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Numero XVIII Autunno 2017 de compositione

de compositione - Diwali

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XVIII

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d e c o m p o s i t i o n e

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Il compositore compone innanzitutto musica, ma il pro-dotto di chi compone può essere altro che una composi-zione musicale.L’oggetto del comporre non è predeterminato, e la mate-ria composta è infinita: ciò che conta è l’atto intenzionale del raccogliere elementi diversi ma omogenei, all’interno di un tutto coerente, preferibilmente secondo un ordine estetico o concettuale.È così che si può parlare di una composizione florea-le, dove i fiori sono vere e proprie note di una sinfonia di odori, colori, sensazioni tattili. O ancora, in francese la composition è una forma di saggio, in cui bisogna per l’appunto porre in “risonanza” brani di narrativa, poesie, e immagini di opere figurative e plastiche, per mostrarne al contempo l’armonia e i nessi concettuali.

La de-composizione, però, accorda un’ulteriore libertà: la possibilità di procedere a ritroso, sciogliendo i lacci di ciò che è composto, per mettere infine a nudo la trama, la tela, o qualunque altro tipo di composto.L’arte in ogni sua forma può infatti essere vista come un viaggio indietro nel tempo, perché forse solo ciò che si è già vissuto può essere rappresentato: anche la proiezio-ne nel futuro parte sempre dal passato.È quindi un gesto eminentemente artistico la decomposi-zione, l’esperienza del tornare indietro, controcorrente e soprattutto controtempo?La risposta, forse, è nascosta nei contributi che troverete in questo numero di Diwali.

Diwali - Rivista Contaminata

L ' E d i t o r i a l

www.rivistadiwali.it

Dicembre 2017 - n.18- anno 5

Diwali - Rivista Contaminata

Trimestrale di Arte & Letteratura

In copertina: opera di Céleste Boursier-Mougenot

In quarta di copertina: The singing house

Contatti

facebook.it/diwalirivistacontaminata

[email protected]

Edizioni Les Mots Contaminés

Associazione culturale no-profit

20, Rue Condorcet, 38000, Grenoble - Francia

ISSN 2275-0606

Direttore Editoriale

Maria Carla Trapani

Direttore Responsabile

Flavio Scaloni

Redazione

Dona Amati, Pietro Bomba, Alessandra Carnovale,

Laura Di Marco, Giulio Gonella, Letizia Leone, Sara

Lombardo, Antonella Rizzo, Simone Scaloni

Ufficio Stampa

Les Mots Contaminés

S o m m a r i o

L’Editorial 3

InSistenze 4

Dinosaur Dancing di Simone Scaloni 5

Mediterraneo: la musica del mondo di Valentina Meloni 12

Mashed potato time di Gioele Marchis 18

L’arte elettroacustica di TERRA&BITS di Alessandra Carnovale 24

Le forme musicali viventi di Céleste Boursier-Mougenot di Flavio Scaloni 28

Languishing romantic loop di Lucio Costantini 31

InVerso 37

Tristano 38

Roberto Marzano 40

Valentina Meloni 42

Vincenzo Signoretta 45

Verso un “canto generale” andaluso... di Valentina Meloni 48

Focus Haiku: Akazome Emon di Dona Amati 54

InStante 57

Anna Laura Longo 58

Studio Mierswa-Kluska 62

InMobile 66

Good vibrations, improvisations for new compositions di Sara Lombardo 67

InContro 71

Patrizio Lai a cura di Laura Di Marco 72

InDicazioni 75

Cinema Farnese di Fernando Acitelli 76

Di allegorico miele - Rapsodie sarde di Ugo Magnanti 78

Come vento sul monte di Alessandra Carnovale 82

Planet of the lost dolls di Noise Cluster 84

InAscolto 86

Elettrosublimazione di Maurizio Coira 87

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Bisogna che immaginiamo il quartiere operaio di Basilea, la cittadina svizzera al confine con la Francia e la Germa-nia, nella prima metà degli anni Trenta. Siamo sul finire del 1933, sotto le vacanze di Natale, e Adolf Hitler è da poco diventato Cancelliere del Reich. A Basilea, nelle vie in cui vive la classe lavoratrice, un pomeriggio di dicembre un bambino di circa otto anni, è figlio unico e si chiama Jean, si sta dirigendo solo soletto verso il bosco, un oscuro lembo dello Schwarzwald, l’antica foresta nera ai margini della città. Neanche lui sa bene perché ma sa che deve

andare, sente forse il richiamo degli alberi e degli animali che popolano il bosco. Ha con sé uno zaino di tela ruvida con le cinghie di cuoio. Lo porta issato sulle spalle e vi ha infilato a forza alcune vecchie rotelle di legno. Sono ruote idrauliche e già da qualche tempo le ha elevate al rango di suo giocattolo preferito. Anzi, sono diventate il centro dei suoi interessi, il perno fisso intorno al quale ruotano i suoi pensieri e la sua fantasia. Verso la fine del decennio che precedette l’avvento della Seconda Grande Guerra, queste ruote idrauliche in legno con effetti sonori annes-

DINOSAUR DANCINGsimone scaloni

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“Quando morirò,

seppellitemi con la mia chitarra

sotto l’arena.”

(Da: Memento, F. Garcia Lorca)

Il termine de-composizione racchiude in sé i significati di sottoporre a disgregazione o putrefazio-

ne e di riduzione di un qualcosa ai suoi elementi costitutivi, elementi che, una volta liberati dei le-

gami originari, possono essere diversamente organizzati, in un processo creativo di distruzione/

creazione, per portare alla luce qualcosa di nuovo rispetto all’entità precedente.

Trasformazioni simili non sarebbero tuttavia pensabili senza l’azione del tempo, che, implacabile

e inarrestabile, lascia il suo segno su ogni cosa, come intende indicarci Jean Tinguely (Simone

Scaloni) con la sua Arte Cinetica e il suo lavoro di ri-composizione di materiali, spesso di recupe-

ro, un’arte, questa dell’assemblaggio che ritroviamo, con modi e stili differenti, nello statunitense

Edward Kienholz, funk artist capace di svelare, con le sue installazioni ambientali, gli aspetti in-

quietanti e oscuri del mondo delle sue radici popolari e contadine (Gioele Marchis).

Ancora composizioni, questa volta finalizzate alla realizzazione di strutture sonore insolite, o, più

precisamente, “forme sonore viventi” caratterizzano il lavoro di Céleste Boursier Mougenot (Fla-

vio Scaloni), in cui gli elementi del mondo naturale giocano un ruolo preponderante, mentre l’ar-

te elettroacustica di Terra&Bits (Alessandra Carnovale), attraverso la realizzazione di sculture

sonore in terracotta, ci apre a nuove forme di contaminazioni culturali e artistiche.

Dalle sonorità della terra passiamo, quindi, con Valentina Meloni, a lambire le coste del Mediter-

raneo, per ascoltare, di tappa in tappa, le canzoni dei principali cantautori italiani che al mare no-

strum si sono ispirati.

Chiude la rubrica Lucio Costantini che ci presenta The Visitors, visionaria opera dell’islandese

Ragnar Kjartansson.

Alessandra Carnovale

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si diventarono le sue prime opere d’arte e in futuro egli le chiamò Opere Meta-meccaniche o Méta-matics.Il giorno prima in cucina, davanti a una fetta di torta al cioc-colato con la panna sopra, aveva fissato a lungo, come ra-pito, il vecchio orologio a cucù che era appartenuto a suo nonno e che ora stava appeso lì, in casa sua, sul muro tra la stufa e la finestra. Si era incantato a guardarlo e alla fine, risvegliatosi, si era chiesto quale ne fosse l’intimo segre-to. Si sorprese a fantasticare sul funzionamento di quella che gli pareva una scatola magica. Il meccanismo interno faceva girare l’orologio senza interruzioni, muovendone le rotelle e gli ingranaggi. Come piccoli automi semoventi, ruotavano anche le statuine colorate che rappresentava-no l’elemento ultimo degli ingranaggi stessi. Di fatto, al piccolo Jean sembrava che quel marchingegno scandis-se all’infinito le ore e la vita di un paesaggio in miniatura, un microcosmo intagliato nel legno di abete, a lui molto caro perché intriso di memorie e vecchie tradizioni. Poi gli venne in mente che quel teatrino variopinto non fosse che il riflesso di quello più grande e reale, il mondo, in cui lui stava muovendo i primi passi.Jean Tinguely era nato nella Friburgo svizzera il 22 mag-gio del 1925. Quando aveva appena tre anni, nel 1928, la sua famiglia si era spostata un po’ più a nord e si era

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stabilita a Basilea. Durante la Seconda Guerra Mondiale Jean frequentò la Scuola di Arti Applicate di Basilea alla quale si era iscritto nel 1939, quando aveva quattordici anni. Qui ebbe modo di conoscere e apprezzare l’opera di artisti come Paul Klee e Kurt Schwitters, e dei russi Vasilij Kandinskij e Kasimir Malevic. In particolare, questi ultimi lo segnarono profondamente nella sua formazione giovanile. Inoltre, sempre qui Jean consolidò la sua istintiva predile-zione per il movimento come mezzo di espressione arti-stica. Fino a circa il 1950, tuttavia, dipinse quadri astratti. Poi, intorno al 1951, realizzò i suoi primi esperimenti coi motori elettrici. Da un paio d’anni aveva sposato la collega Eva Aeppli e fatto amicizia con Daniel Spoerri, anch’egli artista agli esordi. Due anni dopo, nel 1953, quasi antici-pando di un decennio la trama di una famosa pellicola di François Truffaut, i tre amici si erano trasferiti a Parigi. Jean aveva appena compiuto ventotto anni e la sua avventura nel mondo dell’arte stava per spiccare il volo.Le opere di Jean Tinguely sono mostri arcaici. Sono grandi apparati meccanici, sbuffanti e cigolanti, che si muovono con estrema lentezza, tale a volte da richiamare le moven-ze del bradipo, emettendo suoni e rumori gracchianti in maniera del tutto casuale e imprevedibile. Sembrano cre-ature primordiali e, osservandole per un periodo di tempo

sufficientemente lungo, fanno pensare ai dinosauri o ma-gari all’impressione, allo stato d’animo che un dinosauro avrebbe potuto evocare. Dunque un’impressione d’inquie-tudine e grande paura. Sono realizzate principalmente per mezzo di brani e frammenti di materiali di scarto, poi for-tuitamente recuperati dall’autore. Ma, soprattutto, si tratta di ritagli di lamiere e pezzi di ferro. Sono opere cosparse fin dentro i meandri e gli interstizi più bui di ruggine e pol-vere. La ruggine, causata dal processo di ossidoriduzione al quale tutto è fatalmente esposto, è la patina del Tem-po che prima di ogni altra cosa riconosciamo come tale. Essa è il segno visibile e tangibile dell’incessante evolu-zione della materia da una sua forma a un’altra. Appunto, del suo passaggio nel Tempo. Solo apparentemente la ruggine è sintomo di corruzione e deterioramento. In re-altà, essa testimonia della vitale e inarrestabile interazione che sempre s’instaura fra un elemento e l’altro, fra l’ossi-geno e l’acqua contenuti nell’aria e il ferro contenuto nella materia. In questo senso la ruggine è segno di vita, quella vita che tutto riguarda e tutto coinvolge e che, come una danza che si svolga all’interno di un cerchio, e che può essere la danza della vita come la danza della morte, dan-za gioiosa o danza macabra, non finisce mai.Dunque tutto è perennemente in movimento, tutto dan-

za e gira. Anche in silenzio, senza far rumore, senza dare nell’occhio, anche impercettibilmente, tutto è sempre in cammino, in eterna trasformazione. Questo sembra esse-re l’assunto teorico di partenza dal quale prendono l’ab-brivo la riflessione e la ricerca estetica di Jean Tinguely, e che appunto l’autore tende a voler dimostrare attraverso l’evidenza delle sue opere. Ma come per la chiusura di un cerchio, quest’assunto iniziale diventa l’assioma indi-mostrabile al quale l’artista approda e che fa assurgere a nucleo concettuale dell’intera sua poetica. Per Tinguely non c’è da costruire tombe e mausolei, non c’è da erigere templi e cattedrali, o da incidere lapidi con epitaffi comme-morativi nel vano tentativo di consacrare gli avvenimenti del passato per trasmetterne la memoria ai posteri, tutto questo per Jean Tinguely e per la provocazione alla quale diede corpo con i suoi lavori, non solo è inutile ma del tutto assurdo. Perché tutto, semplicemente, è sempre in corsa, e gira in pista all’infinito. Ogni cosa procede inarrestabile sul binario dell’evoluzione, qualunque essa sia. Non può essere fermata, né sigillata, né consacrata. In realtà, non dovrebbe neanche essere rappresentata.È sulla base di questa impostazione ideologica che nasco-no le creature meccaniche di Jean Tinguely, le sue Opere Meta-meccaniche, come le chiamò, che sembrano ap-

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Pag. 5, Jean Tinguely, Mengele Danse Macabre. Qui sotto: Jean Tinguely, Le Safari de la Mort Moscovite. Jean Tinguely, L’Enfer.

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partenere a tutte le epoche della Storia, quelle passate e quelle future, ma non a quella attuale. Sembrano aver attra-versato i millenni e, allo stesso tempo, essere sopraggiun-te da un punto indefinito di chissà quale remoto e inson-dabile futuro. Sono arcaiche, quasi primordiali, e insieme cosmiche e spaziali. Sono relitti che hanno attraversato le ere e che ora pare vogliano testimoniare del naufragio del genere umano, della civiltà, neanche fossero una riedizio-ne della Zattera della Medusa di Théodore Géricault, e al contempo fanno pensare a piccole astronavi in viaggio nel Tempo, fra una galassia e l’altra dello Spazio.Naturalmente, le opere di Tinguely rappresentano anche una provocazione. Gettano il guanto della sfida in faccia alla società e all’establishment degli anni in cui furono pro-dotte, e sono testimonianza precipua di una chiara e ben ponderata posizione ideologica. Con il suo lavoro, Tinguely si pronunciava in merito al presunto e tanto declamato pro-gresso tecnologico. Si rivolgeva in modo frontale e diretto all’immaginario idilliaco, del singolo individuo come della collettività nel suo insieme, che quel progresso andava costantemente alimentando, e a quegli ideali di benessere e felicità diffusa che negli anni Sessanta la tecnologia con i suoi traguardi, sempre raggiunti e sempre rinnovati, e l’in-

dustrializzazione ormai avanzata, andavano garantendo. Vantaggi finanziari e imprenditoriali, occasioni di lavoro e di fare carriera, mobilità sociale, comfort e vite più che ac-cessoriate, benessere assicurato, case accoglienti e ben arredate, tavole sempre riccamente imbandite, vacanze al mare e in montagna, soggiorni all’estero per imparare le lingue, hobby e sport, attività ludiche e ricreative per tutti. Insomma, il vero e proprio boom economico e il trionfo della scienza e della tecnica sui vecchi parametri di vita e gli ormai logori standard sociali del dopoguerra. Erano gli anni delle opportunità e della spensieratezza, degli oriz-zonti aperti su prospettive che sembravano tutte da sco-prire e da vivere, della musica in macchina e dei balli di gruppo, delle feste fino a notte fonda, del cinema. Insom-ma, erano gli anni di una sorta di effettiva democrazia che, stando almeno alle apparenze, non lasciava fuori nessuno e, prima o poi, l’occasione giusta per migliorare la propria condizione e avanzare anche solo di un gradino sulla sca-la sociale, la garantiva a chiunque. Ed era effettivamente così. O almeno, fu così finché durò.Tuttavia, dietro l’allettante sbrilluccicare generale, dietro le promesse e i patinati baluginii di un paradiso finalmente ritrovato e a portata di mano, l’anima del Tempo incede-

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va cauta ma implacabile, silenziosa ma inarrestabile. Altre erano la cadenza e la musica che suonava, gracchiante e fatta di stridii, sibilante e arrugginita, e altri erano i passi di danza, assai più minuti e contenuti ma dalla valenza, verrebbe da dire, quasi astronomica. Si vede bene quale fosse questa doppia lettura degli avvenimenti allora in cor-so, questa doppia realtà che sembra muoversi inquietante e subdola dietro le apparenze, in seconda fila. S’intuisce quale essa fosse, questa seconda faccia simile al teschio di un preistorico dinosauro, nelle opere di Jean Tinguely. Si vede nelle sue macchine che sembrano inquietanti cro-nometri stellari, e che hanno forse l’ambizione di segnare il Tempo come orologi a cucù proiettati nell’eternità. Ma, stando a quanto dichiarava lo stesso autore a propo-sito delle sue enigmatiche composizioni di rottami, alcu-ne delle quali si autodistruggono mentre altre creano da sole opere d’arte in serie, le opere di Jean Tinguely sono innanzi tutto grandi giocattoli da museo. In questo senso, esse inneggiano senza mezzi termini alla spensieratezza più sfrenata e allo stare allegri, appunto alla musica e alla danza, alla joie de vivre, e insomma a una forma utopistica di libertà assoluta e senza condizioni. Questi assemblag-gi meccanizzati dall’aspetto oscuro e ancestrale, perché

alla fine di questo si tratta, diedero forma a quella che passò alla Storia come Arte Cinetica, vale a dire arte del movimento e della luce. Intorno al 1960, poi, esse con-tribuirono a elaborare e dettare le regole del movimento artistico chiamato Nouveau Réalisme, del quale Tinguely fu appunto uno dei padri fondatori. Il Nouveau Réalisme, che si rifaceva in maniera diretta e dichiarata al Dadaismo del Cabaret Voltaire di Zurigo, e poi a certe suggestioni surrealiste che ne derivarono, e che dunque vedeva nella figura di Marcel Duchamp coi suoi celebri ready-made il riferimento più influente e imprescindibile, si riproponeva di portare la Realtà così com’era al centro dell’Arte. Gli oggetti comuni e le dinamiche ordinarie ad essi collegate venivano così ripensati e guardati con occhi nuovi. Non di rado esaltati da aspetti insoliti e clamorosi, questi oggetti rivisitati potevano assumere caratteristiche sorprendenti e volutamente spettacolari.Benché sia indiscutibile una certa somiglianza con le ope-re oscillanti dell’americano Alexander Calder chiamate Mobiles, benché vi sia con esse una sorta di aria di fami-glia se non proprio un’assonanza, infatti le opere di Cal-der sono molto più leggere e quasi liquide e calligrafiche rispetto a quelle di Tinguely, è piuttosto con il movimento

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Jean Tinguely, Hippopotamus. Jean Tinguely, Dissecting Machine.

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d’arte astratta fondato in Russia nel 1913 e denominato Costruttivismo che le similitudini si fanno più evidenti. In particolare, con la scultura del fondatore del movimen-to stesso Vladimir Tatlin, e con la pittura di artisti come Ljubov Popova, Aleksandr Rodcenko ed El Lissitzky. Tutti questi nelle loro opere s’impegnarono a fare piazza pulita delle tradizionali nozioni di arte proponendosi, invece, l’i-mitazione di forme e processi desunti dalla moderna tec-nologia e dall’industria. Le forme astratte venivano impie-gate per creare strutture ispirate a macchinari tecnologici, quasi come piccole composizioni architettoniche.Ancora una volta, però, è difficile resistere alla tentazione di andare indietro nel Tempo e risalire fino ai secoli dell’El-lenismo in Grecia. In quest’epoca infatti non era raro che grandi e facoltosi committenti disponessero la costruzione dei cosiddetti automi, strani marchingegni dalle proprietà apparentemente magiche e sorprendenti che potevano assumere forme sia antropomorfe che zoomorfe. Emet-tevano improvvisi getti d’acqua bagnando gli spettatori, producevano fischi e suoni insoliti senza alcun preavviso, potevano anche muoversi e spostarsi da una parte all’altra articolando braccia e gambe e aprendo e chiudendo occhi

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e bocca. Costituivano un’acclamata forma di divertimen-to e riscossero sempre un grande successo. Tanto che, a distanza di secoli, li ritroviamo anche fra le opere prodotte nel Rinascimento. A partire circa dalla fine del Quattrocen-to c’imbattiamo spesso in questi stravaganti personaggi meccanici, appunto automatizzati, a metà strada fra il pro-digio della tecnica, il giocattolo e amusement delle corti, e l’androide ante litteram. Quest’usanza di costruire automi, tuttavia ritenuta sempre una forma d’arte minore e quasi secondaria rispetto alle discipline artistiche propriamente dette come la pittura e la scultura e soprattutto l’archi-tettura, andò comunque avanti nel corso dei secoli fino a giungere, come abbiamo visto, all’alba del Terzo Millennio con le Opere Meta-meccaniche, o Méta-matics, di Jean Tinguely.L’artista elvetico, esplosivo creatore di assemblaggi mec-canizzati ed energico animatore della vita artistica parigina durante gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, si spense nella sua Svizzera il 30 agosto del 1991. Undici anni dopo moriva negli Stati Uniti anche la sua seconda moglie, compagna di avventure e di tante opere realizzate insieme, l’affascinante artista francese Niki de Saint Phalle.

*[Simone Scaloni vive a Roma tra le pieghe di una

decennale passione per l’arte. Diplomato in restauro

pittorico, si laurea in seguito in Storia dell’Arte. Si in-

teressa particolarmente alle incisioni del 900 ma non

si preclude incursioni nelle manifestazioni dell’arte

contemporanea.]

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Pag. 10: Jean Tinguely, Sculpture mechanique. Di lato: Jean Tinguely, Trophée de Chasse - Le-Golem.

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MeDIteRRANeO: lA MUSICA Del MONDOValentina meloni

Il Mediterraneo ha ispirato la canzone italiana con una va-rietà di tematiche e di sonorità senza tempo, alcune delle quali sono diventate la colonna sonora delle nostre emo-zioni. Di ventennio in ventennio il mare nostrum si è reso protagonista della musica italiana conquistando spazi sempre più ampi: dal melodico, al folk, al rock, alla world music, al pop sperimentale. Nel 1984 Giuseppa Romeo, al secolo Giuni Russo, voce assolutamente unica, precor-ritrice dei tempi, capace di spaziare in ogni genere musi-cale, lancia Mediterranea. Il quarantacinque giri Un’estate al mare, brano firmato Franco Battiato, aveva già raggiun-

to, due anni prima, i vertici delle classifiche italiane, sta-zionandovi per diversi mesi. In questo lavoro il suo essere isolana emerge in totale bellezza, lei stessa racconterà in alcune interviste dell’amore per il mare che la divide tra Sicilia e Sardegna: «Il ricordo più bello di quando ero bam-bina riguarda mio padre: era un pescatore e mi ha lasciato in eredità il mare… Avevamo una casa a Ustica, era una casa di pescatori, quando andava a pescare con gli amici e poi tornava ricordo questa immagine di me alla finestra che ascoltavo il vociferìo dei pescatori, […] e il silenzio dell’alba, il sole che incendiava la nostra casa…» Un ri-

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cordo che ritroviamo intatto in Mediterranea, brano che sembra raccontare proprio i giorni nella casa di Ustica: E l’alba mi sveglierà /mediterranea e sola /mentre mi petti-no /il primo sole è mio /e le lampare vanno a dormire; e in Alghero che allude alle sue vacanze sarde. Sonorità che ci accompagnano nelle calde sere d’agosto attraverso il Mediterraneo per le contrade di Madrid fino in Africa con cha cha cha della limonata e poi più su con voli pindarici che si spingono in Argentina e in Giappone (con Keiko). La collaborazione fortunata con Franco Battiato è poi con-tinuata con successo. Altro cantautore siciliano che ne L’imboscata, attraverso l’evocativo testo lusitano Segun-da Feira, dipinge un Mediterraneo dell’età classica, dove il mare sognato diventa ricordo di luoghi esotici come il porto di Singapore, il corallo delle Maldive e la suggestiva Macao. Ne La voce del padrone, considerata una del-le pubblicazioni più importanti della musica italiana e di maggior successo commerciale di Battiato, il cantante si-ciliano aveva già evocato il Mediterraneo, in particolare la sua terra, attraverso citazioni implicite (il cinema all’aperto ricorda molto Nuovo Cinema Paradiso) e richiami espliciti

come quello alle miniere di zolfo, attive in Sicilia ancora fino agli anni sessanta: A wonderful summer/on a so-litary beach/ against the sea/ le grand hotel Sea-Gull Magique /mentre lontano un minatore bruno/tornava/ Mare mare mare voglio annegare/portami lontano a naufragare/ via via via da queste sponde/ portami lon-tano sulle onde… E più lontano andiamo ancora Onda su Onda il mare ci porterà alla deriva/ in balia di una sorte bizzarra e catti-va… Nato sul suolo italiano dell’Eritrea, ad Asmara, ma cresciuto a Genova, Bruno Lauzi è considerato - insie-me a Fabrizio De André, Umberto Bindi, Luigi Tenco, Sergio Endrigo e Gino Paoli - tra i fondatori e maggiori esponenti della scuola genovese dei cantautori, movi-mento culturale e artistico, prevalentemente legato alla canzone d’autore, sviluppatosi a partire dagli anni ses-santa nel capoluogo ligure. Il mare genovese è un tema ricorrente per tutti i cantautori della scuola storica che lo hanno citato direttamente in molti loro brani. Legata a questo ambiente anche la scrittrice Fernanda Pivano, che tradusse in italiano l’Antologia di Spoon River per

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Filippo De Pisis, Natura morta col martin pescatore, 1925. Olio su cartone, cm 46 x 71,5.Filippo De Pisis, Il pesce sacro, 1924. Olio su tela, cm 55 × 62,5.

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Einaudi (1943) sulla quale Fabrizio De André basò l’album Non al denaro non all’amore né al cielo. Proprio De Andrè ci riporta alle suggestive atmosfere dei carrugi, i caratteristici e stretti vicoli ombrosi di molte cit-tà e paeselli della riviera ligure, in Creuza De Mä. Siamo ancora nel 1984, questo è uno dei dischi più importanti del decennio, ma il suo impatto e la sua grandezza non sono ancora stati recepiti del tutto. Si tratta di un’opera di grande ricchezza sonora e dialettica, diamante di punta dell’allora nascente world music. Faber si avvalse dell’uso di moltissimi strumenti della tradizione popolare mediter-ranea, nordafricana, balcanica e mediorientale, strumenti etnici che danno una connotazione spaziale più ampia ai testi: l’album non parla solo di Genova, anche se è can-tato in lingua genovese, ma di tutte le città di mare che affacciano sul Mediterraneo, di culture diverse le une dalle altre, ma affratellate tutte da ritmi, gesti, vocaboli, suoni che si sono mescolati e uniformati per necessità e per affinità. In questo album De André decise di utilizzare la sua lingua madre, scelta che si confermerà essere vin-

cente essenzialmente per due motivi: essendo una lingua molto ricca di parole tronche si presta meglio a musicare un testo poetico che fa uso di un registro basso senza il rischio di scivolare nel grottesco; ricchissima di fonemi e parole arabe, di termini mutuati dal greco, dal portoghese e dal catalano, si amalgama perfettamente all’atmosfera musicale del disco ricca di suggestioni e contaminazioni. Il dialetto genovese, a livello simbolico, assurge a lingua popolare universale, idioma del viaggio, della povertà, di quel linguaggio dell’emarginazione e della rivolta a cui De André ha sempre prestato ascolto. Da Genova navighiamo verso Ischia, Creta e Capodistria, luoghi in cui è stata registrata la “Marina Commedia” fuori misura di Vinicio Capossela Marinai, profeti e balene, l’ot-tavo album del cantautore italiano, pubblicato il 26 aprile 2011. Disco di platino, il cui tour dedicato parte proprio da Genova per terminare a Trieste, Marinai, profeti e bale-ne è definito dallo stesso Capossela «oceanico e biblico» nel primo disco e «omerico e mediterraneo» nel secondo. Del primo ricordiamo Il Grande Leviatano, I fuochi fatui,

Filippo De Pisis, Natura morta marina con funghi e pomodori, 1929. Olio su cartone, cm. 30,4x50.

La bianchezza della balena ispirati al romanzo di Melville Moby Dick, Lord Jim ispirato all’omonimo romanzo di Jo-seph Conrad, La lancia del Pelide ispirata ai primi versi del Canto Trentesimoprimo dell’Inferno di Dante Alighieri. Del secondo è ancora attuale la melodiosa La Madonna del-le Conchiglie, brano ispirato alla storia di Santa Restituta d’Ischia, la cui statuetta è stata “restituita” dal mare, ma che nasconde anche una tragica attualità di sottofondo: La madonna delle conchiglie / è arrivata restituita dal mare /senza carte, senza la scorta, / senza permesso, senza passaporto/ e di un fuggiasco così come era / ne abbiamo fatto la madonna nera… In questo disco troviamo ancora Aedo, brano che descrive il cantore della Grecia antica; Le Sirene, Calipso, Dimmi Tiresia, Nostos e Le Pleiadi che sono, invece, tutte ispirate all’Odissea e al marinaio più conosciuto della storia. Ma dove vanno i marinai... cantava Lucio Dalla nel bra-no di Banana Republic, album del 1979, composto e in-ciso dallo stesso Dalla insieme a Francesco De Gregori, che contiene la famosa “4 marzo 1943” storia di “Gesù

Bambino”: dice che era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare, parlava un’altra lingua però sapeva amare… Dalla, cantautore e musicista di formazione jazz, è passato dalla sperimentazione musicale, alla canzone d’autore, fino ad arrivare ai confini dell’opera e della musica lirica, e l’omag-gio che ha riservato al tenore napoletano Enrico Caruso ha varcato i confini del Mediterraneo. Il cantautore bolo-gnese fa del look da marinaio con l’immancabile zuccotto di lana il suo stile inconfondibile, e del mare non solo ne parla, ne fa metafora indimenticabile in Come è profondo il mare, album che, nel 1977 consacrò le sue doti da solista. La title track prende di mira il concetto di potere, il cui sco-po è quello di “bruciare il mare”, qui inteso come evidente metafora della libertà di pensiero.Senza tempo e dallo stile inconfondibile anche la voce di Gabriella Ferri, una delle prime donne in Italia a firmare i propri brani, la più grande interprete-autrice che il folk italia-no abbia mai generato. Un folk innovativo che comprende non solo la musica ma anche il teatro, che raccoglie all’in-terno dei testi non solo il fascino antico del volgo di Roma

Filippo De Pisis, Natura morta marina, 1931. Olio su tela.

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e Napoli principalmente, ma anche un raffinato lavoro di ricerca musicale e culturale dal valore quasi antropologi-co. La chiave di lettura del suo successo ci viene offerta da Gabriella stessa: «…che certe canzoni, siano esse d’o-rigine araba, gitane, sudamericane, napoletane, romane, hanno tutte una comune matrice sanguigna, popolare e umana, che si ritrova nelle modulazioni della voce, di poca limpidezza, talvolta violenta, aggressiva, oppure dolce e melodiosa, come fossero un unico canto. » (Dall’articolo-intervista del 24 giugno 1974 apparso in “Super Sound”)Ai propri brani Gabriella affianca grandi classici della tradi-zione popolare italiana e latinoamericana; la passione per la musica latina, che le permette delle contaminazioni mu-sicali davvero originali, si esprime in modo indimenticabi-le in Remedios, canzone pubblicata nell’album omonimo del 1974, tornata in voga dopo la scelta dal regista turco Ferzan Özpetek di includerla nella colonna sonora del film Saturno contro, del 2007. Testo e musica di questo brano sono firmate dalla Ferri, incisi direttamente in spagnolo, come fosse un brano di origine popolare, in un equilibrio irripetibile di poesia e melodia malinconica. Oltre a Reme-dios di particolare importanza è Grazie alla vita, traduzio-

ne in italiano della famosissima Gracias a la vida di Violeta Parra, scritta dalla cantante cilena poco prima di togliersi la vita (1967): canzone che in Cile, durante la dittatura mi-litare di Pinochet, assurgerà a simbolo di libertà e giustizia. Il sentimento di libertà che contraddistingue la musica folk tradizionale mediterranea si propaga dalla drammaticità teatrale della Ferri, al jazz ricco di suggestioni di Dalla fino al blues malinconico di Pino Daniele che scriveva, in un bellissimo testo: chi tene ‘o mare ‘o ssaje / porta ‘na cro-ce. La croce di vivere tutti i sentimenti in modo totalizzante e amplificato. Pino Daniele si riferiva alla sua gente, quella gente di cui ha cantato fino alla morte l’ambivalenza co-gliendone lo spirito autentico e le contraddizioni. Contrad-dizioni che vivono dai tempi dei tempi nelle popolazioni costiere del Mediterraneo e che il cantautore lucano Pino Mango conosceva altrettanto bene: Quella lunga scia/ del-la gente in silenzio per via/ che prega piano / sotto il sole/ Mediterraneo da soffrire / sotto il sole/ Mediterraneo per morire canta in Mediterraneo nel 1992. Canzoni profetiche e di grande attualità, come quelle contenute in Che Medi-terraneo sia di Eugenio Bennato, autore che ha messo al centro della sua produzione il ballo e il ritmo della cultura

tradizionale: temi già lanciati nella sua lunga esperienza folk con il progetto Taranta Power, proseguiti con l’atten-zione ad altri sud del mondo, dalla sponda meridionale del Mediterraneo all’Africa dell’emigrazione. Una raccolta di cui vorrei ricordare la toccante Ninnananna 2002 in cui una madre, durante il viaggio su una carretta del mare diretta verso la terra della “speranza”, canta al proprio bambino: Ninna nanna pe ‘sta criatura/ che va pe ‘mmare dint’a notte scura/ duorme ca si t’adduorme presto/ nun vene la tempesta/ Ninna nanna pecché stu mundo/chillu dio che l’ha criato l’ha fatto tundo/ e ce sta posto pe’ tutte quan-te/si l’ha fatto accussì grande… Ma a distanza di quindici anni da allora l’onda di Che Mediterraneo sia continua a cantare: Andare, andare, simme tutt’eguale/ affacciati alle sponde dello stesso mare/ e nisciuno è pirata e nisciuno è emigrante/ simme tutte naviganti…

(estratto dall’articolo pubblicato in Mediterraneo, L’area di Borca n. 100-101, XLI-XLII, 2015)

< < < I n s i s t e n z eI n s i s t e n z e > > >

*[Valentina Meloni ha pubblicato per FusibiliaLibri la

raccolta di haiku Nei giardini di Suzhou (Collana Es-

senze, 2015) con riproduzioni sumi-e di Santo Previ-

tera; Le regole del controdolore (Temperino Rosso Ed.

2016), raccolta di poesie illustrate dalla stessa autrice

e Alambic, antologia poetica personale sulla poesia

d’ambiente (Progetto Cultura, 2017).

Sue poesie e racconti compaiono in diversi lavori anto-

logici. Cura pagine e blog di eco-poesia, ecologia pro-

fonda e scrittura d’ambiente. Da alcuni anni lavora a un

progetto poetico-fotografico di collaborazione sull’u-

niverso femminile e la violenza di genere (Eva) che ha

portato alla realizzazione di un libro e a nuove forme di

sperimentazione poetica. Scrive sul semestrale fioren-

tino di letteratura e conoscenza «L’area di Broca» e su

«Euterpe-rivista di letteratura» di cui è redattrice edito-

riale per la rubrica interviste.Altre pubblicazioni e infor-

mazioni su www.valentinameloni.com]

Filippo De Pisis, Peonie, 1936. Olio su tela, cm 65 x 80.Filippo De Pisis, Il gladiolo fulminato, 1930. Olio su cartone, cm 71,5 x 51. Filippo De Pisis, Fiori di campo, 1953.

1918

MASHeD POtAtO tIMegioele marchis

Il funerale di Eddie Kienholz nel giugno del 1994 fu uno di quelli che non si dimenticano facilmente. Su in montagna, su quella punta estrema dell’Idaho stretta fra lo Stato di Washington da una parte e quello del Montana dall’altra, e il Canada confinante poco più a nord. Protesi sul lago di Pend Oreille e immersi nei boschi di larici e abeti rossi, quel giorno di ormai quasi un quarto di secolo fa, i dintorni della cittadina americana di Hope si prestarono a fare da quinte teatrali all’ultima, macabra e dissacrante installa-zione dell’artista Edward Kienholz. Lui, cadavere corpu-lento e imbalsamato, seduto alla guida della sua vecchia Packard Coupe marrone degli anni Quaranta, con una banconota da un dollaro e un mazzo di carte nel taschino della giacca, una bottiglia di Chianti sul sedile accanto e l’urna contenente le ceneri del suo cane Smash su quello posteriore. Lentamente, la macchina venne fatta scivolare all’interno della grande buca scavata nel terreno, desti-nata alla sepoltura, come nell’imboccatura di una galleria sotterranea, e come l’inizio di un viaggio oltremondano diretto al centro della Terra. Tutto intorno, nell’aria taglien-te di montagna, saliva alto e solenne il lamento metallico delle cornamuse.Edward Kienholz aveva sessantasei anni quando un infar-to lo colse mentre tornava da un’escursione non lontano da casa. Era malato di diabete, malattia che gli aveva già parzialmente compromesso l’uso delle estremità. Kienholz era originario di Fairfield, un villaggio contadino nello Stato di Washington, vicino a Spokane e al confine con l’Idaho. Il villaggio di Fairfield non era dunque troppo distante dal-la cittadina di Hope che Eddie, una trentina di anni dopo aver lasciato le sue terre d’origine, aveva eletto a locali-tà ideale dove ritirarsi a vivere in tranquillità, insieme alla quinta moglie Nancy, e che vide improvvisamente la fine dei suoi giorni.

Era nato il 23 ottobre del 1927 in una fattoria in mezzo ai campi di grano. Come suo padre, e suo nonno prima di lui, aveva fatto il contadino e, all’incirca fino all’età di trent’an-ni, era sempre rimasto nella fattoria di famiglia in cui era nato. In quegli anni, gli anni della giovinezza, Eddie ebbe modo di praticare assiduamente la carpenteria. Diventò un abile falegname che sapeva lavorare il legno e intagliarlo con naturalezza. Era anche un meccanico appassionato di motori e macchine agricole. Ma, al di là di tutto questo, egli fu un artista americano della seconda metà del Nove-cento, pioniere nell’arte dell’assemblaggio e nelle installa-

Insi

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zioni a grandezza naturale, che poi altro non erano che la ricostruzione degli scenari più significativi della sua vita e degli episodi che lo avevano maggiormente segnato. Alla metà degli anni Cinquanta aveva lasciato i profili azzurri delle montagne e i nativi campi di grano per spostarsi al sud, destinazione California. Nel 1956 si era trasferito in pianta stabile a Los Angeles. Qui, insieme all’amico po-eta Bob Alexander e all’altro amico critico d’arte Walter Hopps, fondò la famosa Ferus Gallery, destinata a diven-tare il centro nevralgico della vita artistica e culturale della città californiana per molti anni a venire.Passando davanti alle opere di Edward Kienholz viene vo-glia di fermarsi e di avvicinarsi. Viene voglia d’immergersi nello spazio che esse delineano di fronte a sé, in quella dimensione virtuale che riescono a riprodurre anche nelle condizioni asettiche e impersonali delle stanze di un Mu-seo dove è sempre tutto bianco, la luce troppo forte e le linee e le superfici di solito troppo dritte o troppo vuote. Le opere di Kienholz custodiscono in sé qualcosa d’intimo e caldo, familiare anche a chi non abbia vissuto gli anni in cui sono state prodotte e ai quali inevitabilmente rimandano.

Esse hanno un grande potenziale evocativo. Evocano ambienti e atmosfere di un tempo passato che sono l’esatto opposto del tipico allestimento museale di un Museo d’Arte Contemporanea. Non sono opere chiare e luminose ma scure, non riflettono la luce ma la assor-bono, e non sono lisce e vuote ma sempre cariche e piene. Intrise di ricordi, soprattutto. Forse avrebbero bi-sogno di allestimenti particolari, di estensione limitata, appena illuminati da lampadine impolverate come po-tevano essere quelle usate in campagna o in montagna negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento.Viene voglia di accostarsi perché esse generano un cam-po magnetico intorno a sé, agendo proprio da magne-ti. Nelle opere minori, dove per minori s’intenda meno conosciute e anche contenute nelle dimensioni, quindi non le scenografiche ricostruzioni ambientali che occu-pano intere sale espositive e per le quali Kienholz è oggi maggiormente ricordato, è notevole, e tale da saltare all’occhio, la presenza di oggetti in ferro e legno. Allora ci si avvede di quale sia la capacità di questi materiali semplici e antichi di registrare, imprigionandole, le im-

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Edward Kienholz, Roxy’s.

Edward Kienholz, In the Infield was Patty Peccavi.

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pressioni del Tempo, la vita vissuta e gli anni trascorsi, con i sentimenti e le emozioni provate alla presenza di quegli stessi oggetti. Il ferro e il legno sembrano aver assorbito tutto questo, esserne stati permeati. È proprio un richia-mo magnetico quello al quale è difficile resistere, come se il ferro contenuto nel sangue fosse attratto dal ferro con-tenuto nelle opere, che evocano, ricordano, raccontano. Questi assemblaggi ricostruiscono scenari che hanno fat-to da sfondo a episodi accaduti in un periodo ormai lon-tano e dimenticato. Ricompongono memorie e abitudini, appunto in modo quasi elettrico ed epidermico, di colui che li ha creati. Azioni abituali eppure dense di significati come per esempio l’avviamento della stufa in una ghiac-ciata alba invernale, l’accensione alla sera della radio per ascoltare il notiziario o il bollettino di guerra, le preghiere mormorate a mani giunte, seduti al buio al tavolo della cucina. E la consumazione delle ore come candele, nella speranza tesa e vibrante che un desiderio a lungo alimen-tato fosse finalmente realizzato, o un evento nefasto e ne-

gativo fosse spinto via lontano e sparito per sempre. I lavori di Edward Kienholz sono evocazioni di fantasmi. Ri-svegliano vecchie angosce e paure mai veramente sopite. Conservano in sé le tracce macabre di vicende e percorsi finiti in modo insperato o imprevisto e poi squarci dell’a-nima, lacerazioni interiori anche piccole ma che si sono sedimentate in profondità. Spesso, ad accrescerne il già inquietante e sinistro effetto generale, vi è la presenza di vecchi apparecchi radiofonici, funzionanti o meno, acce-si o spenti, che suonano le loro vecchie canzoni e i brani musicali degli anni in cui venivano utilizzati, anch’essi for-tuitamente recuperati dalla fatiscenza dell’oblio, o anco-ra i televisori, altrettanto vecchi e obsoleti, con l’analoga funzione di struggenti music-box, lanterne magiche delle ombre e degli incubi del passato. Per Kienholz era proprio la televisione, e in generale gli strumenti legati alla produ-zione di notizie e all’informazione di massa, la maggiore e più incallita responsabile della decadenza morale e dei costumi, del singolo come delle Istituzioni, del suo Tempo.

Sono dunque lavori di grande impatto emotivo e immer-sivi, questi di Edward Kienholz, e mirano dichiaratamente a tirare dentro lo spettatore, a coinvolgerlo al loro inter-no, facendogli compiere un viaggio a ritroso nel Tempo. Kienholz voleva portare la realtà all’interno dell’arte. Era questo il suo principale obiettivo e lo perseguì sempre con costanza e accanimento. I suoi lavori puntano a chiama-re in causa lo spettatore, ma anche a renderlo complice, non di rado in modo perverso e quasi colpevole, come un’invettiva o un pugno in pancia, della scena alla quale sta assistendo. Egli viene catapultato lì, in quel luogo e in quel momento storico, presente in carne e ossa al ripeter-si di una situazione o un episodio accaduto decine di anni fa, in un punto della Terra probabilmente molto lontano da quello in cui si trova in quel momento. E stando lì, all’in-terno di quello scenario riproposto e di quel campo ma-gnetico riattivato, egli è portato a rivivere lo stato d’animo dell’autore. Sono diorami dell’angoscia che tirano in ballo gli spettatori e questi, sentendosi appunto coinvolti in ma-

Edward Kienholz, Roxy’s, detail.

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niera diretta e quasi viscerale, sono guidati a sperimentare il ricordo rievocato e inscenato dell’autore. Così facendo, invincibilmente attratti dalla perversione della scena rap-presentata e dalle sue spire, gli spettatori rivivono la par-ticolare situazione riproposta e le profonde emozioni che ne scaturirono.Edward Kienholz fu un pioniere in questa disciplina dell’as-semblaggio su grande scala, detto assemblaggio ambien-tale o più semplicemente installazione. Le sceneggiature che precedevano e accompagnavano le sue opere erano sempre dettagliatissime e nessun particolare, neanche il più piccolo e apparentemente insignificante, era lasciato al caso. Di fatto Kienholz fu maestro della rievocazione. Sapeva come attingere agli aspetti più oscuri e profondi annidati nei ricordi del suo vissuto personale come in quel-lo della storia recente degli Stati Uniti. Sapeva attingere al serbatoio contadino e popolare che era il suo elemen-to per eccellenza, non di rado violento, a volte addirittura raccapricciante e perverso, e ufficialmente inesistente, di

Edward Kienholz, The Wait.

2322

scarso valore perché sistematicamente rimosso o gettato nella fossa comune del conveniente oblio. Kienholz sape-va pescare in questo serbatoio popolare e sapeva leggere quello che ne affiorava. Sapeva ricostruirlo e metterlo in scena imprimendogli però un aspetto estremo, esaspera-to, come se da quelle situazioni che egli andava riallesten-do, da quelle atmosfere che aveva l’urgenza di rievocare, egli cercasse di carpire il lato più oscuro e inconfessabile, il più bestiale ed efferato, e proprio quel lato volesse poi rappresentare. Quello strato, o quella serie di strati, che giace sotto la coltre delle cose e delle apparenze e che Kienholz voleva invece riportare a galla, farlo emergere perché fosse visibile a tutti.Si capisce bene come quest’arte brutta e programma-ticamente antiestetica, quasi un ammasso d’immondi-zie e rottami illuminati qua e là da una vecchia lampada scassata o da un neon mezzo rotto, abbia fatto scandalo. Un’arte sgangherata e punk ante litteram, spesso accom-pagnata da un sottofondo musicale ancor più sinistro e

inquietante nel suo agghiacciante potere evocativo, e da animali vivi o imbalsamati a porne l’accento sull’ispirazio-ne morbosa, asfittica e stantia. Non sorprende allora che quest’arte della paura e della repulsione, arte dello schifo o Funk Art com’è stata definita, sia stata spesso rifiutata e abbia creato indignazione e biasimo da parte delle Autori-tà. Fu chiamata Funk Art, appunto, o perlomeno accosta-ta a questo movimento artistico che aveva visto la luce a San Francisco negli anni Sessanta e lì si era poi sviluppa-to. Un’arte che punta dritta allo stomaco, a colpire, e che vuole indignare e destabilizzare. La cosa più importante, l’obiettivo da perseguire, è scuotere le coscienze e provo-care sempre una reazione in chi osserva. E naturalmente, una reazione di tipo morale.È infatti, quella di Kienholz, un’arte di denuncia, politica e sociale. Essa mette alla berlina le ipocrisie, le ambiguità, le nefandezze degli anni nei quali l’autore aveva vissuto. La doppiezza e il trasformismo sfuggente della morale, la violenza e il razzismo serpeggianti nella società, non di

Edward Kienholz, The Beanery.

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*[Gioele Marchis (1977) nasce a Torino e si trasferisce

a Londra appena ventenne, come molti coetanei, con

l’idea di trascorrerci un’estate o poco di più. La città

diventa la sua nuova ‘casa’ e lo spinge ad iscriversi alla

Central Saint Martins School, diventata negli anni la più

affermata fucina di nuovi talenti. Industrial Designer di

professione, è fortemente attratto dalla ricerca sui ma-

teriali e dal connubio del “vecchio” con il “nuovo”. Col-

labora con diverse riviste di settore.]

rado occultati o lasciati sfogare in segreto, la corruzione diffusa e capillare. Egli guardava a tutto questo con occhi di contadino e montanaro. Era un falegname e un mecca-nico, un uomo di montagna che da solo, da autodidatta, era riuscito a farsi artista e artista impegnato nella feroce satira sociale.I suoi genitori, entrambi contadini nati alla fine dell’Otto-cento, erano persone austere e riservate, facevano parte di un mondo al suo epilogo e un’epoca che stavano per tramontare per sempre. La madre era una donna silenzio-sa e pia, calvinista e integralista. Il padre, severo e con-servatore, aveva sempre fatto il contadino. Erano di origini svizzere e vissero sempre nella fattoria di Fairfield in cui Eddie era nato. Non stupisce quale fosse l’etica familiare e soprattutto la mentalità e la sensibilità attraverso le quali si guardava al mondo e alla vita in quella sperduta fattoria nello Stato di Washington. Non stupisce che di quella sen-sibilità e quei princìpi etici ottocenteschi di stampo prote-stante, ancorché umili e di contadini, sia rimasta traccia

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evidente, anzi struttura portante, nelle opere funk e proto punk, all’apparenza così anarchiche e trasgressive, così beat e on the road, ma in realtà così delicate e quasi reli-giose, dell’artista col trapano in mano che era Eddie Kien-holz.

Edward Kienholz, The State Hospital.

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Novembre 2011, a passeggio per Villa Torlonia, area ver-de di Roma, proprietà un tempo dei Pamphilj, poi dei Co-lonna e infine dell’omonima famiglia. Ci avviciniamo alla Casina delle Civette, uno degli edifici più suggestivi del complesso, per le sue vetrate in stile Liberty e il ricco simbolismo esoterico. Appena varcato il cancello, proprio sotto il portico, la nostra attenzione è colpita da quattro presenze, quattro sculture in terracot-ta, di diversa fattura e dimensioni, poste agli angoli di un quadrilatero di terra, che ci fanno pensare a dei passanti fermatisi a dialogare ai bordi di una piazza.Le nostre sculture, in effetti, “parlano”, non solo attraverso le loro caratteristiche visivo-spaziali, ma sono state anche costruite e progettate per consentire la trasmissione di

musica elettronica, frutto della rielaborazione, a sua volta, di suoni tratti dall’ambiente naturale.Più precisamente, siamo al cospetto dell’istallazione di arte ed elettroacustica Terra delle risonanze, frutto della colla-borazione e della sperimentazione congiunta tra l’artista visiva e ceramista Debora Mondovì e la compositrice Silvia Lanzalone (Terra&Bits – gruppo elettroacustica), risultante in un connubio tra arte, natura, scienza e tec-nologia, un progetto itinerante e modulare, atto ad essere esposto in giardini e altri spazi aperti, nato a Salerno, nel giardino della Minerva, primo orto botanico del mondo, occidentale e che si proietta fino a Uppsala, la città dove visse e operò Linneo, il padre della moderna classificazio-ne tassonomica.

l’ARte elettROACUStICA DI teRRA&BItSalessanDra carnoVale

Il progetto Terra delle risonanze nasce per unire e integra-re quattro aspetti della cultura umana: la natura, costitui-ta dall’ambiente circostante e dal materiale delle sculture (l’argilla), l’arte, attraverso la realizzazione di performance, le sculture e la musica, la scienza, tramite la botanica, la medicina e l’acustica e, infine, la tecnologia, con l’elabo-razione informatica e la chimica; una ricerca multidisci-plinare che porta ad approfondire il rapporto tra materiali elettronici e materiali naturali.Le opere realizzate da Debora Mondovì intendono mette-re in risalto le peculiarità dell’ambiente in cui sono inserite, integrandosi con la vegetazione e con la struttura archi-tettonica circostante. Le quattro sculture, in canapa e terracotta, raffigurano gli elementi primordiali (terra, acqua, aria e fuoco) descritti dal filosofo Pitagora di Samo ed entrati in seguito a far parte della terapeutica medievale, e sono state progettate per risuonare a determinate frequenze dello spettro acustico. Dal punto di vista strutturale consistono di elementi cavi di differenti dimensioni entro cui i suoni sono amplificati o attenuati. I “quattro elementi” sono rappresentati, quindi, da altret-tante sculture, la cui espressività è sottolineata dalla mu-sica che, prendendo spunto dai suoni della terra, dell’aria, del fuoco e dell’acqua, li elabora e li trasforma fino a rag-giungere la loro completa trasfigurazione e sublimazione.Le sculture sono state realizzate con la tecnica manuale del colombino, modalità impiegata sin dall’antichità per la realizzazione di forme cave e aperte, che Mondovì predi-lige per i suoi lavori perché consentono un continuo dia-logo tra lo spazio esterno e quello interno alla scultura, tra la presenza e l’assenza di materia, con variazioni cro-matiche date dall’utilizzo di differenti argille e, talvolta, di ingobbi (argille mescolate a ossidi coloranti).Nella ricerca artistica di Mondovì, ogni materiale ha il suo significato: l’argilla rappresenta il tempo che passa, il suo continuo divenire, mentre la corda, che ricorda il movi-mento della mano, induce all’introspezione e alla riflessio-ne; la pietra, infine, simboleggia l’eternità del tempo.A sua volta, la musica di Silvia Lanzalone è stata studiata appositamente per essere diffusa dalle opere innterracot-ta, in modo da creare un dialogo tra i suoni trasmessi dalle sculture e quelli ambientali, rinnovando così la percezione del giardino e aprendolo a nuove modalità di fruizione. La musica ha stimolato e suggerito le forme scultoree; le sculture, risuonando in base alle loro caratteristiche pecu-liari di grandezza e conformazione, partecipano, di riman-

do, all’elaborazione dei suoni e alla loro diffusione, in una relazione dialettica continua tra le due forme artistiche.Le musiche dell’istallazione Terra delle Risonanze sono date dai suoni della natura: uccelli e altri animali, corsi d’acqua ed elementi dei giardini, elaborati al computer e diffusi attraverso le forme scultoree, in una ricerca di ar-monizzazione e integrazione tra arte visiva, musica e am-biente naturale in cui le stesse sono esposte.Uno dei primi lavori, in cui alcuni materiali sonori sono stati registrati, selezionati, quindi organizzati e sottoposti a processi di elaborazione digitale del segnale, risultando nella realizzazione di un’opera musicale che formalmente si configura come un ciclo di quattro composizioni, es-sendo costituita di altrettanti episodi detti risonanza, di-versamente contraddistinti sia per natura dei materiali, sia per carattere e articolazione interna: risonanza I – dialogo; risonanza II – dalla terra; risonanza III – lamenti; risonanza IV – contrasti.Per la realizzazione dell’istallazione sono state eseguite varie sperimentazioni di esplorazione dei materiali sono-ri, tra cui sfregamento, percuotimento ed eccitamento di strutture cave e di lastre in terracotta. I suoni così ottenuti

< < < I n s i s t e n z e

Insi

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TERRA&BITS, Terra delle Risonanze, dettaglio, 2010.

TERRA&BITS, Voci di Terra, installazione d’arte elettroacustica su frammenti di poesie italiane.

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sono stati quindi elaborati digitalmente e trasformati, dan-do luogo a nuovi elementi dotati di senso formale autono-mo, a cui la compositrice ha poi attinto per la composizio-ne delle singole risonanze.In entrambe le istallazioni citate le sculture fungono da strumenti musicali, essendo costituite, come questi, di un sistema di eccitazione (l’altoparlante) e un sistema di riso-nanza, dato dalla cavità interna della scultura e dalle mo-dailità di vibrazione della terracotta. Le opere sono prov-viste inoltre di fori che irradiano i suoni coerentemente alla loro frequenza.La commistione dei generi artistici si complica con l’istal-lazione d’arte elettroacustica Voci di Terra (2011) con l’ag-giunta di un ulteriore soggetto: la poesia.Voci di Terra consta, infatti, di sculture risonanti in terra-cotta attraverso le quali sono elaborate e diffuse le sono-rità di molteplici voci, in un gioco di alternanze che rende ciascuna di esse ora distinta artefice di un inaudito canto, ora integrata all’interno di complesse sonorità. Suoni e parole sono estratte da testi poetici e dialogano con le forme scultoree, studiate, a loro volta per diffondere parole e suoni, mentre la scelta di differenti argille nasce dall’esigenza di rimarcare la continuità concettuale rispet-

to alle diverse accezioni del termine “terra” (madre, patria, materia originaria, universo), quasi a sottolineare quanto le voci dei poeti ci parlino dal profondo di una cultura an-tica, artefice della nostra storia. La musica è interamente ispirata ai testi delle poesie: i significati, le metafore ed i simboli evocati hanno fornito potenti suggestioni espressive; la prosodia delle parole e i suoni dei loro fonemi sono diventati materiale sonoro su cui è stata costruita la musica. L’inclusione dell’elemento poetico in questa ricerca arti-stica si perfeziona ulteriormente con l’istallazione d’arte elettroacustica su poesie d’amore, terracotta e metallo Voci d’amore (2014).In quest’ultimo lavoro le sculture, in cui alla terracotta si aggiunge, quanto a elementi costitutivi, il metallo, pren-dono forma dall’espressività delle poesie, dall’esigenza di rappresentarne il senso profondo e dalla necessità di diffondere la musica in modo coerente ai materiali di cui sono composte. Le poesie selezionate inducono a riflet-tere sui temi del vincolo d’amore. La musica, realizzata, come nelle altre istallazioni, appo-sitamente per le opere esposte, è ottenuta per intero dai suoni delle parole, nell’intento di creare un’intima integra-

zione con gli aspetti visivi e simbolici, armonizzata con le sculture e intarsiata di suoni di voci. La voce, nella sua accezione di fonte di suoni, veicolo di significati, stimolo di emozioni, pervade il tessuto musicale partecipando alla realizzazione di un percorso espressivo variegato ma co-erente.E la sperimentazione continua…

TERRA&BITS – gruppoartelettroacustica nasce nel 2005 e si sviluppa sulla base della collaborazione tra l’ar-tista visiva Debora Mondovì e la compositrice Silvia Lan-zalone. L’attività del gruppo è finalizzata alla produzione di opere ed eventi che siano il risultato di una ricerca estetica rivolta all’integrazione dei linguaggi espressivi. Il connubio/contrasto tra suoni elettronici e suoni strumentali è ricer-cato nel rapporto tra tecnologia e materia attraverso opere scultoree caratterizzate dall’utilizzo di materiali naturali. Le sculture sono progettate per risuonare in diverse regioni dello spettro acustico e disegnano un spazio dell’ascolto in cui ogni azione trova un equilibrio con i gesti propri della musica. Le opere musicali sono rivolte prevalentemente all’esplorazione timbrico-materica del suono e sono rea-

TERRA&BITS, Foglie di Terra e di Suono, installazione d’arte elettroacustica in terracotta e suoni elettronici (2009).

< < < I n s i s t e n z eI n s i s t e n z e > > >

lizzate in stretta collaborazione con l’artista per una com-pleta integrazione estetica, ideativa e progettuale.

Per info:www.deboramondovi.com

http://www.silvialanzalone.it/index.html

*[Alessandra Carnovale, romana, si dedica da diversi

anni alla ceramica e alla scultura, nonché ad altre arti

manuali. Dal 2010 partecipa ad attività e concorsi e let-

terari, dove le sue poesie ottengono premi e attestati di

merito. I suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel

2017 pubblica la sua prima raccolta “Come vento sul

monte” per Flower-ed editore. Ama la parola asciutta,

scarna, essenziale, quasi scolpita e foggiata con cura.]

TERRA&BITS, dalla mostra personale “Vuoti pieni Silenzi suoni”, Galleria Il Chiodo, Sermoneta 2010.

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le fORMe MUSICAlI vIveNtI DI CéleSte BOURSIeR-MOUGeNOtFlaVio scaloni

Il lavoro di Céleste Boursier-Mougenot esplora il poten-ziale musicale di luoghi, situazioni o oggetti, spesso presi in prestito dalla vita quotidiana, per creare dei dispositivi il cui movimento e il suono penetrano nella coscienza dello spettatore.Nato nel 1961 a Nizza, l’autore risiede e lavora a Sète, nei pressi di Montpellier nella regione dell’Occitania in Francia.Musicista di formazione, dal 1985 al 1994 compone le mu-

siche per il Side One Posthume Theater, in collaborazione con il regista Pascal Rembert. In seguito intraprende un percorso creativo ai margini della composizione musicale propriamente detta, dando una forma nuova e autonoma alla musica, collocata e suonata all’interno di installazioni. A partire dagli elementi più disparati, strumenti musicali e contesti espositivi, l’intento dell’artista è quello di realizza-re il potenziale sonoro del suo assemblage. Ne derivano

Céleste Boursier-Mougenot, From here to hear, dettaglio, 1999. delle configurazioni eterodosse, inusuali, sonore in manie-ra discontinua e multiforme, a cui l’autore si riferisce con il temine di “forme sonore viventi”.Come il procedere incerto della vita, così le installazioni di Boursier-Mougenot si fanno fragili e effimere, con attimi drammatici, evocati dal suono, della durata di un istante, per poi cedere nuovamente il passo al silenzio.Tra le opere più rappresentative della produzione dell’ar-tista, ne raccontiamo in questa sede tre, in parole e im-magini, rimandando il lettore ai numerosi video disponibili in rete per cogliere pienamente la natura multi-sensoriale delle opere.In From Here to Hear, del 1999, l’artista ha ricreato un’e-norme sala prove, con un certo numero di chitarre elettri-che distese, sulle quali volteggiano e si posano incessan-temente una cinquantina di uccellini (diamanti mandarini per l’esattezza), in una danza armonica in cui il volo degli uccelli si accompagna al suono delle corde di chitarra piz-zicate. Lo spettatore entra un contesto del tutto nuovo, una voliera rock, un altrove impossibile e poetico.Il concetto di coreografia, o più genericamente di movi-mento, assume un ruolo essenziale con il suono e per il suono. L’opera si offre allo spettatore visivamente e acu-sticamente.

In Clinamen invece siamo messi di fronte a un baci-no d’acqua in cui fluttuano una quarantina di coppe di fine porcellana bianca di diametro variabile. Un sistema idraulico produce una leggera corrente diametrale nel bacino, per effetto della quale le coppe si muovono e si scontrano delicatamente, producendo un tintinnio acu-to al momento dell’impatto. La temperatura dell’acqua è peraltro mantenuta costante a 30 gradi centigradi per favorire la risonanza degli oggetti. Ogni coppa è stata studiata e scelta dall’artista per la sua sonorità speci-fica, per creare, come di dovere in una composizione strumentale, il giusto equilibrio armonico. Il suono che ne emerge, e il lento e costante fluttuare delle coppe, trasportano lo spettatore in una dimensione quasi tra-scendentale, meditativa, di spirito orientale. Le cop-pe potrebbero essere campane tibetane, suonate da un’entità autonoma al di sopra del potere dell’uomo.Il titolo dell’opera, Clinamen, deriva dalla fisica epicu-rea dove sta a significare la deviazione spontanea degli atomi nel corso della loro caduta nel vuoto in linea retta. Tale deviazione casuale permette agli atomi di collidere. Il concetto fu introdotto da Epicuro con il termine gre-co di parenclisi, successivamente tradotto da Lucrezio con il termine latino clinamen.

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Céleste Boursier-Mougenot, Clinamen, video estratto dall’opera.

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Nell’opera Aura del 2015, Boursier-Mougenot installa una batteria al centro di un ampio spazio museale. Al di sopra della batteria, in uno scomparto nascosto alla vista degli spettatori, si trova un silos colmo di noccioli di ciliegio. Un sensore di onde elettromagnetiche sospeso al soffitto rileva la presenza degli spettatori in prossimità dell’opera e aziona la trappola meccanica che libera dal silos una manciata di noccioli. Questi cadono da un’altezza di cir-ca 15 metri percuotendo i tamburi e i piatti della batteria, ovvero facendola suonare, per poi accumularsi al suolo in una sorta di recinto circolare. Manciata dopo manciata, spettatore dopo spettatore durante tutta la permanenza dell’installazione, la batteria suona, vive, e al tempo stes-so si consuma la sua energia vitale, sommersa da una montagna di noccioli di ciliegio.Il tempo scandisce anche in questo caso l’avvicinarsi di una fine certa.

Suono e movimento, tutto rimanda al concetto soggia-cente di vibrazione, e quindi di energia, all’origine del co-smo e quindi della vita. Siamo noi a muoverci, in maniera inconsapevole, tra queste frequenze che l’artista Boursier-

Mouginot trascrive in partiture metaforiche.

Le opere di Boursier-Mouginot sono state accolte dai più importanti musei di arte contemporanea del mondo, tra cui il Centre Pompidou di Metz, il Palais de Tokyo a Parigi, la National Gallery di Melbourne, la Biennale di Venezia e la Biennale d’Art Contemporain di Lione, il Barbican Cen-ter di Londra e la Pinacoteca di São Paulo.

L’artista è rappresentato dalle gallerie Paola Cooper a New York, Xippas a Parigi e Mario Mazzoli a Berlino.

*[Flavio Scaloni ha fondato Diwali – Rivista Contami-

nata nell’Ottobre 2012 insieme a Maria Carla Trapani.

Per la rivista coordina tutti gli aspetti redazionali, oltre

ad occuparsi delle collaborazioni su invito e della rubri-

ca InContro.

Ha inoltre curato gli speciali dedicati a FIAC Paris 2014

e 2015, Kermesse Contaminata 2014, Frieze NYC

2016, Paris Photo 2016, Speciale Fotografia 2016.]

In questa pagina: Céleste Boursier-Mougenot, Aura, dettaglio, 2015.Sotto: Céleste Boursier-Mougenot, Clinamen, video estratto dall’opera.

lANGUISHING ROMANtIC lOOPlucio costantini

Su una collina che guarda la valle del fiume Hudson, pres-so la cittadina americana di Barrytown nello Stato di New York, sorge una grande casa bianca in stile neoclassico. Ha più di duecento anni. Le fondamenta furono gettate nel 1811, in piena epoca napoleonica, e originariamen-te si chiamava La Bergerie, nome francese per L’Ovile. Un folto gregge di pecore di razza Merino, infatti, bruca-va l’erba dei prati intorno alla casa. Il gregge era stato un regalo di Napoleone Bonaparte al primo proprietario della tenuta, colui che la volle e la progettò, il Generale John Armstrong. A questi, che era Segretario alla Guerra e Ministro per le Relazioni con la Francia, dunque uomo di Stato vicino all’allora Presidente americano James Ma-dison, le pecore furono donate da Napoleone non senza, è lecito sospettare, una punta di biasimo e sagace ironia. Infatti, quando gli Inglesi nel 1814 diedero alle fiamme la città di Washington DC, al Generale John Armstrong fu in-giustamente attribuita la maggior parte della colpa. Il ritiro a una vita agreste e pastorale, insieme al dono di un greg-ge di pecore da parte dell’Imperatore in persona, stava lì a commemorare uno smacco subìto sul campo di battaglia e, insomma, una sorta di fatale fallimento esistenziale.L’interno della villa, anch’esso in stile neoclassico, è più in generale di sapore ottocentesco e romantico. Mobilia, quadri e oggetti sono ottocenteschi. Verso la metà del se-colo, la figlia del Generale Armstrong, Margaret Rebecca sposata Astor, cambiò il nome della tenuta di famiglia da La Bergerie in Rokeby perché, disse, la valle in cui si tro-vavano le ricordava quella decantata da Sir Walter Scott nel suo famoso poema epico, intitolato appunto Rokeby. Sempre nel corso dell’Ottocento, all’incirca verso il 1858, furono costruite anche l’intera ala di servizio e la magnifica biblioteca in stile gotico rivisitato, situata all’interno della torre angolare e probabile opera dell’architetto Alexander

Jackson Davis. Poi, nel corso del terzo decennio del No-vecento, all’esterno fu aggiunto un bel portico colonnato che ricorda, invece, alcuni tipici scenari descritti da Francis Scott Fitzgerald nei suoi romanzi sui ruggenti Anni Venti.Rokeby House, soprattutto al suo interno, sembra aver preservato pressoché intatta l’atmosfera ottocentesca nella quale fu edificata e arredata. Le stanze, ognuna del-le quali con le pareti dipinte di un colore diverso, hanno mantenuto l’aura ufficiale e sontuosa della residenza di rappresentanza. Tuttavia, allo stesso tempo, hanno con-servato anche l’aspetto romantico, per così dire intimo

L’artista Ragnar Kjartansson

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e familiare, della tenuta di campagna americana di metà Ottocento. Sembra ancora di percepire gli anni d’oro della casa e l’avvicendarsi delle stagioni in cui queste stanze fu-rono abitate, e animate, prima dagli Armstrong e poi dagli Astor.Pare di vederli, i membri delle due famiglie, alzarsi presto la mattina e aprire le ante delle finestre sulla valle del fiu-me Hudson ancora ammantata di brina. Nel pomeriggio, li sorprendiamo a leggere un racconto di Nathaniel Haw-thorne comodamente sprofondati in una poltrona della bi-blioteca dentro la torre e poi sorseggiare una tazza di tè al tramonto. Li osserviamo di nascosto, mentre stanno in piedi accanto alla vetrata che dà sul giardino delle rose, assorti, e immersi in chissà quali ricordi. C’è chi suona un Notturno di Fryderyk Chopin al pianoforte e chi sistema con ordine i barattoli delle conserve e le provviste all’in-terno della dispensa, chi è immerso in una vasca d’acqua calda nella sala da bagno azzurra, la sera, prima di andare a dormire. Sono imprigionati all’interno di questa vecchia dimora come dentro una trappola per topi, e non possono più uscirne. Sembra ancora di sentirne le voci.

In queste stanze al contempo fortemente evocative e vagamente inquietanti, sia pure forse un po’ macabre ma elegantissime e ricche di fascino, come del resto è giusto che sia nella migliore delle tradizioni romantiche, ci pare insomma di percepire delle presenze. La casa è effettivamente molto vecchia, non sbaglieremmo a definirla antica, e le presenze che ci sembra di avverti-re potrebbero essere fantasmi. Chissà che non si tratti delle anime delle persone che dentro questi ambienti vissero per tanti anni, magari per tutta la vita, e che poi qui scelsero di rimanere per sempre. Ma, più realisti-camente, la nostra è soltanto suggestione e quella che abbiamo l’impressione di vedere non è che la parvenza dei ricordi, delle memorie che questa dimora gelosa-mente custodisce. Allo stesso modo, quella che ci pare di udire non è che l’eco lontana e malinconica, langui-damente struggente, delle emozioni che qui si provaro-no. Le gioie e le angosce che il legno dei mobili e delle boiserie sulle pareti potrebbe aver assorbito e accolto al suo interno per sempre, archiviandole e preservan-dole con attenzione, come si farebbe con antichi reperti

Ragnar Kjartansson, The Visitors, dettaglio.

antropologici disposti con cura in una teca di un vecchio Museo di Storia Naturale.Quelle che vediamo sono dunque le stanze di un’antica villa neoclassica, come abbiamo detto, infestata di ricor-di ed emozioni. Come ombre proiettate sui muri o angeli, come visitatori di passaggio che lì trovarono l’ambiente ideale per restare e ristagnare in eterno, queste presen-ze un po’ spettrali ma languide e crepuscolari, e insom-ma certamente romantiche, cantano. Anzi, monodiano. Ognuna di loro imbraccia uno strumento musicale, suona e canta. La lirica che queste anime intonano, tutte insie-me eppure ognuna per proprio conto e come ignara della presenza delle altre, è sempre la stessa ed è composta di una sola riga. Un unico verso a sua volta costituito di otto parole, sempre le stesse e ripetute all’infinito, come una litania che non abbia fine. Once again I fall into my femini-ne ways, ancora una volta ricado nei miei modi femminili.Non c’è dubbio che quello al quale stiamo assistendo sia un loop. Suggestivo e struggente come un componimento lirico, suonato e cantato con trasporto e sentimento, ma pur sempre un loop. Un loop è come un cerchio, è il se-gno grafico a forma di otto rovesciato che viene impiegato in algebra per simboleggiare l’Infinito. È un disco rotto che

ripete sempre la stessa traccia, il serpente che ingoia se stesso, un’ossessione della quale non ci si libererà mai. Un loop è il fare e rifare sempre la stessa cosa, il torna-re immancabilmente sui propri passi e dunque ogni volta al punto di partenza, è il fallire e ricominciare fatalmente sempre la stessa impresa. Una maledizione, in un certo senso, un incantesimo che non si può spezzare. Secon-do molti, è un segno caratteristico dei nostri tempi. Effet-tivamente in campo artistico, già dagli anni Sessanta del secolo scorso, con le pratiche e le dinamiche proprie alla cosiddetta Arte Concettuale, il loop temporale è un ele-mento riconoscibile e ricorrente, usato con disinvoltura e una certa frequenza soprattutto da quegli artisti che, sem-pre all’interno di un contesto legato all’Arte Concettuale e più in generale alla dimensione intellettuale che le disci-pline artistiche avevano abbracciato in quegli anni, erano detti Situazionisti. Quindi il loop come strumento artistico, indissolubilmente intrecciato ai concetti di Tempo e ripeti-zione nel Tempo, di ripetitività intesa come coazione a ri-petere e di tensione all’invariabilità, è spesso riscontrabile all’interno di eventi, situazioni, happening e performance, dagli anni Sessanta fino ai nostri giorni.È proprio una performance di tipo concettuale e situazio-

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Ragnar Kjartansson, The Visitors, dettaglio.

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nista quella che abbiamo qui davanti agli occhi, una per-formance musicale filmata, cioè ripresa e registrata per mezzo di una telecamera, della durata di circa 64 minu-ti. È un’opera del 2012 e s’intitola The Visitors. L’autore, un artista islandese nato a Reykjavík nel 1976, città nella quale ancora oggi vive e lavora, è appunto un performer e un video-artista. Il suo nome è Ragnar Kjartansson. Si pronuncia Rag-nar Kiar-tan-son e il cognome è di fat-to un patronimico, cioè significa figlio di Kjartan. Ragnar è figlio d’arte, entrambi i genitori sono infatti attori molto conosciuti in Islanda. L’amore per il teatro e la predilezione che egli sembra sempre accordare alla messa in scena di un argomento, sono i tratti che lo caratterizzano sin da-gli inizi. Soprattutto, egli dichiara, a interessargli è la linea sottile che separa la realtà dall’irrealtà e il vero dal finto, così come la veglia dal sogno e la vita di tutti i giorni dalla rappresentazione scenica e teatrale che se ne può fare. Il loop è lo strumento che egli ha scelto come caratteristi-co della sua arte e che infatti è possibile rinvenire in tutte le sue opere. Anche il cerchio e la sua variante tridimen-sionale costituita dal cilindro, simboli appunto d’Infinito e ininterrotta ripetitività, sono elementi iconografici che non di rado riscontriamo negli allestimenti scenici delle perfor-

mance di Ragnar Kjartansson.L’opera The Visitors ruba il titolo all’ultimo album degli ABBA, il gruppo svedese di musica disco-pop famoso in tutto il mondo soprattutto durante gli anni Settanta. Essa è innanzitutto una performance e poi una video-installa-zione. Infatti, l’opera vera e propria si compone di nove grandi schermi nei quali, proprio come all’interno di nove stanze di una casa, troviamo l’autore e otto suoi amici, ognuno dei quali collocato all’interno di uno schermo tutto per sé, che suonano uno strumento musicale e cantano la loro monotona e languente litania. Ragnar Kjartansson è il ragazzo che suona la chitarra immerso nella vasca della sala da bagno azzurra. Apparentemente nessuno di loro è cosciente della presenza degli altri. Sono appunto pre-senze isolate l’una rispetto all’altra, anime in preda a un loop poetico e musicale, e hanno qualcosa dei fantasmi. In realtà, si tratta di personificazioni di ricordi, o forse di momenti di vita vissuta. Sono anche quadri viventi, table-au vivant si direbbe in francese, e ricordano, quasi ne co-stituissero una riedizione moderna e aggiornata, le figure di certi interni di fine Ottocento dipinti da artisti francesi come Claude Monet ed Édouard Vuillard, o dallo svizzero Félix Vallotton.

Alla fine della performance, e dunque del video che l’ha resa immortale, ognuno di questi personaggi esce ina-spettatamente dalla camera-teca nella quale sembrava essere stato imprigionato per sempre, e si ricongiunge agli altri nella sala della musica, intorno al vecchio pianoforte a coda che sembra fare da principe degli strumenti e perno ideale dell’intera composizione. Poi, ancora in modo del tutto inaspettato, il gruppo così riunito stappa una botti-glia di champagne, brinda, e finalmente esce dalla casa. Il cerchio è stato aperto e il loop magicamente interrotto. Inoltrandosi a piedi nudi nell’erba alta, il gruppo s’incam-mina giù per la vallata, in direzione del fiume Hudson che sembra di poter intravedere all’orizzonte. Lasciamo Ra-gnar e i suoi otto amici così, mentre diventano sempre più piccoli a mano a mano che procedono in lontananza, e ancora cantano l’enigmatico e unico verso Once again I fall into my feminine ways.Sulla copertina dell’album degli ABBA intitolato The Visi-tors e uscito alla fine del 1981, vediamo i quattro membri del gruppo, due donne e due uomini, due in piedi e due seduti, all’interno di una stanza poco illuminata e dall’a-spetto romantico e ottocentesco. Le pareti sono coperte

di quadri e lunghe ombre scure sembrano animarle. Si tratta dell’interno dello studio-atelier del pittore svedese Julius Kronberg, a Stoccolma. E proprio di Kronberg è il dipinto che campeggia alle spalle delle quattro figure e che sembra dominare, quasi con un senso di minaccia incombente, l’intero ambiente. Il personaggio ritratto è un angelo dalle ali bianche e maestose. A voler essere più precisi, questa figura austera con le ali dorate non è un semplice angelo ma Eros, il dio greco dell’amore, dell’e-stasi e del tormento. Verrebbe da sospettare, e non sen-za una certa ironia, che sia stato proprio lui, Eros munito di arco e faretra, a causare lo scioglimento del gruppo svedese e a decretare la fine della sua gloriosa carriera. Non a caso, una delle tracce contenute nell’album s’inti-tola When all is said and done, un’altra Should I laugh or cry, e un’altra ancora Like an angel passing through my room. Trent’anni dopo, l’opera di Ragnar Kjartansson inti-tolata anch’essa The Visitors, della quale abbiamo fin qui parlato, si riallaccia intenzionalmente a quest’ultima fatica degli ABBA, rappresentandone in un certo senso l’epilogo ideale e liberatorio.Un altro cerchio che si chiude, dunque, un altro loop che

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Ragnar Kjartansson, Take me here by the dishwasher, dettaglio.Ragnar Kjartansson, The End, dettaglio.

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torna invariabilmente a reinnescarsi. In molte religioni, sia orientali sia occidentali, il concetto di loop e di ripetizione continua non è certo una novità. È anzi fondamentale e centrale. Si potrebbe quasi affermare che ne costituisca l’essenza più intima. Basti pensare alla consuetudine della preghiera, diffusa e praticata ovunque nel mondo e nata insieme all’essere umano che sentiva la necessità di scon-giurare i cataclismi causati dalle forze oscure della Natura, e alla sua incessante e monotona ripetitività. Ancora, basti prendere in considerazione le forme di liturgia presenti in tutti i rituali della Terra e alla loro codificata, pressoché im-mutabile sequenza di formule e gesti. Pare che la ripetizio-ne continua, l’abbandonarsi fiducioso a un loop, a lungo andare conduca a uno stato di trance e alla trascendenza, al mutamento interiore di sé e, in certi casi, addirittura alla variazione delle condizioni ambientali esterne all’orante stesso. Tuttavia, il più delle volte la pratica del loop, o del

*[Lucio Costantini, napoletano di nascita, milane-

se d’adozione, classe 1968. Si avvicina alla fotografia

nell’era pre-digitale, quando realizzare una foto era un

lavoro che includeva ancora una certa dose di artigia-

nalità e ci si formava sul campo con ore e ore di espe-

rienza. Nel corso della sua carriera ha esplorato diversi

generi e tecniche, pubblicando per riviste importanti

come National Geographic, GQ, L’Espresso. Scrive per

passione, convinto che tra immagine e racconto esista

un sottile fil rouge.]

I n v e r s o > > >

“Azione e reazione, flusso e riflusso,

composizione e decomposizione, equilibrio instabile...

è tutto il sistema del Mondo.“

Edmond Thiaudière

Chiunque componga dei versi, scriva musica, chiunque

dunque crei, è conscio che ogni composizione passa

inevitabilmente prima per una destrutturazione di immagini,

terminologie, forma. Opere partorite tramite un dilaniarsi

continuo della mente, a volte dolce, altre violento, attraverso

contrazioni di pensiero. Una creazione fatta di dubbi,

blocchi, cancellature, ripensamenti, fogli accartocciati in

terra, strappati. E non è difficile pensando a queste varie

fasi, sulle quali i qui presenti autori invitano con i propri

versi a riflettere, ritrovarvi una similitudine con la vita

stessa per come la definiva Ernst Jünger, ovvero “sublime

decomposizione della materia.”

Laura Di Marco

mantra orientale che gli è affine e che per molti versi è ac-costabile alla preghiera occidentale, porta semplicemente a calmare il proprio animo. Porta cioè a blandire il pathos e il dolore che non di rado fanno da corollario al flusso im-petuoso della vita. Insomma il loop aiuta ad alleviare, per quanto ciò sia possibile, le ansie e le incertezze dei tempi.Ciononostante, a rimettere tutto in discussione in una specie di ossimoro che non lascia scampo a nessuno, senso profondo del loop compreso, ci ha già pensato lo stesso autore. Sorrow conquers Happiness, la tristezza vince sulla felicità, salmodia infatti all’infinito Kjartansson in un’altra sua opera del 2006. Opera che sette anni dopo l’artista islandese decise di riprendere e rivisitare in occa-sione di una serie di eventi previsti al MoMA di New York per il maggio del 2013. Il titolo che egli scelse per questa nuova versione fu inevitabilmente A lot of sorrow.

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Ragnar Kjartansson, Woman in E dettaglio.

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Parti ovunque

di me, sparse,

spezzate senza verso

ma legate con filo di carne

al mio sistema centrale

da cui diramano

terminazioni nervose.

Sbiaditi i colori, ma sanguinanti gl’occhi.

Voci, pelli, rumori: amoremiodoveseichefai/acheoracivediamo, tièpiaciuto/quantevolte,

èunsegnodeldestino.

Vorrei.non.averti.conosciuto.

Ricordi di quando, mai in realtà, ma ora ho lasciato

Quel pezzo, si vede,

non marcisce

e tira, ancora, ad ogni singhiozzo.

E parti nuove si mescolano alle vecchie,

ma non ricordi più tu, niente,

mentre mi smembro ancora nel ventre

e spargo.

Pezzi di me,

per strade, pe’ campi, nei letti, sotto le tende tra la sabbia,

ricordi, prima dell’avvento

Cosa si intende quando si parla di “perdita di integrità” di un individuo? Se la si potesse in qualche modo

raffigurare allegoricamente, vedremmo forse, come ci mostra nel suo scritto Tristano, i suoi pezzi dilaniati

che tuttavia ancora pulsano, tenuti insieme in modo labile dalla memoria sempre più impersonale e indi-

stinta, di un qualcuno che come ultimo desiderio domanda un un momento di unione di quei resti, una

immagine che lo ricordi per ciò che una volta era, prima di ricongiungersi al nulla.

[Laura Di Marco]

tRIStANO

della generazione nuova, detta easy jet,

prima di ora, c’è stata un’ultima, triste e farsesca,

coda, del secolo scorso,

in cui qualcosa, solo qualcosa, sfuggiva alla merce,

ed eran per noi soprattutto gli spilli sotto le palpebre,

i canti di lotta e i porno in cassetta,

e altri ricordi,

che ho lasciato lì, sotto forma di lettera,

sotto la macchina del gas. (Postilla che strizza l’occhio: più Sanguineti, meno Venditti).

Non è a te che leggi che parlo, ma ai miei pezzi,

che non danzano più e che non si manifestano che in quel nodo

gastrointestinale che, dicono, il valium può sciogliere,

ma che preferisco immergere nell’alcool, che non scioglie ma almeno

pare disinfetti.

Pulsano ancora i miei pezzi ma nessuno più li vede.

E vorrei ricomporli, tutti insieme, almeno una volta,

prima di andare, perché in fondo anche alla fine è il tutto,

l’intero, o vattelappesca, che cerchiamo.

Ricomponetevi pezzi senza verso, un’ultima foto di gruppo

in basso i più alti, in alto i più bassi, immobili così,

ricomponetevi perché io vi lasci a Vincennes, nel bosco, a colare colore, a sbiadirvi al sole, perché

finalmente anche solo la vostra immagine tornerà nel nulla da cui veniva, e io con loro, con voi.

Inv

erso

>>>

*[Tristano è il “piede impigliato nella storia” dell’autore che vilmente, da anni, si nasconde dietro diversi pseudoni-

mi. Questa è la sua ultima de-composizione, con la quale cede al vezzo narcisistico di un congedo elitista, ricco di

allusioni alla sua sfera privata, lavorativa e sentimentale, e che tuttavia, per il suo carattere essenzialmente pop, dirà

qualcosa a chiunque si concederà il lusso di leggerla con attenzione.]

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ROBeRtO marzano

In queste sue “composizioni” a tema musicale Roberto Marzano intona quasi un inno alla fantasia di mo-

zartiana leggerezza. Così strumenti e note, l’intero armamentario della musica, diventano oggetti di scena

e quinte teatrali di un metaforico palcoscenico esistenziale dove l’autore fa le sue prove melodiche o dis-

sonanti di vita: Dietro le quinte, diminuite dalle triadi del tempo /in lieto duetto m’intrattengo, allegro (anche

troppo) /con un’arpista morbida, priva d’ogni bemolle /dolce ancia che scuote dei timpani la pelle…

Spesso il sipario si apre su una atmosfera da piano-bar dalla quale lentamente si dipana il racconto come

ad esempio ne “Il pianista” o in “Swing” ma dove in un crescendo acustico, di verso in verso, risuona e

rimbomba il simbolismo sonoro della lingua: … il piano è la sua vita, un bianco & nero di iperboli /di accor-

di e raccordi aggrappati al destino…, oppure: Dislocato in un antro oscuro e precario / teso a stringer la

mano alle ombre reiette…

[Letizia Leone]

L’ULTIMO VALZER

Oh come farei trillare la mia ugola d’argento

se non fosse per l’acciaccatura che m’opprime il collo

senza intervallo alcuno, senza pausa

in un vortice di arpeggi dissonanti, di rapsodie eoliche.

Dietro le quinte, diminuite dalle triadi del tempo

in lieto duetto m’intrattengo, allegro (anche troppo)

con un’arpista morbida, priva d’ogni bemolle

dolce ancia che scuote dei timpani la pelle

tanto che timide terzine di crome col punto

nel crescendo funambolico degli archi

si legano per sempre a baritoni soprani

avvinghiate languidamente

nella vertigine di un ultimo valzer

che nel deliquio sinfonico latente

di certo non potran mai più scordare…

Inv

erso

>>>

*[Roberto Marzano, Genova 7 marzo 1959, narratore, po-

eta “senza cravatta”, chitarrista, cantautore naif e bidello

“alternativo”. Barcollando tra sentimento e visioni, verseg-

gia di vagabondi e di prostitute, di amori folli, di ubriachi e

dei quartieri ultrapopolari dov’è vissuto.]

IL PIANISTA

Non c’è croma che tenga, né pistola, né fuga

che impedisca a un pianista di strapazzar la tastiera

di sbudellare i bemolli annaffiati di whisky

non c’è rischio d’inganno nel vorticare di dita

il piano è la sua vita, un bianco & nero di iperboli

di accordi e raccordi aggrappati al destino

di un contrabbasso ubriaco di spazzole in testa

che tampinano a swing le visioni fugaci

di occhi caldi di brace a dar fiato all’incanto…

SWING

Dislocato in un antro oscuro e precario

teso a stringer la mano alle ombre reiette

spalancavo finestre al frusciare di spazzole

roteanti intenso vigore sulla ruvida pelle

che vibrava all’eccentrico swing vorticoso

a scrostare il disagio di randagi ingrugniti

melma umana spalmata sui bui marciapiedi

penzolante già dalla forca di una vita irretita

per non chiara ragione com’è chiaro il mistero

del brulicar di soffritti bruciati per oscuri motivi…

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vAleNtINA meloni

Valentina Meloni riporta la musica a quell’esperienza psichica primaria nella quale è radicata anche l’es-

senza della parola e della poesia. La via dei canti apre così la via ad un “regressus” che non solo è fa-

scinatoria disgregazione interiore, ma contemporaneamente movimento alare di estensione e dilatazione

dell’io all’infinito: muore una parte di me / ma in altri prati nasceranno fiori…ci mischieremo i canti dise-

gnando / mappe nuove geografie invisibili / da percorrere in esistenze sconfinate. La musica è il prodigio

orfico sopito nella natura e nelle materie. Non solo proprio la dimensione orfica del canto (e della poesia)

giustifica la familiarità col mondo sotterraneo: anche oggi ho parlato con i morti / nell’isola sassosa dei dio-

medeidi / in attesa di un volo scomposto.

L’autrice sembra porre al centro questo potere mitologico del “canto”: travalicare i confini tra la materia e

la coscienza, la vita e la morte…

[Letizia Leone]

(DALLA BOCCA ALLE DITA)

dalla bocca alle dita

sul corpo si dice ancora

e freme il sonoro che geme

dalle dita alla bocca

ne riscrivi il respiro in fiati

ansimanti d’ossa e di polpa

in nubi di desiderio

dalla bocca alla ferita

fin sulla punta delle dita

lì dove il bacio è

il contorno dell’ombra

esplora e si muta in luce

e in nuce neo-nata parola

viene fin sulle labbra affiora

a indicare il non detto

rarefatto taciuto nel mezzo

che non si dice che non

si scrive se non con il fiato

Inv

erso

>>>

se non con schiusa di bacio

in quel nembo lontano

in quel nido vicino al di là

del seno, al di qua del cuore.

(IL MARE DENTRO)

anche oggi ho parlato con i morti

nell’isola sassosa dei diomedeidi

in attesa di un volo scomposto.

il mare mi urlava dentro,

sapessi come mi manca, fino al pianto,

per ritrovare quel po’ di sale…

e dal vecchio grumo che chiama arsura ecco

un urlo selvaggio di tempesta

il barbarico yawp che non cessa

di echeggiare mi è venuto incontro

su ali bianche di albatros così grande

da oscurare il cielo.

mi chiedo quanta strada abbia fatto

per arrivare fino a qui, chi lo abbia destato,

chi lo guidi nel vento…

ma l’urlo che risuona nelle gole dei monti

canta che l’erba stessa è un bambino:

con gentilezza gli prendo la mano

lo chiamo a giocare, lo trascino

prima che l’albatros si posi a terra dove,

goffo, pesante e senza grazia,

si ammutolisce sfinito dai decolli.

ora il mare si acquieta,

nel rosso dei tannini, nei tessuti legnosi,

negli acini dell’uva dolcissima

che hai portato alla bocca…

quest’acqua è un vino che disseta.

4544

Cosa è l’esistenza se non ricerca continua di assonanze e di un equilibrio armonico non sempre realizzabi-

le che passa per toni calanti, tasti spezzati, tempo da rincorrere, chiavi ad indicare un cammino. Un ordine

tuttavia naturale di cose, che l’autore Signoretta descrive con la pacatezza di una umana presa di coscien-

za. Quella della vita intesa come un grande spartito che abbiamo il compito di tradurre in musica. Chissà

all’ultima nota cosa ci aspetta, forse un Paradiso che non risiede in altro luogo che non sia la nostra intri-

cata ragione.

[Laura Di Marco]

vINCeNzO signoretta

PROTEZIONE

Armonia

ambrosia per e del solo Re Tempo

dannazione e passione

per uomo e per donna

Accordi

tra vita e morte e tempo

che solo dall’attenta osservazione

possono esser carpiti

Consonanze e dissonanze

di e tra gioia e dolore

che reggono il

temperamento naturale

Chiavi

che discelano la via

visibile nell’arte di pochi,

Violino e Basso

(LE VIE DEI CANTI)

muore una parte di me

ma in altri prati nasceranno fiori

e gemme sui rami nuovi

becchi protesi dalle bianche uova

forse non lasceremo traccia

ma saremo frutti di alberi grandi

radici di fiori amari e fili d’erba

foglie verdi ed esili steli che ancora

si abbandoneranno al tempo

saremo musica nel vento tracceremo

immaginarie vie nel mondo

ci mischieremo i canti disegnando

mappe nuove geografie invisibili

da percorrere in esistenze sconfinate

strade remote libere solo per chi crede

muore una parte di me e tu l’accogli

tra le mani mentre la culli rinasco terra

quando la bagni io ridivento un fiore

*[Valentina Meloni ha pubblicato per FusibiliaLibri la

raccolta di haiku Nei giardini di Suzhou (Collana Es-

senze, 2015) con riproduzioni sumi-e di Santo Previ-

tera; Le regole del controdolore (Temperino Rosso Ed.

2016), raccolta di poesie illustrate dalla stessa autrice

e Alambic, antologia poetica personale sulla poesia

d’ambiente (Progetto Cultura, 2017).

Sue poesie e racconti compaiono in diversi lavori anto-

logici. Cura pagine e blog di eco-poesia, ecologia pro-

fonda e scrittura d’ambiente. Da alcuni anni lavora a un

progetto poetico-fotografico di collaborazione sull’u-

niverso femminile e la violenza di genere (Eva) che ha

portato alla realizzazione di un libro e a nuove forme di

sperimentazione poetica. Scrive sul semestrale fioren-

tino di letteratura e conoscenza «L’area di Broca» e su

«Euterpe-rivista di letteratura» di cui è redattrice edito-

riale per la rubrica interviste.Altre pubblicazioni e infor-

mazioni su www.valentinameloni.com]

Tasti spezzati

dimenticati ed inusitati

sunto di una

Esistenza completa

Inv

erso

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4746

PARADISO

Labirinti, a spirale

ricolmi di numeri

sordociechi, oltraggi…

è dolce l’immondo

Ora semi, ora interi

oppiati i petali,

a sfiorar le ansie

della ragione oscura

Li culli, con le onde,

e con veemenza

li privi d’Essenza, li bruci

ghermiti in asfissia

*[Vincenzo Signoretta nasce a Messina nel 75. Da sempre appassionato per la Biologia, a cui si aggiunge la

passione per Matematica e Informatica in adolescenza. La poesia indirettamente è da sempre presente nella mia

vita grazie a mia madre. Da quanto scrivo? Molto poco. Solo 4 anni, e solo se penso che sia giunto il momento

giusto per farlo...]

Nella notturna quiete

s’addimanda l’udienza

profonda, vera

salvazione, è eretica

Con vita dapìfera

e nessuna riconoscenza

sol quella di passi

dai timpani deaurati

Inv

erso

>>>

4948

veRSO UN “CANtO GeNeRAle” ANDAlUSO: lA lINGUA ORIGINARIA Del Cante Jondo NellA POetICA DI feDeRICO GARCIA lORCAValentina meloni

Dopo i primi insegnamenti di musica da parte della madre e della zia Isabel che lo avviarono allo studio della chitarra, fu il maestro Antonio Segura Mesa, vecchio compositore fallito che, a Granada durante gli anni del Liceo, si prese cura della formazione musicale di Federico Garcia Lorca e lo iniziò allo studio sistematico della musica folcloristica. Iniziazione che diede ottimi frutti al punto che Egli diven-terà in breve tempo un eccellente interprete al pianoforte di centinaia di canzoni popolari spagnole. Il suo progresso fu così rapido che Segura arrivò a credere alla possibilità di una carriera musicale da professionista per il giovane. Tuttavia il maestro morì nel 1916 e i genitori di Lorca si opposero fermamente a una sua eventuale professione musicale. La morte del maestro coincise con la nascita del dono poetico di Lorca che, sotto l’influenza del suo professore universitario in Lettere e Filosofia Martín Domínguez Ber-rueta, iniziò a comporre i primi versi e, successivamente, nel 1918, a pubblicare nella sua Granada, grazie all’aiuto finanziario del padre, la raccolta Impresiones y paisajes, quelle che il Poeta definirà poi il suo “primo fallimento”. Sono le primissime prose poetiche ispirate dai suoi viag-gi a cui seguiranno il Libro de poemas (1921, Madrid) nel quale si manifesta la fede primordiale nel mondo infantile, dove il canto della ninna nanna e il mito della favola ven-gono rielaborati in un sentore romantico-simbolista, sulla scia modernista dei maestri e poeti amati Antonio Macha-do e Juan Ramón Jiménez: «In questo libro […] offro l’e-satta immagine dei miei giorni di adolescenza e gioventù, quei giorni che collegano l’istante di adesso con la mia stessa infanzia recente.[…] La nascita di ognuna di que-ste poesie che hai tra le mani, o lettore, si concilia con lo spontaneo sorgere di un nuovo germoglio dell’albero mu-sicale della mia vita in fiore. […]» (da Palabras de justifica-

ción nel Libro de poemas)Il musicologo Adolfo Salazar elogia la raccolta sulla prima pagina del quotidiano madrileno più importante del mo-mento “El Sol” e lo identifica come un libro di transizio-ne in cui il poeta tende ad abbandonare l’ingenuità delle sue primissime composizioni per assurgere a un profilo più moderno nelle nuove. Il “lavoro presente” a cui Salazar fa riferimento è quello delle Suites, serie di poemetti cor-ti legati tematicamente nello stile delle varianti delle suite musicali dei secoli XVII e XVIII che, tuttavia, saranno pub-blicate organicamente solo nel 1983, quarantasette anni

dopo la sua morte. Appena un anno prima dalla pubblicazione del Libro de poemas, nel 1920, il grande compositore Manuel de Falla si stabilisce a Granada. Inizia tra il compositore e Federi-co, un’intensa amicizia che culmina in un sodalizio musi-cale e artistico che durerà fino alla morte del Poeta. Lorca viene coinvolto, insieme ai compagni del “Rincocillo”, nel recupero della tradizione autentica del cante jondo che, dalla «fremente emozione della razze orientali», come lo descrive Falla, sta lentamente degenerando in una mu-sica da taverna associata alla malavita dell’Albaicín, o in “spagnolate” buone per spettacoli e concerti. E per salva-guardarne lo spirito originario e vitale, che si sarebbe po-tuto irrigidire in una trascrizione filologica in canoni, senza riuscire a comprenderne le infinite varianti e modulazioni e le intrascrivibili improvvisazioni dei singoli cantaores, arri-vano alla decisione di organizzare a Granada un concorso di cante jondo, che avrà luogo nella Plazas de los Aljibes della Alhambra il 13 e 14 giugno del 1922. La poetica del Cante Jondo getta le basi per la teorizzazione del duende. È proprio durante il concorso, che ha un successo di pub-

blico e critica folgoranti i cui echi raggiungono Londra, Parigi e New York, che Federico prende nota della fra-se: «Tutto ciò che ha suoni neri ha il duende » del gran-de cantaor Manuel Torre, una locuzione (tener duende) che poi convoglierà le energie del poeta granadino nella famosa conferenza Teoría y juego del duende tenuta a Cuba il 20 ottobre del 1933: «Il duende può comparire in tutte le arti, ma dove lo si trova con maggiore facilità, com’è naturale, è nella musica, nella danza e nella po-esia recitata, giacché queste necessitano di un corpo vivo che le interpreti, poiché sono forme che nascono e muoiono di continuo ed elevano i propri contorni su di un preciso presente.» Contemporaneamente la poesia di Lorca si apre a una riflessione potente e viscerale che nasce davvero nelle più recondite stanze del sangue, una versificazione che si farà audace, lasciando cadere ogni maschera in Oda a Walt Whitman, verso un ritmo sempre più incalzante, frenetico e potente come quello di Poeta en Nueva York che culminerà nella sofferta di-chiarazione di autenticità amorosa dei Sonetos de l’a-mor obscuro. Sappiamo che Garcia Lorca usò il titolo

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Poema del Cante Jondo in una raccolta di poesie del 1921, sebbene non le pubblicò se non dieci anni dopo. Il 19 feb-braio del 1931 al Centro Artistico presenta una conferen-za, frutto dello studio condotto assieme al maestro Falla e agli amici del “Riconcillo”, volta a conservare viva la ricca tradizione del Cante Jondo, e va prendendo forma defini-tiva la teoria del duende; è chiaro che ciò che attrae Lorca è la qualità espressiva dei sentimenti più profondi dell’a-nima andalusa: «Il cante jondo […] è un raro esempio di canzone primitiva, la più vecchia di tutta l’Europa, laddove i ruderi della storia, i suoi lirici frammenti sono divorati dal-la sabbia, esso appare vivo come al primo mattino di sua vita. L’illustre Falla, afferma che la “siguiriya gitana” è una canzone appartenente al gruppo del cante jondo dichia-rando che essa è la sola canzone del continente europeo che si è conservata nella sua forma pura, perché nelle sue diverse composizioni, stili e qualità, essa ha in sé la musi-calità primitiva della gente venuta dall’Oriente.»Il Poema del Cante Jondo (pubblicato nel 1931) si ispira

proprio alla tradizione primitiva andalusa, convogliando nei canti del flamenco contenuti universali riflessi in un mon-do tragico in cui è costante l’idea della morte. Il popolare e il culto si fondono nelle metafore audaci per cantare il popolo perseguitato degli zingari e i personaggi marginali segnati da un tragico destino. Questa è la cifra stilistica personale e inconfondibile di Lorca che influenzerà un’in-tera generazione. Il tratto unitario e maturo del Poema del Cante Jondo culminerà, in piena maturità, nella stilizza-zione, con i versi di Romancero Gitano (1928), il “poema dell’Andalusia” che riscosse grande successo.Ma il «primo» Lorca, espresso nel Libro de poemas, ovvero in tutta la produzione che va dal 1917 al 1920, si manifesta nell’assoluta ricerca di una lingua materna in cui la verità coincide con la favola e il linguaggio si scioglie in sonori-tà concrete di canzoni, lamenti, madrigali, ballate, ninne nanne. Proprio sulle ninne nanne egli terrà, probabilmente fra il 1927 e il 1933, una conferenza, Las nanas infantiles, una riflessione poetica importantissima per comprendere

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il percorso del poeta e la sua “lingua”. Le fiabe, le ninna nanne, sono considerate da Federico «madri reverende di tutte le canzoni», sono il prodotto di voci anonime e lonta-ne nel tempo, giunte a noi attraverso la trasmissione orale dei secoli. Mentre le fiabe rapiscono l’immaginazione con la narrazione, le ninna nanne nascono, sul ritmo regolare del cullare, dal bisogno di incantare e acquietare come una sorta di rito poetico, in virtù dei poteri magici e ipno-tici che sono propri della parola. Ed esattamente come le fiabe popolari, le ninna nanne della tradizione, mentre in-cantano, non rinunciano a iniziare i piccoli «alla più cruda realtà e alla drammaticità del mondo», perché, come nota Lorca, «ogni figlio, anziché una festa, risulta un gravame e quindi le mamme non possono fare a meno di cantare, dentro l’amore, anche il disinganno della vita». Per que-sta vocazione ambigua ma preziosa tra acquietamento e iniziazione, Lorca considera la voce popolare ninnante di madri, balie, serve e nutrici (personaggi fondamentali nell’accudimento e nella formazione inziale dei bambini),

una «iniziazione minima alla vicenda poetica: i primi pas-si nell’ambito della rappresentazione intellettuale.» Nella malinconia delle ninne nanne spagnole ritroviamo anche la Pena, personificazione della donna nelle sue vicende do-lorose; pensiamo al Romance de la pena negra, capola-voro della raccolta Romancero gitano in cui si racconta la storia di Soledad Montoya. Soledad è un nome ma anche un sentimento, è l’assenza dell’altro, dell’amato, ed è una donna solitaria e inquieta che incarna l’anima gitana, ma anche l’anima spagnola che, pure devastata dalla guerra civile, rimane vitale; una pena dalle origini misteriose e an-tichissime che corre verso un tragico destino. Il romance è una composizione poetica di ottonari, tipica della tradizio-ne popolare spagnola, soprattutto orale. Troviamo le sue origini nei Cantares de gesta dei giullari medievali. Lorca vuole inequivocabilmente parlarci del popolo e, per coe-renza di tratto, usa la lingua del popolo in virtù del fatto che forma e contenuto debbano coincidere per esprimere la potenza massima del verso e la sua suggestione.

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La naturale inclinazione di Lorca verso la lingua originaria o materna che tende poi a una universalità di “grande ma-dre” nella sua terra Andalusa con la ricerca del Cante Jon-do, è un punto centrale della musicalità della poetica lor-chiana che, evidentemente, deve la propria cifra stilistica a questa tensione e ricerca continue. Ida Travi ricorda come il rapporto di ciascun essere con la madre sia singolare, inimitabile irripetibile, centrato su di un proprio indomabile sé ed è il medesimo rapporto che Lorca intrattiene con la poesia, andando alla ricerca di un linguaggio che si con-figurerà anch’esso singolare, inimitabile, irripetibile e per-corso da quell’onda di fuoco, rappresentata dal duende che non è altro che la propria essenza più selvaggia, più lontana, più autentica e antica. «Ho il fuoco nelle mani»; così si esprimeva Federico nel 1932 per definire l’origine della sua poesia ad un altro amico, Gerardo Diego, ma precisando: quel fuoco «lo sento e lavoro con lui perfetta-mente, ma non posso parlare di lui senza letteratura.» Bel-la e presaga del suo “presente futuro” questa enunciazio-ne, dal momento che sono proprio le mani le fondamenta della poesia scritta, nel passaggio da quella orale, quando il mito si concretizza in manufatto, perdendo quella pre-

senza arcaica di ciò che cammina e si trasforma, come conseguenza della trasmissione orale, ma assurgendo, ancora, alla potenza del flatus vocis originario con l’enun-ciazione e con la presenza del corpo poetico della voce nel porsi di fronte all’altro. Un fuoco, quello del Nostro, che si fonderà armoniosamente con la letteratura proprio nel periodo centrale della formazione della sua poetica, il secondo, dove Lorca arriverà a dominare il Cante Jondo fino ad appropriarsi delle sue figure principali per inventare nuovi miti in un fondersi di ricerca del folklore spontaneo con l’immaginazione potentissima e nuova del suo verso. Questo periodo che va dal 1921 al 1927, si configura, infatti, all’insegna di un marcato elemento d’ispirazione folclorica gitano-andalusa, seppure nelle opere di questi anni, che vedono la nascita delle Suites, del Poema del cante jondo, delle Canciones e del Romancero gitano si-ano riscontrabili peculiari diversità. In Canciones la tradi-zione popolare è fortissima, tanto che la «versificazione di queste poesie riflette pienamente la sua discendenza dagli antichi cancioneros, e i suoi metri brevi... e gli estri-billos uniti appena tra loro dalla ragnatela dell’assonanza si arricchiscono con ripetute allusioni e modi di dire popo-

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*[Valentina Meloni ha pubblicato per FusibiliaLibri la

raccolta di haiku Nei giardini di Suzhou (Collana Es-

senze, 2015) con riproduzioni sumi-e di Santo Previ-

tera; Le regole del controdolore (Temperino Rosso Ed.

2016), raccolta di poesie illustrate dalla stessa autrice

e Alambic, antologia poetica personale sulla poesia

d’ambiente (Progetto Cultura, 2017).

Sue poesie e racconti compaiono in diversi lavori anto-

logici. Cura pagine e blog di eco-poesia, ecologia pro-

fonda e scrittura d’ambiente. Da alcuni anni lavora a un

progetto poetico-fotografico di collaborazione sull’u-

niverso femminile e la violenza di genere (Eva) che ha

portato alla realizzazione di un libro e a nuove forme di

sperimentazione poetica. Scrive sul semestrale fioren-

tino di letteratura e conoscenza «L’area di Broca» e su

«Euterpe-rivista di letteratura» di cui è redattrice edito-

riale per la rubrica interviste.Altre pubblicazioni e infor-

mazioni su www.valentinameloni.com]

lari» (Daniel Devoto in Notas sobre el elemento tradicional en la obra de G.L.). Il duende, infine, esplode e si confi-gura compiutamente in un linguaggio surreale e barocco attraversato da un fremito «diabolico» nella produzione del terzo periodo che è quello dell’esperienza newyorkese del 1929/30 con le opere: Poeta en Nueva York, Llanto por Ignacio Sánchez Mejías, Seis poemas galegos, Diván del Tamarit e Sonetos de l’amor obscuro. Una poesia che si apre al verso libero in una espansione immaginifica, visio-naria, surreale e dinamica, molto complessa, accompa-gnata a rivisitazioni classiche: dal sonetto gongorino per un «amor obscuro» e dalle Coplas di forge Manrique per il Llanto alle rielaborazioni della lirica di Rosalia de Castro per i testi in lingua galiziana fino alla componente popola-re di matrice «arabo-andalusa» di gacelas e casidas. (C. Rendina) Lorca fonda gran parte della sua ricerca poetica sulla mu-sica popolare, perché, come scrive Marcel Proust nel suo elogio della “cattiva” musica ne Les Plaisirs et le Jours: «il suo posto è immenso nella storia sentimentale della so-cietà ed essa si è riempita del sogno e delle lacrime degli uomini, ricevendo e conservando il segreto di migliaia di

vite di cui fu l’ispirazione, la consolazione sempre pronta, la grazia e l’idea.» Un poeta intinge la propria penna nel calamaio magico dell’inconscio collettivo dando forma alla propria immaginazione, ed è proprio nella musica popolare che si condensano i miti e le memorie antichissime e più lontane. Non a caso, Jorge Guillén, nel Prólogo alle Obras completas di García Lorca, lo rievoca così: «Federico Gar-cia Lorca fu una creatura straordinaria. Creatura questa volta significa più che uomo. Federico infatti ci metteva in contatto con la creazione, con questo tutto primordiale dove risiedono le fertili forze. Quell’uomo era prima di tutto sorgente, freschissimo zampillo di sorgente, trasparenza originaria alle radici dell’universo.» Se la poesia è una ricerca a ritroso alla propria sorgen-te, quella di Lorca che dalla lingua madre si estende a un canto generale fino a rappresentare un intero popolo e i più grandi sentimenti universali di amore e morte, è già sorgente: Egli ha trovato una via privilegiata di comunica-zione tessendo una rete fittissima di congiunzione, ancora attuale e viva, tra memorie presenti e future; una linfa ver-de tra le radici e la chioma di quell’albero della vita anti-chissimo che è la Poesia. (Estratto dal testo originale indicato nel titolo)

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i l f o c u s d i I n v e r s o > > >

AkAzOMe eMON

l’eleGANzA Del tRAttO IN 31 ONjI

Torniamo a parlare di waka, la poesia giapponese breve di-stribuita in 31 onji, attraverso l’elegante tratto lirico di Aka-zome Emon. Poetessa e scrittrice vissuta nell’XI secolo durante il periodo Heian, nacque da una famiglia di artisti e letterati in data incerta, indicata da taluni al 976, e da ta-laltri al 956. È considerata una dei trentasei massimi poeti alla corte di Kyoto e annoverata nel Nyobo Sanjurokkasen (Trentasei grandi donne immortali della poesia) compo-sto nel periodo Komakura. Alla corte imperiale fu dama di compagnia della consorte e della figlia (futura imperatrice) del potente dignitario Fujiwara no Michinaga. Sposò un famoso letterato, Noe no Masahira ed ebbe due figli. La coppia era considerata molto unita e innamorata, tanto che nel 1012 la perdita accidentale per annegamento del marito la sconvolse al punto tale che cadde in profonda prostrazione. Questo stato di apatia per il dolore subìto la portò all’allontanamento dalla religione e al distacco emo-tivo dai suoi stessi figli di cui non riuscì più ad occuparsi.Fu contemporanea di Murasaki Shikibu, Izumi Shikibu e Sei Shonagon, poetesse di fama più nota e presenti anch’es-

se alla corte imperiale. Ne elogiarono la scrittura per il trat-to elegante e malinconico, e per l’aderenza alla tradizione classica mediante la presenza del riferimento stagiona-le esplicito, tipico della poesia Heian. Lo stile poetico di Akazome Emon si rifà al Kokinshu (il primo dei Nijuichidai-shu, le 21 raccolte di poesie giapponesi scritte su richie-sta imperiale) che comprende temi stagionali, d’amore e di separazione affettiva. Le sue poesie sono incluse nelle maggiori antologie ufficiali dell’epoca e nella raccolta per-sonale Akazome Emon Shu (Collezione di Akazome Emon).Alcuni storici le attribuiscono l’Eiga Monogatari (Storia de-gli splendori) una raccolta di racconti di spunto storico caratterizzata dalla personale rivisitazione romanzata della scrittrice, un’epopea in cui esaltò la gloria della famiglia Fujiwara e nella quale è ripercorso il periodo storico con la descrizione delle figure politiche e culturali del tempo. Partecipò a due importanti gare di poesia nel 1035 e nel 1041. In vecchiaia si riavvicinò al senso religioso dell’e-sistenza e si ordinò monaca. Morì in tarda età, nel 1041.

Dona Amati

Inv

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Non avrei dovuto attendertisarebbe stato meglio dormire e sognare.Fino a tarda notteho guardato la lunafin quando è tramontata.

*

Nel profondo del mio cuoretengo il nostro sorriso nascostoanche se stamani soffrocome un beccaccino che si gratta le piume.

*

Io non riesco più a raccontare distinguendo sogno e realtàin quale mondo mi sveglieròda questo sconcertante sogno?

Campi d’autunno,quando vedo i fiori,il mio cuore sembracompletamente fermo, o forsedesidera lasciarmi per sempre.

*

I fiori caduti della primavera scorsasono di nuovo in fiore.Oh se fosse così ancheper la nostra dolorosa separazione!

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Musica, rumore,

Armonia, composizione,

Tonica, sensibile,

Fotografia, musica per gli occhi,

Contrasto, contrappunto,

Dominante, tono, semitono,

Croma, semicroma, colore, timbro, clone,

Analogia, campionamento, ricampionamento,

Tempo, andante, poco mosso, micromosso, lento, fuori sincro,

Diminuendo, degradando, decomponendo,

Stop.

Pietro Bomba

Foto di Studio Mierswa-Kluska

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lUCIDA CAPtAzIONe DI URlA DI MAReMUSICHe CON DISPOSItIvI IN feRROanna laura longoFotograFie Di matteo barale

Un prolungamento del suonosfiora il collo adunco,confluendo in un cardigan,ricercando luoghidi acerbo e vivo ristoro.

(Versi tratti dalla raccolta Questo è il mese dei radiosi in-carnati del suolo – ed. Oèdipus)

Lucida captazione di urla di mare è il titolo che ho volu-to dare a una particolare esperienza di scrittura ed elabo-razione pianistico-performativa, che prevede l’inserzione nella tastiera del pianoforte di specifici dispositivi in ferro. Trattasi precisamente di esemplari di asimmetrici collari-sculture (cfr. foto), appositamente disegnati e creati per il mantenimento in stato di abbassamento parziale o tota-le di alcuni tasti, con lo scopo di generare una messa in

moto di suoni armonici assolutamente peculiare.Le sonorità prodotte vengono a dispiegarsi in forma di vere e proprie ondate ed evocazioni di urla di mare.Si produce effettivamente in tale lavoro un focus sull’ effet-to di PROLUNGAMENTO DEL SUONO, con una evidente sottolineatura del fascino e del valore di “vita interna “ che da esso può liberamente scaturire.Uno studio attento sulla gestualità mi ha indotta a dare un grande risalto alle pause e ai momentanei episodi di arresto dell’esecuzione, per una messa in evidenza- an-che fisica - di tutte le risonanze generatesi nel pianoforte, risonanze in grado di protrarsi più o meno a lungo, senza alcun impiego dei pedali.Essendo il brano specificamente incentrato su uno sfrutta-mento “miniaturizzato” dei suoni armonici, durante i con-tinui e reiterati arresti dell’esecuzione l’ascoltatore potrà chiaramente trovarsi nella condizione di udire e degustare i caleidoscopici effetti di risonanza e di prolungamento del suono, mentre - nei medesimi istanti - dal punto di vista interpretativo, non sarà tanto la mano ad avere un ruo-lo protagonistico, bensì il corpo, nella sua interezza, tra-mite movimenti di allontanamento fattivo dallo strumento stesso o di torsione del corpo grazie al posizionamento trasversale della panchetta. Ciò consente di offrire in so-

stanza una vera e propria interpretazione corporea del senso di ampiezza – durata del suono e di innesca-re inoltre meccanismi di coinvolgimento espanso tra lo strumento da una parte e lo spazio e il corpo dall’altra.

La tastiera come spazio volumetrico e sorpren-dentemente moltiplicativo

Ma chi è che col ferro del buioriplasma lingotti di intenti antitetici?Chi disarma con suoni di clacsonogni fioco brusìo di ribelli pannie ne genera – conscio –appetito di antipodi?(Versi tratti dalla raccolta PLASMA – Sottomultipli del tema “Ricordo” – ed. Fermenti)

Il progetto Lucida captazione di urla di mare rientra in un più ampio lavoro sedimentativo che poggia e ruota intorno al titolo FERRO DEL BUIO & SONS, nel quale l’ambientazione e la suggestione del “manto del buio” vengono viste come valide premesse per lo sviluppo dell’itinerario artistico. L’assunto di partenza è che Il pia-noforte e nella fattispecie la tastiera possa esser vista

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stan

te>>

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come luogo abitativo, come ambito territoriale ben speci-fico, popolato di oggetti dalle fattezze ambigue e allusive. Gli oggetti a cui stiamo riferendoci sono proprio i collari poc’anzi descritti. Essi, una volta introdotti nelle fessure dei tasti, sono variamente esposti a situazioni di sovrap-ponibilità o affiancabilità, dunque posizionati in modi più che variegati suggerendo – poeticamente - l’idea di un brulichìo e di una misteriosa “vita interna”. Le forme asim-metriche di tali collari-sculture in ferro rimandano inoltre ad ipotetici costumi futuribili o ancora a neo-armature di taglio avveniristico.Ciò che differenzia tale lavoro dalle pratiche cageane o di “preparazione” dello strumento è innanzitutto il fatto che l’attenzione venga posta non sulla cordiera bensì sulla ta-stiera e inoltre il fatto che l’oggetto non risponda più sol-tanto a un’ipotesi di modificazione ed alterazione del tim-bro originario ma sia appositamente progettato e creato affinché possa delinearsi una peculiare valenza plastico-figurativa o propriamente scultorea oltreché musicale, per

dare conto dunque di un’idea estetica frutto di una visione personale. Si prospetta in definitiva una vera fusione tra l’esperimento propriamente musicale ed il progetto instal-lativo (quest’ultimo potrebbe tra l’altro valere anche in for-ma a sé stante ). La dicitura spesso impiegata è quella di “arte addizionale”.Il progetto induce infine a far muovere, in forma più o meno sottostante, una riflessione sul tema molto attua-le dell’antropizzazione: metaforicamente la tastiera, vista come suolo e/o territorio, diviene una tastiera per l’ap-punto antropizzata. I collari-sculture, quasi a mo’ di resi-dui di accessori o vestimenti umani rimandano per l’ap-punto alla presenza dell’uomo, alle sue leggi più o meno discutibili di occupazione del suolo. Partendo dal greco anthropos il termine antropizzazione fa riferimento proprio agli interventi innumerevoli portati dall’uomo, per produrre cambiamenti di svariata natura, con tutti i limiti che da ciò possono derivare.Il paesaggio antropizzato, così ricreato sullo strumento,

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si rende oltremodo esplicito, si trasforma in fatto visibile, persino vistoso: esso diviene dunque una trasposizione e un rispecchiamento di quella che è la globale situazione odierna. Il riferimento in questo caso è prioritariamente al paesaggio urbano e industriale, non propriamente agrario.Il lavoro nel complesso si presenta in tre configurazioni di-stinte :CONFIGURAZIONE 1 (Sfavillante e illesa)CONFIGURAZIONE 2 (Detritica)CONFIGURAZIONE 3 (Foriera di onde)

Le foto qui presentate sono di Matteo Barale.

Per approfondimenti :www.annalauralongo.com

www.instagram.com/annalauralongo_neoarmature

*[Anna Laura Longo è pianista, perfomer, poeta ed

artista visiva. La sua formazione di stampo umanisti-

co ha affiancato gli studi classici al Diploma in Piano-

forte conseguito presso il Conservatorio “O. Respi-

ghi” di Latina sotto la guida di A. Taglione. Nel 2013

ha pubblicato il volume di argomento musicale Ap-

parati di suoni metodicamente cruciali (ed. La città e

le stelle). Ha al suo attivo una variegata produzione

poetico-performativa. Sono emblematici i seguenti

volumi : Plasma (Fermenti), Nuove rapide scosse re-

tiniche (Joker) Procedure esfolianti (Manni). Intenso

inoltre il suo peculiare lavoro di progettazione di in-

stallazioni visive e lavori eclettici di arte-poesia.]

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6362

La musica è esperienza uditiva, eppure gli occhi condividono il piacere musicale in ogni performance live. Per inoltrarsi nell’u-niverso nascosto della musica, la Berlin Philharmonic Orchestra ha lanciato nel 2009 una campagna stampa visivamente evocativa per promuovere la sua stagione concertistica. Gli strumenti musicali rubano i riflettori nella serie “Näher an der Klassik”, che si traduce in “più vicino al classico”. Andreas Mierswa e Markus Kluska, fotografi con sede a Monaco, hanno messo a servizio la loro esperienza nella fotografia macro per realizzare immagini mozzafiato dell’interno di alcuni strumen-ti. In una delle immagini, una luce celeste penetra nei fori di un violino, illuminando le curve sinuose del ventre cavo dello strumento. Un’altra fotografia cattura i riflessi di rame tra centinaia di canne d’organo, producendo un paesaggio infinito e intricato. Il pubblico può accedere all’intimità degli strumenti di cui presumibilmente solo artigiani esperti e musicisti profes-sionisti sono a conoscenza. Immagini per gentile concessione dello Studio Mierswa-Kluska.

StUDIO MIeRSwA-klUSkA

*[Lo Studio Mierswa-Kluska ha alle spalle quasi 20 anni di collaborazione creativa tra i due fotografi Andreas Mier-

swa e Markus Kluska. Sin dall’inizio, la fotografia sperimentale è stata il senso comune di questo progetto di suc-

cesso. Hanno prodotto editoriali di moda per riviste internazionali, scatti commerciali e campagne pubblicitarie. Nel

2009 la loro campagna “Inside Instruments” per la Berlin Philharmonics è stata premiata con la medaglia d’oro per la

fotografia dall’ArtDirectorsCub of Europe. https://www.mierswa-kluska.de/]

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Sono quelle vibrazioni che si susseguono e

fanno sussultare che creano un singhiozzo

ed un singulto di stupore e frenesia. Una

scala di note e ritmo che percorrono e

precorrono gli attimi della nostra esistenza.

Una composizione sinergica e quasi perfetta

da costituire il sottofondo musicale dei

giorni che, apparentemente monotoni,

rimbalza da un ritmo ad un altro. Ed ecco

ritrovarsi sospesi nel comporre ognun per

sé la propria melodia; in guizzi e fruscii si

scardinano, a poco a poco, le accademiche

musicalità ridondanti. E si trova un fil rouge

di perifrasi sonore che ci accompagnano

costantemente nella mente, senza cedere

il passo al frastuono rimbombante della

frenesia cittadina.

Sara Lombardo

GOOD vIBRAtIONS, IMPROvISAtIONS fOR New COMPOSItIONSsara lombarDo

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e>>>La composizione di un brano in armonia con il proprio modo di sentire, nasce anche indiscutibilmente da una decomposi-

zione dei cardini prefissati. Se il nostra vita si costruisce attraverso le esperienze positive e negative che siano, il comporre la propria esistenza può nascere in parte anche da una decomposizione psicologica e fisica, un incessante fare e disfare per arrivare a generare Arte. Arte e vita, associazione indissolubile e perfetta per sugellare la propria esistenza.Una perfetto make-up può rivelarsi una dissoluzione e decomposizione strutturale, un passaggio quasi simultaneo dal bello al brutto passando per il “pasticciato”:

Una fluida e casuale composizione coloristica su base musicale riporta a ricordi di mondi lontani e fantastici, a delle vere e proprie creazioni della mente che fluide scorrono; dopo il video “Memories of Paintings”.

https://www.youtube.com/watch?v=1QWj_iRYAfY

https://www.youtube.com/watch?v=lKo5KhkLxT4

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https://www.youtube.com/watch?v=VjnTS7JphVE

Il regista francese Thomas Blanchard ha prodotto un secondo cortometraggio sperimentale al fine di creare effetti ipnotici a ritmo di musica.

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https://www.youtube.com/watch?v=GpYsyM3rZ6M

E se la musica di Puccini, La Bohème, diventasse fonte di ispirazione per la composizione letteraria, andrebbe a costitu-ire un importante commistione di intenti nella malinconica storia degli amanti interrotti. In questo caso la composizione musicale porterebbe ad una composizione letteraria e costituirebbe il motore che muove una dichiarazione d’amore.Espiazione (Atonement) film del 2007 diretto da Joe Wright.

Per non parlare poi dell’associazione unica e perfetta creata dalla danza con la musica e viceversa. Un fluido e quasi fisiologico processo di costruzione sistemica finalizzato alla composizione di arte danzante musica armoniosa. In ma-niera innovativa ed unica Pina Bausch genera una danza che nasce dall’improvvisazione delle movenze, dall’inter-pretazione personale della forma che si vuole rappresentare, dove i danzatori diventano dei veri e propri attori e autori dell’opera, creano le proprie pièces (che Bausch denomina stück), ecco perché vengono chiamati “danzattori”. Esiste una interazione tra i danzatori ed i materiali scenici di derivazione strettamente teatrale, viene coinvolto in questa danza tutto ciò che il palco porta con sé.

https://www.youtube.com/watch?v=Ys5xfdn5rlo

Ma se la composizione nasce anche dalla decomposizione, nel senso di sfaccettamento prismatico delle forme sonore nello spazio, uno dei maggiori interpreti di tutti i tempi è sicuramente David Bowie.Personaggio poliedrico, camaleontico ed ambiguo che ha fatto della sua vita un’opera d’arte vivente, Bowie impersona la “composizione” di sé nella sua arte.

h t t p s : / / w w w. y o u t u b e . c o m /watch?v=G8sdsW93ThQ

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Il suo amore per la recitazione e la teatralità lo portarono a un’immersione totale nel suo androgino alter ego musicale. I suoi innumerevoli alter ego Ziggy Stardust, Aladdin Sane, Halloween Jack, The Thin White Duke e Nathan Adler, rac-contano un artista a tutto tondo. Da Ziggy al Duca Bianco, Bowie cambiò sperimentando generi musicali all’avanguar-dia, dal folk al glam-rock, poi fuse pop e rock. Ad ogni personaggio corrispondeva una svolta artistica e musicale.

Il suo stile musicale è molto difficile da classificare in maniera univoca, è un art rock, seppur caratterizzato da un’alter-nanza di sperimentazioni unite al sound tipicamente brit pop.Che poi alla fine forse su Marte ora si troverà benissimo!

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Abbiamo incontrato Patrizio Lai, maestro di

yoga e meditazione. La sua è un’esperienza

trentennale che attualmente lo conduce

attraverso l’insegnamento dello yoga a bambini

ed adulti e la formazione ai futuri docenti. Tra

i suoi corsi, è presente quello di campane

tibetane attraverso seminari e dimostrazioni

pratiche tramite sessioni “sonore”.

Laura Di Marco

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PAtRIzIO lAI

LO YOGA È L’ARTE DELL’ANIMA Un vero artista -ci dice il Maestro Lai- fa arte per esternare una sua emozione ed esigenza interna; così è anche per lo Yoga, in quanto parliamo di due linguaggi entrambi spi-rituali. Il creare mandala (altra pratica insegnata da Patrizio Lai) costituisce al tempo stesso un’arte ed un atto medi-tativo. L’arte è inoltre una forma di sessualità più profon-da, come lo è anche la musica. Tutti sono linguaggi che affinano la nostra mente ed il nostro corpo, conducendo questi ultimi ad un livello superiore. LE CAMPANE TIBETANE ed il potere della RISONANZA Patrizio Lai si definisce un ricercatore di strumenti che ri-

svegliano l’anima e riconducono al suono primordiale, ad un concetto di pace e pura consapevolezza. Da anni stu-dia il basso che egli considera uno strumento che unisce la parte tribale, ovvero la base ritmica, a quella melodica dando come risultato un senso di profondità attraverso le vibrazioni basse che creano una risonanza. Proprio que-sto concetto di risonanza, lo ha portato circa quindici anni fa ad avvicinarsi al gong ed alle campane tibetane. “La priorità è stata quella di aiutare gli allievi ad entrare in meditazione attraverso il suono. La campana tibetana originaria appunto del Tibet, attraverso la sua particolare lega composta dalla fusione di sette metalli base ognuno

legato ad uno dei pianeti del nostro sistema solare (Oro = Sole, Argento = Luna, Mercurio= Mercurio, Rame = Ve-nere, Ferro = Marte, Stagno = Giove, Piombo = Saturno), è strumento che possiede il forte potere di far entrare in meditazione attraverso il suo suono.Non è tuttavia la tonalità o la nota suonata con questo strumento, la componente importante ma la sua risonan-za la quale ha il potere di cambiare la frequenza delle no-stre onde cerebrali, rendendole più sottili, stato che si rag-giunge appunto, tramite la meditazione. Questa pratica, risale agli sciamani (Bon Po) ed i viaggi astrali che com-pivano; pratica che ha peraltro delle fondamenta molto

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più tecniche di quanto ci si possa immaginare, in quanto i “viaggi” sono provocati dalla stimolazione attraverso le vibrazioni della campana, della ghiandola endocrina pine-ale che quindi viene indotta a secernere e rilasciare, ol-tre alla melatonina, sostanze neuro trasmettitrici in grado di produrre veri e propri effetti psicotropi. La campana, a seguito di numerosi passaggi attraverso anche la me-dicina ayurvedica tibetana che curava appunto col suo-no oltre che con gli elementi naturali, è arrivata dunque ai giorni nostri. Esistono suoni che creano le vibrazioni ed altre che le distruggono. Esistono vibrazioni intonate e vibrazioni dissonanti. Durante la malattia fisica, le nostre

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cellule non sono accordate tra loro. Sono quindi oggetto di una “disorganizzazione sonora”. Non è quindi da esclu-dere che in un futuro, attraverso l’acquisizione da par-te dell’uomo di nuove conoscenze, sarà magari possibile curare patologie anche attraverso il suono, “aggiustan-do” la dissonanza creatasi nelle cellule del nostro corpo. Il primo ritmo dell’uomo dalla sua nascita comincia infatti proprio dal battito del cuore caratterizzato da una contra-zione ed espansione di esso. Conseguentemente, arriva il suono derivato dell’articolazione della parola. La foneti-ca è dunque un altro aspetto importante della nostra vita. Noi entriamo in comunicazione tra entità, tramite il suono. Quindi la pronuncia di una singola parola, a seconda di

come avviene, può avere un effetto negativo o positivo sulla nostra mente. Per questo quando si insegna yoga, è fondamentale fare attenzione anche all’uso delle parole ed al modo in cui esse vengono pronunciate. Secondo il pensiero buddhista la verità che conduce alla Cessazione della Sofferenza è da ricercare nel Nobile Ottuplice Cam-mino, ovvero: Retta Visione, Retta Risoluzione, Retta Pa-rola, Retta Azione, Retti Mezzi di sussistenza, Retto Sfor-zo, Retta Consapevolezza, Retta Concentrazione. Quindi anche nella “retta parola” appunto, ovvero l’uso corretto di essa. Per concludere, possiamo quindi affermare che tutto parte dal suono e muore dal suono”.

a cura di Laura Di Marco

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*[Patrizio Lai è docente e insegnante di yoga e me-

ditazione, referente del dipartimento delle scienze oli-

stiche Aics Yoga Liguria. Musicista olistico attraverso

campane tibetane e gong.

https://m.soundcloud.com/patrizio-yoga/ancient-

melody]

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CINeMA fARNeSeFernanDo acitelli

Dichiararsi eretici della modernità in una cartolina dalla tes-situra di colore sbadatamente vintage: questo è Cinema Farnese di Fernando Acitelli, un poeta senza compromessi stilistici. L’autore è nato e vive a Roma dove ha studiato Let-tere Moderne presso l’Università “La Sapienza” di Roma e Filosofia alla “Pontificia Università Lateranense”. Ha pubbli-cato dieci raccolte di poesia, tra cui La solitudine dell’ala de-stra, Cantos romani e Accattone. In prosa il romanzo Sulla strada del padre e due volumi di racconti: I vecchi esultano la sera e Miagola Jane Birkin, Filologia degli anni Sessanta.Cosa rimane dell’ultimo periodo del Novecento ancora se-gnato da una volontà di recupero spirituale, dopo un se-colo di vicende artistiche dolorose ma feconde è svelato in questo romanzo-confessione degli ultimi attimi di un’e-poca. Una zona spazio-temporale che sopravvive nell’in-teriorità dell’artista e di tutti coloro hanno scelto la strada della contemplazione attiva, antitesi efficace al model-lo conoscitivo empirista dei flaneur contemporanei. Non esiste più il luogo dell’analisi, la bottega dove si svolge il mondo misterico dell’artista. Cinema Farnese è forse un tributo alla cara, vecchia scuola romana che per molti rappresenta l’ultimo approdo della poesia autentica? Può darsi, ma non solo. Sicuramente l’habitat del protagonista si pone come orgoglioso baluardo difensivo contro l’e-sperienza della parola e del gesto compulsivo, controbat-tendo il viaggiatore anaffettivo dei giorni nostri. Il giovane protagonista del romanzo si abbandona al contatto este-tico con il codice antropologico del suo gruppo e del suo tempo, godendo di quelle ricercatezze che i momenti ina-spettati possono regalare; concedendosi l’osservazione privilegiata sui gradini delle piazze dei poeti e dei pittori. Egli si perde nel ventre di Diana, la dea selvatica dal pube adorno e boschivo incarnata in Valeria, ferina e nutrien-te come latte di capra che sembra offrire generosamen-

te affacciata dall’attico di una delle piazze più belle del mondo. E come non condividere in quei minuti-secoli ad aspettare la parola del Poeta, angelo passeggiatore della Roma nel crepuscolo, le cose che avremmo voluto vive-re e dire anche noi, nati malauguratamente solo qualche anno dopo le grandi utopie? Magari seduti come il prota-gonista ad aspettare il momento propizio per cogliere l’a-nima della letteratura dalle silhouettes di quei figuri di eso-tica bellezza che passeggiavano da soli o in compagnia: Veneziani, Bellezza, Paris e la leggenda di Sandro Penna che nessuno era mai riuscito ad incontrare. Elegantissimi, un po’ fricchettoni e un po’ dandy, con le lunghe sciar-pe di seta indiana a sfiorare la cintola e la parola pron-ta ad annegare nella melma della periferia più estrema.Ma il tempo passa come la narrazione implacabile di Aci-telli che decide di imprimere un sigillo di unicità a questo

lascito generoso di quegli anni, con una struttura letteraria completamente rivoluzionaria e reazionaria contempora-neamente. Tutta l’opera è scandita da un ritmo geometri-co indispensabile per contenere il flusso dei pensieri: l’e-sordio di ogni capitolo con un paragrafo a mo’ di quadro centrale seguito poi da pagine spietatamente divise in due lunghissimi periodi senza le necessità sintattiche e proso-diche del punto fermo, posto solo alla fine di ciascun deli-rio espresso in tutta la sua potenza. E così che il tempo si consuma, in attesa degli autobus che portano in periferia o allo stadio, in un cannone di fumo. Intanto si materia-lizzano i pensieri davanti al Cinema Farnese, la Facoltà di Farmacia, il Poeta che ti passa ancora una volta davanti e ancora non hai deciso quale approccio tentare. Poi il chinotto Neri e la serranda del Farnese dove sederti e re-spirare ancora a pieni polmoni, al crocevia delle giornate.

Antonella Rizzo

TITOLO Cinema FarneseAUTORE Fernando AcitelliEDITORE Fahrenheit 451PREZZO DI COPERTINA 15,00 €PAGINE 196ISBN 978-8899791070

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DI AlleGORICO MIele - RAPSODIe SARDeugo magnantiillustrazioni Di steFania sergi

Qui si canta una terra allegorica in cui si mescola mito e creazione. Una terra in cui il miele della poesia affiora len-tamente, nella cura minuziosa di celle-parole, disposte in una topografia reale e immaginata, rievocata nei paesaggi dell’isola amatissima, percorsa ancora da antiche remini-scenze pagane e culti d’acqua, di pietra e di parola. Qui si riporta alle labbra “sa vidda ‘e su medde”, il villaggio del miele, luogo del culto, in provincia di Nuoro, dedicato ad Aristeo, dove fu ritrovata una statuina raffigurante la divi-nità con il corpo ornato da api. Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, lui che aveva insegnato agli uomini ad allevare le api e che, giunto in Sardegna dalla Beozia, fon-dò l’antica Caralis, l’odierna Cagliari. Qui si canta la Sar-degna, con le sue asperità di pietra, con i suoi antichissimi misteri nuragici, con le sue acque bucoliche di fonti chiare e fiumi e laghi nascosti, con il miele della sua bellezza e la fatica di gente operosa che la abita. Ma si canta anche la solitudine del viaggio, le tappe di un antico e nuovo nostos verso il locus amoenus, un mondo immaginario, quello del mito e quello dello stesso aedo che mostra la sua visione metasensibile addentrandosi in una catabasi intima e per-sonale di emanazione sacrale. Il canto inizia rivolgendosi alla Musa e chiedendo aiuto alla voce di dentro come chi si allontani e canti da solo, come chi sta per cominciare: «Spiegami come si fa con le paro-le/ il miele, vorrei saperlo prima/ di morire, e fammi capire come/ inizia e poi finisce un viaggio,/ perché le voci affon-dano eppure/ sembrano lucenti...»Nel poema si chiede alla Musa di indicare la strada, come chi non sa da dove cominciare; eppure il viaggio comincia dalla nascita, la testa e gli occhi per primi, soltanto dopo i passi, e solo dopo ancora le mani, la scrittura. Prima la parola, il suono, l’udito. Qui la nascita è diventare ciechi, proprio come un aedo non farsi abbagliare da alcuna di-

strazione esteriore, come chi da una miniera guardi fuori, ma affinare gli occhi dell’anima ed entrare in contatto con le cose, senza neppure la meraviglia del bambino, sen-za alcuno stupore, ma con la chiarezza asciutta di chi va limando parole, come già viene detto nella prefazione di Leonardo Omar Onida. E la metafora superba che Ugo Magnanti adopera per queste sedici rapsodie sarde, nella seconda che è la chiave di tutte, è quella dell’albero silen-zioso che, senza occhi, ma con radici e foglie e rami alti, esso stesso preso nella sua visione, esso stesso “facente parte”, tende il suo essere a captare il passaggio di “ciò che non si vede”: «Apro le palpebre come /le può aprire una pianta,/ e cieche nozze vivono ovunque:/ della festa, vi dico, anch’io/ sono parte, sono l’albero/ incoronato con

l’afa d’estate:/ così il silenzio si spoglia di tutto,/ e tutto è come per sentito dire. […] È questo passaggio di ciò/ che non si vede a stringere i frutti/ in un soave pugno, a far parlare/ i rami più alti…»Come chi ritrovi un grembo: poesia come rivelazione e ricerca di una Terra Madre che provveda a tutto l’essere nella sua triplicità di Essere, Padre, Figlio e di Poeta, Aedo, Rapsodo, giacché Uno è molti a partire da tre. Lo ricorda Ida Travi nel suo saggio sulla lingua materna (L’aspetto orale della Poesia) nel capitolo in cui tratta della benda per gli occhi, ella scrive: «Dal drappo che la scrittura stende sulla coscienza si ricava la benda per gli occhi, dalla ben-da per gli occhi i panni per le ferite della coscienza. [..] Il suo linguaggio non può essere che un enigma o il sintomo

di un trauma. Interrogare gli dei, oppure iniziare il viaggio scendendo in sé. Quando ogni voce tace, chi tende la mano verso il libro fa tutte e due le cose.»L’aedo si fa rapsodo (tutto è come per sentito dire) e inizia a cantare la canzone che arriva da un Altrove, una terra increata e preesistente, quella del mito e del disincanto, quella dove si scende abbracciando l’aria. In questi versi, ma in tutte e sedici le rapsodie, che sono introdotte dal cantore (prima voce) in un preludio di poche parole, prose poetiche che assurgono a tópoi di un poema più ampio (seconda voce), emerge sottilmente la tensione fra il den-tro e il fuori, con la relativa pro-tensione del dentro verso il fuori e del fuori verso il dentro; un paesaggio interno che va a posarsi sulle cose: «La mia altezza guarda giù/ da un sogno, ma si misura/ con i passi che mi sono tolti:/ sono l’albero nel vento/ che viene dal Monte Meana,/ dal-le grotte in cui il Tallone di spiriti/terrestri sbriciola la lepre estinta,/ e il suo scheletro bianco.»Poi riprende il viaggio e stavolta è il poeta che attraversa la propria terra dolorosa, per essere gettato fuori, come chi sia scalzo e con la bocca arsa, come chi parli di un passaggio aperto, come chi sia sbattuto da un’onda sugli scogli. In questa catabasi che è discesa al regno dell’invisibile ma anche al luogo sospeso delle anime non viventi, Ma-gnanti dialoga con i morti, come chi sia vivo e incontri chi sia morto. «Di giorno ho più anime dentro» scrive, ed egli stesso chiede di diventare invisibile (potessi chiedere/ alle notti e al cielo allora/ chiederei di essere invisibile) per ca-larsi nel paesaggio di chi non è più. «Se un essere umano allunga un braccio e trae a sé pagine scritte, è come se accostasse l’orecchio alla bocca di qualcuno che non c’è. Tra la mano e la mente si stende, per il tempo d’un lampo, una zona oracolare, in cui “il libro” sta per albero, nuvola,

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pietra, cose del mondo da cui emerge, come se venisse da fuori e in silenzio, la voce interiore.» (Ida Travi)Così le voci di Dora Comneno, Sergio Atzeni, Pinuccio Sciola, Renato Raccis e quelle dei poeti e scrittori citati Umberto Saba, Percy Bysshe Shelley, Giuseppe Dessì, Vito Riviello, e quelli non citati ma presenti nella forma di ispirazione classica e richiami voluti e inconsci, emersi in questa discesa, si fondono ai paesaggi che hanno abi-tato, cantato o solo sfiorato; così il poeta “tellurico” si fa numinoso e alle cose non viventi dona una voce come di anima, e le rocce cantano, i venti e le acque cantano, i giunchi cantano, le acque e tutto, vivo, vibra di eguale e smisurata preesistenza, in una tensione elettrica, propria di ciò che muta e dunque esiste: «[…] vive/ una tentazio-ne in ogni brezza,/ e un esistere accanito si flette/ con le vampe d’agosto.»Il poeta, drammaturgo e romanziere tedesco Gerhart Hauptmann, Nobel per la letteratura nel 1912, diceva che «Esser poeta significa far risuonare dietro le parole, la pa-rola primordiale.» (Jung, Psicologia e Poesia). E cos’è la parola primordiale se non la roccia, l’essere più antico che ha vibrato nel suono del big bang e dell’impatto della na-scita del mondo? Così la parola primordiale, la parola del mito, del primissimo suono, è la pietra e Ugo Magnanti, che dedica la sua sesta rapsodia alla memoria di Pinuccio Sciola, scomparso proprio durante la stampa di questo libro, lo sa, conosce la magia delle sue sculture sonore esposte in tutto il mondo, e ne lascia preservato il mistero, l’enigma di cui parlava Ida Travi, consegnandoci il bagliore accecante della luce: «Alla città offrono la nuova pietra/[…]sotto la mano che la vuole viva/ e sente la vena tiepida dove tutto/ è un frammento su cui batte il sole.»Nei versi di queste sedici Rapsodie Sarde, accompagnate dalle meravigliose tavole di Stefania Sergi, artista sarda,

nelle origini, nel sangue e nella veracità del suo popolo, ri-corre la parola pietra come una metafora di qualcosa che ha preso corpo, consistenza, ma anche pesantezza: «Ho scheggiato una pietra e spinto/ un macigno» scrive Ma-gnanti, sfuggendo all’indistinto dell’inconscio, del muto, dell’invisibile, del taciuto, del non più vivente, del rarefat-to che si adombra e nella forma oracolare del “fissarsi in scrittura”, pare perdere la lucentezza intravista e andare a fondo (perché le voci affondano eppure/sembrano lucen-ti): «finché/ si dilata una parabola di sassi/ lanciati ai ce-spugli,/ sempre scherzerà un addio/ respinto dalle vene.»; «le mani sono prese/ da un pezzo di ossidiana/ e indovi-nano gesti che non conosco»; «ora che hai una gemma al collo e le sorgenti/ ardono, la tua gola è un sasso che scandisce/ tumulti, e accade nel silenzio,/ anche se gli oc-chi chiedono di andare/ e hanno già dimenticato il dono»; «Una stella è avida sul lavatoio/ e sa farsi ripudiare, e cre-scere […] / per un segno intuito/ nel tonfo dei panni sulla pietra.»Queste sedici Rapsodie sono un canto pagano di risco-perta in cui ognuno può andare a ricercare la propria vox originis, lasciandosi guidare dal canto delle pietre e dell’ac-qua e dai suoni che la poesia richiama alla memoria. «Po-esia rapsodica del sedicesimo anno del nostro millennio è, dunque, questa nigro simillima cygno o, come si di-rebbe oggi, più unica che rara costruzione di sapienza e tecnica versificatoria su carta da musica in cui le sillabe-note dei righi-versi fanno canto e poesia all’infinito, per confessione dello stesso autore, oltre i limiti del testo, là nell’ulteriore contralto sedicesimo tra il grave femminile e l’acuto maschile ritmare interiore, anzi, nel suo ‘due volte infinito’» scrive Efisio Cadoni nel suo bellissimo saggio a conclusione dei versi del Magnanti. Un lavoro di pregio e di cesello che vuole pazienza nell’attesa, lo dice lo stesso

TITOLO Di allegorico miele - Rapsodie sardeAUTORE Ugo MagnantiEDITORE FusibiliaLibriPREZZO DI COPERTINA 16,00 €PAGINE 136ISBN 978-8898649297

autore: nelle minuziose note che percorrono l’opera, nella prosa di apertura come chi scivoli su una carta inviolata, come chi inventi un paese, come chi abbia per dovere il mezzogiorno, e nei versi: «Come in attesa di una crepa, annoto/ il respiro degli argini, con gli occhi rossi/ […] per-ché questo/ è il mio lavoro, è questo ciò che deve fare/ chi sorveglia una diga…». Lavoro che somiglia proprio a un’arnia, in cui per estrarre il miele, ossia la poesia, che ha richiesto tempo e lavorìo, si deve separare ciò che è buono da ciò che non lo è. E mi è tornata in mente, leg-gendo con attenzione Di allegorico miele (mi sono resa conto che tra riposi e riprese ho impiegato quasi un anno) la sublime riflessione sulla vita che arriva a trasformarsi in metafora di Fabrizio De André in Ho visto Nina volare: nel ritornello «Mastica e sputa da una parte il miele mastica e sputa dall’altra la cera» e che – lo racconta Ivano Fossati, coautore della canzone, durante un concerto a Perugia nel 2000 – fu ispirato a Fabrizio dalla scena di alcuni vec-chi che masticavano il favo per separare la cera dal miele, mentre stavano girando il Sud, nei pressi di Matera. Una poesia che va detta, che va cantata, nel senso proprio di masticata, portata di nuovo alla bocca, saggiata, nelle sue molteplici sfumature e richiami profondi, fatta propria nelle memorie dei luoghi e delle suggestioni, andando a ritrovare le allegorie che legano altri significati ai luoghi, reali, metaforici, interiori e narrativi (i tópoi di cui s’è detto) percorsi dall’autore come chi sia perduto e affiori: «E non si sa come sia successo,/ non si è visto l’attimo che cam-bia, /ma soltanto una strada rigonfia/ che sbuca su una fioritura,/ e il fragore di chi nasce ora:/ un faticoso fiore per tutti.»

Valentina Meloni

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COMe veNtO SUl MONtealessanDra carnoVale

Si apre così, in medias-res questo libro di Alessandra Car-novale, con una sorta di fenomenologia dell’incontro amo-roso in questa nostra contemporaneità illuminata dai bits degli impulsi elettronici che corrono a velocità amplifica-ta: “Amore esotico”, “Amore precario”, “Amore girovago”, “Amore clandestino”, “Amore breve”, “Amore depresso”, per citare alcuni titoli. L’amore nella post-storia delle so-cietà di massa. L’amore nel tempo della precarietà con-sumistica dei sentimenti. Questo amore, declinato anafo-ricamente testo dopo testo in tutte le sue manifestazioni, ci chiarisce quale sia l’intenzione della poetessa nel voler rimuovere l’ultima patina polverosa del sentimentalismo e recidere ogni convenzione o mascheramento. Alessandra pare aver preso su di sé quello che Calvino definiva essere il compito del poeta di “rappresentare” il proprio tempo, di coglierne lo spirito sottile nell’ “immedesimarsi nell’ener-gia spietata che muove il nostro secolo” e porsi in sintonia “col movimentato spettacolo del mondo”.Il movimentato spettacolo del mondo ormai tutto riflesso nelle vetrine allestite per le svendite fallimentari, specchi obliqui del nichilismo di cose e sentimenti trasformati in merce. Dunque la prima parte della raccolta, una anato-mia dell’“Amore sgraziato”, si articola per gradi in un cli-max della disillusione “Non è iniziata bene la giornata”, e si sviluppa in una sorta di racconto neo-cinico sulle pos-sibilità di un vero incontro, sempre eluso o rimandato o vissuto nell’assenza di un’attesa. Spesso anche la pie-nezza della passione viene esibita attraverso l’iterazione della negazione: “Quello che inferno non è”… “Quello che inferno/non è,/erano le mani/attorno ai seni./Quello che inferno/non è,/era la preparazione del letto/per un breve incontro.”L’estraneo, lo straniero (figura della distanza e dell’aliena-zione che con Camus inaugura la modernità) qui è figu-

ra dell’assenza, contingenza esotica, quasi epifania di un istante vissuto per essere dimenticato: “Lo straniero com-pare /per fare all’amore: /resta il tempo /appena /di con-sumare /e poi corre via, /via /verso altre storie… L’uomo straniero /porta /con sé /un vuoto /ancora maggiore.”Il tema della precarietà, brevità e caducità, oppure dell’il-lusione e disillusione, serpeggia e illumina le tre sezioni in cui è suddiviso il libro: l’amore, l’Arte, le donne.Con una manovra un poco spericolata l’autrice riposizio-na le pedine dei valori su una scacchiera inedita: i valori di autenticità, verità, eternità (parole queste che sembra-no ormai diventate retoricamente ingombranti) non sono da ricercare più nella vita vera ma nell’Arte, trasformati in surrogati della vita dalla letteratura. Così come la poesia o le parole di Shakespeare diventano il deposito inalienabile di ciò che resiste al tempo: “È l’Arte che rende immortale/

TITOLO Come vento sul monteAUTORE Alessandra CarnovaleEDITORE Flower-edPREZZO DI COPERTINA 9,99 €PAGINE 78ISBN 978-8885628113

ogni azione”, scrive Alessandra Carnovale nell’ “Omaggio Shakespeariano”.L’arte della quale non si conosce “la categoria di apparte-nenza” viene testimoniata ed evocata in queste pagine da figure di donne quali Virginia Woolf o da eroine fiabesche quasi a voler riportare il discorso entro lo spazio edenico dell’infanzia, sì, ma come termine di paragone spietato con la vita vera, quel “peso /del tempo / perso dietro a una chimera.”La Bella addormentata o Cenerentola sono termini di pa-ragone beffardi, marcano una distanza abissale con la menzogna di una favola illusoria che pesa sull’innocenza e stupore infantili come una ferita. Un inganno che non avrà mai risarcimento, sembra dichiarare l’autrice:

Le fiabe non raccontanoil vero: Cenerentola non desideravaaffatto andare al ballo e ancor meno sposarequel presuntuosodel principe azzurro; §anche la Bella Addormentataaveva accumulatosonno arretrato,dopo anni di veglie forzate;la Bella era animalistae avrebbe preferitola selvatica Bestiaalle smancerie raffinatedel giovanotto imprigionatonel suo corpo irsuto…

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Le fiabe mistificano la natura dei fatti:si sposaronoe vissero per sempretutti infedeli e scontenti,però serviti e riveritiall’interno di palazzidai nomi altisonanti. §

Una lettura a cura di Letizia Leone

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PlANet Of tHe lOSt DOllSnoise cluster

Abbiamo sempre ritenuto fondamentale dare una “forma” alla musica non-canzone, quei suoni difficilmente memo-rizzabili, indubbiamente poco orecchiabili e sicuramente non “riproducibili”, che racchiudono svariati sottogeneri musicali il più delle volte sconosciuti al grande pubblico ma non per questo meno intriganti. In ambiti che spazia-no dallo sperimentale all’industrial, dall’improvvisazione al darkambient, dal concreto all’elettroacustico, troppe volte ci si imbatte in album o compilation “dedicate a” o “ispi-rate da” personaggi, situazioni o idee, che in realtà altro non sono che raccolte di musica senza un reale filo logi-co, con brani che non hanno una vera e propria persona-lità, spesso casuali e non studiati per il concept richiesto. Diversamente, la nostra “mission” è sempre stata, prima come DBPIT & XxeNa ed ora come Noise Cluster, quella di lavorare espressamente attorno a un tema o di creare una vera e propria storia completa di personaggi che si esprimono in termini di suono, parole e immagini. Il nostro ultimo lavoro, Planet of the Lost Dolls, pubblicato dall’eti-chetta svizzera Luce Sia, è ispirato alla storia di Don Julian Santana Barrera e l’Isola delle Bambole Perdute (La Isla De Las Muñecas); la leggenda ambientata in un isolotto sperduto lungo un fiume messicano, vuole che una bam-bina, annegando in circostanze misteriose, abbia trasferi-to il suo spirito nel corpo della sua bambola, che, ancora oggi, muoverebbe occhi e arti, suscitando sentimenti di inquietudine. Quell’isoletta si è trasformata in un luogo di culto dove ogni anno approdano centinaia di turisti che vi aggiungono sempre più bambole, ormai deturpate dalle intemperie. Un luogo spettrale ma allo stesso tempo af-fascinante. Costantemente attratti dallo Spazio profondo e devastati dal lato angoscioso della vita sulla Terra, ab-biamo idealmente trasposto la storia della bambola su un pianeta remoto dove un uomo disperato e sconfitto ha

condotto una ragazza (sono amanti? sposi? padre e figlia? Questo non viene svelato…) per salvarla dalla ferocia della vita sulla terra; a causa di un doloroso incidente ella però muore soffocata, lasciando dietro di se, appunto, solo la sua fedele bambola… La storia si sviluppa attraverso 8 brani musicali partendo da A Living Hell che è una sorta di manifesto in cui si evidenziano il disagio, la disperazione della vita attuale e al tempo stesso la spasmodica ricerca di una via di fuga [gotta take you to a space we can call our own - gotta take you out to space - pack your things we gotta go - doll up, honey we gotta go], passando per Disappearing, brano strumentale che segnala appunto la fuga dalla Terra, The Chase in cui i due protagonisti si sen-tono braccati da oscuri inseguitori, gelosi del loro tentativo di ricerca della libertà [run baby run - don’t let’em catch-

us again - run baby run - let’s get out of this hell], A Matter of Life and Death, pezzo che descrive l’angoscia del pro-tagonista di fronte all’ineluttabilità della morte della donna di cui si sente in qualche misura responsabile [what’s that look in your eyes - what’s that dying sound? - lose my mind, seen - your cryin’] e in seguito alla quale la bambola che la ragazza aveva portato con sé, ne raccoglie ideal-mente l’anima e le sopravvive come un feticcio; seguono altri brani strumentali (A Brighter Future, Dismal Awake-ning, The Lost Dolls), fino al conclusivo The Siege, L’Asse-dio, in cui spettrali vocine di bambole vintage si ripetono ossessive come un oscuro carillon a minare l’integrità psi-chica del sopravvissuto... Un altro aspetto a nostro avviso fondamentale in questo ambito musicale, è l’abbinamento dei suoni con immagini coinvolgenti, a tema col concept del lavoro; quindi le bambole, inquietanti e assolute prota-goniste di questa storia, appaiono in onirici videoclip rigo-rosamente in bianco e nero, alternandosi in macabre dan-ze, ad accompagnare le esibizioni dal vivo del progetto.

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Planet Of The Lost Dolls: https://lucesia.bandcamp.com/album/031-noise-cluster-planet-of-the-lost-dolls

Noise Cluster www.facebook.com/noisecluster http://noisecluster.wixsite.com/noisecluster

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CAZI

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Dopo il brillante esordio nel numero XVII con

la musica di Bjork, continua la collaborazione

di Diwali con Maurizio Coira. Per De

Composizione l’autore ripercorre la carriera

e l’esperienza musicale di Moby, dagli esordi

fino al clamoroso successo dell’album Play,

dall’empassse creativa che ha seguito

l’uscita di quest’ultimo fino alla stagione

presente.

Flavio Scaloni

elettROSUBlIMAzIONemaurizio coira

Inas

colt

o>>>È un pomeriggio di fine estate quello che mi trova spiag-

giato sul divano. La pressione bassa ha lasciato il posto a un torpore forzato e la speranza che si riaffacci l’autunno appare più remota di un contratto a tempo indeterminato. Nell’immobilità della situazione, l’ennesima replica di una commedia all’italiana mi restituisce suoni inaspettati, suo-ni indimenticabili. Apro gli occhi: i titoli di coda sono ac-compagnati da una colonna sonora magnetica. Stregato dalle immagini che questi suoni primordiali evocano nella mia testa, mi metto sulle tracce dell’autore e ne esco vit-torioso dopo qualche ora: Moby. La traccia in questione è Porcelain, hit superinflazionata e onnipresente nelle pub-blicità del passato.Abbozzato in un momento professionale e personale mol-to complesso del musicista, il brano lo rende noto in tutto il mondo, ispirando parole di apprezzamento in critici e colleghi. Eppure Porcelain non era tra i brani prediletti del suo compositore. Lo confessa lo stesso Moby nella sua autobiografia contemplandone l’esclusione dalla compila-tion Play. «Forse mi sbagliavo. Forse Porcelain e le altre canzoni nuove non erano poi così atroci. Accesi il lettore MiniDisc e la riascoltai. No. Era proprio come la ricordavo, debole, prodotta e mixata male». Nonostante i dubbi arti-stici onnipresenti nella sua produzione, con le sue 12 mi-lioni di copie vendute Play è stato l’astro più brillante della carriera di Moby… Il pessimismo di partenza è giustificato dal terribile flop del secondo album, Animal Rights, in se-guito al quale l’artista viene scaricato dalla storica casa discografica che lui stesso aveva contribuito a far cresce-re. Ma chi è davvero questo ragazzo di periferia, al secolo Richard Melville Hall? Pronipote del celeberrimo Herman Melville, inquilino di una fabbrica abbandonata, cristiano e vegano convinto, dipendente patologico da birra e supe-ralcolici... La sua carriera artistica e musicale ha vissuto

notevoli momenti di alti e bassi a livello di notorietà e scel-te stilistiche, coincidenti il più delle volte con varie crisi emotive, gravi attacchi di panico, – a causa dei quali è stato capace di rientrare dalle Barbados dove si trovava in vacanza, dopo sole 21 ore di permanenza e spendendo ben 1500 dollari per il biglietto aereo – dubbi di fede, rela-zioni inconcludenti e il lutto dell’amata madre a cui devo lo pseudonimo letterario che lo accompagna fin da bambi-no. Come nel romanzo di Herman Melville, nel quale è l’uomo a cercare la balena, allo stesso modo il Moby mu-sicista non cerca il favore dei fan o il benestare delle case discografiche: la musica veniva composta in base al mood del momento, sullo sfondo della New York della fine degli anni ’80 - inizi anni ’90, tra mafiosi, tossicodipendenti, spacciatori di crack, clochard, locali notturni e rave infiniti. È così che nascono pezzi dance geniali come Go – famo-so in quanto si regge su un campionamento tratto dalla colonna sonora del telefilm Twin Peaks, assai amato da Moby – Next Is The E e Feeling So Real, trasmessi a rotta di collo dalle radio inglesi e immancabili sui piatti dei dj newyorkesi. Demoralizzato dalla piega cupa e angosciosa che aveva infettato la musica dei rave e dei night a metà degli anni ’90, sottofondo macabro degli effetti cadaverici delle nuove droghe sui giovani frequentatori delle serate, Moby pensa bene di lanciarsi in un entusiastico esperi-mento musicale con un album punk rock, così da poter risvegliare nei raver quel desiderio di sfogarsi e lanciarsi in pista per esprimere tutta la voglia di vivere. Purtroppo lo spensierato parto chiamato Animal Rights rimarrà un figlio minore dell’autore e contribuirà ad alimentare il suo desi-derio di ritirarsi dalla scena pubblica per dedicarsi ad altro. Durante uno scambio di idee con alcuni dei manager tra-ditori, però, riceve un’illuminazione che riporta così nelle sue memorie: «Nulla mi vietava di suonare il punk e lo

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speed metal nel tempo libero, oppure ubriaco con gli ami-ci nei peggiori bar. I miei dischi, però, dovevano essere melodici e intensi. Dovevo impegnarmi a fare musica che regalasse felicità al pubblico, o quanto meno una splendi-da e consolatoria tristezza». Da siffatto calderone umano, nel maggio 1999 emerge quell’unicorno fiabesco e surre-ale chiamato Play, dal quale vengono estratti ben nove singoli ormai entrati a far parte della routine di film e pub-blicità. Nonostante Bono Vox degli U2 avesse esortato Moby a pubblicare una nuova raccolta simile alla prece-dente profetizzando l’arrivo del meritato successo, questo giungerà quanto mai inaspettato e tardivo: per l’esattezza di concretizzerà una decina di mesi dopo l’uscita sul mer-cato di Play. Vuoi per l’utilizzo sapiente dei campionamen-ti, tratti da una raccolta del musicologo Alan Lomax, vuoi per il sublime accostamento di pennellate folk e sfumature gospel su un fondo di musica house che trasformano i brani in opalescenti acquarelli, vuoi che una musica elet-tronica così accattivante non si era mai sentita, comunque l’impresa riesce e tutti i singoli entrano nelle top ten di molti paesi, Italia compresa. Al di là di Porcelain, la musica di Moby è più frequentemente associata al brano Why Does My Heart Feel So Bad? e al suo video dolceamaro,

trasmesso con una certa frequenza dalle varie reti musi-cali capeggiate dalla storica MTV. A chi ha respirato per un discreto numero di Pasque l’incenso delle chiese, la ripe-tizione perpetua e mantrica degli stessi versi, Why does my heart feel so bad? / Why does my soul feel so bad? / Why does my heart feel so bad? / Why does my soul feel so bad? He’ll open doors / He’ll open doors (Perché il mio cuore sta così male / Perché la mia anima sta così male? / Perché il mio cuore sta così male? / Perché la mia anima sta così male? / Lui aprirà le porte / Lui aprirà le porte), evoca il ritmo dei biblici salmi o del Cantico dei Cantici. Nulla di più calzante. Del resto la traccia vocale dal respiro così cosmico e ovattato è cantata dal gruppo The Shining Light Gospel Choir: un piccolo e prezioso tributo ai cori gospel delle piccole chiese tanto amate dal musicista cri-stiano, che si fermava sulla soglia ad ascoltarli dopo le notti brave trascorse tra locali e rave. Un cenno doveroso va rivolto al video cartoon velatamente autobiografico che accompagna il brano, nel quale un tenero uomo della Luna decide di esplorare la Terra, per poi fuggirne con la coda tra le gambe e fare nuovamente ritorno sul tacito e silente satellite. La turbolenta avventura di questo omino – per gli amici “Piccolo Idiota” – è allegoria del disagio di Moby

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nell’affrontare la vita quotidiana, dove la propria casa è porto, rifugio e conforto da quella realtà crudele della mu-sica e del jet set, che oggi ti osanna e domani ti fa scalare il Calvario sotto il pesante legno della croce – e se sei par-ticolarmente sfortunato, dopo ti crocifigge insieme a tutti gli altri ladri. Scorrendo le tracce di Play, non si può rima-nere indifferenti davanti al ritmo orecchiabile e brillante, deliziosamente ambient, di Natural Blues. Quinto singolo dell’album riscosse un discreto successo nel Belpaese, forse perché utilizzato dalla RAI come sigla delle partite degli Europei di calcio del 2000. Giacché i natali di Moby lo collocano nella nicchia della musica elettronica, in cui parole e brani servono a sostenere e perfezionare il mixag-gio tra drum machine, chitarre elettriche, tastiere e quant’al-tro, anche in questo caso Moby scelse di campionare un brano già esistente e di immergerlo nel mare magnum di armonie; stavolta, la scelta più che azzeccata ricadde su Trouble So Hard un brano a cappella della cantante folk Vera Hall, giusto per aggiungere quel pizzico di sale a fine cottura. Il successo della sinestesia musicale rappresen-tata da Play si rinnova in parte con il disco successivo, 18, un seguito ideale dell’album precedente: qui i campiona-

menti si amalgamano a numerose collaborazioni con altri artisti del panorama musicale internazionale. Probabil-mente, l’unico brano noto di questa compilation è We Are All Made of Stars, schietto riferimento poetico-scientifico al fatto che la materia di cui siamo composti deriva tutta dalle reazioni termonucleari nel cuore delle stelle. A que-sto, seguirono altri otto compilation che non godranno della stessa buona stella delle due precedenti, fino alla più recente dello scorso giugno, More Fast Songs About the Apocalypse. Il titolo è specchio fedele dell’evoluzione psi-cologica e culturale dell’artista: sconcertato dalla visione, nel giorno del suo compleanno, dell’attentato alle Torri Gemelle e amareggiato dalle scelte politiche dei suoi con-nazionali, il Moby cinquantaduenne di oggi è molto diver-so dall’autore di Play. Non lesina critiche nei confronti del-lo stile di vita alimentare della popolazione, sul quale pubblica anche un volume-fiasco che vanta un numero di copie vendute pari circa agli abitanti del paese di Vigna-nello in provincia di Viterbo. Anche riguardo alla religione, ha la sua da dire: abbandonata da tempo una visione cri-stianocentrica dell’esistenza ora ha abbracciato una filo-sofia a più ampio raggio con contaminazioni del buddhi-

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smo e dello spiritualismo. In una recente intervista, ormai totalmente sobrio, non fa mistero del suo timore per la scoperta dei super-batteri, definiti «l’attuale vera preoccu-pazione», e della liquefazione della società moderna, come profetizzato da Bauman. Del resto, a chi avesse pensato che dopo un travolgente Play il musicista fan del motto “Io è un altro” di Rimbaud e amico di David Bowie, si fosse definitivamente messo in Pause o Stop, questi risponde con un beffardo e innocente… On Air!

*[Maurizio Coira è nato ad Anagni nel 1983 e vive a

Roma. Dopo aver conseguito due lauree e un dot-

torato nel settore scientifico, decide di lasciare ricer-

ca e carriera universitaria per inseguire il suo sogno

artistico. Coltiva la passione per l’arte figurativa ed

espone in varie gallerie della Capitale; nel frattempo,

si fa coinvolgere nel turbinio del mondo teatrale, pre-

stando il suo volto a vari personaggi della commedia

classica. Contando spesso solo sulla resistenza delle

proprie gambe, comincia le sue peregrinazioni in giro

per il mondo, interessandosi alle tradizioni locali e, in

particolare, alla musica popolare. Con la cocciutag-

gine che lo contraddistingue, intraprende lo studio

dell’arpa celtica assistito da insegnanti di spicco del

panorama musicale internazionale. Oggi si trova po-

vero, ma incredibilmente felice, circondato dalle sue

arpe, da pile di libri e CD e da orde di studenti. Col-

labora attivamente con riviste e blog di ambito artisti-

co, spaziando dalla musica alle belle arti.]

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