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DEIR EL-ABIAD: CONTINUITÀ MONUMENTALE ED ESPRESSIONE RELIGIOSA DALL’EGITTO FARAONICO A QUELLO CRISTIANO NOTE PER UNA RICERCA EGITTOLOGICA ALLINTERNO DEL PROGETTO «CONVENTO ROSSO» DI GIUSEPPINA CAPRIOTTI VITTOZZI Horo imy-Shenut, il grande dio nella Casa della Vita Nell’ambito del Progetto «Convento Rosso» dell’Università “Roma Tre”, è stata condotta una ricognizione nei siti del «Convento Bianco» e del «Convento Rosso» al fine di individuare elementi di continuità e sviluppo dal periodo faraonico a quello cristiano. Si espongono qui i primi risultati della ricerca, anche bibliografica, delineando alcune ipotesi di lavoro. 1. IL SITO DEL «CONVENTO BIANCO»: CONTINUITÀ DI UN’AREA SACRA La costruzione del «Convento Bianco» è molto ricca di materiali lapidei riutilizzati: frammenti di rilievi di epoca faraonica sono inseriti nei muri o giacciono a terra nell’area circostante. All’interno dell’edificio, inoltre, sono conservati oggetti e frammenti: tra tutti spicca un naos di Achori (XXIX dinastia, inizio IV sec. a.C.) (fig. 1), sul quale si tornerà più avanti; il sostegno di un altare è individuabile tra numerosi frammenti di rilievi e capitelli corinzi di varia fattura, conservati a ridosso del lato ovest all’interno della costruzione; le colonne non sono uniformi per materiale e fattura 1 e sarebbero state riutilizzate. Nell’ampio spazio aperto, all’interno della costruzione, spicca una scala in granito rosa, pertinente un tempo ad un pulpito, ricavata da un unico blocco di notevoli dimensioni. Il granito è in effetti molto ben rappresentato dai resti di epoca faraonica. 1.1 L’ipotesi di una dipendenza dei reimpieghi dalla vicina Athribis Il nome di Athribis, trasmesso dal greco e dal copto, indica il luogo di culto della dea leonessa Repyt (rpyt), in greco Triphis. Il termine copto ATRIPE è calcato probabilmente sull’egiziano hwt-rpyt, cioè “tempio di Repyt2 . Ad Athribis 1 MONNERET DE VILLARD 1925, p. 124; GAUTHIER 1912, p. 116. 2 GARDINER 1974, II, p. 46*; GAUTHIER 1912, pp. 115- 116. veniva venerata la triade composta da Repyt, il dio Min e il fanciullo Kolanthes 3 . Fin dai tempi di Petrie 4 , alcuni studiosi hanno supposto che i materiali del «Convento Bianco» siano stati presi in particolare dai templi di Athribis, costruiti tra l’epoca tolemaica e quella romana, e tale ipotesi avrebbe trovato conferma in lavori recenti 5 , tuttavia molti reimpieghi del «Convento Bianco» sono collocabili tra la XXVI e la XXIX dinastia 6 . Un piccolo frammento, visto all’interno del monastero, sembra proporre tratti tipici di un rilievo ramesside, con segni grandi e realizzati con un incavo profondo, tuttavia il frammento è troppo piccolo per costituire una prova. 1.2 Possibile identificazione del sito del «Convento Bianco» con l’antica Nš3w (Neshau) egizia Pur essendo stato piuttosto trascurato dall’ambiente egittologico, soprattutto negli ultimi decenni, il sito del «Convento Bianco» ha attirato l’attenzione di alcuni importanti studiosi nella prima metà del XX secolo. Una pietra miliare per la comprensione del sito è stata posta da H. Kees con uno studio comparso nel 1929, nel quale pubblica l’iscrizione del naos di Achori, da lui visto nel corso di una visita al «Convento Bianco» in compagnia di F.von Bissing, nell’inverno tra il 1912 e il 1913 7 . L’iscrizione del tabernacolo in pietra scura porta la dedica ad una forma particolare del dio Horo, signore di Neshau (Hr-imy-Šnwt nb Nš3w). 3 VERBEECK 1975-1992, V, pp. 1052-1054. 4 PETRIE 1908, pp. 13-15; LEFÈBVRE 1924-1953, pp. 469-470. 5 YAHIA EL-MASRY 2001, p. 209. 6 VERBEECK1975-1992, V, pp. 1052-1054. 7 KEES 1929. 1

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DEIR EL-ABIAD: CONTINUITÀ MONUMENTALE ED ESPRESSIONE RELIGIOSA DALL’EGITTO FARAONICO A QUELLO CRISTIANO

NOTE PER UNA RICERCA EGITTOLOGICA ALL’INTERNO DEL PROGETTO «CONVENTO ROSSO»

DI GIUSEPPINA CAPRIOTTI VITTOZZI

Horo imy-Shenut, il grande dio nella Casa della Vita

Nell’ambito del Progetto «Convento Rosso» dell’Università “Roma Tre”, è stata condotta una ricognizione nei siti del «Convento Bianco» e del «Convento Rosso» al fine di individuare elementi di continuità e sviluppo dal periodo faraonico a quello cristiano. Si espongono qui i primi risultati della ricerca, anche bibliografica, delineando alcune ipotesi di lavoro.

1. IL SITO DEL «CONVENTO BIANCO»: CONTINUITÀ DI UN’AREA SACRA

La costruzione del «Convento Bianco» è

molto ricca di materiali lapidei riutilizzati: frammenti di rilievi di epoca faraonica sono inseriti nei muri o giacciono a terra nell’area circostante. All’interno dell’edificio, inoltre, sono conservati oggetti e frammenti: tra tutti spicca un naos di Achori (XXIX dinastia, inizio IV sec. a.C.) (fig. 1), sul quale si tornerà più avanti; il sostegno di un altare è individuabile tra numerosi frammenti di rilievi e capitelli corinzi di varia fattura, conservati a ridosso del lato ovest all’interno della costruzione; le colonne non sono uniformi per materiale e fattura1 e sarebbero state riutilizzate. Nell’ampio spazio aperto, all’interno della costruzione, spicca una scala in granito rosa, pertinente un tempo ad un pulpito, ricavata da un unico blocco di notevoli dimensioni. Il granito è in effetti molto ben rappresentato dai resti di epoca faraonica.

1.1 L’ipotesi di una dipendenza dei reimpieghi

dalla vicina Athribis

Il nome di Athribis, trasmesso dal greco e dal copto, indica il luogo di culto della dea leonessa Repyt (rpyt), in greco Triphis. Il termine copto ATRIPE è calcato probabilmente sull’egiziano hwt-rpyt, cioè “tempio di Repyt”2. Ad Athribis

1 MONNERET DE VILLARD 1925, p. 124; GAUTHIER 1912, p. 116. 2 GARDINER 1974, II, p. 46*; GAUTHIER 1912, pp. 115-116.

veniva venerata la triade composta da Repyt, il dio Min e il fanciullo Kolanthes3. Fin dai tempi di Petrie4, alcuni studiosi hanno supposto che i materiali del «Convento Bianco» siano stati presi in particolare dai templi di Athribis, costruiti tra l’epoca tolemaica e quella romana, e tale ipotesi avrebbe trovato conferma in lavori recenti5, tuttavia molti reimpieghi del «Convento Bianco» sono collocabili tra la XXVI e la XXIX dinastia6. Un piccolo frammento, visto all’interno del monastero, sembra proporre tratti tipici di un rilievo ramesside, con segni grandi e realizzati con un incavo profondo, tuttavia il frammento è troppo piccolo per costituire una prova.

1.2 Possibile identificazione del sito del

«Convento Bianco» con l’antica Nš3w (Neshau) egizia

Pur essendo stato piuttosto trascurato

dall’ambiente egittologico, soprattutto negli ultimi decenni, il sito del «Convento Bianco» ha attirato l’attenzione di alcuni importanti studiosi nella prima metà del XX secolo. Una pietra miliare per la comprensione del sito è stata posta da H. Kees con uno studio comparso nel 1929, nel quale pubblica l’iscrizione del naos di Achori, da lui visto nel corso di una visita al «Convento Bianco» in compagnia di F.von Bissing, nell’inverno tra il 1912 e il 19137.

L’iscrizione del tabernacolo in pietra scura porta la dedica ad una forma particolare del dio Horo, signore di Neshau (Hr-imy-Šnwt nb Nš3w).

3 VERBEECK 1975-1992, V, pp. 1052-1054. 4 PETRIE 1908, pp. 13-15; LEFÈBVRE 1924-1953, pp. 469-470. 5 YAHIA EL-MASRY 2001, p. 209. 6 VERBEECK1975-1992, V, pp. 1052-1054. 7 KEES 1929.

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Fig. 1 – Il naos di Achori nel «Convento Bianco» (foto dell’Autore).

G. Daressy8 ha riferito di aver letto il riferimento al luogo di culto del dio (pr Hr-imy-Šnwt) in un tempio tolemaico vicino al villaggio di Wannina, probabilmente quello scavato da Petrie, ma Gardiner9 suppone che sia stato visto altrove, magari nel sito del «Convento Bianco», non essendo visibile questa iscrizione nei rilievi pubblicati da Petrie. È tuttavia possibile che l’iscrizione fosse stata vista nel sito stesso di Athribis, vicino a Wannina10. Lo stesso titolo imy-Shenut, traducibile “che è in Shenut”, è stato interpretato come riferimento al luogo di culto. Sulla traduzione e il senso del titolo, tuttavia, non c’è accordo tra gli studiosi11. Una citazione della divinità in una lista geografica del tempio di Medinet Habu12 colloca il luogo di culto nelle vicinanze di Akhmim: infatti, la lista procede da sud a nord e pone il sito subito dopo Panopolis (Akhmim). Il centro templare in questione, dedicato al coccodrillo a testa di falco, sarebbe dunque da collocare in un territorio dove è ben

8 DARESSY 1895, p. 21, CXLV. 9 GARDINER 1974, II, p. 46*. 10 CHASSINAT 1966-1968, p. 334. 11 VELDE 1975-1992, III, pp. 47-48. 12 CHASSINAT 1966-1968, pp. 333-337.

attestato il culto del coccodrillo13. E’ di particolare interesse la menzione del luogo di culto di questa forma di Horo nel tempio di Athribis14, insieme all’esistenza, citata da Kees, di un’iscrizione su una delle statue di Sekhmet fatte scolpire da Amenhotep III riportante il nome di Sekhmet “Signora di Shenut (?)”, titolo che potrebbe rimandare alla dea leonessa Repyt di Athribis15. Interessanti, per la collocazione del luogo di culto nell’area di Sohag, sono anche due statuette di sacerdote: la prima, al Museo di Marsiglia, porta un’iscrizione nella quale il dedicante si dice profeta dello stesso Horo e della triade di Panopolis; l’altra, conservata nell’Antiquarium Comunale di Roma, fu dedicata in origine nel tempio di Min a Panopolis e appartiene al sacerdote Neshor, che era servitore di Horo, profeta delle statue di Horo e profeta della particolare forma di Horo16.

In conclusione, l’iscrizione del naos del «Convento Bianco» affianca due dati: il nome di una particolare forma di Horo, conosciuta anche altrove, e un nome geografico; quest’ultimo farebbe riferimento ad una particolare pianta acquatica, ampiamente presente nel Nilo (potamogeton) e dunque a un ambiente particolarmente apprezzato dai coccodrilli17. Va infine ricordato che, nell’antichità, il fiume doveva essere molto più vicino al sito di quanto sia oggi18.

1.3 Horo di Sohag, divinità aggressiva e

guaritrice La particolare forma di Horo coccodrillo a

testa di falco, attestata nel naos di Achori al «Convento Bianco», è stata spesso definita “Horo di Sohag”: tale definizione è stata accettata nel tempo, sia in riferimento alla zona di Sohag, riconosciuta come area di appartenenza della divinità, sia per comodità, essendo ancora dibattuta la reale lettura del nome del dio: Hr-imy-

13 KEES 1929, pp. 108-109; CHASSINAT 1966-1968, pp. 335-336; CHEN-ZIBELIUS 1975-1992, IV, p. 463. 14 CHASSINAT 1966-1968, p. 336. 15 KEES 1929, p. 110. 16 BRESCIANI 1986, p. 89. 17 YOYOTTE 1957, p. 88, nota 1. 18 BAINES-MALEK 1985, p. 15.

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Fig. 2 – Horo imy-Šhenut raffigurato sul Torso Borgia (da BRESCIANI 1986, tav. I, 4, p. 88).

Šnwt (Horo imy-Shenut) è ancora utilizzato nel recente Lexikon der ägyptischen Götter und Götterbezeichnungen19 e sembra la lettura più accreditata, tuttavia non vanno ignorate altre possibili letture proposte20.

Horo di Sohag è una divinità in forma di coccodrillo ieracocefalo, conosciuta in particolare nei testi magici, caratterizzata da un aspetto aggressivo e da uno benefico.

Il dio appartiene probabilmente alla cerchia abidena: la sua forma sarebbe comprensibile in riferimento al mito secondo il quale il dio Horo, trasformatosi in coccodrillo, trasportò il cadavere di Osiri nell’abaton, come attestato a File21. Horo coccodrillo a testa di falco sarebbe il protettore di Osiri, e in tal senso andrebbe compresa la rappresentazione del dio accovacciato su un naos contenente una testa umana22 (fig. 2), il sacello ove si conservava la testa di Osiri.

Nel suo aspetto pericoloso, Horo di Sohag aggredisce i nemici e protegge chi gli è affidato, è quindi un guardiano ed ha un ruolo apotropaico. Horo coccodrillo a testa di falco è dunque una divinità importante in ambito magico, dove la sua natura aggressiva è conosciuta fin dal Medio Regno in testi di deprecazione23. In questa forma, L. V. Žabkar lo ha riconosciuto in tre graffiti greci a File accompagnati dall’immagine del coccodrillo ieracocefalo24: lo studioso mette in rilievo la presenza di questa antica divinità in ambiente meroitico e presso i Blemmi.

Nei testi egizi, Horo di Sohag è conosciuto anche come colui che brucia i nemici in un bacino di fuoco25. Secondo S. Sauneron, le immagini del dio impegnato in questa attività, che dovevano

19 LÄGG 2002, V, p. 244-245. 20 BRESCIANI 1986; VELDE 1975-1992, III, pp. 47-48. 21 CHASSINAT 1966-1968, p. 337. 22 KEES 1929, p. 110. 23 ŽABKAR 1975, p. 150; BRESCIANI 1986, p. 90. 24 ŽABKAR 1975, pp. 145 e 150. 25 CHASSINAT 1966-1968, p. 336.

essere visibili nel tempio, probabilmente nell’area del «Convento Bianco», ispirarono nei cristiani il racconto, che si trova nel Sinassario, riguardante le feste pagane nel deserto vicino Sohag: ivi si narra di un idolo che reggeva in mano un bacino di rame, nel quale i sacerdoti pagani sgozzavano dei fanciulli. Tra le attestazioni dell’Horo di Sohag che brucia i nemici nel fuoco, citate da Sauneron, ne notiamo una a Edfu, nella quale i nemici vengono posti nel braciere davanti a Osiri; un’altra, nel tempio di Montu a Karnak, mostra la scena in presenza di Min. Infine, lo studioso riporta l’interessante caso di una tomba ad Akhmim, nella quale la scena della psicostasia viene accompagnata dall’usuale immagine della “Grande Divoratrice” vicino alla quale è posto insolitamente un braciere pronto a ricevere i dannati26 (fig. 3).

Come avviene in Egitto anche per altre divinità, a questa funzione aggressiva e protettrice, Horo di Sohag affianca un ruolo esplicitamente benevolo e guaritore. La divinità è attestata nelle iscrizioni di statue guaritrici27, sulle quali si lasciava scorrere l’acqua affinché si impregnasse del potere dell’immagine e delle iscrizioni per poi essere usata a scopo profilattico: interessante è una base di statua magica dove un testo sembra riferibile a Horo di Sohag, pur non essendo esplicitamente citato28. La divinità sarebbe presente anche sulla stele Metternich29, famosa stele magica per uso salutare, raffigurante “Horo sui coccodrilli”.

Il potere guaritore del dio è sottolineato dal fatto che, già tra le titolature sacerdotali dell’Antico Regno, è conosciuta la figura di sacerdote di questa forma di Horo30 con funzione di medico.

Si può facilmente supporre che nel luogo di culto di questa divinità si svolgessero anche attività mediche e che, nell’area del tempio, fossero presenti impianti per uso profilattico.

26 SAUNERON 1970, pp. 54-58. 27 KAKOSY 1999. Infra. 28 VAN DE WALLE 1972, pp. 77-80. 29 ŽABKAR 1975, p. 151. 30 KEES 1929, p. 110; ŽABKAR 1975, p. 150.

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Fig. 3 – Scena di psicostasia da una tomba di Akhmim (da SAUNERON 1970, p. 57).

Fig. 4 - Amuleto di divinità coccodrillesca a testa di falco. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 871. (da Egitto. Terra del Nilo 2002, p. 129).

1.4 Testimonianze di Horo coccodrillo a testa di falco nella Collezione Borgia Le testimonianze di questa divinità, che

doveva avere il suo principale luogo di culto a Deir el-Abiad, sono abbastanza varie ma non numerosissime31. Alcune interessanti si trovano nella collezione egizia di Stefano Borgia, conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Si tratta di un piccolo oggetto in pasta vitrea, probabilmente utilizzato come amuleto, e di un frammento di statua magica fittamente iscritta, detta Torso Borgia32.

31 LÄGG 2002, V, pp. 244-245. 32 Altri oggetti della stessa possibile provenienza potrebbero essere identificati attraverso un’analisi più ampia della collezione, prendendo in considerazione soprattutto dei materiali di tipo magico come le varie stele di Horo sui coccodrilli che vi sono conservate.

• L’amuleto è lungo cm. 1,8 e, forse a causa delle ridottissime dimensioni, è stato interpretato in passato come un semplice coccodrillo33 (fig. 4), si tratta invece di un minuscolo coccodrillo ieracocefalo, pregevole nelle sue proporzioni

33 Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 871. Collezione egiziana 1989, p. 95, cat. n. 10.33; Egitto. Terra del Nilo 2002, p. 129, cat. n. IV.8.

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Fig. 5 – Il Torso Borgia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 1065 (da KÁKOSY 1999, tav. XXXIX).

miniaturistiche, realizzato in pasta vitrea blu e verde.

Il Torso Borgia34 è quanto resta di una statua magica, sulla quale veniva fatta scorrere l’acqua affinché si impregnasse del potere rigenerante delle parole e delle immagini e potesse essere usata per scopi terapeutici (fig. 5). Il frammento è pregevole, sia nella lavorazione scultorea che nella realizzazione dei segni. La statua si data al IV sec. a.C.35. Sul Torso Borgia, il nome di Horo imy-Shenut e la figura del coccodrillo ieracocefalo ricorrono diverse volte.

• Sulla spalla destra, sta l’immagine di una divinità panteistica definita “Grande di potenza, che calpesta le terre straniere” (c3 phty ptpt h3swt)36; essa ha sette teste ed un corpo molteplice e alato; come spesso le divinità protettrici, è armata di coltelli. Alla testa di falco, la prima in basso a destra, corrisponde il corpo di coccodrillo, sulle ali a sinistra37 (fig. 6).

• Sul lato sinistro del pilastro dorsale, nel registro VII, si vede l’immagine di un coccodrillo

34 Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 1065. Collezione egiziana 1989, p. 110, cat. n. 11.11, fig. 16; KAKOSY 1999, p. 119-153. 35 Ibid. p. 31. 36 Per l’attribuzione del titolo c3 phty (“grande di potenza”) a Horo imy-Shenut, si veda VAN DE WALLE 1972, p. 80. 37 KAKOSY 1999, p. 136, fig. 26, p. 137.

a testa di falco all’interno di una cappella decorata da due occhi-udjat38. Sul pilastro dorsale, compare la figura del coccodrillo a testa di falco su un naos contenente una testa umana (fig. 7)39: il nome è Horo imy-Shenut, seguito dal titolo “signore di...”, successivamente solo tre segni frammentari sopravvivono ad una lacuna. Kakosy ha letto nb n šf(y.t)40 ma ci si può chiedere se invece non si trattasse di una grafia equivalente a nb Nš3w41.

• Sul lato destro della statua, tra il braccio e il pilastro dorsale, nel registro IV, c’è l’immagine di un coccodrillo a testa di falco su un naos: il nome è nuovamente Horo imy-Shenut42 (fig. 8).

• Sul lato destro della statua, tra il braccio e il pilastro dorsale, nel registro V, c’è la figura di una divinità che Kakosy definisce panteistica, con testa di ariete e coda d’uccello, che con la mano destra tiene arco e frecce e con la sinistra ripete il gesto di Min43 (fig. 8); l’iscrizione riporta solo imy-Šnwt, ma Kakosy identifica la divinità come una forma di Horo imy-Shenut.

Il cardinale Stefano Borgia, divenuto nel 1770 Segretario della Congregazione di Propaganda Fide, accompagnò il suo impegno ecclesiastico con una fervida attività culturale che lo portò a tessere rapporti anche con ambienti cristiani non cattolici e a collezionare testimonianze di civiltà lontane nel tempo e nello spazio. Il suo impegno nei confronti dell’Egitto fu dunque vario: da un lato un interesse missionario e la volontà di tessere relazioni con l’antica comunità cristiana d’Egitto, la chiesa copta, dall’altro la passione di collezionista che andava ben oltre la raccolta di curiosità, essendosi impegnato Stefano Borgia a sollecitare lo studio delle antichità in suo possesso da parte di studiosi contemporanei44. E’

38Ibid. p. 150, tav. XLIV-XLV. 39 Vedi par. 2.3. 40 KAKOSY 1999, p. 139, tav. XLVI. 41 Par. 2.2. 42 KAKOSY 1999, p. 151, tav. XLII-XLIII. 43 Ibid. p. 152, tav. XLII-XLIII. In realtà, l’immagine è piuttosto simile a quella su una statua a Torino, dove Kakosy riconosce la dea ippopotamo con attributi analoghi; qui l’iscrizione è Hr-imy-Šnwt wbnt (p. 103, tav. XXX). 44 BAROCAS 1989; Collezione Borgia 2001.

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Fig. 6 – Divinità panteistica sul Torso Borgia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 1065 (da KÁKOSY 1999, fig. 26, p. 137).

Fig. 7 – Torso Borgia, pilastro dorsale. Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 1065

(da KÁKOSY 1999, tav. XLVI).

indubbiamente seducente l’ipotesi che i due oggetti descritti del Museo di Napoli possano essere giunti nella collezione attraverso contatti del Segretario di Propaganda Fide con l’ambiente dei monasteri presso Sohag45: essa può trovare un appoggio nel fatto che quasi tutti i manoscritti della collezione Borgia provengono dal «Convento Bianco»46.

45 Va tenuto conto del fatto che attestazioni della divinità provengono da varie zone dell’Egitto, dall’alta valle al Delta, tuttavia, riguardo alla “specializzazione” geografica della divinità, si veda DERCHAIN 1965, p. 60. 46 I manoscritti furono pubblicati da G. Zoëga (ZOËGA 1810) e ripresi in AMÉLINEAU 1888-1895 (in particolare p. II sulla presenza di manoscritti sulla vita di Apa Shenute). La dott. Paola Buzi sta preparando una nuova edizione dei manoscritti che sarà presto in stampa: "Catalogo ragionato dei manoscritti copti Borgiani conservati presso la Biblioteca "Vittorio Emanuele III" di Napoli, con un profilo storico-culturale del Cardinale Stefano Borgia". Desidero ringraziare la dott. Buzi per le indicazioni preziose che mi ha dato sul legame speciale tra la collezione Borgia e la biblioteca di Deir el-Abiad. Sulla biblioteca del «Convento Bianco», si veda ORLANDI 2002.

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Fig. 8 - Torso Borgia, lato destro. Napoli, Museo Archeologico

Nazionale, inv. 1065 (da KÁKOSY 1999, tav. XLIII).

2. OSSERVAZIONI SULL’AREA DEL «CONVENTO BIANCO» E LA POSSIBILE PRESENZA DI UN SANATORIUM

L’ipotesi fatta da alcuni importanti studiosi

sul riconoscimento dell’area del «Convento Bianco» come il maggior luogo di culto di Horo imy-Shenut, potrebbe trovare sostegno nella lettura del sito così come è emerso da scavi condotti dallo SCA in anni recenti (fig. 9).

A ovest della chiesa, sono state messe in luce strutture caratterizzate dalla presenza di numerose canalizzazioni, tra le quali spiccano due grandi bacini in granito rosa (fig. 10). Ciò che veramente colpisce dei resti sul terreno è la centralità dell’acqua: una rete di condutture intesse l’area, nella quale si trova anche una grande cisterna. Il significato e il valore dell’acqua dell’antico Egitto è ben conosciuto, si ricorda qui brevemente il suo potere salvifico: il grande fiume, che dà vita all’Egitto, altrimenti deserto, sgorga miticamentedal corpo di Osiri ed ha il potere di rigenerare; l’attraversamento delle acque, pur periglioso, rende possibile la rinascita quotidiana del sole. L’acqua è protagonista nelle aree templari egizie e lo resta nei templi di culto egizio fuori dall’Egitto, nel periodo ellenistico e in quello romano47. È ovviamente indispensabile uno studio approfondito delle strutture in quest’area per poter avere datazioni attendibili e

47 WILD 1981; CAPRIOTTI VITTOZZI 1999, pp. 148-149 con bibliografia precedente.

comprendere con chiarezza le funzioni, tuttavia il confronto con altre aree templari, e in particolare con quella di Dendera, ben conservata e non troppo lontana, può essere illuminante. Sarà importante discernere la sopravvivenza e l’eventuale riutilizzo di strutture di epoca pre-cristiana, tuttavia la rivelata ricchezza di resti sembra confermare l’intuizione avuta già da Kees, cioè che ci troviamo di fronte ad un sito di epoca faraonica.

2.1 Ipotesi di interpretazione di un edificio di Deir

el-Abiad Tra le strutture emerse dal terreno, desta

particolare interesse un edificio a pianta quadrangolare che si trova proprio ad ovest della chiesa (fig. 11). La struttura è caratterizzata da un corridoio assiale est-ovest alle cui estremità si trovano due accessi; un altro corridoio si diparte da quello assiale e conduce ad un altro accesso a nord: i due corridoi formano dunque una L sulla quale si affacciano sette stanze a pianta rettangolare, tutte di proporzioni simili; quattro hanno accesso dal corridoio est-ovest, poste a pettine alla sinistra di chi accede dall’ingresso a est, le altre, un poco più piccole, affacciano sul corridoio nord-sud e sono adiacenti, con il lato lungo, al corridoio est-ovest. Percorrendo dall’ingresso est il corridoio nord-sud, si trovano dunque tre stanze a sinistra, mentre a destra c’è una nicchia, per ospitare probabilmente un’immagine scolpita, un piccolo vano e delle scale che conducevano al piano superiore48. Nell’ultima stanza a sinistra, prima dell’apertura a nord, è evidente un impianto idraulico e una cisterna sotto il pavimento. I vani sono intonacati dal pavimento. La struttura risponde ad una progettazione chiara, la ripartizione degli spazi e l’orientamento creano un complesso armonico e di

48 Per una descrizione più dettagliata si veda GROSSMANN-MOHAMED 1991, pp. 55-60; GROSSMANN 2002, pp. 293-294.

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Fig. 9 – Pianta dell’area del «Convento Bianco» (da GROSSMANN 1991, p. 61, fig. 1).

Fig. 10 – Uno dei due grandi bacini in granito rosa (foto dell’Autore).

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Fig. 11 – Pianta dell’edificio a ovest del «Convento Bianco» (da GROSSMANN 1991, p. 63, fig. 3). senso compiuto. Gli archeologi che hanno

scavato la struttura hanno notato che l’edificio è stato costruito con una cura e dei materiali che non sono riscontrabili in altri edifici dell’area49: i muri spessi sono costruiti in mattoni cotti, la perizia architettonica è sottolineata dalla raffinatezza dei particolari, come ad esempio gli stipiti modanati in pietra. Ciò che davvero caratterizza la struttura e stupisce il visitatore sono gli ingressi: giungendo dalla chiesa all’accesso est, ci si trova davanti ad una porta monumentalizzata da un’ampia scalinata in pietra di tre gradini (figg. 12-13); tra la sommità della scalinata e la soglia della porta, si apre insolitamente una vasca che va attraversata per poter accedere all’edificio. Altre due vasche, ma di dimensioni minori, si trovano davanti agli altri due ingressi a ovest e a nord. Nella prima pubblicazione degli scavi, era stata supposta una funzione di alloggio per un gruppo selezionato di monaci50. Successivamente, P. Grossmann ha supposto che si tratti di un edificio adibito a

49 Ibid. 50 GROSSMANN-MOHAMED 1991.

magazzino51, in questo caso le vasche avrebbero avuto la funzione di tenere lontani i topi. Tali incertezze indicano chiaramente la difficoltà ad identificare un edificio così insolito e può giovare tornare su alcuni particolari: se può sembrare adeguata l’interpretazione delle vasche come deterrente per i ratti, altre caratteristiche dell’edificio appaiono poco consone ad un magazzino, e soprattutto la possibilità di chiudere le porte dall’interno52 e la decorazione dipinta che ancora si intravede sui muri interni. La bellezza dell’edificio e la monumentalizzazione degli ingressi incoraggiano dunque ad avanzare un’ipotesi diversa. La posizione dell’edificio al

51 GROSSMANN 2002, p. 293. 52 GROSSMANN-MOHAMED 1991, p. 56.

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Fig. 12 – L’edificio a ovest del «Convento Bianco» visto dall’ingresso orientale (foto dell’Autore):

Fig.13 - L’edificio a ovest del «Convento Bianco», particolare dell’ingresso orientale (foto dell’Autore).

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Fig. 14 – Pianta del sanatorium di Dendera (da DAUMAS 1957, tav. I).

centro di complessi impianti idraulici, le vasche che segnano gli ingressi, la presenza di una cisterna e il fatto che i vani sono intonacati dicono chiaramente che, nella struttura, protagonista era l’acqua. Sulla sommità della gradinata a est, dei solchi intenzionali segnano la superficie dell’ultimo scalino: alcuni sembrano memoria di antichi prelievi di una pietra ritenuta salubre, altri potrebbero essere lettere greche; sulla struttura, si trova una croce disegnata in colore ocra, forse un segno destinato a “bonificare” una struttura precedente e pagana. L’insieme lascia immaginare che siamo di fronte ad una importante struttura all’interno dell’antica area templare, un edificio dove si combinassero funzionalità e ritualità.

2.2 IL sanatorium di Dendera

Per la comprensione di questo edificio, può venirci in aiuto un’osservazione dell’area del tempio di Hathor a Dendera: nei pressi del mammisi di Nectanebo e della basilica cristiana, vicino al pozzo sacro, è stato messo in luce un edificio quadrangolare di 25 m. di lato, nel quale undici stanze rettangolari si aprono intorno ad un corridoio, mentre al centro ci sono delle istallazioni balneari (fig. 14). Gli archeologi non hanno trovato traccia di ingressi, e dunque vi si doveva accedere attraverso una o più rampe d’accesso; la struttura è sopraelevata rispetto al piano di calpestio circostante. La comprensione dell’edificio è stata possibile anche grazie alla presenza in sito di un blocco recante una lunga iscrizione di contenuto magico e che doveva originariamente sostenere una statua di analoga

funzione53: sull’immagine e sull’iscrizione veniva fatta scorrere l’acqua che veniva poi raccolta grazie ad un impianto idraulico e utilizzata a scopo terapeutico nella struttura balneare al centro dell’edificio. Sulla base di questi dati, F. Daumas ha interpretato la struttura come un sanatorium, un luogo dove venivano curati i malati sia attraverso l’uso dell’acqua che, probabilmente, per incubazione.

È ben conosciuta l’esistenza di luoghi di cura all’interno dei templi egizi e il fatto che la medicina veniva insegnata ed esercitata all’interno delle aree templari nella “Casa della Vita”. Dalle fonti, risulta l’esistenza di altri ambienti terapeutici in area templare, ma fino ad oggi si conosce oggettivamente solo quello studiato da Daumas a Dendera. I sanatoria potevano essere di tipo diverso, come sembra di capire anche dal fatto che un altro genere, privo di impianto balneare, era presente in epoca tolemaica sulla terrazza superiore del tempio funerario di Hatshepsut a Deir el-Bahari54. Nell’Aslepieion rupestre sulla montagna di Athribis, era ovviamente impossibile un impianto idrico e vi si praticava l’incubazione55. L’uso dell’acqua a scopi terapeutici doveva comunque essere molto importante, se lo stesso fu ampiamente esportato fuori dall’Egitto insieme ai culti della Terra del Nilo56.

2.3 Excursus: La Casa della Vita

La Casa della Vita57 è una importantissima istituzione dell’Egitto antico, che conosciamo

abbastanza dalle fonti, ma pochissimo da un punto di vista archeologico. Una delle citazioni più famose della Casa della Vita ci viene dal famoso “naoforo Vaticano”, una statua di sacerdote archiatra di epoca persiana, fittamente iscritta con l’autobiografia dello stesso Udjahorresne58. L’iscrizione ci narra che il sacerdote riuscì ad ottenere da Cambise il restauro del tempio di Neith a Sais che lo stesso Gran Re

53 DAUMAS 1957. 54 WESTENDORF 1975-1992, V, pp. 376-377. 55 Si veda, in questo stesso volume La Montagna dell’Occidente, luogo del Divino, par. 4.2. 56 WILD 1981; CAPRIOTTI VITTOZZI 1999, pp. 148-149 con bibliografia precedente. 57 GARDINER 1938; WEBER 1975-1992, III, pp. 954-957. 58 BOTTI ROMANELLI 1951, pp. 32-40, cat. n. 40, tavv. XXVII-XXXII.

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Fig. 15 – Vignetta del P. Salt 825 (da GARDINER 1938, p. 169, fig. 2).

onorò di una visita; Udjahorresne fu nominato archiatra e compose per l’invasore persiano il protocollo faraonico; fu inoltre incaricato di restaurare il “dipartimento sanitario” della Casa della Vita. Dalle fonti, si deduce che la Casa della Vita doveva essere presente nelle maggiori aree templari ma non siamo in grado di definirne il numero; risulta chiaro, inoltre, che nella Casa della Vita c’era una sorta di scuola medica e si esercitava la medicina, tale attività si affiancava ad altre, tutte tese al mantenimento e al rinnovo della vita59. Tra gli specialisti della Casa della Vita, c’era anche lo scultore, cioè colui che era in grado di creare l’immagine alla quale sarebbe stata poi “aperta la bocca” affinché potesse essere “viva”: il termine per indicare la creazione di immagini è lo stesso che per “partorire”. Una delle attività fondamentali della Casa della Vita era quella di creare testi sacri, sia per il rituale templare che per quello funerario. Tra gli specialisti della Casa della Vita c’era lo “scriba del libro divino” (zš md3t ntr) e il sacerdote lettore (hry-hb): per la potenza creatrice della parola scritta e pronunciata, i libri della Casa della Vita erano segreti e inaccessibili; essi sono definiti “emanazioni di Ra” o “anime di Ra” (b3w) e dunque capaci di attualizzare la potenza del dio creatore. È interessante notare che è stato messo a confronto il termine biblico per indicare i maghi egizi e il nome del sacerdote lettore, colui che pronuncia le parole divine (hry-hb)60: nella stessa letteratura egizia sono ben conosciute le capacità di tale figura sacerdotale che passerà poi, in qualità di mago dagli stupefacenti poteri, anche

59 GARDINER 1938, pp. 157-159. 60 WEBER 1975-1992, III, pp. 954-957; GARDINER 1938, pp. 162-165, 168-173.

nella letteratura classica61. Per la comprensione della Casa della Vita, è

fondamentale un testo contenuto nel Pap. Salt 825, dove si dà una descrizione di quella in Abido62: ne risulta un insieme complesso, composto di quattro parti e di un corpo interno; da un lato c’è Isi e dall’altro Nefti, agli altri due lati Horo e Thot63, in basso e in alto stanno Geb e Nut, cielo e terra; al centro sta il “Vivente”, Osiri che è la rigenerazione stessa, come risulta anche dalla vignetta che accompagna il testo (fig. 15). Coloro che sono nella Casa della Vita agiscono per Ra, sono i collaboratori del dio supremo: essi svolgono il ruolo delle divinità e, in particolare, colui che è scriba del libro divino e recita le parole del rituale è Thot stesso. La descrizione scritta e la vignetta ci dicono inoltre che la Casa della Vita di Abido era quadrangolare e aveva quattro ingressi, orientati secondo i quattro punti cardinali. Il testo ci offre una descrizione che, in qualche caso, soprattutto per quanto riguarda la struttura fisica, non è del tutto chiara: d’altra parte si tratta di un testo magico dal quale si ricavano comunque dei dati importanti.

La Casa della Vita è dunque il luogo dove un gruppo estremamente specializzato di persone rende possibile il mantenimento e il rinnovo della vita del paese e dei singoli: ciò è possibile perché attraverso i testi e le immagini sacre si rende presente e attiva la divinità con tutto il suo potere rigenerante; a tali attività della Casa della Vita sono ovviamente connesse quelle mediche, per il mantenimento del corpo, e allo stesso modo quelle funerarie. Da quanto possiamo comprendere dal testo, la Casa della Vita attua il cosmo ordinato degli dei, è un luogo dove ciascun elemento ha senso al fine di rigenerare l’esistenza, dove misteriosamente si conoscono i processi della vita: è dunque il luogo della sapienza, dei rituali e della magia; non si tratterebbe, come osserva Gardiner,

61 DE SALVIA 1987, pp. 343-365; CAPRIOTTI VITTOZZI 2000, pp. 125-127. 62 GARDINER 1938, pp. 167-169; DERCHAIN 1965, pp. 139-141. 63 Si può notare che queste due divinità sono le stesse che praticano il battesimo sul sovrano durante i riti dell’incoronazione (si veda nota 65).

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Fig. 16 – Il defunto beve da un bacino d’acqua sotto una palma-dum, in un dipinto nella tomba di Irinefer (TT290) a Deir el-Medina (da Impero dei conquistatori 1985, p. 135).

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Fig. 17 – Vignetta del Libro dei Morti, cap. 63°: il defunto, davanti ad un bacino d’acqua, raccoglie l’acqua che gli viene versata da un albero animato, forma iconografica della dea dell’albero

(da HORNUNG 1990, p. 133).

di una scuola per scribi, ma di un luogo dove venivano creati i testi sacri64.

2.4 La possibile presenza di un sanatorium e di

una Casa della Vita a Deir el-Abiad

L’edificio venuto in luce nei pressi del «Convento Bianco», e sopra descritto, appare di particolare interesse. Pur essendo la struttura diversa da quella conosciuta a Dendera, tuttavia ne ricalca alcuni aspetti: la disposizione di stanze a pianta rettangolare che si aprono a pettine su un corridoio, la posizione rialzata rispetto al piano circostante, l’uso di rampe d’accesso, il fatto che le stanze sono intonacate e in qualche modo impermeabilizzate, la collocazione dell’edificio all’interno di un’area fortemente attrezzata di impianti idraulici. Le vasche poste davanti agli ingressi dell’edificio di Deir el-Abiad offrono un.dato nuovo: non conosco al momento casi analoghi

Indubbiamente un bacino d’acqua posto davanti alle porte può essere finalizzato alla purificazione di chi entra e chi esce; tale funzione, per così dire pratica, in Egitto non può essere scissa da quella rituale e mitologica: attraversare le acque è la condizione per la rinascita. Il “battesimo”65 viene attuato sia sul sovrano, durante i riti dell’incoronazione, affinché venga

64 GARDINER 1938, p. 159; WEBER 1975-1992, III, p. 954. 65 GARDINER 1950.

“generato” alla regalità, che sul defunto perché sia rigenerato. La presenza di bacini d’acqua in ambito sia templare che funerario è ben conosciuta e farebbe riferimento alle acque primordiali del Nun e alle loro capacità creative e rigeneranti66 (figg. 16-17). La stessa posizione sopraelevata della struttura di Deir el-Abiad può essere significativa: il luogo presieduto da Osiri è un tumulo che sorge dall’acqua, l’isola primordiale si eleva dalle acque al tempo della creazione.

Siamo di fronte ad un sanatorium? Questa sembra un’ipotesi possibile, soprattutto in considerazione della natura di Horo imy-Shenut che doveva presiedere il sito, i cui sacerdoti medici sono conosciuti fin dall’Antico Regno. Certamente a Deir el-Abiad non ci sono né iscrizioni né immagini che soccorrano la ricerca degli studiosi e non ci si può aspettare nulla di più, essendo stato il sito “bonificato” da Apa Shenute e dai suoi seguaci. Un certo indizio può essere dato dai segni sull’ultimo scalino della rampa d’accesso principale che sembrano testimoniare l’uso, ben conosciuto nei templi egizi, di prelevare frammenti di pietra, ritenuta sacra, per uso profilattico.

Forse possiamo chiederci, come F. Daumas a Dendera67, se ci troviamo di fronte ad una parte

66 BOMANN 1991, pp. 101-117: l’autore prende in considerazione soprattutto i bacini a forma di T, ma non solo (si veda ad es. pp. 107-108). 67 DAUMAS 1957, pp. 55-56.

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della Casa della Vita, quel “dipartimento sanitario” restaurato da Udjahorresne a Sais.

La presenza del culto di Horo imy-Shenut nell’area del «Convento Bianco» corrobora l’ipotesi di identificazione della struttura: la divinità infatti ha speciali legami con l’istituzione della Casa della Vita, ripetutamente testimoniati nei testi. Un amuleto contro il malocchio, conservato a Berlino, porta una lunga iscrizione magica nella quale Horo imy-Shenut è definito “il grande dio nella Casa della Vita”68. Un’importante attestazione si trova in un papiro magico a Leida69, dove Horo imy-Shenut è definito “Signore dei libri”, “Maestro delle parole”, “Signore della Casa della Vita”, “Signore della Casa dei Libri”70. Ph. Derchain, nel suo studio sul Pap. Salt 825, mette ripetutamente in luce il legame tra Horo di Sohag e la Casa della Vita e tra la stessa divinità e la Casa dei Libri, in particolare la biblioteca del tempio di Edfu71. In quanto dio fortemente connotato dai poteri magici di guaritore e protettore, Horo di Sohag ha una

ovvia importanza sia nella Casa della Vita chenella Casa dei Libri, i luoghi dove venivano creati i testi sacri e conservati per i riti: le parole divine, scritte nei libri e pronunciate nei rituali, possiedono tutta la potenza creatrice o distruttrice della divinità.

Il sanatorium di Dendera sembra databile all’epoca tolemaica e romana72 e forse si può supporre la stessa cosa per l’edificio di Deir el-Abiad. Evidentemente siamo davanti a delle ipotesi: vanno verificati i dati sul terreno e certo non siamo aiutati dalla distruzione di immagini e iscrizioni operata dai cristiani, né dal fatto che sono scarsissimi i dati archeologici riguardanti le Case della Vita e i sanatoria: certamente

68 Iscrizione sotto il titolo; SCHOTT 1931, pp. 107-108. 69 P. Leiden I 347, 3, 1-5. 70 GARDINER 1938, p. 164 (23); DERCHAIN 1965, p. 60; VELDE 1975-1992, III, p. 48. 71 DERCHAIN 1965, pp. 39, 46, 59-60. 72 DAUMAS 1957, p. 56.

suggestiva è la pianta quadrata dell’edificio con tre ingressi su tre lati orientati secondo i punti cardinali. Ugualmente suggestiva è l’osservazione che la tradizione cristiana di un’importante scriptorium73 presso il «Convento Bianco» potrebbe avere origine dall’esistenza di una Casa della Vita nello stesso sito.

In conclusione, è auspicabile che la collaborazione tra varie competenze scientifiche, prevista dal Progetto «Convento Rosso» verifichi e sviluppi le varie prospettive di ricerca, nel tentativo di comprendere la stratificazione culturale e religiosa di un territorio estremamente complesso, mettendo in luce le cesure, anche violente, e gli elementi continuità, sia espliciti che cripti

.

73 KAMIL 2002, p. 186.

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