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Fabriano, 15 novembre 2013 DAI DISTRETTI ALLE FILIERE LUNGHE MODELLI DI INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE E COMPETITIVITÀ DEL TERRITORIO

DAI DISTRETTI ALLE FILIERE LUNGHE MODELLI DI ......Modelli di internazionalizzazione delle imprese e ... esprimersi non solo nell’innovazione incrementale di prodotto e di processo

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Fabriano, 15 novembre 2013

DAI DISTRETTI ALLE FILIERE LUNGHEMODELLI DI INTERNAZIONALIZZAZIONE

DELLE IMPRESE E COMPETITIVITÀ DEL TERRITORIO

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Dai distretti alle filiere lunghe Modelli di internazionalizzazione delle imprese e competitività del territorio

Indice

Prefazione ....................................................................................................... 3 

Trasformazioni e prospettive dei distretti industriali delle Marche ............... 7 

I cambiamenti recenti ................................................................................. 8 

Le prospettive ........................................................................................... 12 

Alcune considerazioni conclusive ............................................................ 18 

Il modello marchigiano tra discontinuità e temi della crescita .................... 27 

Il sistema produttivo marchigiano tra discontinuità e temi della crescita ............................................................................................. 28 

Dentro le imprese leader .......................................................................... 32 

Anticipare gli eventi, governare la crisi ................................................... 33 

Rimodellare e modernizzare l’impresa .................................................... 37 

Dalle Marche al mondo: l’internazionalizzazione di qualità ................... 41 

1.  Reti d’impresa virtuose ..................................................................... 45 

Nota sulla rilevazione campionaria .......................................................... 47 

Un processo di internazionalizzazione “variegato” ed in evoluzione: quali prospettive per quali mercati ............................................................... 51 

Considerazioni in premessa...................................................................... 51 

Alcune riflessioni sui risultati .................................................................. 52 

Quali possibili traiettorie evolutive .......................................................... 54 

Alcuni risultati “non convenzionali” ........................................................ 57 

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Prefazione

Questo rapporto contiene i risultati preliminari di un’indagine svolta in collaborazione fra la Fondazione Aristide Merloni, il Censis e il Dipartimento di Management dell’Università Politecnica delle Marche in preparazione del Convegno di studi per il cinquantenario della Fondazione Aristide Merloni.

I risultati definitivi, insieme con gli atti del convegno, saranno oggetto di successiva pubblicazione. Scopo del presente rapporto è quello di presentare i principali risultati e fornire alcuni spunti di riflessione per i relatori e i partecipanti al Convegno.

Il Convegno nasce dalla volontà di celebrare i cinquanta anni della Fondazione Aristide Merloni mantenendo ferma la sua missione di contribuire, attraverso l’attività di ricerca e di proposta, allo sviluppo del territorio. Per tale ragione si è deciso di affrontare un tema che è divenuto centrale per le prospettive di crescita delle imprese manifatturiere marchigiane e per l’intero sistema economico, quello dei processi di internazionalizzazione.

Il rapporto è organizzato in tre parti. La prima, a cura di Donato Iacobucci, evidenzia le principali linee di trasformazione dei sistemi distrettuali marchigiani e delinea alcune possibili prospettive di sviluppo. La seconda riporta i risultati dell’indagine svolta dal Censis su un campione di medie imprese della regione. L’indagine ha riguardato le reazioni delle imprese alla crisi e le strategie messe in atto per superarla. Infine, la terza parte sintetizza i risultati dell’analisi sui processi di internazionalizzazione di un campione di imprese marchigiane svolta da ricercatori del Dipartimento di Management dell’Università Politecnica delle Marche, attraverso la tecnica del case study.

Di seguito sono riepilogati i principali risultati.

1. Il sistema manifatturiero regionale esprime un livello di internazionalizzazione inferiore a quanto riscontrato nella media nazionale. Ciò riguarda sia le vendite sui mercati esteri sia gli investimenti diretti all’estero. L’internazionalizzazione costituisce, pertanto, una opportunità che deve essere ulteriormente sfruttata come leva di crescita delle imprese, puntando sulla qualità dei prodotti e sull’innovazione.

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2. Le imprese manifatturiere regionali sono scarsamente presenti nelle aree geografiche più lontane ma che presentano le maggiori prospettive di sviluppo: est Asia, Americhe, Africa. La penetrazione di questi mercati richiede la costruzione di rapporti di collaborazione duraturi con partner locali ed una presenza diretta in termini di produzione e distribuzione.

3. Le imprese hanno indicato nei processi di internazionalizzazione una delle principali leve di uscita dalla crisi. Per le ragioni sopra menzionate, è essenziale ribadire che tali processi debbono essere inquadrati in un ottica di lungo periodo e non come momentanea compensazione al calo della domanda interna.

4. La competitività delle produzioni regionali sui mercati esteri dovrà essere basata sull’innovazione piuttosto che sui costi. Per tale ragione vi è un connubio molto stretto fra internazionalizzazione e performance innovativa delle imprese. Quest’ultima dovrà esprimersi non solo nell’innovazione incrementale di prodotto e di processo ma in innovazioni di prodotto e organizzative. Occorre, a tale riguardo, elevare in modo significativo l’impegno delle imprese nella ricerca e sviluppo e nella formazione del capitale umano.

5. L’indagine presso le imprese ha fatto emergere una varietà di soluzioni organizzative della presenza estera, in funzione delle caratteristiche dei prodotti, dei mercati serviti e del business model adottato. Tale varietà è anche il risultato delle opportunità messe a disposizione dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La ‘creatività’ nell’immaginare nuove soluzioni rispetto ai modelli tradizionali e a sfruttare appieno le opportunità offerte dalle nuove tecnologie costituiscono elementi fondamentali per il successo delle strategie di internazionalizzazione.

6. Le imprese regionali mostrano un significativo ritardo nei processi di internazionalizzazione attiva, basati cioè sulla presenza diretta all’estero. Quest’ultima è sempre meno il risultato di strategie di ‘delocalizzazione’ della produzione locale, ma si configura come strategia complementare di sostegno dell’export o di acquisizione di quote di mercato non conseguibili con l’esportazione.

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7. La rilevanza delle piccole e medie imprese nel sistema manifatturiero regionale impone alle stesse di sviluppare forme di aggregazione che consentano loro di superare gli svantaggi della dimensione, soprattutto nei mercati geograficamente più lontani. Gli imprenditori riconosco nella difficoltà alla collaborazione uno degli elementi di debolezza del sistema regionale; tuttavia l’indagine sul campo ha fatto emergere situazioni promettenti di aggregazione e collaborazione.

8. Le nuove e più variegate forme assunte dai processi di internazionalizzazione impongono un deciso cambiamento nelle politiche pubbliche di sostegno a tali processi. Accanto al necessario maggior coordinamento dei diversi enti che operano in questo ambito, è anche necessario modificarne in modo sostanziale gli obiettivi e le modalità operative. Lo scopo dell’intervento pubblico dovrà riguardare sempre meno il semplice sostegno all’export e puntare a favorire relazioni di partnership durature con operatori economici e istituzioni dei paesi che presentano le maggiori opportunità per le imprese manifatturiere regionali.

Sono questi i principali aspetti che saranno oggetto di analisi e discussione al Convegno, nel quale sono previsti sia interventi di studiosi e policy maker, sia le testimonianze degli imprenditori.

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Trasformazioni e prospettive dei distretti industrialidelleMarche

Donato Iacobucci

Questa nota intende fornire alcuni spunti di riflessione sui cambiamenti strutturali avvenuti nel sistema manifatturiero regionale, individuare le tendenze emergenti e delineare possibili traiettorie future di cambiamento.

L’analisi è basata sulle fonti statistiche disponibili e sull’esame delle analisi e delle ricerche condotte negli ultimi anni sui sistemi locali delle Marche e dell’Italia.

Il lavoro non ha pretesa di esaustività dei diversi aspetti che hanno caratterizzato l’evoluzione congiunturale e strutturale dell’industria regionale negli ultimi decenni. Per l’analisi puntuale di tali aspetti si rimanda alla notevole quantità di studi e ricerche prodotti negli ultimi anni su specifici ambiti territoriali e settoriali1.

Lo scopo del lavoro è quello di richiamare l’attenzione su alcuni questioni di fondo che possono aiutare a spiegare i cambiamenti in atto e, soprattutto, suggerire alcune traiettorie di cambiamento utili ad orientare l’azione delle imprese e del policy maker.

Il lavoro è strutturato in tre parti.

Nella prima sono sommariamente esaminati i principali cambiamenti strutturali nell’industria manifatturiera regionale, quali emergono dai dati dell’ultimo censimento dell’industria e dei servizi.

Nella seconda parte sono forniti alcuni spunti di riflessione sulle possibili traiettorie di sviluppo a medio termine del sistema manifatturiero regionale. Il terzo paragrafo contiene alcune considerazioni conclusive.

1 Molti di questi lavori sono stati pubblicati nella rivista Economia Marche e nelle collane della Fondazione Aristide Merloni.

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I cambiamenti recenti

I risultati dell’ultimo censimento dell’industria e dei servizi evidenziano per le Marche una riduzione del 17% degli occupati nell’industria manifatturiera fra il 2001 e il 2011. Si tratta del primo calo intercensuario registrato negli occupati industriali nella regione, dopo oltre mezzo secolo di crescita continua.

La contrazione degli occupati nelle imprese manifatturiere è il risultato di diverse forze fra loro sovrapposte: trasformazioni di lungo periodo dell’economia regionale; pressioni competitive che si sono manifestate con maggiore intensità nell’ultimo decennio; la crisi che ha investito i paesi europei dalla seconda metà del 2008 e la successiva fase recessiva che ha interessato il nostro paese.

Agli inizi del nuovo secolo (2001) le Marche si presentavano come una delle regioni d’Italia e d’Europa con la più alta quota di occupazione nell’industria manifatturiera. Al pari di quanto avvenuto nelle economie industriali avanzate, dopo cinquanta anni di sviluppo continuo era inevitabile che il settore manifatturiero iniziasse a ridimensionare la sua importanza relativa a favore del comparto dei servizi. La ‘transizione’ ai servizi è iniziata nelle Marche già a partire dalla seconda metà degli anni ’80; al censimento del 1991 per la prima volta gli occupati nel terziario hanno superato il 50% degli occupati complessivi (vedi Tabella 1).

La riduzione degli occupati nell’industria e la crescita degli occupati nel terziario è dovuta innanzitutto alla crescita del reddito, con conseguente spostamento della domanda verso i servizi, ma anche ai processi di trasformazione interna all’industria manifatturiera, generati dal progressivo upgrading qualitativo dei prodotti e dei processi. La maggiore qualità è, infatti, ottenuta attraverso l’incremento dei servizi a monte e a valle del processo di trasformazione: ricerca e sviluppo, design, marketing, amministrazione e controllo. Anche se strettamente connesse alle attività manifatturiere, tali servizi sono spesso forniti da imprese specializzate, che le statistiche classificano come imprese di servizi.

Un ulteriore fattore che potremmo considerare ‘fisiologico’ nello spiegare il progressivo calo degli occupati all’industria manifatturiera è costituito dalla crescita dei livelli di scolarizzazione della popolazione, con conseguente

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ricerca di occupazione a più alto valore aggiunto. Nel caso delle Marche questo processo si è accompagnato ad un progressivo invecchiamento della popolazione. Ciò ha comportato lente ma profonde modifiche nel mercato del lavoro, nel quale si manifesta un progressivo mismatching qualitativo e quantitativo fra il numero e le caratteristiche delle persone che escono per anzianità dal mercato del lavoro e i giovani che vi entrano.

Accanto a queste tendenze di lungo periodo, che possiamo considerare fisiologiche, nell’ultimo decennio il sistema industriale regionale è stato sottoposto a rilevanti pressioni esterne che sembrano averne messo in discussione la capacità di tenuta. Prescindendo dalle due crisi dell’ultimo quinquennio – quella globale esplosa nel corso del 2009 e la recessione italiana iniziata nella seconda meta del 2011 – il sistema industriale regionale stava già attraversando un processo di ristrutturazione indotto da due fattori esterni.

Il primo di questi fattori è stata la progressiva apertura dei mercati europei, principale sbocco dei prodotti regionali, alle produzioni a basso costo provenienti dai paesi emergenti, Cina in primo luogo.

Il secondo fattore è stato l’entrata dell’Italia nell’Euro, la quale ha determinato l’impossibilità di recuperare la perdita di competitività delle produzioni nazionali attraverso la svalutazione. L’Euro, inoltre, si è rivalutato rispetto alle altre principali valute (dollaro in primo luogo) rendendo meno competitive le produzioni regionali nei paesi esterni all’area Euro.

Fino alla crisi globale iniziata nell’autunno del 2008, il sistema sembrava aver retto all’impatto di queste pressioni esterne. Non erano mancate situazioni di crisi aziendale ma non vi erano segnali che facessero ipotizzare la crisi di interi settori o sistemi territoriali e tantomeno del sistema nel suo complesso. Alcuni elementi di debolezza da più parte segnalati – la ridotta dimensione media delle imprese, il basso investimento in ricerca e sviluppo, i ritardi nei processi di internazionalizzazione attiva – non sembravano costituire un impedimento alla capacità del sistema di mantenersi competitivo.

La situazione sembra drasticamente mutata per effetto delle due crisi che si sono succedute a partire dall’autunno del 2008. La prima, profonda ma di breve durata, dovuta principalmente alla caduta della domanda estera; la seconda, iniziata nella seconda metà del 2011 e protrattasi per tutto il 2013, dovuta alla progressiva riduzione della domanda interna. Sono gli effetti di

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queste due crisi, ed in particolare della seconda, che sembrano aver messo in discussione la capacità di tenuta del sistema.

L’analisi dei dati da poco resi disponibili del censimento dell’industria e dei servizi del 2011 può fornirci qualche elemento di valutazione sui cambiamenti in atto. Nel decennio 2001-2011 vi è stata una riduzione degli occupati all’industria manifatturiera di circa 35.000 unità, dai circa 200.000 addetti del 2001 a 165.000 nel 2011 . La riduzione ha riguardato in misura maggiore i settori ‘tradizionali’ (alimentare, pelli cuoio e calzature, tessile e abbigliamento, legno e mobili)2: l’abbigliamento ha ridotto di circa un terzo i propri occupati; gli occupati nelle imprese calzaturiere si sono ridotti del 20%; nel mobile la contrazione è stato dell11%. Fra i settori tradizionali costituisce un’eccezione il settore alimentare nel quale si registra una leggera crescita degli occupati (+1,9%).

Fra i pochi settori le cui imprese hanno incrementato l’occupazione vi è quello delle macchine. Si tratta di un risultato importante, sia perché le macchine sono un settore con produzioni di media e alta tecnologia, sia perché le imprese del settore sviluppano una complessa filiera produttiva, in gran parte radicata nel territorio (Russo, 2008). Le produzioni meccaniche richiedono una base di conoscenze tecnologiche ampia e più facilmente trasferibile in altre produzioni; vi sono, pertanto, maggiori spillover di conoscenza fra settori e maggiori possibilità di diversificazione dei prodotti, sia da parte delle imprese esistenti, sia attraverso la formazione di nuove imprese. Anche per queste ragioni, le produzioni meccaniche rappresentano il ‘core’ dell’attività produttiva e dell’export di gran parte dei paesi avanzati (Hidalgo, Klinger, Barabasi, & Hausmann, 2007).

Il complesso degli altri settori ha subito una contrazione superiore alla media (-26%) con riduzioni significative nei comparti del legno, della carta e stampa, dell’elettronica e del tessile.

L’andamento degli occupati nei settori dell’industria manifatturiera regionale fra il 2001 e il 2010 evidenzia alcune tendenze di fondo, già in atto da tempo.

a) Una tendenziale riduzione degli occupati nei settori a più basso contenuto di tecnologico (come sono i settori tradizionali) rispetto a quelli a più alto contenuto di conoscenza (come la meccanica). Le imprese dei settori a più basso contenuto tecnologico (come il

2 I settori ‘tradizionali’ corrispondono sostanzialmente ai settori ‘low tech’ della classificazione dell’OCSE.

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calzaturiero) hanno contrastato la perdita di competitività attraverso un continuo upgrading quantitativo delle loro produzioni e l’investimento nei marchi e nella distribuzione. Tuttavia tali strategie non sembrano in grado di modificare la tendenza alla continua riduzione dei volumi produttivi e degli occupati3.

b) Una superiore tenuta dei settori organizzati in cluster territoriali (distretti) e per i quali si è consolidata nella regione una massa critica significativa di conoscenze e di risorse. Ciò segnala la rilevanza delle economie di agglomerazione e l’importanza delle relazioni di filiera che si sviluppano nell’ambito locale.

Il confronto dei dati censuari fra il 2011 e il 2001 segnala anche un’importante modifica nella struttura dimensionale delle imprese. Nel decennio in esame hanno perso occupati soprattutto le imprese di minore dimensione (1-49 addetti) mentre hanno guadagnato occupati quelle di maggiore dimensione (oltre i 250 addetti). Questo conferma una tendenza già da lungo tempo evidenziata per le Marche (Balloni & Iacobucci, 1997) e per l’Italia (Varaldo & Ferrucci, 1997) costituita dal progressivo emergere all’interno dei distretti di imprese ‘leader’. Queste imprese hanno attuato processi di crescita rilevanti grazie agli investimenti nei cosiddetti fattori immateriali: il design, la ricerca e sviluppo, il branding, la distribuzione. Si tratta di imprese radicate nei sistemi locali di appartenenza poiché continuano a servirsi delle competenze specialistiche presenti nei distretti. La loro presenza cambia, però, la natura delle relazioni di filiera, le quali diventano sempre più gerarchicamente ordinate ed orientate su orizzonti di medio e lungo termine. La crescita delle imprese di maggiore dimensione è anche dovuta alla superiore capacità di penetrazione dei mercati esteri, attuata non solo attraverso la vendita (export) ma anche attraverso il controllo diretto di attività di produzione e distribuzione in questi paesi4.

3 Fra il 1981 e il 2011 il numero degli addetti alle imprese calzaturiere si è quasi dimezzato (Cutrini et al., 2012). 4 L’emergere di medie e grandi imprese nei distretti marchigiani, le loro performance di crescita e le strategie di innovazione e internazionalizzazione sono state costante oggetto di analisi nelle diverse edizioni della ‘Classifica delle Principali Imprese Marchigiane’ che la Fondazione Aristide Merloni elabora ininterrottamente dal 1986.

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Le prospettive

Malgrado il ridimensionamento osservato nell’ultimo decennio e la situazione di crisi dell’ultimo quinquennio, è convinzione di chi scrive che il settore manifatturiero continuerà a rimanere il principale motore di sviluppo del sistema economico. Questa affermazione è vera non soltanto per le Marche, regione che ha consolidato una importante base manifatturiera, ma per il paese nel suo complesso. L’industria manifatturiera è il settore dell’economia maggiormente esposto alla competizione interna e internazionale e per tale ragione è il settore dove si esprime la maggiore carica innovativa e di ricerca dell’efficienza. Ciò determina conseguenze positive per l’intero sistema dei servizi pubblici e privati, meno esposti alla pressione competitiva. Il manifatturiero è anche il settore dal quale proviene l’export, importante canale di trasferimento di risorse finanziarie sul territorio.

La possibilità per il manifatturiero di rimanere il settore trainante è affidata alla capacità di avviare un profondo processo di ristrutturazione. Tale processo dovrà riguardare non solo la struttura settoriale, con inevitabile ulteriore contrazione dei settori ‘tradizionali’ a vantaggio di quelli a più elevato contenuto di conoscenza, ma soprattutto il modo di fare impresa all’interno dei singoli settori. E’ destinata ad accentuarsi la tendenza già in atto ad alla progressiva riduzione delle attività di trasformazione a favore delle attività a monte e a valle della filiera: la ricerca e sviluppo, il design, il branding, la distribuzione.

Questo processo e trova la sua manifestazione nella progressiva modifica delle risorse umane occupate dalle imprese manifatturiere: si riducono gli operai, in particolare le qualifiche più generiche, a favore dei tecnici, degli impiegati e dei quadri. E’ un processo in atto ma con non sufficiente velocità5.

Questo processo di ricomposizione delle attività all’interno della filiera è fondamentale per dare maggiore valore ai prodotti e mantenere competitive le attività di trasformazione svolte in Italia. Esso è anche necessario per

5 In una recente indagine sulle principali imprese marchigiane veniva notato che “…appare limitato il ruolo delle attività a monte e a valle della catena del valore (nuove tecnologie, brevetti, marchi e brand) per la generazione del vantaggio competitivo, mentre resta prevalente la stretta focalizzazione sull’attività manifatturiera” (Cucculelli, 2009, p. 9).

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elevare la produttività del lavoro nella regione, che continua a manifestare un notevole ritardo rispetto alla media nazionale (vedi Figura 2).

In alcuni settori e paesi questo processo di ricomposizione della filiera si è tradotto in un completo outsourcing delle attività di trasformazione verso paesi a più basso costo del lavoro6. I paesi che hanno percorso con più decisione questa strada, come gli USA, stanno oggi tornando sui loro passi non solo perché va riducendosi la convenienza di costo della ‘delocalizzazione’ ma anche perché la perdita delle attività di trasformazione può determinare un impoverimento nella complessiva capacità innovativa e competitiva della filiera.

Per molte delle produzioni italiane e marchigiane, che non sono produzioni di massa ma produzioni di nicchia, è possibile immaginare che lo sviluppo delle attività a monte e a valle della filiera non implichi la perdita delle attività di trasformazione. Al contrario, gli investimenti nella ricerca e sviluppo, nel design, nel branding, nella distribuzione sono indispensabili per fornire maggior contenuto di innovazione e di servizio alle produzioni regionali e, in questo modo, mantenerle competitive anche in presenza di più alte remunerazioni per occupato.

In tale prospettiva, gli sforzi delle imprese e dei policy maker dovranno concentrarsi su due elementi: la trasformazione del modello di innovazione e i processi di internazionalizzazione.

Il modello di innovazione prevalente nelle imprese regionali, in particolare quelle di piccola e media dimensione, è quello che la letteratura sull’innovazione identifica con l’acronimo DUI: learning by Doing, Using and Interacting (Jensen, Johnson, Lorenz, & Lundvall, 2007). Tale modello è fondato sulla continua introduzione di innovazioni incrementali, di prodotto e di processo, frutto in primo luogo dell’intuizione imprenditoriale e delle relazioni con le altre imprese della filiera: clienti e fornitori (Favaretto & Zanfei, 2007). L’agglomerazione territoriale delle filiere produttive (distretti industriali) favorisce l’introduzione di questo tipo di innovazione e la loro diffusione alle altre imprese (Bellandi, De Propris, & Becattini, 2009).

Conseguenze della diffusione di tale modello sono i ridotti livelli di investimento nella ricerca e sviluppo da parte delle imprese (vedi Figura 3). Accanto al modello di innovazione tradizionale, che rimane comunque 6 Tale tendenza corrispondeva al modello della ‘smiling curve’ proposto da Stan Shih, fondatore della Acer.

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fondamentale per le imprese, dovrà assumere maggiore importanza quello basato sull’interazione con il sistema della ricerca, che la letteratura identifica con l’acronimo STI: Science, Technology and Innovation (Jensen et al., 2007; Parrilli & Elola, 2011). Questo modello presuppone un maggiore impegno nell’attività di ricerca e sviluppo delle imprese, una più efficace interazione fra imprese e sistema della ricerca (università e centri di ricerca pubblici) ed un accresciuto ruolo di indirizzo e sostegno da parte dell’ente pubblico7.

In coerenza con il modello di innovazione prevalente, nell’ultimo decennio le principali marchigiane hanno mantenuto una notevole capacità innovativa di processo e organizzativa, finalizzare i prevalenza a recuperare margini di efficienza, mentre risulta debole se non in contrazione la capacità di introduzione di nuovi prodotti (Cucculelli, 2009, p. 15). Sono causa e testimonianza di questa situazione il basso impegno nell’investimento in ricerca e sviluppo (R&S) da parte delle imprese regionali (vedi Figura 3). Le Marche hanno un livello di spesa in R&S pari al 60% della media regionale (già notevolmente basso rispetto alla media europea); questo dato è però il risultato soprattutto del basso impegno in R&S delle imprese (poco sopra il 50% della media nazionale) mentre l’investimento pubblico nella regione è pari a oltre il 90% della media nazionale.

Appare pertanto prioritario concentrare gli sforzi nella direzione di un mutamento del modello di innovazione con l’obiettivo di elevare la spesa in R&S delle imprese e di rafforzare il legame fra sistema della ricerca e sistema produttivo.

Negli ultimi anni vi sono stati alcuni significativi cambiamenti in questa direzione, testimoniati da diversi elementi: l’accresciuto dinamismo delle università nelle attività di trasferimento tecnologico (spin-off, brevetti, rapporti con le imprese); il maggiore impegno della Regione Marche nel sostegno alle attività di ricerca e sviluppo delle imprese; le numerose iniziative volte a stimolare le relazioni fra imprese e università (Iacobucci, 2011).

Un esempio recente di interazione virtuosa fra sistema della ricerca e sistema produttivo è costituito dalla partecipazione da parte di università e imprese regionali ai cluster tecnologici nazionali promossi nel 2012 dal MIUR. Le imprese e le istituzioni di ricerca della regione svolgeranno ruolo

7 L’importanza delle relazioni sinergiche fra imprese, centri di ricerca e istituzioni pubbliche è esemplificato nella metafora della tripla elica (Etzkowitz, 2008).

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rilevante in due cluster, quello dell’ambient assisted living e quello della fabbrica intelligente. Le attività dei due cluster saranno sviluppate anche con il sostegno finanziario della Regione Marche.

Questo sostegno è congruente con la strategia per la ricerca e l’innovazione che la Regione Marche ha elaborato nell’ambito della nuova programmazione dei fondi comunitari (Horizon 2020). Quest’ultima richiede alle regioni di dotarsi di un piano dell’innovazione fondato sul concetto della ‘smart specialization’; si tratta di una strategia che impone alle regioni di identificare alcuni ambiti di attività nei quali concentrare gli incentivi alla ricerca e all’innovazione, in sinergia con il sistema delle imprese e il sistema della ricerca. Gli ambiti dei due cluster tecnologici sopra menzionati, quello dell’ambient assisted living e quello della fabbrica intelligente, sono quelli nei quali le marche ha già sviluppato significative competenze produttive e di ricerca e che presentano le maggiori possibilità di ‘cross fertilization’ con altri ambiti produttivi presenti nella regione.

Nell’ambito di una strategia di sviluppo fondata sulla ricerca e l’innovazione è infatti fondamentale favorire gli scambi di conoscenza fra diversi ambiti tecnologici e produttivi, al fine di favorire l’emergere di innovazioni di prodotto e di processo. La capacità di ‘cross fertilization’ delle conoscenze tecnologiche, gestionali e di mercato fra diversi settori è di particolare rilevanza ai fini della performance innovativa dei sistemi locali e delle loro prospettive di crescita. La riflessione recente sui fattori che spiegano la performance dei sistemi locali tende, infatti, a rivalutare il ruolo della diversità rispetto alla specializzazione (Boschma & Frenken, 2009). Studi recenti hanno dimostrato che la generazione di innovazioni radicali e la conseguente capacità di diversificazione dei sistemi locali, si fondano sulla presenza di un tessuto produttivo sufficientemente variegato. La diversità incoraggia le novità poiché gli spillover di conoscenza inter-settoriali favoriscono la generazione di innovazioni radicali, mentre gli spillover infra-settoriali (tipici degli ambienti distrettuali) favoriscono l’innovazione incrementale (Bishop & Gripaios, 2010; Frenken, Van Oort, & Verburg, 2007; Neffke, Henning, & Boschma, 2011). Le Marche presentano un tessuto manifatturiero molto variegato per specializzazioni settoriale e articolazione territoriale; può pertanto tentare di sfruttare in chiave innovativa le relazioni fra i diversi sistemi produttivi.

La partecipazione ai cluster tecnologici dell’ambient assisted living e di fabbrica intelligente va nella direzione di favorire le relazioni fra ambiti produttivi e di conoscenza che hanno già solide basi sul territorio regionale. Allo stesso obiettivo risponde il tentativo di individuare ambiti di ricerca sui

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nuovi materiali che possono trovare interessanti applicazioni in quei settori (come il calzaturiero, il mobile o l’abbigliamento) dove è meno rilevante l’impegno nelle attività di ricerca e sviluppo e l’innovazione tecnologica.

In questo nuovo scenario, le università assumono un ruolo chiave, non solo per la loro tradizionale funzione di formazione del capitale umano, ma anche per le interazioni con il sistema delle imprese e per lo stimolo diretto alla nuova imprenditorialità in settori a più alto contenuto di conoscenza (Audretsch, 2012). Le Marche hanno una dotazione di atenei per abitante decisamente superiore alla media nazionale. Occorrerà mettere in atto tutte le azioni che consentano di valorizzare al meglio tale presenza in funzione delle esigenze di innovazione e diversificazione del tessuto produttivo regionale.

Il tema dell’innovazione è strettamente collegato a quello dell’internazionalizzazione. La capacità di mantenere competitive le produzioni regionali sui mercati esteri sarà, infatti, sempre meno affidata alla competitività di costo e sempre più alla capacità innovativa; innanzitutto sui prodotti, ma anche nel marketing e nelle modalità distributive. Questa affermazione vale in generale ma soprattutto per molte delle specializzazioni regionali, le quali basato la loro crescita nel passato soprattutto sulla competitività di costo (Conti, Cucculelli, & Paradisi, 2007; Cutrini, Micucci, & Montanaro, 2012).

I modelli di internazionalizzazione delle imprese dovranno cambiare di conseguenza. Al modello basato sull’export, interpretato come semplice ‘vendita all’estero’, dovrà affiancarsi un modello di internazionalizzazione che prevede una presenza diretta e attiva nei mercati esteri attraverso investimenti diretti nel marketing, nella distribuzione e nella produzione. Tale impegno di investimento è essenziale per stabilire relazioni di partnership non episodica in questi paesi e per valorizzare adeguatamente le produzioni regionali.

Nel caso degli investimenti esteri nelle fasi a valle (marketing, distribuzione, servizio) è evidente il rapporto di complementarietà con la produzione locale. Gli investimenti produttivi possono invece risultare sostitutivi delle attività domestiche e generare un impoverimento della base produttiva locale. Studi condotti in Italia e all’estero hanno dimostrato che non necessariamente gli investimenti in attività produttive all’estero sono ‘sostitutivi’ delle attività svolte nel territorio. Sia perché si tratta di produzioni per mercati che non sarebbe stato possibile servire con l’export dall’Italia, sia perché l’espansione della produzione all’estero determina una

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espansione delle attività a monte e a valle della filiera, che rimangono in gran parte nel territorio d’origine.

Le Marche (e l’Italia in generale) presentano un notevole ritardo nei processi di internazionalizzazione ‘attiva’, fondati cioè sugli investimenti diretti all’estero (Cucculelli, 2009; Mariotti & Mutinelli, 2012). Insieme con il basso impegno nelle attività di R&S, questo aspetto costituisce uno dei principali elementi di debolezza del sistema manifatturiero italiano. Il grado di internazionalizza zione dell’Italia, sia dal lato degli investimenti all’estero sia degli investimenti esteri in Italia, continua a essere significativamente inferiore a quello dei maggiori partner europei. Secondo l’ultimo rapporto Unctad (2013), lo stock degli investimenti diretti esteri italiani era poco più di un terzo di quello di Francia e Germania, e poco più della metà di quelli del Belgio e dell’Olanda.

Secondo i dati dell’Osservatorio delle Principali Imprese della Fondazione Aristide Merloni, il valore delle partecipazioni estere delle principali imprese marchigiane era pari, nel 2012, a poco più di 600 milioni di Euro. Tale valore è fortemente concentrato nelle imprese di maggiore dimensione e riguarda nella gran parte imprese localizzate nella UE e nell’Europa dell’est. In assoluto si tratta di un valore contenuto, sia se messo in relazione con il totale del capitale investito delle imprese sia con i volumi dell’export manifatturiero regionale (circa 10 miliardi di Euro nel 2012).

Il ritardo dell’Italia (e delle Marche) nella presenza diretta estera è in gran parte giustificato dalla scarsa presenza nel nostro tessuto industriale di imprese di grande dimensione. Secondo alcuni commentatori questa carenza può essere in parte controbilanciata dalla tendenza delle piccole e medie imprese ad utilizzare forme ‘leggere’ di presenza internazionale, basate su accordi e partnership che non richiedono investimenti diretti. Come giustamente sottolineano Mariotti e Mutinelli (2012) queste forme sono complementari piuttosto che sostitutive dell’investimento estero; la presenza diretta all’estero può essere la base per l’avvio di durature relazioni di partnership con operatori locali.

Il secondo elemento di debolezza nei processi di internazionalizzazione delle imprese manifatturiere marchigiane è l’eccessiva concentrazione sui mercati europei (UE e Europa dell’est) e lo scarso peso delle altre grandi aree mondiali: est Asia, Americhe, Africa. Tale concentrazione riguarda sia l’export, sia la presenza diretta.

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Alcune considerazioni conclusive

La fase di crisi e recessione sperimentata nell’ultimo quinquennio ha indotto alcuni osservatori a parlare di crisi del ‘modello marchigiano’. Senza voler sottovalutare il momento di difficoltà attraversato dal sistema manifatturiero italiano e regionale, questo modo di interpretare l’attuale situazione non aiuta a capire i problemi del presente e ad individuare possibili prospettive di sviluppo. Il riferimento al ‘modello marchigiano’ sembra evocare l’idea di una specifica configurazione del sistema manifatturiero, che è stata di successo fino a pochi anni fa ma che non riesce più ad assicurare la crescita e lo sviluppo nelle mutate condizioni di contesto.

Il realtà un “modello marchigiano”, inteso come un sistema industriale con specifiche caratteristiche strutturali, non è chiaramente individuabile; né se si considera l’articolazione territoriale delle attività produttive, né se si considera la sua evoluzione nel tempo.

L’articolazione territoriale del sistema manifatturiero regionale ci restituisce una notevole varietà di situazioni in termini di settori di specializzazione, dimensioni d’impresa, relazioni fra imprese lungo la filiera, mercati di sbocco, evoluzione storica, ecc. E’ difficile ricomprendere tutte queste specificità in un unico modello.

Ancor meno può parlarsi di ‘modello marchigiano’ se ci riferiamo alla evoluzione del sistema nel tempo. L’evoluzione dei sistemi locali presenti nella regione è stata caratterizzata da una continua trasformazione che ha interessato le specializzazioni settoriali, l’organizzazione interna delle imprese, le relazioni fra imprese all’interno delle filiere produttive, i prodotti e i mercati di sbocco. Se di “modello Marche” si vuole parlare esso va rintracciato non tanto in una specifica organizzazione delle attività produttive quanto nella capacità del sistema di adattare con successo le proprio risorse (umane e materiali) alle opportunità offerte dall’evoluzione del mercato nazionale e internazionale.

Nel corso degli ultimi decenni la storia il sistema manifatturiero regionale è stato costellato da continue crisi di imprese, anche di media e grande dimensione, o di interi sistemi locali (si pensi a quello degli strumenti musicali nell’area di Osimo e Castelfidardo). Tali crisi sono state continuamente riassorbite attraverso l’emergere di nuove imprese e di nuove specializzazioni produttive. Il motore fondamentale di questa dinamica, come già ampiamente evidenziato negli studi di Giorgio Fuà (1983) è l’imprenditorialità. Di fronte alla crisi e al cambiamento occorre resistere

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alla tentazione di un’eccessiva difesa delle situazioni consolidate e creare spazio favorevole all’emergere di nuova imprenditorialità. Anche in questo caso si tratta di un’imprenditorialità nuova rispetto a quella del passato.

L’imprenditorialità che si è attivata nelle Marche negli anni ’70, ’80 e ’90 è un’imprenditorialità costituita in primo luogo da ex-dipendenti (operai e impiegati) che dopo un’esperienza di lavoro in un’impresa decidevano di ‘mettersi in proprio’, magari sfruttando le ampie possibilità di sub-fornitura all’interno delle filiere locali.

Questo modello di attivazione imprenditoriale è destinato a ridursi a favore di una nuova generazione di imprenditori che presenta livelli di scolarizzazione elevati e che avvia progetti d’impresa che scaturiscono da un autonomo percorso di formazione e ricerca piuttosto che dall’esperienza lavorativa. E’ importante che nella regione si creino le condizioni che assecondino la nascita e lo sviluppo di queste nuove iniziative8.

Come già avvenuto nel passato, le nuove attività avranno maggiori possibilità di successo se manterranno elementi di continuità con quelle esistenti, contribuendo ad arricchire il sistema in una logica di ‘diversificazione correlata’ piuttosto che immaginare la nascita di settori di attività completamente nuovi.

Rimane valido il concetto di ‘difesa attiva’ coniato in un precedente convegno della Fondazione Aristide Merloni per caratterizzare la strategia di sviluppo nel settore calzaturiero.

I cambiamenti sempre più repentini dello scenario internazionale impongono, però, di dare maggiore enfasi al secondo termine piuttosto che al primo: più ‘attivi’ nel cambiamento e meno propensi alla ‘difesa’ dell’esistente. I momenti di crisi accentuano le differenze: fra imprese efficienti e imprese inefficienti, fra settori che hanno prospettive di sviluppo e settori che sono destinati a declinare. In queste situazioni occorre favorire il travaso di risorse (di capitale e di lavoro) dalle imprese inefficienti a quelle efficienti e dalle attività in declino a quelle con maggiori prospettive di sviluppo. Concentrare le risorse sulla difesa dell’esistente può far perdere importanti opportunità di sviluppo.

8 Vi sono interessanti segnali in questo senso che provengono dalle numerose iniziative messe in atto dalle università e da altri enti pubblici e privati della regione per favorire l’avvio di nuove imprese in ambito accademico e da parte di giovani.

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La gravità della crisi attuale non è solo quella che può leggersi nelle statistiche sull’occupazione e sul reddito; è anche crisi di prospettiva per l’incertezza nell’immaginare le traiettorie di sviluppo futuro. Ciò deprime gli investimenti e la propensione imprenditoriale. La ripresa non potrà che avvenire se le persone, ed i giovani in particolare, non troveranno rinnovai stimoli e incentivi all’impegno e al rischio imprenditoriale.

A differenza di quanto avvenuto nei decenni passati, la vivacità imprenditoriale non potrà fondarsi solamente sulla spontaneità. I nuovi modelli di innovazione e di internazionalizzazione (sommariamente descritti in questa nota) richiedono una accresciuta capacità di progettare e gestire azioni comuni e sinergiche fra i diversi attori del sistema regionale: le imprese, le istituzioni della ricerca, il policy maker.

La capacità di relazione fra questi diversi attori sarà fondamentale nell’individuare e concordare le possibili traiettorie di sviluppo; ciò è fondamentale sia per concentrare le risorse e raggiungere sufficienti masse critiche di investimento in specifici ambiti, sia per costruire azioni sinergiche in grado di rafforzare le strategie perseguite dai diversi attori.

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Tabella 1 – Occupati per settore nelle Marche (valori percentuali)

1951 1971 1991 2001 2011*

Agricoltura 60,2 25,3 7,8 5,0 3,6

Industria 21,9 40,8 41,7 41,5 34,9

Servizi 17,8 33,8 50,5 53,5 61,5

Fonte: ISTAT, Censimenti della popolazione; * Contabilità Regionale

Tabella 2 – Occupati nell’industria manifatturiera sul totale (valori percentuali)

1981 1991 2001 2011*

Trentino-Alto Adige 7,6 7,7 7,2 6,0

Veneto 13,2 14,2 14,3 11,0

Friuli-Venezia Giulia 12,1 12,1 11,7 9,2

Emilia-Romagna 13,8 13,4 13,5 10,4

Toscana 12,7 10,8 10,3 7,8

Umbria 10,1 8,4 8,8 7,0

Marche 13,0 13,2 13,8 10,7

NEC (nord-est e centro) 12,7 12,4 12,3 9,5

Italia 10,4 9,3 8,6 6,5

Fonte: ISTAT, Censimenti della popolazione; * Ateco 2007

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Tabella 3 – Occupati nell’industria manifatturiera nelle Marche

Settore 2001 2001 %

2011 2011 %

Variazione 2011/2001

%

Pelli cuoio e calzature 37.124 18,6 29.687 18.0 -20,0

Prodotti in metallo 23.160 11,6 19.708 11.9 -14,9

Abbigliamento 17.980 9,0 12.124 7.3 -32,6

Mobili 17.972 9,0 15.936 9.6 -11,3

Elettrodomestici 16.752 8,4 14.132 8.5 -15,6

Gomma e materie plastiche 11.583 5,8 10.200 6.2 -11,9

Macchine 11.296 5,7 13.351 8.1 18,2

Alimentari 11.184 5,6 11.393 6.9 1,9

Altri settori 52.536 26,3 38.850 21,2 -26,1

Totale manifatturiero 199.587 100,0 165.381 100,0 -17,1

Fonte: ISTAT, Censimenti dell’industria e dei servizi

Figura 1 – Variazione degli occupati alle imprese fra il 2001 e il 2001 per classe di addetti delle imprese (unità)

‐10000 ‐8000 ‐6000 ‐4000 ‐2000 0 2000 4000

Altri settori

Mobili

Meccanica

Tessile e abbiagliamento

Pelli, cuoio e calzature

250 e oltre

50‐‐249

1‐‐49

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Figura 2 - Retribuzioni lorde per occupato nell’industria manifatturiera: Italia=100

Figura 3 – Spesa in ricerca e sviluppo pubblica e private in % del PIL, 2009

Fonte: OECD, National innovation scoreboard; Eurostat, Regionan Innovation Scoreboard

80

85

90

95

100

105

110

115

Veneto

Emilia Romagna

Toscana

Marche

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C E N S I S

 

Il modello marchigiano tra discontinuità e temi della crescita

a cura del Censis

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Il sistema produttivo marchigiano tra discontinuità e temi della crescita

Discontinuità con il passato, rimescolamento delle forze competitive e innovazione sono, forse, le tre chiavi di lettura che possono aiutare a capire quanto e come il sistema produttivo marchigiano sta trasformandosi sotto gli effetti di una crisi economica persistente.

In un breve arco temporale si è avviata la ridefinizione di un modello produttivo del tutto originale, persistente nei decenni e che aveva fatto delle Marche un territorio innervato di una rete fitta di subfornitori e contoterzisti di piccola o piccolissima dimensione integrati secondo una struttura a filiera, spesso guidati da poche aziende di medie e grandi dimensioni, prevalentemente di carattere familiare. Questo modello si è destrutturato e si è ridimensionato e il pulviscolo di spontaneismo si è in gran parte dissolto lasciando spazio, tuttavia, a forme nuove del fare impresa.

I distretti, come quelli del mobile di Pesaro, degli elettrodomestici di Fabriano, delle calzature di Fermo o dell’agroalimentare di San Benedetto del Tronto appaiono oggi sotto sforzo, impegnati in un’opera di riorganizzazione, di rifondazione su basi nuove, della propria capacità competitiva, ma sempre sospinti – nonostante tutto - da una grande vitalità, dalla ricerca di novi mercati e, spesso, da un modo originale di fare innovazione.

I dati che mettono in luce l’impatto della recessione, pur non prestandosi a molte sfumature, lasciano comunque intravedere una possibile onda del cambiamento. I numeri, nel complesso, parlano di ridimensionamento della base produttiva e dei livelli di produzione, di criticità sul mercato del lavoro e, di un processo di internazionalizzazione ancora da rafforzare:

- nel terzo trimestre 2013, le Marche registrano 156.372 imprese, 3.865 in meno rispetto al 2009; nel manifatturiero mancano all’appello 604 imprese, il settore delle costruzioni ne ha perse 1.337, mentre nei servizi si è registrato un incremento di quasi 2.000 unità;

- il livello di produzione del manifatturiero è inferiore del 9,3% rispetto al 2005: in particolare, spicca il -39% nel comparto dei minerali non metalliferi, il -17% del tessile abbigliamento, il -12% del calzaturiero;

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- nel complesso, la crisi ha prodotto nella regione la perdita di quasi 12.000 posti di lavoro nel periodo 2009-2012: a livello settoriale, nei 5 anni di riferimento, la contrazione nell’industria è stata di 33.600 occupati (6.700 l’anno), di cui 30.400 nel manifatturiero, mentre i servizi hanno generato circa 18.000 nuovi posti di lavoro;

- nel 2012 le Marche hanno esportato beni per 10,3 miliardi, proseguendo la crescita avviata dal 2009, ma attestandosi ancora lontano dai 12,5 miliardi registrati nel 2007; in particolare, si sconta il pesante calo dell’export dell’elettronica (-47%), del chimico-farmaceutico (-41%) e del mobile (-20%).

La struttura imprenditoriale, la composizione del valore aggiunto e la base occupazionale, inoltre, si sono ricomposte quasi “spostandosi” dal settore industriale a quello dei servizi, secondo un processo di terziarizzazione, che, nel complesso, riguarda tutta l’economia italiana. Infatti, nel 2009 l’industria contribuiva per il 30,1% al valore aggiunto regionale, (24,3% industria in senso stretto e 5,8% costruzioni), mentre nel 2011 è scesa al 28,7% (23% industria in senso stretto e 5,7% costruzioni), 300 milioni di euro in meno nel giro di 2 anni (da 10,9 a 10,6 miliardi); viceversa, i servizi sono passati dal 68,3% al 69,7%, con un incremento di 1 miliardo in termini assoluti, da 24,8 miliardi a 25,8; l’agricoltura, infine, contribuisce per l’1,6% del valore aggiunto totale, percentuale sostanzialmente invariata rispetto al 2009.

A livello occupazionale, nel 2012, i lavoratori nei servizi rappresentano il 61,6% del totale regionale, quando nel 2008 erano il 57,8%; invece l’industria in senso stretto occupa il 29,5% del totale della forza lavoro marchigiana, oltre 4 punti percentuali in meno rispetto a 4 anni fa. Aumenta l’incidenza dei lavoratori agricoli, il 2,5% del totale (+0,6 rispetto al 2008), mentre nell’edile si registra una lieve flessione dello 0,4%, attestandosi al 6,4%.

Questo rimescolamento complessivo conferma sostanzialmente l’indebolimento della struttura portante dell’economia regionale, ovvero del sistema manifatturiero, ma per altri versi, sembra suggerire alcune opportunità per il futuro.

Ciò che la recessione sembra avere confermato è che la contrazione degli ordinativi delle aziende più grandi, le situazioni di crisi o la scomparsa di importanti player regionali si sono riversate a cascata all’interno dei distretti industriali e dei cluster produttivi, colpendo il tessuto della subfornitura locale. Il calo della domanda interna dei principali beni di consumo e la

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concorrenza di Paesi a basso costo di manodopera si sono rivelati, almeno in una prima fase (gli anni 2009-2011), spesso fatali per le imprese marchigiane di minori dimensioni, specie quelle operanti sui livelli del medio-fine (come nel caso delle calzature).

E pur vero, però, che il recente ridimensionamento della base manifatturiera va letto, sì, come l’effetto deleterio della crisi, ma anche come processo di ricompattamento della struttura produttiva, probabilmente capace di generare, nel medio periodo, una crescita in termini di efficienza dell’industria regionale. Il sopravanzare dei servizi può, e forse deve, essere letto come un messaggio per il futuro e come la chiave per ritrovare nuova capacità competitiva. La modernizzazione del manifatturiero può passare, infatti, per un mix, ovvero per una integrazione forte, con il terziario, nel segno dell’innovazione. Ed infatti, come si vedrà più avanti, le imprese manifatturiere marchigiane migliori e più performanti, pur in tempi di crisi, sembrano essere proprio quelle che innervano il proprio core business di funzioni terziarie avanzate riguardanti, ad esempio, il controllo di qualità sui prodotti, i controlli continui sugli standard produttivi adottati dai fornitori, sistemi avanzati di contabilità industriale, l’organizzazione diretta di reti distributive, nuove politiche commerciali.

Vi è, inoltre, da considerare la carta delle esportazioni. Le vendite all’estero crescono ad un ritmo tra i più sostenuti fra le regioni italiane. Nell’ultimo anno l’incremento è stato del 13%. Le Marche contribuiscono, però, solo alla formazione del 3% delle esportazioni totali e sono all’ottavo posto tra le regioni, a grande distanza dalle prime tre. Anche considerando l’incidenza delle vendite all’estero sul Pil regionale, le Marche (con una quota del 27%) si pongono poco al di sotto della media nazionale e piuttosto distanti dai valori registrati dalle prime regioni esportatrici.

Forte è l’impressione che la manifattura marchigiana possa ancora di più puntare sull’internazionalizzazione, facendo leva sull’elevata competitività e qualità dei propri prodotti, sull’innovazione, sulla capacità che alcune imprese leader mostrano di presidiare mercati lontani, spesso nella veste di first comer e di portatori di know-how specifico.

D’altra parte anche se i dati ufficiali mettono in evidenza un ritardo in tema di investimenti in innovazione da parte del sistema Marche, tali dati vanno soppesati. In particolare:

- la spesa media per innovazione delle imprese della regione ammonta a 208mila euro, a fronte di una media nazionale di 381mila euro e di 578mila euro nelle Regioni del Centro Italia;

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- la spesa in R&S per addetto è di 3mila euro, mentre in Italia è di 4mila e 700 euro;

- le imprese marchigiane che hanno avviato innovazioni di prodotto, processo, organizzative o di marketing sono il 51,5%, a fronte del 56,3% di media nazionale;

L’innovazione non è, tuttavia, solo quella formalizzata, applicabile al processo o al prodotto, ma spesso essa si esprime in forme più complesse, attraverso un’organizzazione articolata delle funzioni aziendali ed il loro efficientamento. Da questo punto di vista, le Marche dispongono di un nucleo forte, di circa 300 aziende manifatturiere di medie dimensioni, con una consistente e persistente forza trainante. Si tratta di aziende che generano più del 50% della produzione e gran parte delle esportazioni, strutture che hanno saputo abbracciare più che una filosofia dell’innovazione fondata sulle tecnologie, una processo di modernizzazione dell’organizzazione complessiva, puntando su una nuova capacità di ascolto del mercato, sul presidio di nicchie alte di clientela, sulla personalizzazione dei prodotti, sulla rapidità di azione soprattutto nei mercati dei Paesi emergenti, su nuove strategie commerciali e distributive.

Questo nucleo ristretto di imprese - analizzato nell’indagine campionaria di cui si parlerà nelle pagine che seguono – continua a crescere nonostante la crisi in atto o, comunque, dispone quasi sempre di più strumenti per tenere testa ad una recessione persistente dalla quale il Paese non sembra in grado di uscire. Occorre, dunque, chiedersi perché tale nucleo ristretto di aziende riesce ad avere ancora una posizione di leadership nel sistema manifatturiero regionale e capire quali strumenti sono stati messi finora in campo.

Discontinuità - soprattutto nei processi di internazionalizzazione – e riaffermazione del legame con il territorio appaiono, così, come i codici utili ad interpretare un modello manifatturiero marchigiano che va rapidamente trasformandosi, certamente non immune dalle difficoltà, ma capace, come sempre, di esprimere nuovi valori e una visione del futuro. E’ difficile dire se il sistema produttivo regionale riuscirà a recuperare le posizioni perse a partire dal 2008, ma è facile capire che esso sarà capace di riposizionarsi proponendo soluzioni produttive e strategie di mercato - quasi sempre - efficaci, sia che si operi in rete o che si operi seguendo un certo individualismo, che da sempre contraddistingue l’imprenditoria marchigiana, ed una solitaria capacità di fiuto per il mercato.

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Dentro le imprese leader

Con l’intento di analizzare gli orientamenti emergenti nelle imprese manifatturiere che detengono una posizione di leadership nel contesto produttivo marchigiano, il Censis ha realizzato, in collaborazione con la Fondazione Aristide Merloni, un’indagine su un campione di 130 aziende fra le 300 maggiori imprese manifatturiere della regione. In effetti, oltre il 60% delle strutture contattate registra attualmente un fatturato superiore agli 8 milioni di euro e quasi il 20% supera i 50 milioni di euro; quasi la metà delle aziende analizzate supera i 100 addetti ed il 26% si colloca nella classe superiore ai 250 addetti.

In verità i profili tipologici delle strutture prese in considerazione sono piuttosto diversi l’uno dall’altro: si va da vere e proprie multinazionali, con una struttura molto ramificata all’estero, ad imprese con un forte orientamento all’estero ma ancora profondamente radicate nella dimensione locale; dalle innovative pure, che fanno leva sulla ricerca e la sperimentazione, a veri e propri intermediari dell’innovazione, la cui mission è di proporre tecnologia matura nei mercati emergenti sfruttando know- how accumulato nel tempo.

Gli animal spirit, innovativi, adattativi, flessibili sono tutt’altro che svaniti sotto la spessa coltre generata dalla recessione. Certo, occorre scavare a fondo nei sistemi produttivi locali, ma le Marche sono ancora oggi laboratorio di innovazione e crescita sebbene i cluster, le aggregazioni, le filiere appaiono più diradate rispetto al passato. D’altra parte nessun modello produttivo può essere uguale a se stesso per decenni, tenendo conto che non solo la struttura del mercato globale è cambiata (con l’incremento del numero degli attori, dei competitori e delle forze che lo governano), ma che esso esprime ormai una domanda che sembra mutare a ritmi sempre più sostenuti.

Strategia, innovazione, conoscenza, organizzazione dei processi risultano essere, così, i driver della crescita di questo nucleo solido di imprese manifatturiere, che non hanno più nulla o quasi nulla di quel pulviscolo frenetico e proteiforme che animava molti territori delle Marche negli anni ’60 e ’70, ma che di quel modello hanno mantenuto l’impronta: la spinta ad andare oltre lo status quo, a ricercare mercati nuovi, a generare in modo costante, quasi ossessivo, una sorta di upgrading del prodotto, nella consapevolezza che al mercato occorre proporre sempre qualcosa di nuovo e di ben fatto.

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Ed in questa pratica dello sviluppo, in questo orientamento al nuovo, il territorio non appare fattore neutrale. E’ difficile dire cosa rappresenti per il singolo imprenditore marchigiano il proprio territorio di riferimento, specie se si considera che tutte le aziende del campione analizzato operano in modo stabile su mercati lontani e molte di esse presidiano con determinazione i così detti mercati emergenti. Ma al di là della retorica, la dimensione locale appare come una sorta di vivaio di competenze specifiche, di know-how e di creatività di cui tali aziende marchigiane sembrano alimentarsi. Se molte strutture sono nei fatti, ormai, vere e proprie multinazionazionali, il loro punto di partenza – quasi paradossalmente – restano le Marche; è lì che, ancora, il prodotto distribuito nel mondo viene concepito, testato, studiato, messo a confronto con altri prodotti; è lì che spesso vengono elaborate le strategie di comunicazione e di distribuzione. Ogni impresa marchigiana, in fondo, sembra fare storia a sé, sembra esprimere un modello originale di sviluppo; ed il localismo appare come una sorta di incubatore in cui questa diversità si è potuta nutrire ed è potuta crescere.

Capire quanto e come il modello manifatturiero marchigiano sta cambiando diventa importante, perché se è vero che il primo effetto della crisi è stato il progressivo ridimensionamento della base produttiva, è altrettanto vero che questo mutamento ha molteplici significati e che non può essere solo il segnale di un declino. Al di là dei mutamenti strutturali, le Marche restano territorio di manifattura, territorio in cui l’industria è trainante, ha una propria storia e contribuirà certamente al futuro ed alla ripresa: è sufficiente guardare gli orientamenti e le performance delle imprese maggiori per capirlo. Per questi motivi vale la pena di partire proprio dall’analisi degli obiettivi di crescita, degli orientamenti, delle strategie di internazionalizzazione e dagli stessi valori di riferimento degli imprenditori leader per cercare di immaginare quale futuro le Marche riusciranno a disegnare.

Anticipare gli eventi, governare la crisi

Se la crisi morde, l’orientamento prevalente è quello di adottare un atteggiamento proattivo, di anticipare gli eventi, di continuare a costruire una “casa” più solida.

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Non farsi trovare impreparati e individuare soluzioni alternative ad ogni eventualità, sembrano le strategie prevalenti tra gli imprenditori considerati, l’espressione forse più forte dello spirito marchigiano, improntato alla concretezza.

Solo per contestualizzare i dati raccolti, vale la pena di segnalare la fase congiunturale indicata dalle imprese del campione. Sebbene si tratti di aziende tra le più solide della regione, il quadro complessivo risulta piuttosto differenziato. E se le situazioni di difficoltà sono una minoranza, pari al 13% delle 130 aziende considerate, la crescita spinta riguarda egualmente un numero piuttosto limitato di strutture, pari al 22% (fig. 1). La parte più consistente del campione si colloca o in una fase di consolidamento del proprio business (34%) o in una fase stazionaria (31%).

Fig. 1 - Fase congiunturale attraversata dall'azienda (risposte in %)

Fonte: indagine Censis‐Fondazione Merloni

Certamente, dunque, gli elementi positivi sono in sovrannumero rispetto a quelli critici e molte aziende, tra quelle considerate, mantengono stabili le proprie posizioni, ma non emerge ancora una diffusa spinta in avanti. La crisi è persistente e gli effetti sono tutti visibili.

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Giocare in anticipo, formulare strategie sempre nuove e mettere a valore gli elementi di forza dell’azienda, dunque, diventa determinante; la crisi, in sostanza, non può sopraffare ma, al contrario, va governata.

E in questo senso, colpisce non poco come ben il 62% degli imprenditori contattati abbia indicato che la strategia prevalente negli ultimi anni, adottata per affrontare la recessione, sia proprio quella di tentare di giocare in anticipo, investendo in innovazione e cercando in modo continuativo nuovi ambiti di mercato (fig. 2). D’altra parte, un altro quarto del campione ha indicato di fare leva sui risultati raggiunti fino ad oggi, resistendo alla crisi. Solo in rari casi l’atteggiamento degli intervistati rivela un senso di adattamento o di sconfitta.

Fig. 2 – Strategie per affrontare la crisi economica (risposte in %)

Fonte: indagine Censis‐Fondazione Merloni

Anticipare gli scenari, immaginare il mercato, modellare l’impresa rispetto ai cambiamenti della domanda, sembrano quasi degli slogan; invece, si tratta di una pratica piuttosto diffusa, almeno nelle imprese più strutturate, e si tratta, infondo, anche di una pratica normale, necessaria alla sopravvivenza.

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Certo, vi è da chiedersi come questa capacità, quasi anticipatoria, di lettura degli eventi possa tradursi in capacità effettiva di gestione dell’impresa. Due fattori, in questo senso, assumono rilievo e proprio l’analisi dei benchmark, così come fatto in questa indagine, sembrano confermarlo. In particolare diventa determinante:

- avere uno specifico orientamento strategico nei confronti di una molteplicità di aspetti che, oltre al mercato, riguardino l’innovazione, i mutamenti possibili del settore di appartenenza, la gestione dell’organizzazione interna, l’accrescimento dei livelli di competenza nell’azienda, il rapporto con il territorio, l’opportunità o meno di appartenere a network collaborativi e di know-how;

- possedere gli strumenti che consentano all’impresa di essere agile in mercati mutevoli e molteplici, di realizzare un prodotto di elevata qualità o ad alto contenuto creativo, ma anche di collocarlo rapidamente nei mercati di nicchia più lontani, di gestire politiche di marchio differenziate, di garantire prodotti su misura, di fidelizzare i clienti, di alimentare l’innovazione di prodotto e di processo, di sviluppare nuove soluzioni tecnologiche.

A ben guardare, si tratta di obiettivi ambiziosi e di pratiche complesse, che possono essere prerogativa solo di aziende “strutturate”, con un’impostazione di tipo manageriale che travalica il modello dell’impresa di dimensioni ridotte.

Ma questo modello proattivo, improntato su strategie e processi gestionali articolati, orientato ad una sorta di modernizzazione permanente dell’organizzazione aziendale bene è rappresentato da quel ristretto nucleo di imprese di medie dimensioni che oggi nelle Marche continuano ad avere una funzione trainante nel manifatturiero. Merloni, Elica, Lardini, Somacis, AEA, Clementoni, iGuzzini, Fiam, Diasen, Rainbow, Elettromedia, Giano, Teknomac – solo per citare alcuni casi – rappresentano vere e proprie piattaforme capaci di aggregare altre imprese e di generare reti lunghe o corte, a seconda dei casi.

Certamente, la crisi ha allentato o ha spinto a ridefinire, in molti casi, i legami di filiera, ma l’idea della piattaforma aggregante e delle reti di territorio - che in alcuni casi prendono ancora la consistenza dei distretti industriali - resta una delle soluzioni su cui occorre ancora investire per rafforzare il manifatturiero marchigiano, oltre ad essere una delle chiavi di lettura per interpretare il futuro.

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Rimodellare e modernizzare l’impresa

Rimodellare l’attività dell’impresa e ridefinirne le strategie appare come un atteggiamento diffusamente presente tra le aziende analizzate.

La recessione sembra avere spinto una parte consistente del campione innanzi tutto a riorganizzarsi, sotto molti punti di vista: dalle strategie di mercato ad una nuova impostazione delle linee di produzione. In particolare, tra gli interventi più praticati figurano: il potenziamento delle attività di esportazione e di presenza all’estero (segnalato dal 51% delle imprese analizzate), la ridefinizione delle procedure di lavoro (38%), l’adeguamento degli impianti di produzione alle variazioni della domanda (34,9%), l’innovazione di prodotto o il lancio di nuovi prodotti (34,9%), la ridefinizione delle politiche di vendita (27,1%) (fig. 3).

Tra gli strumenti utilizzati per affrontare le difficoltà del momento non manca, ovviamente, neanche il ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni, a cui ha fatto ricorso ben il 41% del campione, a riprova di quanto la crisi non abbia lasciato indenne quasi nessuno.

Fig. 3. Interventi effettuati negli ultimi tre anni per far fronte alla crisi economica (risposte in %)

Fonte: indagine Censis‐Fondazione Merloni

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Inoltre, quasi in un quarto dei casi, uno dei passi compiuti è stato di sostituire i vertici aziendali.

L’impressione che i dati danno è che gran parte di questo particolare segmento di imprese marchigiane esprima una sorta di accentuata capacità ridefinitoria interna, ovvero che esse esprimano una capacità di adattamento agli eventi reimpostando non solo le strategie ma anche – talvolta in modo pesante - la struttura organizzativa. Vi è un senso del progredire in tutto questo, un non restare fermi ad osservare come il contesto evolve ma, quasi, a mettere mano in modo permanente alla struttura aziendale, talvolta anche con scelte non facili.

E’ difficile affermare se tali strategie si siano rivelate efficaci. Tuttavia, tenendo conto che la maggior parte delle aziende analizzate ha indicato di registrare performance apprezzabili e, in alcuni casi, di crescita, negli ultimi anni, si potrebbe essere spinti a ritenere che queste strategie proattive dovrebbero avere dato risultati positivi.

Un ulteriore elemento che colpisce è dato dal fatto che la prima e più diffusa strategia di contrasto alla crisi segnalata è rappresentata dalla ridefinizione dei processi di esportazione e di internazionalizzazione.

L’approccio ai mercati esteri, come si vedrà anche più avanti, appare in questo nucleo di imprese marchigiane come una variabile di assoluto rilievo, che fa la differenza tra una struttura in grado di contrastare la crisi ed un’impresa destinata al declino. Chi più ha investito sull’operatività all’estero, non solo e forse non tanto esportando, ma creando nuove basi produttive oltre confine o reti distributive fitte a diretto contatto con i clienti stranieri, oggi mostra una grande spinta in avanti, appare anzi decontestualizzata rispetto alla congiuntura sfavorevole che il Paese registra da tempo.

Ma è possibile allargare ulteriormente lo sguardo per cercare di declinare la proattività e quella propensione alla ridefinizione dei fondamentali, che sembra emergere dal campione considerato.

Così, dunque, se ci si chiede su quali strategie e su quali obiettivi di sviluppo le aziende stanno puntando, emergono alcuni aspetti interessanti. In particolare, nel breve periodo, le imprese considerate intendono investire soprattutto(fig. 4):

- nel rafforzamento degli strumenti di internazionalizzazione;

- nel rafforzamento del controllo di qualità del processo e del prodotto;

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- nel potenziamento delle forze commerciali interne all’azienda;

- nel rafforzamento della rete di vendita in Italia e all’estero;

- in una migliore dotazione tecnologica;

- nel rafforzamento degli strumenti di controllo della qualità sui fornitori;

- nel miglioramento di alcune competenze legate alla gestione interna.

Fig. 4 - Obiettivi di investimento (valori da 1 a 5, 1=non è un obiettivo, 5=massima importanza)

Fonte: indagine Censis‐Fondazione Merloni

Questi dati lasciano emergere una forte carica innovativa, oltre che una marcata spinta alla discontinuità da parte delle imprese marchigiane migliori. Il futuro delle imprese manifatturiere, infatti, non risiede tanto nel miglioramento del prodotto, quanto nell’attivazione di processi più complessi, che riguardano il duplice aspetto dell’organizzazione dell’impresa e del suo modo di stare sui mercati.

I dati sugli obiettivi di investimento, infatti, riportano ai primi posti il potenziamento della funzione commerciale, la ricerca di nuovi mercati

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all’estero ed il potenziamento della rete di venditori. L’impresa che cresce, infatti, è quella che cerca in primo luogo un’interlocuzione diretta e continua con i clienti finali a prescindere dal prodotto che realizza.

Un secondo aspetto rilevante è che molti imprenditori manifatturieri puntano sul maggiore controllo diretto delle fasi a monte e a valle del processo produttivo. Non è un caso che i principali investimenti riguardino l’acquisizione o il potenziamento dei sistemi di verifica della qualità non solo dei prodotti realizzati nell’azienda, ma anche di quelli dei principali fornitori. E, d’altra parte, come indicato in precedenza, i legami più stretti con tutta la fase di commercializzazione sembra andare nel senso di un maggiore controllo a valle.

Un terzo aspetto concerne il sempre più diffuso orientamento degli imprenditori a rafforzare il sistema delle competenze interne, attraverso forze di lavoro più professionalizzate e specializzate, in grado non solo di operare lungo la catena di produzione, ma anche nelle altre funzioni aziendali, con un effetto di modernizzazione delle stesse. Acquisire nuove competenze significa, ad esempio, poter impostare e disporre di sistemi di business intelligence (in grado di massimizzare l’uso dei flussi di informazioni generati dalle diverse funzioni aziendali), di funzioni di contabilità, anche di tipo analitico, adatte alla complessità delle attività che molte imprese ormai svolgono, di funzioni in grado di gestire in modo efficace i processi di internazionalizzazione tutt’altro che semplici.

Un quarto ed ultimo aspetto riguarda, ancora una volta, l’importanza che il campione sembra attribuire ai mercati esteri. Il primo obiettivo di investimento segnalato riguarda, infatti, il rafforzamento delle strategie di internazionalizzazione. Da questo punto di vista sembra confermarsi il valore strategico che i mercati esteri rivestono, ma soprattutto il dato sembra voler indicare che quanto fino ad oggi realizzato rappresenta solo una parte del percorso ancora da compiere e che proprio sull’estero occorrerà investire in termini di nuove strategie, competenze e professionalità.

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Dalle Marche al mondo: l’internazionalizzazione di qualità

L’internazionalizzazione di alcune tra le migliori imprese delle Marche sembra sostanziarsi, ormai, in forme differenti. La presenza all’estero, si sostanzia in strategia ad ampio spettro, spesso molto sofisticate.

Quasi il 30% delle aziende analizzate nell’indagine ha stabilito accordi di joint venture con operatori esteri, il 27% dispone all’estero di una propria struttura distributiva, il 21% ha stabilimenti produttivi all’estero, il 19% ha stipulato accordi con reti distributive straniere ed il 13% distribuisce all’estero con marchi creati ad hoc, non commercializzati in Italia (fig. 5).

Fig. 5 - Modalità di presenza sui mercati esteri (val. %)

Fonte: indagine Censis‐Fondazione Merloni

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Le strutture di maggiori dimensioni (come quelle prese in considerazione nell’indagine) sembrano, dunque, non limitarsi ad esportare. In molti casi esse attivano reti lunghe di presidio dei mercati esteri: dagli accordi con reti della grande distribuzione a sistemi distributivi propri; per non parlare dei molti casi di stabilimenti che realizzano prodotti per l’area regionale in cui sono localizzati, come l’Estremo Oriente, il Nord America ed il Sud America. Se si osservano con più attenzione i casi delle singole aziende, sorprenderebbe verificare quante imprese marchigiane sono portatrici all’estero di know-how esclusivo, quante operano da first comer, con vantaggi competitivi non indifferenti, quante ormai, dopo aver presidiato mercati solidi e maturi, come il Nord America, si muovono con estrema agilità nei nuovi mercati di frontiera cinese e dell’Estremo Oriente.

Si tratta di strategie articolate, che operano con prodotti di per sé complessi, o meglio, ad elevato valore aggiunto. Il primo fattore competitivo che gli imprenditori intervistati sentono di poter riconoscere ai propri prodotti è, infatti, l’elevata qualità, concetto che di per sé racchiude e spiega molti altri elementi segnalati nell’indagine.

La qualità del prodotto marchigiano nel mondo si declina, così, in molteplici aspetti, come l’elevata fidelizzazione della clientela, l’elevato contenuto di tecnologia incorporato nei prodotti, design, forza del marchio presso i clienti esteri (fig. 6)

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Fig. 6 - Principali fattori di successo dell'azienda sui mercati esteri (val. % sul totale di aziende che operano all'estero)

Fonte: indagine Censis‐Fondazione Merloni

Il passo della manifattura marchigiana si è, dunque, allungato definendo un modello complesso, innervato di politiche articolate, spesso finalizzate a dialogare, ascoltare e assecondare i clienti più lontani.

In questo senso si muovono anche gli orientamenti strategici per l’estero che le aziende intervistate hanno voluto esplicitare. Emerge, così, un forte orientamento allo scouting continuo di nuove possibili aree di mercato, la tendenza a sviluppare non solo prodotti, ma prodotti-servizi, ovvero ad incorporare nel prodotto una dose rilevante di servizi di assistenza al cliente, l’orientamento alla co-progettazione con i clienti stranieri come metodo di fidelizzazione, la realizzazione di prodotti su misura, nuovi investimenti in marketing e comunicazione (fig. 7).

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Fig. 7 - Leve che l'azienda prevede di utilizzare per rafforzare la propria presenza all'estero (val. % sul totale del campione)

Fonte: indagine Censis‐Fondazione Merloni

Certo, occorre considerare che, con grande probabilità, questo tipo di strategia sofisticata è prerogativa di un numero piuttosto ridotto di imprese. Se un percorso di upgrading delle strategie di internazionalizzazione è stato compiuto, molto altro deve essere fatto. I dati ufficiali indicano che nelle Marche il numero di operatori con l’estero è piuttosto esiguo, di poco superiore alle 8.000 unità, ma soprattutto i valori esportati (se rapportati ad esempio al numero degli occupati) appaiono nettamente ad di sotto delle potenzialità effettive, molto distanti dalle principali regioni esportatrici italiane. Probabilmente influisce la diffusa piccola dimensione d’impresa come fattore ostativo alle esportazioni, ma occorre pensare che anche tale limite potrebbe essere in parte o del tutto mitigato attraverso lo strumento delle reti d’impresa, attraverso specifici incentivi regionali alle esportazioni, attraverso la costituzione di consorzi ad hoc, attraverso un’azione propulsiva

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e di apripista proprio delle imprese di maggiori dimensioni che hanno ottenuto i migliori risultati in termini di presenza all’estero.

Sul fronte dell’export occorre compiere un ulteriore passo in avanti e le imprese marchigiane maggiori rappresentano indubbiamente un benchmark importante, per poter capire dove agire, con quali strumenti e con quali orientamenti strategici.

1. Reti d’impresa virtuose

Un pulviscolo di piccola impresa ed un certo individualismo spinto hanno sempre reso difficile nelle Marche attivare sistemi a rete.

Occorre dire, però, che nonostante il 70% degli intervistati sia convinto che uno degli elementi di debolezza della classe imprenditoriale marchigiana sia proprio quello del non riuscire a fare rete, in realtà dalla pratica emergono dati più confortanti.

In particolare, il 60% del campione considerato negli ultimi anni ha partecipato almeno ad un network collaborativo. Soprattutto sorprende come la forma di rete maggiormente sperimentata (segnalata quasi dal 35% degli intervistati) sia quella con Università e centri di ricerca. Nel 19% dei casi si è trattato, invece, della costituzione di associazioni temporanee o di consorzi per lo smaltimento di rifiuti o l’acquisizione di altri servizi, nel 17% dei casi si è trattato di collaborazioni con committenti o subfornitori per il miglioramento del prodotto e la condivisione di know-how e nel 14,7% dei casi la rete è stata finalizzata a mettere in comune risorse per svolgere attività di esportazione o importazione (fig. 8).

Non sono pochi i casi in cui le collaborazioni sono finalizzate ad acquisire ed a condividere know-how ed ad attivare innovazione e questo appare un orientamento molto positivo.

Un secondo aspetto rilevante è poi rappresentato dal fatto che in alcuni casi le reti, soprattutto quelle così dette di produzione, ovvero le reti di fornitura e le filiere, si allungano ben oltre i confini regionali.

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Fig. 8 - Forme di collaborazione attuate dall'azienda negli ultimi quattro anni (val. % sul totale del campione)

Fonte: indagine Censis‐Fondazione Merloni

Colpisce non poco rilevare che l’86% delle aziende analizzate abbia indicato che i propri principali fornitori sono localizzati in Italia ma non nelle Marche e che per il 52% alcuni tra i fornitori più rilevanti sono localizzati all’estero. L’impresa marchigiana di maggiori dimensioni appare, dunque, in grado di alimentare reti lunghe e complesse o comunque di essere inserita in un network tutt’altro che puramente “localistico”.

D’altra parte, ad ulteriore conforto di questa progressiva estensione dei legami stabili verso l’esterno vi è il fatto che per ben il 36% delle aziende analizzate, negli ultimi anni, i rapporti con i più importanti fornitori localizzati al di fuori delle Marche si sono intensificati.

Anche da questo punto di vista, la ridefinizione dei rapporti tra “interno” ed esterno” e l’intensificarsi dei sistemi a rete, stabili o temporanei che siano, così come emergono dall’indagine, sembrano indicare una atteggiamento di discontinuità che una parte dell’imprenditoria marchigiana esprime nei confronti del passato. Forte è la sensazione che questa discontinuità sia

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espressione anche di capacità di modernizzazione e di innovazione, sebbene relegata ad un quota, forse, ridotta del tessuto produttivo regionale.

Nota sulla rilevazione campionaria

I dati riportati nelle pagine precedenti sono stati tratti da un’indagine realizzata dal Censis con metodo Cawi (computer assisted web interview) su una campione di poco più di 300 imprese di medie e grandi dimensioni localizzate nelle Marche ed inserite nell’archivio della Fondazione Aristide Merloni. Hanno risposto al questionario 130 aziende. Di seguito si riporta la distribuzione delle imprese rispondenti al questionario, per classe di addetti e di fatturato (fig. 9) e l’andamento del fatturato, export ed occupati.

L’indagine si è svolta tra i mesi di luglio e di settembre 2013.

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Fig. 9 – Composizione strutturale del campione, per classe di addetti e per classe di fatturato (val. %)

 

Fonte: indagine Censis‐Fondazione Merloni 

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Fig. 10 - Andamento delle principali variabili economiche negli ultimi 6 mesi e previsioni per i 6 mesi successivi (val. % sul totale del campione e sul totale delle imprese esportatrici)

Fonte: indagine Censis‐Fondazione Merloni 

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Unprocessodi internazionalizzazione “variegato” ed inevoluzione:qualiprospettiveperqualimercati*

Considerazioni in premessa

Il processo di internazionalizzazione delle imprese è stato caratterizzato negli ultimi anni da un’accresciuta attenzione da parte di operatori economici, studiosi e istituzioni, che ne hanno spesso evidenziato “la necessità in termini di risposta alla diminuzione dei consumi domestici”. E’ questo un approccio “riduttivo” ed anche “pericoloso” per gli effetti che può produrre, in quanto è necessario rilevare che siamo di fronte non ad un comportamento “congiunturale” - come risposta di breve periodo a fatti contingenti - ma ad un vero e proprio cambiamento “strutturale”, che deve quindi richiedere - per i mercati internazionali - approcci interpretativi e gestionali differenti.

Di seguito sono indicati alcuni fattori che impattano su motivazioni, modalità e strategie di sviluppo internazionale, alimentando il campo dei percorsi di espansione sui mercati esteri.

* Vengono qui sinteticamente riportati i primi risultati di un’indagine empirica realizzata presso un campione di 22 imprese “laboratorio” da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Management dell’Università Politecnica delle Marche (Prof. Gian Luca Gregori, Prof. Valerio Temperini, Prof.ssa Federica Pascucci, Dott.ssa Laura Moscatelli, Dott. Luca Marinelli) e che saranno oggetto di prossima pubblicazione.

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1. Le nuove tecnologie informatiche e delle comunicazioni.

2. La crescita economica dei paesi (una volta) emergenti (Cina, Russia,

India) e di altri (Turchia, Vietnam…).

3. Il crescente ruolo assunto dalla “conoscenza” e dai “fattori

immateriali” nella generazione del vantaggio competitivo.

4. Il ruolo strategico delle "relazioni".

5. La maggiore richiesta di personalizzazione dei prodotti.

6. L'offerta di prodotti "ampliati".

7. La “crescita culturale" delle imprese. In certi casi, il passaggio

generazionale favorisce un progresso "culturale" nell'orientamento e

nella gestione delle imprese, sostenendo la vocazione

all'internazionalizzazione.

Alcune riflessioni sui risultati

I risultati della ricerca empirica se, da una parte, consentono di rilevare la varietà delle modalità di attuazione delle strategie di internazionalizzazione, dall'altra, permettono anche di individuare alcuni elementi peculiari che ricorrono nei differenti casi osservati, delineando un modello caratteristico delle imprese (piccole e medie) marchigiane.

In particolare, è possibile rilevare le seguenti variabili comuni che connotano l'approccio strategico ed operativo all'internazionalizzazione delle imprese oggetto di studio.

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Figura 1 - Alcune variabili ricorrenti nelle “imprese campione”

A. Strutture organizzative snelle, informali, flessibili

B. Valori, competenze e peculiarità del capitale umano

In proposito, si riscontrano la cultura del lavoro, l'elevata operosità e le vocazioni

professionali orientate allo sviluppo di elevate competenze.

C. Forte orientamento alla qualità

L'attenzione per la qualità dei prodotti è un altro elemento distintivo che accomuna

le imprese osservate e che, come rilevato in precedenza, deriva dai valori distintivi

delle persone che vivono nelle Marche.

D. Orientamento all’innovazione

Le imprese oggetto di analisi sono risultate particolarmente sensibili anche nel

cogliere le opportunità offerte da internet nei processi sia di vendita, sia di

comunicazione.

E. Ruolo strategico del Made in Italy

F. Commitment nel presidio dei mercati-obiettivo

G. Propensione a sviluppare rapporti di partnership con soggetti esteri

H. Territorio

Il territorio marchigiano rappresenta per le imprese osservate anche uno

"strumento" promozionale e di comunicazione particolarmente rilevante.

I. Rapporto sinergico con le Istituzioni del territorio di origine

La "vicinanza" tra le imprese e le Istituzioni (Enti locali, Camere di Commercio,

Università, ecc.) è un altro punto di forza.

Fonte: nostre elaborazioni sui risultati dell’indagine empirica

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Quali possibili traiettorie evolutive

Le imprese marchigiane anticipano e reagiscono all’evoluzione del contesto ambientale in modo differente tra loro e questo influenza le modalità con le quali colgono e sfruttano le opportunità che possono emergere sui mercati internazionali, dando vita ad un range ampio di approcci e di strategie di internazionalizzazione. Rispetto ai modelli tradizionali sui processi di internazionalizzazione diffusi in letteratura si riscontra quanto analizzato nella figura seguente.

Figura 2 – Le strategie di internazionalizzazione

Si può fare di più? (1)

Non sempre una strategia di esportazione indirettaassume caratteristiche negative, come descritto nei modelli teorici!

IN SOSTANZA…

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La strategia di esportazione diretta richiede un’attenzione elevata, sia per quanto concerne gli aspetti organizzativi, che per le risorse necessarie.Può consentire forti vantaggi, ma a condizione….

Gli accordi rappresentano un’opportunità: Competenze nuove e soprattutto un progetto dipartnership, che definisca obiettivi, responsabilità (sin dallascelta del partner- non necessariamente il più …)

NON SOLO QUINDI LA SCELTA DELLA STRATEGIA, MA SOPRATTUTTO DIVENTANO FONDAMENTALI LE MODALITA’DI ATTUAZIONE DELLA STRATEGIA

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Come evidenziato nella Figura 3 non ha senso definire interventi volti a favorire i processi di internazionalizzazione in modo “generico”, senza tenere conto dei differenti modelli di business. L’azione dell’Operatore Pubblico, quindi, deve essere differente; da un lato favorire una migliore qualità del presidio dei mercati esteri, avendo come riferimento le aziende più strutturate, ad esempio intervenendo sul “capitale umano giovane”, che ha competenze. In questo caso, l’integrazione tra Università, Istituzioni e Sistema delle Imprese, mediante la realizzazione di progetti innovativi di esperienze internazionali, diventa fondamentale. Dall’altro, incrementare il numero delle piccole imprese marchigiane presenti sui mercati esteri, favorendo processi di aggregazione (peraltro, non sempre facili da realizzare!). In questa direzione, si pongono anche lo sviluppo di piattaforme logistico-distributive (per favorire operativamente la presenza ed il contatto con il mercato di consumo internazionale) e la creazione di piattaforme informatico-gestionali, per acquisire maggiori “conoscenze”, utilizzando la grande quantità e qualità delle informazioni presenti nel web. E’ evidente che l’azione dell’Operatore Pubblico, almeno a livello regionale, richiede un sempre maggiore coordinamento tra varie strutture (provinciali ed in certi casi comunali), allo stato attuale ancora “eccessivamente numerose”, nonché una sempre più stretta integrazione con il mondo associativo delle imprese.

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Figura 3 – L’intervento pubblico

Si può fare di più? (1)

Un’elevata attenzione deve essere rivolta al sistema delle piccole imprese; infatti, le aziende più strutturate in molti casi si “muovono” da sole, mentre per le piccole (com’è noto, la prevalenza) ciò non risulta possibile.

3. Quali interventi per quali imprese: da una dimensione nazionale ad una regionale

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In realtà, NON ESISTE UN UNICO MODELLO di piccola impresa; necessità di ragionare per modelli di business (provare a delineare cluster). Inoltre, non tutte le aziende “possono essere” interessate ai mercati internazionali.

Favorire la presenza di un PRESIDIO MAGGIORE nei mercati internazionali, per le imprese più strutturate (progetti nei mercati internazionali per GIOVANI con competenze).Finanziare aggregazioni tra imprese per progetti sui mercati internazionali (varie attività a seconda delle tipologie di cui sopra: ampliare la gamma, investire sulla penetrazione commerciale, accordi distributivi, ecc.). In questa direzione il tema delle competenze e dei Voucher.

Intervenire con il sistema Creditizio per finanziare progetti all’export

Favorire la nascita e lo sviluppo di piattaforme Favorire la nascita e lo sviluppo di piattaforme logisticologistico--distributivedistributive

Favorire la nascita e lo sviluppo di piattaforme informatiche-web semantico

Nuova imprenditorialità per l’internazionalizzazione

Peraltro, non può sfuggire che la dimensione regionale è dipendente da quella nazionale, che “appesantisce” le strutture organizzativo-gestionali delle imprese le quali, al contrario, devono essere sempre più flessibili. E in questo “contrasto di approccio e di comportamenti” (almeno sui FATTI OGGETTIVI), si gioca anche la reale possibilità competitiva delle nostre imprese, come evidenziato nella Figura 4.

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Figura 4 – Il contesto nazionale

La dimensione nazionale: punti critici‐ Pressione fiscale sul lavoro e non solo

‐ Carenze infrastrutturali, nei trasporti e nei sistemi logistici

‐ Sovracosti energetici

‐ L’involuzione demografica

‐ Rapporto non del tutto efficace tra imprese/banche/finanza

‐ Limitata internazionalizzazione della GDO italiana

‐ Caratteristiche dimensionali delle imprese

‐ Tempi della Giustizia

‐ Integrazione tra Università, Centri di Ricerca ed Imprese

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Centralità dell’impresa, MA……..

e quindi abbiamo più difficoltà per essere competitivicon le altre imprese internazionali

e diminuisce la capacità di attrattiva di investimenti dall’estero

E’ necessario recuperare, rispetto a tutti gli interventi a livello governativo, la CENTRALITA’ DELL’IMPRESA, soprattutto di quelle imprese che, pur operando in modo ampio nei mercati internazionali, continuano a mantenere la sede principale e soprattutto a realizzare investimenti nel territorio.

E’ questa la sfida che va affrontata il più rapidamente possibile.

Alcuni risultati “non convenzionali”

L’indagine ha consentito di delineare modelli di internazionalizzazione e fattori competitivi “non convenzionali” e non sempre correlati “tradizionalmente” alla dimensione aziendale (soprattutto per quanto concerne le nuove tecnologie). Solo a titolo esemplificativo si veda la figura seguente.

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Figura 5 - Alcuni aspetti “non convenzionali” dei modelli di internazionalizzazione

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Impresa che opera nel settore calzaturiero e che ha integrato i canali off-line e on-line, realizzando vendite on line nel mondo, mediante web-shop di proprietà, altre piattaforme e-commerce multimarca e web shops dei retailers.

Impresa operante nel settore delle macchine da caffè espresso professionali, che ha realizzato rapporti di partnership - con l’obiettivo di costruire relazioni di lungo periodo - con gli importatori, per lo sviluppo congiunto del brand, condividendo le principali decisioni strategiche per i mercati esteri interessati e compartecipando ai vari eventi.

Impresa specializzata nella produzione di dispositivi per la misurazione e per il test di prodotti finiti, che sviluppa il processo di realizzazione della commessa, mediante un key account manager coadiuvato da un resident engineer, con l’obiettivo di presidiare fortemente il cliente internazionale.

Impresa che produce circuiti stampati per il settore dell’elettronica professionale, molto presente all’estero, che adotta varie strategie a seconda del livello di penetrazione del mercato. Tra queste, anche una relazione di cooperazione con alcuni concorrenti, che diventano sostanzialmente intermediari; la parziale adeguatezza delle conoscenze di tali concorrenti nell’assistere il cliente, spesso implica che questo si rivolga direttamente all’impresa marchigiana.

Impresa che realizza prodotti per l’edilizia, a base di sughero; utilizza in prevalenza una strategia di esportazione diretta. Inoltre, ricorre all’e-commerce mediante una propria piattaforma tecnologica; i prodotti sono promossi anche mediante un canale ufficiale su You Tube, dove sono mostrate sia le caratteristiche tecniche, sia effettuati tutorial sulle modalità più corrette per l’installazione.

Impresa di piccole dimensioni, nata producendo materassi e caratterizzata da un processo evolutivo per esigenze “proprie” realizzando macchine

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automatiche per la produzione di materassi. Si riscontra un approccio di tipo pull, in quanto è spesso il cliente a contattare l’impresa. La forza vendita assiste il cliente e lo invita nello stabilimento marchigiano per mostrare la tecnologia ed il funzionamento dei macchinari.

Imprese operanti in vari settori che hanno utilizzato le “licenze” come strumento per aumentare la penetrazione nei mercati internazionali, anche a vantaggio dei brand tradizionali; ciò, anche mediante l’apertura di “shops in shops” in partnership.

Impresa presente nel settore degli apparecchi per l’illuminazione, molto presente all’estero, che ha realizzato interventi di marketing soprattutto rivolti ad influenzatori (architetti, designer, illuminotecnici). Vengono inoltre erogati servizi di formazione su temi della luce sia in modalità tradizionale, sia in e-learning. Il network di relazioni viene alimentato mediante la condivisione delle conoscenze.

Si riscontrano inoltre due casi piuttosto interessanti nel settore calzaturiero, ma molto differenti.

- Una piccola impresa che ricorre all’e-commerce ed utilizza sistemi di foot-scanner per la produzione e vendita di calzature customized, anche presso i negozi all’estero.

- Un’impresa che ha realizzato una distribuzione diretta per prodotti di alta gamma, mediante boutique di proprietà; offre inoltre un servizio di produzione “su misura”, mediante l’effettuazione di rilevazioni programmate sui clienti dei negozi all’estero, svolte personalmente dall’imprenditore. Sono inoltre realizzati servizi per mantenere le caratteristiche qualitative dei prodotti.

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Fonte: nostre elaborazioni sui risultati dell’indagine empirica

Tali risultati permettono di evidenziare che non esiste una strategia che a priori può essere definita più valida delle altre; inoltre, possono essere adottate simultaneamente dalla stessa impresa differenti strategie per diversi mercati.

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Va quindi sottolineato che la realtà risulta ben più complessa e variegata rispetto a quanto si possa anche immaginare; ed è con questa dinamicità - ma con un metodo sempre rigoroso nell’impostare un piano stratagico internazionale - che vanno affrontati efficacemente i mercati internazionali e non solo europei.

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