale(sempre presieduta dal Direttore che di volta in volta invita per esempio un educatore per presentare una nuova attività e/o un progetto riabilitativo individualizzato, con il medico referente che illustra la parte clinica)nella quale si discutono le varie situazioni in carico, si monitorano i progetti e le attività abilitative, con un taglio più “circostanziato” della prima .La riunione settimanale diventa gioco-forza un luogo formativo, l’incrocio dei saperi caldi e del vissuto degli operatori, dove paure, intuizioni e confronto delle diverse esperienze, danno faticosamente vita al “fare riabilitativo”. All’inizio dopo l’approvazione da parte dell’Azienda di trasformare l’allora Comunità residenziale in C.S.M. 24 Ore, c’è voluto tempo per capire come procedere per

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produrre quei cambiamenti necessari alla trasformazione. Si è cominciato con la dimissione dei lungodegenti in altre strutture( psichiatriche e non) promuovendo sempre più( il processo è ancora in corso) nuovi progetti proprio a partire dalla casa, che dev’essere aperta ( appartamenti con vari gradi di assistenza), accogliente e vissuta. La casa così intesa riacquista un nuovo significato, è “il luogo dell’abitare”, lo strumento per antonomasia, insieme al lavoro, che restituisce indipendenza e dignità alla persona136.In un secondo momento si è cominciato a discutere nel dettaglio quali regole dovesse avere il C.S.M. 24 Ore di S.Polo di Torrile, tanto che l’idea condivisa anche con gli utenti presenti all’epoca, è stata quella di scrivere una Carta dei Servizi.Abbiamo dedicato molte energie a questo lavoro, soprattutto nella prima fase di riflessione e discussione in gruppo; ci sembrava importante che la trasformazione fosse condivisa il più possibile da tutti e non imposta dall’alto. In conclusione ci siamo detti, che l’utente è prima di tutto una persona da ascoltare, non porta solo sintomi o problemi, ma anche abilità e risorse forse naufragate durante la malattia, ma che possono essere riscoperte e valorizzate col nostro supporto.

C lima operativo . Sono finalmente cambiate le vecchie consuetudini della precedente residenza psichiatrica, come quelle delle porte chiuse, di esercitare un forte controllo sulle uscite, denaro e sigarette. Questo clima “di riforme” ha 136 D.P.R. 10 novembre 1999 Progetto obiettivo” Tutela della salute mentale 1998-2000”

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contribuito ad abbandonare vecchi modelli di lavoro di stampo custodialistico ed impositivo, in favore di un atteggiamento caldo, empatico, più improntato alla relazione di fiducia reciproca e dove le persone possano sperimentarsi in un modo diverso ri-formulando un nuovo progetto di vita.Dagli utenti si pretende ( compreso i più gravi) di non regredire nella passività tipica di chi è ricoverato in una struttura psichiatrica e di assumere un atteggiamento attivo fin da subito, partecipando alle numerose attività abilitative del Centro. L’obiettivo precipuo è quello di evitare la riproposizione del modello ospedaliero, avulso da ogni contesto ambientale e temporale( non-luogo e non-tempo) in cui il ricovero viene vissuto come un posteggio in attesa del miracolo o di una sedazione farmacologica. Se consideriamo la malattia psichiatrica come crisi o scompenso, non di una singola persona isolata dal suo contesto di appartenenza, ma inserita in un sistema relazionale, in cui probabilmente il più debole (l’utente) manifesta il suo malessere attraverso il sintomo (dove sono implicati tanti attori) , appare quanto mai opportuno mantenere in vita un contesto ambientale/relazionale stimolante e aperto, dove le persone possono riproporsi e sviluppare relazioni sociali “fresche”, assumere ruoli diversi, che non siano obbligatoriamente quello del malato. 137

I risultati di questa nuova impostazione di lavoro, purtroppo ancora poco documentati, sono stati fin’ora confortanti. Abbiamo visto persone in grande crisi, recuperarsi in poco tempo e mostrare capacità relazionali sorprendenti, grazie alla fiducia e alla stima (crediamo) che abbiamo riposto nei loro confronti.137 Selvini Palazzoni M., Boscolo L., Cecchin G., Prata G., Paradosso e controparadosso, Feltrinelli, Milano, 1975

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Da ultimo ma non come importanza si è scelto di dare una connotazione meno sanitaria anche nell’abbigliamento degli operatori, che abbandonano compiaciuti la vecchia divisa, in favore di un abbigliamento più consono al tipo di struttura (magliette, jeans, pile, chiesti appositamente e forniti dall’Azienda).

I nvio e accoglienza . Prima di un ingresso non urgente, il medico inviante nella maggior parte dei casi presenta la situazione nella riunione d’equipe, dove oltre ai dati anamnestici del paziente, terapia farmacologia, rapporti con la famiglia, quant’altro, si discute il progetto, ovvero le finalità del ricovero (cosa ci si attende) e quali azioni attivare per raggiungere quel risultato. Quanto più il progetto corrisponde ai bisogni reali dell’utenza e viene concordato con loro all’ingresso, tanto più il nostro lavoro si fa preciso e determinante.Nelle azioni preliminari della presa in carico gli utenti vengono invitati a visitare la struttura, a conoscere gli operatori, il medico e gli altri ospiti, a conoscere il funzionamento del Centro( gli viene mostrata la carta dei servizi), poi decidono volontariamente se accettare il ricovero.E’ necessario, al fine di instaurare fin da subito una relazione di fiducia (compliance) con gli operatori, che questo primo momento di accoglienza sia preparato nel minimo dettaglio, a cominciare proprio dal primo contatto con l’utente. Gli ospiti gia residenti vengono preparati da una breve comunicazione nella riunione

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quindicinale degli ospiti, dove oltre al medico e all’educatore sono presenti gli infermieri in turno.

R iunione con gli ospiti. La riunione con gli ospiti è un momento importante “ del fare educativo” degli operatori del C.S.M. 24 ore di S.Polo di Torrile. Gli argomenti trattati, a parte qualche lamentela rivolta agli infermieri che hanno il compito ingrato di far rispettare le regole, riguardano le proposte più disparate riguardo al cibo, le feste, quant’altro.Questa riunione peraltro sempre molto “gettonata”, ha lo scopo di costruire un progetto comunitario dove gli ospiti siano parte attiva dei processi di riabilitazione ; infatti questo spazio è uno dei luoghi deputati all’esercizio dell’assertività e della negoziazione138 dei bisogni.

U rgenze. Alcuni ricoveri urgenti provenienti dal nostro territorio di competenza, vengono accettati di buon grado, salvo che non vi siano problemi di tipo organico e/o assoluta mancata di collaborazione. Il C.S.M. non è attrezzato per le analisi emato-chimiche per cui ci si appoggia al poliambulatorio dell’Ospedale di Colorno, nella fattispecie al Day Center.138 Saraceno B., La fine dell’intrattenimento. Manuale di riabilitazione psichiatrica, Etaslibri, Milano, 1995

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Diverse gravi situazioni nel nostro territorio hanno potuto avere risposte adeguate in breve tempo, riducendo notevolmente le richieste di ricovero al SPDC di Parma. Altre richieste di ricovero inoltrate proprio dal SPDC hanno potuto trovare risposta al C.S.M. di S.Polo di Torrile per un appoggio temporaneo.

C ontinuità della cura. Il momento del ricovero è causato molto spesso da una crisi nel rapporto con la famiglia e/o con gli operatori del servizio di riferimento. Partendo dall’assunto che il ricovero per essere efficace dev’essere breve e che il titolare della presa in carico rimane l’inviante, ci pare fondamentale mantenere un rapporto costante con il medico e gli operatori dell’equipe e lavorare per ripristinare il buon accordo con la famiglia nell’intento di favorire il rientro dopo le dimissioni.Abbiamo potuto notare che alcuni operatori sono più sensibili a questo tipo di collaborazione, altri meno. Naturalmente, in considerazione proprio della “fisionomia” del posto e del suo mandato, siamo sempre meno disponibili a prendere in carico utenti senza un progetto chiaro e definito.

R apporti con le famiglie. I familiari hanno libero accesso alla struttura in quanto si è pensato, in linea di massima, che il rapporto tra loro

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ed il proprio parente si possa meglio ricomporre se c’è dialogo e prossimità139.Gli operatori ivi compreso il medico, sono sempre disponibili a dare o ricevere informazioni, sempre che l’ospite stesso non metta veti o limitazioni. In questi casi si è ritenuto, salvo piccole eccezioni, di rispettare la volontà espressa.Negli incontri con le famiglie (disponibili), il medico e due operatori della struttura, che hanno partecipato ad un corso di formazione interno sulle tecniche di colloquio con le famiglie di utenti psichiatrici “Trattamento integrato di tipo psico-educazionale” secondo il metodo Falloon140, hanno iniziato ad utilizzare la conoscenza e le tecniche apprese con buoni risultati. A detta delle famiglie stesse, da quando si tengono questi incontri , si sentono decisamente meglio.

D imissioni. Trattandosi come più volte detto di brevi degenze, il ricovero dovrebbe durare dai due ai quattro mesi (nel 90% dei casi le premesse sono state attese).Durante il ricovero si lavora per ristabilire un certo equilibrio psicologico oltre che a sondare attraverso le attività socializzanti ed abilitative, quali competenze possono essere mantenute ed eventualmente sviluppate, quindi si prepara il rientro in famiglia e/o nel luogo di provenienza.Quando le famiglie, per svariate ragioni, non sono in grado di accogliere il rientro di un parente, si prendono 139 Fruggeri L., Famiglie. Dinamiche interpersonali e processi psicosociali, Carocci, Roma, 1998140 Fallon L., Intervento psico-educativo integrato in psichiatria, Ed. Erickson, Trento, 1992

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in considerazione altre soluzioni( anche quando vi sono indicazioni in questo senso) quali appartamenti a vario grado di protezione, strutture residenziali, case di riposo.Titolare comunque del progetto di post-dimissione, vale la pena ricordarlo, rimane l’equipe inviante, di conseguenza risulta essere d’importanza vitale la collaborazione fra Unità Operative.

4.4.2 Gli strumentiE’ risultato utile e necessario proporre ai degenti del C.S.M. e agli utenti provenienti dal territorio, una offerta diversificata delle attività abilitative, al fine di favorire la socializzazione e di sviluppare quelle capacità in grado di invertire la rotta verso la crisi, l’isolamento e la cronicizzazione.Le attività proposte, possono essere continuate anche dopo le dimissioni con programma personalizzato rispondente ai bisogni della singola persona . Per gli utenti territoriali impossibilitati per vari motivi a recarsi sul luogo dell’attività, vengono organizzati dei trasporti ad hoc dagli operatori del C.S.M. di Colorno. ( Schema settimanale delle attività abilitative allegato in appendice).

4.5 “Quelli che l’a.m.a.”

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4.5.1 Un’ altra storiaIl gruppo di auto mutuo aiuto quelli che l’a.m.a. nasce su interessamento dello scrivente e di alcuni utenti del C.S.M. di S.Polo di Torrile, all’interno di questa struttura del Dipartimento di Salute Mentale di Parma. L’occasione è un corso di formazione della durate di tre giorni a Trento nel 1999, dove invece del classico convegno , lo scrivente e due ospiti del C.S.M., oltre agli operatori, agli utenti ed ai familiari di altre realtà nazionali, hanno avuto la possibilità concreta di partecipare ad alcuni momenti formativi su questa pratica di autocura.In quella occasione ci venne mostrato come alcune patologie psichiche possono trovare risposte adeguate ed essere affrontate dal “basso”, coinvolgendo in modo attivo le persone che ne sono state colpite. La cosa mi ha subito affascinato, e così ho cominciato a frequentare abbastanza regolarmente le proposte formative dell’associazione a.m.a. di Trento e a leggere un po’ di letteratura sul tema. I nostri racconti sui nostri nuovi amici, hanno pian piano suscitato curiosità ed interesse intorno all’auto aiuto, cosicché ci siamo autorizzati a chiedere al Direttore dell’Unità Operativa, la possibilità di utilizzare una stanza del C.S.M. per i nostri incontri settimanali.Nell’Aprile del 2000 comincia il cammino di”Quelli che l’a.m.a.” di S.Polo di torrile, un gruppo in fieri che assomiglia più ad un gruppo di conversazione che ad uno di auto aiuto vero e proprio. All’inizio c’è una grande confusione, tutti parlano contemporaneamente, si fatica a capire lo scopo del gruppo ed il senso degli incontri.

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Il mio doppio ruolo di facilitatore del gruppo ed educatore del Servizio, se da una parte è necessario per “regolare” le dinamiche comunicative, dall’altra è estremamente confusivo, sia per i membri, che per me stesso.Decidiamo per facilitare le interazioni fra i membri, di proporre alcune riunioni a tema, nell’intento di aiutare un po’ tutti ad esprimere le proprie opinioni e/o vissuti, e nel contempo, contenere le “smanie” di protagonismo, mantenere la conversazione su livelli di comprensione accettabili, consci del fatto che saper comunicare è un apprendimento che ha bisogno di tempo per essere acquisito. Le riunioni a tema se da un lato hanno il difetto di limitare lo spazio di condivisione dell’esperienza, dall’altro ci riparano, è stato così in più occasioni, da svariate insidie, legate all’incapacità di governare le proprie emozioni e dalla drammaticità di alcune esperienze. Di volta in volta si affronta un argomento diverso, che a turno e comunque volontariamente, un membro del gruppo decide di portare e sul quale in prima persona si impegna ad approfondire. Il gruppo comunque è un “luogo” aperto e libero, chiunque può intervenire se lo desidera e può andarsene quando vuole; l’unica regola che ci siamo dati, in linea con i principi dell’auto aiuto, è che non s’interrompe mai chi parla e si prende la parola a turno.E’ di fondamentale importanza assumere questa regola (ma è anche molto difficile), perché è proprio nell’ascolto che si possono modificare e migliorare le proprie idee, i comportamenti. Nel gruppo di auto aiuto nessuno ha ragione e nessuno ha torto, vengono semplicemente raccontate delle esperienze di vita con

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le quali ci si può identificare e dalle quali si possono trarre degli insegnamenti.Ma il lavoro del gruppo non si esaurisce naturalmente con la riunione settimanale. In modo elettivo e democratico, ci siamo dotati di una struttura organizzativa di tipo orizzontale : c’è un segretario che si occupa di tenere un piccolo diario di gruppo (in verità è un file che viene regolarmente aggiornato dopo ogni riunione), di tenere collegamenti telefonici e di posta elettronica con gli altri gruppi del territorio regionale e nazionale, di contattare le persone che faticano a sentirsi parte del gruppo, di fare accoglienza ai nuovi partecipanti, di allestire la stanza prima dell’incontro. Tutto viene condiviso dai membri, anche una piccola offerta (rigorosamente libera e non superiore a 0.50 Euro) effettuata al termine di ogni incontro, che serve a finanziare la tesoreria del gruppo e che rinforza il senso di appartenenza. E’ stato eletto a tale proposito un tesoriere che tiene la cassa ed il computo delle offerte . Naturalmente le cariche di servizio ( è così che si chiama) sono periodiche e tutti possono a turno ricoprirle. Con i pochi proventi della tesoreria, si aiutano i membri in difficoltà economica: per esempio si riesce a rimborsare ogni tanto qualche biglietto a coloro che per venire al gruppo devono prendere il treno e/o la corriera, si aiuta chi non ha tutti i soldi quando si esce a mangiare la pizza, quant’altro. Da quest’anno la nostra Azienda USL, nell’ambito di un progetto presentato dall’Associazione per la promozione della salute mentale e l’integrazione sociale “Va Pensiero”, costituitasi a Parma nel 1990, ha finanziato il gruppo di auto aiuto con un contributo annuo di 2.500 Euro.

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Per quel che riguarda il rapporto con gli altri gruppi del territorio nazionale, nel maggio 2002, in occasione di un convegno sull’auto mutuo aiuto a Savona, al quale abbiamo partecipato come relatori ( siamo stati invitati a raccontare l’esperienza del nostro gruppo ), è nata una profonda amicizia con i ragazzi del gruppo locale ”Un giovedì da leoni” che ci hanno ospitati qualche giorno dopo il convegno e con i quali manteniamo dei rapporti regolari.Sempre come relatori siamo stati invitati nell’anno in corso a Ravenna, Alessandria, Cinisello Balsamo, Sarzana, Bologna. In queste trasferte partecipiamo sempre numerosi e anche se pochi riescono a testimoniare la loro esperienza, c’è sempre molto entusiasmo e allegria.Insomma, lentamente ma con grande risolutezza, il gruppo comincia a dare i suoi frutti. Ultimamente siamo stati invitati anche all’interno delle nostre strutture in occasione di alcuni incontri di auto-formazione per il personale del Dipartimento di Salute Mentale di Parma dove abbiamo portato il nostro contributo.Dall’inizio dell’anno, siamo confluiti insieme al gruppo sportivo, nell’associazione Va Pensiero, nell’intento di creare una rete stabile di servizio, nella sua accezione più nobile del termine, cioè come rete di relazioni fra persone. Mettere insieme , organizzare l’ambiente, promuovere l’incontro fra persone, è a mio parere il back ground sul quale innestare i percorsi di cura e riabilitazione sociale.L’obiettivo è sempre quello di offrire un punto di incontro facilmente raggiungibile, soprattutto a coloro che vivono isolati, vittime di dell’ esclusione e della solitudine, che con la malattia psichica, diventano cause principali di sofferenza e disagio.

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Tutti i Venerdì dalle 11.00 alle 12.30 ci incontriamo al gruppo di autoaiuto e tutti i giorni o quasi, ci teniamo in contatto telefonicamente. Parlare di problemi comuni, condividerli, ritrovarsi insieme, sono tutte cose che possono sortire nel tempo, degli effetti di riparazione dell’esperienza.Attraverso il racconto/confronto della propria vita, può nascere una nuova consapevolezza dell’esistenza, un significato più profondo che è la condizione necessaria per uscire dalla “tentazione” dell’ammalato cronico. Da quando siamo entrati a far parte come gruppo di auto aiuto dell’associazione “Va Pensiero” di Parma, con la quale condividiamo alcune attività, quali gli allenamenti di calcio e le uscite infrasettimanali, il mio stile di lavoro ha subito ulteriori modificazioni. Tutto ciò naturalmente, sia da un punto di vista dell’organizzazione del servizio (nuovi orari, utilizzo del proprio automezzo, ecc.) sia da un punto di vista dei comportamenti e della mia posizione professionale. Anche nell’ambito del gruppo e del mio ruolo di facilitatore, ho riposto molta attenzione al linguaggio e ai miei atteggiamenti: l’helper è inevitabilmente il leader del gruppo, primo testimone e modello per i membri che ne fanno parte.Grazie a questa esperienza (spero di non peccare di presunzione) è migliorata la mia capacità di comunicare, di affrontare le difficoltà professionali (ma anche quelle personali) attraverso lo sviluppo, lento ma progressivo, della qualità dell’ascolto che può raggiungere il suo apice, quando s’impara a “tacer dentro sé stessi”. “Trasformare i confini in soglie”141 significa proprio questo, cominciare a rinunciare a difendersi (i confini 141 Langer A., La scelta della convivenza, E/O, Roma, 1995

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che segnano la proprietà) in favore di un atteggiamento di confronto e di apertura verso gli altri come per l’appunto rimanda il significato di soglia.Mi piace pensare che il gruppo “quelli che l’A.M.A.” di S.Polo di Torrile, è così che si chiama il mio, sia una grande soglia di ristoro e di speranza, per tutti quelli che cercano ascolto e comprensione.

4.5.2Registrazione di un incontro di auto mutuo aiutoFacilitatore: Ciao a tutti e benvenuti a questo incontro del ………..Vedo che siamo in tanti e questo mi fa piacere, ma voglio ricordare ai presenti di fare interventi brevi per dare la possibilità a tutti di parlare. Se siete d’accordo pensavo registrare questo incontro, vorrei inserirlo nella mia tesi di laurea.Monica : ti sei portato anche la telecamera nascosta? (risata generale)Facilitatore: vi ricordate di cosa abbiamo parlato la volta scorsa ? Se non ricordo male ci eravamo lasciati dicendoci che avremmo ripreso l’argomento.Mario: del lavoro, che non era facile lavorare 8 ore……Franco: il lavoro è importante perché ti permette di spendere qualche soldo. Volontaria: avevamo parlato si del lavoro, ma in funzione di uscire dal circuito psichiatrico, appunto dell’autonomia che si può raggiungere attraverso il lavoro.Maurizio: secondo me lavorare è molto importante e bisogna lavorare costantementeRosita: ma la costanza come si fa a raggiungere, per esempio per una persona come me, che al primo ostacolo o alibi si può…..perché dopo 18 anni che è

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stata chiusa e….. voglio dire come si raggiunge la costanza, con un certo impegno come dice il dottore ? Cristina: poco alla voltaEntra un collega per comunicarci che ha telefonato Pina che non riesce a venire.Rosita (continua): cioè è quello che io in qualsiasi cosa, qualsiasi esperienza per farla bisogna imparare a farla, al di là della volontà passano un giorno due o tre, poi casco. Sai quelle cadute da dire, da non rialzarsi più per non so quanto? Per esempio il corso di computer, ci sono andata due volte, poi … ho comincio in quarta e poi mi stanco, oppure parto piano e non riesco mai a continuare lo stesso.Facilitatore: vediamo se qualcuno a voglia di dirci come è andata per lui.Monica: si, anche per me la costanza si raggiunge poco alla volta. Anch’io le prime volte facevo fatica e poi pian piano ci sono riuscitaRosita: scusa ma a livello di ansia delle tue angosce o attacchi di panico…Monica: guarda secondo me bisogna cercare di controllarle, perché anch’io ce le ho, a volte mi capitano però cerco di controllarle. Prima non ci riuscivo mentre adesso a forza di .. di .. sforzarmi ce la faccio sempre di piùRosita: perché io..Facilitatore: scusa se ti interrompo, sentiamo l’esperienza di qualcun altro così ti puoi render conto meglio di quello che ti succede. Sentiamo per esempio Cristina che la volta scorsa non era riuscita a parlarci della sua esperienza lavorativa, sempre che Cristina ne abbia voglia, naturalmente.Cristina: io cominciato bene questa borsa lavoro nella scuola come aiuto bidella, ci sono andata 5 volte, però

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dopo un po’ nella mia testa ho cominciato a pensare che non ce la potevo fare, mi avevano accettata bene, però poi mi sono licenziata. Adesso sto meglio, anche se credo che dovevo avvertire l’Elena (educatrice che si occupa degli inserimenti lavorativi) prima di licenziarmi. Non so se dovrò trovare un altro lavoro, io non ho mai lavorato perché quand’ero sposata mi sono sempre occupata di mia figlia e della casa, e per me lavorare è molto difficile. Però riuscivo a fare tutto ed ero molto attiva. Dopo però mi è arrivata la malattia a 34 anni e sono 10 anni che vado su e giù. Adesso so che devo far qualcosa e che devo continuare a seguire il programma e l’autoaiuto.Breve interruzione: con grande disappunto del gruppo Mario, non resiste a tagliare la torta al cioccolato che ha fatto con le sue mani il giorno prima per noi, da consumarsi ovviamente non durante, ma dopo in gruppo. Lui si scusa dicendo che intanto prepara per dopo. Quale miglior occasione di questa per mettersi in mostra!Facilitatore: c’è qualcun altro che dopo la performance di Mario ha qualcosa da dire ?Arnaldo: il mio grosso problema, cioè io parto subito con una grossa smania, una grossa carica, finita la quale tendo un po’ a mollare le cose. Adesso speriamo che questa esperienza di tirocinio formativo che dovevo cominciare riesca bene e non come lo shazoo che per motivi di depressione, così, alla fine ho mollato. Diciamo che ho sempre fatto un sacco di cose e non sono mai riuscito a portarle a termine a parte quand’ero più piccolo negli scouts che sono durati 4 anni, il resto… calcio, boxe, bici…altre cose.

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Facilitatore: non so voi cosa pensate ma a me viene in mente che la difficoltà maggiore sia proprio la paura di essere capaci di fare qualcosa. Che ve ne pare ?Monica: questa cosa che dici tu, la dice anche mio marito Massimo.Sembra quasi…cioè la paura di saper fare le cose, hai proprio ragione.Rosita: allora cos’è mettersi in gioco, paura?Facilitatore: chi ha voglia di rispondereRosita: posso dire una cosa che ho notato, lei (Monica)diceva che bisogna fare le cose piano piano mentre lei (Cristina) che è molto difficile e bisogna….Facilitatore: c’è Franco, Maurizio e Giuliano, che devono ancora aprire bocca. Ci dite qualcosa anche voi ? Sapete no, qua in gruppo non è che troviamo già le risposte pronte e confezionate, ce le costruiamo con pazienza ascoltando gli altri e mettendoci in gioco.Maurizio: Massimo io quello che ti dovevo dire te l’ho già detto Franco: no ma… anch’io tendo a partire in quarta e poi …però col tempo e con l’età sono maturato anch’io, sono un po’ più costante ecco.Rosita: non è detto che uno più maturo sia anche più responsabileFacilitatore: diciamo che non sempre invecchiando si diventa più maturi e responsabiliCristina: io mi sento che per la mia età sono ancora immatura, anche se da quando mi sono ammalata soltanto adesso riesco a prendere la corriera da sola, prima non ce l’ho mai fatta.Franco: le paure vanno affrontate, io ce ne ho tante però, se ti fai frenare dalle paure è finita.Cristina: annuisce.

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Facilitatore: qualcun altro intanto che Rosita sta friggendo dalla voglia di intervenire! (risata generale)Alessandro: io quando andavo agli aquiloni ero molto entusiasta, ho cominciato il 15 gennaio del 1998 e nel settembre del 2000 ho cominciato a frenare, poco dopo non ci sono più andato.Mario: ho cominciato a lavorare all’epoca del referendum sul divorzio, sono andato a lavorare 8 mesi con mio padre che mi ha dato un ceffone sul posto di lavoro. Io a casa gli ho detto che il prossimo ceffone che mi dava me ne sarei andato e lui a distanza di poco tempo me ne ha dato un altro (risata collettiva compiaciuta).Io mi sono preso le mie cose e sono andato dal Direttore a dirgli che mi licenziavo per incompatibilità di carattere con mio padre. Lui mi rispose che era una cosa grave e io, che non potevo farci niente. Mi disse che potevo andarmene e io non persi tempo, girai per il paese dalle 10 di mattina fino alle 2 di notte.Poi ho fatto anche degli altri lavori.Facilitatore : hai finito Mario ? …. Allora vuoi dire qualcosa tu, Giuliano. No, preferisci ascoltare.Volevo dire qualcosa anch’io sul lavoro e cioè che sono d’accordo che il lavoro comporta una fatica, una fatica quotidiana ed è proprio quest’ultima secondo me la difficoltà maggiore, proprio perché ti impegna tutti i giorni. Ogni giorno bisogna alzarsi da letto, anche se non si ha tanta voglia e andare a lavorare. Poi però di contro uno guadagna i soldi per uscire con gli amici, andare in vacanza, ecc..Non so se sono un po’ masochista o cosa, ma credo che il lavoro tutto sommato mi faccia bene, soprattutto in quei momenti dove la volontà mi abbandona un po’, quando la testa tende a mollare gli impegni che mi

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sono preso con le persone e con me stesso, allora ecco che la certezza del lavoro, saper di dover andare comunque, anche contro voglia, diventa per me una palestra di apprendimenti molto importante.E’ anche vero che ci sono situazioni di malessere in cui uno non riesce neanche a prefigurarsi una situazione lavorativa. Facciamo un esempio che mi serve per spiegare bene quello che intendo. Abbiamo in sequenza lo stress, l’ansia, e l’angoscia. A parte l’angoscia che è una situazione più complessa e complicata, stress e ansia a mio parere, se si riesce a fare un esercizio quotidiano come quello di impegnarsi e concentrarsi sulle cose, del resto come facciamo qua in gruppo, possono diminuire notevolmente e non essere più d’intralcio per la vita di tutti i giorni.La paura, la sofferenza, il disagio, possono diventare delle cose temporanee e così attraverso l’accettazione di questi momenti con l’aiuto altri amici che ti capiscono e condividono i tuoi stessi problemi, consapevoli che sono solo soltanto piccoli momenti, si può ricominciare a fare progetti nuovi per la propria vita.Se dovessi vivere sempre con l’ansia per esempio di quando vado a dare un esame….!Rosita: noi viviamo sempre cosìMario: ho lavorato diversi anni fa in una cooperativa di servizi e al palazzo dei congressi c’era un convegno di psichiatria nazionale . Mi sono trovato con tutti gli psichiatri mentre io facevo le pulizie . Robe che se mi davano una settimana di TSO a testa, mi avrebbero internato per tutta la vita. Questi disgraziati poi non spegnevano neanche le sigarette e hanno incendiato un cestino dei rifiuti che ho dovuto spegnere con diverse bottiglie d’acqua. Però sul tavolo dei relatori

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c’erano delle caramelle al cioccolato che ho fatto fuori tutte io (risata copiosa).Rosita: no io dicevo, non mi ricordo come hai detto prima, ma tanto dipende da come noi vediamo le cose … secondo me dipende soprattutto dal punto del percorso che uno sta facendo, perché per esempio lei ha detto che dopo un anno le cose andavano meglio, però abbiamo saltato quello che ha fatto in quell’anno. Io anche se poi a livello pratico, dell’azione, dell’agire che per me è stato sempre quello che è mancato … io adesso devo smettere di pensare sono malata, sto parlando per me…Alessandro: hai ragione, giustoRosita (continua): … perché se io continuo a dire sono malata… va a finire che non faccio mai nienteBreve interruzione: entra Maria che si scusa del ritardo. Dice che non si è ricordata, sta malissimo.Faciltatore: entra pure Maria, accomodati che Rosita sta concludendo il suo discorso.Rosita: dico appunto, ho l’attacco di panico, sono malata e quindi ho una giustificazione …… la psichiatria sta bene in termini tecnici per i medici e volte anche fra di noi perché le cose vanno meglio …. ripeto però se una persona ha certi problemi …. perché io vedo mio padre e mia madre ogni giorno in ospedale che sono più di là che di qua, vedo altre persone con altri problemi molto grandi, il mio è questo:” non sono malata sono una persona come un'altra che ha dei problemi da risolvere, a cui non interessa tanto avere delle risorse o delle potenzialità, ma m’interessano le mie capacità. Queste capacità si hanno per me attraverso l’agire, il fare e l’esperienza. Mentre mi rapporto adesso con voi, mi sento come una bambina, non sono capace di rapportarmi, io mi sento come una bambina di 12 anni.

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Facilitatore: ci possiamo fermare qui e chiediamo a Maria se ha voglia di dirci qualcosa.Maria: si io è da Lunedì che non sto mica bene, fisicamente o mentalmente, non lo so …. E io anni fa ho avuto dei problemi con le ghiandole surrenali, mi venivano delle sudorazioni tremende, è da lunedì che sono a letto perché ho un mal di schiena bestiale ….. mi passa solo verso sera ma al mattino! Sto malissimo. Io non so, ieri ho anche chiamato la guardia medica perché ero tutta in un lago di sudore, ho avuto anche problemi di pressione …. Io in passato ho avuto anche le ischemie …. Il medico che è venuto ieri non lo conosco, so che è già venuto un'altra volta ma non lo vedevo bene, mi “infarfugliavo”, mi sono infarfugliata per tre giorni. La prima cosa è la pressione, poi mi ha detto che … forse poteva anche essere … ha detto che poteva c’entrare un po’ anche la depressione. Facilitatore: e in passato Maria ? … ti riassumo brevemente quello che abbiamo detto prima, stavamo parlando di lavoro e di esperienze che riguardano un po’ questo campo.Maria(continua): poi ho avuto dei problemi, perchè mio figlio era andato via di casa due anni e soffrivo perché non c’era e ho avuto l’esaurimento. Non è la prima volta che scappa! Per il lavoro invece, ho fatto il corso di assistente domiciliare ho fatto tutti i reparti della città di Parma, andando proprio in corsia, ho studiato e ho lavorato molto, soprattutto quando Michele era piccolino. Poi un giorno l’assistente sociale viene a casa mia per propormi un lavoro al centro anziani.Facilitatore: hai cominciato dagli albori della tua vita, dall’era primitiva! ( risata distensiva ). Potresti dirci qualcosa della tua esperienza lavorativa oggi ?

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Maria: si, io ho l’inserimento lavorativo al Centro Anziani come inserviente, e a parte un primo periodo all’inizio mi trovo abbastanza bene. I primi giorni mi lamentavo un po’, dicevo di avere l’ischemia, l’ansia, così, dopo invece ho trovato delle persona chi mi hanno aiutata e piano piano ho cominciato a fare il mio lavoro serenamente. Solo una cosa; qualcuno mi ha fatto notare che avevo l’inserimento lavorativo del C.I.M. ma io gli ho detto come ?… cosa dici ? … ho combattuto e non sono mai stata a casa… e dai una, dai due, dai tre volte, dopo mi sono sentita bene, mi sentivo importante, andavo a lavorare e volevo fare delle ore in più anche se non ero pagata. Mi sentivo …. Alessandro: utileMaria: si proprio così, loro sono sempre stati molto contenti di me, anche se l’anno scorso in Agosto ho avuto un episodio di suicidio, sono andata in coma, poi sono stata male sei mesi. Però mi hanno richiamata ancora, vuol dire che il mio lavoro lo faccio bene. Mi dicevano ci sei mancata sai, magari quando c’ero …! Io non volevo più ritornarci, mi vergognavo di me stessa, pensavo chissà cosa dicono gli anziani, non è una donna da tenere a lavorare qui …. invece no a parte il primo giorno, è andato tutto bene. Sono stata alla festa di primavera, c’era la mostra e anche se sono stata in piedi tutto il giorno ero contenta, non ho neanche sentito la stanchezza, niente. Servivo io la torta …Rosita: ma secondo me Maria, c’è anche una cosa, la fortuna di aver trovato un lavoro che è anche la tua passione, perché da come ne parli ti piace molto il tuo lavoro !Maria: si hai ragione, poi c’è il fatto che mi danno sempre i pazienti più gravi ( risata generale liberatoria)

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Facilitatore: scusate ragazzi sono rimasti pochi minuti se qualcun altro che non ha ancora parlato vuole dire qualcosa, altrimenti dico io brevemente poi andiamo a mangiare. Non dobbiamo tirare delle conclusioni su un aspetto della nostra vita così complesso, ma se siete d’accordo mi piacerebbe rifare alcuni passaggi importanti che abbiamo fatto e cioè il primo, lavorare è difficile e faticoso per cui bisogna imparare e/o re-imparare a farlo, qualcuno ha detto che ha combattuto e a mio parere anche questo è un apprendimento che cominciamo a fare a partire dall’accettazione di un problema, ne parliamo e poi cerchiamo insieme delle soluzioni, tutto questo altro non è che l’impegno che mettiamo nei nostri incontri di autoaiuto, qualcuno ha detto che bisogna metterci l’azione, bisogna fare delle cose concrete, sono d’accordo anch’io.Aggiungo che le cose bisogna anche conquistarsele. Volevo dire poi un'altra cosa che ha detto Maria e che ho apprezzato molto, riguarda il discorso sulla vergogna. Chi non ha mai provato vergogna ? … tuttavia credo vi sia una vergogna in qualche modo “giusta” e un’altra no. La prima riguarda a mio parere la disonestà, la vigliaccheria ecc., per cui ritengo che sia giusto provare vergogna, la seconda invece ha a che fare con le aspettative che gli altri hanno su di noi e che quando non riusciamo a soddisfare ci fanno stare male. Bene di questo secondo tipo siamo sempre responsabili in quanto entrano in gioco altri aspetti legati alla personalità che non riusciamo però ad affrontare e che rimandiamo ad un altro incontro.Grazie a tutti per le opinioni espresse e grazie per avermi concesso di registrare le vostre testimonianze. A venerdì prossimo.

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4.5.3 Esperienze:MarioOggi sono due anni esatti che abbiamo iniziato le riunioni settimanali di auto mutuo aiuto, durante questo periodo ho capito che la morte è una cosa naturale e non devo anticiparla perché ognuno ha una vita , un’ora in cui morire perché è destinato dal volere di Dio.Le nostre riunioni sono di solito a tema per non divagare a tutto campo, i temi più affrontati sono stati vari, io ricordo lo stigma che mi portava ad essere ricoverato al Diagnosi e Cura di Parma (spesso in TSO) o al reparto di rianimazione dell’ospedale di Fidenza, anche perché ho tentato varie volte di morire ingerendo whisky con barbiturici (Roipnol da 2 Mg).Durante le riunioni ho imparato ad ascoltare, anche se bruciavo dall’impeto di parlare o intervenire, di solito abbiamo l’educatore che impersona la veste di facilitatore e per alcuni mesi l’anno scorso abbiamo avuto anche dei volontari, per inciso due psicologi, durante l’anno di praticantato, e una operatrice di comunità che partecipava ai nostri soggiorni vacanza per tornei di calcio, di pallavolo ed altro…Durante un incontro, una volta abbiamo anche provato una situazione di transfert , cioè io e Lorenzo abbiamo cambiato le parti, immedesimandoci uno nelle vesti dell’altro, dopo questa riunione però Lorenzo ha smesso di partecipare al gruppo, perché stava male.

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Le regole dell’auto mutuo aiuto sono povere, ognuno porta con sé i suoi problemi o la propria croce rendendosi conto che ci sono persone che stanno peggio di lui, io penso la mattina quando mi sveglio, che posso camminare, lavarmi con acqua potabile, avere la colazione, il pranzo , la cena, e qualche soldo da spendere per le sigarette, il caffè, e che ci sono miliardi di persone che vivono con due Euro al giorno, andando per chilometri, per potersi procurare l’acqua, quindi io anche se sono schizofrenico, mi devo sentire infinitamente fortunato.Abbiamo avuti contatti con una psichiatra del Brasile, la quale ci ha parlato della situazione in cui opera, dicendoci che lei serve sette gruppi di auto mutuo aiuto, di cinquanta persone cadauno.Il problema maggiore è la disoccupazione, la mancanza di un lavoro, che conduce alla depressione, alla solitudine, alla “saudace” tipicamente brasiliana.Noi siamo un gruppo piccolo di non più di 15 persone, e per circa 10 di noi abbiamo potuto l’anno scorso fare il laboratorio del vetro che ci ha permesso di costruire con le nostre mani degli oggetti artistici, specchi, vassoi, portaincensi, ect.Inoltre entro il 18/04/03 dovremo continuare l’esperienza del vetro con una cooperativa della ceramica, del legno, del vetro.Dico tutto questo per dire, che la mia autostima attraverso la condivisione del lavoro e della vita, è infinitamente accresciuta.L’aiuto mutuo aiuto serve per risolvere vari problemi, con quante persone partecipano al gruppo, io penso che sia come un disco con i colori dell’arcobaleno, che fatto ruotare velocemente si vede

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di colore bianco, o come un prisma che divide la luce nei colori dell’arcobaleno o anche come un solitario (diamante)che può avere molteplici sfaccettature.

Cristiano

Quando mi fu proposta la possibilità di fruire dell’ auto-aiuto ero molto scettico e perplesso circa le sue funzioni “cosiddette terapeutiche” ed “in qualche maniera riabilitative”. Avevo visto molti anni prima, in televisione, come funzionavano i primissimi gruppi di Self-Help per alcolisti, nel mondo anglosassone, e non mi avevano fatto una buona impressione. La gente accomunata da problemi similari, si riuniva in circolo ed esponeva la sua problematica, senza però confrontarla organicamente con quella del suo vicino, elaborando un sistema terapeutico slegato e non integrato attraverso la particolarità di ogni persona, verso una comune direzione di guarigione, ma frammentandola in mille rivoli asettici, senza possibilità vera di comparazione. Quando, ammalatomi, quindi, dopo essere stato ricoverato in SPDC ed aver frequentato un Day-Hospital, mi venne proposta tale forma di approccio terapeutico, ripeto fui molto scettico sul fatto reale di potervi partecipare e di trarne un qualche giovamento. Invece, grazie all’atmosfera di partecipazione, di scambio reciproco tra operatori e pazienti, che si è poi instaurato, debbo dire che la mia esperienza derivata da questa frequentazione è positiva. Soprattutto per l’aspetto umano di reciproca condivisione tra operatori e pazienti, posso proprio dire che il gruppo di auto-

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aiuto di Altare “Un giovedì da leoni”sia un pronto soccorso per chi soffre del “male oscuro”, illuminando, a volte lasciando aperta soltanto una fessura, attraverso la quale entri la luce da una porta, piuttosto che un Self-Help qualunque di un CIM qualsiasi. Grazie a molteplici attività collaterali (corso di informatica, gite, corso di cucina, visite, realizzazione di magliette) il gruppo  si è amalgamato molto bene, tanto da considerarci tutti una sorta di club di amici che condividono una serie di disagi, ma anche e soprattutto costituendo un nucleo di persone che sono portatrici di una risorsa spendibile sul mercato della vita: quella di un’umanità forse un po’ strampalata, ma sincera e testimone, contro il senso di vuoto di questi tempi, dove tutto si puo’  comprare e vendere, tranne forse appunto l’umanità che io ho trovato al gruppo di Self-Help “Un giovedì da leoni” di Altare, pur dovendo soffrire molto per accettarla ed applicarla umanamente. 

4.5.4 Schegge di auto aiuto Intervista a RENZO DE STEFANI Responsabile Servizio di Salute Mentale di TrentoCoordinatore Centro Studi e Documentazione sui Problemi Alcolcorrelati-CSDPAPromotore della rete nazionale “ Le parole ritrovate “

Premessa:

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L’intervista come si evince dalla batteria di domande sottostante è del tipo “domanda aperta” , per cui l’intervistato può utilizzare tutto lo spazio che ritiene necessario per rispondere .A tal proposito ho pensato di enumerarle , non tanto perché vi sia l’ intento di ordinarne la sequenza in modo precipuo, ma semplicemente per facilitare l’operazione di trascrizione. Es. basta riportare il n° della domanda e di seguito rispondere.

1. COS’E’ L’AUTO MUTUO AIUTO ?

È una grande risorsa per tutti. È un modo semplice e profondamente umano che offre alle persone che condividono un problema un disagio una malattia o anche una condizione esistenziale e di vita, un occasione di incontro. Nell’incontrarsi le persone che vivono un’esperienza di auto aiuto si danno sostegno reciproco e dal confronto delle esperienze traggono stimoli per migliorare la qualità della vita. Inoltre l’auto aiuto è una occasione privilegiata di amicalità, di parità, di ascolto, di non giudizio. Auto aiuto è credere nel valore dell’esperienza, nel cambiamento sempre possibile, nella risorsa prima che nel problema, nel futuro di cui siamo sempre un poco più responsabili.

2. COME NASCE UN GRUPPO DI AUTO MUTUO AIUTO?

Un gruppo di auto aiuto nasce per la volontà delle persone o delle famiglie che condividono un problema, un disagio, una condizione di vita. Nasce nel momento in cui queste persone si mettono a cerchio in una stanza e cominciano a dirsi che vogliono condividere

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qualcosa delle loro vite. Un gruppo a.m.a. nasce come tutte le cose umane dall’incontro tra persone e come sempre, per le cose semplici, è molto più facile da realizzare che da pensare o da descrivere.Alcuni gruppi possono nascere perché stimolati da un “esterno” (operatore di un servizio, uomo di buona volontà, associazione che ha tra i suoi scopi anche questo compito, ecc.) che per vari motivi decide di facilitarne la nascita e si attiva per far muovere al gruppo i primi passi.

3. PER CONDURRE UN GRUPPO, PROMUOVERE QUESTA FILOSOFIA DI VITA, BISOGNA ESSERE UNA SPECIE DI “HELPER NATURALE”?

Per facilitare un gruppo bisogna anzitutto credere nel gruppo, essere consapevoli di cos’è l’auto aiuto, di pensare che si è lì anzitutto per sé stessi e non per “salvare” gli altri. Ben venga chi ha naturali doti di comunicatore, di facilitatore della comunicazione. Il vero requisito per fare il facilitatore è possedere il cuore (e tutti ce l’abbiamo) e usarlo (e questo è meno scontato)!

4. QUALE MODELLO NELL’AMBITO DELLA SALUTE MENTALE?

Non so se ho inteso bene la domanda.Se devo esprimere quale è il mio modello per i servizi di salute mentale penso a due cose:Sicuramente un servizio forte che sappia mettersi in relazione fortemente umana e perciò significativa con chi bussa alla porta e con chi di bussare non ha il coraggio o la voglia, ma il bisogno. Ma anche un

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Servizio che sa valorizzare risorse ed esperienze di chi lo frequenta e di una comunità, che io penso, sempre più attenta e protagonista della salute mentale di tutti noi.

5. COME CONIUGA IL SUO LAVORO DI RESPONSABILE DI UN SERVIZIO DI SALUTE MENTALE ED IL SUO RUOLO RICONOSCIUTO A LIVELLO NAZIONALE DI PROMOTORE E FORMATORE DI GRUPPI DI AUTO MUTO AIUTO?

Molto bene. Mi permette di orientare il Servizio di cui sono responsabile a pratiche di responsabilizzazione diffusa, di collaborazioni forti tra utenti, familiari e operatori, di umanizzare l’approccio. In una parola, di trasferire nel quotidiano del Servizio alcune caratteristiche della mutualità, senza con questo far funzionare il Servizio come un gruppo di auto aiuto tout court.Inoltre mi ha permesso di facilitare la nascita di gruppi di auto aiuto specifici e di un’Associazione di auto aiuto come “La Panchina” che si sta spendendo egregiamente in campi importanti come l’abitare, il lavoro, la socialità e che ha ormai una sua autonomia riconosciuta e collabora fortemente con il Servizio.

6. QUALI CONTRADDIZIONI E QUALI SINERGIE CON GLI STILI DI LAVORO DEI SERVIZI, INTENDO I SERVIZI PUBBLICI?

Se si parte cercando le contraddizioni o le possibili aree conflittuali sicuramente ci si troverà invischiati in qualche guerra. L’auto aiuto è per le collaborazioni, sempre, è per vedere la risorsa in tutti. È per abbattere

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i muri di Berlino che ancora esistono tra le persone, che spesso ci sono tra operatori, utenti e familiari. Fatto questo le sinergie sono infinite, se ci crediamo naturalmente.

7. COSA SONO LE PAROLE RITROVATE?

Una rete nazionale che lega persone e gruppi organizzati (Servizi, Associazioni, Cooperative, etc) che credono nel valore del fare assieme, che credono che ciascuna persona, che sia operatore, utente o familiare, ha un’esperienza, un sapere importante e che è dall’incontro dei nostri diversi saperi che può nascere una migliore qualità di vita. Persone e gruppi che credono nel cambiamento, nella risorsa che è in ciascuno di noi, nel diritto-dovere di ritrovare le parole e la voglia, il coraggio, la bellezza di dircele.Una rete che si incontra una volta all’anno in un appuntamento nazionale e che si sta diffondendo in molte regioni italiane, dove si sono organizzati incontri locali per dare voce e spazio a esperienze di “fare assieme”. Il successo di tutti gli appuntamenti finora tenuti, dimostra come lo spirito de “Le parole ritrovate” risponde ad un bisogno forte e contribuisce ad abbattere quei muri di Berlino di cui si diceva sopra.

8. CHE POLITICHE SOCIALI SI DEVONO ATTUARE PER FAVORIRE LA PRATICA E LA CULTURA DELL’AUTO AIUTO?

Noi siamo ancora legati ad un welfare “chiavi in mano”, dove le risposte ai cittadini sono tendenzialmente preconfezionate e dove vige la legge della delega. Molti

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oggi parlano di un welfare di comunità dove, fatti salvi i diritti di cittadinanza, il ruolo del cittadino diviene attivo, il cittadino è protagonista nelle offerte del welfare, non solo oggetto, ma anche soggetto. Perché questo accada occorre credere che il cittadino protagonista è un valore e non un problema o una “rogna”. Fino ad ora la maggior parte delle politiche sociali, anche quelle più illuminate e formalmente corrette, sono cadute su questo passaggio. Per non cadere occorre ovviamente credere, dare visibilità e spazio a quelle esperienze, e sono molte, che già vanno in questa direzione (e l’auto-aiuto è la più forte e coerente) favorendo la nascita di altre esperienze simili.

9. COSA DICE L’O.M.S. A RIGUARDO?

L’OMS nella Carta di Ottawa sulla promozione della salute dice chiaro e forte, che non ci servono nuovi ospedali o la moltiplicazione degli operatori sanitari. Ci “servono” cittadini più responsabili sulle scelte concernenti la propria salute e la propria vita, a partire ovviamente dalle piccole e fondamentali cose di tutti i giorni. L’auto aiuto esiste in quando stimola la responsabilità dei cittadini, delle persone, verso tutto quello che le rende maggiormente protagoniste del proprio quotidiano. Per questo l’OMS non può non amare, sponsorizzare e reclamizzare l’auto aiuto.

10. DA QUANTO TEMPO RENZO DE STEFANI, IL DOTTOR RENZO DE STEFANI SI OCCUPA DI AUTO AIUTO E COM’E’ NATO QUESTO SUO INTERESSE? ( mi scuso anticipatamente per la piccola provocazione riguardo alla professione medica che nei servizi di Salute Mentale occupa il grado più alto della gerarchia delle

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professioni e promuove di sovente un modello organizzativo centralizzato, che si polarizza nella clinica , contrariamente alla filosofia dell’auto-aiuto che invece promuove un modello sociale paritario, dove prevalgono i concetti di auto cura e di condivisione delle esperienze).

Renzo De Stefani si è innamorato dell’auto aiuto 20 anni fa!. Ho avuto la fortuna di conoscere i Club degli alcolisti in trattamento, il più rappresentativo e antico dei gruppi a.m.a. italiani, e credo (dopo 20 anni i ricordi sono un po’ appannati) di aver capito emozionalmente dalla visita al primo Club, che ho conosciuto che stavo partecipando ad un incontro profondamente umano, che stava dando alle persone e alle famiglie che lo frequentavano, una grandissima opportunità di tornare a vivere. E questo non perché c’era qualcuno che li stava “guarendo”, ma perché si era realizzato una specie di miracolo, in cui erano le persone e le famiglie a “curarsi” tra loro. Sono nei Club da allora e ne ho ricavato emozioni e insegnamenti bellissimi. Da lì è stato naturale trasferire in quello che è il mio specifico, queste emozioni e questi insegnamenti.

11. “I HAVE A DREAM” DICE UNA ICONA FAMOSA DELL’AUTO AIUTO, PER UNO PSICOTICO E’( POTREBBE ESSERE) QUELLO DI GUARIRE E PER DE STEFANI?

Oggi, in una riunione tra utenti familiari e operatori del nostro Servizio, Mara ha detto:”Fino a ieri io mi sentivo un brutto anatroccolo, diversa, sbagliata. Adesso che ho fatto l’esperienza della Panchina, che vado in giro a parlare di sensibilizzazione mi sento una persona al pari di tutti gli altri, di tutti voi.” Mentre Mara diceva queste

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cose io sentivo commozione e piacere. Stavo ascoltando il mio dream.

12. SE RITIENE DI DOVER AGGIUNGERE ALTRE COSE SI SENTA LIBERO DI FARLO.

Ciao!

La Sindrome del Ragionier Filini

Premessa:Questo breve scritto del Dr. Marcello Macario, responsabile del C.S.M. di Carcare di Savona, fa parte di una densa relazione cartacea con lo scrivente, nata in occasione degli incontri sull’auto aiuto. “Ragionier Filini mi passi la palla!!” urlò Fantozzi al suo collega durante la partita di calcio del torneo aziendale.

Questa frase, tratta dal primo bellissimo libro sulle avventure di Fantozzi, mi è venuta in mente subito alle prime partite di calcio che abbiamo incominciato a fare qualche anno fa con “operatori” e “pazienti” di Savona e Carcare. E allora ho detto a tutti i miei compagni di gioco: “Ragazzi se mentre giochiamo qualcuno mi chiama dottor Macario e mi da’ del lei mi viene da ridere e gioco ancora peggio di quello che faccio di

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solito, se siete d’accordo diamoci tutti del tu”. E la cosa ha funzionato bene, direi.Spesso mi capita di ripensarci quando mi ritrovo a fare delle cose col gruppo di auto-aiuto del “Giovedì da Leoni” o durante una riunione della Cooperativa “Il Casello” e in quei momenti la faccenda del lei e del dottor Macario, incomincia a sembrarmi un po’ stonata.Ad esempio qualche giorno fa ho telefonato in cooperativa e mi ha risposto Carlo (ovvero il sig. Pepe) un “paziente” socio-lavoratore, io gli ho detto (dandogli del lei, ovviamente) che cercavo Betta (ovvero la sig.ra Berta), una “paziente” che sta facendo una borsa lavoro in cooperativa, e lui è andato a chiamarla nell’altra stanza dicendole: “Betta, vieni al telefono c’è Marcello.” La cosa mi è sembrata naturale e, lo confesso, mi ha fatto anche piacere. Una volta ho parlato di queste cose con Cristina (un’infermiera del CSM che fa parte del gruppo di auto-aiuto) e lei mi ha detto che spesso ai “pazienti”, quando io non ci sono, “scappa” di chiamarmi Marcello.Ho sempre usato il lei nei rapporti con i pazienti perché penso che il tu si usa con i propri familiari, con i bambini o con gli amici e mi pareva che il rapporto con un paziente dovesse necessariamente essere qualcosa di diverso. Però quando ho visto il mio amico Lorenzo (ooops. volevo dire il prof. Lorenzo Burti, docente di Psichiatria all’Università di Verona) parlare con i “pazienti” del self-help “San Giacomo”, dando loro del tu e chiamandoli per nome e loro che gli dicevano “Lorenzo, senti…” mi è sono sentito di nuovo nei panni del rag. Filini. Preciso per chi non lo conosce, che il Burti non è uno di quegli psichiatri sciamannati, con le scarpe da ginnastica e l’aria un po’ alternativa; no, lui gira

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quasi sempre col cravattino, usa la giacca e ha un modo di fare che definirei senz’altro “signorile”. Poi un’altra cosa che non mi quadra è il fatto che, di solito, nel dialogo con i pazienti io sono “il dottor Macario” e l’infermiera e l’educatore è “Maria” o “Filippo”. Solo pochi colleghi non laureati desiderano essere chiamati “la signora Maria” o il “il signor Filippo”.Non ho conclusioni per queste righe; mi piacerebbe che altri scrivessero cosa ne pensano e che si aprisse uno scambio di idee.Io, per ora, posso dire che non sono più tanto sicuro che ci siano motivi validi per non darsi reciprocamente del tu, in situazioni in cui si condividono realmente spazi, speranze, idee e obiettivi, anche perché spesso in queste situazioni, mi sembra che si sviluppi un rapporto che è anche di amicalità (o amicizia).Poi vorrei sottolineare il fatto che in questi rapporti di maggior “vicinanza”,spesso entrano i familiari (figli, genitori, mogli e mariti di “operatori” e “pazienti”) e a me questa pare una cosa bella che è anche per me, quasi sempre, piacevole. E in questi momenti di incontro (una cena, una riunione, una gita o una vacanza) ognuno riesce ad essere prima di tutto una persona e propone aspetti di sé che sono di solito “riservati” all’ambiente domestico; qualche adulto (il marito dell’infermiera, la mamma del paziente…) si mette a giocare con i bambini (i figli dell’educatore, del dottore e della paziente…), un gruppetto si mette a parlare di politica, qualcuno va a fumarsi una sigaretta in cucina mentre mette in ordine, eccetera. Si mettono in moto davvero delle energie e delle emozioni e questa faccenda, ebbene sì, voglio sbilanciarmi, mi pare molto terapeutica (o molto riabilitativa, dipende dal punto di

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vista o dalla teoria a cui uno ama fare riferimento). Ieri è venuto Gabriele in ambulatorio e abbiamo parlato di come sta, dei suoi sintomi, del rapporto con gli altri e della borsa lavoro, poi gli ho scritto due ricette (neurolettici e antidepressivi, mica dei “ricostituenti”), abbiamo parlato un po’ di calcio e infine c’è stato il seguente dialogo:“Dottore mi ricordo che lei ha detto che ha un bel po’ di CD musicali; mi può fare avere l’elenco e poi me ne può imprestare qualcuno così li copio col masterizzatore?”“Va bene, ho anche aggiornato l’elenco di recente, sa mi ha dato una mano mia figlia che è un pochino ossessiva, come me… Glielo porto quando ci rivediamo per il prossimo colloquio.”E mi sono di nuovo un po’ sentito nei panni del ragionier Filini, e ho pensato se Gabriele si sentiva un po’ Fantozzi….

Marcello Macario

In risposta al ragioniere

Buongiorno ragioniere, raccolgo l’invito a condividere le cose che hai scritto relativamente alla forma comunicazionale da tenere con i cosìdetti pazienti.

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Credo, se non ricordo male, che la distanza terapeutica e quindi anche il darsi del lei, sia rimasto uno dei cavalli di battaglia della psichiatria tradizionale, quella per intenderci che ha sempre guardato, o meglio, osservato i comportamenti del paziente, le diagnosi, le medicine, quant’altro.Oggi mi sembra, evviva Dio, che le cose stiano cambiando profondamente. A parte tutti i discorsi e le nuove teorie sul concetto di scienza, i fallimenti di una psichiatria incapace di comprendere i bisogni delle persone, la questione del controllo sociale, (…e chi più ne ha più ne metta)…insomma, la verità è che la teoria dell’helper terapy ancora una volta ci da indicazioni serie sul da farsi.Converrai con me che nessuno di noi è completamente sano e/o completamente malato. Questa idea mi sta ossessionando da diverso tempo e la prima risposta ( dimenticavo di dirti che ho letto:”Dietro ogni scemo c’è un villaggio” di G. Bucalo, se non lo conosci ti consiglio di leggerlo) che mi sono dato è che devo/dobbiamo imparare a navigare in questo mondo “psicotico”. Non è qualcosa, come ho sempre pensato, di sconosciuto agli uomini e di molto remoto, ci appartiene, che ne siamo consapevoli o no.Se vogliamo “curare”, a questo punto forse è meglio dire, se ci vogliamo curare, dobbiamo necessariamente metterci in gioco (curare gli altri per curare sé stessi) e a mio parere darsi del lei non è proprio partire con il piede giusto.L’auto aiuto modifica le relazioni e le persone che ne sono coinvolte, in vari modi e con ruoli diversi, non ci si può tirare indietro, pena la “punizione a rimanere insoddisfatti di sé e del proprio lavoro”. ( ..forse ho un po’ esagerato!)

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Ironia della sorte mi sto laureando e dovrò rinunciare al titolo di dottore, dopo le cose che ho detto sarebbe proprio il colmo fare il contrario !Comunque complimenti per la metafora di Filini, senza offese, ti sta proprio bene.Sto facendo le prove generali per quando verrà aperto il forum on line, ho sentito anche De Stefani, lui dice che prima del convegno delle parole ritrovate non ha informazioni su incontri di coordinamento.Ciao ragioniere , purtroppo ti devo salutare, il tempo è tiranno.

Massimo Costa

P.S. Dice Bucalo142, nei paesetti di campagna i malati di mente nonostante tutto vengono integrati nel territorio, la loro storia è lì da vedere. Magari vengono presi in giro, ma fanno parte della cittadinanza, quando non si fanno vedere per un po’ qualcuno chiede di loro. Non sono esclusi come nell’ istituzione psichiatrica, anche quella di nuova concezione. Capisco bene cosa significa tutto questo, sono nato a Colorno dove fino agli settanta “l’industria” più grossa del paese era il manicomio. C’è una battuta sul posto: “la gente diventa matta per andare a Colorno” peraltro mai digerita fino in fondo dai colornesi, che evidenzia ( a mio parere) attraverso il linguaggio idiomatico, caratterizzato da espressioni verbali sarcastiche e paradossali, l’incapacità della gente di accettare la malattia mentale 142 Bucalo G., Dietro ogni scemo c’è un villaggio. Itinerari per fare a meno della psichiatria, Sicilia Punto L Edizioni, Ragusa, 1990

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come un evento possibile, che riguarda il genere uomo, dal quale ci si difende per l’appunto in modo superficiale, scongiurandone l’evento.

L’angolo della poesia 143 :

Sui limiti del bosco Disquisite foglied'ombrala capinera volacerchi di primaverail cero che fumattutinadoglia all'albasvegliaclessidre di ghiacciol'assivolofeconda inverni marinisui ramidel faggio.Ancora una voltami sento un estraneoun relitto di neve e di pecelasciato

143 Le poesie riportate sono di alcuni ragazzi da me conosciuti in occasione di convegni sull’auto mutuo aiuto, incontri fra gruppi, ecc., poesie già pubblicate sui vari siti e/o sul giornalino del gruppo”Ungiovedidaleoni” di Cacare di Savona.

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sui limitidel bosco.

Cristiano

ASTROLABIO LINGUSTICO

Note critiche : il tempo cancella tutto, anche forse i ricordi delle persone con le quali abbiamo interagito in modo umano e psicologico . Il tempo scorre inesorabile ed il tempo travolge tutto. Il tempo ci fa incontrare persone ed individui, che forse o prima o dopo non vedremo più e non frequenteremo più.I calici pieni di "dolci momenti", in modo indiretto, vogliono significare "afferra l'attimo", nel senso che un attimo di felicità, un breve secondo nell'arco di una esistenza, deve essere colto. Nell'esistenza biologica di ciascun individuo umano l'attimo fuggente è una scheggia di eternità che si concretizza in un momento di breve, brevissima gioia.In termini sicuramente e certamente più riduttivi si potrebbe dire che le esperienze personali a carattere

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emotivo-emozionale, se vissute con un altro individuo, sono belle G.T.

UN GIORNO DA LEONIUna vecchia cinquecento E una arcaica mille cento Comparando la lor gloria Si sfidavano in vittoria.Alla piccola esaltata

Per la sua lunga durataLa maggiore in contrapposto

Disse in modo assai composto"meglio un giorno da leone

che cento da pecorone".

Michele

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L’uomo che non credeva nell’amore (Breve scritto estrapolato dal libro :” La padronanza dell’amore” di Don Miguel Ruiz, pubblicato sul giornalino “Chi Ama” n.19 del Marzo 2003, dell’associazione A.M.A. di Trento)

Voglio raccontarvi una storia molto antica su un uomo che non credeva nell’amore. Si trattava di un uomo comune , proprio come voi e me, ma ciò che lo rendeva speciale era il suo modo di pensare: era convinto che l’amore non esistesse. Naturalmente l’aveva cercato a lungo , aveva osservato le persone attorno a sé, trascorrendo gran parte della vita in cerca d’amore, solo per scoprire che l’amore non esisteva. Dovunque andasse, diceva a tutti che l’amore è soltanto un’invenzione dei poeti e delle religioni, usata per manipolare la debole mente umana , per controllare le persone. Diceva che l’amore non è reale, e per questo impossibile da trovare. Era un uomo molto intelligente e riusciva ad essere convincente. Lesse una quantità di libri, frequentò le migliori università e diventò un rinomato studioso. Poteva parlare dovunque, davanti a qualunque pubblico, e la sua logica era inoppugnabile. Diceva che l’amore è come una droga: ti fa sentire bene, ma crea dipendenza. E cosa succede se una persona diventa dipendente dall’amore, e poi non riceve la sua dose quotidiana?Quell’uomo diceva che la maggior parte dei rapporti d’amore sono come il rapporto del tossicodipendente e il suo spacciatore. Quello dei due che ha il bisogno maggiore è il drogato e l’altro assume il ruolo dello

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spacciatore. Quest’ultimo è quello che controlla il rapporto. E’ una dinamica facilmente osservabile, perché in ogni relazione di solito c’è uno che ama di più e un altro che si limita a ricevere, ad approfittare di chi gli ha donato il suo cuore. [….] L’uomo della nostra storia continuava a spiegare a tutti perché l’amore non esiste. “ Ciò che gli umani chiamano amore è solo una relazione basata sul controllo e sulla paura. Dov’è il rispetto? Dov’è l’amore che dichiariamo di provare? Non esiste. Le giovani coppie, davanti a un simulacro di Dio, e davanti alle loro famiglie e agli amici, si scambiano una quantità di promesse: di vivere insieme per sempre, di amarsi e rispettarsi l’un l’altro, di restare uniti nella salute e nella malattia. “Prometto di amare e onorare l’altro…..”Promesse e ancora promesse. La cosa stupefacente è che credono davvero a ciò che promettono. Ma dopo il matrimonio, dopo una settimana, un mese o alcuni mesi, le promesse vengono infrante, una dopo l’altra. [….]Poi un giorno, mentre quell’uomo camminava in un parco, vide una bella donna in lacrime seduta su una panchina. Si incuriosì, e avvicinatosi le chiese se poteva aiutarla. Potete immaginare la sua sorpresa quando le rispose che piangeva perché aveva scoperto che l’amore non esiste. L’uomo disse:” stupefacente. Una donna che non crede nell’esistenza dell’amore “. Naturalmente volle subito sapere qualcosa di più. “ Perché dici che l’amore non eiste? ”le chiese. “ E’ una lunga storia” rispose lei. “ Mi sono sposata molto giovane, piena di amore e di illusioni. Credevo che avrei condiviso tutta la vita con mio marito. Ci giurammo reciprocamente lealtà e rispetto e creammo una

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famiglia. Ma presto tutto cambiò. Io ero la moglie devota che si occupava della casa e dei bambini, mio marito continuò a seguire la sua carriera. Il suo successo e la sua immagine esteriore per lui erano più importanti della sua famiglia. Smise di rispettarmi e io smisi di rispettare lui. Ci facemmo del male a vicenda, e un giorno scoprii di non amarlo più e che neppure lui mi amava.Ma i bambini avevano bisogno di un padre, e quella fu la scusa che adottai per non lasciarlo, facendo anzi di tutto per sostenerlo. Ora i bambini sono diventati adulti e se ne sono andati. Non ho più scuse per restare con lui. Fra noi non c’è rispetto, né gentilezza. So anche però che se trovassi un altro sarebbe la stessa cosa, perché l’amore non esiste, e per questo piango.”L’uomo la comprendeva benissimo, l’abbracciò e disse:” Hai ragione, l’amore non esiste. Lo cerchiamo, apriamo il nostro cuore, ci rendiamo vulnerabili, e troviamo solo egoismo. Questo ci fa male anche quando pensiamo di essere usciti indenni. Non importa quante volte ci proviamo, accade sempre la stessa cosa. Perché allora continuare a cercare l’amore?”. Erano così simili, che diventarono grandi amici. Il loro era un rapporto meraviglioso. Si rispettavano, e nessuno dei due cercava di prevalere sull’altro. Ogni passo che facevano insieme li rendeva felici. [….]Un giorno mentre l’uomo era fuori città gli venne un’idea assurda. “Forse quello che sento per lei è amore” pensò”. Ma è così diverso da ciò che ho provato in passato. Non è ciò che dicono i poeti, o la religione, perché io non mi sento responsabile per lei. Non le chiedo nulla, non ho bisogno che si occupi di me. Non sento la necessità di incolparla dei miei problemi. Insieme stiamo bene e ci divertiamo. Io rispetto il suo

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modo di pensare, e lei non mi mette mai in imbarazzo. Non mi sento geloso quando è con gli altri, e non invidio i suoi successi. Forse l’amore esiste avvero, alla fine non è ciò che tutti credono che sia”.Non vedeva l’ora di tornare a casa e parlare con la donna, per raccontarle dei suoi strani pensieri. Appena cominciarono a parlare lei disse:” So esattamente a cosa ti riferisci. Io ho avuto la stessa idea tempo fa, ma non volevo parlartene perché so che non credi nell’amore. Forse dopo tutto l’amore esiste, ma non è ciò che pensavamo che fosse”.I due decisero di diventare amanti e di vivere insieme, e sorprendentemente le cose tra loro non cambiarono. Continuarono a rispettarsi e a sostenersi, e l’amore cresceva sempre di più. Anche le cose più semplici li facevano gioire. Perché si amavano ed erano felici. Il cuore dell’uomo era così pieno d’amore che una notte accadde un grande miracolo. Era intento a guardare le stelle, e ne vide una bellissima. Il suo amore era così forte che la stella scese dal cielo e finì nelle sue mani. Quindi accadde un altro miracolo, e la sua anima si fuse con la stella. La sua felicità era intensa, e andò subito dalla donna per mettere la stella nelle sue mani. Non appena lo fece, lei ebbe un momento di dubbio: quell’amore era troppo forte. Non appena quel pensiero le attraversò la mente, la stella le cadde di mano e si ruppe in un milione di pezzi.Ora c’è un vecchio che gira il mondo giurando che l’amore non esiste. E in una casa c’è una donna anziana che aspetta un uomo, versando lacrime amare per il paradiso che aveva tenuto tra le mani, perdendolo in un momento di dubbio. Questa è la storia dell’uomo che non credeva nell’amore. Di chi fu l’errore? Cosa non funzionò?

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Fu l’uomo a sbagliare, pensando di poter dare alla donna la sua felicità. La sua felicità era la stella, e l’errore fu quello di mettere la stella nelle mani della donna. La felicità non viene mai dal di fuori. L’uomo era felice per tutto l’amore che proveniva da sé stesso. Non appena la rese responsabile della propria felicità lei ruppe la stella, perché nessuno può farsi carico della felicità di un altro.[….]Se prendete la vostra felicità e la mettete nelle mani di un’altra persona prima o poi quella persona la distruggerà. Se la felicità vive invece dentro di voi, siete voi stessi ad esserne responsabili. [….]Mettiamo la nostra stella nelle mani dell’altro sperando che ci renda felici, e che noi renderemo felici lui, o lei. Ma indipendentemente da quanto amate una persona, non sarete mai ciò ella vuole che siate.Questo è l’errore che si commette fin dall’inizio. Basiamo la nostra felicità in funzione del partner, facciamo promesse che non possiamo mantenere, e così apriamo la porta al fallimento.

5 RIFLESSIONI CONCLUSIVE

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“Tutti abbiamo una storia da raccontare circa la nostra vita e non ce ne sono due uguali. E’ molto importante vedersi come una persona radicata nella società e non come un paziente radicato nella psichiatria”144

Nel corso di questo elaborato (che se dovessi riscrivere avrebbe sicuramente un taglio diverso), in qualità delle sollecitazioni ricevute in questo anno e mezzo di studio, i confronti operati fra i diversi autori, la pratica nel gruppo e l’esercizio di scrittura, ho maturato l’opinione che non è possibile affrontare tutti gli aspetti del “pianeta autoaiuto” in modo ordinato e risolutivo. Il motivo principale che mi ha condotto a questa conclusione riguarda principalmente il fatto, che il sapere ( soprattutto questa tipologia di saperi legati all’esperienza dell’autoaiuto) segue un processo dinamico e ricorsivo, che ha trame discontinue, per cui ogni nuovo input e/o sollecitazione, porta inevitabilmente a dover riconsiderare le opinioni pregresse. Poi c’è la mia storia personale, quella cioè di un educatore professionale che all’interno di un Servizio di Salute Mentale, ha visto nascere e crescere il gruppo, si è cimentato in questa avventura che ha in seconda battuta cercato di raccontare, di scrivere, in qualità di studente universitario. In altre parole, il prodotto finale forse non è ineccepibile da un punto di vista strettamente didattico, ma spero possa offrire qualche spunto di riflessione,in termini di nuove strategie relazionali e di approccio al disagio psichico e sociale. Queste riflessioni conclusive ricalcano l’andamento a zig zag dell’esperienza ancora in corso ed è proprio sull’onda di queste considerazioni che ho pensato di 144 Coleman R. & Smith M., Lavorare con le voci, in corso di pubblicazione

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affrontare in questa sezione conclusiva, due questioni che meritano di essere approfondite, come l’importanza di raccontarsi, che ritroviamo puntualmente nel pensiero narrativo e tutto il discorso dell’etica, legato alla cultura e alla pratica della condivisione.In un lavoro recente sulla psicologia dello sviluppo del linguaggio, Lavorato e Nesi danno una bella definizione del pensiero narrativo, che riassumo brevemente, perché ritengo costituisca una questione centrale per tutte le forme di narrazione, compresa quella dell’autoaiuto. Le autrici145ipotizzano che alla base di qualsiasi tentativo di dare senso all’esperienza umana, ci sia un particolare tipo di pensiero e che esso guidi anche alla comprensione, esiste cioè una disposizione della mente umana a dare forma all’esperienza per mezzo della narrazione.In altri termini esisterebbe una forma di pensiero, comune a tutti gli esseri umani, che si esprime attraverso la narrazione e che realizza la tendenza a comunicare i significati che cogliamo nell’esperienza, a mettere in relazione il passato con il presente, a rappresentare gli individui come soggettività dotati di valori e di piani.La teoria postmoderna sostiene infatti che è proprio il testo della narrazione a costruire il sé, dandogli coerenza ed unità146. “ Le storie rappresentano la forma privilegiata dell’espressione di sé che ciascuno di noi utilizza”147.

145 Levorato M. C., Nesi B., Imparare a comprendere e produrre testi, in Camaioni L. (a cura di ), “Psicologia dello sviluppo del linguaggio”, Ed. Mulino, Bologna, 2001146 Cavarero A., Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano, 1997147 Atkinson R., L’intervista narrativa, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002

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La tendenza dell’essere umano a provare interesse per il pensiero narrativo è un potente fattore di salute mentale, perché gli consente di costruire un modello di realtà, in cui sé stesso ed i suoi simili, vengono rappresentati come individui che hanno storia e memoria, che sono capaci di intenzioni e di perseguire degli scopi.“La vera cura di sé , il vero prendersi in carico facendo pace con le proprie memorie inizia probabilmente quando non più il passato bensì il presente, che scorre giorno dopo giorno aggiungendo altre esperienze - certo sempre meno sorprendenti di quelle degli anni finiti della giovinezza e della prima età adulta - entra in scena. E diventa il luogo fertile per inventare o svelare altri modi di sentire, scrutare e registrare il mondo dentro e fuori di noi”148.

Per queste ragioni ritengo che l’autoaiuto sia una esperienza molto importante, vieppiù per il diritto delle persone, in specie i malati e/o sofferenti, di raccontare la propria storia, di narrarsi.Purtroppo e arrivo alla seconda questione, quella che ho chiamato etica e cultura della condivisione, le forme della nostra società in cui oggi si esprime il pensiero narrativo, sono pericolosamente piatte e poco creative, omologanti e conformiste.Nondimeno il tema dell’etica è sempre più abusato ed è diventato un concetto ormai logoro.Cosa sta succedendo ? Tutto sembra normale e scontato, grazie allo strapotere dei mezzi di comunicazione che riescono sempre a spostarci su obiettivi economici e/o ci raccontano dei fatti di cronaca, magari allucinanti per drammaticità e 148 Demetrio D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Cortina editore, Milano, 1996

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sofferenza, come se fossimo dentro in un cinema, abitanti di un altro pianeta.Il problema è molto vasto e forse per troppo tempo sottovalutato, riguarda una impronta culturale presumibilmente sbagliata. Contemporaneamente al virtuale, a volte senza nemmeno rendercene conto, arrivano i messaggi di fuga e di separazione, perché le persone non si guardano più in faccia, i sentimenti vengono ormai comunicati al telefonino.Si passa molto tempo in famiglia per poi scoprire di aver guardato tanta TV e di non aver parlato con i figli, dei loro bisogni, dei nostri.La comunicazione sempre più mediata è di sovente rivolta a qualcun altro e in questo modo il linguaggio diventa estraneo, incomprensibile, stereotipato.Se si vuole uscire da questa crisi è indispensabile recuperare il valore della relazione oltre al linguaggio, che va comunque ricostruito dentro a un sistema serio (etico) di comunicazione. Questo vale ancor più nell’ambito della salute mentale e chi lavora nei servizi sa di cosa parlo.Prendersi cura non significa “occupare” una persona con idee proprie di cura, ma entrare in una relazione comune e curarsi insieme. C’è un continuo passaggio di relazione e di gusto del vivere, che non può smarrirsi negli itinerari della salute mentale. Credo che la relazione sia piena di significati e che passi attraverso l’accettazione della sfida di quel coro di voci che è dentro di noi, una eco profonda nel bene e nel male. La realtà però è che siamo sempre meno disposti e capaci di ascoltare queste voci, scavarle, non siamo più disponibili ad entrare in relazione.

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Questa “debolezza”, se così si può dire, è prima di tutto culturale e ci rende pieni di paura , del diverso, dell’ammalato, dello sconosciuto. E’ in questo modo che si può occupare l’altro, perché non si è più capaci di fare compagnia con il dolore, con il disagio, gioire della debolezza che altri condividono con te.E’ tempo di allargare lo sguardo, ripensare in modo adeguato e adulto ai valori di solidarietà, giustizia, amicizia, quest’ultimo (fra l’altro) dovrebbe anche essere il fondamento della politica. Aristotele quando parlava di politica, parlava di cultura dell’amicizia.149 Concetti come separazione, diversità, esclusione, portano alla chiusura dell’altro, scatenano rabbia e distruzione e se si abbassa la guardia, si crea un inconscio di violenza che è più forte di ciò che riusciamo ad immaginare.Non si può fermare la violenza con i farmaci, con le prigioni e/o l’isolamento, la si porta dentro di sé, fino (in casi estremi) ad armare la guerra.Allora si deve rompere la solitudine della famiglia che non può più essere un fatto privato, ma una cosa che riguarda tutta la collettività. Ecco come l’autoaiuto diventa una grossa risorsa e non può e non deve essere relegata nei servizi, in quanto manifesta un bisogno più grande delle persone coinvolte e dei loro familiari, un bisogno di autoaiuto di tutta la comunità.La comunità riempie di vita ed ha uno stile che deve diffondersi, non per una questione di “buonismo” , ma perché abbiamo bisogno di una cultura unitaria che contrasti la frammentazione e la separazione del vivere del nostro tempo.Dobbiamo entrare pienamente in questa logica per affrontare i cambiamenti che ci aspettano ed essere più 149 Enciclopedia Garzanti di Filosofia. Voce Aristotele.

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flessibili rispetto al bisogno delle persone; non c’è più spazio per un sistema “impacchettato”.Un’etica della condivisione è fatta a parer mio di stili di vita, pensiero progettuale partecipato, attenzione e ascolto dell’altro, con la passione di chi si pone dentro la relazione e la vita, perché è bello vivere così. In questo senso il tema della salute mentale è davvero una questione centrale, che riguarda tutta la nostra società.

6 BIBLIOGRAFIAAlcolisti Anonimi, Dodici Passi, Dodici tradizioni, Trad. it. della III edizione americanaAscoli A., Welfare state e azione volontaria, in Stato e Mercato, n.13, 1985 Atlan H., Complessità, disordine e autocreazione del significato. In Bocchi G., Ceruti M., (a cura di) “La sfida della complessità”, Feltrinelli, Milano, 1985Atkinson R., L’intervista narrativa, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002Atti del Convegno, Le Parole ritrovate. Culture e pratiche di condivisione nelle politiche di salute mentale. Esperienze a confronto, Trento, Ottobre 2002Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1997Bertolini P., L’esistere pedagogico, La Nuova Italia, Firenze, 1998Bortoli B., Case management, “Lavoro sociale”, Volume 1, n.2, aprile 2002Breggin P., Toxic Psychiatry, St. Martins Press, New York,1991Bucalo G., Dietro ogni scemo c’è un villaggio . Itinerari per fare a meno della psichiatria, Sicilia Punto L Edizioni, Ragusa, 1990 Canevaro A., Chieragatti A., La relazione di aiuto, Ed. Carrocci, Roma, 1999Cavarero A., Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano, 1997

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Einaudi, Torino, 1965 Morin E., Il metodo. Ordine, disordine, disorganizzazione, Feltrinelli, Milano, 1983Morgagni E., Russo A., (a cura di) Letture di sociologia dell’Educazione, Clueb, Bologna, 1996Mucchielli R., Apprendere il counseling. Manuale di autoformazione al colloquio d’aiuto, Erickson, Trento, 1996Noventa A., Nava R., Oliva F., Self Help, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1990Palmonari A., Rombauts J., Presentazione al lettore italiano, in Rogers C.R. (a cura di), “La terapia centrata sul cliente”, Martinelli, Firenze, 1970Pedulla G., Programmazione, governo delle risorse e identificazione dei bisogni, in Rossanda M., Peretti I. (a cura di), supplemento a “Democrazia e Diritto”, n. 1-2 Pennac D., Come un romanzo, Feltrinelli, Milano, 1998Pini P., Auto aiuto e salute mentale, Fondazione Andrea Devoto, Firenze, 1994Renzetti C., Verso l’auto aiuto, (I gruppi di auto aiuto) in “Quaderni di animazione e formazione”, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1996Rogers C.R., I gruppi di incontro, Astrolabio, Roma, 1975Russo A., Letture sociologiche, (a cura di) Baresi, Bologna, 1995 Saraceno B., La fine dell’intrattenimento. Manuale di riabilitazione psichiatrica, Etaslibri, Milano, 1995Sbattella F., Aiutare ad aiutarsi. Principi e metodologie del self help, Edizioni Unicopli, Milano, 1997Selvini Palazzoli M., Boscolo L., Cecchin G., Prata G., Paradosso e controparadosso, Feltrinelli, Milano, 1975Simmel G., La differenza sociale, Laterza, Bari,1982Stella s., Quaglino G.P., Prospettive di psicosociologia. Un’introduzione alle metodologie di analisi e di intervento nei gruppi e nelle organizzazioni, Angeli, Milano, 1993 Steinberg D.M., L’auto mutuo aiuto. Guida per i facilitatori di gruppo, Erickson, Trento, 2002Tognetti M., Promuovere i gruppi di self help, Franco Angeli, Milano, 2002Tognetti M., Lineamenti di politica sociale, Angeli, Milano, 2002, III ed.Tognetti M., Politiche sociali e Terzo settore: il ruolo del self help , in

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“Sociologia e professione”, n. 31, 1998Tognetti M., La sociologia al capezzale del medico e del malato, in Tognetti M. (a cura di) “ I confini della salute”, Franco Angeli, Milano, 1989Tognetti M., Politiche di self help, in “Politiche sociali tra cambiamenti normativi e scenari futuri, Mariani G., Tognetti M., (a cura di), Angeli, Milano, 1995Tomas P., The Dialectics of Schizophrenia, Free Association, London, 1997Vanzini P., (tesi di specialità) L’esperienza dell’auto aiuto nel campo psicosociale a Verona, 1994/95

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Zani B., Palmonari A., (a cura di) Manuale di psicologia di comunità, Il Mulino, Bologna, 1996

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7 ALLEGATI

Allegato 1

VAMA - P Questionario di valutazione dei gruppi di automutuoaiutoVersione per la PERSONA con il problema oggetto del gruppo

Vogliamo sapere come stanno i membri di questo gruppo di automutuoaiuto per potere documentare quanto serve e magari migliorare qualcosa. Ti raccomandiamo di essere sincero, mentre ti assicuriamo la massima riservatezza: le informazioni saranno comunicate solo in forma statistica.Per ciascuna domanda ti preghiamo di fare un segno sulla casella corrispondente alla tua situazione o sulla riga sotto in corrispondenza del punteggio più vicino alla tua opinione.

Se non sai la risposta, scrivi NON SO. Se ti sbagli, scrivi NO accanto al segno sbagliato e metti poi quello giusto.

1) Tipo di iniziativa di mutuoautoaiuto _________________________________2) Gruppo specifico (comune ed eventuale nome)_________________________________3) Scrivi la data di oggi, per favore giorno |__|__| mese |__|__| anno |__|__|4) Sigla |__|__|__|__|__|__| Ti preghiamo di scrivere 6 numeri o lettere scelti da te che permettano di collegare più schede di questo tipo compilate da te e nello stesso tempo mantenereE’ importante ricordarsi la sigla!!5) Anno di nascita |__|__||__|__| 6) Sesso |1|maschio |2|femmina

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7) Titolo di studio|1| licenza elementare |2| media inferiore |3| scuola professionale |4| diploma di media superiore |5| laurea8) Frequenti ancora il gruppo? |1|sì |2|no9) Da quanto tempo frequenti questo gruppo (o per quanto tempo lo hai frequentato, se non lo frequenti più) ?|1| meno di un mese |2| 1-3 mesi |3| 4-6 mesi |4| 7-12 mesi |5| 13-24 mesi |6| da 25 mesi a 3 anni |7| 4-5 anni|8| più di 5 anniSolo se rispondi per la prima volta a questo questionario:10) All’inizio, ti sei unito al gruppo spontaneamente, di tua volontà?|1| sì, del tutto |2| mi sono sentito in parte forzato |3| mi sono sentito costretto11) Come hai saputo del gruppo?|1| da amici o conoscenti |2| dai giornali, radio, televisione |3| da operatori sociali o sanitari|4| altro (specificare………………………….)E ora 10 domande sulla tua qualità di vita.Che punteggio daresti ai seguenti aspetti della tua vita facendo una media delle ultime 4 settimane?Se frequenti il gruppo da meno di 3 mesi, cerca di rispondere alle domande dalla 12 alla 21 come ti sentivi12) Com'è la tua sa lute in generale (considerando anche il dolore fisico e gli effetti collaterali dei farmaci che magari prendi)?|______________|_____________|______________|______________|______________|______________|3 4 5 6 7 8 9sto malissimo così-così sono in perfetta forma fisica13) Com'è la tua autonomia nella vita quotidiana (la tua capacità di fare da solo le cose della vita di tutti i giorni: lavarsi, vestirsi, mangiare, spostarsi, ecc.)?|______________|_____________|______________|______________|______________|______________|3 4 5 6 7 8 9sono totalmente ho bisogno di qualcuno sono totalmente dipendente per il bagno o la doccia autonomo14) Com'è il tuo stato d’animo in generale (nel senso di sentirti contento e soddisfatto di te, tranquillo e sereno, oppure demoralizzato, depresso, ansioso, agitato)?|______________|_____________|______________|______________|______________|______________|3 4 5 6 7 8 9malissimo così-così benissimo15) Quello che hai fatto di utile per te stesso e per gli altri (nel lavoro, ma anche per la casa o la famiglia e anche nel tuo tempo libero)?|______________|_____________|______________|______________|______________|______________|3 4 5 6 7 8 9niente del tutto così-così benissimo16) Com'è la tua situazione economica?|______________|_____________|______________|______________|______________|______________|3 4 5 6 7 8 9non ho da mangiare difficile ma molto buona si puo’ tirare avanti

17) Come sono i tuoi rapporti sentimentali e sessuali?

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|3|non ne ho avuti ; se li hai avuti |______________|_____________|______________|______________|______________|4 5 6 7 8 9malissimo così-così benissimo18) Come sono i tuoi rapporti con gli amici e la vita sociale?|______________|_____________|______________|______________|______________|______________|3 4 5 6 7 8 9malissimo così-così benissimo19) Il tuo modo di passare il tempo libero, di distrarti, di divertirti?|______________|_____________|______________|______________|______________|______________|3 4 5 6 7 8 9malissimo così-così benissimo20) Come vivi nella tua casa?|______________|_____________|______________|______________|______________|______________|3 4 5 6 7 8 9malissimo così-così benissimo21) Come vivi nella tua zona?|_______________|_____________|______________|______________|______________|______________|3 4 5 6 7 8 9malissimo così-così benissimo22) Come va la tua vita in generale?|______________|_____________|______________|______________|______________|______________|3 4 5 6 7 8 9va malissimo così-così meravigliosamente

Allegato 2

Anno 2001 Anno 2002

Ricoveri effettuati n.62

Persone ricoverate n. 43 (13m+30f), 70% f

Persone con ripetuti ricoveri 11

Ricoveri effettuati n.65

Persone ricoverate n.42 (17m+25f) 59% f

Persone con ripetuti ricoveri 16

Durata media dei ricoveri 47,11 gg. Durata media dei ricoveri 49,26 gg.

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( 37,6 escludendo 2 lungodegenti) ( 39,2 escludendo due lungodegenti)Provenienza:

Urgenti 36 ( 58%) di cui 78% dal nostro

territorio

Programmati 19 (30%) di cui 48% dal nostro territorio

Già ricoverati al 01.01.01 7 (12%)

Ricoveri da reparti ospedalieri 24 (43,6%)

Provenienza:

Urgenti 31 ( 47,7%) di cui 80% dal nostro

territorio

Programmati 27 (41,5%) di cui 40% dal nostro territorio

Già ricoverati al 01.01.02 7 (10,7%)

Ricoveri da reparti ospedalieri 24 (40,7%)

Dimissioni:

Domicilio di provenienza 56%Altro reparto clinico psich. 12%Residenza psichiatrica 15%Auto-dimissioni 5%Ospedale 5%Appartamento protetto 4%Altro 3%

Dimissioni:

Domicilio di provenienza 59% Altro reparto clinico psich. 17%Residenza psichiatrica 14%Auto-dimissioni 0 Ospedale 5%Appartamento protetto 5%Altro 0

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Allegato 3 ATTIVITA’ SETTIMANALI

Attività di arte-terapia:

- Teatro, condotto e cogestito con una cooperativa convenzionata (Jolly)

- Atelier di pittura, condotto da un pittore volontario in collaborazione con un educatore del servizio

- Danza-terapia, condotta da una psicologa convenzionata con l’appoggio di una infermiera del servizio

- Laboratorio di animazione musicale, condotto e gestito da una musico-terapeuta volontaria, da cui nell’anno 2001 è scaturito il gruppo musicale “Unisono”

- Laboratorio di Informatica, gestito e condotto dall’educatore con la collaborazione di un utente in borsa lavoro

- Attività di rilassamento muscolare, condotta da una infermiera del servizio con la collaborazione di un educatore

Attività abilitative con gli animali:

-Ippoterapia, presso un centro convenzionato di Colorno

-Addestramento cani, condotta e gestita da due volontari con il sostegno del Soccorso Cinofilo Parmense

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Gite settimanali( alla scoperta dell’arte e/o della natura)

Cineforum, autogestito

Lettura del giornale, autogestita

-Gruppo di auto mutuo aiuto, autogestito con la facilitazione dell’educatore-Riunione ospiti, con il medico, l’educatore, gli infermieri in turno

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