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1 Tariffa Assoc. Senza Fini di Lucro: Poste Italiane S.P.A - In A.P -D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/ 2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB/43/2004 - Arezzo - Anno XVI n° 2 / 2012 Riabbracciamo il SOG NO con la REAL TA

DCB/43/2004 - Arezzo - Anno XVI n° 2 / 2012 Tariffa Assoc ... · Come il seme che sogna la primavera Ha scritto Gibran: “Come i semi che sognano sotto la neve, il vostro cuore

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2012

Riabbracciamo

il SOGNO con la REALTA’

SOMM

ARIO

Primapagina3

I segreti del possibile 4

La palestra dei sogni6

Il desiderio di ciò che ancora non c’è10

La disciplina della terra 8

“La Chiesa che sogno”14

Uomini e donne che camminano insieme 12

Dalle ferite al perdono20

Rimettiamoci in gioco! 18

L’amore infinito 22

l’eremo dal cuore di donna24

Festa d’estate 2012 28

Graffiti29

trimestrale Anno XVI - Numero 2 - Luglio 2012REDAZIONElocalità Romena, 1 - 52015 Pratovecchio (AR)tel. 0575/582060 - [email protected]

DIRETTORE RESPONSABILE:Massimo OrlandiREDAZIONE e GRAFICA:Raffaele Quadri, Massimo Schiavo, Luca Buccheri

FOTO:Alexandra Calandrin, Massimo Schiavo, Marta TogniCOPERTINA: Massimo Schiavo

HANNO COLLABORATO:Luigi Verdi, Pier Luigi Ricci, Luca Buccheri,Luigi Padovese, Maria Teresa Marra Abignente, Giorgio Bonati, Federica Caffè

Filiale E.P.I. 52100 ArezzoAut. N. 14 del 8/10/1996

Il giornalino è anche online suwww.romena.it

“Nuovo / come un giorno che non c’era / come la sera quando arriva già. Nuovo / come è nuova la stagione / e il nuovo nome che la chiamerà”.Mi danza dentro questa canzone. Canta da sola, dà alla giornata un soffio in più per andare.È di Gian Maria Testa. Voce calda, un sorriso accennato dietro ai baffi, il corpo disegnato sulla chitarra. “Nuovo” è la prima canzone del suo ultimo album. Nuovo è suo figlio, che ha sei anni. Nuovo è il modo di parlare della sua musica. E del motivo per cui continua a scrivere e a cantare:“A volte mi chiedo: ma perché fare ancora un disco, perché aggiungere altre parole? Una ragione vera non c’è. Anzi ogni volta che ci penso mi sembra che non ci sia più lo spazio, che sia tutto troppo affollato di parole, quasi sempre inutili. Però c’è una pulsione, ed è quella di esprimere il non dicibile a parole. La canzone continua per me a essere il modo in cui riesco a dire, prima di tutto a me stesso, cose che altrimenti non riuscirei a dire”.

È vero, viviamo in un mondo in cui tutto sembra sia stato già detto, fatto, realizzato. In un mondo per lo più fiaccato dalla sua folle corsa. Ma in questo mondo Gian Maria non ha comunque rinunciato a inseguire il suo sogno creativo. E le sue canzoni colorano la mia mattina e quella di chissà quante altre persone. E noi? Siamo anche noi convinti che si debba, comunque, trovare un modo per tirar fuori il nostro “indicibile”? Non offriamo ulteriori sponde a questa crisi che già si sta prendendo troppo. I sogni no. Ci sono necessari. Non mi riferisco ai sogni che ci raggiungono di soppiatto nel sonno, misteriosi e insondabili, ma a quelli che ci scelgono da svegli. Penso a quelli che non si oppongono alla realtà, che non la fuggono, ma la vogliono reinventare, anticipandone le mosse. Questi sogni sono il mezzo di trasporto che utilizza il nostro “indicibile” per arrivare a noi, sono l’onda di nuovo che ci smuove da ogni possibile situazione di ristagno, sono il richiamo, irresistibile, di qualcosa che ci fa vibrare, anche se ancora non esiste. E che perciò bisogna provare a far esistere.

C’è un rischio, certo: ed è quello di utilizzare i sogni come un rifugio di comodo, finendo per nascondersi nella loro impalpabilità. Sento molto questo pericolo, perché sono tra coloro che che hanno spesso la mente occupata dai sogni. Per questo mi sono studiato alcune contromosse, molto pratiche. Innanzitutto li ascolto tutti, i sogni, ma comincio a seguirli solo quando si ripetono. Mi fido, insomma, della loro insistenza. Poi ne parlo, li faccio atterrare in uno spazio di condivisione. Infine mi adopero per liberarli dal peso delle aspettative. Sono convinto, infatti, che, anche nella migliore delle ipotesi, non si realizzeranno esattamente così. Mi incuriosisce, anzi, guardare lo scarto. È un modo per capire quanto ci ho messo io e quanto, di suo, ci ha messo la vita.

Rainer Maria Rilke ha scritto, descrivendo l’arte del grande pittore Paul Cezanne: “Il grigio non esisteva come colore, lui scavava sotto e scopriva il violetto o il blu, il rosso o il verde”. In questi tempi difficili, non esitiamo a “scavare sotto”. I nostri sogni ci ricordano che, anche oggi, sotto il grigio del presente, esiste un modo ‘nostro’ di estrarre i colori, di dire chi siamo. Un modo così “nuovo / da lasciare un gusto in gola. / Nuovo / come è nuova la canzone / per ogni voce che la canterà... “

Massimo Orlandi

PRIMAPAGINA

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di Luigi VerdiI segreti del possibile

Che cos’è il sogno? Non lo sappiamo più. Oggi viviamo di desideri appena mastica-ti e poi risputati. Ciò che chiamiamo sogno è in realtà figlio di bramosie, di ambizioni, di urgenze immotivate. Questi sogni annac-quati, impoveriti, questi desideri deboli non scuotono la nostra vita, ne scalfiscono appena l’epidermide. Sono droghe legali, immesse nel circuito comune da una società che vive solo di consumi. Come il seme che sogna la primaveraHa scritto Gibran: “Come i semi che sognano sotto la neve, il vostro cuore sogna la prima-vera. Fidatevi dei vostri sogni, perché in essi è nascosto il passaggio verso l’eternità.” Il sogno non è nel commercio di desideri fri-voli, e nemmeno nella costruzione artificiosa di una realtà impossibile. Parte da uno spazio minuscolo come quello di un seme, ma è ca-pace di spingere lontano, sino all’eternità. In questo senso il sogno è motore dell’esistere, perché chiama a sé la vita, la spinge verso lo sconosciuto, la dilata verso orizzonti che non si lasciano mai raggiungere, ma che, lascian-dosi intravedere, catturano tutte le nostre energie.La Bibbia celebra il sogno, la sua esistenza garantisce l’uomo di crescere in armonia: Sa-lamone è il giusto per eccellenza, il sapiente finchè il sogno gli parla. Quando quella voce tace, al contrario, prende la china dell’errore e della trasgressione. Con passione e trasparenzaIl sogno non è mai alternativo alla realtà. Il paradosso di oggi è che il realismo, che ci viene spesso richiesto come una necessità, se non come una virtù, non produce la realtà, ma la frena, la impoverisce. Il sogno, all’oppo-sto, nutre e vivifica la realtà: per questo deve restarvi agganciato. “ La realtà – ha scritto Rubem Alves – di per sé non svela il segreto di ciò che è possibi-le. Essa non sa veramente nulla del possibi-le, proprio come il blocco di marmo non sa che cosa potrà diventare quando l’intenzione

dell’artista gli darà forma. Sono le aspirazio-ni e le attese dell’uomo che fanno emergere i segreti del possibile”.Ma come si realizza il sogno? Servono pas-sione e trasparenza. La radice di passione è la stessa di pazienza. La passione si compie nel momento in cui è anche capace di attese, si nutre delle attese, resta fedele nelle attese. E c’è bisogno di trasparenza con se stessi e con gli altri. Molti sogni che viviamo oggi non sono sbagliati, sono semplicemente corrotti perché li abbiamo fissati in simulacri troppo rigidi per resistere all’urto della realtà.La scia luminosa del sognoUn sogno non muore mai. Lascia sempre una traccia. Una scia luminosa che è possibile in-tercettare. Vorrei raccontarvi di una ragazzo e del suo sogno. Zaher Rezai, era un afghano di Mazar-i -Sharif, questa città che nel ‘98 fu teatro di tante stragi di civili. Zaher aveva al-lora pochi anni, sopravvisse a quella fase e qualche anno dopo, ancora bambino, Zaher andò in Iran a fare il saldatore. E lui, come tanti altri, aveva questo sogno di attraversare il mare, il sogno di una vita diversa, un so-gno di pace. Vi leggo solo due piccoli scritti di Zaher, trovati su un cartoncino che aveva in tasca quando lo hanno trovato morto sotto un Tir, appena dopo lo sbarco in Italia: “Oh mio Dio, che dolore riserva l’attimo dell’attesa, ma promettimi Dio che non lascerai finisca la primavera”. Ma parole da brivido sono le ultime, che scrive proprio quando è anco-ra sul barcone che lo portava in Occidente: “Se un giorno in esilio la morte deciderà di prendersi il mio corpo, chi si occuperà della mia sepoltura? Chi cucirà il mio sudario? In un luogo alto si deponga la mia bara, così che il vento restituisca alla mia patria il mio profumo”. Ha scritto Dag Hammarskjold che “Bisogna esistere per il futuro degli altri, senza ve-nir soffocati dal loro presente”. Il sogno di Zaher, come ogni sogno, vive. Perché viene dal futuro. È nel cuore di Dio.

Il paradiso lo abbiamo iscritto nei geni, almeno in quelli che presiedono ai sogni.

Foto di Marta Togni

Roberta De Monticelli

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La palestra dei sognidi Pier Luigi Ricci

Sognare è un atto di libertà che nemmeno il peggior dittatore potrebbe toglierti. Può riuscirci invece la paura, quella che ti porti dentro e che, travestita da realismo, ti dice di stare con i piedi per terra. Ed allora il sogno viene sostituito da una specie di copione già scritto che ti suggerisce che tanto ormai sai già come andrà a finire. Ognuno di noi infatti possiede un reper-torio di film già visti con i quali abbiamo imparato ad anticipare il futuro e che derivano dal nostro passato. Darsi il permesso di sognare non è infatti un optional, da attivarsi nei momenti di svago: è l’atto consapevole attraverso il quale tu riaffermi il valore della tua vita e della tua libertà, la dignità del tuo essere immagine e somiglianza di Dio e la bellezza di cui è capace la tua mente e la tua creatività.Ma la capacità di sognare, come tutte le umane pre-rogative, deve essere allenata e messa in gioco, altri-menti si può rischiare di perderla. Perciò ho provato a mettere in fila delle regole da pro-porre, per lavorare su questa capacità:

1. Ogni tanto lascia la tua mente libera di fantasticare: se ne senti la voglia, lasciala andare, senza valutare per forza se le fantasie che ti prendono sono ragione-voli ed assennate. Vai semmai dietro a quelle diverten-ti, positive e che finiscono bene. Darsi questo diritto è importante ed è giusto pensare che non combinerai guai per questo: la tua parte ragionevole farà da guar-dia e da sponda. La mente ha bisogno ogni tanto di lavorare senza binari ed imposizioni, ha bisogno di spaziare, disegnare, volare…

2. Coltiva tutti quei rapporti umani che ispirano in te questo senso di libertà, senza farti sentire sbaglia-to per questo. Frequenta ambienti così, fai tesoro di letture, di visioni e di tutti quegli strumenti che ti ri-cordano che le favole vanno a finire bene e che così è la vita.

3. Questa è la parte più difficile: se ti accorgi che un sogno ti sta prendendo più degli altri, che torna spesso e che avresti voglia di andargli dietro, devi chiederti chi stia facendo quel sogno cioè quale parte di te si

stia attivando. Le nostre paure, le nostre rabbie pro-ducono fantasticherie che certo non sono costruttive e a buon fine. Puoi riconoscerle bene perché producono tensione, acidità e pessimismo. Anche i nostri copio-ni – sono quelle abitudini mentali con cui istintiva-mente affrontiamo i momenti critici e che derivano dalle ferite del passato – ugualmente stimolano sogni e propositi per niente rassicuranti e costruttivi. Devi fare molta attenzione a questo passaggio, rifiutando ciò che ti boicotta ed imparando ad orientare la mente verso ciò che è piacevole e che ti innalza in positivo. Anche questo si riconosce bene: il sogno che nasce dalla parte libera di te, da quella che ti rispetta e che vuole il tuo bene produce delle buone energie, ti mette adrenalina ed entusiasmo in corpo e ti fa sorridere. Bisogna concentrarsi lì, togliendo a mano a mano tut-to il resto.

4. Quando cominci ad intravedere un sogno che ti piace, stai con lui il più spesso possibile. Curane i particolari, raccontatelo cento volte, goditi quel pen-siero. Ma soprattutto comincia a vederti, a muoverti, a comportarti come se tu già lo avessi realizzato. E devi fare anche un’altra cosa: sentiti la persona giusta per quella situazione che hai visto e desiderato. Devi dirti che quel sogno ti appartiene e che tu appartieni già a quanto stai sognando.

5. L’energia di un sogno comincia a funzionare dal momento in cui sei disposto a raccontarlo a qualcuno. È il mistero della natura umana: non si accende niente in noi se non riusciamo ad attivare almeno un contatto con un’altra persona. In genere non raccontiamo nien-te a nessuno per scaramanzia, per non correre rischi, ma se non facciamo questo passaggio i nostri sogni rimarranno nel limbo delle possibilità. Come un mo-tore senza motorino di avviamento.

Può sembrare strano parlare di sogni e di palestra in-sieme. Ma l’essere umano ha bisogno di mettere in-sieme questi due aspetti, per non rimanere appeso al cielo o schiacciato a terra. E per sentire in lui, grazie a quest’equilibrio, l’unione della terra al cielo.

I sogni non sono astrazioni, ma luoghi preziosi per incontrare la nostra libertà. Ma, come tutte le cose, anche i sogni vanno coltivati nel modo giusto…

Il mio cuore aveva tanti desideri sparsi, ma quando ti ho visto si sono condensati in uno.

Charles de Foucauld

Foto di Marta Togni

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La disciplina della terradi Daniele Garota

A contatto con la naturaLa nostra società è alimentata d a u n m a r t e l l a m e n t o pubblici tario che induce desideri, mascherandoli per sogni. Quando vado nelle scuole, a parlare, scopro che la gran parte dei bambini a 10 anni, non ha ancora visto una mucca, che quasi nessuno sa che la pasta viene dalla terra, dal grano. Ma che tutti sanno invece usare benissimo il telefonino. Eppure non ci vuole molto. Avete mai portato i bambini a contatto con la natura? I miei nipotini, quando stanno con me nell’orto, magari per piantare l’insalata o le cipolle si entusiasmano. Sono contenti di mettere le mani nella terra, di sporcarsi, di imbrattarsi. Questo contatto fisico, reale con le cose è necessario. La prima cosa da fare per ridare ossigeno alla nostra capacità di sognare è tornare a radicarci nella bellezza della vita, toccandola con mano. Oggi si è perso questo contatto con la terra. Per questo bisogna far distinzione fra i sogni e le illusioni, che sono i sogni falsi e indotti, utili solo a questa società consumistica per riprodurre se stessa.

Riconquistare i nostri spaziLe case dove viviamo sono bellissime, ma spesso si tratta di spazi vuoti, abitati di fretta, che non parlano di noi, tanto che si può cambiarle disinvoltamente, perché sono del tutto intercambiabili. Ma soprattutto sono spazi in cui le parole che si sentono di più non sono quelle delle persone che ci vivono, ma quelle della televisione. È lei che parla. Non noi, non tra di noi.Io e mia moglie per 15 anni non abbiamo fatto entrare la televisione in casa, ed è dura perché con tre figli piccoli, se non c’è la tv sei tu che devi riempire le serate, sei tu che devi animare il tempo. Ma questo alimenta la capacità di creare, di inventare, di immaginare.

Il profumo della memoriaNelle nostre case di oggi manca completamente il senso della continuità con il passato. Gli oggetti di una casa contadina parlavano di chi ci viveva e di chi c’era stato: sulle pareti c’erano foto o ritratti del nonno o della bisnonna, il quadretto del santo, si sentiva il respiro del tempo e del passato. Nel rapporto tra generazioni, tra

In che modo possiamo ancorare i nostri sogni alla realtà? Come possiamo scoprire se sono autentici, in una società che ci sommerge di falsi desideri? Daniele Garota, uomo della terra (è stato tra i fondatori di Alce Nero, la prima azienda biologica italiana), ma anche studioso dei testi sacri e scrittore (tra i suoi libri ricordiamo “L’onnipotenza povera di Dio” e “La fuga dei giorni, pensieri di terra e di cielo”) ci offre spunti preziosi legati alla cultura e all’esperienza contadina. Questi frammenti sono estratti dal bellissimo incontro che ha tenuto a Romena a fine giugno.

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Foto di Giuditta Scolapadri e figli, tra nonni e nipoti, entrava anche

questo elemento di legame di continuità, nel quale si poteva trovare il senso, il filo, il cammino. Così, se da bambino tuo padre ti portava a piantare una quercia, una volta adulto, quella quercia cresciuta l’avresti mostrata a tuo figlio. Era il segno del passaggio tuo e di chi ti aveva preceduto. Questo legame con la memoria è basilare per la nostra identità di persone. Chi era tuo bisnonno? Chiedilo a tuo figlio, che magari ne sa appena il nome. Era il fabbro, faceva il tessitore, era un commerciante…e lì comincia la storia. E i colori di ciò che hai intorno a te prendono vita.

Il valore del riposoLavoriamo, lavoriamo tanto, corriamo tutti a ritmi frenetici. Ma per cosa? E per andare dove? Questa è la società che abbiamo creato. Una società in cui non ci si ferma a riflettere, in cui non sappiamo riposarci un po’. Dicevano gli ebrei che se il lavoro è importante per vivere, il riposo, il sapersi riposare, il saper osservare il sabato è addirittura un’arte, perché necessita di creatività, di tanta fantasia.

Sogni, non illusioniErri De Luca ha mostrato come il termine ebraico di “custodire la terra” sia lo stesso di quello con cui si traduce “celebrare sull’altare”. Per un ebreo non c’è differenza fra coltivare la terra e celebrare Dio sull’altare. Dobbiamo riscoprire questa saggezza. E tornare ad affondare la nostra vita nella bellezza della terra e nel tessuto della nostra memoria. C’era un slogan che aveva inventato il caro Gino Girolomoni, per i nostri prodotti agricoli: “La tradizione – diceva – è rivoluzione”. Voleva dire che il sogno non deve mai disancorarsi dal passato. Se un sogno parla del futuro mantenendo un legame autentico con il passato, quel sogno non sarà un’illusione. E varrà la pena cercare di realizzarlo.

Tutto l’incontro si può ascoltare o scaricarealla pagina podcast di www.romena.it

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Il desiderio di ciò che ancora non c’è

Releghiamo il sogno alla notte quando interrom-piamo il controllo della razionalità. Lo pensiamo legato esclusivamente all’infanzia e all’adole-scenza: i vecchi non sognano e gli adulti efficien-ti e concreti meno che mai, hanno altro da fare loro… forse i poeti o gli ingenui, quelli sì, posso-no ancora sognare, ma si sa, loro sono fatti così…Confondiamo il sogno con il desiderio e quando chiudiamo gli occhi cerchiamo comunque di re-stare con i piedi ben ancorati alla terra, come se fosse un qualcosa di troppo rischioso o di troppo inutile. Ecco, un “di troppo”, un’attività super-flua, legata alla fantasia o all’immaginario, un guizzo di vita che non ci è più concesso. Eppure è proprio a partire da questo slancio un po’ folle che la vita è cresciuta, anche la nostra. Non camminano separati il sogno e la vita, non si distinguono l’uno dall’altro, ma ad un certo momento il sogno viene ad innestarsi nella vita, e la trasforma. Proprio come si fa con le piante, quando si innesta una specie più pregiata su una meno pregiata: vita su vita. E la si lega delicata-mente per non strozzarla questa vita che ormai è diventata unica, per permettere alla linfa di scor-rere e di nutrirla. Così, forse domani avrò una pianta più bella.

Mi viene sempre in mente il lavoro dell’artigia-no, del falegname ad esempio: sta costruendo un tavolo e già lo vede col suo cuore, probabilmente ha davanti a sé solo qualche asse di legno, ma lui riesce a vederlo già montato ed al suo posto. E la fatica del suo lavoro è in vista della bellezza dell’opera finita, e le sue mani che accarezzano il legno per portar via un po’ di segatura, acca-rezzano in realtà il futuro che è già là. Così, forse domani qualcuno sarà felice intorno a quel tavolo.È solo con questa fiducia nel futuro che cresce la nostra vita, è solo se siamo accompagnati da questa spinta potente ma impalpabile, lieve e

costruttiva, che oltrepasseremo i confini di noi stessi. Per questo il sogno è proprio dei bambini ed anche degli innamorati: perché quando siamo innamorati l’altro diventa il nostro sogno e con lui riusciamo ad allentare le funi dell’efficienza e della concretezza per lanciarci in una realtà tra-sfigurata. Così, forse domani, io e te…Ma poi che ci succede? le mani non sanno più accarezzare i nostri sogni, i nostri occhi non san-no più guardare oltre il labile momento che stia-mo vivendo e la nostra vita rischia di inaridirsi come una pianta troppo vecchia. Dove possiamo attingere quella linfa che ci per-metterà di crescere più forti? come trovare il co-raggio per rinunciare alla smania di certezze e abbandonarci alla fragilità di un forse? Bisogna esser giovani per poter sognare, biso-gna cioè avere quella speranza nel domani che viene dalla freschezza e dal gusto dell’avventu-ra, bisogna possedere l’audacia di chi rischia, la spensieratezza di chi non calcola e la follia di chi ama.

Sognare non significa fantasticare o fare castel-li in aria, non è perdersi con l’occhio smarrito dietro le velleità del momento: sognare è vede-re quel che ancora non c’è, è sentire che quella cosa che è il nostro sogno possiamo realizzarla, dedicandole tutte le nostre energie, tutta la no-stra vita, perché è diventata la nostra vita. Ac-crescendola, dandole un nuovo senso, un nuovo profumo. E no, i sogni non si tengono nel cassetto, non si isolano per tirarli fuori solo quando siamo in vena di essere un po’ romantici o ammalati di rimpianto: quelli evidentemente non sono sogni, ma tristi e banali fughe dalla realtà. Il sogno ha invece la forza della vita, ha il sapore del non ancora che si compie grazie a me, ha la delicatezza di uno stelo che reggerà una spiga. Chissà, forse domani…

Nella prigione della nostra efficienza ci siamo dimenticati ciò che dà vita alla nostra vita: la capacità di sognarla sempre un gradino oltre, e quindi di renderla sempre nuova.

di Maria Teresa Abignente

Maria Teresa Abignente cura la rubrica mensile “Il rischio di amare” su www.romena.it

11

Nel cuore degli esseriDio sogna il suo sogno,

e di amore e di tenerezza s’adorna il creato.

Giovanni Vannucci

Foto di Marta Togni

12

Uomini e donne che camminano insiemedi Luigi Padovese

Il sogno più profondo dell’umanità riguarda la donna e l’uomo, appartiene al rapporto che si instaura tra loro. Oggi, in Italia, in questi primi 6 mesi dell’anno, 61 donne sono state uccise da-gli uomini “vicini”, che accompagnano la loro vita: padri, mariti, fratelli, compagni. Un sogno spezzato, come uno specchio in frantumi: spesso è uno stare insieme basato su un presupposto scontato di dominio e di possesso. È una prete-sa di “proprietà” su un altro essere umano, un desiderio involutivo che spesso genera violenza, espressa in varie forme, per sfociare a volte ne-gli atti estremi sopra ricordati.Ma non è sempre stato così! Per migliaia di anni le donne e gli uomini hanno vissuto in una so-cietà dove c’erano rapporti tra loro paritari, dove prevaleva una cultura della vita, di cui la don-na e la natura sono simbolo, come generatrici di vita. Non era un’utopia, era una realtà, dove esistevano, come in tutte le situazioni umane, i conflitti, ma emergeva un approccio coopera-tivo, comunitario, orientato a risolvere costrut-tivamente tali conflitti. Riane Eisler¹ in un bel libro, “Il calice e la spada”, riassume il frutto di tante ricerche che parlano di questa civiltà che ha caratterizzato l’Antica Europa migliaia di anni fa, una società dove non venivano privi-legiati i simboli del dominio e della forza, della guerra e della violenza, dove gli sforzi di tutta la comunità andavano verso la produzione di bene, di vita, non verso strumenti di distruzione e competizione.Richiamo queste brevi riflessioni solo per dire che è un sogno possibile, è un “sogno che ab-braccia la realtà” perché è una realtà già vissuta dal genere umano. Oggi più che mai abbiamo bisogno di uscire da una situazione ormai invi-vibile di competizione esasperata, di individua-lismo cieco, di violenza e sopruso, di mancanza di rispetto reciproco e responsabilità.

Una possibilità di cambiamento ed evoluzione la possiamo cercare e forse trovare a partire dal rapporto tra donne e uomini, un rapporto che fonda la nostra vita e che abita la nostra quo-tidianità. È necessario riscoprire e ritrovare dentro di noi la voglia di sperimentare un nuo-vo modo di stare insieme, un nuovo ascolto, un linguaggio che permetta di conoscerci e capirci, reciprocamente. Per questo ci vuole consapevo-lezza. A che punto ci troviamo? In quale dire-zione vogliamo andare? Nei corsi di Romena, le donne sono in larga maggioranza; sembra, dunque, abbiano più voglia di mettersi in gioco, di capire, di cambiare. E gli uomini? È vitale, per tutti noi, che uomini e donne si mettano in cammino, insieme, alla ricerca di nuovi rapporti possibili.D’altra parte, dice Riane Eisler, “il modo in cui organizziamo e viviamo il più importante dei rapporti umani – donne e uomini – ha un effetto profondo su tutte le nostre istituzioni, sui nostri valori, sull’evoluzione culturale di una società. Determinerà in particolare se essa sarà pacifica, cooperativa o, invece, ‘bellicosa’, competitiva, violenta”. La posizione della donna nella società e nella cultura diventa così un indicatore prezio-so di evoluzione o di involuzione.Molti futurologi considerano oggi essenziale per il nostro domani non tanto la capacità di competere né la tecnologia o l’economia, ma la capacità di costruire buone relazioni, di definire un’etica e valori basati sul senso di responsabi-lità verso tutte le generazioni, presenti e future, di concepire il proprio interesse individuale con quello dei nostri simili, di sentirci parte della natura.Questo “orizzonte”, più paritario e cooperativo, non è un’astrazione, ma una concretissima espe-rienza umana che l’umanità ha già sperimentato per millenni. Dunque possibile per tutti noi.

La crisi nei rapporti fra uomo e donna è uno dei principali veleni della nostra società. Ma non è sempre stato così. E il sogno di domani può abbracciarsi con una realtà di ieri. Da riscoprire.

¹ Riane Eisler, “Il calice e la spada”, Frassinelli Editore, 2006.

13

Ho capito che spesso tutti sono convinti che una cosa sia impossibile, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la realizza.

Albert Einstein

Foto di Massimo Schiavo

14

“La Chiesa che sogno” Intervista di Luca Buccheri

Ermes Ronchi, monaco servita, scrittore, poeta, conduttore della trasmissione di Rai uno “Le ragioni della speranza” prova a utilizzare la lente speciale dei sogni per guardare il presente e immaginare il futuro della chiesa.

Padre Ermes, Giovanni Vannucci affermava che siamo appena all’inizio del cristianesimo. Se po-tessimo immaginare la Chiesa del futuro, quali tratti potrebbe avere? Una Chiesa povera e libera, che sia la custodia del fuoco primigenio dell’amore e della libertà. Una Chiesa amica di tutto ciò che è umano. Che ci ri-porti a una sorta di origine, a un ricominciamento che scavalchi tante sovrastrutture.Penso a una Chiesa dove i laici avranno un ruolo creativo non esecutivo, dove sarà ripensato il reclu-tamento sacerdotale, dove il ruolo delle donne sarà paritario rispetto a quello degli uomini.Penso a una Chiesa dove anche i sacramenti siano ripensati. Il battesimo dei bambini, che pure ha tan-te belle motivazioni, dia spazio al battesimo degli adulti o perlomeno dei ragazzi consapevoli. Penso al sacramento della confessione, che è ormai in stato di abbandono, ripensato come segno gioioso del ritrovato abbraccio di Dio. Penso all’eucaristia, perdono, parola e pane, in cui ritrovare una dimen-sione primaria di mensa comune e di presenza di Dio nel tempio delle persone. Ci sono poi tante al-tre cose che immagino o sogno: una Chiesa che sa dimenticare se stessa per servire le necessità dei piccoli, una Chiesa dove tutti i cristiani abbiano let-to e meditato il Vangelo (sembra impossibile, ma tanti non conoscono il Vangelo), una Chiesa fatta non di uniformità, ma di quella creatività che ha fatto nascere lungo i secoli una messe di liturgie, di teologie, di mistiche, di spiritualità, di forme d’ar-te, di organizzazioni.Non è l’uniformità che dà lode a Dio. Dio è creato-re, ed è la creatività che gli dà lode.

Quindi la Chiesa che sogni è una chiesa dove ci sarà spazio per tutti, per i divorziati, per una famiglia nella vita del prete, per nuove forme di vita fraterna in cui le diverse vocazioni si possano

integrare e fecondare a vicenda…?Una Chiesa dove ci siano forme molto più ricche, molto più vaste di adesione al Vangelo, dove ci siano vocazioni moltiplicate rispetto a quelle che abbiamo vissuto fino ad oggi. Credo in una Chiesa più madre che maestra. Credo che la Chiesa riman-ga fedele a se stessa solo se muta al soffio dello Spirito, altrimenti non è fedele a se stessa, ma solo a una forma, una delle tante forme che ha raggiunto attraverso i secoli. La Chiesa non è né monarchica, né democratica (come siamo abituati a pensare). La Chiesa è sinodale (sýnodos vuol dire letteralmente “strada insieme”). La strada della Chiesa è fatta di molte strade fatte insieme, di questo fare strada, camminare, convergere, di questi molti che creano molti sentieri. Ed è in questa diversità che intrave-do l’esultanza di Dio.Dio – mi arrischio a dire cosa sente Dio… – ha gio-ia vedendo una creatività, una capacità di accompa-gnare a Dio in modi diversi, di trasmettere con luci e colori diversi la sua presenza, la sua forza.Infine vedo una Chiesa mistica, giovannea, meno dogmatica. La mistica che permette l’incontro tra le religioni, che raggiunge quel substrato umano universale dove Dio è al lavoro in alto silenzio e con piccole cose, e lo Spirito diffonde i suoi semi di verità e di fuoco.

In che cosa consiste la missione profetica della Chiesa?Questa è la profezia della Chiesa: aiutare ognuno a custodire il soffio divino che c’è in lui. Questo è il massimo che possiamo fare; perché ciò che mi costituisce come uomo è il soffio di Dio in me, ciò che fa Adamo diverso da tutte le creature è il respi-ro di Dio in lui. E allora ogni credente può aiutare gli altri a custodire e coltivare il soffio di Dio, per-ché già respira in noi, è dato, non è da conquistare: dobbiamo solo prenderne coscienza e custodirlo.

Il testo qui riprodotto è l’estratto di un’intervista molto più ampia pubblicata nel libro di Ermes Ronchi “Il futuro ha un cuore di tenda”, a cura di Luca Buccheri, Edizioni Romena.

Luca Buccheri cura la rubrica mensile “La tenda e la vela” su www.romena.it

Non insegnate ai bambini, non indicate per loro una via conosciuta,

ma se proprio volete insegnate soltanto la magia della vita.

Foto di Alexandra Calandrin

Giorgio Gaber

16

Foto di Alexandra Calandrin

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Un sogno ci spinge a varcare il confine, un sogno che impazza e innamora l’universo.

David Maria Turoldo

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“Ci sono mani buone ad asciugare le lacrime: quelle delle madri, quelle dei pagliacci, quelle di chi sa scrivere.” Così recita l’agenda di Romena citando una frase di Erri De Luca, sabato 2 giu-gno, vigilia della nostra domenica dedicata alla famiglia e ai bambini e, se nulla viene a caso, mi piace leggervi un buon viatico.Non so se convieni con me, ma se c’è qualcuno che può insegnarci a sognare questi sono i bimbi, o chi ha conservato ancora abbastanza spirito infantile da farlo rifiorire anche negli altri.Una storia che amo tanto narra di un santo che si fermò nella piazza principale del paese. Una madre lo scorse nel cortile, mentre faceva divertire i bambini. “Oh”, disse a suo figlio, “quello è proprio un santo; puoi andargli incontro, bimbo mio”. Il santo posò la mano sulla spalla del nuovo arri-vato e chiese: “Che cosa vuoi fare?”“Non lo so. Che cosa vuoi che faccia?”,”No, dim-

mi tu cosa vuoi fare”,”Beh, a me piace giocare”“Allora vuoi giocare con il Signore?” Il ragazzo non seppe cosa rispondere e allora il santo con-tinuò: “Vedi, se tu potessi giocare con il Signore, sarebbe la cosa più bella del mondo. Tutti lo prendono talmente sul serio che lo rendono mor-talmente noioso… Gioca con Dio, bambino mio: è un meraviglioso compagno di gioco”.Ebbene, stenterai a crederlo se non eri presente alla nostra domenica, ma queste parole hanno preso casa a Romena: un santo, anzi una santa, con un saio marrone cinto di corda la mattina e trasformato in abito da clown il pomeriggio, ci ha fatto giocare con Dio!Suor Linda, questo il suo nome, ha alla base un grande “sogno”, quello di riuscire, attraverso il metodo narrativo, l’arte del gioco di prestigio, un pizzico di fantasia e una buona dose di gioia, a far “immaginare” ai bambini, e non solo, il Dio di Gesù come qualcuno di vivo e vero, qualcuno mol-

Non basta un naso rosso da pagliaccio per giocare. Però aiuta. E il gioco permette all’im-maginazione, schiacciata dal nostro realismo quotidiano, di inventare nuovi spazi. Cronaca di una giornata speciale pensata per le famiglie, che Romena ha dedicato al gioco. Pratagonista una suora-maga e tanti bambini…

Rimettiamoci in gioco!di Giorgio Bonati

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to vicino, perché tutti si possa avere il coraggio e il desiderio di sperimentarlo nella vita di tutti i giorni.Questa ‘pagliaccia’ ha preso per mano i nostri so-gni e ci ha trascinato in un mondo fantastico, ci ha fatto rivivere la parabola della pecorella smarrita come nessuno mai, ha intessuto il suo spettacolo di un filo rosso, il colore dell’amore, che ogni tanto sbucava fuori come la sua colomba dal nulla, e ci ha fatto percorrere questa strada colorata, distin-guendola ed elevandola sempre ben al di sopra di quella verde del denaro o gialla del potere.Credo che quando ci si immerge in una determi-nata lunghezza d’onda, tutto il creato ci venga incontro e così non poteva non arrivarmi un’altra buona dose di allegria pro-prio mentre sto scrivendo queste parole. Un frate, che è pure cardinale, ha detto così nella sua predica ai miei amici a Milano qualche giorno fa: “In una delle mie diocesi precedenti, nell’isola di Martha’s Vineyard c’è una chiesa molto bella dedicata a Sant’Agostino. Le vetrate raffigurano dei simboli che rappresentano i sette sacra-menti. Entrando in chiesa, la prima vetrata che uno vede è quella che rappresenta il sa-cramento della confessione con le chiavi incrociate, la stola sacerdotale e le parole del Vangelo: “Go and sin no more” cioè: “Va’ e non peccare più”. In estate fa molto caldo e poiché non c’è aria condizionata aprono tutte le finestre della chiesa. Di quella finestra in partico-lare si apre solo una imposta, precisamente quella su cui è scritta la parola “no”, per cui quello che i turisti leggono entrando in chiesa è: “Go and sin more” cioè “Vai e pecca di più”. In tutti gli anni in cui sono stato Vescovo in quella Diocesi non ho mai sentito una parola di protesta a riguardo. L’ironia è che naturalmente molti pensano che noi cattolici siamo gente del “no”. Non fare questo, non fare quest’altro. In realtà noi siamo gente del “sì”. Sì a Dio, all’amore, alla vita!Chissà cos’è che ci fa credere il contrario, mi chiedo spesso!

Perché non riusciamo ad immaginare anche noi che Dio continui a camminare la nostra stessa strada, a godere dei nostri ‘successi’ e a patire nelle difficoltà, perché l’abbiamo fatto tornare lassù senza comprendere che o è anche quaggiù impastato nelle nostre storie o non ci interessa, non ci può interessare un Dio lontano.Ho scoperto che il buon Albert Einstein un giorno ebbe a dire: “L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l’immaginazione circonda il mondo”. Penso che i grandi scopritori non possano che avere una mente aperta in tutte le direzioni, capaci di immaginare cose sconosciute, quelle che nessuno ancora ha

scoperto e immaginare un mondo migliore di quello in cui viviamo, e, ovviamente, mettersi a lavorare per co-struirlo.E allora cosa aspettiamo? Vogliamo tutti insieme pro-vare a credere nel sogno che abita ognuno di noi, a credere che il mondo può migliorare solo se lo voglia-mo, solo se miglioreremo noi per primi? E da cosa iniziare se non dalla passione per il ‘lavoro’ che ognuno sta facendo? Ricordate la storia dei tre

tagliatori di pietra? Al primo viene chiesto cosa stia facendo e risponde: “Sto tagliando una pietra”. La stessa domanda viene posta al secondo: “Sto creando una scultura”. Il terzo invece esclama: “Sto costruendo una cattedrale”.“In tempore famis 1152” è l’iscrizione all’ingresso della nostra pieve: se i nostri antenati sono riusciti a costruire una pieve così bella in tempo di carestia, che manca a noi per costruire un mondo migliore, almeno il nostro, quello che ci gira attorno ogni giorno?La luna piena fa capolino in cielo: sono proprio un inguaribile ottimista a credere che l’universo intero sia dalla mia parte? Voglio almeno sperare che, come diceva Erri De Luca, le mie mani che scrivono possano servire almeno ad asciugare una lacrima, almeno una.

Guarda il video dell’incontro su www.romena.it

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Come si può camminare oltre il rancore? Qual è la strada per cercare di riconciliarsi con gli altri e con se stessi quando abbiamo ricevuto un grave torto? Agnese Moro, la figlia del grande statista ucciso dalle Brigate Rosse, ci racconta il suo percorso di vita. Lo fa in occasione della presentazione, a Romena, di un libro scritto da Carmelo Musumeci, un ergastolano che ha raccontato le sue uniche undici ore di libertà. Ecco alcuni frammenti della sua testimonianza.

Aldo Moro, il mio papà Era mio padre. Era la persona che mi faceva dire le preghiere la sera, che mi teneva la mano quando mi addormentavo. Era la persona che non stava mai abbastanza con noi perché aveva tante cose importanti da fare fuori. Così, quando cade-va un governo di cui faceva parte era un momento di grande gioia per noi figli perché ce lo pote-vamo godere di più. Papà credeva in cose molto simili a quelle di tutti quegli italiani che, come lui, avevano vissuto l’esperienza della guerra. Credeva in un Paese in cui ci fosse posto per tutti, in cui nessuno fosse escluso. Ed era convinto che, per realizzare questo obiettivo, ogni vita potesse fare la differenza. Lui, per primo, si impegnava a fondo, con serietà, con la responsabilità di chi sentiva il popolo italiano come un’entità con-creta, reale. Ricordo una sua curiosa abitudine: d’estate, quando andavamo al mare, scendeva in spiaggia in giacca e cravatta. Il popolo italiano andava rappresentato con dignità.

La strage di via Fani C’è una foto nel libro che ho scritto su mio pa-dre che ci ritrae mentre io dormo sulla sua spal-la. L’ha scattata il maresciallo Leonardi, il capo scorta di papà. Spesso si parla delle scorte come di persone mandate lì a fare una cosa, un dovere e basta. Invece le persone che fanno la scorta lo fanno quasi sempre con l’intenzionalità di con-dividere la vita con le persone che proteggono. Le persone della scorta di mio padre potevano fare altro, sapevano del pericolo. Ma non l’han-no voluto lasciare solo. Molti di loro erano con mio padre da anni. Li conoscevo tutti benissimo. Solo uno, Francesco Zizzi, era la prima mattina che faceva parte della scorta di mio padre. Quel giorno, il 16 marzo, è morto insieme a tutti gli altri.

L’inutile attesaDurante la sua prigionia mio padre ci scrisse in una lettera: “Non c’è niente da fare quando non

Dalle ferite al perdono

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si vuole aprire la porta”: ed è quello che noi ab-biamo visto, questa porta che invece di aprirsi si chiudeva, nell’indifferenza del mondo politico. In qui 55 giorni abbiamo vissuto tra tanta ansia, dolore, rabbia, angoscia. Ma anche speranza. Abbiamo sperato fino alla fine.

L’elasticoLa morte di mio padre ha avuto l’ef-fetto di una bomba che esplode in un mercato. Difficile raccontare quella devastazione. Oltre al dolore per la per-dita, c’era la rabbia, c’era la spettacola-rizzazione della morte, tantissimi elementi mescolati insieme, si era cre-ato come un grumo che ognuno si vive-va da solo. Io ho continuato la mia vita come prima. Mi sono sposata, sono arrivati tre figli. Apparen-temente tutto bene, ma è come se tutta la vita fosse segnata da un elastico: vai avanti, ma c’è qualcosa che ti tiene fermo tra quelle due date, 16 marzo e 9 maggio, e rischia sempre di ri-portarti indietro. E in fondo tu quell’elastico non lo vuoi spezzare, perché non sai a chi affi-dare quelle persone.

Ama il tuo nemico Ho incontrato Franco Bonisoli circa un anno fa. Faceva parte del commando che ha rapito mio padre. Un incontro di questo genere viene da due lontananze, da due cammini che partono da queste lontananze per arrivare a un punto d’in-contro. Non sono cose che si fanno in un giorno. Il cammino di avvicinamento è stato preparato da un lavoro di riflessioni, di incontri, di scam-bi. Dentro tutto questo c’è l’affetto che io ho per Gesù, un affetto che mi spinge a prenderlo sul serio quando dice: “Amate i vostri nemici”. Non dice perdonate, ma amate i vostri nemici.

E quella parola sta lì, per quanto tu la voglia respingere. È un cammino lungo che da una parte riguarda il superamento del rancore e il riconoscimento di un’umanità, e dall’altra il capire quello che si è fatto, e una volta capito non restarne uc-ciso. C’è un dolore anche di chi ha compiuto gesti irreparabili, e capendolo rischia di restarne

schiacciato. Alla fine incon-trarsi non è stato difficile: il diffici-le è abbandonare l’idea di avere dei mostri e trova-re delle persone. Una volta che ti incontri i mostri spariscono e re-stano le persone, persone che han-no fatto cose sba-gliate, che vorreb-bero riparare. E

non so come, ma questi due dolori, invece che respingersi, si incontrano.

Il dolore delle vittimeGli autori materiali dell’assassinio di mio padre hanno fatto decine di anni di carcere. Dovrei es-sere contenta. Dovrei sentire di aver avuto giu-stizia. No, una ferita così non si rimargina, non guarisce col carcere che fanno gli altri. Mi ha fatto molto più bene incontrare alcune delle persone coinvolte nella vicenda di mio pa-dre, come Franco, è stato più riparativo quello, sapere che sono dispiaciuti, che non lo rifareb-bero mai più. So che altri vittime di reati pen-sano diversamente. In realtà il vero dramma di chi si trova in queste situazioni è che spesso si sente solo, che la società non lo aiuta. Questo isolamento è mortale. Perciò quello che di più può aiutare le vittime non è aumentare le pene di chi ha commesso i reati, ma farle sentire meno sole. È davvero importante far sentire che non dovranno portare quel peso immenso senza un aiuto.. Che quel fardello non è solo sulle loro spalle, ma ce lo assumiamo tutti insieme.

Ascolta o scarica l’audio dell’incontro alla pagina podcast di www.romena.it

Il Gruppo Nain di Firenze? Prima di tutto sono delle persone, dei genitori che hanno perso un figlio e che prima o poi sono appro-date a Romena alla ricerca di aiuto. Per molto di noi la Fraternità di Romena, i gesti e le parole di Gigi hanno rappresentato il luogo della speranza, in cui quel dolore terri-bile e crudele poteva almeno essere addolcito, lenito. Nel 2003 si formò il Gruppo chiamato Nain e si crearono attività, incontri a Romena per noi.

Poi venne l’idea l’anno scorso, di creare un Associazione a sé stante a Firenze, pur sem-pre collegata con Romena e mantenendo gli incontri mensili stabiliti nella pieve del Ca-sentino. Anche noi volevamo fare casa, dicia-mo una “seconda casa” nella città di Dante.

L’obiettivo è l’accoglienza, il dialogo, il con-tatto, con tutti quelli che hanno dovuto affron-

tare, e stanno affrontando, un lutto di questa natura. Vogliamo farlo con parole semplici, con gesti leggeri e trasparenti, quelli che ab-biamo imparato a Romena, per condividere con altri genitori-orfani qualche passo, con-tinuando ad imparare a camminare con loro.L’Associazione Gruppo Nain si prefigge an-che di promuovere incontri, eventi, attività che possano essere utili, per noi e per altri. Ci siamo dotati di un sito internet www.grup-ponain.it, di una casella di posta [email protected] il primo compito che ci siamo dati, dal mese di maggio scorso è quello di accoglie-re in un locale a Firenze (più precisamente a Rovezzano ora) il sabato pomeriggio, facendo dei turni, i genitori di Firenze.Non vogliamo sostituirci agli psicologi, natu-ralmente, che possono e forse devono essere comunque contattati quando il dolore è nella sua fase più acuta. E non vogliamo neanche

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Da dieci anni un gruppo di famiglie si ritrova periodicamente a Romena per camminare insieme oltre il dolore più grande: la perdita di un figlio. Da qualche mese molte di queste famiglie hanno deciso di compiere un nuovo passo: dar vita a un’associazione, con sede a Firenze, che abbia come finalità principale quella di accogliere chi si dovesse trovare nella loro stessa situazione. Federica Caffè, presidente della neonata Associazione Gruppo Nain, ci presenta questa nuova realtà.

di Federica Caffè

L’amore infinito

sostituirci a chi, per scelta o per vocazione, è in grado di fornire un conforto di natura reli-giosa in senso stretto. La nostra cercherà di essere, semplicemente, accoglienza, con le braccia e con il cuore aperto. In questo ci aiu-teranno, come fanno già a Romena Maria Te-resa Abignente e Luigi Padovese, con la loro grande esperienza.

Tutto questo lo abbiamo voluto annunciare durante un evento, che si è svolto il 3 mag-gio a Firenze, al teatro Reims. L’involucro ovviamente tutto romenino: presentazione di Massimo Orlandi, musicisti guidati da Ti-ziano Mazzoni, e ospiti di rilievo: Giovanni Galli, membro anche lui del Gruppo Nain di Romena, Carol Tarantelli, la vedova dell’eco-nomista e Angela Terzani, vedova di Tiziano. Abbiamo sentito il calore di amici, parenti e altri interessati, incuriositi da quest’iniziativa, è stata, sì, una bella serata, sobria e significati-va. Uno di noi ha detto: si tratta di trasformare questo grande dolore in qualcosa di buono…semplicemente. “Lo avete voluto e avete la-sciato che fluisse da voi ancora una volta la vita” grazie Maria Teresa di aver commentato così la serata.

Qualcuno dubita, pensa che questo stare insie-me sia un crogiolarsi nel dolore, un ripensare sempre alla stessa cosa, qualcuno dice: non è meglio distrarsi? Divagarsi? Certo, la nostra vita è fatta anche di tante altre cose, cose vi-tali, allegre, ma forse si tratta di due cose qui: il senso di Cura, e il senso di equilibrio.Cura perché Gigi ci chiede: dov’è il vostro tesoro? E lo dobbiamo individuare…e poi dice: allora lo dovete curare! E se il nostro figlio/a è uno dei nostri tesori (alla pari con quelli che compongono la nostra famiglia in terra) lo dobbiamo curare, prestargli attenzio-ne. Se c’è per tutti i genitori un Prima e un Dopo, rispetto alla morte del figlio, la cura, nella presenza e nell’assenza, è proprio quello che unisce questa divisione.Equilibrio perché è quello che ricerchiamo tutti, tutti noi genitori, col piede malfermo spesso, col dondolio come su una barca, e

reggendoci col braccio alla scotta (come il marinaio del capitello di Romena) proviamo a stare in piedi. Lo facciamo per noi e per loro. E anche per i loro fratelli che hanno bisogno di noi. Si tratta in fondo del sentimento fon-damentale: dare e ricevere amore, e quando siamo nell’amore tutto è unito, corpo, mente e anima (per citare ancora una volta Gigi), dan-do un senso di equilibrio.Per tante altre cose ci riuniamo a Firenze, e ci riuniamo a Romena, l’uomo è un animale sociale, ci fa bene, e se poi riusciamo a dare anche qualcosa agli altri, oltre che ricevere, tanto meglio.

Lunga vita a Romena e al suo Gruppo Nain che ha ora una costola a Firenze.

Foto e video dell’incontro su www.romena.it

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Non sapevo neanche che esistesse San Pancra-zio, prima di loro. E forse, anche San Pancrazio esiste davvero da quando Rita e Vittoria vivono lì. Vi ci porto. Da Romena scendiamo a Castel San Niccolò, poi da qui si risale, curve e controcurve, lungo il Pratomagno. Intorno sempre meno case e sempre più foresta. Quando la strada spiana, quasi per rifiatare, è il segno che siamo arrivati. San Pancrazio è una manciata di case, neppure un borgo. La chiesa le anticipa, come una ve-detta.Lasciata la macchina, mi muovo a piedi verso la canonica. L’affaccio è su un mare di pini secola-ri, di querce, di castagni. Si respira aria leggera, l’aria dei monti. Incontro legno, pietra, fiori, ver-de, piante. Tutto essenziale, armonico, vivo. È una congiura di bellezza. Il primo saluto di suor Rita e Vittoria.

Una amica suora, una volta mi confidò che, nella fedeltà alla sua scelta, avvertiva però spesso una fatica. “A volte – diceva – sento aria stretta nella mia vita di religiosa”. Quando l’aria si fa stretta la corrente impetuosa di una vocazione corre il rischio di strozzarsi. Rita e Vittoria hanno tro-vato la forza di dare un nome al loro disagio. Rita stava da 23 anni in un monastero domenica-no nel bergamasco, Vittoria da cinque. Non era in discussione la fedeltà a una chiamata, ma il modo di rispondervi. San Pancrazio non c’era allora, c’era solo il dubbio, lo smarrimento, il bisogno di essere aiutate a capire. Sorella Maria di Campello chiamava con un nome di fiore, “violetta”, la crisi che l’aveva condotta a lasciare il suo ordine, per cercare un luogo dove vivere con più radicalità e semplici-tà, al riparo dalle strutture, la sua missione fran-cescana. “Violetta” era il profumo delicato del

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Inizia da questo numero un viaggio nei “luoghi di Romena”, cioè in quelle realtà che, in piena autonomia, condividono il nostro cammino a distanza. La prima tappa è a San Pancrazio, 15 km dalla nostra pieve, dove suor Rita e Vittoria hanno realizzato il loro sogno: aprire una porta di accoglienza, per incontrare le persone. E camminare con loro.

C omunità diSan Pancraziol’eremo dal cuore di donna

di Massimo Orlandi

nuovo che le consentiva di affrontare la paura della precarietà, il rischio del fallimento. Qual-cosa di simile devono aver sentito Rita e Vittoria, come un filo delicato che è passato per l’incontro con don Luigi e con Romena, per poi arrivare qui, dove sono io oggi, davanti alla porta su cui c’è scritto il loro nome, e quello della comunità che hanno aperto.

Rita ha i capelli biondi, corti, e un accenno di sorriso permanente, che deve venire dall’anima. Non ha età, e se ce l’ha è ogni volta qualcosa di meno. Vittoria ha uno sguardo profondo e diret-to, il volto scavato di chi non si tira mai indietro, gli occhi appassionati di chi sa che ogni momento contie-ne un brandello di verità, e la vuol cat turare . Due donne. Due donne di fede. Due don-ne semplici: “Siamo venute qui la prima volta perché ci avevano detto che la Diocesi di Fiesole aveva ristrutturato questo posto, ma senza dargli una destinazione precisa. Quando siamo entrate abbiamo avuto la sensazione che questo posto fosse stato costruito per noi, perché potessimo aprirlo”. C’è una nota d’armonia che entra in tutte le stanze, in quelle riservate agli incontri e negli spazi per la notte, nella grande cucina come nel laboratorio. Non lo chiamerei ordine, è di più, una cura amorosa che tocca ogni angolo. È la specialità della casa: l’accoglienza dal cuore di donna. “La nostra ospitalità è basata su picco-le attenzioni, la casa preparata con semplicità, i fiori sul tavolo, un biglietto sul letto, la cura del cibo. Accogliere per noi vuol dire far sentire l’ospite a casa, offrirgli semplicità, tenerezza e tanto ascolto. Ed è quasi naturale che sia così: la donna è chiamata ad accogliere la vita addi-

rittura dentro di sé e quindi è quasi struttural-mente preparata per l’accoglienza”.

A San Pancrazio si può venire da soli, in coppia, in gruppo, si può venire per staccare la spina, o anche per accenderla partecipando alle attività di gruppo che Rita e Vittoria periodicamente pro-pongono. In ogni caso non cambia lo stile di vita che qui viene offerto. La giornata vive di ritmi regolari, non forzati. Spazi di preghiera, di con-divisione, di lavoro, si alternano alle passeggiate nel bosco, ai momenti di silenzio che ciascuno

può regalarsi. Vicino alla casa c’è un orto che ha bisogno di cure pazienti, a fianco dell’atrio, oltre una grande vetrata, un labo-ratorio dove, chi vuole, può di-pingere. Natura e arte sono fedeli compagne per chi viene qui:

“Occuparsi di qualcosa ci insegna a prenderci cura di noi stessi e degli altri. Ci insegna a gu-stare la meraviglia e a renderne grazie”. Rita e Vittoria conoscono bene l’atmosfera di un convento. Non l’hanno reinventata, ma sempli-cemente alleggerita aggiungendo una nota di al-legria. A sera, prima di cena, gli ospiti si tengono per mano intorno alla grande tavola e ascoltano danzando una canzone di Battiato, “Tutto l’uni-verso obbedisce all’amore”. È proprio così.

Non è tutto facile. La comunità è piccola, la casa molto grande, l’inverno lungo e le incombenze infinite. Ma anche la fatica fa parte del cammino di crescita. “In questi anni – ricorda Vittoria – mi ha guidato una frase del cardinale Suenens. Dice così: “Beati coloro che hanno l’audacia di sognare e che sono disposti a pagare il prezzo perché il proprio sogno prenda corpo nella pro-pria vita”. Non è stato facile, non sarà facile.

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Però quello che vivo qui a San Pancrazio final-mente corrisponde al mio sogno”. Rita e Vittoria sentono che venire qui non ha modificato la traiettoria della loro vocazione. Ma l’ha resa più viva, più vera: “La nostra è la spiritualità domenicana: una spiritualità che allarga la tenda del proprio cuore per far spazio all’altro con la A maiuscola, ma anche all’altro che viene qui e che incontriamo”. Incontro, ascolto, semplicità. Il vocabolario di San Pancrazio è parco di parole. A queste tre basta aggiungerne una quarta, preghiera, che le illumina tutte. Preghiera intesa come spazio nel quale incontrare la voce di Dio nelle scritture, nel canto, nel silenzio. Preghiera come modalità di vivere il quotidiano trasformandolo in offerta, in dono.Riparto. Anche il distacco è un momento dell’ac-

coglienza. Forse quello più delicato. “Vorrei – mi dice Rita – che ciascun ospite che lascia questo luogo portasse con sé uno spazio di pace, un desiderio di luce”. La luce dell’estate accende l’erba ben tagliata, poi scende verso i campi, va a nascondersi nel bosco. Si starebbe ore a inseguirla. “Quando nulla accade c’è un miracolo che non stiamo vivendo” ha scritto Guimaraes Rosa. San Pan-crazio è anche questo. Un invito ad accorgersi della vita.

COMUNITÀ San PANCRAZIOLoc. San Pancrazio, 57 52018 Castel S. Niccolò (Ar)

Tel. 0575/555063 [email protected] - www.spancrazio.it

Offriamo la possibilità a persone singole o a piccoli gruppi di

essere ospitati per condividere la nostra vita quotidiana.

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Agosto 2012

VITA CONDIVISA 29 luglio - 3 agosto

26 agosto - 31 agostoVivere in semplicità, armonia e bellezza

CAMPO DI LAVORO 13 agosto - 19 agosto

Lavoro e cammino interiore per una convivenza armoniosa

TEMPO DI FRATERNITÀ 6 agosto - 30 agosto

Info e iscrizioni: 338.6901122 - [email protected]

S. Maria a Ferrano

EREMO DI SILENZIO 12-19 Agosto

Uno spazio di ascolto profondo per ritrovarsi

EREMO DI LAVORO 19 Agosto - 1° Settembre

Per coltivare l’amicizia e la cura del luogo(È possibile partecipare anche solo per alcuni giorni)

Quorle

Info e iscrizioni: 0575. 520287 - [email protected]

Info e iscrizioni: 0575.582060 - 339.7055339

Romena

Dedicare una parte delle proprie vacanze all’in-contro con se stessi e alla condivisione con gli altri, al riposo, al silenzio, al lavoro, all’ascolto. Ecco alcune proposte di Romena, di Quorle e di Santa Maria a Ferrano per vivere periodi alter-nativi al nostro quotidiano, in cui riscoprire ritmi più naturali per il nostro corpo e la nostra anima.

“Con la saggezza del contadino e la spiritualità del monaco”

casa aperta: è possibile iscriversi per uno o più giorni

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ccvvv

Sarà dedicata al più grande dei sentimenti, l’amore, la festa d’estate della Fraternità. La forza, la bellezza, il ruolo dell’amore nella nostra vita saranno al centro dei due incontri in programma: al mattino sarà con noi Carlo Molari, teologo, capace di aprire il nostro sguardo e le nostre menti alla meraviglia del creato, mentre nel pomeriggio potremo ascoltare Roberto Mancini, filosofo capace di coniugare lo studio e le intuizioni del ricerca-tore con la passione e il coinvolgimento del credente. Nel corso della giornata saranno disponibili e fruibili alcuni spazi della fattoria che stiamo ristrutturando. La festa si concluderà con un concerto del gruppo “Suonifuorilemura” di Gaeta.

Festa d’estate 2012Domenica 22 luglio

Ore 10 Lode del mattino nei nuovi spazi della fattoria

Ore 11 “Dio quando ama ha gesti umani” Incontro con: CARLO MOLARI - teologo

Ore 13 Pranzo comunitario

Ore 15 “L’uomo quando ama ha gesti divini” Incontro con ROBERTO MANCINI - filosofo

Ore 16.30 Momento di ristoro nei nuovi spazi della fattoria

Ore 17 Messa

Ore 18 Concerto del gruppo “Suonifuorilemura”

Pro

gra

mm

a

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l mio sogno era il sogno di molti. Una grande famiglia felice. Non quella da spot pubblicitario, ma una famiglia vera,

reale e per quello felice. Finalmente sembrava che il sogno fosse arrivato. Il matrimonio, un bel bambino sano e una bambina in arrivo. Non ci mancava niente fino al giorno in cui all’ecogra-fia dei tre mesi lo schermo non mostrò più quel piccolo cuore pulsante che una settimana pri-ma, in un altro controllo, batteva vivacemente. Il sogno si infranse in quella stanza d’ospedale quando quel bambino che tutti festeggiavano con gioia diventó una presenza imbarazzante.Quando qualcosa non va bene a te diventa un tabù per gli altri. Ti dicono di dimenticare, che in fondo non era nemmeno un bambino. Tu prima combatti fra le lacrime, ma poi, sfinita, ti pieghi a quello che tutti intorno ti dicono. Metti via quel-la tutina comprata con amore il giorno che per la prima volta hai visto battere il piccolo cuore di tua figlia sullo schermo dell’ecografo e cer-chi di dimenticare il sogno. Ma si puó dimenti-care un figlio? Passano gli anni e nascono altri figli… eppure quel piccolo cuore batte ancora nel tuo. Ci pensi a Natale, a Pasqua,nella data in cui forse sarebbe caduto il suo compleanno. Ci pensi quando vedi una bambina che ha l’età che avrebbe avuto lei. Poi accade l’impensabile, accade che perdi un altro bambino. Che un altro piccolo cuore scompare dallo schermo dove ti aspetti di vederlo battere.Stavolta non dai retta a chi ti dice di dimenticare, sai già che non è possibile. Non puoi cambiare quello che è successo ma puoi cambiare quello che pensa e che dice la gente, puoi mantenere vivo il ricordo perché scopri che quando ne parli tu tante altre persone ti dicono: è successo a me, a mia moglie, a mia sorella, a mia madre, ai

miei vicini… Scopri che tanti non hanno dimen-ticato e che portano un Piccolo angelo nel cuo-re. Così con mio marito abbiamo fondato Piccoli Angeli Onlus in memoria di Elettra e Lapo, i figli che portiamo nel cuore non potendoli stringere tra le braccia.Li abbiamo chiamati Piccoli Angeli perché in tut-te le grandi religioni gli angeli sono i messaggeri e loro hanno portato un grande messaggio nel-la nostra vita: che l’amore non muore. È stata dura riconoscere ed accettare questo messag-gio, però attraverso la realtà della loro assenza abbracciamo il sogno di un mondo migliore: un mondo che rispetti ogni vita, anche la più pic-cola, che rispetti ogni dolore, che non faccia la lotta su cosa è o non è vita,fra chi è pro o con-tro l’IVG, ma che capisca che anche chi ha fatto questa scelta soffre. Aiutiamo noi stessi attraver-so l’aiuto che diamo ai genitori che hanno perso un figlio a qualsiasi stadio della gravidanza e dopo la nascita. Li aiutiamo a ricordare e a capi-re che si può amare oltre la vita, oltre la morte. Non abbiamo mai abbracciato i nostri figli nella realtà, li abbracciamo nel sogno e al contempo abbracciamo il sogno di una grande famiglia at-traverso la realtà di tante famiglie che insieme alla nostra cercano di ritrovare la serenità nel ricordo dei figli perduti, ma vivi nel proprio cuore.

uando lavoravo alla tesi di laurea ho in-contrato una raccolta di poesie uscita negli anni ‘30: “Realtà vince il sogno”, di

C. Betocchi. Lo confesso, mi ha sempre affasci-nato quel titolo, al di là della poesia; aveva per me un’attrazione particolare, quella della sco-

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Federica, madre di quattro figli e di due Piccoli Angeli

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perta, del sogno che si fa premonitore e impal-pabile guida (mi sorprende ancora quante vol-te “in sogno” nella Bibbia si entra in contatto la vita), della realtà come campo di azione e anche di vertigine, quando l’occhio si fa attento, il cuore in allerta e la mente apre a nuove prospettive. E adesso, con molti anni in più di allora, guardo ancora con stupore alla realtà del mio vissuto, con i suoi desideri che non sono diventati “so-gni reali”, con i suoi fallimenti, le sue dolorose fratture, le perdite, le parole dette e quelle non dette, a volte ancora più pesanti. Ma con più lu-cidità ancora mi si aprono nuovi orizzonti, colgo nelle perdite nuove possibilità, aperture e spazi, intesso trame di relazioni come si fa con le strofe di un canto, perché canto diventa la vita. Così mi accorgo che spesso mi sono soffermata su quello che non corrispondeva ai miei desideri, non assomigliava a quello che volevo, e l’ho giu-dicato e classificato, gli ho attaccato un’etichetta e collocato tra la parte delle perdite degli inevi-tabili bilanci. Solo perché non corrispondeva a quello che volevo? Perché perdersi l’occasione di vedere altro, di cogliere quello che sta oltre il nostro giudizio e la nostra semplificata etichet-ta? E davanti ad un uomo, perché semplificarne il mistero liquidandolo con sommaria condanna, senza lasciarsi interrogare nel profondo, ascol-tare il cuore, conoscere ciò che accade dentro e fuori di noi? Si può perdere molto, ma altrettanto è lì davanti a noi, davanti ai nostri occhi che si concentrano sul dolore e non riescono a vedere altro, mentre altro fruttifica e fiorisce, con la pa-zienza e i tempi della terra, con le sue stagioni, con i suoi minimi ed immensi cambiamenti che non sfuggono allo sguardo trepidante e attento del suo custode. Così, in silenzio, custodisco la vita che con il suo vertiginoso incedere, vince il mio sogno e fa nascere un canto di grazie. Perché non è quello che ci accade che ci può schiacciare, è come ci stiamo dentro il nostro abbraccio alla vita.

ognare è una cosa molto seria. Il sogno è l’anticamera della realtà, il laborato-rio dove le nostre idee, le aspirazioni

e la nostra vita cominciano a prendere forma; il sogno ci fa innamorare di un progetto, ci infonde passione, amore e tensione verso il risultato.

A grandi sogni corrispondono grandi fatti… Cri-

sto, Gandhi, Mandela, Martin Luther King, Ma-dre Teresa di Calcutta… e tanti ancora hanno coltivato un sogno nel cuore, sono rimasti fedeli ad esso nel corso delle loro vite, realizzandolo fino all’ultimo dettaglio. Molti hanno pensato che i loro sogni fossero pazzie, assolutamente fuo-ri dalla norma, però… solo spingendosi oltre si può arrivare a cambiare la storia. “Siamo realisti, esigiamo l’impossibile”, diceva il Che, ed è così che liberò Cuba dalla dittatura di Batista, contro ogni logica ed aspettativa!

Per sognare in grande ci vuole coraggio: pren-dere la responsabilità del nostro destino, accet-tare la nostra somiglianza con Dio, che ci creò a sua immagine, e andare al di là dei limiti che pensiamo di avere. Non limitiamoci a sognare solo “cose facili” o “cose fattibili” perché pensiamo di non meritarci di più. Non limitiamoci a volare solo fino ad una certa altezza. Diamo spazio ai nostri desideri, per quanto assurdi possano sembrare. Se impa-riamo a dare libertà al pensiero, almeno nel so-gno, lentamente e inesorabilmente si farà strada la nostra vocazione, la nostra unicità, il nostro progetto nel mondo per il quale siamo stati a no-stra volta sognati e creati da Dio.

Non ascoltiamo mai coloro che, invitandoci al “realismo”, ci insinuano il timore che le nostre idee siano solo pazzie e che non ce la potrem-mo mai fare a trasformarle in realtà. Non per-mettiamo che il nostro granello di fede venga perduto in mezzo alla nebbia dei dubbi… certo che siamo capaci di realizzare i nostri sogni!

Elisabetta Forconi

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PROSSIMO NUMERO: il giornale in uscita a ottobre approfondirà il tema:

“I passi lenti dell’amore”.Inviateci lettere, idee, articoli, foto (termine ultimo: 15 settembre), preferibilmente alla nostra e-mail: [email protected]

UN CONTRIBUTO: il giornalino è una pubblicazione gratuita e viene inviato a tutte le persone che hanno partecipato ai corsi di Romena o ne abbiano fatto richiesta. Aiu-tateci a sostenere le spese di realizzazione e spedizione inviando il vostro contributo col bollettino allegato, oppure effettuare un’offerta ai seguenti conti correnti intestati a Fraternità di Romena ONLUS, Pratovec-chio (Arezzo):

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SEGRETERIA: per iscriversi ai corsi è necessario telefonare al nostro numero 0575.582060. Le iscrizioni ai corsi si aprono il primo gior-no del mese precedente al corso stesso.

Come diceva Walt Disney, “se lo puoi sognare, lo puoi fare!”

Nella creazione “Dio disse luce, e luce fu”. Dun-que, proclamiamo i nostri sogni a voce alta, e così sarà! E proveremo lo stupore di vedere i nostri sogni che si trasformano lentamente in realtà, giorno dopo giorno, anno dopo anno, e li sentiremo fluire insieme alla nostra fantasia mentre la realtà comincia ad assumere una for-ma familiare al nostro cuore.Quando il sogno e la realtà si abbracciano, sia-mo in comunione con il nostro creatore! Quando il sogno e la realtà si abbracciano…è allora che arriva la luce!

Per vivere … ho bisogno di aria …

ma questo non basta.

Ho bisogno di sorrisi che contagiano il cuore,

di abbracci che scaldano la pancia,

ho bisogno di cogliere sguardi che sfiorano l’anima,

di parole autentiche che smuovono dentro.

Ho bisogno di sentire ridere le farfalle,

di ammirare la luna dondolare,

inseguire le stelle che danzano nel cielo

e poi farmi toccare dalla bellezza,

coltivare il mio sguardo su di lei

per scorgerla negli angoli più nascosti della vita.

Ho bisogno di sfogliare i miei sogni e riconoscermi

nuovamente in loro

quando mi sono persa nel cammino,

ho bisogno di mettere le ali quando i miei piedi affondano

e poi mettere radici profonde nella fertilità del quotidiano,

ho bisogno di riconoscere l’armonia giusta delle cose,

di lasciarmi sorprendere dalla magia della vita,

sfiorarla tra le pieghe della realtà fino a lasciare che

smuova ogni centimetro del mio corpo

a sprigionare quella passione di vita

che travolge ogni difficoltà ed ogni pesantezza e

mi ridà quel sapore unico della Grazia di essere qui.

Alexandra Calandrin

Elisabetta Persiani

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Foto di Massimo Schiavo

E sognerò folate di vento di libertà e sabbia nei capelli, spazi senza recinti.

Angelo Casati