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LE ANTIC H ITÀ ROMANE DI DIONIGI D’ALICARNASSO VOLGARIZZATE DALL'AB. MARCO MASTROFINI GU' P ROFESSOR E DI lUTEMlTICA E DI FILOSOFIA NEL SEMINARIO DI FRASCATI mOtXtOMM tOrJMEWTE tUtCOMTHJTA COU TESTO PAU TEÉPVTtÙtLE TOMO SECONDO MILANO DAL LA TIt>OCRAFU DE* FRATELLI 5ONZOCNO 1 8 3 3 .

Dionigi di Alicarnasso - Le antichità romane Vol.2

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A N T I C H I T À R O MA N ED I

D I O N I G ID’ A L I C A R N A S S O

V O L G A R I Z Z A T E

DALL'AB. MARCO MASTROFINI

G U ' P R OFESSORE DI lU T E M l T I C A E DI FILOSOFIA

NEL SEMINARIO DI FRASCATI

mOtXtOMM tOrJMEWTE tUtCOMTHJTA COU TESTO PAU TEÉPVTtÙtLE

TOMO SECONDO

M I L A N O

DALLA TIt>OCR A F U DE* FRATELLI 5ONZOCNO

1 8 3 3 .

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b E L t E

ANTICHITÀ ROMANE

D I

DIONIGI ALIGARNASSEO

LIBRO QUARTO.

1. Co. dopo un regno di trentotto anni fini Tar- qoinio, autore di non pochi nè piccioli beni pe'fioma* ni (i). Egli.lasciò dtie figlie già maritate , e due teneri nipoti i e succedette al soglio Tullio il genero di lui nell'anno quarto della Olimpiade cinquantesima , quando Epitelide di Lacedemonia vinse nello stadio, essendo Archestratide arconte di Atene. Perunto ora è tempo d isp o rre su Tullio le cose primitive che ne abbiam tralascialo , vale a dire di quali parenti nascesse, e con

( i ) Nel tetto *1 troTa questo primo ponto anche p « ultimo del libro terio. Ma i tegami che qui gli »■ danno manifeilano che esto ■pparticiie *s«lu«ÌTamciite al principio d«l qaaiio libro.

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quali opere «i palesasse, privato.ancora, ionanzi di gin* gnere al comando. Quanto alle cose che dicoqsi della Bua stirpe ecco quello che più mi persuade. Un tale, di regia prosapia ( Tullio ne era il nome ) -si congiunse in Cornicolo città de' Latini con Ocrisia , una donzella, bellissima infra tutte e castissima. Ma quando Cornicolo soggiacque ai Romani, Tullio vi moriva combattendo: ed Ocrìsit^, ;all9 rà gravida, prendeala per (è Tarquiuw comé scelta preda, e davala' in dono alla sua moglie. La quale, risaputa ogni cosa di lei, la rendè tra non molto libera , amandola poscia ed onorandola sempre, più che tutte. Di questa Ocrisia, serva ancora , nacque un fanciullo : ed essa , madre fatta, educosselo e lo chiamò Tullio dal nome proprio della stirpe e del pa­dre: e Servio in memoria de'servili giorni suoi ne'qualilo partorì ; perocché Servio, se spieghisi con greca pa­rola , vai quanto jervo.

II. Nei scritti Nazionali porgesi della origine del va- lent' uomo un tal altro racconto che sente di &vola : e questo racconto che troviamo in molte storie Romane, questo se piace ai genj èd agl'Iddj che ridicasi è tale: Adunque dicesi che dall' altaré dei re dove i Romàni compiono varj sacri&zj' e dove santificmo le primizie delle cene si elevasse un membro virile : chie Ocrisia la prima avvedjitasene portasse le sacre libagioni in sul fuoco, e ne andasse nunzia del fatto ai sovrAni : che Tarquinio udendo e vedendo poscia il prodigio ne me­ravigliasse : ma che Tanaquilla , donna altronde savia , nè perita meno d’ ogni Tirreno nel vaticinare, piresa- gisse, portare il destino che di là, dal regio altare,

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per la doniùi cbe «rasi parteapata a qaellà • appa- rìgione , sorgerebbe una prole più grande che la umana. Ora cosi dicendo essa e gli aliri' conoscitori de* portenti ; parve al re di Hsare eoo 'Ocrisìa, alata la prima a vedere. Dopo questo, dicesi cbe adwhata ‘là; donna, come le maritate m adornano, fosse rinchiusa nella casa ove fu la visione: che li cengiOngendòùilè, e dopo la congjnnzione sparendole, un qualche numeo genio , Vulcano forse, o il genio del luogo , ne in­gravidasse, e ne paviorisse poi Tullio. Certamente non par la novella affatto credibile : pur la rende inverisi- mile metio un tal altro segno divino inopidato e mera­viglioso intorno di quest' uomo. Imperocché sedendosi un tempo egli di meezodl nella regia camera, e presovi dal sonno ; una fiamma gli usci balenando dal capo.- Videro questa la madre di esso e la regia consorte, che per la camera passeggiavano , e quanti erano presenti alle donne : e luminosa gli si tenne intorno intorno del capo finché accorsa la madre riscosselo. Allora insieme col sonno spari dissipatasi quella fiamma. E tali sono i rac­conti su la stirpe di quest' uomo.

III. Sono poi come sieguono le memorabili cose di esso avanti che regnasse, per le quali Tarquinio lo ammirava , e Roma lo onorava come primo dopo il suo re. Giovinetto , nella prima spedizione fatta da Tar­quinio contro de’ Tirreni egli militava tra' cavalieri, « cosi ben parve che militasse che chiarissimo divenuto­ne , ottenne il premio innanzi di tutti. Occorsa poscia un altra spedizione contro de' medesimi, ed una batta* glia vivissima presso di Ereto ; egli dimostratovisi infra

LIBRO m 'J'

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tutti TalqrosÙMiuo, ne fa di bel nuoTO dal re suo co^ ronatp per le belle sue gesta. Giunto al ventesimo anno fu duce nominato delle milizie spedite dai Latini, e conquistò con Tarquinio U signoria su' Tirreni. Creato poi nella prima guerra Sabina duce de'cavalieri, fugò la cavalleria nemica e la incalzò fin sotto la città di Àntemna, riportando il primo premio anche di questa battaglia. Ebbe molti altri combatUmenti col popolo stesso, ora guidando genti appiedi ora a cavallo, e se­gnalatosi in tutti per gran cuore, ne fu coronato prima d* ogni ' altro. E poiché li Sabini venneco per sottomet­tere e sottomisero veramente le città loro ai Romani ; egli parve, a Tarquinio la .cagion principale eziandio di un t ipto acquisto , e ne fu contraccambiato con serti tfioniali. Acutissimo in su i pubblici affari, né secondo a. niuno in far valere parlando quanto consigliava, con* temperavasi pienissimamente alla sorte ed alla persona di ogtiùno. Dond' è che i Romani vollero co' loro suf­fragi che fosse di plebeo fatto patrizio, come già Tar- quinip, e come prima Numa Pompilio. Adunque il re sei prese per genero , sposandogli 1' una delle sue figlie. E quanto non potea pe' morbi o per la> vecchiaia com­piere più da sé stesso ; tutto a lui rimandavalo, incari­candolo non pure delle, domestiche ma delle .pubbliche CQse« Egli in ciò fa da miti riputato uom giusto e fe-' dele ; anzi con tanto bel fare aveasi obbligato }a molti­tudine ; che pensavano non averci divario sia che Tar­quinio sia che TuUio, amministrasse il comuue.• v iy . Dotato quest'uomo dalla natura d’ indole bo- nissima pel principato , e direttovi dalla sorte con molte

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e graa£ occasicmi, credette di,«ssérTÌ ddia dongfìuntimi stessa invitato quando Tarquinio soccombè tra le iasi<« die de’ figli di Anco Marzio, intenti, come ho detto nel libro antecedente, a ricuperare il trono del padre : e , sperlissimo che egli era, non lasciò faggirsene la ocóuione di mano. Disponevagli il trono la moglie stessa dell’ estinto monarca , quella che era la origine di ogni suo bene ; imperocché favoriva il suo genero, e conoscea pe' molti oracoli che doveva esso per volere dei fati dominare al Romani. Erale non a guari morto U giovane figlio, e di lui rimaneano due teneri'fan» ciuUi. Considerando un tal vtioto della sua casa, e te­mendo che i figli di Marzio invadessero il trono , ed uccidessero, e struggessero tmu la sua prosapia ; pri­mieramente chiuse le porte della reggia , e le ranni «di guardie, con ordine che niuno entrasse o ne uscisse. Poi comandando che si ritirassero tatti dalla <»mera nella quàle aveano posto Tarquinio semivivo, e con sè tenendo Ocrisia e Tullio , e la figlia sua, moglie di Tullio , e facendo ivi recare dalle nudrici gli orfani pargoletti; disse: O T ullio , il re Tewquinio dtd qucde tu avesti niidrimento e disciplina, quegli che te pre- giaita più che tutti gli amici e parenti i eccolo sotto ingiusti colpi termina il suo destino. Egli non che ab‘ bia provveduto su le dimestiche o su le comuni civili eose, non potè nensimeno abbracciare un dì no i, nem­meno lasciarci tultimo addio. Cosi questi orfani, questi sciaurati /anciulli che a lui soprawanzano, già cor­ranno non picciolo rischio della v ita : perocché se il comando devolyesi ai M arzj, a quelli che ( avolo ne

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hanno trucidalo , saranno da essi miserandamente per­duti^ E voi, d quaU' Tarquinio , dispregiali èssi, ma­ritava le sue Jiglie ; nemmeno voi salvi sarete nelle persone, se gli uccisori di Tarquinio invadano il re^ grio : nè salvi saranno tutti gli am ici, e perenti di lu ì; nè salve n o i, donne infelici •, ma tutti tenteranno distruggerci, tu tti, con occulte trame, e palesi. Noi dunque considerando ciò, si conviene che non la­sciamo che quegli uccisori malvagi, que’nemici nostri comuni, s’ impadroniscano di un tanto impero : ma dobbiamo contrapporci ed impedirli, ora, così por­tando la circostanza , colla scaltrezza e con gli arti- fiz j ‘. e quando le prime cose riuscite ci siano a se­conda; allora direttamente colla forza e colle arm i, seppure ve ne bisognino ; ma cerio non vi bisogne­ranno se vorrem fare le cose che ora si debbono. Ma quali saranno mai queste ? PrirmeramerUe nascondiamo la morte del re ; procuriamo che fra tutti divulghisi eh’ egli non ebbe colpi mortali. Dicano i medici che in pochi dì lo renderanno sano. Dopo recandomi al pubblico io dirò al popolo , che Tarquinio m 'impone di palesargli che eg li, finché risanisi dalle fe r ite , destina rettore e custode delle private sue e pubbli­che cose , r uno de' generi suoi, e che tu quello a TuUio ti sei. Già non udiranno i Romani a mal cuore il tuo nom e, desiderosi che sia la città da te governata che già tante volle la governasti. Quando avremo dissipato il pericolo presente ( e certo si dis­siperà ; perocché non si terranno saldi i nemici in udire che il re vive) ; allora tu presi i fasci e il co­

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mando delle orm i, accusa al popolo guanti tràmamno uccidere Tarquinioi e dato principio da 'fig li di Mar­zio ; citagli tutti in, giudizio. Gli punirai ttUti coUa morte se t>i si presentano ; e se sdegnino presentarsit ciocché io credo che piuttosto ; fararnio » gli punirai coll’ esilio perpetuo , e colla confistm de’ bonL C o^ trovandoti tu nel contendo ti cattiverai coUe qffabili maniere il popolo, curerai sollecitamente che non fac- ciansi nemmeno le picciple ingiustizie , e solleverai li poveri co’ benefizj , e co’ doni ; e quando ne parrà tem po , allora diremo che Tarquinio è morto ; allora gli daremo pubblica sepoltura. O Tullio ! tu nudrito, tu educalo, tu rendalo partecipe da noi di tanti beni quanti ne derivano i figli da’ padri e dalle madri, tu congiunto alla nostra figliuola, tu se mai divieni, xt Tullio, re de’Romani, è giusto che almeno in riguardo mìo la quale tanto in ciò ti, coadiuvai, presenti la benevolenza di un padre verso questi teneri fanciul» letti : e che quando siano già grandi, quando già bastanti a regnare , tu renda allora al primogenito la corona di Roma.

V. Cosi 'dic«ndQ diede 1’ uno e 1' altro fanciullo in braccio aHa figlia ed al genero ; e risvegliò tenera com­passione verso di ambedue: poi quando ne fu tempo, uscita di camera impose ai domestici che assistessero', come ricbiedeasi , per la cura, e convocassero i me­dici. Lasciata passare la notte, siccome nel giorno ap­presso accorse gran turba alla reggia ; ella si fe' vedere alle finestre che rispondono alla via dinanzi dell'atrio i e su le pritiiÈ scoperse quelli che aveano congiurata la

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morte Somno , e quindi presentò Ira le catene t $icarj mandati per compierla : e quando vide il popolo id pianto per la s c ia ^ n , quando videlo fremere contro de’ malvagi ; alfine gli disse, che pur non era la perfida trama riuscita, e cbe potato non avevano trucidare Tar* quinio. Confortavansi tutti all' annunzio ; quando ella mostra in.Tullio il personaggio eletto dal re, finché guariscasi, per curare le private sue cose, e le pubbli­che. Adunque andossene il popolo, lieto come se il re non avesse niente patito di terribile, e gran tempo si rimase con questo concetto. Tullio cinto da’ regj littori inatciò con valida schiera al Foro, e fece pe’ banditori intimare che venisùro i Marzj al giudizio. E siccome questi non ascoltarono ; ne proclamò 1* esilio perpetuo, ne confiscò li beni; e cosi tenne sicuro lo scettro di Tarquinio.

VI. Ma sospendendo alquanto la narrazione , vo' dir le cause per le quali io nè con Fabio consento nè con quanti scrivono che i fanciulletti lasciati da Tarquinio eran suoi figli ; perchè se altri si avviene in quei saetti non creda che io improvvisi quando non figli li chiamo, ma nipoti. Essi divulgarono ciò su que'garzoncelli, ma per negligenza ; niente considerando gli assurdi e le im­possibilità che lo escludono ; com' io mi accingo a di­chiarar brevemente. Emigrò Tarquinio dall'Etruria, re­cando con sè quanto avea ne' giorni più belli del saper suo ; perocché cel dipingono già voglioso in que’ giorni di farla da uom pubblico sia nelle magistrature sia nel trattare altre cose del comune, e partito appunto di là perdii a parte noi chiamavano degli onori. Alcuno

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«Ittnqae rapporr^be che égli quando iasdara 1» Etrò* ria , avessé almeno treni' anni, che gli' anni sono perlo più ricercati dalle- leggi per gitiBgrae a’ nxagistniti, te hianeggìare 9 comune. Nondimeno io voglio suppodo più giovane ancora di cinque anni, e sliabili^ <^e partisse di anni venticincpie ; e che menasse con: sò:la moglie Toscana, cui prese vivendo il suo padre, come lutti gli Storici. consentono delle cose Roiniane.; Egli venne in Boina regnando Anco Marzio nel ptimo aonòv come Gellio scrive, di qnd regno , ma secondo Lioioio ndl' ottavo. Sia pur dimque venuto come scrive: Liciyo, e non prima : già non dovette venire più tardi, » , come scrìvono ambedue / nell’anno nono di: Anco. Mar­zio egli fu spedito dal re capitanò de' lannliéri guerra contro d/Latini. Pertanto se egU vémw. ia fioma non più adulto di anni venticiàque ; se divenne l’inico dì Anco A&rzio nell' anno otuvo del regno: di tiù:; se rimase con questo diciassette anni ( giacché Aaoo.ne regnò voitiquattro) ; se Tarqaimo polipe r^ n ò lreiaatlo, come tutti consentono ; dunque egli era olàiagenàrìo quando mori ; non risultando alu-a età da! calcolo degli anni. E se la moglie. come par vet4simile, èra per cia<* que anni meno attempata di lu i, dunque avea settanta- cinque anni quando le moriva Tarquinio. Ora sia che eHa partorisce quinquagenaria l'ultimo figlio;; giacché donna non partorisce più oltre £ ule età, ' ma qn«ta le è termine di proli6care, cóme scrivono .trattatori dili­genti di tale argomento. Questo fi^io dunqnè erà aknen grande di venticinque anni nell’ era delU morte pater-< pa > e Lucio il primogenkò evalo di venUsette.. Tarqui^

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aio dunque.nod lasciò più:;piccioli diqnsst» età li figU arieti.colla ina doooa. E .se aveano' questi'eti virile; nè sarebbe il padre rimasto Tittima; nè ti madre sar^bè stata;si misei:a, e tanto in ira agl'Iddj ■ & fodere ai peoprj figli' b soettró ereditnio del padre per felicitarne un estraneo nato da una serva; niè avrebbero infine tol>* leralo con' indififerehza la ingiuria essi che gU anni ave»* no i più idonéi per dire é per &re. Non era già Tullio tfè per DÒbiltà più chiaro, nè troppo per la età più ri* verito, ma solo più grande di tre anni su F uno di loro] talché nui dunque nob avrebbero di buon grado a hù ceduto il eomando.- yi[. La' cosa inchiude altre sconvenienze-non avver»

tite dai.Homani-Scrittori, salvo ché da uno , che poco appreb^ nominerà, • St cònsente da toUi'.che Tullio pi> gliaodo dopo. Tarquiniq lo «oeuro sei tenne quaranta*» quattro anni. Pertanto se il primogenito de'Tàrquinj at« lora quando ne fu spog^ato ' avea g ià ’ vei^tisette anni ; dunqae .egli era più cbè sMtnageaario nd tcfopo net quate ucdse Tullio f eppure gf istorici lo dipiagoao a tal. epoca, nel fiore degb anni, giaicchè narrano che diede di piglio a Tullio ndla.curia, e che portatolo fuora » dall’aho lo< precipitò. Di più dicono che questo Tarqui^ nio cadde dèi trono oeU'anno vigesinwquiiUo dopo un tal fatto e che in qnelf anno guerreggiava gli Ardeà^. ^ n i, compiendo tutto <£. per. sé stesso. Or non è; rerisi- mile che' un uomo .y provetto di novantasei anni trava­gliasse fra le armi. Aggiungono che caduto dal t^opo fece'guerra non minore di quattordici , anni »i Komani » amministrandola ; egli steùo. Or ciò disconvieiie d^l sensp

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icompne;: gnzi. qoa 9 bii. si dhrébbe diaturaa;cl’ollr« q^Qtodiecl anni ;, qqaodo i ' nostri climi lauta Ipogevil^ ntoa comportano. Vedendo questi assurdi, tentarono aU cani Storici Romani levarli;«on altri assurdi, e'disserp ché non e.Va già ittadre de fòn<:iuUì Tanaqallla aia Ge- gpnia, una donna, di cui nulla additarono la . btorick Ma in Jtal caso riesce «nproprio il mairimonio di Tai» quinio nella età ^asi di <gt«ntai anni» e certo:iiÌTeciti> utile riesce in qofllla età la generazione di 6gli. Nè giJl egli era mancante di prole,’ tanto, che ue bmguisse pel desiderio: ma egli avea due figliaòle e queste già maa rìtate. In forza di tali assurdi e di tali impossibiStà dico che que'fanciulli non eraa figli ma nipoti di Tarqui» nio; nel che sieguo. Lucio Pisone, uomo savio, e l’uni<« co che ciò scriva ne'suoi.annali. Ma .forse leran questiy nipoti a Tarquimo per nascita, e figli per adoùone, e forse fu questa la- d|-igine dell' abbagliò di tutti giL Sto» rici delle cose R<»mane. Or dopo un tal prologo égli è tempo di ripigliare la norraaione.

VIIL Poiché Tullio prese le redini del comando, e dileguata la fazione, dt»' Marzj, giudicò di averselo con­solidato; fe' con magoifica pompa trasportare Tarqninio, come spirato alfine per le fente ; condeoocandolo di un cospicuo monumento e di altri onori : é tutore essendo de'regj fanciulli; e curò e guardò fin d'aUora I« pri­vate loro cose e le pubbliche (i). Non andavano Ui fiitti a grado de'patria], ma doleaasi e sdegnavansi, mal 'sof> frendo ch'egli a ^.3tabilùse il regio potere senza le

( 1) Anni di Roma 175 scc . Catone, 179 seC. Varroae : e 577 avanti Cristo I, '

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forme prescritte dalle l^ g i. E rianenclosi pià Tolte i più potenti, trattavaao fra loro de' mezsi onde abbattere rH< legittimo goiremo. Ora parre ad essi, come fosseró k prima volu achuiati, per tenere il Senato, da Tullio di TÌolentarlo a lasciare i littori e le altre insegne del comando ; e fatto ciò di nominare gl' interré da’ quali si sceglieste r^^oUrmente chi dominasse. Tullio, risa­puto il disegno si diede a favorire il popolo, e soè- correrne i poveri , sperando coU’ opera sua di ritenere r impero. E chiamata la moltitudine a conclone , pre­sentò dinanzi la ringhiera i £inciulli ; e poi disse :‘ IX. MoUe cause o cittadini ifù astrìnsero a prender cura di questi teneri garzoncelli. Perciocché Tarquinia tannalo loro accolse e curò me privo di padre é di patria, nè fecem i purUo meno che a un figlio; ma diedemi la sua Jìgliuola in isposa, e mi amò finché vissero mi onorò sempre come sapete, quasi fo ssi da lui generato : e poiché fu colto dalle insidie egli affidatami in caso di morie la cura de' fanciulletti. Ora e chi mi stimerebbe pietoso verso g t Id à j y chi giusto verso- gli uom ini, se io trascurassi e tradissi questi orfoìù a quali tanto io sono debitore? Ma nèio tradirò la mia fe d e , nè darò per quanto è da me, t idtimo abbandono , a fimciulU già dereliuL Ben è giusto che ricordiate voi li benefizj che l’avolo suo dispensava su voi quando a voi subordinata tante città Latine emule del vostro principato, quando vi umiUas>a i Tirreni i più potenti tra tutti i vicini, e quando neces­sitava al vostro giogo i Sabini; procurandovi ognuna di tali cose in mezzo a grandi pericoli. Spettavasi a

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voi. per tanta sua beneficenta di esser» grati a lui finché visse, e di esserlo dopo la morte in verso dfii posteri suoi, e non già di seppellire coi cadaveri dei benefattori la memoria ancora delle opere. P e n sa ti dunque tutti eletti custodi de’fanciulli, rassicurate per essi il regno che t avo ad essi lasciava. Già non tanta bene risentiranno essi dalle cure di me che son uno, quanto, dal soccorso comune di voi tutti, lo nù, vedo rtecessitato- a dir questo ; sentendo che ■ alcuni com- movonsi contro loro, e vogliono. dare ad altri il co­mando. Io vi supplico o Romani che memori ancora siate de’ combattimenti che io fe c i pel. vostro princi^ palo , i quali nè pochi sono nè piccoli. M a ben, sa­pendolo voi, non.occorre che altro io vi dica, se non che rivolgiate su questi fanciulli gli. obblighi che, me ne avete. Imperocché non io per me fabbrico il prin­cipato : nè se io -mel cercassi , ne era già meno degno degli altri; piacemi solamente amministrare il comune in sussidio della stirpe di Tarqutnio. lo vi raccomando che non vogliate abbandanare a. sé stessi questi fa n - ciidli ora che il regno ne pericola: sarebbero, anche espulsi da Roma , se fauste riuscissero le prime mosse ai. nemici. Ma non debbo io più dilungarmi su ciò , mentre sapete, voi quello che dee fa rsi y anzi siete per fa re quanto conviene.

Ora udite il bene che io a voi apparecchio, e pel qua­le qui vi adunai. Quanti a debiti saziacele nè potete levarvene per la indigenza,. UUti sarete da me soccorsi come cittadini, e come già taralo ciffaticati in servigio della patria; perché voi che avete fondala la libertà

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di le i, la vostra non perdiate : io porgerò del mìo da­naro onde i debiti estinguiate. Inoltre quanti lorranno ad imprestilo io non piit soffrirò che sieno imprigio­nali per debito : ma porrò per legge che mono dia de' prestiti assicurandoli su la persona di uomini li­beri, mentre io penso che basti agli usuraj di rivet- tersi su beni de' contraenti. E perchè da ora in poi sostentate più di leggeri il tributo pubblico, pel quale i poveri sono gravali, e ridotti a far debito ; coman­derò che si registrino tutti i beni, e che ciascuno dia secondo t aiwr suo, come odo che si pratica nelle città pià grandi e meglio ordinate ; mentre ancK io credo più giusto e più vantaggioso al comune che chi più possiede più paghi, e meno chi meno. Piacemi inoltre che il terreno pubblico, quello che avete con­quistato colle arme, non sia come ora de* più impu­denti , né che per compera ve lo abbiate, nè indarno", ma cite quelli se lo abbiano infra voi che privi sono di terre : perchè voi liberi essendo non serviate, nè coltiviate le campagne altrui, ma le proprie ; imperoc­ché già non allignano' generosi pensieri ov*è disagio del vitto quotidiano. Soprattutto ho deliberato render pari e fàcile il governo per tu tti, e dare a tutti eguale azione contro chiunque; perciocché sono alcuni venuti in tanta baldanza che oltraggiano il popolo, nè liberi, stimano i poveri fr a voi. Ora perchè i più grandi nom- tneno che g t infim i esigano e soffrano il giusto; io farò leggi proibitive della violenza, e conservatrici dei diritti Lomuni: nè mai lascerò di provvedere a questa libera procedura di tutti contro tutti.

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X. Sorsero , lui così dicendo, grandi elogj tra la moU liludiiie, 6 chi lodavalo come ricordevole e giusto verso i suoi benemeriti , chi come benevolo e grandioso in* verso de'poveri, chi come savio e degnevole in verso degl' infimi, e tutti infine lo amavano ed ammiravanio come onesto e diritto nel comandare. Sciolu l ' adunanza ordinò ne' giorni appresso che i debitori si registrassero i quali non poteano corrispondere, e quelli a’ quali do* veano, e quanto ciascuno dovea. Ricevute le note alzò de'banchi nel foro,*e soddisfece ai creditori pubblica- meute. Ciò &tto espose con regio editto che quanti si godeano come proprie le terre del pubblico le cedessero in tempo determinato ; e che insieme i nomi a lui si dessero de'cittadini privi di campagne. Diede una le* gislazione parte sua, parte rinnovando l'antica e già tra­scurata di Nunia o Romolo. Mal soffrivano i patrizj tal governo, vedendo che 1’ autorità si aboliva del Senato: nondimeno volgeansi a risoluzioni varie assai dalle pri* me. Imperocché per addieuro anelavano levare quel po­tere illegittimo, e nominare gl' interré li quali elegge»» sero chi dominasse : ora però giudicavano essere da ta* cere , non da brigare in contrario ; antivedendo che se il Senato sceglieva e poneva un altro al comando, il popolo non lo avrebbe approvato co'suoi voti, e che se al popolo rimettea la scelu del sovrano, tutte le tribù nominerebbero Tullio, e cosi Tullio crederebbe sur con diritto sul trono. Parve dunque ad essi il migliore, che Tullio il quale aveva usurpata la regia autorità, Tullio che aveva sorpreso anzi che persuaso il popolo con aperte maniere, cosi la ritenesse. Ma non succe­

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dette loro duna delle cose disegnate. Con tanta finezza Tallio gl' illuse, ed uttenae, malgrado loro , il coman­do ! Egli feoendo sparger pian piano in città che i pa- trizj insidiavano la vita sua venne addolorato in sordida veste nel foro con Ocrìsia madre di lu i, con Tanaqailla moglie già di Tan^uinio , e con tutti i regj consanguinei. Accorsa allo spettacolo inopinato gran moltitudine, ^ li richiamatane la udienza, ascese nella tribuna e disse :

XI. Non pià li figli soli di Tarquinio pericolano di padre acerbi maU da nemici ; ma io, debbo ancheio temere per me stesso di avere amarissima la mer~ cede della mia giustizia. I PaUizj m’insidiano, e mi si Editano fra loro de’ congiurati ad uccidermi : non già che abbiano gravi o picciole cose onde n i incolpino ; ma perchè si sdegnano, perchè mal comportano cheio su voi sparsi, e sia per ispargere de'benefizj. Sde- gnansi gli usuraf perchè io non permetto loro che ar­restino tra voi per debiti e privino di libertà gC imi- potenti ad estinguerli. E quei che si aveano le terre del pubblico, le terre conquistate col vostro sangue , quei si sdegnano costretti a lasciarle quasi lascinó le paterne sostanze. S i crucciano quelli che grandeggia- vano colf altrui ; perchè dispensati essendo dalle spese della gueira, ora sono necessitati a fa r catastare ì lor beni , e pagai'e secondo il lor cumulo. Finalmente dolgonsi tutti che debbano attemperarsi alle leggi scritte, e star di paro con voi ne diritti e non abusare p iù , cerne ora fa n n o , de' bisognosi irifra voi, quasi di per­sone comperate. Ora questi risentimenti disseminando, sì sono fra loro consultati e congiurai di ricondurre

2 0 DELLE ANTICHITÀ.’ BOMANE

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il uoi gli esu li, e di cedervi ' ai fig li di Marzio , a quelli che vi lumno ucciso Tarquinio, quel re si buono, e sì amico di Roma , a quelli che macchiatisi in tanta scellèraggine, non osando risponderne in giudizio, si tolsero a voi colla fu g a , a quelli in fine à quali avete voi tacqua inlerdetta ed il fuoco, E se ben tosto non volavane a me t avviso, tali patrizj eccitando una forza straniera, avrebbero di bel nuovo introdotto nel cuor della notte i fuotusciti in Roma. Ben vedete voi quan­tunque io le taccia, le seguèle , come i M arzj favoriti da’ patrizj sarebbonsi impadroniti senza fatica di tutto, assalendo primieramente me che il custode sono della regia prole , me che t autore fiù del giudizio contro di loro , e spegnendo finalmente i regj fanciulli, e tulli i consanguinei, e tutti g li amici, quanti ve ne resta­no , di Tarquinio. Misere le nostri m ogli, le nostre madri , le nostre fig lie , « misere le femmine tra noi! le avrebbero que ribaldi ( toTxto hanno di brutale e di tirannico!) tenute in conto di schiave. Ora se tantoo popolani piace a voi pure , che qua si riammettano, anzi che re si proclamino i parricidi, e che i figli se ne scaccino de* vostri benefattori, e dal trono si tol­gano che r avo ad essi lasciava ; se tanto , dico , a voi piace ; io mi cheto su destini. Ma deh ! per gli Jddj , deh ! pé* genj tu tti, quanti le mortali cose ri­guardano ( e noi colle nostre donne , noi co’ nostri figli supplichiamo voi pe’ tanti benefizj ancora che Tarquinio su voi spandea perpetuamente, e pe’ tanti, eh’ io stesso vi procurava ) , deh / concedeteci questo dono ; manifestateci i vosti i voleri una volta. Se voi

LIBRO IV. a i

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credete altri più degni di noi di tale onore ; questi fanciulli, e tutto il parentado di Tarquinio, partitane ito , abbandoneranno la vostra città. Io poi ben altri pià generosi consigli ho per me ! Abbastanza vissi alla virtà, abbastanza alla gloria : mancatami la vostra be­nevolenza , quella che io pregiava più che tutti i beni, già non voglio io vivere indecorosamente presso di al- trL Prendete i vostri fa sci , dateli, se così piacevi, ai patrizj. Io mel vedrò, nè mi oppongo.

XII. Così dicendo, e già standosi in atto di ritirarsi sorse un clamor vivo per tutto, aa pregare , uà pian­gere , perchè restasse, e governasse, nè temesse. Allora alcuni, sparsi ad arte qua e U pel Foro, gridarono che si creasse re , che si convocassero le curie, e sen chie» dessero i voti. Cosi preordinato 1* evento; ben tosto il popolo tutto vi propendè. Tullio ciò vedendo non tra­scurava la occasione : ma professandosi ad essi obbliga­tissimo che memori fossero de' benefizj, e prometten­done più ancora se re lo creassero ; prescrisse il giorno de' comizj ; ordinando che v'intervenissero tutti dalla cam­pagna. Accorso il popolo; egli chiamando una per una le curie consegnava ad esse i lor voti. E giudicato da tutte le curie degno del trono ; vi ascese ; uè curò del Senato che non volle come solca ratificare la scelta del popolo. Cosi re divenuto fondò molte altre istituzioni, e fece grande e memorabile guerra co’Tirreni. Io dirò prima delle istituzioni.

XHI. Appena strinse lo scettro comparti tra' merce­nari Romani le terre del comune <i poi fe’ comprovare le leggi su i contiatti e su le ingiustizie dalle carie ,

a a DELLE a n t ic h it à ’ ROMANE

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estese aUopa a cioquanU , quantunque non sia ora qiè da rìootdare. Aggiuase a Roma il Viminale, e l'E^qm- lino due colli, cosi nominali , capaci 1’ uao e 1' altro di una città i-igaardevole, dispensandoli parte a parte ai Romani privi di case, perchè ivi se le &bbricassero : anzi egli stesso ivi edificò la sua nel sito più idoneo delle Esquilie. Fu questo 1’ ultimo re che ampliò il cir~ cuito della città, coagiungeodo ai cioque gli altri due colli, dopo avere presi gli augurj e compiute le usate pie ceiimonié inverso, gl' Iddj. Non poi la città mise mai più da laigo le sue mura; non avendolo, come dicono, permeaso t destini : ma tutti iqtomo i sobborghi che pur sono molli e grandi, si restano «coperti, non chiusi da mura, ed espostissimi, se nemico mai sopravvengavi. Che se alcuno mirando a questi, voglia la grandezza racco­glierne di Roma ; egli errerà certamente : perocché non avrà niuu certo segno, dal quale discernere fin dove la dttà ù continua o dove si termina. Cosi bene que' sob­borghi al fabbricato interno si congiungono, che pre> sentano a chi li contempla la immagine comé di una città che stendesi all’ infinito. Ma se taluno prendendo regala dalle mura , certamente malagevoli a dlstii^ersì per le molte case fabbricatevi intorno, ma die pur ser> bano via via de' vestigj dell’ antica loro struttun voglia risaperne il circuito in rispetto del circuito di Atene; vedrà che il ricinto di Roma non molto eccede queUa di Atene. Ma quanto alla grandezza e bellezza che Roma presenta a miei giorni; avremo appresso luogo più ac­concio a discorrerne.

XIV. Poiché Tullio comprese entro un giro solo di

LIBRO IV. Ì ì3

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a 4 D EL L E a n t i c h i t à ’ ROMANE

Binra l sette colli ; divise la città la quattro pwd ; numioandole da que' colli, 1’ una Palatina , l’ altra So> barrana la terza ColUna , e 1' ultima Esqailina. Cosi distese a quattro le trìbà che eran tre sole. Intimò poi che chiunque abitava 1' una delle quattro parti, quasi paesano di quella nè portasse in altra il suo. domicilio, nè in dtra desse il nome suo pe'cataloghi miliurì, nè il trihttto per le spese della guerra : in somma «^e non rendesse in altra i servigi ohe doveansi pel comune; nè più ordinò le milizie secondo le tre tribù disposte come prima per genti (i) ma secondo le quattro da ini create e compartite nè'varj luoghi ; destinando per ciascuna un capo qual sarebbe Qn tribuno o prefetto, il quale do» vesse conoscera il domicilio di ognuno. Quindi ordinò che in ogni quadrivio si iacessero da’ vicini picciole sa> ere cappelle agli Dei lari custodi delia contrada, isti-' ttendo per legge cbe ogni anno si onorassero di sa- grifizj, e che ciascuna famiglia porgesse loro le obbla- zioni sue: comandò che assistessero e ministrassero a éhi facea tal sagrìfizio non gl'ingenui ma i servi; di- lètUndosi quegl’ Idd) del ministero di questi. Continuano i Romani pur nel mio tempo pochi giorni dopo de'Sa* tumali tal festa , veneranda in tutto e magniBca, e delta compitale da' quadrivj che compiti da loro si chiamano.

( i ) Romolo fece ire tribù secondo le diverse genti : erano U tr ib ù , la prima Ramnentlt dei Romani posti ad abitare nel Pala­tino , la seconda Tatiensù da Tasio, ebbe il monte Capitolino, e la tersa dei Luceri a luco o dal bosco dato per asilo, era d ^ l i stranieri che aveano ì t ì cercato un rifugio. Col progresso del tempo siccome la gente aggregata a Roma snpersTa il popolo primilÌTo ; cosi Tullio fee« una naoT* diTisioas di tribù.

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r j B R o IV . à 5

Serbano nel sagrifizio l’ antico ritOj plaoanio gl'iddi Lari con intramettervi i serri, a' quali tolgono in quei giorni quanto tien forma di servile ; percliè rìconfoctati da tali dolci maniere ove è misto del grande e dell'onò- rificc sì aflezionino più vivaàiente ai padróni, e men sen­tano il peso della loro condùiione.

XVi In\3hre , come Fid>ìo scrìve , divìse tutta la càin- pagna in ventisei parti chiamandole tribù parimente : e congiunte queste alle quatm> urbane se ne ebbero Irenu in tutte: ma Yenonio dice che «e ne ebbero tren- tuna :> laddove Catone ben più autorevde di essi (i) af-, ferma che le tribù ne'tempi di Tullio furon tutte, non però distinguene il numero. Tullio dunque secondo gli auspizj divisa la campagna in tante parti, qnante mai furono, apparecchiò su luoghi montuosi e fortissimi de­gli aà li, chiamandoli pagos con greco nome o castelli, onde renderne salvi i cdom*. Imperocché quivi tutti si rifu^vano nelle irruzioni de* nemici, é quivi spessis­simo pernottavano. Ci aveano in questi de' presidi inca­ricati di conoscere i.nomi de'coloni, contribuenti a quel boi^o, e li poderi su quali viveano. E se mai portavi il bisogno di convocare que' contadini per le arme, o. di esigete da ciascuno le tasse: questi li congregavano^o ne raccoglievano le somme. E perchè la moltitudine non fosse diiBcile a trovarsi, ma facile a descriversi e palese; fece erigere degli altari ai Numi contemplatori e custodi del luogo, perché quella ogni anno vi si riu­nisse e ve gli onorasse con puU>lici sacrifiz^, istituendo,

( 1 ) D i Fabia c di Venooio.

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a 6 DELLE a n t ic h it à ’ SOMANE

a tal fine k festa soleiinisMma detta dei (i).'A n2Ìintùrne a la^ sagriGxj scrisse leggi che i Romani ser­bano ancora. Per tal sagrifizio , per lai celebrità yolle che oontribnisicro tutti nua data moneta, altra però gli uoiaiai, altra le donne, «d altra gl'itnpuberi : talché numerandosi queste dai presidi delle stinte cose rileva» vasi il totale dégl* individui Secondo il sesso e la . età.

E volendo, come scrive Lucio Pisone nel primo degli annali, conoscere qnanti erano domiciliaii in Roma, quanti vi nasceano o vi morivano, o toccavano la età virile; stabili qual aooeu dovelsero i parenti versare per ognun che nasceva nell’ erario di Eileitia, detta dai Romani Giunone Lucrerà, o in quello che chiamano di Venere L ibilina, là nel bosco, per ognun che mo­riva , o in quello della Dea Gioventà per ognuno che alla virile età psrvetiiya. Da queste monete intendeasi ogni anno quanti erano in tutto, e quanti aveano ido<- aeità militare. Ciò fatto diede ordine, che i Romani re- gistrasaero, apprexzandoK inargento, i lor beai, e gin» rando di appreziarli come dee 1' uomo candido e buo­no t e che insieme dichiarassero quanta era la. età toro, quali i padri loro, le mogli, ed i figli ; aggiungendovi dove in città soggiornassero, o in quale de' villaggi della campagna ; e chi non iacea pari stima era in pena spo­gliato de' beni, flagellato e venduto. Durò questa legge lungo tempo tra Romani.

XYI. Cod prese da tutti le stime, e rilevatone il nu­mero di essi, e la grandezza de' beni loro iotroduase

( i ) Ciok Pagaiialia.

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una instituzione savitoima che fu poi larga fonte di beai a' Romani, come il &uo stesso Io dimoslrò. La Ì8titn> zione fu di segregare dal resto del popolo quei die aveano sostanze più grandi non però minori di cento m ine, e di ordinarli in ottanta centurie ( i ) , le quali, armandosi, portassero scudo argolico, elmo di bronzo^ corazza, stivali, asta e spada. Poi separandole tutte in due parti formò quaranta centurie di giovani per le spe* dizioni in campo aperto, e quaranta de' più adulti, le quali in città si restassero per custodirla quando le altre uscivano per la guerra. E questa era la milizia, prima di ordine ; per altro i giovani aveano sempre il primo luogo onde proteggere tutta l'armata. Dal residuo quindi del popolo segi'egò quelli ancora che aveano meno di cento mine non però più scarse di settanucinque^ compaia tendoli in venti centurie che portassero arme, simili à quelle de' primi, toltane la corazza e dato ad essi lo scudo lungo in luogo dell* argolico {•a). E dividendo quelli di oltre quarantacinqtie anni dagli altri che aveano età militare formò dieci centurie di giovani, le quali an-

( l ) Nel testo quetla T o c e è ambigaa: può significare cea-

tnria , manipolo , coorte. Il traduttore Ialino la interpreta p e r cen­turia I e questa pare la noiioue più acconcia : ma deve riflettersi che centuria vai quanto ooiapagoia' di cento , laddove ia questo l a ^ o non significa cento esatumeate : ansi n d par«|{rafo i8 di questo libro significa ben altro che cento.

(a) Tra i Latini ci ebbe lo Cfypeut e Io tciUum. Il primo era detto c tn rit da* G reci, ed il secondo : il primo era più

brcTe a sferico, 1 'aliro più lungo. La nostra lingua, come di un popolo che più non usa quelle armi non ha forse parole ben distinteo note per indicare la doppia forma. Targa , Rotella o Brocchiero può forse dirti il C lf fe u t, « «ondo i voce generica di ogni so ru di quelle armi.

LIBRO IV. a 2

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dassero in guerra per U patria, e dieci di anziani che in guardia rimanessero delle mnra. Era questa la mili­zia., seconda di ordine, e prendea Ivogo dopo de* primi nella, battaglia. Una terza ne fece di quelli che aveano meno di .settantacinque mine non però sotto le cinquanta; ma. ne minorò 1' armatura non solo delle corazze come alla seconda ; ma de* stivali ancora. Descrisse pur questi in Tenti centurie dividendoli parimente secondo l ' età, talché se ne avessero dieci de' più giovani, e dieci de' più maturi. Era il luogo loro nelle battaglie appunto do­po quelli che seguivano i primi.

XYII. Trasse un quart' ordine di sddati da quelli che avean meno di cinquanU , e non meno mai di ven­ticinque mine; disponendolo in venti centurie , dieci dei floridi, dieci de' provetti per anni, come avea fatto co­gli altri; e dando loro per arme scudi, aste, e spade, e r ultimo posto nelle battaglie. Reclutò la quinta mi­lizia da quelli che avean meno di venticinque mine , non però meno di dodici e mezzo , acconciandola se­condo gli anni di ognuno in trenta centurie , quindici de' più avanzati, e quindici de' più giovani. Diè loro strali e fionde, ma luogo fuori dell' esercito , messo in battaglia. Comandò che quattro centurie affatto inermi accompagnassero tutte le altre : cioè due di armaiuoli, di falegnami, e di altri per altro militare lavoro, e due di sonatori di trombe e timpani e di allri stromenti pe' bellici segni. Ma gli arteBci seguitavano la milizia di second'ordine : e distinti anch'essi per età, quali se. guitavano le bande de' giovani, e quali degli anziani. Laddove i sonatori di trombe e di timpani tenean die­tro alla milizia quarta di ordine ; distribuiti anch' eglino

a 8 DELLK a n t i c h i t à ’ AOMANE

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in giovani e veochù Erano li centurioni trascélti fra tutti li pili insigni nelle arme; e r e ^ a ciascuno la sua cen­turia docilissima ai cenni.

XVni. Tale era il metodo onde aveasi la soldatnca legionaria e leggera. Scelse poi la cavalleria dai più iacoltosi, e pili cospicui di lignaggio, e formatene dw ciotto centurie k diè compagne alle prime ottanta cen* turie de' legionarj. Erano pur di queste diciotto , chiair rissimi li centurioni. Finalmente ridusse ad Una centu* ria gli altri tutti, ben più numerosi de'primi che aveano men che dodici mine e mezzo, e gli escluse daUa mi* lizia é li rese immuni da ogni tributo. CosL risultarón sei ordini che i Romani dicono classi denominandoli con greca parola : imperticcbè quello che noi signifi-r chiamo colla voce imperativa calei (chiama) ló signifi- can essi coll'altra cala (i) ed anticamente caleseis pro­nunziavano in vece di cUssi. Comprendeanò queste classi cento novantatré centurie. Formavano lai prima novantotto centurie compresevi quelle de' cavalièri : ven» tidue cogli arteBci la seconda: venti la terza: di nuovo ventidue co' sonatori di trombe e di timpani la quarta ; trenu la quinta : ed era dòpo queste una centuria unica la classe de'poveri (a).

( i ) Calo calat era antico verbo latino per chiamare^ donde pur ebbesi la voce Calende.- (9) C laua prima. ...........................................98

—» Mconda........................ ...... aa— tersa. • . . . . ' .........................3o— q u a r t a ....................................................... ’ aa~ q u in ta ......................... ...... 3o— « » ia . ..................................... ...... . I

LIBRO IV. 9 9

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XIX. Idlrodotlo an ule sistema, iatimava i soldati per la guerra secondo le centurie, e li tributi secoado li beni. Quante volte a lui bisognassero dieci o veuti- mils soldati ; avendo distinta la moltitudine in cento novantatri centurie, imponea che desse ognuna la sua parte. Calcolando le spese da farai pe' {irumentì e per gli bis(^DÌ di guerea; egli stesso le compartiva secondo gli averi di ognuna tra le centurie, ordinate in cento no- vanutrè. Seguitò da questo die i possidenti più grandi essendo minori di numero ma divisi in più centurie fossero senza requie astretti a più guerre, e vi contri- baissero danaro più che altri : laddove i possidenti mez- Mni e piocioli quantunque più numerosi, ridotti in meno centurie, non combatteano ' die alternativamente e di raro , nè pagavano se non leggeri tributi ; e quelli che non possedeano quanto richiedevasi, erano intatti da ogni molestia. Nè ciò facea senza causa ; ma persuaso ehe gli averi sono per T uomo il premio della guerra, « die ciascuno travaglia per difenderseli ; riputò giusta cosa, che chi pericola su più beni, più ancora al pe­ricolo si opponga colla roU>a e colla persóna : che men lii molestia risenta in ainbedue chi men perderebbe: e finalmente che chi non teme per cosa niuna non sia nemmeno in cosa alcuna aggravato, immune da' tributi perchè bisognoso, e libero dalla guerra perchè libero da’ tributi. Imperocché li soldati Romani militavano al­lora , ciascuno a spese sue non lo stipendio riceveano dal pubblico ; aè pensava altronde che avesse a contri­buire chi non aveane i meezi e stentava il vitto quoti­diano : nè che colui che non contribuiva militasse a spese alurui qual mercenario.

3 o DELLE ASTICHITA' ROMANE

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XX. Cosi rivolsi ai più ricchi tutto ii carico de' pé- ricoli e delle spese : vedendo penò che sen disgnstavaaq^ nè raddolcì per altro modo il' mal contento, e ne rat» temperò lo sdegno , concedendo ad eni t^l prerogativa per cui gli arbitri sarebbero del pubblico esclusine i poveri. Nè comprese il popolo di dò che facessi le con< sFguenze. Era la prerogativa ne’ comisj, ove dal popolo risolveansi le cose le più gravi. Ho già detto di sopra come il popolo secondo le anUche leggi era 1' arbitro di tre cose grandissime e necessarissime: cioè di eleg . gere i suoi capi in città e nel campo, di ammettere o di abrogare le leggi, e di conchiudere la guerra o la pace. E tali cose discuteva , ' e decidevate il popolo per curie, pat%ggiandovisi il volo del grande a «juello del picciolo possidente. E siccome pochi, come avviene » erano i facoltosi ; ma piò assai li poveri; cori preva> leano questi ne'comÌEj. Tullio ciò vedendo tns£trl nei ricchi la prepotenza de'voti. Imperocché quando pare* vagli di far creare i magistrati o discutere le ieggi, o conchiudere la guerra teneva i comicj nob più per cu> rie, ma secondo la centurie ansidette> E prima chia« i^ava a dare il suo voto le centurie di maggior posu» densa le quali erano ottanta di fanti e diciotto di ca« valieri. Or queste più numeroie che le altre di un tre (i) quando fossero unanimi, superavano le altre ; e la di» scussione avea fine. Che se non si univano queste in un parere ; invitava allora le ventidne, scritte nel se» cood' ordine. E se i voti scindevansi ancora ; soprac-

( i) Erano noTantottu, e le altre tulle DovanUoioque.

LIBRO IV. _ 3 l

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3 3 D E IL t A ^ T IC H m ' ROMANK

duamava le centurie di ten ' ordine : indi quelle del quarto, e cori vià via, finché noyanlasette centurie si trovassero consentanee (i). d ie se ciò non ottenessi nep­pure colla quinta chiamata, ma le cento novanudue centurie si contrapponeano con parti eguaU ; invita,va allora 1' altima <ientaria che era de' bisognosi, e però libera dai tributi e dalla miUzia. E qualunque fosse la parte alla quile accostavi. questa centuria ; qoella pre­ponderava. Ma ciò « a ben raro a.succedere, per.non dire impossibile; mentre il più ddle discussioni termi- navasi col chiamar de* primi ordini senza, procedere al quarto. Dond' è che l ' invito de' quinti e degli ultimi superfluo riusciva.' XXI. Istituendo tal sistema e tal prerogativa inverso de' ricchi, Tullio deluse, come ho detto i poveri; né «el conóbbero , e furono esclusi dalle cariche. Immagi­navano questi che essendo richiesti un per uno a dare il suo voto, ciascuno nella sua centuria, avessero egnal parte nel tutto : nw s'ingannavano : perché uno era il voto della intera centuria, e qual centuria contenea men cittadini e quale più assai; e perchè prime vota­vano le centurie più ricche, più niunerose per serie, quantunque con men cittadini. Aggiungi che un solo era il voto de' bisognosi, quantunque fossero i molti ; ed aggiungi che ultimi si chiamavano. Per tal metodo i ric­chi , qualunque assai soggiacessero a spese , nè avessero mai requie da'|iericoli della guerra, men sentivano il

( i ) Erano le centurie «eata l'u ltim a ig a , numero la cui metài g6 . Affiucbè dunque tì foste preponderanta doveva un pattila natcere almeno d« 97 e 1' altro da ceatqrit.

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LIBRO IV. 3 3

peso ; perchè erano gli arbitri divenuti di graTÌssime cose, ed aveano tolto agli altri tutto il potere. Altronde i poveri se non aveano che la minima parte nelle pub< bliche cure sei comportavano placidi e cheti, perchè li- heri dai tributi e dalla guerra. Dond' è che que' mede­simi i quali consigliavano ciocché era da fare; quegli appunto se ne mettevano ai pericoli ed alle opere. Durò tal sistema per molte età tra' Romaut. Ma ne' tempi miei fu variato, e renduto più popolare per forza di grandi necessità, non perchè le centurie fossero discioiie ; ma perchè non più serbavasi T antica diligenza nel chia­marle; come io stesso, presente più volte ai comizj, ho veduto : ma non è questo il tempo conveniente a parlar di ciò.

XXII. Tullio data cosi regola al censo, comandò che. tutti i cittadini andassero colie armi ai campo più grande dinanzi Roma: e là, messi in squadre i cavalieri, or­dinati li fanti in battaglia, e ridotti i soldati leggeri, ciascuno nelle proprie centurie ; li espiò con un toro un ariete ed un capro. Egli fatte condurre prima tre volte le vittime intorno dell'esercito le sagrificò poscia a Marte, Nume sovrano di quel luogo. Anche a miei giorni vengono i Romani purificati con egual cerimo­nia , che essi chiamano lustro , dopo fatto il censo, da que' che n' esercitano il magistrato santissimo. Come ri­levasi da’ libri de' censori, il catalogo de’ Romani che si registrarono ascese allora ad ottantaquattro mila set­tecento. Prese questo re non picciola provvidenza per ampliare le classi del popolo, ideandone de’ mezzi sfug-

moirioi, lomo II. ì

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3 4 DfILLE a n t i c h i t à ’ ROMANE

giti a suoi ptedeceisori. Imperocché provvidero questi a iàr moltitudine ricevendo i forestieri e consoctandoselt senza divario di natali o di sorte. Ma Tullio concedè che entrassero a parte della repubblica pur gli schiavi renduti liberi , se mai non volevano ripatriare. Adun» que permettendo che registrassero le loro sostanze in­sieme con gli altri uomiai ingenui gli ascrisse fra le tribù urìjane che erano quattro fra le quali ritrovasi an-< cora la discendenza dai liberti, e fece che vi godessero quanto gli altri vi godeano di diritti.

XXIII. Disgustandosi di questo e mal sopportandoloi Patrizi ; egli convocaUne la moltitudine disse : che meran>igUan>asi primieramente de'malcontenti se cred^ vano che t uomo Ubero differisse dal servo per natura piuttosto che per la torte : e secondariamente se mv- suravano gU uomini degni di onori non dai costumi né dalle maniere, ma dalla prosperità, vedendo quanto caduca f e quanto mutabile sia la prosperità , mentre niuno, nemmeno de' più felici, può dire quanto tempo, gli durerà. Considerassero quante città barbare e gre­che erano di serve divenute libere, e di Ubere serve. E qui condannava la grande loro incongnienza mentre rendevano liberi uomini degni di esserlo, e poscia ad essi invidiavano la cittadinanza : e consigliavali piuttosto a non liberarli, se malvagi li ripuuvano : ma se ripu- tavanli buoni, non li vilipendessero quantunque fcre~ stieri. Dicea, che ben era informe nè savia cosa che essi ammettessero alla loro citudinanza tutti i forestieri, «enza distinguerne la sorte, o por mente, se erano servi divenuti liberi ; e poi tenessero come indegni di tal gra>

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SÌA «pelli stesù die erauo da loro liberati : e dieea, che essi i qaali credeano più saperne che gli altri noa ve« deano poi le co» presenti, elementari, e piane anche ù piA inetd: cioè che assai penserebbero i padroni a non rendere liberi co^ di leggeri i servi se poi do- Veano acootuunarseli alle cose più grandi fra gli uomi> a i: e che i servi assai più si stsdiecebbero di far l'utile de' padroni, se capivano ohe resi liberi sarebbero an­cora cittadini di una città grande e beata ; e che am­bedue questi beni <e gli avrebbero appunto dai padroni. Da ultimo fattosi a ragionare su l'utile pubblico ricor­dava a chi lo sapeva, ed a chi noi sapeva insegnava , ohe una città che a ^ r i al comando, una città che pre> parÌM alle grandi cose, non dee niun bene cercare quanto raumento del popolo, onde aver forze contro tutte le guerre, e non distruggere Terario con assoldare gli estra­nei , perciò dicendo che t primi re concedevano a fo- resUeri la citta^nansa. Che se ora adottavano la sua legge; aggiungeva che per loro via via crescerebbe una gioventù numerosa, uà-sarebboro mai «carsi di soldati ; anzi che ne avrebbero abbastanza quantunque fossero astretti far guerra conino di tuttL Vi sarebbero ancora (Jtre le pubbliche, altre utilità non poche pe'ricchi se ksciavano che gli schiavi renduti liberi avesser parte nelle adunanze ; mentre ne sarebbero in queste nel mag^ giore bisogno favcmti co' voti o con altre decenze, e la* «oerebbero ne'discendenti di essi altrettanti clienti ai posteri loro. Consentirono a tal dire i patrizj che si am- tnettesse un tal uso in repubblica : e vi persevera ancO' r a , ciutodito come «ma delle leggi sacre ed inviabili.

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XXIV. E poiché 8on venuto a tal parte di narrasio* ne ; panni necessario adombrare i costaini de' Romani in que' tempi sopra gli schiavi ; perchè niuno riprenda nè il re che tentò volgere in cittadini gli schiavi già li­beri , nè quei che la legge ne ammisero, qu»si abbiano incautamente aboliio istituzioni bellissime. Ottenevano i Bomani dei schiavi per giustissime guise : imperocché gli aveano o comperandoli dal pubblico che metteali qual preda all’ incanto, o concedendo un capitano che si appropriassero j presi in guerra insieme con altre cose;o redimendoli da altri che gli aveano con eguali ma* niere acquisuti. Nè Tullio che lo introdusse, nè gli aluri che lo riceverono e serbarono; tennero come vituperoso e nocivo al pubblico il costume pel quale si ridonasse la libertà e la patria da chi possedeali come schiavi, a quegli nomini che spogliati in guerra di patria e di li­bertà si erano utili dimostrati verso i primi che gli aveano soggioga'!, o verso altri che gli avevano comperati dai primi. Ricuperavano moltissimi la libertà gratuiumente in vista dell' onesto e bel procedere loro : e questo era il più onori&co mezzo onde riaversi : pochi ne sborsar vano un prezzo, accozzato con legittime e caste ètiche. Non è però cosi di presente, ma sono le cose in tanta confusione, e cosi belle virtìi de' Romani sono invilite e bruttate ; che chiunque trae danaro da crassazioni, da sfasci, da prostituzioni o per altre ree guise, costui con tal prezzo redimesi, è diviene un Romano. Otten­gono aliri un tal dono dai loro padroni, diveuuiine i complici degli avvelenamenti, delle uccisioni, e delle in­giustizie contro la repubblica e contro gl' Iddj : tal altri

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r ottengono con patto che prendano e ' porlino ai loro liberatori la rata mensuale e pubblica di frumehio e quant’ ahro da'principi si dispensa su'bisognosi. Altri finalmente gli libera la leggerezza de'padroni, e 1' amore di" una gloria vana. E certo io so che alcuni concede­rono che dopo il fin loro fossero tutti i proprj servi li- becati per esserne buoni decantati dopo morte : e quindi molti fecero co' pile! in capo un seguito ài loro cadaveri che trasportavansi, e spesso in tal seguito, come po­tessi udire da chi nera informato, pompeggiavano uomini usciti di fresco dalla prigione, rei di mille scelleraggini^ capitali. Or molti de' Romani considerando tal feccia di liberti impurissimi si affliggono che ricevansi per citta­dini , ' e ne condannano il costume come indegno della città metropoli, e che innalzasi a dominar ' l 'universo. E ben potrebbe alcuno riprendervi molte usanze ideale benissimo dagli antichi, ' ma viziatissime dai moderni. Non ió penso certamente che debba una tal legge abro> garsi , perchè da indi non sorga male maggiore ; dico però'die debbesi quanto si può rettifìcare, nè permet­tere che se ne spandano nella repubblica i grandi ob- brobrj e le'infamie inespiabili. E vorrei soprattutto chei censori vi provvedè^eró se non forse i consoli ; essen­done degna la cura dei grandi magistrati. Quelli, come la viu esaminano de'cavalieri e de'senatori; cosi esami­nino ogni anno quali schiavi la libertà riacquistano, per c ^ l fine mài la riacquistano, e con quali maniere. Quindi quéi che trovano degni della cittadinanza, quegli tra le tribù/li' com'pàrtano, e concedano che vivano in Roma: ma gU svergognati e profani li rimovano col titolo de-

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coroso d’ inviare un« colonia. Or queste cose, esigen^ dole il subjetto, emmi sembrato giusto e necessario al* legarle contro quelli che incolpano gli usi de' Romani.

XXV. Nè già Tullio si dimostrò popolare pe'stabili» menti co’quali represse l 'autorità del Senato, e la pre­minenza de’ Patrizj, ma per quelli ancora co* quali minul di una metà lo stesso regio potere. Imperocdbèli re precedenti vogliosi di tirare a sé tutte le canae, giudicavano ad arbitrio loro de' richiami privati, ehe pubblici ; ma egli dividendo i pubblici dai privati, esa* minava da sestesso le cause toccanti il Comune; e creò giudici particolari per quelle de' particolari : e le leg< gi stesse che egli scrìsse furono a tali giudici regola e confine. Poiché le cose di dltà presero per esso lui l’ordine pià acconcio ; arse dal desiderio di fare alcuna splendida cosa onde, eternare tra' posteri il suo nome. E volgendo il pensiero a' monumenti pe' quaU gli antichi sovrani, ed uomini di Suto erano divenuti famosi ; non invidiò già la donna Assira per le mura di Babilonia, non i re dell’ Egitto per le piraiiùdi di Memfi, nè per alure opere, qualunque fossero, le quaU dimostrano la pompa delle ricchezze e ddle arti non già le doli sublimi di dii governa: ma ripu* tando queste opere tenui, bre vi, non degne di affetto, seduttrici degli occhi, non adfutrici del vivere comune, dalle quali appena sono contentati gli autori di esse; e stimando solo degni di emulazione e di lode i frutti drila prudenza da'quali sono moltissimi e per lunghissimo tempo giovati; ammirò soprattutto il consiglio di tione figlio di Elene: il quale, visti i popoli della Gr«-

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aia déboli, e facili ad essere oppressi da'barbari intorno; li- raccolse tutti ad ana dteU, chiamata pei; esso Am fit^ tionia , nella quale ol'tre le leggi già proprie di ciascuna oittà, ne diede altea, uimfiItiomn dette, coAuni a (atte, per le quali vivessero amici infra loro, e, terribili e oesb ai barbari, difendessero il corpo della nazione non colle parole, ma. co'fatti. Da ciò prendendo esempio que' lonj cbe trastnigraroDO dall’Enropa in su i lidi della Caria, e li Doriesi che misero la sede loro ne'luoghi d'intorno , fondarono de' tempj a spese comuni, li lonj in Efeso, ergendovi quelb di Diana, e li Doriesi ia Triopto (i) ediikandovi quelb di Apollo. Poi là con­gregandosi colle mogli e co' figli ne' giorni destinati li solenniszavano con sagrifizj, con mercati, con certami equestri, ginnici .musici, e con pubblici donativi agl’Iddj. E mentre sedeaho a spettacolo, mentre mercatantavano, mentre davansi altre significauòni di amore, intanto se ci aveano offese iàtte ad una città» giudici fissi per la dieta o decideano la guerra co'baiiiarì, o trattavano la. riunione de' Greci fira loro» Su queste e simili immagini senti Tullio il desiderio di conciliare e congiungere I« genti làtine, sicché scindendosi e guerreggiandosi fra loro non fossero alfine spogliate della libertà da'barbari intorno.

XXVI. Adunque invitò li primarj di ogni città , di» cendo di convocarli per trattare di affari grandi e co» muni. E poiché furono venuti, adunando essi ed il Se» nato di Roma , tenne un ragionamento induttivo alla concordia , rilevando quanto era bdUa cosa che p ù città

( t ) Città nella Caria preiso d iG aido. Anti Plioio la credaGnida •iMM- Er«doto usi priiao libro , parla à langa di quatto um pio.

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fossero unanimi, e quanto brutto spettacolo che i po> poli di una nazione discordasseso. Dicea che la concor­dia era causa ai deboli di fortezza ; laddove la vicende­vole gelosia lo era ai fortissimi d* infiacchimento e di decadenza. Inculcò dopo questo, com' era conveniente, che i Latini dominassero ai popoli intorno, e che det­tassero leggi, essi Greci di origine ai Barbari; e come a’Latini stessi doveano soprastare i Romani, per l'ank- piezza della città , per la sublimità delle imprese, e per­chè usato aveano con successo migliore la Provvidenza divina, per la quale erano a tanta celebrità pervenud. E cosi discorrendo consigliava che fondassero a spese comuni in Roma iin tempio di asilo inviolabile ove le città riunite sagrificassero ogni anno per sè stesse e per tutti, facendovi concorso ne' tempi che destinerebbero. Ivi se alcun urto fosse infra loro, si riconciliassero tra que* sagriBzj, lasciandò che le altre città giudicassero della offesa. Divisando questi ed altri beni, i quali derivereb­bero da un pubblico consiglio, se lo stabilivano ; per­suase quanti vi erano. Cosi contribuendovi tutte, eresseil tempio di Diana posto in sull'Aventino, il più grande de' colli di Roma : e scrisse le leggi per le città verso di loro , e divisò le maniere onde compiere il mercato e la festa. E perchè niun tempo mai le cancellasse, fece una colonna di metallo, e v'incise le risoluzioni di quel consiglio, e le città che vi consultaropo. Esiste la co­lonna anche a miei giorni nel tempio di Diana, e pre­senta caratteri di greche lettere, quali l’antica Grecia le usava ; ciocché vale di argomento non picciolo a con- chiudere che quelli che fondarono Roma non erano B^r^

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bari, non usando i barbari lettere greche. Or tali sono le gesta più grandi, e più insigni che di questo re si ri­cordino senza comprenderne molte altre minori e men chiare : sono poi le imprese guerriere quelle che fece contro de' T irreni, e le quali ora prendo a narrare.

XXVII. Dopo la morte di Tarquinio le città che gii

aveano ceduto il dominio di sè stesse, ricusarono tenersi più oltre ne' patti, sdegnando di obbedire Tarquinio come umile di lignaggio, e travedendo una grande op^ portunità nell’ alienazione de' patrizj da lui. F urono i

Vejenti i primi a ribellarsegli, e risposero agli amba> iciadorì spediti da Tullio , che nè aveano essi faUa a

lui cessione alcuna del comando , nè trattato di ainici- z ia , nè di alleanza. Si mossero dietro loro li Cerretani, e li Tarquiniesi, finché la Etruria tutta fu in arme. Durò questa guerra venti anni continui entrando vicen­devolmente r una e 1’ altra gente con eserciti poderosi le terre nemiche, e procedendo di battaglia in batta­glia. Tullio s'ebbe la meglio in tutte, quante se ne ac­cesero contro di una città, o della intera nazione ; fin­ché nobilitatosi per tre luminosi trionfi, la necessitò da ultimo a ricevere il giogo che tanto sdegnava. Adunque nell' anno ventesimo le dodici città rifinite omai di da­nari e di uomini , fattesi a consultare, destinarono di cedere sè stesse ài Romani su le condiz'oni già prima de.cise : e vennero co' simboli di pace i Deputati di cia­scuna dicesse per farne la resa, e per supplicare che non fossero duramente trattate. Replicò Tullio che hen meriterebbero molte e gravi pene per la imprudenza lo ro , e per la inverecondia inverso dei Numi che

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weano renduti mallevadori dei palli violati : che tra» verebBero tuttavia questa volta ancora la dolcezza e la moderazione di Roma, perchè riconoscevano la colpa loro, e perchè co' simboli di pace e colle umilieuioni ne disarmavano Ut sdegno. Ciò detto pose fine alla guerra; cpncedeDdò con cuor semplice, e senza ira per ìa me­moria de' mali, che alcune delle d iti si regolaaiero a Jor modo e godessero come per addietro le proprie oott a norma de' patti che aveano con Tarquinio : ma le tra città de' Cerretani, de' Tarquiniesi, e de' Yejenti, già prime ad insorgere, e colpevoli di aver mòsso le altre alla guerra co’ Romani, queste in pena le multò della campagna, cui divise in sorte tra gli ammessi di freico alla cittadinanza di Roma. Compiute tali cose in guerra ed in pace, e fondati due tempf l'uno nel Foro boario, « l’ altro in fiva del Tevere alla Fortuna sembraUgli propizia tutti i suoi giorni, e da lui chiamata Virile come chiamasi ancora (i) ; alfine provetto assai per età, uè lontano ornai dal suo termine, moii tra le insidie del genero suo e della figlia. Io dirò di queste insidie ma ripigliandone il filo alquanto da lougi.

XXVIIL Avea Tullio due figlie, nategli da Tarqui­nia , sposata a lui dal re Tarquinio medesimo. Divenute nubili le donzelle, cugine dal canto materno a' nipoti di Tarquinio , di^dele appunto a questi per mogli, la più grande al più grande, e la minore al minore ; cosi p»- rendogli che meglio converrebbono a chi le prendeva;

(i) Tullio fondò più che due tempj. Fiutar, io quest- Rom- 74> IMa la fortuna P'iriU fa consecrata da Aaoo e aon da Scrrio seeondo lo (tcMO Plutatco De Fortuna Romtm.

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«e non die per la difformità de' costami sì trovò l'uik genero e l ' altro accoppii^to col suo contrario. Lucioil maggiore, baldanzoso, caparbio, tiranno per indole , elibesi la &nciulla , savia , mansueta, piena di amore paterno; laddove Arante il più tenero, mite molto per genio e tutto affabile, se ne ebbe la iniqua, e tutu ardire, e tutta «dio contro del padre. Ora seguiva che movendosi ogntioo a seconda del genio Suo venivano ripiegato in conira* rio dalla sua donna. Ardea lo scellerato dal desiderio di balzare il suocero dalla reggia : ma intanto che a tale disegno applica vasi, erane dai voti contrariato e dal pianto della consorte. In opposito il mite sposo , fiirmo in cuor mo cbe non aveasi ad oiKinder il suocero ma cbe do* veasi aspeture che la natura ne consumasse la vita , n i tollerando che il fratello commetteste qudk ingtOsiiBÌa era spinto in contrario dalla ribalda sua com pagna,

che lo istigava e garrivalo, rimproverandolo come mie. E poiché niente poteano nè le suppliche delia savia doona die insinuava il suo megtio ài non giusto suo sp<MO, nè le istigaEÌoni della malvagia che provocava ai delitti r uomo suo, che non era temperato a commetterne; ma ciascuno seguiva l'indole sua tenendo per molesta la compagna perchè non ave a desiderj uniformi ; la prima ne-piangeva , ma comporuva l'acerbo sOo caso, quando 1 'altra fràmevane audacissima, e cercava come togliersi dal suo camerata. Or qui levatasi di mente la scellerata, considerando quanto bene a lei si confarebbe il marito della sua germana , sei fa chiamare, quasi per abboo* carsegli dì necessarie cose. '

XXIX. E poiché fa venBto; ordinando ohe si riti»

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rassero qttaiiti eran seco per discorrere sola con: solo :- Or s u , disse, o Tarquinio posso io liberamente e senza pericolo ridire quanto medito pel bene di am­bedue ? Lo celerai tu quanto sei per udite ? o vtd nteglio che io taccia, nè palesi F arcano consiglio ? Ed iavitandola Tarquinio a dire , e certificandola coi giuramenti, qualunque ne volesse , che tacerebbe i di» scorsi ; ella non più contenuta dalla verecondia ineo* nkinciò : E fino a quando o Tarquinio , tu spogliato della reggia, at rai . tu cuore di sofferirtelo ? Sei tu forse d’ ignobile , d' inglorioso U gna lo che non ar- disci d’ iimalzarti ai grandi pensieri ? Eppur san tutti che di Grecia essendo , e generati da Ercole gli an­tichi tuoi ressero il comando supremo della fortunata Corinto, e per molte generazioni, come ascolto. Tar- xjvànio r avolo tuo , trasmigratosi da Tirreni in Bo- n ia , conseguì pe meriti suoi di dominarvi. E tu j il maggior de’ nipoti, tu devi ereditare non i danari so li, ma la reggia di lui. Forse per la debolezza , o per la defbmùlà tua non hai tu persona che basti a

Jìarla da monarca ? H ai pur^ tu gagliardia quanto i pià bennati; hai pur bellezza, quanta è degna della progenie dei re. Quali dunque d i tali cause ti si op­pongono? niuha.~ Te ne distoglie forse t età tua troppo giovane , e troppo lontana dai maturi pensie­ri? Per questa non ardirai porti in cima della re- pubblica ? quando sei presso già de cinquanta anni ? Eppur gli uomini principalmente di questa età sono

fa tti pe’ consigli i più. sani. Dì ; ti obbliga forse a reprimerti la nobiltà d i chi tiene U comando., o il

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imn essere d i lui co* cittadini, talché non facile sia sopraffarlo ? No : che ambedue queste cose gli son contra, nè egli stesso lo ignora. Spirano i tuoi co­stumi ardimento: spirano non curanza ne’ pericoli come i costumi il debbono di chi sia per regnare^ Hai tu ricchezze che bastano, amici che abbondano , ed altre comodità copiose ; e grandi per imprendere. Che pià dunque t'indugj ? A spetti forse il tempo che per sè stesso venga e ti dia la corona senza che pur te ne brighi ? Quando ? dopo la morte d i Tullio ? Appunto la fortuna riguarda gV indugj degl’ uomini t appunto la natura pon fine alle vite secondo la pro­porzione degli anni ! A nzi oscuro, incomprensibile à { esito delle cose mortali. Sebbene, io lo dirò pur

francam ente, quand’ anche tu me ne chiami temerà* r ia , una a me sembra, una la causa per la quale niente commoveti, non V amor degli onori m n della gloria. Hai tu dorma mal conforme a'tuoi modi; e questa ti lusinga, fi {in can ta , {am m ollisce: e da questa renduto men che uomo diverrai finalmente un ignoto. Così pure quel marito eh’ è meco, tutto paura, e senza nulla di virile , quegli ha depresso me ch’era nata alle grandi cose , quegli lui fa tto il fiore lan­guir di bellezza che mi avvivava. Se portava il de- stino che tu prendessi me per moglie ed io te per m arito, già non saremmo tanto tempo vivuti nella ignobilità de’ privati. Che dunque non emendiamo le colpe della sorte ? che non trasmutiamo il matrimo­nio ? che non togli tu dalla vita cotesta tua donna ?Io sì che apparecchio per quel mio marito l’ eguai.

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trattaUterUo, E quando, spenti questi f ei sarem con- jugati , allora, consulteremo con sicurezza sul resto j Uteri già dagli ostacoli che ci conturbavano. Che se altri per altra cause teme la ingiustizia ; già non è da riprendersi ohi tutto ardisce per dominare.

XXX. Mentre Tullia cosi diceva, ne ascoUara Tai> <]aÌDÌo con diletto i disegni: e dando immanlinente e ridevei^ i pegni di fede, e le primizie deli' em^e noz« s e , si ritirò. N«i andò gaarl tempo : e perirono per eguale sventura U primogeniu di Tullio, ed il minor de' Tarquinj. E qni sono astretto a far parola di nuovo di Fabio, e riprenderne la negligenza nell'esame dei tempi.. Imperocché fattosi alia morte di Arunte non pecca per questo capo solo come io dinanzi dicea, che descri- velo per figlio di T ar^inio ; ma per 1* altro ancora che narra , che mortosi Arante fu sepolto dalla madre Ta* Daquilla, la quale non potea di que' tempi più vivere. Concioflsiadbè già di sopra fu diiaostrato che costei om< merava setunucinque anni, quando morì Tarquinio. Ora aggiungi a questi altri quarant'anni, giacché sap- piam dagli annali che Arante mancò nell'anno quaran* tesimo del regno di Tullio; e sarà a gli anni di Tana- quilla cento quindici. Tanto picciola nelle storie dique< ft' nomo é la cura intorno la ricerca del vero ! Dopo ciò Tarquinio senza indugio riprese in Tullia ima mo­glie , ricevendo lei da lei stessa, e senza che la madre approvasse, o consolidasse il padre quelle nozze. E come que' due impurissimi, come que' due micidiali si coa- giunsero , tentarono di cacciare se noi cedea di buon grado, Tullio dal trono : e teneano perciò delle coor»

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ventieole , e raunavano que' senatori clie areano caore alieno da lui e dalle forme di un governo’ popolare, e comperavano i più bisi^nosi delia città quei che non ftvean «ura niuna delia giustizia, facendo intanto tutto seou nasconderlo. Tullio vedendo ciò, ne fu contnr» bato, e temette di essere sorpreso da qualche infortu­nio. Né dovrebben meno se dovesse far guerra alla figlia ?d al genero, e pigiiarnè vendetta come di nemici. Adunque invitò molte volte Tarquinio a discorso in mezzo degli amici; ora eedarguendoio, ora ammonendolo ed ora esortandolo a non far contra lui mancamento* Poiché però costui non lo attendeva, e pretesuva che dÌTd>l)e in Senato i suoi diritti ; egli stesso adunando il Senato, incominciò : Tarquinio o senatori ( e ben mi è ciò manifesto ) Tarquinio tien dei cpngressi; Tar­quinio m’ insidia Ho scettro. Io da lui voglio , pre­senti voi, risapere, qual privata ingiuria ha da me sostenuta, o qual vede che io ne ho fa tta sul pub­blico per insidiarmi. Rispondi Tarquinio^ non t ' infin­gere , d i che avresti tu mai per incolparmene? È que­sto il Senato, ove d i essere udito desideravi.

XXXI. E Tarquinio replicò : Breve o Tullio saràil dir m io, ma giusto ; e però voleva io profferirlo tra questi. Tarquinio l’ avolo mio possedè la reggia à i Rom a, e molti e grandi travagli sostenne per essa. E lui morto j io , gli debbo succedere secondo le leggi comuni de Greci e de Barbari. E convenivasi, come s i conviene a quei che succedono agli avi, che io ne ereditassi non pur le monete , ma la reggia : e tu mi davi le une » come lasciale da esso, e m i toglievi la

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reggia y e già da tempo la tien i, senza averla mai ricevuta a norma delle leggi : perocché nè gV interré vi ti scelsero , nè i senatori mai per te davano il voto , nè assunto vi eri da’comizj legittimi come l’avo mio e come tutti i re precedenti. Tu andavi al trono, e comperando e subornando per ogni modo una turba di vagabondi e di miseri, una turba rovinata nella stima per le accuse e pe’ debiti, una turba infine niente sollecita del pubblico bene : e così andandovi nemmeru} dicevi di stabilirlo per te , ma davi le viste di custodirlo per noi orfani e pargoletti: e dichiaravi, udendolo tu tti, che quando saremmo già adu lti, lo renderesti a me che sono il pià grande. Se dunque volevi tu fa r la giustizia, quando mi consegnavi la casa, quando il danaro dell' avo ; dovevi tu conse­gnarmene nommeno la reggia seguendo Vesempio dei tutori onorati e dabbene, i quali ponendosi alla cura de’ regi figli, orfani de’ loro padri, rendono ad essi appena son grandi puntualmente e santamente la si^ gnoria degli antenati. Che se ancora non io sembra- vati idoneo a pensieri convenienti, nè bastante pei Rovani anni a città jì popolosa, dovevi almeno re­stituirmene il governo quando io giunsi ai trent’ anni che son gli anni vegeti del corpo, e della m ente, e rie’ quali tu mi davi la tua figlia in isposa. Avevi pur tu questa età quando prendevi la cura della no­stra casa e del regno.

XXXII. T i sarebbe , così facendo , accaduto di esserne detto pietoso e giusto , di essere il partecipe de’ mìei consigli, il partecipe degli onori, e di udir-

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miti chiamar padre, e benejattore , e salvatore i e con ogni bel nome, quanti ne sono destinati dagli uominl per le azioni le pià preziose ; nè io già da quareubr taquattr anni sarei privo del -regno, io non in fo ia d i corpo, Ut non disadatto d i niente. E ciò stando^ osi pur dimandarmi quale aggravio io np senta, sicchéio labbia per inimico, e te ne accusi? A nzi dì, Tullio^ dì per qual causa non m i stimi tu d ^ n o degli onori dell’ avo : d i , qual ne travi , qual ten fingi buon t ^ tolo d i tal mia privazione ? Non pensi forse che io sia germe puro di quella stirpe, ma intrusovi e spu^ rio ? Come dunque tu curavi un estraneo dq quella famiglia ? o come , quando ei crebbe, gliene rendevi la casa ? O pensi che io non lontano molto dai citi-, quant’ ann i, io pur siegua ad essere un orfanp ? un incapace ai maneggi del pubblico ? Lascia dunque gli schemi d i domande invereconde; cessa una volta di esser malvagio. Che se hai giuste cose a rispondereio son pronto d i rimetterle a questi giudici de’ quali tu non potresti in città rinvenirne altri migliori,. Ma se d i qua levandoti ricorri tu , come sempre solevi, a quella tua ligia moltitudine ; già non sarà che io mel soffra. Io qui sòno appcurecchiato disputare sul giusto ; ma lo sono ugualmente per eseguirmelo, se non mi ascolti.

XXXIII. Al tacere di lai ripigliando Tullioril discorso» così disse: Quanto è vero o senatòri che dee V uomo aspettarsi ogni caso pià incensalo- nè crederne as­surdo niuno, se fin questa Tarquinio sta per levarmi

m o s t o t , tomo i f . 4

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dal principato : questo Tarquinio , che io prendea , che io attivava fanciulletto d à nemici che lo insidia^ vano, che io educava e cresceva, e cresciuto, com- piaceami di avermelo a genero, ed erede infine . di tutto se io patissi umana vicenda. Ma poiché tutto mi riesce in contrario, e che no sono anzi accusato come ingiusto ; serberommi a piangere la mia sorte , rispondendo ora su’ miei diritti a fronte d i lui, O Tar­quinia, io presi la cura di voi lasciati fanciullini : nè già di voler m io, ma costrettovi dalle brighe , la presi. Imperocché si dicea che quelli che aveano ma- n^stam ente ucciso F avolo vostro onde riprendersi il trono, avrebbero occultamente insidiato anche tuttoil parentado : e quanti a voi per sangue si rifèrì‘ scono, tutti confessano, che se quelli restavan gli arbitri del comando, non avrebbero pur seme la^

sciato della stirpe de Tarquinj. Non ci avea cura- tore, non tutore niuno di voi se non una donna, la madre del vostro padre, bisogrwsa ancor essa d i al­tri curatori per la cadente età sua. Jiimanevate voi solo a me corifidati, custode unico d e lt orbkadè vo­stra , a me che ora chiasni un estraneo , un che niente a voi si appartiene. In tali turbolenze ponendomi a l comando io punii gli uccisori delt avòlo vostro, e voi crebbi allo stato di uomini , né avendomi prole virile , io v i eleggea perchè a me succèdeste. È que­sto o Tarquinio il discarico della mia cura; nè già potresti in parte alcuna imputarmene di menzogna.

XXXIV. Ma ^uanfo a l regno, poiché d i questo mi accusi, odi come io me lo abbia^ e le cause per le quali

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iò non a voi lo ceda , nè ad altri. "Quando io presiil governo, avvedutomi che mi si tramavano dell^ insidi» , volea nelle mani riporlo del popolo. E ehia^ mando tutti a concione, io già faceanù a cedere il comando per cambiare con una vita di calma e tem a pericoli la vita del comandare , la quale è pièna di invidia, e sparsa pià di amarezze che d i piaceri. Non comportarono i Romani che io tanto eseguissi, nè vollero alcitn altro sul Comune , e me ritennero , ed a me diedero col consenso de’ vo ti, il. regno, quel possesso loro, o Tarquinio, e non vostro^ Così pure r aveano già dato alVavolo vostro tuttoché forestierot e niente congiunto co ire precedente; sebèene Anco Marzio lasciava de fig li maschi, e jtorid i per anni^ e non de nipoti y e piccioli ,■ come Tarquinio voi la­sciò. Se legge è comune d i tu tti, che chi eredita le sostanze e i danari dei rei che cessano, debba in* eieme riceverne il regno, dunque non f u TarquinioV avolo vostro che al morire di Anco ottenne la co~ rona , ma il figlio primogenita d i questo. Ma il po­polo d i Roma chiama a l comando V uomo degno di averlo, e non il successore del padre. Imperciocché giudica che le sostanze sieno di chi le possiede, ma che il regno sia di quelli che il diedero ; pudica con­venirsi che ottengano quelle gli eredi per sangue o per testamento se i padroni sen muojono , e che tom iV altro a chi '/ diede se vien meno chi preselo a reg­gere ; se non forse hai tu da contrappormi che Favolo tuo ricevette il regno con tal condizione che non po­tesse più tersegli, e che lo tramandasse af voi suoi

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discendenti ; sicché non fosse pià V àrbitro esso po­polo di conferirlo .a m«, levandolo a voi. Ma se hai tu punto ^ i sim ile, che noi produci? Ma non gli hai tìi questi patti. Che se io non ebbi il regno per buona via come d ic i, non eletto dagl’ interré, non portato dai senatori agli a ffa ri, nè compiendo il re­sto a norma delle leggi; questi dunque, questi ho10 vilipési e non te : e questi a non tu , saria giusto che P autorità men finissero. Ma nè io violai questi, nè altro chiunque. I l tempo m’ è buon testimonio, che11 potere mi f u dato legittimamente, e che legittima^ mente mel tengo. Imperocché già ne volge t anno quarantesimo e niun Romano pensò mai che io com­mettessi , avendolo, una ingiustizia ; e non il po­polo, non il Senato mai si mosse a spogliarmene.

XXXV. Ma lascisi pur tutto ciò : diasi pur luogo alle tue ragioni. Se io te privava d i un deposito deU- t avo, se io mi ascrissi il tuo regno contro tutti i diritti degli uomini, convenivasi che tu a quelli ne andassi che mel diedero : che con quelli ù ramarir cassi e garrissi che io mi tenga le cose non m ie, e che essi mi si obbligarono col dispensarmi t altrui : e se tu il vero dicevi; di le ^eri gli avresti persua­si. Che se tu non certificavi ciò co"'tuoi parlari; e tuttavia pensavi, indebita cosa che io tediassi, e che tu sei pià acconcio al maneggio del pubblico ; potevi alm eno, fa tta ricerca diligente de’miei errori, e nu­merate le' belle tue gesta , riclamartene giuridicamente la precedenza. Ma tu non hai fa tta nè C una nè ta lr tra cosa; e dopo tanto tempo, finalmente> quasi rior

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i>Mdoti da lùriga ebbrietà, vieni per accusarmene , e nemmen ora dove sidee. Cònciossiachè, già non con- viene che queste cose qui dichi ( e voi non ve ne ìde- gnate o Padri > mentre io così pórlo non perchè vi ai tolga questa causa, ma per dichiararvi li costui vanilo(fuj ) , ma conveniva che preaccemutndomi tu che aduneresti il popolo a conciane là mi accusassi. Ora ciocché hai tu schivato , lo supplirò io questo'per te: convocherò il popolo, lo farò giudice delle accuse che vuoi : lascerò che decida d ì nuovo, qual sia pià idoneo d i noi per comandare; e quello che là desti~ nasi , quello adempirò. Ma basti il fin qui detto 'a rispondati: perciocché torna alio stesso dir poche o molte ragioni con emoli che non le apprezzano , men^ tre quesU per indole nemmen so ^o n o ciocché li per­suada ad essere umani.

XXXYI. Ben io mi meravigliava o senatori che alcuni d i voi (^se ve ne sono ) volendo depor me , co^ spirassero con costui. Volentieri udirei da loro per qual mia ingiustizia nù fan guerra, o da quale mio tratto inaspriti. Sanno essi forse che assai nel mio principato perirono sema essere ud iti, assaiJitrono spogliati di patria , assai delle sostanze, o con ahre sciagure qjfflkti ? o non avendo a ridire su me niun tirannico modo di questi, sono essi forse consapevoli delle mogli loro da me disonorate ; delle profanate loro vergini fig lie , o di tal altra mia incontinenza su JC ingenue persone? Egli è giusto'se in me sono tati cùtpe , che io s ia , non sì del regno privato , che della vita. O può dire alcuno che un superbo io sono, un

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esoso per la mia durezza , un intollerabile per la mia caparbietà nel. governare ì Qual mai dei re predeces­sori fu così moderato^ così umano nel suo potere» ó qual f i i con tutti come m e, quasi un tenero padre co’ figli ? Jo quel potere che voi. mi deste, voi custodi di ciò che avete dagli avi ricevuto io non lo volli questo nemmen per intero : ma creai leggi, ( e voi le approvaste queste le ^ i) su cose principalissime, e le intimai perchè tutti esigeste e rendeste co(i esse i diritti, ed io stesso il primo mi vi sottoposi, docile còme un privato agli ordini, che io dava per altri. Che più, : non io mi tenni giudice di tutte le ingiusti­zie f ma commisi che voi stessi giudicaste delle pri­vate ; ciocché niunó'avea fa tto dei re precedenti. Laon­de ; non vedesi in me colpa sicché altri me ne con­trarino. O turbano voi forse i benefizj miei verso del popolo ? Ma non sarebbe così pensare un offendervi / se già tante volte con voi me ne giust^cai. Se non ché niente bisognano discorsi tali : se a voi pare che questo Tarquinio, preso il governo, sia per ammi- nistrarvelo anche ineglio : io non invidio a Roma il suo miglior principe. Restituendo il comando al po­polo che mel diede, e tornandomi tra privati, farò che vedasi chiaramente che io sapea tanto ben do­minare , quanto io posso dignitosamente servire.

XXXVIL Dette queste cose, e coperti di confusìoDe quelli che contra lui conginraTano, dimise 1' adunanza. Quindi chiamati li banditori , ordinò che recatisi in su tutti i quadriv), invitassero il popolo a raccogliersi. Ed essendo la urbana nioltitudìne accorsa al Foro , egli

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ascese in tribuna, e tei>nevi un patetico e lungo ragio* namento ove nunv^ le gesta militari eh' egli fece men­tre viveva Tarquioio e dopo , e ricordò mano a mano le istituzioni donde sembrava il Comune prosperato di

' molte e grandi utilità. E venendogli dal din di ogni fatto amplissime lodi, e desiderando ornai tiitti sapere perchè b‘ ridicesse., palesò Gnalm^te come Tarquinio accusa», vaio eh’ egli tenesse a torto un regno che a lui si do« yeva : e come spargeva che l’avolo gli avea nel morire lasciato con le ricchezza anche.il,regno, e. che non po­teva il popolo concedere ciocché suo non era. £ «pii svegliatosi in tutti clamore , ed indignazione, egli inti­mando silenzio, pregavali che pon impazientissero^ néi. tumultuassero a quel dire: ma chiamassero Tarquinio, e se foi-se av«va giust,e cose da esporre le conoscessero: e se lo trovassero offeso, e se pi^ idoneo a reggere, gli affidassero pure il comando di Roma : egli se ne al> lonUnerebbe, e renderebbelo ad essi da' quali lo ebbe. Cosi lui dicendo e movendosi già per iscendere dalla Uibuna, proruppe da mtti un grido, un gemito, un, pregar vivo che non cedesse ad altri il comando. E ci avea pur chi esclamava che si avesse a tempestare Tar­quinio : e colui, vista in fremito la moltitudine, temendo che non gli desser di mano ; iìiggissene cogli amici in casa. Allwa tripudiando tutto il popolo ricondusse tra gli applausi e le acclamazioni Tullio alla reggia.

XXXYIII. Tarquinio, venutogli meno quel tentativo,, fremè dal rancore che il Senato non gli dess^ alcun ajuto, quando egli fidava sv questo principalmente; e teanesi per alcun tempo in casa uon conversandolo che

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gli amici. Quando la donàa sua gli si fece a dire che più non doved star mollemente a bada, ma che dovea, làsciàte le parole, venire ai fatti, e primieramente cer­car pace per mezzo degli amici da TnIKo , perchè co­lili credendoselo riconciliato, meno il guardasse. E pa- rèodogli eh' ella ben consigliasse , finse di esser pentito, e pià voke per mezzo degli amici brò caldamente Tul­lio aflmché lo perdonasse ; nè difficilmente ve lo indusse, essendo placabilissimo per indole, ed alieno da unà guerra inestinguibile colla figlia e coi genero. Ma venutogli po­scia il buon punto, essendo il popolo sparso ne’ campi per la raceolta, egli usci cinto di amici co'pugnali sotto degli abiti : dati i fasci àd alcuni de* servi, e presa per se regia vestie ed altri sitnboli del comando, si recò nel Foro; e standosi dinanzi la Curia, intimò che il ban­ditore convocasse il Senato. E siccome ci aveano già pe( Foro appostatamente mólti de’Patrizj consapevoli ed isti* giitori del delitto ; allora si concentrarono. Intanto corso alcuno in casa di Tullio lo informa come Tarquinio era uscito con regie vesti, e chiamava i Padri a consiglio. Stupitosi Tullio dell' ardimento andò tra picciolo seguito con più velocità che saviezza: e giunto nella Curia, e vedutolo in sul trono , e con gli altri distintivi reali, c h i, disse , ch i, scelleratissimo uomo , ti concedè que­sti onori F è colui, f u , replicò, Ju Vardire tuo, fu la tua inverecondia o Tullio ; perocché non essendo tu libero , ma servo nato da serva , e posseduto qual pri­gioniero dall’ avolo mio, ti arrogasti il comando d i Roma. Tullio , ciò udendo, inaspritone, si lanciò fuor di propòsito su lui , come per ishalzarlo dal trono. Vide

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Tarquibio ciò con caletto , e sorgendo dalla regia sede afferra e trasportasi lai vecchio ,* che grida , ed invocai suoi. Gianto fuori della Caria egli florido e forte, le* vaio in alto, e trabalzalo giù per le scale che mettono al luogo de' cemisj. Àlzatod appena dalla caduta il vec-' cfaio, come vide intorno , pieno tutto de' partigiani di' Tarquinio , e deserto e vuoto de' cari suoi, partesene malconcio e mesto con pochi die lo sostengono , e ri- condueono, mentre riga intanto la via di sangue.

XXXIX. Na^ansi dopo ciò le opere dell' empia e bariiara figlia, tremende ad udirsi, come portentose nè credibili a farsi. Costei sentendo che il padre era ito in Senato vogliosissima di CMiosceme la fine, venne in sul' cocchio nel Foro : e conosciutavela, e veduto Tarqui- mo in su le s(»le della Curia, essa la prima a gran voce lo saliitò momrca , supplicando gl’ Iddii, che il regno di lui riuscisse propizio a Roma. E salutandolo monarca altri ancora de' cooperatori suoi, lo trasse in disparte e disse : Le prime cose o Tarquinio le hai tu .fa tte come doveansi. Ma finché vive Tullio non potrai renderti stcAUe il regno. Egli se abòia piccioto tempo di questo giorno ; ecciterattene incontro il po­polo; e tu sai quanto il popolo lutto è per lui. Su dunque prima cK ei torni in casa, manda chi lo uc­cida ; te ne libera. Ciò detto, e sedutasi di nuovo in sul cocchio , parti. Tarquinio convinto che la iniqùis-. sima donna ben consigliava , spediscegli contro alquanti de' suoi co' brandi : e quelli trascorrendo rapidissima- Djente la via raggiunsero Tullio presso la casa, e lo, uccisero. Abbandonato palpitavaue .ancora, il cadavere

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per la strage réceole ; quando k figlia sopraggitioge : ma stretta essendo la via donde aveasi a passare, le mule a tal vista si spaventarono : e 1' auriga stesso ohe le guidava mosso da compassione si fermò e si volse a colei. La quale dimandandogli perchè mai non pro^ cedesse : Non vedi , disse, o T uliia , che qui giace il morto tuo padre, nè vi è transito fuàrchè sul cada- vere suo ? E sdegnatasene quella e levatosi 1» scabèllo da’ piedi e lanciatoglielo disse : E non le guidi o stolto in .ut/ morto ? E colui gemendo anzi per la compas­sione che per la percòssa spinse forsosamente le mulé su del cadavere: E la via chiamata Olbia (i^ per ad» dietro, fu d opo (1 tragico e barbaro caso detta «eU' i^ dipma de’ Romani scellerata.

XL. Tale fu il termine di Tullio dopo quaranta­quattro anni di regno. Dicono che quest’uomo il primo alterasse i patrii costumi e le leggi ricevendo il prin» cipato non dal Senato insieme, e dal popolo come tutti i re precedenti ma dal popolo solo , guadagnane dosene la classe indigente con distribnzione e doni, ed altri seducimenti. E cosi sta la verità; perciocché net

( l) OX/3t»e in greco fe lice , fortunato : sarebbe il sento che

la via ftlice fortunata fu delta tcellerala pel delitto. Alcuni leggono K v x f n s in luogo di tX jSof, certamente, secondo che scrive Var-

Tone nel lih. de lingua latina, i Sabini quando si unirono ai Ro- Mani chiamarono Cìpria la contrada di Roma nella quale si allog­giarono come per buono augurio, perchè Cyprum tra’ Sabini signi- ficava il bene. E secondo ciò la contrada detia Cìpria o buona dai Sabini pel buon augurio , sarebbe appunto quella che poi detta sotllerata per la empietà commessavi. Ma Varrone scrive che questa

contrade crav pcos»iine , c non. g ii le medMÌine.

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primi tempi quando un re moriva , il popcdo dava al corpo dei Senato la podestà di stabilire la forma die più volessero di governo, ed il Senato nominava gl' in­terré e gl' interré sceglievano per sovrana 1' uom pi& pregevole sia de’citudini, sia de'nazionali, sia de'fo­restieri : e se il Senato ne apjnovava la scelta, se il po­polo co'voti suoi r amoriczava, se gli auspizj la con­fermavano, colui prendeva il comando. Che se mancava alcuna di queste condizioni , ne nominavano un secoq» do ; e poi un terzo, se avveniva che il wcondo non. avesse propizio quanto era d' uopo dal cielo e dagli nomini. Ma Tullio, come innanzi iu detto, assumendo in principio il carattere di regio tutore , e poi guadai gnandosi il popolo con gli amorevoli modi, fu re no­minato solamente da quello. Poi diportando» come uo­mo temperato e clemente fe’ colle opere successive ta­cere le accuse, che non avesse adempita ogni cosa a norma delle leggi ; la^iando a molti il sospetto, che se non era presto levato, avrebbe ridotto, lo Stato a forma di una repubblica. E questa è la cagion princi­pale per cui dicesi che alcuni de' patrizj lo insidiassero. Non potendo con altro modo finirne il comando, mi­sero Tarquinio alla impresa e gli cooperarono il regno, per voglia di deprimere il popolo, ornai troppo potente pel governo di Tullio , e di ricuperare la dignità che essi da prima si aveano. Levatosi per tutta la città ro- more e pianto per. la morte di Tullio ; e temendo Tar- qumio che se ne fosse portato il cadavere, come è ro­mana consuetudine, pel Foro con regia pompa.e con gli altri funebri riti non sorgesse centra Uii 1' tra po­

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polare prima che si aresse consolidato il comando ; nòs permise che a Ini si rendessero gli asad onori. Sola, con pochi amici, la moglie di Tullio e figlia insieme dell' antico re Tarquinio ne portò di notte fuori d ^ a città le morte spoglie quasi le comuni e ^ili di un pri- Tato ; e piangendo la sorte infelice sua, e mille fa­cendo imprecazioni alla figlia ed al genero Io sep­pellì. Di là tomausi in casa, e sopravyitendo alla sepol­tura nn giorno ; nella prossima notte spirò. S'ignorava però da molti la maniera del termine sao. Diceano al- conL eh' ella stessa aveasi data da sè la m orte, an­teponendola al vivere. Altri però diceano che era stata uccisa dalla figlia e dal genero come troppo ad­dolorata e benevola inverso lo sposo. Per queste ca­gioni il corpo di Tullio fu privo di regj funerali, e dì magnifico monumento: conseguì però colie opere sue memoria perenne in tutti i tempi. Anzi quanto egli fosse caro agl'Iddìi lo fece eziandio palese un se-' gno celeste : dond' è che alcuni tennero ancora per ver» la opinione incredibile e favolosa intorno la nasciu sua come dianzi fu detto. Appiccatosi il fuoco al tempio della fortuna , che egli avea già fabbricato, mentre tutto era preda delle fiamme ne rimase intatta solamente la statua di lai in legno dorato. Il tempio e quanto è nel tempio rifabbricati dopo l ' incendio sul modo antico presentano le treccie di un'arte recente: ma la statua^ antica com* era nelle fattezze, vi riscuote ancora il culto, dai Romani. E ciò è quanto abbiamo ricevuto ràpra Tullio.

XLL Dopo <U lui prese la signoria di Roma Lucio

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■Tarquinio non già secondo le leg^ ma còlle armi nel- r anno quarto dell' olimpiade sessantesima ptima ndla quale vinse n ^ o stadio Agatarco , «ssendo arconte di Atene Tericleo (i). Costai spr^ando la popolar m^l- titadine, spregiando i patrizj da' quali èra stato coti- dotto al trono, e confondendo e sconciando ogni co? stame e legge e disdplina colla quale i re precedenti aveano <lato forma a Roma; rivolse Q governo in una manifesu tirannide. E primieramente mise intorno a sé guardie di bravi, nazionali ed esteri, con spade e laiv> ce, i quali vegliando di notte negli atrj della reggia , e scortaqdolo di giorno, ovunque ne andasse, lo scheiv «liscerò appieno dalle insidie. Inoltre non usciva nè di continuo, nè con periodo certo, ma di raro, e quando non aspettavasi. Ddiberava su le cose comuni molto ■in sua casa, e poco nel F oro, in mezzo a' parenti pià «tretti che Io guardavano. Non concedette «^e alcuno ^i quei cbe il volevano si presentasse a. lui se noi chiamava: e presentatoglisi, non era già con esso, compiacevole e mit^ , ma grave ed aspro come un ti­ranno, e terrìbile anzi che gioviale a vedere. Definiva le controversie su’ contratti in conformità de' costumi suoi, non delle leggi e del dritto. Per le quali cagioni <i Romani Io denominaron superbo, ciocché neU'idioma nostro vpdl dire soperchiatore contrassegnando l ' avo col soprànnOme Ai Prisco, o come noi diremo amico per nascita, giacché quello aveva i nonù appunto dd ^v in e .

(i) Nell* anno aao di'Róma seconda C atone, aaa secondo V at- Hwc, e S3a aTAnii Orm(a>

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XLI. Quando poi concèpi di »rer gii consolidato il suo regno , cenoeKandoBene co' più rOuIdi de' suoi atni d , avviluppò tra accuse eapitàli i piik cospicui de' citr ladini ; e primieramente i contraici suoi, quei che giii non> voleano che Tullio si levasse dal t^no , e quindi altri li quali immaginavaseli malcenteuti del cambia^ mento, o li quali abbondassero di riccheue. Color»

in giudizio li riducevano, gli accusavano l'un dopo l’altro con delitti falsi, e eoe quello specialmente ohe tendevano insidie al re che ne era il giudibe.' Ed egU quali ne coadtoinava alia morte, e quali all' ^ tio : « confiscati i bèni degli uccisi o banditi, dspensavane alcun poco tra gli accusatori, serbandone la più gran parte per sè. Pertanto molti de'prìmarj vedendo le car gioni per le quali erano insidiati, lasciarono, prima di essere complicati in delitti, Roma tutta al tiranno. Vi furono pure alcuni sorpresi ed oppressi di furto da lui nelle case o ne'cam^H : uomini ben degni di riguardo, ma non più sen trovarono nemmeno i cadaveri. Di^ surutta cosi la maggior parte del Senato con stragi e con esilii perpetui la supplì con chiamare agli onori di quei che mancavano i propri amicit nè però concedette loro di fare o dire' se non quanto egli avesse prescritto. Tanto che li senatori gii scehi da Tullio, e superstiti ancora nel Senato, e contrarj fin'allora al popolo sul 'Contetto che la mutaBione tornerebbe in lor bene per le promesse avutene da T arquinio ingannevoli e tradi> tiic i, vedendo infine che non aveano più parte nelle pubbliche cose, anzi che aveano come il popolo per- duu la libertà ne sospiravano: ma temendo un avve-

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aire ancor più: terribile, nè potendo impedire «pianto faceasi, chetaronsi necestariameatfi a' mali presenti.

XLIII. Or vedendo il popolo c iò , pensava che stesse lor bene, e godea sul contraccambio, quasi la ti« rannide fosse per essere grave a quelli soltanto e noil pericolosa per lui ; quando non molto dopo ne venneroi mali ancora più su di «sso : imperocché Tarquinio anntdlò tutte le leggi di TuIKo per le quali il popolo rendeva ed esigeva il giusto con diritti eguali sensa es­terne come prima sowerchiato da' patriE) ne' confratti t bè lasciò pur le tavole dove erano scrìtte, ma fattele levare dal Foro le distrusse. Poi tolse i da®j, proporr zionévoli ai registri delle sostanze , tarandoli novameote sul modo antico. E se mai bisogaavano a lui denari, eontribuivane il più povero quanto il più ricca Or tale regolamento esaurì subito colla prima imposizione gran parte del popolo,* essendo astretti a pagare dieci dramme a tesu. Intimò che non più si facessero quei concorsi, quanU sen facevano per vilhiggi, per curie ,o per vicinati, a Rom a, o nella campagna in occasione di feste o sagrifizj comuni, perchè riunendovisi molli non vi macchinassero occultamente fra loro di abbattereil principato. Ci aveano qua e là disseminati, ignoti osservatori e spie dei detti e de' fatti, e questi intra» mettendosi a'colloquj, e talvolta malignando essi ap^ punto contro il governo scandagliavano gli animi: e s^ scoprivano alcuno esasperato da’ mali introdotti lo in*> colpavano presso del'tiranno: ed aspre; irreparabili ne erano le pene, se restava convinto.

XLIY.: Né gli bastò di abusace io u l . modo del po-

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polo : ma raccogliendo dal mezzo di eiso «joanti ci avea fidi e proprj per la guerra, astrinse gli altri a lavorare in cktà, riputando che i re moltissimo pericolano, se

,i più scellerati e poveri stieno oziosi. E desiderando vi* vameate che si ultimassero nel suo regno le. opere la­sciate imperfette dall' avo suo, che si continuassero fino al fiume le cloache cominciate da quello e si ctKondasse di portici coperti il Circo Massimo il quale non aveane die le gradinate; si applicarono a questo lavoro, e oe ottennero parco firumento i poveri, altri tagliandone i materiali» altri guidando i carri che li trasportavano, ed altri portando su le spalle i pesL Chi scavava sotterra­nei canali e largure : chi facea volte in essi; e chi.sol­levava de’ portici. In servigio intento di questi fabbri erano ferraj, falegnami, scarpellini staccati da’proprj la­vori, e tenuti ne'pubblici. Esercitato il popdo in tali travagli non prendea requie niuna; tantoché li patrizj ve­dendo que' lor mali e quella schiavitù se ne racconsola­vano in parte, e scordavano i proprj mali: non però nè gli uni nò gli altri si aUentavano d'impedire quanto iàcevasi.

XLV. Considerando Tarquinio che chi non riceveil comando per legittime vie, ma lo usurpa colle armQ abbisogna di guardia interna nbn solo ma di estera cercò di renderà amico l ' uomo più cospicuo e più potente di tutti i Latini, nominato Ottavio Mamilio, congiungendoselo col matrimonio 'della figlia. Derivava costui la origine da Telegono figliuolo di Ulisse e di Circe, ed abitava nella città del Tuscolo. Godea la f»> ma di buon politico e di buon capitano. Rendutosi

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amico quest'uom o, e con lui conciiiatisi i magistrati più grandi di ogni città , si accinse allora finalmente a tentare aperte guerre, e movere le armi -contro { Sa­bini che non più volevano ubbidirne i comandi, pen­sandosene sciolti fin dalla morte di Tullio , col quale aveano firmato gli accordi. Conosciuto ciò fece inten­dere pe' messaggieri agli usati di raccogliersi a consiglio in nome de' Latini che si recassero alla dieta la quale tenevasi in Ferentino ; destinando il giorno nel quale- tratterebbe con essi di comuni gravissime cose. Eransi questi colà presentati; nè Tarquinio che ve gli avea convocati, appariva. E poiché 1' aspettarvelo ornai dive- niva troppo, anzi ingiurioso pareva ai più del consiglio riunito ; un tale che abiuva a JCoriolo (i) uomo po-’ tente per.amici e sostanze, valevole in guerra, nè in­facondo nelle cose civili, chiamato Turno Erdbnio, ni­mico a Mamilio per ambizion di governo, e sdegnato con Tarquinio perchè aveasi scelto Mamilio per genero e non lu i , fece una lunga accusa di Tarquinio nume­randone le opere di orgoglio e di soperchieria, come il non essere venato in consiglio, dove eran già tutti, e dove gli aveva esso stesso invitati. Difendealo Ma^ milio, imputando l’ indugio a cause urgentissime, e. chie» dea che diffarissero ; e differirono il consiglio al prossi­mo giorno, indotti dal suo parlare i Latini.

( i ) Livio ne) lib. 1 dice che era della Riccia: Turnus H erdo- nUis a i A r id a . Forse la gran TÌcinanza di Carialo e AaW Arida fece preuder l ' una per l’ altro. Cortola era fia i territorj Ansiate , Aideatino', ed Aricino, sai monte Giove.

D IO N IG I tòmo I I . »

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XLVI. Gianto nel gioroo appresso Tarqoinio, e con­gregato il consiglio, e toccato di volo l’ indugio suo , fecesì a discorrere della preminenza che a lui compe­teva come posseduta già dall’ayo per la forza delle armi; e presentò gli accordi delle città fatti con quello. Lungo fu il suo ragionamento intorno dei diritti e dei patti; e grandi le promesse di beneficare le città se amiche gli si tenessero, e provocavale infine a far guerra con esso ai Sabini. Come diè fine al dir suo, Turno recatosi in« nanzi accusava la tardanza di lu i, nè permetteva che li compagni gli cedessero il principato, perchè nè dovuto a lui per giustizia, nè possibile a darsegli con utile dei Latini, E molto ragionò su l'una e su l'altra cosa dicendo che i patti che avean segnati coll’avo suo quando gli ac­cordarono la sovranità finirono colla sua morte, per non essere scritto in quelli che il dono estenderebbesi anche ai posteri suoi. £ qui dimostrava eh* egli che pretendeva succedere ai diritti dell'avo, era il più ingiusto, e mal­vagio de' mortali : e ne allegava le opere da lui fatte per aversi il comando di Roma. Adunque scorrendo i tremendi e molti suoi delitti, conchiuse infine che egli non tenea legittimamente nemmeno Roma, non aven* dola come i re precedenti ricevuta da'sudditi spontanei. Egli F ha presa, disse, colia violenza e colle turni: e fondatasii la tirannide , uccide , esilia, confisca, e to­glievi fin la libertà di parlare, non che quella del vi~ vere. Ben sarebbe grande la stoltezza, grande la in­giuria inverso gli Jddj ripromettersi mai tratti umani e benevoli da un empio e da uno scelle,raito , e cre­dere che chi non ha perdon alo nemmeno agC intimi

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suoi, nemmeno ai suo sangue, risparmi poi gli altri. Esortavali dunque giacché non eransi ancora sòttoposti a| giogo, a combattere per non sottoporvisi. Da ciò che pativano gli altri di terribile argomentassero ciocché sa* rebbero essi per sopportare.

XLYIL Vaiatosi Turno di qaesto discorso, ed assai commossine i pià ; Tarquinio dimandò per difendersene il giorno seguente, e lo ebbe. E sciolto appena il con­siglio ; convocati i suoi più intim i, esaminò con essi ciocch' era utile a farsi. E quali suggerivano le risposte di apologia, quali ragionavano fra loro de' mezzi onde era da blandirsi la moltitudine. Soggiunse Tarquinio* che niente di ciò bisognava, e disse il parer, suo di le> vare l'accusatore, anziché di purgarsi dalle accuse. E lo> datone da tutti e concertatosi con essi; pigliò tali vie per l'in ten to , quali non sareUiero cadute in mente di uomo che macchina o si difende. Imperciocché cercati li servi più rei che ménavano i giumenti o curavano le robbe di T urno , e corrottili con argento, gl’ indusse a prendere da sé stesso nella notte assai spade e porurle nell' ospizio del padrone e nasconderle , e lasciargliele tra le bagaglie. Poi nel giorno appresso , riunitosi il consiglio, e venutovi : Breve è , disse, f apologia su le mie colpe, e giudice rie stabilisco Vaccusatore mede-~ simo. Questo Turno , ó compagni, giudice stabilito delie reitadi che ora mi ascrìve, questo da tutte as- solveami g ià , quando chiese in isposa la mia figlia. Ma poiché ne fu rigettato , com' era ben giusto ( im­perocché qual- savio mai rispinto avrebbe Mamilio, un sì nobile ', un sì potente Latino, e prescelto avrebbe

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per genero costui, che mal può delinear la sua stirpe; Jino al trisavolo ? ) poiché ne f u rigettato, indispetti­tone mi assalisce colle accuse. Doveva, se per tale mi conoscea quaì mi accusa, non desiderarmi per suo­cero : o se mi tenea per onesto quando mi chiese Ut figlia, non doveami ora come un ribaldo accusare. E ciò basti su me: perciocché non si debbe ora più discutere se buono o malvagio io mi s ia , quando voi,o compagni, voi correte il piit grave de*pericoli. E su me potete ancor dopo chiarirvi : ben ora dee colla sal­vezza vostra la libertà provvedersi deUa patria. 1 pri- m arj delle città , quei che ne maneggiano il pubblico, tutti sono insidiati da questo bel capo-popolo, il quale apparecchiasi, uccidendo i più cospicui, torsi il regno del Lazio. E questo, sì questo è il fine che qua lo menava. Nè già io parlo immaginando , ma di pienis­sima scienza, datami nella notte andata da uno dei complici della congiura. E se voi vorrete meco idtospi­zio di costui venire, io ven darò documento infallibile del dir m io, le armi che vi occulta.

XLVIU. Or lui cosi parlando sciamarono tutti, e chie­sero , temendo per sé, che certificasse il fatto, non gli illudesse. E T urno , come lui che non avea preveduto le insidie, disse che volentieri ricevea la inquisizione, e chiamò li primarj per compierla , aggiungendo che se» guirebbe l'una delle due, o che egli morirebbe se il trovassero con apparecchio di altre arme che pel viag< gio, o che le pene sue subirebbe chi lo calunniava; Così piacque ; ed andarono e trovarono nell' albergo di

lui trst le bagaglie le spade nascostevi da* servi, AUor»

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non lasciando nemmen che parlasse gittarono Turno in una voragine, e coprendolo, vivo ancora, di terra lo sterrainaron sul fatto. Ed encomiando nell’adunanza Tar> quinio come benefattore comune delle città, perchè ne avea salvato gli ottimati, lo crearono capo della nazione co'diritti appunto co'quali ne aveano già creato Tarqui- nio r avolo suo , e poi Tullio. Scrissero in su colonne que’ patti, e datosene il giuramento per la osservanza, si congedarono.

XLIX. Tarqulnio divenuto capo de' Latini spedi mes­saggeri alle città degli Ernici e de' Volsci invitandoli a fiir seco amicizia ed alleanza. Ma de' Volsci due sole duadi Echetra, ed Anzio secondarono l ' invito : laddove gli Emici si decisero tutti per 1' alleanza. Ora curando Tarquinio che gli accordi colle città si conservassero in ogni volger di tempo ; deliberò fissare un tempio co­mune «i Rom ani, ai Latini , agli Ernici ed ai Volsci confederatili, perché riunendosi ogni anno al luogo de­stinato vi mercantassero, e banchettassero, partecipando de'sagriizj medesimL Ed ascoltandone tutti con piacere la idea, scelse quanto era possibile in mezzo de' popoli per luogo della riunione il monte sublime, il quale so­vrasta alla città di Alba : e dichiarò per legge che in «juesto fosser le fiere, in questo fosse triegua di tutti in verso di tu tti, e conviti si facessero « sacrifizi co­muni a Giove detto Laziale, prescrivendo quanu parte dovesse ogni città contribuire per essi, e quanta rice­verne. Quarantasette furono le città compartecipi delle feste e de' sacrifizj ; e tali sagrifizj e tali feste le conti' QUano ancor di presente i Romani che Latine le chia«

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mano. Le città compagne nel sagtificare portano agnelli,o cacio, o latte , o tal' altra oblazione in frutti e fari­ne. Immolandosi però da tutte un sol toro, ciascuna prendeane per sè la parte stabilitale. Il sagrifizio è per tu tti, ma presiedono al rito santo i Romani.

L. Poi eh' ebbe rassodato il regno con tali confedera­zioni ; risolvè di portai-e Tarmala contro i Sabini. E re­clutando de' Romani quei che men sospettava che fareb- bonsi liberi se otteuevan le armi, e congiuugendo con essi truppe alleate, più numerose ancora delle sue, de­vastò le campagne Sabine : e vintivi quei che vennoo con esso a battaglia ; menò l'esercito contro de' Pomen^ tini. Abitavano questi la città di Sessa e pareano i più felici de'confinanti, anzi per la felicità molesti e gravi a tutti. Avendo egli già reclamato ad essi per alquante rapine e prede , e richiestili che dessero de' compensi, non aveano dato che orgogliose risposte: e quindi po­stisi in arme aspettavano pronti la guerra. Adunque ve­nuto con essi in sul confine alle mani, ed uccisine molti ; ne respinse e rinchiuse gli altri fra le mura : e poiché non più ne riuscivano, accampatosi dirimpetto, li circondò di fossa e vallo, investendo la città con as­salti continui. Resisterono quei che v'erano dentro, du­rando assai tempo fra stenti luttuosi. Ma poi venendo ad essi meno ogni mezzo j infiacchendo ne' corpi, e non ricevendo soccorsi , nè requie m ai, anzi travagliando di e notte ; furono sopraffatti dalla forza. Impadronitosi della città trucidò quanti vi stavan colle arme: lasciò che i soldati rapissero donne, fanciulli, quanti .sop­portavano di cader prigionieri, e moltitudine non facile

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a calcolarsi dì servi : e concedè che invadessero e si p o r ta s se quaiit’ altro veniva loro alle mani sia nella città , sia per la campagna : ma l ' orO e l'argento, quanto se ne trovò^ lo fé' tutto rammassare in un luogo, e de> cim^olo per la ibndanione del tempio , ne divise il re* sto fra le milizie. T anta poi ne fa la somma che ogni soldato ricevè cinque mine di argento e la decima per gl'Iddj non in minore di quattrocento talenti di ar*

gento.LI. Ancora egli stavasi a Sessa quando gli giunse un

messaggio , eh' era uscita la gioventù fiorentissima del Sabini: che gettatasi in due corpi nelle terre de' Ro« mani «ikvastavane U campagne, F uno ténendosi presso di Ereto , e l 'a ltro presso di Fidene : e che se un i forza non le si opponesse, ben tosto tutto soccombe­rebbe. Com' ebbe ciò udito lasciò picciola parte dell'eser­cito in Sessa con ordine che vi guardasse le prede e bagaglie: e prendendo con sè il resto della milizia-, spedita e lederà , e marciando contro quei che erano accampati presso di Ereto, si trincerò su le alture a pic­ciolo intervallo da essi. Decisero i due Sabini dar là bat> taglia in sul mattino; e spedirono perchè venisse l'eset^ cito ancor di Fidene. Ma scuoprl Tarquinio il disegno per essere stato preso chi portava le lettere dagli uiìi agli altri. Per tal successo ei si valse di questo accorgi* mento. Divise l 'esercito in due parti, e ne mandò l 'una fra la notte di nascosto de'nemici su la via che viene da Fidene, e schierando l ' altra in sul brillare del gioi<< n o , la menò dagli alloggiamenti alla battaglia. Corag*- giosi gli uscirono incontro i Sabini non vedendo gran

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serie de 'nem ici, e credendo non altro mancare all'ar­mata di Fidene, se non di giugnere. Cosi venutisi que-i sti a fronte combatterono, e la pugna pendè gran tempo dubbiosa, quando li soldati spediti nella notte da Tar- quinio ripiegarono la marcia , e coiTevano a tergo dei Sabini. Sbalordirono questi al yederìi, e ravvisarli daUe insegne e dalle arm i, e gettando le proprie tentarono di salvarsi : ma il tentativo riusci difficilissimo, essendo essi circondali da' nemici e rinchiusi dalla cavalleria dei Rpmani postata d' ogn' intorno. Pertanto podbi ne scam­parono e tra duri casi : i più ne perirono, o cederono. Quelli eh,' erano lasciati agli alloggiamenti non li sosten­nero ; e quel luogo di sicurezza £ii invaso al primo as­salto. Furono qui prese le robbe de'Sabini, e qui molti de' prigionieri, e qui le robbe de' Romàni quante ne erano intatte, e tutto fii salvato per chi le aVeva perdute.

LIL Riuscito il primo saggio a Tarquinio secondo il cuor suo, prese 1' esercito, e ne andò contro i Sabini accampati già in Fidene, a' quali non era ancor nota la disfatta dei loro. Usciti questi dagli steccati erano per avventura tra via: ma non si tosto furono più da vicino e videro le teste de’loro capitani confitte alle aste ( che ve le aveano i Romani confitte ed ostentavanle per ispa- ventare i nemici); conoscendo com'era l'altro lor campo distrutto, più non tentarono nulla di generoso, ma ri­voltisi alle suppliche ed alle umiliazioni si resero. Cosi devastati miseramente, e vituperosamente nell' uno e nell’ altro' esercito, e ridotti i Sabini a speranze tenuis­sime, anzi timorosi che fossero le loro città pigliate di assalto ; spedirono ambasciadori per la pace, profleren-;

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idosi per sùdditi è tributar). Pertanto lasciò la gaerra, e ricevute appunto con tali coiidàiom le loro città , si ri» condusse a Sessa ; e ritiratene le milizie lasciatevi, e le prede ed ogni bagnilo , tornossene a Roma coll' eseiw dito carico di ricchezze. Poscia fé' mólte incursioni su le terre de'Vc^sci, quando con tutte le forze, e quando eoiL parte , ne ottenne graia prede. Ma riiiscitegli per10 più le cose a voler' suo S \gU si eccitò una guèrra coi confinanti ben lunga pel tempo , giacché durò sette anni Qontbui, e ben grande pe'casi inaspéttati e terribili. Ora io dirò brevemente le cagioni per le quali nacque, e qual ne fu T «sito, essendo stau - tehninata pér in« ganni e per stratagemmi non preveduti.. LUI. Una città, Latina di gente e colonia già degli

Albani, lontana cento <sladj da Roma ( Gabio ne era il nome) sorgeva in su la via che mena a Palestrina. Città popolosa allora e grande quan t'a ltre , ora non tutta si abita, mà solo presso la strada per uso degli alloggi. E ben piiò raccoglierne la grandezza e la ma­gnificenza , chi mira le rovine in più luoghi delle case ed il giro delle mura j che in gran parte esistono an-' cora. Eransi qua concentrati alquanti involatisi da Sessa, quando fii presa da Tarquinio, e molti fuggiti da Ro- ma. Or questi supplicavano e pressavano'quei di Gabio a prendere vendetta di lo ro , promettendo gran doni se ai beni proprj tornassero ; e dimostrando possibBe e fa­cile la distruzione del tiranno. Adunque ve gl'indussero fui riflesso che in Roma a ciò coopererebbero, e che'11 Volsci erano ad altrettanto animati; giacché imandate aveano delle ambascerìe, bisognosi a n c h 'e ^ di ajuto

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per imprendere la guerra contro di Tarqainio. SI eero dopo questo irrazioni con eserdti poderosi, e fcorrerie su l ' altrui territorio e bfttuglie, com' è veri- simile , ora di pochi con pochi, ora di tutti contro di tutti : e quando i Gab], respinti fino alle porte i Ro­mani, ed uccidendone diedero iatrepidamente il guasto ai lor campi ; e quando i Romani incalzando i Gabj e rinchiudendoli nella loro città, sen portavano schiavi, e preda copiosa.

L iy . Or ciò &cendosi di continuo, fu l'una e l'altra parte costretta a cinger di m ura, e presidiare i luoghi forti delle, proprie terre in ricovero de' contadini. Di là prorompevano su’predatori, é scendendo folti, stra­ziavano , se ne vedèano , i piccoli còrpi staccati dal resto deir esercito, o li disordinMì-per poca apprension de' nimici, come accade nel pascere. Similmente te­mendo r una parte gli assalti improvvisi dell' altra fu costretta a munire di fosse e di muri le città facili a scalarsi ed a prendersi. Àdoperavasi in dò principal­mente Tarquinio : e rassicurò con molte fortificazioni il tratto intorno la porta la quale menava a Gàbio, sca­vandovi fosse più larghe , elevandone più alte le mura, e coronandole di torri più spesse : imperocché la città sembrava in tal canto men solida, quando era nel resto del suo circuito sicura abbastanza, nè facile da inva­derla. Se non che si fece in ambedue le città penuria di ogni vettovaglia , e costernazione gravissima per l 'av­venire, essendo le campagne diserte per le incursioni incessanti de' nemici, nè più somoiinistrando de’ frutti come accade a' popoli avvolti in guerae diuturne. 11 di<«

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isagio perà stringeva i Romani più che i Gabj ; u n ta che U poveri infra ijuelli, angustiatine più ohe gli al-> t r i , giudicavano essere da venire a trattati, e fkr pace comunque coi Gabj, se la volessero.

LY. Or dolendosi Tarquinio altamente de' saccessi, e non sofTerendo di deporre obbrobriosamente le armi, nè potendo altronde resistere più. innanzi; volgevasi a tutte le prove , a tutti gl' inganni. Quando il figHo più grande (Sesto né era il nome ( i)) scoperse al padre un suo disegno. Egli parea mettersi ad impresa audace quanto pericolosa ; pur non essendo impossibile, con- cedettegli il padre che operasse di voler suo. Sesto dun­que fintosi in discordia col padre per voglia di por fine alla gueira : ne fu battuto colle verghe nel F o ro , e con altri modi oltraggiato ; tanto che se ne sparse in­torno la fama. E su le prime inviò come profughi i suoi più fidi perchè dicessero occultamente ai Gabj che egli deliberava far guerra al padre , e che ne anderebbe tra loro se gli desser parola di proteggerlo come gli altri refugiati Romani, senza renderlo al padre per

[isperanza di finir col suo danno le proprie nimicizie. Udirono con diletto quei di Gabio il discorso , e con­cordandosi di non offenderlo , egli venne, e con lui molti compagni e clienti come fuggitivi; e per meglio

(i) Tito Liyio dà questo nome e questa impresa a) figlio minore : ma il disparere col padre e 1* incarico assunto pare più verisimile in chi ayea piii diritto di succedere ad un regno , divenuto assolu­to , e tale era il figlio maggiore. Pertanto il racconto di Dionigi sembra piti naturale, qualunque fosse il nome del finto ribelle. Vedi S 65 di questo libro.

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accreditare la ribellione sua dal padre portd sèco molto di argento e di oro. Dopo ciò sotto veto di fug^r la tirannide molti a Ini confluirono; tanto che ornai glie n ' era intorno un corpo ben forte. Concepivano quei di Gabio che avrebbono grande incremento dal giu- gnere di tanti ad essi, e lusingavansi che tra non molto avrebbono suddita Roma, illusi ancor più dalle opere di quel ribelle , il quale scorrendo di continuo la C am *

pagna, raccoglievane prede ubertose. Ed il padre ap­punto, risapendo prima in quai luoghi il figlio verreb­be, ubertose glie le apprestava, e senza guardia se non di scelti cittadini che egli v* inviava come a lui sospetti per fìirli distruggere. Su tali significazioni molti creden* dolo amico fido, e buon capiuno, e molti arrenden­dosi all' oro suo ; lo inalzarono al comando supremo delle milizie.

LVL Sesto divenuto per fi:t)di e per illusioni 1' ar­bitro di un tanto potere spedi, senza che i Gàbj se ne avvedessero , un tale de' servi suoi per dichiarare al pa< dre r autorità che avea preso , e per udirne ciocch’era da fare. Tarquinio volendo che il servo non intendesse ciocché ordinava al figlio di fare, venne ( e conducea seco il messo ) al giardino, congiunto al regio palagio. Aveaci là de’ papaveri nati spontaneamente, g ii pieni di frutto , e maturi per la raccolta. Or tra que' papa­veri aggirandosi e dando co'bastoni in su le teste de'più a lti, abbattevali. Congedò ciò fatto il messaggiero niente rispondendogli, quantunque interrogato ne fosse più volte. Egli imitava per quanto a me sembra la prudenza di Trasibulo Milesio. Imperocché chiesto da Periandro,

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allora tiranno di Corinto, per via di un messaggiero, con quali modi possederebbe più saldamente il coman­do, non rispose pur sillaba, ma fatto cenno all' inviato che lo sv ita s se , il condusse in un campo di biade,

,ed ivi percosse le spiche più eminenti, le atterrò ; significando che cosi dovea pur egli troncare, e di­smettere i primi delle città. Or facendo Tarquinio al­lora somigliantemente, Sesto ne intese le m ire, e co­me ordiuavagli di por giù li più insigni di Gabio. E convocò la moltitudine , e le tenne un lungo ragiona­mento su questo, che egli ricorso cogli amici alla lor huona fe d e , rischiava ornai di esser preso da edcuni, e dato al padre: ma che era pronto a deporre il co­mando, anzi che lascerebbe la città prima di cadere in tanto infortunio ; e qui bgrimava e deplorava la sorte sua, come quelli che di cuore si dolgono su'mali estremi.

LVII. Irritatane la moltitudine, e ricercando sollecita quali mai fossero per tradirlo, esso nomina Antistio Petrone, il personaggio più distinto di Gabio. Egli erane il più insigne divenuto pe' molti belli suoi rego­lamenti in pace, e pe' molti capitanati in campo eser­citati. Reclamando intanto quest' uom o, ed offerendosi come libero da' rimorsi ad ogni esame, disse 1' altro che volea che se ne investigasse la casa’, e che vi manderebbe perciò degli amici: egli intanto aspet­tasse nell adunanza finché ritornassero. Imperocché già era Sesto nascilo a corrompere con argento alquanti servi di lui perchè prendessero .e ponessero in sua casa lettere contrassegnate co’ sigilli paterni, e macchinate in

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rovina di Fettone. Or come gl’ inviati alla iodagine (che non aveala Petrone contradetta ma conceduta) vi rinvennero le carte occultatevi, tornarono recando al­l’adunanza molte lettere indicatrici , e quella scritta ad Antistio; e dicendo Sesto che vi riconosceva il sigillo del padre la sciolse; e la diede allo scriba perchè la recitasse. Scriveasi in questa che gU consegnasse il f i - glio, vivo principalmente ; o se ciò non poteasi, almeno glie ne mandasse la testa recisa. Diceva, che darebbe ad esso ed a'complici, oltre le taglie promesse già pri­ma , la cittadinanza di Roma : che gli ascriverebbe tutti fr a patrizj, ed aggiungerebbe case e poderi e doni, grandi e copiosi. Arsero dallo sdegno i Gabinj: sbalordiva Antistio dalla sciagura impensata, mancando­gli fin la voce: ma quelli co’ sassi lo tempestano e lo uccidono ; lasciando a Sesto la cura di far la ricerca e la vendetta su gli altri, compartecipi in ciò di Petrone. E Sesto fidando le porte agii amici suoi perchè gl’ in­colpati non s’ involassero mandò per le case più illu­stri , e vi uccise mcJti de'valentuomini.

LYIIL Intanto che ciò faceasi ed era in Gabio tur* bolenza pe’ sì gran mali ; Tarquinio avvertitone per lettere vi marciò coll' esercito, e giunto prima della mezza nette ed apertegli le porte da uomini posti ad arie per questo, ed entratele ; s’ impadroni senza stento delia città. Come il male fu ravvisato, deploravano tutti sé stessi, e le suragi, e la schiavitù che patirebbono, e temeano insieme gli orrori, quanti ne vengono su po­poli sorpresi da' tiranni. Quando pur li tratusse mitis- simatnente ; immagioavansi la perdita della libertà , e

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de' bèni, e cose altrettali. Pure Tarqninio sebbene scel­lerato , sebbene implacabile in punir gl' inimici non fe’ nulla di ciò che aspettavano e temevano ; nè uccise, nè bandi, nè disonorò, nè multò persona niuna di Ca­blo. Ma convocando la moltitudine, e prendendo regie maniere in luogo delle tiranniche sue, disse che re« stituiva la propria città; che concedeva ad essa i lor beni; e che donava inoltre a tutti cittadinanza quale appunto r avevano i Romani : n o n . già che ciò facesse per benevolenza inverso de' Gabj ; ma per consolidare a sè con essi la signoria su’ Romani; pensando che di­verrebbe presidio stabilissimo per sè e pe' figli la fe­deltà di un popolo che fuori di ogni speranza era sal­vo, e ricuperava tutti i suoi beni. E perchè non più temessero per l'avvenire nè dubitassero se stabili sareb-' bero tali parole ; scrisse le condizioni colle quali sareb­bero amici, e le giurò subito nell' adunanza, e poi toccando gli altari e le vittime. Monumento di quest'al­leanza esiste in Roma nel tempio di Giove Fidio, chia* inato Sango da’Romani , Uno scudo circondato colla pelle del bue sagrifìcato allora appunto per compierne il giuramento, su la quale scritte ne sono con antichi caratteri le condizioni. Ciò fatto , e dichiarato Sesto re di Cabio, ritirò,le milizie; e tal fine ebbe la guerra con queUa città.

14X. Dopo ciò Tarquinio dando requie al popolo d^le cose ^liUtari e dalle bfitlaglie ; si mise alla ere­zione de'ten;ipli, desideroso di compiere i voti dell’avo. E r^ i questi nell' ultima guerra co’ Sabini volato a Gio­ve , a Giunone, a Minerva di fondare ad essi de’ lem-

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pii te vincesse. E g ià , come fa detto nel libro prec«r dente, ayea con grandi ripari e con terrapieni accon­ciata r altura ove destinava di erigerli ; ma non potè poi compierne la impresa. Deliberatosi Tanjninio di ultimarla colle decime delle spoglie raccolte in Sessa posevi a lavorare tutti gli artefici. Or qui narrasi che accadesse un meraviglioso portento sotterra, cioè che scavandosi per le fondamenta, e che gii molto essendo gli scavi profondati, si rinvenisse la testa di un uomo ucciso come di recente, con faccia simile a quella dei vivi, stillandone ancora dalla ferita un sangue tepido e fresco. In vista di tale prodigio Tarquinio comandò gli opera) che sospendessero lo scavo : e convocando gli indovini della patria dimandò che mai dir volesse quel segno. Ma non rispondendone, anzi dando essi la scienza di tali cose ai T irren i, ricercò da loro e seppe qual fosse fra' Tirreni l ' interprete più limoso de' por­tenti; ed a questo inviò messaggieri i più pregievoli dtudini.

LX. Giunti i valentuomini alla casa dell' augure, si fe' loro incontra un giovinetto a cui dissero di essere ambasciatori di Rom a, vogliosi di consultare il vate, e pregavano che a lui li presenusse. Il giovine allora; Colui, disse, che ricercate, è mio padre: egli è di presente occupato : ma presto a lui passerete. Ora intanto che lo aspettate , ditemi perchè mai ne vemte. Cosi voi se mai per imperizia fo ste per isbagUar la dimanda; istruiti dà me non errerete. E le giuste interrogazioni non sono già la minima cosa nelt arte de’ vaticini. Or piacque a coloro di secondarlo, e sve-

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lafodo a lai qael portento. Come il gioTÌne gli ebbe u d iti, soprastando breve tempo y ascoltate , disse o Ro­mani. Jl mio padre ve lo interpreterà tal prodigo , e senza menzogne ; che certo ad un vate non si con­vengono. M a perchè neppur voi erriate, nè ìnentiate su le cose che direte o risponderete; apprendete da me questo , che assai rileva che vel sappiale. Quando esposta gli avrete la meraviglia ; ei soggiungendo di non intendere appieno ciò che vi d ite , descriverà colla verga quanto un picciolo tratto di terra, e poi vi dirà : scco là. sups t4RPEA questa w’è la p a r tsC S B GUARDA i ’ ORISTfTE , QUESTA C B S L OCCASO: QUE­

S T A ■ È LA P A R T S BOBSALS , QUESTA LA OPPOSTA. E d indicandole intanto colla verga, vi chiederà da qual canto f u rinvenuta la testa. Or che vi esorto io che rispondiate ? appunto che non concediate che fosse trovala in alcuna delle parti eli egli addita colla ver- g a , e ve n interroga, ma che in Roma tra voi fu veduta su la rupe Tarpea. Se tali risposte serberete; ie punto col dir suo non ve ne allontanate ; aUora egli ravvisando che il fa to non può cangiarsi, vi sve­lerà, non vi occulterà quel prodigio che volete, che interpetri.

L XL Ammaestrati in tal modo i legati, quando il vate ne ebbe comoditi, venne un tale che a lui li con- dnsse, e parlarono del portento. Ora lui sofisticando, e descrivendo in terra circonferenze e linee rette, e facendo in ogni quadrante interrogazioni sul trovamento, non si turbarono punto di mente i legati, ma tennero

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la risposta, come aveala soggeriu il figlio ddl* indo- TÌoo, nominando sempre Roma e la rupe Tarpea, b pregando l'interprete che non travolgesse il segno, ma ae dicesse a proposito, e schiettissimamente. Cos^ non

petendo il vate nè illudere gli oratori, nè imbrogliareV augurio , soggiunse : A ndate , annunziate o Jtomani à vostri concittadini, portare il destino cJte il luogo dove avete H teschio trovato sia capitale di tutta T I- talia. Dall' ora in poi capitolino fu detto il luogo dd trovamento; capi chiamando i Romani le teste. Tar^ quinio udendo ciò da’ legati rimise gli operaj su’lavori; e molto fece del tempio, ma noi compiè, cadendo in breve dal regno. Roma alfine lo perfezionò nel teno consolato. Fu basato il tempio sa di una altura la quale aveva un circuito dr otto p le ttri, ed ogni lato di esso approssimavasi ai dugento piedi col picciolo divario nem« meno di quindici piedi interi tra la lunghezza e la la­

titudine. Perciocché il tempio riedificato dopo l'incendio a*.tempi de' nostri padri su’ fondamenti medesimi difle- risce dall’ antico per la sola preziosità della materia. Dalla parte della facciata che guarda il mezzogiorno circondalo un ordine triplice di colonne: ma doppio solamente è quell’ ordine nei lati. T re sono in ano i templi, e paralleli, e divisi d»-mura comuni. Sacro è quello di mezzo a Giove, e quindi è l’altro di Giu­none , e quinci di Minerva : ed un solo tet;o, un comignolo solo li ricopre ( i ).

( i) Questo tempio termiDaTB a triacgolo ; la cima del triaogolo iu lutto il tetto ossia il colmo del tetto h ciò che chiamasi comi^ gnotà. Uno de’ nostri tempj a tre navata sotto un tetto cumunà oò &«ilitart l’ iatelligeoia di «luecto luogo.

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LXIL Dipesi che nel regno di Tarqoiuio occorresse ai Romani un' altra propizia e meravigliosa avventura sia p«r dono di un nume sia di un genio, la quale salvò la città non per poco tempo ma finché visse, più volte, da gravi mali. Una donna, nè già nasionale, venne al tiranno, vogliosa di vendergli nove libri di oracoli Si* bilini : ma ricusando Tarquinio comperarli ai prezzo cer­catogli ; colei partita ne spiccò tre libri e li arse. Ri­portando dopo alquanto i libri superstiti gli offerì sul prezzo medesimo. Riputatane stolu , é derisane perchè di minori volumi n esigea la somma appunto che non aveane potuto ricevere quando erano più ; si ritirò nuo­vamente e bruciò metà dello scritto che rimaneva. Tornò quindi co' tre libri ancor salvi, e chiese 1' oro di prima. Attonito Tarquinio su i disegni della donna fece cercar gl’ indovini, e narrò 1' evento, e dimandò ciò ch'era da fare. Or questi conoscendo da alquanti segni che ripu- diavasi un bene mandato dal cielo, e dichiarando che grande era la sciagura che non avesse comperato tutti i volumi ; comandò che si numerasse alla donna il valor dimandato, e che gli astanti prendesser gli oracoli. La donna che avea dato que' libri, inculcò che si cnstodisi-' aero con diligenza, e sparve dagli uomini. Tarquinio creando tra' cittadini i duumvir'i o due riguardevoli per­sonaggi , e subordinando ad essi due ministri pubblici ; diè loro la cura de' libri : ma poi cucitolo in una otre bovina gettò nel w are Marco Àciiio 1' unò de' due ri­guardevoli perchè parea sfregiare la buona fede, ed era accusato di parricidio da uno de'pubblici ministri. Dopo la cacciata dei r e , fallasi la repubblica a sostenere gli

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Oracoli, nominò custodi loro, durante la vita, personaggi chiarissimi, liberi da ogni militare e ^y ile incombenza, consociando ad essi ancor altri pubblici uomini, senza i quali non poteano i primi consultare que’scritti. A dirla in breve, i Romani non guardano niuna 90sa con tanto zelo non i poderi sacri, non i tempj , quanto le rispo­ste divine delle Sibille. Yalgonsi di queste i Romani quando il Senato sta per votare in tempo di civil sedi­zione , o di grave infortunio in guerra, o di' portenti e grandi visioni, malagevoli ad intendersi, come avven* ne più volte. Fino alla guerra chiamau Marsica gli ora­coli posti in un'urna marmorea ne'sotterranei del tem^ pio di Giove Capitolino furono custoditi dai decemviri. Ma bruciandosi, poi questo dopo 1' olimpìade centesima settantesima terza sia per insidie , come pensano atcuni, sia per caso ; arsero colle votive cose del nume ancbei .libri. E gli oracoli che ora si hanno, furono portati in Roma da più luoghi, quali dalle città d'Italia, quali da Eritra dell'Asia, speditivi per decreto del Senato Com- missarj a trascriverli, e quali da alb-e città , trascrìttivL da? privati. Ma sen trovano confusi co' Sibillini anche, a ltri, come convincesi da que' che acrostici si diman-, dano. Io qui dico ciocché Terrenzio Varrone ha scritto nelle sue teologiche trattazioni.

LXIII. Avea Tarquinio operate queste cose in guerra; ed in pace ; avea fondate due colonie, l’u ja cioè. Segni, per caso, perchè svernando ivi i suoi soldati aveansi il. campo come una ciità ridotto; e la seconda Circea.fer, disegno, perchè ponessi nella campagna Pomentina, la. più grande intorno del Lazio, e contigua coi m are, in

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bel sito, alto discretamente, che sporge quasi peDÌsoìa nel mare 'Firreno ; ed abitato già com' è fama da Circe la figlia del Sole: avea dato queste due colonie a due figli suoi che ne erano i fondatori, Circea ad Arante, e Segni a Tito. Ma quando in niun modo temea del suo principato ; allora per la ingiuria fatta ad una donna da Sesto il suo primogenito, fu cacciato dal principato e da Roma. Àveano gl' Iddj dato il segno della calamità futura della sua famiglia con molti augurj de' quali que­sto fu l'ultimo. Venute nella primavera delle aquile in un luogo adjacente alla reggia fecero il nido su di un'alta palma : mentre però teneano i figli ancor senza penne, volandovi in folla degli avoltoi disfecero il nido: ed uc­cisane la prole, e bezzicando e ferendo co'róstri e colle a li, respinsero dalla palma le aquile che toroavan dal pascolo. Vide Tarquinio l'augurio, e vegliava per istór- name se poteva il destino: ma non potè superarne la forza; e perdette il regno, congiurando su lui li pa-i trizj, e cooperandovi il popolo. Io tenterò dichiarar bre­vemente gli autori della congiura ; e come si fecero ad eseguirla.

LXIV. Guerreggiava Tarquinio colla città di Ardea sul pretesto che ricettava i fuggitivi da Roma, e mac­chinava di rimetterli in patria : ma in realtà perchè ne aspirava le ricchezze come di una delle città piii felici d’ Italia. Ribbattendolo però gli Ardeatini generosamente, e prolungandosi 1' assedio loro ; stanchi quei del campo per la diuturnità della guerra e quei di Roma impotenti a più contribuirvi; si disposero a ribellarglisi, appena ve ne fosse un principio. Intanto Sesto il primogenito

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de' figli di Tarqaiaio spedito dal padre nella dtl4 clilamata CoUazia per compiervi talune incombenze militari sr al­loggiò presso il congiunto suo Lucio Tarquinio detto Collatino. Fabio delinea quest’uomo come figlio di Eg&- rio, del quale ho sopra dichiarato ch'era figlio del fira» tellò di Tarquinio l'antico, re de'Bomani. D alai tnesso al governo di Collazia ne fu chiamato Colla tino, la­sciandone la denominazione anche a’ posteri suoi» Io sono persuaso che questi era nipote ad Egerìo se avea la eli conforme ai figli di Tarquinio, come Fabio ha scritto e molti con esso: e la cronologia conferma tal mio concetto. In que' giorni Collatino era nel campo. Adunque la moglie di esso, una Romana, figlia di La* crezio, nomo cospicuo, accolse vivida molto e corteso lui ch'era il congiunto del suo marito. E Sesto che avealo già disegnato, quando altra volta fu 1’ ospite del suo parente , Sesto riputandone ora il tempo opportuno , fe* qesi a violare costei la più leggiadra e la più casta delle Romane. Andato dopo cena in letto vi si contenne gran parte della notte: poi quando concepì già tutti presi dal sonno, levatosi, venne alla camera, ove sapea che Lu< crezia riposava, e colla spada in mano vi penetrò, non sentito nemmeno da quelli che prossimi alla porta dor­mivano della camera.

LXy. Fattosi al letto , e svegliatasi la donna col giu- gnere delle insidie, e chiedendo chi fosse, colui svela il nome ; e comanda che taccia e resti nella camera, minacciando lei della vita, se tentava fuggire, o gri­dare. C osì, sbalorditala, propose alla donna di scegliere qual più le piacesse o lieta vita, o morte infame. Se

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£ induci , disse , a compiacermi , io te farò mia spo~ sa , e tu regnerai meco, ora su la città che mio par- dre mi assegna, e dopo la morte del padre su Ro­mani , su Latini, su Tirreni e su quanti egli domi­na, I o , tu lo sai, primogenito de’ suoi figli, io sarò t erede del regno, come è ben giusto. E guali beni inondano i re , de quali lutti sarai tu meco possedi- trice ; che giova che io qui ti additi, se tu ne sei pe- jiitissima ? Che se tenti, resistermi per salvare la tua pudicizia, ucciderò te prim a,. poi scannando un dei servi porrovene a lato i cadaveri, e dirò che sorpresa àvèndoti in obbrobrio col servo, io vi punii tutti due per vendicare la ingiuria del mio congiunto ; tarUo che

. turpe y ignominiosa sarà la tua fin e , nè la morta tua spogUa sarà di sepolcro onorata nè di altre /unebrì àerimonie. Ora siccome assai minacciava, insisteva, giu­rava ad ogni suo detto ; Lucrezia sbigottita di una morte infame venne nella necessità di cedere agli arbitrj amo«r rosi di luì.

L X V t Fattosi giorno; costui sazio della voglia soel-v lerata e funesta, tornossene ' al campo : Lucrezia però- corucciata per l'evento ascese quanto potè frettolosa in sul carro, e venne a Roma, cinta di lugubri vesti, ed occultandovi sotto il pugnale; non salutando,- salutata,, negl'incontri, nè rispondendo a chi voleva intendere de' suoi mali, tutta cogitabonda, e mesta, e lagrimosa. Giunta a casa dal padre ( e ci ave«no alquanti parenti ) ella prostratasi e strettasi ai ginocchi del padre vi sin­ghiozzò , ma senza parole ; e sollevandola e stimolandola il padre a dire ciocché sofTerto avesse: Padre disse, «eco'

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la supplichevole tua: se tremenda, se insanabile è fonia mia, padre la vendica: non trascurare la, figlia tua, in­corsa in mali più gran della morte. Stupitosi il padre, e con esso pur gli altri, eccilavala a dire cbi offesa 1' a* vesse , e di qual modo. E colei ripigliaTa: Le udirai si le mie ingiurie ; ma brevissimamente o padre: e solo or tu mi concedi questa grazia che prima te ne chie^ do. Convoca gli amici , e i parenti che puo i, perchè da me la odano, da me, non da altri la calamità cheio patii. Quando tavrai conosciuta la terribile, la ver­gognosa necessità ch’io sostenni; tu deciderai con essi ta vendetta che dei per me fa re e per te. Ma deh! non indugiarmi tu lungamente.

LXYIL Corsi all' invito sollecito 'e premarosissimo i più riguardevoU nella casa cora' ella dimandava, narrò lo ro , pigliandolo dalle origini , tutto l ' evento. E qui abbracciandosi al padre , e molto lui supplicando e ostanti e gl'Iddj, e li patrii lari che solleciti la sciogUes- sero dalla vita ; trasse il pugnale che celava sotto le ve« sti e , portandosene una piaga sul petto , fino al cuore se lo internò. Clamoi-e intanto e gemiti e femmineo tu­multo turbando tutta la casa ; il padre avvintosebe al corpo la circondava, la richiamava, la curava quasi po­tesse redimerla dalla ferita : ma colei tra le sue braccia palpitando e spirando finì. Parve il caso agli astanti si terribile e si miserando che ana fu la voce di tutti che era mille volte meglio morire per la liberti che patire ingiurie siffatte dai tiranni. Era tra questi Publio Vale­rio , discendente da uno de’ Sabini venuti con Tazio a Roma, uomo intraprendente e destro. Costai fu da loro

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5(>eclito in campo perchè narrasse al marito di Lucrezia l'evento, e perché ribellassero, uniti, le milizie dal ti­ranno.' Uscito appena dalle porte eccogli per avventura incontro Collatino il quale veniva dall' armata a Roma ignaro de' mali che straziavano la sua casa ; e Lucio Giu- nio soprannominato Bruto cioè stolido se tal nome ne interpetri con greche maniere. E poiché li Romani ad­ditano quest’ultimo come principalissimo nell'abolir la tirannide; porta il pregio che preaccennisi brevemente c h i, di qual sangue egli fosse, e come sortisse un tal nom e, niente a lui consentaneo.

LXVnL Di costui fu padre Marco Giunio , prove­niente da uno di que' che menaròno con Enea la co­lonia , e distintissimo per la sua virtù tra' Romani : fu la madre Tarquinia , figlia di Tarquinio 1' antico. Egli ricevè la educazione, e tutta la coltura nazionale, nè la indole sua contrariavasi a niun de' bei pregi. Dappoiché Tarquinio ebbe ucciso Tullio levò segretamente di mezzo con molti uomini probi anche il padre di lui non già pe' delitti, ma per la ingordigia d’ invaderne le ric­chezze ereditate da pingue, antico patrimonio di fami* glia : levò similmente con esso il figlio primogenito di lui nel quale appariva non so che di generoso , e che sofferto non avrebbe invendicata la morte del padre. Bruto giovinetto ancoi^ , e privo in tutto del soccorso de' parenti si rivolse «1 mezzo savissimo di fingersi, stolido divenuto. Dall' ora in p o i, finché non gli sem­brò di averne il buon tempo, ritenne le apparenze dello stolido ; e ^e n ' ebbe il soprannome , ma si liberò con questo dalle ire del tiranno, mentre tanti egregj uomini De soccombevano.

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LXIX. Tarquinio trascuraadone la clemenza apparente , e non vera, spogliatolo «li tutti i beai patem i, e da­togli un u l pocp pel vitto quotidiano, lo custodì presso di sé, come garzoncello orfano , e bisognoso di chi lo curasse, e concedè cbe co' figli suoi conversasse ; nè già per onorarlo qual congiunto suo , come fingea tra' pa­renti , ma perchè desse da ridere a'propj figli, dicendo costui le mille frivole cose , e facendone le simili agli «tolidi veramente. Anzi quando mandò li due figli Aronte ^ Tito per interrogare 1’ oracolo di Delfo su la peste ( giacché nel regno suo proruppe una peste insollu su le vergini e su i fanciulli che in copia ne perivano , e pili terribile ancora e men curabile su le gravide, che morte cadeano col proprio feto in su le vie ) quando io dico mandò questi per conoscere dal nume le cause del male e lo scampo, allora congiunse ancor lui co' figli che gliel chiedeano perchè avessero intanto chi beffare e deridere. Giunti all’oracolo i giovani ed ascolutolo su la causa ond' erano inviati porsero sacri doni al nu-, m e, e lungamente risero di Bruto che avea consecrato ad Apollo una bacchetta di legno; ma colui trapanatala- tutta come una fistola aveaci offerto, senza che niuno> ne sapesse , una verga di oro. Poi consultando essi il nume chi m ai, portavano i destini, che d iv en ir re di. Roma ; rispose c/te il primo che bacerebbe la madre. E non intendendo i giovani la mente dell’ oracolo concor­darono di baciare insieme la madre onde regnare in co- Qiune. Bruto però penetrato ciocché 1' oracolo volea significare, nou si tosto discese nell’ Italia , prostratoù ^

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ne baciò la terra , giudicando questa la madre di tutti.; £ tali «ODO i fatti precedenti di quest'uomo (1).

LXX. Come Bruto udì da Yalerìo' i successi di Ln« erezia e la storia della morte di lei sollevando le mani, al cielo disse: O Giove, o Dei tutti, quanti vegliate su la vita de* mortali, è dunque giunto finalmente il tempo per aspettare il quale io contrafeci finora me slesso ? Vuole dunque il destino che Roma sia da me liberata e per me dalla iruojfrihil tirannide ? E ciò dicendo yassene sollecito in casa insieme con Collatino e Valerio. Entrata la quale, appena Collatino videvi Lucrezia stesa nel mezzo, col padre allato, scoppiando in cupi ge­miti la stringea , la baciava, la cbiamava , e fra tanta sciagura uscito di mente tenea colla estinta il discorso,, quasi fosse ancor viva. Or essendo lui tutto in pianto, e con esso il padre a vicenda, e tutta rimbombando la casa di lamenti e di gemili; Bruto, rimirandoli disse:O Lucrezio, o Collatino, o voi tutti, parenti di que^ sta donna, ben avrete altra volta il tempo di piangerla^ Ora ( e ciò deesi alla ingiuria presente ) pensiamo come vendicarla. Egli sembrava dir giusto : adunque' se* dendo soli fra sè, sgombrata immantinente ogni turba climestica , esaminarono ciò ch'era da fare. Bruto comin­ciando il primo a dire sopra sestesso che la sua demenza non fu vera, qual parve a molti, ma simulala; e sve­lando le cause pier le quali diedesi a fingerla, e giu­dicatone savissimo infra tutti; alfine, allegatene molle, ed acconcie ragioni, animò . tutti al parer suo di cac-

( i) Plinio sai fine del libro XV. scrive che Bruto baciò la terra di Delfo, « noa della lu l ia .

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dare Tarquìnio e li figli da Roma. E vedatili ornai tutti coasentanei, disse Che non era più tempo di parole e promesse, ma di opere; e che egli imprenderéhhela il primo se cosa alcuna fosse da imprendere. Ciò di­cendo, e strÌDgendo il pugnale eoa cui la donna fini sestessa, e venuto al cadavere di le i , che giaceva an­cora spettacolo compassionevole a tu tti, giurò su Marte, e su gli altri Dei Che farebbe tutto , quanto potea , per abbattere la tirannide di Tarquinia, che non più si riconcilierebbe co’ tiranni, nè permetterebbe che altri si riconciliasse con essi : ma terrebbe per nimico, chiunque non volesse fare altrettanto ; e perseguile^ rebbe fino alla morte la tirannide e li partigiani di essa. Che se mancava a quel giuramento , imprecava per sè e pe’ figli un terminé della vita, qìtale il ter­mine fu della donna.

LXXI. Ciò detto invitò pur gli altri a simile giura> mento : e quelli, niente esitandone, levaronsi, e dandosi a mano a mano il pugnale giurarono, ed investigarono poi qual fosse la maniera di dar principio all' impresa. Bruto così consigliò : Primieramente poniam le guardie alle porte , perchè Tarquinio non penetri niente di ciò che in Roma si dice o si opera contro la tirannide, innanzi che noi siamo ben preparati. Quindi portando il cadavere della donna, lordo com’ è di sangue, nel Foro, ed esponendocelo, chiamiamovi a parlemento il popolo. E quando siavisi congregato, quando ne vedremo già piena t adunanza; allora Lucrezio e Collatino pre^ sentandosi narrino t orribile caso , e deplorino la loro sciagura; poi qualunque altro facciasi innanzi ed oc-

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cusi la tirannide, e provochi li cittadini a liberarsene. Oh! come avran caro di veder noi patrizj insorgerei primi per la libertà. Stanchi del Tiranno, e de' molli e terribili mali che ne han sofferto , non abbisognano che d'un primo impulso appena. Quando vedremo la moltitudine in furia per togliere la monarchia ; fa ­remo che risolva co' voti, che Tarquinio non dee più regnare su Rom a, e solleciti ne spediremo il decreto in campo alC esercito. Iv i quando coloro che han farmi conosceranno che tutta si è la città ribellata da Tar^ quinio, infiarhmeransi per la libertà della patria, in­sensibili a tutti i doni del tiranno , essi che non piii reggono agli affronti de’ f ig l i , e degli adulatori del perfido. Or avendo lui cosi dello soggiunse Valerio: Tu m i sembri o Giunio che abbi giustamente parlato su le altre cose ; ma quanto ai comizj vorrei da te sor pere chi li potrà convocare legittimamente, e chi dare alle curie i voti; essendo questo offizio de'magistrali, e niun di noi trovandosi magistrato, Bipigliando óllora Giunio ; o Valerio, io, gridò, sono tale: imperocché sono il Iribuno de Celeri, e per legge mi è dato ét inti­mare quando voglio le adunanze. Tarquinio dava tal massimo incaiico, a me come stolido, e che appresa non ne avrei la potenza, o che se appresa F avessi, non saprei prevalermene. Ma io mi son quegli che il primo arringherò contro del tiranno.

LXXII. Dello ciò lo applaudivano tulli come lui che prendeva le mosse da principio legittimo e buono ; e lo pressavano a dirne anche il seguito ; ed egli disse : ''E poiché ci piace fa r questo, vediamo ancora qual ma’-

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gistrato 0 da chi mai creato, debba reggerci dopo ìu espulsione dei re : anzi vediamo qual form a daremo allo Stato, liberi dalla tirannide ; imperciocché prima di accingersi ad opera siffatta vai meglio di avere de» liberata ogni cosa, anzi che se ne lasci alcuna non discussa, nè premeditata. Ora dica ciascun di voi su tali cose ciocché ne pensa. Dopo ciò si tennero molti discorsi e da molti. Chi numerando i gran beni fatti da tolti i re precedenti, amava che si riordinasse la regia dominazione: e chi ricordando le tiranniche ingiustizie di alui e di Tarquinio finalmente su’ proprj cittadini, non voleva il Comune sotto di un solo, ma che piuttosto arbitro se ne dichiarasse il Senato come in molte delle greche città : varj però non anteponeano nè 1' uno nè r altro , ma consigliavano che si fondasse un governo popolare , come in Atene , esponendo le ingiurie , le avanie de' pochi, e le sedizióni de' miseri contro de' po­tenti, e dichiarando che in città libera il comando più sicuro e più degno è quello delle leggi, eguali per tutti.

LXXIII, Ma sembrando a tutti malagevole ed arduo il giudizio su la scelta pe' mali che sieguono da ogni governo ; alfine Bruto , ripigliando disse : O Lucrezio,o Collalino , o voi tu tti, quanti qui siete , uomini buoni, e fig li ancora di buoni , io quanto a me non penso che noi dobbiam di presente dar nuova form a allo Stato. Troppo è picciolo il tempo a cui siamo ri­dotti, perchè ci sia facile stabilirvela armoniosa ; lu­brico altronde, e pericoloso, è tentar di cambiarvela^ quantunque benissimo su di essa avessimo risoluto.

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^Quando ci saremó levati dàlia tirannide, alloTa po- trem finalmente cònsultandoci con più agio e pià forza, trascegliere il governo migliore a fronte de'mena buoni seppur avvene uno migliore di queii che Ro- molo_e Numa e gli altri re successivi stabilirono e ci lasciarono, donde la città ne crebbe e ne prosperò, signora fin qui di più popoli. Solamente vi esorto che si emendino , e che procedasi ora che più non v ab­biano i mali terribili solili prorompere dalle monar­chie , pe’ quali si mutano in tirannidi crude , e pe'quaU tutti le abborrono. Ma quali son queste provvidenze ? Primieramente giacché molti attendono ai nom i, e secondo i nomi vanno al male o fuggono { utile ; e siccome è succeduto che ora molto attendasi a quello di monarchia ; vi consiglio che il nome cangiate dei governo, e che da ora in poi quelli che vi comandano non pili re li chiamiate , non piil monarchi, ma con appellazione più discreta ed umana : p o i, che non più rendiate un sol uomo arbitro di ogni cosa, ma fidiate d due la potenza dai re, come odo che i Lacedemoni

fanno da molte generazioni, e che perciò ne hanno più di tutti i Greci leggi buone, e stato felice. Diviso il comando in d u e , e l’ uno potendo appunto quanto F altro ; meno acconci saranno a violarci, e meno ad opprimerci: anzi da tale egualità dee seguirne princi-^ palmente la verecondia, il ritegno vicendevole delVuno per f altro, sicché non si sfrenino , ed una viva gara per la fam a della giustizia.

LXXIV. E poiché molti sono li regii distintivi, io giudico che s’ impiccioliscano o tolgano quelli che ad­

tIBRÓ ÌV. t ) 5

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dolorano a rimirarli 0 sdegnano il popolo , io dico gli scettri, dico le corone di oro 0 e le clamidi d i oro intessute e di porpora, se non forse si assumono ne' giorni festivi e ne trionfali per magnificare gli Idd j ; mentre usate d i raro non offendono. In, oppo- sito penso che si conservi a questi uomini la sedia curule ove siedono rendendo ragione, e la veste can­dida cinta intorno di porpora, e li dodici fa sci che il venir loro precedano. Oltracciò perchè quelli che prendono il comando non molto ne abusino, io penso utilissima e principalissima cosa, che non lascinsi comandare tutta la vita. Imperciocché riesce a tutU grave un comando indefinito , un comando che non più. dia di sè ragione; e d i qua vien la tirannide. M a si limiti come tra gli A teniesi V autorità del co­mando ad un anno. Quel comandare a vicenda e quell' essere comandato , quel deporre il potere prima che il pensar vi si guasti, preoccupa le indoli vane, nè lascia che vi s’ inebbrino. Se così stabiliamo , go­deremo i beni che sono il frutto di una re^a domi- nazione, e schiveremo i mali che ne conseguitano. E perchè il nome regio , consueto già tra nostri a v i, ed introdotto in questa città con gli augurj propizj degl’ Iddj che lo favorivano, si custodisca, almeno per tale riguardo ; si faccia continuamente, a vita , ed onorisi un re del Culto, un che libero dalle cure militari in questo solo si occupi e non in altro, cioè che abbia, quasi re ne fo s se , V arbitrio sovrano de’ sacrifizj.

LXXV. Ora udite come fia ciascuna di queste cose.

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Jitt, poiché dàlie: léggi mi si concede > io raccoglierò, come diceva, r adunanza del popolo^ e riesporrò là mia mente di bandire Tarquinia colla moglie e coi figli da Roma e suo territorio , escludendcneli per sempre essi e la lor discendenza. Quando avran ciò stabilito co’vo ti, io dichiarando allora il governo che pensiamo fondare , eleggerò V interré il qual nomini quelli che prendano le redini dell^ repubblica. Quindiio deporrò là prefettura dei Celeri^ e V interré da me creato, proporrà gl’ idonei all’ annua preminènza, rimettendoli al voto de’ cittadini: e se il più delle centurie ne tien buona la proposta, sé propizj gli oracoli la favoriscono^ assumano i faèci e le insegnò del potere sovrano y e. provvedano che libera abitiamo la patria, nè pià li Tarquinj vi ritornino. Imperoc~ chè questi, abbiatelo per certo, se non invigiliamo su loro , tehterannó colla persuasiva , colla forza , coir inganno per ogni via finalmente , rimettersi nelt impero. Queste sono le somme , le principalis^ sime cose che io dir posso e raccomandar di pre­sente. Quelli poi che avranno ■ il comando devono , come io giudico , esaminare una per una , le cose particolai'i, giacche troppe, né fac ili a discutersi pie namentef e noi siamo stretti dal tempo: anzi deono, come usavano i re ponderarle col corpo del Senato , non concludendone alcuna senza noi ; e quando siano approvate dal Senato , rapportarle, come faceasi trai nostri m a n ieri, al popolo non levandogli niun diritto d i quanti s’ avea nei principio. Cosi le sue magistrature saranno sicurissime e bellissime.

D IO NIG J, tomo I I . j

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LXXVL Profereado Gianio Bruto tal suo parére tuttilo commendavano; e datisi ben tosto a consultare, de­cisero che si nominasse interrò Spurio Lucrezio il padre di colei che uccise sestessa: e che da lui si scegliessero per avere il potere dei re Lucio Giunio Bruto, e Lu­cio Tarquinlo Collatlno. Stabiliscono che tali sopra­stanti nell' idioma loro si chiamassero Consoli, vuol dire consiglieri o capi del consiglio , interpetrando in greco tal nome, giacché i Romani ciocché noi simbou- las diremmo chiaman consiglio. Col volgere però del tempo i consoli furono per l ' ampiezza del potere chiaf- mati Ypati dalla- Grecia, comandando .essi a tutti e te­nendo il più sublime de'gradi; e chiamandosi da'nostri antichi Ypaton quanto sopralzasi, e maggioreggia. Dopo tali consulte e tali istituzioni supplicarono co' voti gli Iddj che fossero propizj ad essi intenti ad opera si giu­sta e si santa, e ne andarono al Foro co' servi che li seguitavano, portando su letto , coperto di funebri gra­maglie, la estinta, incuba e sanguinosa. E comandando ehe dinanzi la curia la collocassero elevata e visibile , convocarono il popolo. E conciossiachè li banditori pei quadrivi ve la invitavano ; accorsevi la moltitudine dalla città norameno che quanta ne era pel Foro. Allora Bruto asceso ove sogliono quei che aringano le adunanze, e circondato da' patrizj disse :

LXXyiI. Dovendo io ragionarvi o cittadini d i o t' lime e necessarie cose voglio prima dirvene alcuna su me. A taluni, anzi a molti di voi, ben lo ve- d o , parrà forse da scapestrato , che io non atto,io non sano di m ente, io che ho bisogno di ehi mi

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governi, io mi accinga a parlarvi di gravissime cose. M a tappiate che il concetto comune, quel che tutti at>evate su me , come di uno stolido è fa lso , e cau­sato ad arte da me , non da edtri. E quello che mi ridusse a vivere non come la natura, ed il decoro mio dimandavano, ma come per Tarquinio , come per V utile mio convenivami, f u la paura della morte. Imperocché Tarquinio, quando prese il regno, uc­ciso mio padre per invaderne il patrimonio, che ben era copioso, ed ucciso furtivamente mio fratello il maggiore perchè se non sei toglieva , fa tte avrebbe del tradito padre le vendette ; è chiaro che non avrebbe risparmiato neppur m fi, ridotto già solo , e privo de congiunti se non mi fossi in stolido travi­sato, T al mia finzione f u creduta dal tiranno , e mi esimè dalle sciagure de m iei, mi scampò fino al pre­sente. Ma ora ( n è pur venuto finalmente il dì eh' io chiedea, che aspettava) ora questa mia stolidità, che per cinque lustri io mi custodii, questa, o ^ , qui tra voi per la prima volta depongo., E ciò basti su me.

LXXVIII. Eccovi poi le pubbliche cose per le^^uali vi convocai, Tarquinio , colui che ottenne il comando non secondo i patrj costumi, non secondo le leggi, colui che ottenutolo non lo es&’citò convenientemente, e da r e , ma superando tutti i principi andati, per ingiurie e per soverchierie, sì questo Tarquinio, noi patrizj qua congregati, abbiam risoluto degradarlo. Ciò che aveasi a fa re in antico , ora deliberati a

farlo come in buon punto, vi abbiamo o popolo ,

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convocalo , perchè , manifesttmdòvi il proposito no^ stro, v’ invitassimo a combattere cori noi per la' li^ herlà della patria, che più. non ahhiamoi da che re~ gna Tarquinio, e che mai piit non, avremo se ora inviliamo. Se io avessi qui tempo , quanta vorrei, se parlassi appo quei che noi sanno , numererei tutte lé soverchierie del tiranno per le quali non una ma più, volte era giustissimo di sterminarlo. Ma perciocché brève è il tempo che mi concedon gli affari , ed in questo s i dee dir poco e fa r molta ; e perocché parlo ai conoscitori ; ricorderò tra voi poche delle opere sue ma enormissime e patentissirne j nè capaci affcuio di difesa.

LXXIX. È questo o Romani quel Tarquinio , che innanzi di arrogarsi il regno spense col veleno Arunte il suo fra te llo , perchè ricusava esser empio , e lo spense, ponendo a parte della scelleraggine la moglie appunto di Arunte e sorella insieme delia sua mo^ g lie , eh’ egli avea già prima violata in ira dp'Numi. E questi che in un tempo medesimo uccise co’fa r^ m^aci stessi la sua consorte , pudica donna, e madre concesso di fig li comuni; questi, che poi non volle d i ambedue li venefizj operati, quasi reo noti ne fo s s e , allontanare da sè le incolpazioni almen col^ r aspetto dismesso e con piccola finzion di dolore ma che appena commessa Hopera portentosa, quando non erano ancora venuti meno i fuochi qke brucia-^ vano i corpi infelici, convitò, gli amici, rinnovò le. nozze , e condusse la sposa micidiale al talamo della sorella, avendone con lei già tiretto l’ occulto tra t\

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iaUH 'Cod quest’ uomo il prim o, il solò dava in RomaV esempio di empietà , d i ésecraziom, non àvvenutà mai tra’ Greci, nè tra’ barbari. Ma quali, o popolo ,■ quali non fece attentati quanto ■ notorf, e quanto terribili contro di ambedue li ■ suoceri suoi già pros^ simi ài fine della, vita ? Trucidato in pubblico Savio Tullio il piìi mansueto dei re , colui che tanto vi aveva beneficato, non permise che ne fosse il cada- , ^ere onorato, non col trasporto , non colla sepoltura a norma delle leggi : e Tarquinia la donna di quo-' sto eh’ egli dovea venerare qual madre , come sorella del padre, Tarxfuinia già tanto solleciti^ in suo bency egli la strangolava, s ì , questa misera , innanzi chà prendesse il lutto , e che rendesse, in. su la tomba al marito gli ultimi onori. Cosi ctìntraccambiava quelli da’ 'quali f u salvo , da quali fù nudrito , ed- a’ quali avrebbe pur succeduto sòl che avesse w i poco aspeti tato finché venisse loro nx^tufalmeata . la morte.

LXXX. Ma perché pià su questo riprendala, quan\ do , obre i delitti .contro de’ corisanguinei e jde suo- cèri, ho pur da accasartìe le .tonte prevaricazioni contro la patria, e contro nói tutti y se prevarica^ zumi son• queste, e. non sot^ersioni e rovine di ogni vostume e di ogni legge. E per comimiare subito dal regno , come lo prese egli quésto ? farse come i re. precedenti ? ma qiiando mai? molto n’ è egli lóatanb. Imperocché quei tutti furono da voi pòrtati, a l trono secondo i patrj costumi e le leggi, prima col decreto, del Senato che è il capo di ogni pubblica. deliberar zione > poi degl’ interré scelti ed incaricati dal Senato

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per nominare il pià idoneo al comandò , c co' voti dati nè comizj dal popolo , da cu i, la l e ^ mole che si ratifichi ogni cosa pià rilevante , e finalmente cogli augurj , colle vittime , e con altri segni propixj senza i quali niente giovano i maneggi e le provi- denxe degli uomini. Or d ite , qual di voi mai vide una parte almeno fa tta d i ciò quando Tarquinia prese il comando ? qual vide decreto preliminare del Senato ? quale scelta degl* interré ? quali suffragi del popolo ? per non dire dov è tutto questo ? quantun­que se egli voleva il regno lecitamente, non dovea parte niuna pretermettasi d i quanto chiedesi dalle leggi. Certo se alcuno può dimostrarmene fa tta par una di queste cose, pià non va che si brontoli su le edtre che si tralasciai'ono. Come dwtque egli si spinse al trono ? colle arme , come i tiranni, colla violenza, colla cfmgiura degli scellerati, noi riprovan­dolo , e dolendocene. E fa ttosi re , comunque ciò

fo sse , la sosteneva egli V autorità sua regalmente? Emulava i suoi predecessori i quali co* deui e co fa tti costanti così ressero, che lasciarono a posteri la città pià felice e pià grande che presa non V avessero ? Chi, se pure è sano d i m ente, chi potrà mai dir ciò, vedendo quanto miseramente e scelleratamente siamo stati da lui malmenati ?LXXXL Tacio le sciagure di noi senatori, le quali,

pur un nemico , udendole , ne piangerebbe , e come siam pochi rimasi di m olti, come rendati abbietti di grandi, e come venuti a disagio e stento, cadendo dai tanti e sì ampj beni. Que’ graii , que’ potenti,

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que cospicui uomini, pe' quali questa nostra città era un tempo magnifica, quelli perirono , o fuggono la patria^ E le vostre cose, o popolo , come stan esse ? Non ha tolto a voi le leggi ? non i concorsi soliti per le feste e pe’ sacrifizj ? Non ha fa tto oes- sare i com izj, i su ffragj, e le adunanze tutte su le pubbliche cose? Ridotti siete, quali schiavi comperati, ai vilipendi di tagliare , di portare pietre ed arbori f di logorarvi tra gli antri e i baratri senza requie m ai, neppur tenuissima dai mali. Or quando avran fine mai tali strazj ? fino a quando li starem soppor- tondo ? Quando la patria libertà vendicherem o?... A l morir del tiranno ? Appunto ! Dite ci sarà allora ’pià facile ? E perchè non piuttosto assai meno ? se per un Tarquinio ne avrem tre molto più scellerati? Se chi d i privato è divenuto monarca > se chi tardi ha cominciata a nuocere, ha percorsa tutta la mal­vagità de’ tiranni, quali, pensate, esser debbono i discendenti da lu i, scellerati di stirpe , scellerati di educazione, che mai non poterono vedere nè appren­dere in città misure politiche di moderazione ? E per- chè non per congetture, ma intimamente conosciate la perversità loro , e quai cani latratori alleva contro voi la tirannide di Tarquinio ; specchiatevi in un a- iione sola del primogenito.

LXXXII. È questa la figlia d i Spurio Lucrezio, lasciato prefetto in Roma dal Tiranno n elt andare alla guerra, e moglie insieme di Tarquinio Colla­tino , del consanguineo de’ tiranni che pur tanto ha da loro sopportato. Or questa per serbarsi pudica ,

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e. tutta agli amor\ del suo marito come fannó l»~ virtuose, avendo Sesto qual parente pt'eso ospizio appo lei f mentre Collatino era lungi n elt arntata non potè schivare nella passata notte le onte sfre-, nate delta tirannide; ma violentata come una schiava sostenne ciocché libera donna non dee. Pertanto esà- cerbatahe, e presa la ingiuria per insoffribile, dopa che ebbe narrato al padre a a congiunti le vicende ree che la desolarono , dopo che ebbe pregato e scon^, giurato che la vendicassero per tanti m ali; aljintt traendo il pugnale che celava nel seno , profondos-, selo, e vedendola il padre , o Romani, nelle viscere.O tu certo mirabile, o tu di encomj dégnissima.per. la nobile risoluzione ! i involasti, moristi non rag-". gendo agli obbrobrj del tiranno ,■ e ricusasti le dol­cezze tutte del vivere perché simile calamità non ti. avvenisse. Avrai tu dunque o Lucrezia nella tua fem ^ minil condizione avuto il cuore de valentuomini, e. noi , uomini . nati , noi saremo in virtù men che

fem m ine? Tu perchè predata a forza del fiore ùn~y macolato della tua pudicizia, avrai tu reputato la morte pià dolce e pià beata della vita; e noi non avrem pur nell’ animo , che Tarquinio non da una notte, ma già da venticinque anni ci opprima , e ci ha colla libertà levato gli agi tutti del vivere ? No ; pià noli dobbiamo , o Rom ani, noi vivere avvolgèn^ doci in tanti pericoli, noi che discendenti siamo di quc bravi, che vollero fondare i diritti fin per gli a ltr i, e lanciaronsi a tanti pericoli per la Sovranità e la gloria : ma l’ una delle due si dee scegliere

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libera vita , o morte onorata. È pur venuto il tempo- eke bramavamo ; perchè lungi è il tiremno dalla città, e perchè duci sono della impresa i patrizj, e perchè- ke con animo pronto ci facciamo ad imprendere , non abbisogniamo di coia niuna non di uom ini, non di danari, non di arme, non di capitani, non di altro, apparecchio militare ; essendone Jloma pienissima. Siaci pure una volta vergogna che noi che cerchiamo signoreggiare i Violsci, i Sabini, ed altri moltissimij noi stiamo ad altri servendo, e che mentre tanto, guerre imprendiamo per ingrandire Tarquinio « niuna per la nostra libertà ne facciamo.• LXXXIIL Ma di quali incoraggimenti ci varrem per la impresa, di quai leghe ? È questo che rima-L risemi a dire. Primieramente c ineoraggiremo su la, speranza negl’ Iddj de’ quali Tarquinio viola le sante dose y i tem pli, gli altari, Ubando e sacrificando con màni lorde di sangue, e di ogni scellera^ine contrae de cittadini; appresso c' incornerem o su la speranza, che abhiam su noi stessi che nè pochi siamo, nè inesperti di guerra ; e finalmente sul rinfòrzo di quet gli alleati i quali non ardiranno fa r novità se noi rwjf, ve gj^ invitiamo ma se vedono che noi il valor nos,t,ro raccendiamo , lietissimi ci si uniran per com- batterè ; nemico essendo della tirannide chiunque vuole esser libero. Che se alcuno di voi teme quei cittadini che in campo si porran con Tarquinio per militare con esso contro noi non bene teme costui. Anche ad essi è grave la tirannide , ed ingènito in {utti è V amore della libertà : ed ogni occasione di

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mutamento basta a chi è misero necessariamente. Che se voi li chiamerete col voto vostro a soccorrer la pa­tria , non timore li riterrà co’ tiranni, non grazia s non cQsa ninna la quale sforzi o persuada, a mal fare. E se in alcuni si è per la ria natìtra, e la trista educazione abbarbicato f amor dei tiranni ; durremo ancor e ss i, che molti non sono , con insu­perabile necessità sicché utili ci divengano i malevoli; perciocché Teniamo in città quali ostaggi i loro fig li, le mogli, i parenti, pegni carissimi che ognuno pre­gia pili che la vita. Or se noi prometteremo di ren­dere questi, se decreteremo per essi la impunità quando distacchinsi dal tirannno ; di leggeri li per­suaderemo. Cosicché fa tevi cuore o Romani, concepite belle speranze per V avvenire, uscite per una guerra, certo la pili gloriosa di quante mai ne imprendeste. S ì , patrf D e i, propìzj curatori di questa terra, sì G enj, tutelari già de’ nostri padri, s ì, città caris­sima infra tutte ai Celesti nella quale nascemmo e cresciamo , sì noi vi difenderemo co’ pensieri, colle parole, colle opere, colla vita; pronti a tutto sof­fr ir e , quanto la fortuna porti ed il fa i». Presagi­scami che alla impresa buona seguirà fin» bonissimo. Possano quanti confidano, quanti decidonsi come noi, voi salvare ed essere da voi salvati parimente !

LXXXIV. Menlre Bruto aringava , faceansi ad. ogni suo detto acclamazioDÌ dal popolo in signi6cazione, che esso appunto così voleva, e comandava. Ed i pià sen­tendo quel parlare maraviglioso ed inaspettato lagrima* vano per tenerezza. Inondavano passioni varie nè punto

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aiàwti ogni' petto ; e dove il rancore, dove la gloja trìou* &vaoo, là pe' mali già sostenuti , qua pie'beni che si aspetlavano. Dove era audacia, dove timidità, quell» che incitava a non curar sicurez2a contro i subjetti, odiati petThè intenti a far male ; e 1' altra che oppo* neasi agl' impeti della [urima, perché vedea oou iàcilè la rovina della tirannide. Ma non sì tosto colui cessò dàl p a r l ^ ; tutti, quasi cou una bocca, ad una voce esclaanarono, che guidassegli alle acme. E Bruto >dilei<

latone, s ì , disse , ma quando prima avrete udito , e oorifermaXo co’ vod vostri i decreti del Senato. E noi dècretiamo c a s i TAJsqumJ s t u t t a la cowsAwerri’- WlTÀ-’ aOBO gPGOANO ROlttA S QaANTO È £>e'SOMAJfl » CHE mUlfO POSSA DIRE O BBIGARS SUI RITORNO DEITtRANrii i X SS coBTTRArriniiE ; SI UCCIDA. Or se volete che un ta l parere si adotti ; compartitevi in curie, e datene i voti. Questo incominci per voi li déritti della vostra libertà. Disse ; e cosi fu fatto : e pqiehè tutte le Curie ebbero decretato 1' esilio del ti* rànno ; Bruto fattosi innanzi , ripigliò : Giacché avete voi ratificato quanto d ee ti, le prime cose ; ascoltateil resto che abbiam deliberalo su lo Sta^. Esami- nando noi qual ma^strato esser dee t arbitro del comando, ci è piaciuto, non già d i rinnovare il co­mando d i un so lo , ma di creare ogni anno due capi con regio pàtere , che voi stessi eleggerete ne comizj, votandovi per centurie. Or se volete anche ciò ; da­tene il voto. Il popolo lodò questo ugualmente; nè vi fu pur un voto contrario. Quindi ripresentatosi Bruto , nominò Spurio Lucrezio per interré, perché secondo le

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patrie leggi prendesse cara de'comÌEj. Costai sciogliéndcr l ' adunatna, ordinò che tatti subito si recassero in anifte* al campo, dove soleaao tenere i comSxj. Recativisi ; scelse due Bruto e Collatino che facessero <juanto fii» eevano i re. Ed il popolo chiamato per centurie con^ fermà la magistratura a qae 'dae. Tali sono le cose al« lora fatte in città.

LXXXV. Tarqainio come udi da messaggeri sottràt* tisi per avventura da Roma prima che le porte se ne> chiudessero , che Brutó (perchè narravano questo 8ok>y fattosi capo-popolo, aringava i cittadini » e suscitava)! <i> rendersi liberi , parti senza dirne le cause, preodead». seco i figli, ed altri più fid i, e correndo a briglie sciolte onde prevenire la ribellione. Ma trovando chiuse > le porte, e piene le mura di arme, tornossene, quanto potè,'veloce nel campo affligendosi e lagrimando: se non che già le su& cose erano qui pure in iscompiglio. Imperocché li consoli antivedendo la sollecita venuta, ifi, lui verso Roma aveano per altra via spedito all’anaa^ , invitandola a togliersi dal tiranno, ed annunsiandole i decreti di quei della città.. Or Tito Erminio e Marco Orazio lasciati dal tiranno nel campo prendendo quelite lettere le recitarono nell' adunanza : e dii^aiidamlò via via per centurie ciò che era da fare , e piacioto a tutti che si ratificassero le deliberazioni della città ; più non riceverono Tarquiuio che tornavasi a loro. E caduto pur da questa speranza fu^sseue con pochi alla città di Gabio, della quale, come ho detto di sopra , avea creato monarca, Sesto il suo primogenito. Esso già ca-» mito per ann i avea tenuto per cinque lustri il coibando.

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Emninio ed O rasio, concliiusa una tregua di quindici anni cogli Ardeatini, ricondussero in patria le milizie. Per tali cause e da tali uomini fu tolu in Roma la regia dominazione, conseryatavisi. per dugento quaranta* quattr' anni dalla sua fondazione , e divenuta in fine tirannide sotto 1' ultimo re.

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I IO

D E L L E

A N T I CHITÀ ROMANE

D I

DIONIGI ALICARNASSEO

LIBRO QUINTO.

I. C>(o«SERVATASl in Roma la regia dominazione per dngento quarantaquattr' anni e cangiatavisi poscia in ti­rannide sotto l’ultimo re fa per le cagioni anzidettc abolita da uli uomini (i) sul principio della olimpiade sessagesima ottava, nella quale Iscomaco da Crotone vinse allo stadio , mentre Isagora esercitava in Atene r annuo magistrato. Ed istituitasi la signoria de' pochi, mancando quattro mesi al compiersi di quell' anno , as­sunsero i primi il comando supremo, Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarqulnio Collatino col nome di consoli,

(i) Anni 345 secondo Catone e a47 .’ecjndo Varrone dalla fonda- tlooe di Roma , e 5o7 avanti Ctido.

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DELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE LIBRO V. I I I

co^ cfaiamaDdosi da' Romani, come già dissi, nel patrio idioma i capi del Senato. Poi congiungendo questi a sè gli altri cbe numerosi tornavano dal campo in città dopo concliiusa la tregua con gli Àrdeatini ; è pochi giorni appresso la espulsione del Tiranno convocando il popolo a parlamento, e ragionando copiosamente su la concor* dia ; fecero di bel nuovo decretare co' voti, come ■ già quelli che erano in Roma lo avevano decretato , bando perpetuo ai Tarqiiinj. Dopo ciò purificando la città , fintone sacrifizio ; essi i prim i, stando intorno le viiti- m e , giurarono, e condussero pur gli alu*! a giurare , che mai più dal bando richiamerebbero il re Tarqùinio, nè la prole di lui, nè i figli de' figli : anzi che non più farebbono re niuno in Roma, nè tollererebbe no chi far cel volesse. Cosi giurarono su'Tarquinj , su’ figli, e su la prosapia loro. E , conciossiachè pareano i r e , stali autori di molti e gran beni inverso del pubblico, deli­beratisi a conservare il nome almeno di tal signoria, finché Roma durava, comandarono ai pontefici ed agli auguri di eleggere il più idoneo tra'seniori, perchè tolto da tutte le cure^ s? non dalle religiose , presedesse in m i culto, e Jie si chiamasse non delle politiche, non delle miUtari, ma delle sante cose. Per tanto fu delle sante cose nominalo re per il primo Manio Papirio , uomo patrizio e dedito alla dolce calma (i).

II. Stabilito ciò , temendo, io credo, che non si ge­nerasse negli altri sul nuovo governo la idea non vera, che in luogo di uno dominavano due re la città mentre

( i ) Secondo Fello il primo re sacrificulus , fa Sicinnio Belluto , ed in ciò discorda da Dionigi e da Li-vio.

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r nno e l'altro de’consoli area ctmie un tempo i rie le dodici scuri ; deliberarono preoccupar tal conoetio, e sce­mare la iavidia del comando, e fecero che l’unó de’cbn- soli portasse dodici scurì, e l'altro dodici littori colle verghe coronate solamente (i) come narrano alcuni: tal­ché le scuri le assumesse e recasse ora l’uno ora l’altro vi* cendevolmente per un mese intiero. Animarono con que­sto r umile plebe a conservar quel governo ; e con simili cose non poche. Imperocché rinnovvono tutte le leggi scrìtte da Tallio su’ contratti ; le quali si tenean per umane e popolari, e Tarquinio aveale tutte soppresse: e comandarono che si facessero come a’ tempi di Tullio, ì sagriGzj che in città si faceauo o nella campagna , rìu- nendovisi que' di Roma e de' villaggi. Concederono cheil popolo si radunasse per le cose pili rilevanti, e desseil voto ) e rìpigliasse a voler suo gli usi primitivi. Pia^ ceano tali cose alla moltitudine ravvivatasi dal servir lungo a libertà non aspettata. Nondimeno ci ebbero aU quanti i quali desiderosi de’ mali della tirannide per de­menza 0 per avarizia congiurarono di tradire la patria e richiamarvi i Tarquinj, trucidandone i consoli : ed io dirò quali ne fossero i capi, e come improwedutamente scoperti, mentre credeansi occulti a tutti, ma riassumerò le cose alquanto più addietro.

III. Caduto Tarquinio dal trono, si tenne per un tempo, non lungo, in Gabio, raccogliendo quanti a

( i) Il lesto non è ben fisso: e forse dee leggersi rerghe curve o grosse nella testa. Il codice Vaticano avendo la voce x t f v t n t e non

xafà)tas favorisce la idea di verghe grosse io testa. Silburgio pro­

pende per le verghe ricurve in cima.

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lui ne venivano amici della tirannide pìA che della li* beltà , e confbrtandoTisi in su le speranze de* Latini quasi potessero jquesti ricondurio alla reggia. Ma poscia) ^ e le dtlA non lo ascoltavano nè voleaoo per lui fare una guerra ai Romani ; disperandone alfine il soccorso» fuggissene a Tarquioj città Tirrena , donde era la ma­terna orìgine sua. E cattivandosi que' cittadini co* doni e prodotto da essi in piena adunanza, rinnovò 1 'aurica congiunzione con loro, e commemorò li benefisj del- r avolo suo con tutte le città Tirrene, e gli accordi- che avean fatto con lui. Poi si lamentò con tutti deUa> sciagura che avealo preso , e come travolto in un sot giorno da lietissima condizione, ora profugo con tre figli e bisognoso fin del necessario, era costretto ricor-* rere a popoli, un tempo, sudditi suoi. Scorrendo sb> tali cose pateticamente e con molte lagrime , indusse il popolo a spedire il primo a Roma uomini che portas-. sero parole di pace per lu i, quasi i potenti ivi fossero; per favorirlo, ed ajutailo al ritorno. Nominati quelli> ch'egli volle per ambasciadori, ed isu-uitili delle cose- che erano, da dire e da fare gli spedi con alquanto di>. oro e con lettere de' fiiorusciti con esso dirette con preghiere agli amici e domestici loro.

IV. Venuti questi a Roma dissero in Senato : che ehiedea Tarquinio la franchigia di venire con pochi prima in Senato, e po i, quando ciò fossegli conce­duto dal Senato, nell adunanza del popolo per darx'i conto delle opere sue fin dai principj del regno, fattine giudici lutti i Rom ani, se alcuno mai lo ac~

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cusasse. Che se appien si giustifica, se persuade che egli non ha colpe degne deW esilio ; allora se gliel concedano, regnerà notamente con que’ limiti che gli prescriveranno : se poi decreteranno di non voler più come per P addietro la sovranità dei re , ma di fo n ­darne uri altra qualunque, egli uniformandovisi al pari degli altri resterassene colla sua famiglia in Ro^ ma, sua patria, libero almeno della vita degli erranti, e de' profughi. E ciò detto snpplicavaDO il Senato pei comuni diritti che vogliono che niun si coridanni senza discolpe e g iudizj, a concedere una difesa della quale essi giudicherebbero. Che se ciò non volevano a luì concedere , fossero compiacevoli almeno in vista della città la quale s'intrametteva. Compiacendola, tutto­ché senta discapito loro, assai onorerebbero la città che ciò conseguiva. Uomini essendo, non si elevassero sopra la sorte degli uomini : nè serbassero immortali gli sdegni in cuori mortali : ma in grazia degl inter­cessori si sforzassero anche contro lor voglia di usare mansuetudine ; considerando cK egli è da savio con­donare le inimicizie per le amicizie ;. ma da stolto e da barbaro volgere in nemici gli amici.

V. Avcano ciò detto , quando Bruto sorgendo re­plicò : Sul ritorno de' Tarquinj in Roma cessale o Tirreni di più ragionarne. Imperciocché già si è qui votato irreparabilmente per l'esilio loro: ed abbiamo tutti giurato agl Iddj di non restituire i tiranni, e di non tollerare che altri ce li restituisse. Ma se chie­deste con altra moderazione a cui nè le leggi nè li giuramenti si oppongono ; manifesUAevi. Or qui fai-

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tÌM innanzi gli ambasciadprì sogginnsero : Temùnaie d soTW) contro la espettazione le prime dinumdei am~ hasciadori per uno che si raccomanda, per uno che vuole dare a voi conto di sè stesso, abbiamo chiesto qual grazia ciocch’ era diritto per tutti : nè potemmo ottenerlo. Ora poiché ve n ' è parato così ; non piti vi presseremo sul tornar de' Tarquinj, N oi facciamo istanza per un altro diritto di cui la patria c' incari­cava e su cui non legge, non giuramento impedi- scevi, cioè che rendiate al monarca i beni che tavolo suo possedeva senza toglierli a voi nè di forza nè in ttccuUo , ma portali qui avendoli, come ereditati dal padre, A lui basterà , se lo ricupera, il suo, per vi­vere idtrove felicem ente, senza vostra molestia. Riti-» raronsi ciò detto gli ambasciadori. Brato 1' uno de'con- aoli suggeriva che si ritenesser que' beni in compenso delle ingiustizie sì graffi e si numerose dei tiranni cantra del pubblico, e per util di Stato : percitè non si dessero ad essi de' mezzi co' quali fa r guerra f preammonendo, che nè si affezionerebbero ad essii Tarquinj col riavere i lor beni nè sosterrebbero una vita privata, ma porterebbero su' Romani le arme di altri popoli , e tenterebbero di tornare colla forza al comando. Collatino però consigliava il contrario , di­cendo che non gli averi, ma le persone dei tiremni noceano la città. Pertanto scongiuratali a guardarsi prima daW incorrere nella rea fam a cU avere espulsoi Tarquinj per invaderne i ben i, e poi dal porgere ad essi cosi spogliandoli, giusta occasione di guerra : dicea che non era chiaro , che ricuperando i beni- si

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accingerebbero ancora ad una guerra con essi , lad­dove era ben manifesto , che non ricuperandoli, non si cheterebbero.

VI. Cosi dicendo i consoli ; e molti sentendola col- r uno e coir altro ; il Senato dubitò come avesse a ri­solvere. E ripigliandone per più giorni l'esam e, e pa­rendogli che Bruto consigliasse il più utile, ma Colla­tino il più giusto ; in ultimo deliberò che giudice ne fosse il popolo. Or qui dette essendo più cose dall'uno e dall' altro de’ consoli, e venendo al6ne le curie, che eran trenta di numero, ai voti, preponderarono le ane alle altre con si picciol divario che quelle le quali in­timavano che si rendessero i beni superarono di un sòl voto le altre le quali voleano che si ritenessero. I Tirreni avuta la risposta dai consoli : e molto lodando la città che anteponesse all' utile il giusto ; spedirono a Tarquinio perchè mandasse chi ricevesse i beni di lui frattanto essi restavansi a Roma sul titolo del trasporto de' mobili, o di dar sesto a ciò che non poteasi menar, via, nè carreggiare : ma in realtà spiando e brigandovi, come il tiranno aveali incaricati. Perocché ricapitarono le lettere de'profughi agli attinenti loro; pigliandone le altre di replica. E conversando, e studiando 1» alfe-, zioni di m olti, se ne trovavano alcuni facili ad essere- guadagnati per la poca fermezza, per la inopia, o pel desiderio di^enipiersi nella tirannide, davaosi a subor-, narli coll’ oro e con ampliarne le belle speranze. Vi sarebbero secondo le apparenze in città si grande e si popolata, alquanti non degl’ infimi solo ma de’ riguar-, devoli i quali anteporrebbono il governo men buono al.

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migliore ; or furono tra questi i due Giunj Tito e Ti­berio, figli di Bruto il console, puberi appena, e eoa essi' i due Gellj (i) Marco e Manio fratelli della moglie di Bruto, idonei a' pubblici ailari ; Lucio e Marco Aquilio, figli ambedue della sorella di Collatino altro consolo, e conformi di anni ai figli di B ruto, presso a’ quali, non più vivendo il lor padre, per lo più si adunavano e concertavano sul ritorno de' tiranni.

VII. T ra le molte cose , per le quali a me sembra che Roma giugnesse per la provvidenza de'numi a stato sì prospero, non sono le infime quelle che avvennero allora. Imperocché si mise in que’sciaurati Unta de­menza , e Unta cecità , che osarono fino scrivere al tiranno di propria mano lettere che indicavano il aur mero copioso de’ congiurati ed *il tempo nel quale as­salirebbero r uno e r altro console, lusingati dalle epi* stole del perfido ad essi per le quali volea sapere i compensi che avrebbe a dare, tornando in trono , ai Romani. Ebbero i consoli queste lettere per tale in- contro. Eransi i primarj de' complici riuniti in casa degli Aquilj nati dalla sorella di Collatino, invitativi come a sante cose e sagrifizj. Dopo il convito ordi­nando che quei che lo aveano ministrato uscissero e si tenessero, nell’ anticamera ; confabulavano infra loro su la rintegrazione del tiranno, e segnavano ciascuno , i mezzi che glien parevano di mano propria in lettere che gli Aquilj doveano far giungere ai messaggeri Tir­reni, e questi a Tarquinio. Intanto uno schiavo (V ia-

( i) Sigonio ne’ scoglj Liviani pone V itellj io luogo iV 'G ellj ie- guèudo le aulòrilà di Lìtìo e di Ptuiarco.

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éicio ne era il nome ) della città di Cenina, il quale lervito gli avea di bevanda, sospettando dalla remozione de' servi che coloro macchinassero qualche scelleraggine, si stette solo fuori della porta, ed applicatOTÌsi in una fessura ben Incida, ne udì li discorsi, e ne vide le lettere che vi si scrìvevan da ognnno. Quindi a Dotte

avanzata uscendo come in servigio padroni, non ardi di andare ai consoli sul timore che volessero per r amor de' congiunti che il fatto si occultasse, e levas­sero di mezzo chi porgea la dinunzia: ma recatosi a Pubblio Valerio l'uno de'quattro , primarj nel tor la tirannide , congiunsero a vicenda la destra , e ginrataglt ^ a lui sicurezza, gli svelò quanto u d ì, e quanto vide. Colui, saputo il fatto , si presentò senza indugio su l'alba in casa degli Aquilj con valida schiera di clienti e di amici e penetrandone senza contesa le porte co­me per tutt'altro ailare, s'impadroni delle lettere men­tre pur v' eran que' giovani, i quali menò seco ipnanzi de' consoli.

y ill . Ora essendo io per dire le sublimi, e meravi- ^iose gesta di Bruto di che tanto i Romani si magni­ficano , temo che sembrino austere troppo nè credibili ai Greci, giaccliè tutti sogliono per natura giudicare le cose che di altri si dicono dalle proprie, e secondo queste aversele per credibili o non credibili. Nondimenoio le dirò. Non si tosto fu giorno, sedutosi Bruto ia tribunale, ed esaminando le lettere de' congiurati, ap« {iena scopri quelle de' figli distinguendole dai sigilli, e dopo rotti i sigilli, dai caratteri; ordinò primieramente che lo scriba leggessene 1’ una e l’ altra, sicché tulli le

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udissero, e quindi cbe i figli dicessero sa ciò se vo- leano. Niuno de' due ardiva rivolgersi impudentemente a negarle per sue, ma quasi avessero già condannato sè stessi, piangevano. Egli soprastando breve tempo sorse ; ed intimato silenzio, ed aspettando tutti qual ne sarebbe la fine, disse, che condannavali a morte. Or qui alzarono tutti la voce, alienissimi, che avesse un lai uomo a punire sè stesso colla morte loro, e voleano condonare al padre la vita de' figli. Ma egli non com­portando nè le voci nè i pianti comandò a'satelliti che di là rimovessero i giovani che lagrimavano e supplica­vano e co' nomi pià teneri lo chiamavano. Riusciva spettacolo meraviglioso a tutti cbe un tal uomo niente piegato si fosse nè per le preghiere de*cittadini, nè per la commiserazione inverso de'figli: assai però parve più portentosa 1' austerità di lui circa il supplizio. Imperoo chè nè permise che si uccidesMro i figli allontanati dal cospetto del popolo, nè egli, almeno per fuggirne la terribile vista, si ritirò dal Foro finché non furono pu­niti : nè condiscese pu re , che subissero, non disonorati co* flagelli almeno, la morte destinata. Ma custodendo tutte le consuetudini, e tutte le leggi quante ve n 'h a su'malfattori, egli stesso nel Foro tra la pubblica vista presente a tutto , fattili prima straziar colle verghe ; concedette alfine che con le scuri si decapitassero. Sor­prendente soprattutto , inconcepibile era in quest' uomo la immobilità degli sguardi senza indizio nemmeno di compassione. Tanto che piangendo tu tti, egli solo fu visto non piangere sul destino de'figli: nè sospirò per sè stesso , nè per la solitudine la quale facevasi nella

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sua casa, nè diè segno in tutto di debolezza: ma senza lagrime, senza lamenti, e come inalterabile, porto ma­gnanimamente la sua sciagura. Tanto era forte di ani­mo , tanto costante in compiere le risoluzioni, e tanto superiore agli affetti cbe turbano la ragione !

IX. Uccisi i 6gli fé' chiamare immantinente gli Aqui* Ij, figli della sorella dell' altro console , presso a' quali teneansi i congressi de' congiurati. E comandando allo scriba che ne leggesse l ' epistole sicché tutti le udis­sero ; intimò ad essi che sen difendessero. Ma i giovani venuti dinanzi al tribunale, sia che ammoniti ne fossero dagli amici, sia che di per sè lo risolvessero, si gitta- rono a piedi dello zio per essere da lui salvati. Ma co­mandando Bruto ai littori che li svellessero , e li traes­sero se non Toleano giustificarsi alla m orte; Collatino sopraggiunse a questi, che sospendessero alquanto fin­ché abboccavasi col collega, e pigliatolo da solo a solo orò lungamente pe' garzoncelli ; parie escnsandoli che fossero caduti in tale stoltezza per inesperienza e per compagnie triste di amici, e parte eccitandolo a con­donare la vita di parenti, dimandandolo in grazia lui che non d'altro mai più Io vesserebbe, e parie facendo riflettere che turiierebbesi il popolo tutto se davansi ad uccidere chiunque sembrato fosse tenersela co' fuoru­sciti perchè ritornassero ; imperocché dicea eh' eran m olli, e parecchi non ignobili di lignaggio. Ma non venendogli di persuaderlo ; ne chiese almeno pena più mite che non la morte, dicendo : mal convenirsi che i complici si avesser la m orte, mentre il tiranno non so- stenea che l’ esilio. E perciocché Bruto ripugnava da

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pene più miti, nè voleva (ciocché chiedeva da ultimoil suo collega) nemmeno differire il giudizio de' colpe­voli , e minacciava, e giurava di darli tutti appunto in quel giorno alla morte ; Collatino sdegnatosi in fine che niente ottenea ; soggiunse : io , pari tuo , io scamperò que’giovini se tu se’ tanto intrattabile e duro : E Bruto indispettitone , no , disse. Collatino ; nop. potrà finché10 vivo fa r salvi i traditori della patria : anzi tu pure darai tra non molto le pene che meriti.

X. Ciò detto, e messa una guardia su' giovani chiami11 popolo a parlamento : e riempiutosi il Foro , perchèil supplizio de' figli suoi, già si era in città divulgato , egli facendosi in mezzo , cinto da’ più cospicui de’ se­natori disse : Io vorrei o C inesini, che Collalino , questo mio compagno, fosse concorde con me su tutto, ed odiasse e combattesse' i tiranni non pur colla voce, ma colle opere. Ora poiché lo trovo manifestamente contrario e congiunto in tutto d Tarquinj di sangue, di voglie, e di brighe onde riconciliarceli, anzi col- f utile suo che del comune ; io sono risoluto di op- pormegli perchè non compia le ree sue macchinazioni, e perciò vi ho qua convocati. Io dirò primieramente in quanto pericolo sia la città ; poi come F uno e t altro di noi siasi diportato. Riunitisi alquanti in casa degli Aquilii nati dalla sorella di Collatino , e tra questi ambedue li miei figli e li fratelli della mia moglie , ed altri non ignobili ; stabilirono, e congiu­rarono la mia morte , e di restituirvi in Tarquinio il monarca. E già erano per mandare d fuorusciti let­tere contrassegnate da' loro caratteri e sigilli. Ma si

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f e ciò , la Dio mercede , a noi manifesto , indican­docelo questo uomo, che è un servo degli A quilj, di quelli presso i quali si adunarono e scrissero nella notte precedente le lettere ; e noi, le abbiamo noi, queste lettere. Io già ne punii Tilo e Tiberio miei figli ; è mente , non leggi, non giuramenti , furono da me violali per la clemenza di un padre. Ma Col­latino mi ritogliea dalla mani gli Aquilj con dire che non soffrirebbe che partecipassero la sorte de’ miei J ìg li, se partecipato ne aveano i disegni. Ma se co­storo non soggiaciono a pena, nemmen dunque vi dovran soggiacere non i fratelli della mia moglie, non quanti sono , i traditori della patria. E qual di­ritto più grande avrò io cantra questi, se risparmiansi quelli ? D ite, qual contrassegno è mai questo, di amici della patria , o del tiranno , di conferma del giuramento che avete voi tutti prestato noi preceden­dovi , o di sconvolgimento e di perfidia ? Se egli ri- manevasi occulto , pur sarebbe in preda alle furie e sotto la vendetta degli Dei che spergiurava. Ora poi­ché vi si è palesato a voi si spetta , a voi di punirlo. Vi persuadea costui pochi giorni addietro che rende­ste i suoi beni al tiranno, non perchè la città se gli avesse per usarne in guerra contro i nemici, ma per­chè li nemici gli avessero per usarne contro la città. Ed ora si arroga di esentare dalle pene i congiurati a restituirvi i tiranni, in favore come è chiaro di questi, perchè se mai tornano , sia di fo rza , sia per tradimento egli in vista di tanti servigj ne ottenga, come amico , quanto dimanda. Ed io che non ho per--

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donato a fig li m iei, io dovrò, o Collcttino, te rispar^ nuore , che sei con noi di presenza , ma coll’ animo tra’ nemici ? E tu che salvi i traditori della patria , tu me che per essa travagliami, ucciderai ? Or potrà farsi ? Eh ! che lontani siamo di molto. E perchè non possi nulla di simile, ti levo dal consolalo e coniandoti che in altra città ti conduchi. E voi o cit­tadini voi chiamerò ben tosto per centurie, e presi i voti, deoiderete se dobbiam cosi fare. Intanto , ( e yivissimamente avvertitelo ) voi V una delle due nù dovete , escludere Collatino, o Bruto.

XI. Or lui cosi dicendo ; Collatino esclamando ed angustiandosi, cbiamavalo di co^a in cosa calunniatore e traditore degli amici: e purgandosi dalle incolpazioni contro di lu i , pregava intanto pe' 6gli della sorella: ma perciocché non permettea che si dispensassero i voti contro di lui ; inferocivane il popolo , levandosi a ro> more in ogni suo dire. Ora essendo cosi inferocito né soffrendo discolpe, nè volendo preghiere , ma solo che si dispensassero ì voli ; ed interponendosene il suocero Spurio Lucrezio, uom pregiatissimo , per timore che Collatino noa perdesse ignominiosamente ad un tempo il magistrato e la patria , chiese da ambi i consoli fà< coltà di parlare. Ed ottenutala, esso il primo, come dicono gli storici Romani, giacché non v' era ancor r uso che un privato aringasse il comune ; diedesi puh* blicamenie a pregare 1' uno e 1' altro de' consoli, Col­latino perché non si ostinasse e non ritenesse il comando a mal cuore de' cittadini , che spontanei gliel diedero ; ma se pareva a que' che gliel diedero di ripeterlo, vo-

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lontanamente lo restituisse , e levasse co' fatti , non coi detti le accuse contro di lui : prendesse le sue robbe e si recasse ad abitare altrove, dovunque voleva, finché10 Stato non era in salvo cosi portando 1' utile pub­blico : riflettesse come in altre ingiustizie gli uomini se ne sdegnano, quando sono commesse : ma che sospet­tandosi di tradimenti stimano anzi saviezza temerne ip- vano e guardarsene , che trascurarli e lasciarsene rovi­nare. Persuadeva poi B ruto, che non cacciasse dalla città con vergogna e con vitupero quel magisUato comr pagno col quale avea preso le risoluzioni più belle per la patria : ma che desse a lu i, s' avea cuore di lasciare11 suo grado e di trasmigrarsi , tutto 1’ agio a raccor le sue robbe , e gli aggiungesse a nome del popolo na dono come pegno di consolazione nelle sue calamità.

XII. Cosi consigliando quel valentuomo , intanto che il popolo ne lodava i discorsi, Collatino depose la sua dignità, contristato che per la pietà de’ parenti era astretto a lasciare e senza demeriti la patria. All' oppo- sito eacomiavalo Bruto perchè risolveva il migliore per la sua Roma e per sè , e pregavalo a non disamorarsi nè verso di lu i, nè della patria : trasportando al- trave la sede, considerasse ancor sua, la patria che lasciava, nè si meschiasse a’ nemici contro lei non colle parole , non colle opere. Considerasse in somma qubsto transito suo qual pellegrinaggio , non qual bando , o fuga : tenesse il corpo presso quei che lo ricevevano, ma /’ affato suo, lo tenesse questo , presso quei che lo mandavano. Or così avendo am­monito quest' uomo persuase il popolo a regalarlo di

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venti talenti, con aggiuogerne egli cinque del sno. Ca­duto Tarquinio Collatino in tale disgrazia si ritirò a Lavinia , antica madre de’ Latini dove carico di anni morì, ftruto non sopportando di essere solo al coniando, per non dare sospetto , che levato avesse il compagno dalla patria per farvisi r e , chiamò bentosto il popolo al campo dove usava eleggere i sovrani e gli altri magi­strati , e creò per collega nel consolato Pubblio Valei r io , uno dei discendenti, come sopra fu detto, dai Sabini, uom degno di ammirazione e di lode per lé molte sue doti, e principalmente per la sobria sua vita. Egli trovando in sé stesso una luce naturale di filosofia , la fece brillare in più affari, come poco ap­presso diremo.

XIII. Unanimi questi in tutto, immantinente diedero a m orte, quanti erano, i congiurati al ritorno de' fuoru­sciti , e dichiararono libero e cittadino il servo che aveali denunziati, colmandolo di oro. Poi fecero tre bellissimi ed utilissimi regolamenti, che la città con­temperarono a pénsare tutta di un modo, sminuendo il £ivor pe’ nemici. Il primo spediente fu di scegliere i migliori della plebe e di crearli patrizj , onde compier con essi un Senato di trecento. Appresso esposero al pubblico le suppellettili del tiranno , concedendo che ognuno se ne avesse , quanto toglievane ; e comparti­rono i terreni di esso a chi non aveace , riservandone anicamente il campo tra '1 fiume e tra la città , dedi­cato già dal voto degli antenati a M arte, come prato benissimo pe’ cavalli e per gli esercizj de' giovani in arme. Tarquinio però , sebbene prima di lui fosse già

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sacro a quel nume, aveaselo appropkto, e seminavaci: di che è sommo argomento la risoluzione allora presa da’ consoli sul ricolto che sen'ebbe. Imperocché sebbene avessero conceduto al popolo di prendere e portarsi quanto era del tiranno , non però consentirono che al­cuno si arrogasse il j;rano germogliatovi, sia che fosse «elle spighe, sia che nell' aja , sia che già lavorato ; ma decretarono che si gettasse nel fiume come esecran* d o , nè degno che se lo avessero in casa. E di tal gitto Bopravvanza ancora, monumento famoso , la isoletta sa> ora ad Esculapio , bagnata intorno dal fiume, prodotto, dicono , dagli ammassi delle paglie corrotte, e dal fango che vi si appiccò nel correr delle acque. Rispetto a quelli che eransi fuggiti a Tarquinio accordarono ad essi genende perdono , e ritorno sicurissimo in patria fra venti giorni, intimando a chi venuto non fosse in quel tertniiie, 1' esilio perpeti^ e la confisca de' beni. Or tali provvedimenti impegnarono ad ogni cimento quei che godeano le robe , quante mai fossero del ti­ranno, sul timore che non venisse lor menò l'utile che ne aveano; come impegnarono a favorire non più la tirannide ma la patria , que' tutti che per le gesta loro sotto dei despoti, eransi esiliati da sé.stessi, per timore di non pagarne le pene.

XIV. Ciò fatto, si diedero co* pensieri alla guerra te­nendo intanto 1’ esercito in campo presso di Roma sotto le insegne e li capitani per addestrarvelo ; perché aveano udito che i fuorusciti apparecchiavano contra loro un armata dalle città dell’ Etruria , e che quelle de’ Tar- quitij e de' Vej^enli, potentissime ambedue, cooperavano

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manifestamente al rUorno di essi, mentre gli amici loro adunavano dalie altre dg' stipendiati e de' \olontarj. Ma non sì tosto seppero che l’ inimico moveasi, delibera­rono di farsegli incontra ; e passando prima di esso il fiume, s* inoltrarono e si accamparono vicino ai Tirreni nel prato Ginnio , presso la selva sacra ai genj di Ora­to (i). Trovaronsi ambedue le milizie quasi pari di nu­mero con ardore egu>!e per combattere. E su le prime, turse , appena si videro , picciola mischia tra' cavalieri, innanzi che le fanterie prendessero campo > Cosi gli uni sperimenUrono gli altri, e non vincitori e non vinti si ritirarono ciascuno al corpo de'suoi. Quindi messa la fanterìa nel centro, e la cavalleria nelle ale si mossero da ambe le parti coll' ordine stesso fanti e cavalli gli uni contro degli altri. Conducea l'ala destra Valerio il console , contrapponendosi a’ Yejenti : Bruto reggea la sinistra avendo a fronte la milizia de' Tarquiniesi co-

smandata da’figli del tiranno.XV. Erano già già per venire alle mani quando

avanzandosi dalle fila de’ Tarquiniesi 1’ uno de’ figli del tiranno , ( Arunte ne era il nome) il più vago di aspet­to j e più magnanimo de’ fratelli, e spinto il cavallo verso i Romani in parte, dove tutti ne intendesser la voce, coperse d' ingiuria il duce Romano , chiamandolo fe­rino , selvaggio , lordo del sangue de' figli , imbelle e vile , e lo sfidò per tutti a combattere solo. E colui non

( i ) Cosi nel Codice ValicaDo. Alcuni peiò leggono j^rsio in luogo di Orato , perchè tccocdo Tilo Li-vio e Valerio Massimo J ru a si cfaiamaya la selva.

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più basundo alle inginrie, spronò dal suo posto il ca­vallo senz’ attendere gli amici che nel distoglieTano, correndo fortissimamente all^ morte che eragli apparec* chiata dai fati. Rapiti ambedue da pari ardore, intenti a ciò che era da fare non a ciò che ne palirebbono, avventano impetuosamente i cavalli uno a fronte dell’al* t ro , e vibransi colle aste colpi vicendevoli, non repa- rabili cogli scudi nè con gli usberghi, immergendone la punta chi nelle coste , e chi nelle viscere. Urtatisi per la foga del corso i cavalli nel petto , elevaronsi sii pie' di dietro, e girandosi colla' cervice rovesciarono i cavalieri. Cosi caduti giaceansi versando sangue in copia dalle ferite , e lottando colla morte. Come le milizie videro caduti i duci loro , spiccaronsi tra clamori e stre­pito , e sorsene battaglia , quanl' altre mai ferocissima , di fanti e di cavalieri ; con sorte non dissimile. Impe­rocché li Romani dell’ ala destra comandati da Valerio console vinsero li Vejenti, ed incalzandoli fino agli alloggiamenti , copersero il campo di stragi. Per l’op- posito i Tirreni dell' ala destra guidata da Tito e da Sesto figli del tiranno misero in volta i Romani dell'ala sinistra, e corsi presso alle loro trinciere usarono pei^ fino tentare se pelea no in quell' impeto primo espu­gnarle. Ma contrastati e feriti assai da quei che v'erano dentro, si ripiegarono. Aveanci di guardia i Triarj , cosi detti, veterani peritissimi di guerra pel lungo eser» cizio, e soliti riservarsi pe' cimenti più gravi , quando ogn’ altra speranza vien meno.

XVI. E fattosi già il sole presso l’occaso, tornarono gl! uni e gli altri a' proprj alloggiamenti non sì lieti

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per la vittoria, che doleati per la qiohituditie de' per­dati corup«igni. E se doveasi £ir nuova baUaglia noa credeaao bseurvi quanti erano intatti fra loro ; essendo i più feriti ; se nt^n che più grande era l'abbattimento, e la diffidenza ne' Romani per la morte del comandante; in guisa che' venne a molti in pensiero che fosse il loro migliore di abbandonare prima del di le trinciere. Ma intanto che cosi pensavano e dicevano usci circa la prima vigilia dal bosco presso al quale accampavano una voce , sia diel genio tutelare del bosco medesimo^ sia di Fauno che chiamano, la quals rimbombò sa l'uno e i'altro esercito, sensibilissima a tutti. A Faimà ascriveano i Rpmani i panici timori , e tutte le visioni che varie ne’ luoghi varj presentansi spaventosamente ai mortali : e di quésto Dio dicono che sian opera le chia­mate fatte dal cielo , le quali tanto perturbano chi le ascolta. Animava questa voce i Romani a bene operare quasi avessero vinto, significando come era morto ano di più tra’ nemici : e dicono che Jevatosi a tal vqc» Valerio ne aadàsse nel cuor della notte agli alloggia­menti de'T irrepi, e che uccidendoveli per la più parte,o fùgandoneli s’ in^adronisse del campo.

XVII. Tal fu l’ esito di questa battaglia. Nel giorno appresso i Romani spogliarono i cadaveri de’ nemici ; e appelliti quelli de’ suoi, partirono. I migliori de’ cava­lieri j presolo con molta onorificenza e con lagrime, riportavaiio a Roma il corpo di Brato in mezzo ai firegi della propria virtù. Mossero all’ incontro di essi il Se­nato che avea decretato che si portasse il duce con pompa trionfale, ed il popolo che ricevè l’esercito con

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crateri colmi di vino e con mense. Giunti nella d iti i il console ne trionfò come i re soleano, quando solen- niziavanor i sagrifizj e le pompe pe' trofei; ed ofEerse a' numi le spoglie, e fe' di quel giorno una festa y convitando i più riguardevoU de'cittadini. Pigliata nel giorno appresso lugubre veste, ed esposto il cadavere di Bruto su magnifico letto in splendido oraameoto nel Foro , vi convocò la moltitudine, e salilo in palco, ve ne recitò 1’ elogio funebre. Io non so ben discemere se Valerio il primo introdusse in Roma quel costume , o se dai re lo desunse : ben so che tra' Romani anlichis- iima è la istituzione degli elogi nella morte de' valentuo^ mini ; e so da' pubblici documenti di poeti antichi, e di storici famosissimi che non i Greci i primi la fon­darono. Imperocché le vecchie storie danno a conoscere che ci aveano in morte di uomini insigni, combatti- menti equestri e ginnici, come Achille ne fe' su Pa­troclo, e come Ercole, prima ancora , su Pelope : ma xhe gli encomj se ne recitassero, ninno lo scrive se non i tragici di Atene , i quali adulando la propria .città, favoleggiarono che avesse ciò luogo nei sepohi da Teseo. Laddove tardi istituirono gli Ateniesi per legge

-le funebri laudaziom' ; sia che le incominciassero su quelli che morirono pbr la patria ad Artemisio , a Sa- lamina, a Platea, sia che su quelli i quali caddero a Maratona. E la impresa di Maratona , se in quella si

: cominciarono gli elogj pe' defontt , è più larda delU morte di Bruto per sedici anni. Che se alcuno, lasciando •d’ investigare quali stabilbsero prima i lugubri enoooij, voglia esaminare presso chi sia Ja legge meglio ordì-

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nata ; la troverà tanto più savia tra questi ch« tra quelli, quanto che gli Ateniesi introdussero i pubblici elogi mortuali, pe'defunti in battaglia , quasi estimassero la bontà del solo termine glorioso della vita, sebbene al­tronde indegnissima : laddove i Komaai destinarono tal^ onore non ai soli plinti nel combattere , ma a tutti gli uom ini, insigni per sublimi consigli , o per belle operazioni, sia che in c ittà , sia che in guen*a avessero comandato, ovunque morissero j giudicando che debbansi i valentuomini celebrare non per la sola morie luminosa ma per tutte le virtù della vite.

XVIII. Così morì Giunio Bruto, colui che schiantò la tirannia, che prime fu console dichiarato, ohe tardi rendutosi illustre fiori s i , picciol tempo, ma fortissimo parrei fra tutti. Non lasciò prole non di maschi non di femmine^ come scrivono gli storici i quali esaminaronò le cose de’ Romani, ancor le più chiare : di che ne allegano molti argomenti ; e questo infra gli altri non facile a vincersi, che egli era dèli’ ordine de' patrisj ; laddove quei che si dicono originati da Ini li Giunj e li Bruti eran tutti plebei, perocché conseguivano le ca> riche degli edili e de’ tribuni, che son quelle ohe per legge a’ pldiet si permettono, e non il consolato , cui uiun conseguiva fuorché li f*atrizj. E quando questa di- -gnità si concedette ancora a’ plebei coloro non la Otten­

nero se non tardi» Ma lasciamo che discutano ciò quelli <3t’ quali si appartiene conoscerlo più chiaramente.

XIX. Dopo la morte di Bruto , Valerio il collega suo , divenne sospetto al popolo quasi cercasse lo scet­tro ; primieramente perchè tenea «olo il comando , do­

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vendo far «obito eleggerti ua compagno, come quando. Bruto ripudiò Collatino ; e poi perchè aveasi fabbricato la casa in sito invidiato, preso nella parte alta e dirotta del colle, il quale chiamasi Velio e domina il Foro. Convinto però da' suoi cOme ciò dispaceva al popolo, prefisse il giorno pe' comizj e fe' darsi un compagno in Spurio Lucrezio. E morendo costui dopo pochi giorni della sua magistratura, sostituì Marc' Orazio ; e trasferì r abitazione sua dalle cime alle radici del colle, perchè i Romani, come ei disse concionando, potessero tem­pestarlo co’ sassi daW alto se trovavano cV ei facesse ingiustizia. E volendo rendere il popolo più certo della sua liberlà, levò le scuri dai fasci, dando ai consoli sue* cessivi il costume , durevole . pur ne' miei giorni , di usare le scuri quando escono di città, ma di non por» tare nèll'intèrno di essa che i fasci soli. Fondò leggi piene di amicizia e di sollievo inverso del popolo; p-oi» bendo con una manifestamente che niun de' Romani andasse alle magistrature se dal popolo non le prendeva; con pena di morte a chi contravvenisse, e licenza a tutti di ucciderlo. Con altra legge si decreUva : Se un magistraUì Romano voglia uccidere, o battere, o muU- tare alcuno in danari ; possa V uomo privato appel^ lame al popolo senza che intanto niente ne soffra dal magistrato finché il popolo ne sentenzii. Or sic­come onoravasi con tali regolamenti il popolo ; cosi ne diedero al console il nome di poplicola, che in greco appunto significa curatore del popolo. E tali sono le cose fatte in quell'«ano dai consoli.

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XX. Nell* anno segneate (i) fu di nuovo creato con­sole Valerio , e con esso Lucrezio : ma non si fece nulla di memorabile se non il censo de 'beni, e la tas-* sazion dei tributi per la guerra secondo le istituzioni di Tullio re : cose tutte sospese nel regno di Tarquinio , e rinovate da essi la prima volta. Trovaronsi in Roma idonei alle arme cento trenta mila : e fu spedito un esercito per guardia a Sincerio (a), luogo di frontiera contro i Latini e gli Ernie! da’ quali si aspettava la guerra.

XXL Creati consóli (3) Valerio detto Poplicola per la terza volta e Marc’ Orazio con esso per la seconda » L aro , re di Chiusi nell’ E truria, quegli che Porsena si cognominava , promise ai Tarquinj ricorsi a lu i , 1' una di'queste due cose, o di riconciliarli co'Romani pel ritorno , e la ricuperazion del comando; o che ripiglie*- rebbe e renderebbe ad essi I beni de' quali erano stali spogliati. Imperocché spediti 1’ anno precèdente amba^ sciadori a Roma , i quali portavano preghière miste a minacce , non aveaci ottenuto nè la riconciliazione , nè il ritorno de'Tarquinj; pretestando il Senato le impre^ cazioni e li giuramenti fatti contro di questi, nè aveane riavuto i ben i, negando restituirli coloro che se gli aveano divisi, e godevanli. E non contentato in niuna delle domande , e chiamandosene vilipeso e conculcato,

' (i) secoodo Catone e a43 secondo Varróne dalla, fondazione di Roma , e 5o6 aranii Cristo.

(3) Nel Codice Vaticano «i legge Tisionirio.(3) B ^49 fondazione di Rom l^

• 6«5 avanti Cristo •

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arrogante altronde, e briaco per 1’ ampiezza delle sue ricchezze e dominio, credette avere cagioni assai per abbattere la signoria de' Romani, come già per addie-* Cro desiderava , ed intimò loro la guerra. A lui si con* giunse Ottavio Mamilio il genero di Tarqainio sul di­segno di mostrare tutto 1' ardore suo per la guerra. Egli si mosse dalla città del Tuscolo e menò seco i Carne» r in i, e gli Antemnati, lignaggio latino, alienati già pa­lesemente da’ Rom ani, e molti volontari suoi fautori, delle altre genti Latine le quali ricusavatìsi ad una guerra manifesta contro di una città confederata, e tanto po> derosa.

XXIL Saputo ciò li consoli romani ordinarono a'col* tivatori di portare masserizie, bestiami, e schiavi ai monti vicini, fabbricandovi ne'luoghi forti de'castelli > opportuni a difendere chi vi si riparava. Qvindi pre­munirono con più polenti maniere e con guarnigioniil Gianicolo, alto colle, cosi chiamato, nelle vicinanze Roma di là dal Tevere, e provvidero con ogni diUgeaaa perchè non divenisse un baluardo pe' nemici contro l« città, e vi depositarono gli apparecchi per la guerr*. Quanto alle cose interne della città le ^ p o se ro , ancor più propiziamente verso del popolo , diffondendo assax beneficenze su’ poveri , perchè (jnesti non si ripiegasi sero in verso de’ tiranni, nè tcadissero per l’ litile proprio , il comune ; imperocché decretarono che fos­sero immuni da’ tributi pubblici, quanti al tempo dei re ne pagavano , nè soggiacessero a spese di milizia e guerra, giudicandoli assai contribuirvi se la persona esponevano per la patria. Collocarono nel campo, dinanzi

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Roma la milizia preparata ed esercitata già da gran tétnpo. Giunto il re Porsena^ coll’ esercito espugnò di assalto il Gianicolo , spaventandovi i Romani che Io presidiavano, e sostituendovi guarnigione tirrena. Quindi marciò verso la città quasi avesse a prenderla senza fa-« tica. Ma fettosi ornai prossimo al ponte, e visti accam­pati i Romani nella riva a lui più vicina del fiume si apparecchiò per combattere , in guisa da sopraffarli coi numero j e spinse assai spregiantemente innanéi la mi­lizia. Reggeano l’ ala sinistra Tito e Sesto fi|[li di Tar« quinio, tenendo sotto gli ordini loro i fuorusciti da Roma , il 6ore della gente di G abio, e stranieri, e mcrcenarj non pochi. Mamilio il genero di Tarquinio comandava la destra ov'erano i Latini ribeKatisi da’Ro­mani: finalmente il re Porsena avea la fanteria schierata nel centro. Ma Spurio Largio, e Tito Erminio teaeano l’ ala destra de'Romani contro ai Tarqninj: Marco Va­lerio, fratello d d console Poplicola, e Tito Luorezio il console dell' anno precedente stavano colla sinistra a fronte di Mamilio e de' Laùni. Moveano tutti due i consoli il corpo fra le due ale.

XX ni. Fattasi alle mani combattè virilmente l’ una e l'altra milizia con lunga resistenza; superando i Romani per esperienza e fortezza i Tirreni e i Latini ; ma po­tendo questi «sai più de’ primi col numero. Alfine ca­dendone quinci e qoii^i in gran cojiia s'intimoriroBO prima i Romani ddl' ala sinistra in vedere i loro duci .Valerio 6 Lucrezio feriti', e portati fuori della batta­glia ; e p o i, quando mirarono in piega i loro compa­gni, sbigottironsi anch'essi, quei dell’ ala destra sebbene

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ornai viacilorl delle schiere de' Tarquinj. E fuggendosi tutti alla città , precipitosi, ia folla, su per uà ponte solo; piombavano intanto su loro ferocissimi grioimici: e. poco mancato sarebbevi che Roma priva di mura dalla banda dei fiume , fosse espugnau, se i vincitori investita r avessero misti co'fuggitivi. Se . non che ,so> stennero l’ inimico, e salvarono tutto 1’ esercito tre uo­mini , due seniori, Spurio Largio , e Tito Erminio, appunto i duci dell’ ala destra , e PuMio Orazio , tio giovine^ il più belio, il più valoroso de' mortali Coclite detto dallo strazio degli occhi, per essergliene s(ato di< velto Uno in , battaglia. Era questi figlio del fratello di Marc’ Orazio console, e traeva la .origine sua generosa da Marco Orazio 1 'uno de’ trigemini che ; vinse già li tre Albani, quando le città guéireggiando per la pre­minenza accordaronsi a non cimentarsi con tutte le forze, ma con soli tre uomini, come fu dichiarato nei libri antecedenti. Questi soli fattisi alla testa del ponte disputarono gran tempo il passo al nimico, fermi sul posto medesimo , in mezzo a nembo di strali e tra ’l fulminar delle spade, finché tutta l’armata ripassò di qu^ dal fiume.

XXIV. Come però videro in salvo i suoi, Ermiaio e Largio , laceri già nell’ armatura pe’ colpi incessanti, si ritirarono a grado a grado. Orazio però, sebbene daUa città lo richiamassero i cittadini ed il console, e tentassero per ogni via di salvare un tal uomo, ai pa­renti e alla patria, Orazio solo non ubbidì, ma nel posto suo si rimase come dianzi, raccomandando > ad Erminio di dire in suo nome ai consoli che tagliassero

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verso la città, quanto prima potevano il ponte. Era di quel tempo il ponte uno solo e di legno , con tavole coDglunte per sè stesse e non per ferrei g rap p i , quale custodiscesi. tuttavia dai Romani : raccomandò nommeno che quando avessero sconnesso il più del ponte, quando picciola parte resterebbe a disfarne, a lui lo dichiaras-' sero con certi segni, o con sonora voce. Lasciassero a lui poi la cura del resto. Còsi ricordando a que’ due si tenne in sul ponte, e parte col ferir della spada, parte col dar dello scudo, ne < respinse, quanti investendolo, vi si avventavano. E già quelli che perseguiuivano il romano non ardivano più venire alle mani con esso , come preso da furore e fermo di morire ; molto più che non era facile andar fino a lu i, che aveva a destra e a sinistra il fiume, e dinanzi un monte di cadaveri e di armi : ma tenendosegli discosti lo bersagliavano in folla con lance, e dardi, e sassi quali empirebbon la mano ; o coi brandi e coi scudi degli estinti, se non aveano i primi stromenti. Resistea colui colle armi loro medesime : tirando su la moltitudine ; sempre, com' è verisimile, colpiva alcuno. E già percosso, già carico egli era di ferite in più parti del corpo, già un colpo portatogli direttamente per la coscia alla testa del fe­more , lo addolorava e difScoltava nel caminare; quando, udendo gridarsegli addietro essere il ponte nella sua più gran parte disciolto, si gettò di un salto colle arme nel fiume. E valicatolo a stento, perchè divenuto rapido e molto vorticoso per le travi che già sostenevano il pon­te , e che ora abbattute rompevano il corso delle acque, fecesi a terra finalmente senza avere in quel tragitto perduta nitua delle armi.

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XXV. Tale azioae produsse a lui gloria Immortale r e li Romani coronandolo lo portarono immantinente per la città com' nno degii eroi tra' cantici trionfali. B.I» TcrsavasI la urbana moltitudine, finché le era permesso, per desiderio di vederlo , almeno nell' ultimo presentar­sele; sembrandole che tra non molto morirebbe per le ferite. Scampò tuttavia da morte; ed il popolo mise nella parte più co^icna del Foro la statua metallica di hil com' era fra le armi ; e diedegll del terreno pub> blico quanto ne potrebbe in un giorno un pajo di buovi arare d'intorno ; e senza conure i pubblici doni, ogni uomo o donna, i quali erano insieme più che trecento mila, gli recarono ciascuno il vitto di un giorno men« tre era fra tutti terribile la penuria. Orazio dimostrata in tal tempo tanta virtù parve più che tutti i Romani invidiabile. E quantunque, divenuto perchè zoppo, inu­tile ad altr'incarichi non potesse in vista di tale scia­gura conseguire nè II consolato, nè altre militati presi- denze ; nondimeno per le gesta meravigliose fatte da lu i, vedendolo tutti. I Romani, in quella battaglia, me­rita di esserne encomiato quanto mai lo fosse ciascuno de' più &mosi per la fortezza. Cajo Muzio, sopranno­minato Cordo , sceso da chiari antenati , anch' egli si mise ad una nobilissima impresa. Io ne dirò tra poco dopo esposti i mali che allora ingombravano Roma.

XXVI. Dopo qudla battaglia il re dei Tirreni col«- locatosi nel monte vicino, dal quale avea discacciato il presidio romano , dominava tu tu la campagna di là dal Tevere. Li figli di Tarquinlo, e Mamillo il genero di lui U'agittando le milizie loro con picciole barche al­

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l’altra riva per cui v^ssi a Rom a, accamparonsi in luogo ben forte. Donde slanciandosi davano il guastò alle terre , ed agli alloggi pe' bestiami, e piombavano su’ bestiami stessi che uscivano dai sicuri luoghi per pascere. Ora essendo tutto l'aperto in balia del ne­mico, nè più di qua, nè più sopra il fiume recandosi in città le merci se non soarsissime; vi riuscì ben tosto carestia gravissima ; consumandovi tante migliaja le prov­vigioni già fattevi, che non erano copiose. Allora g i schiavi, abbandonandoli ogni giorno, in buon numero^ disertavano dai padroni, e li più malvagi del popolo trt^faivansi alle parti del tiranno. In vista di ciò parve ai consoli di supplicare i Latini i quali rivo:ivano i leg­gami del sangue, e sembravano fidi ancora, che man­dassero come prima potèan de' rinforzi ; e di spedire ambasciadori a Cuma nella Campatala, ed alle città Fomentine per ottenerne dei grani. Non sovvennero ad essi i Latini ; come qu^li che non credevano giusto fer guerra con Tarquinio nè co' Romani, avendo con am­bedue vincolo di amicizia : ma Erminio e Largio spe­diti coromissarj pel trasporto de'frumenti, avendo cari* cate da'campi Pomentini più barche di ogni vettova­glia , le introdussero in ima notte senza luna dal mare su pel fiume, in occulto de' nemici. Ma venuta meno ben tosto pur questa provvigione, e ridottisi gii uomini ai disagi di prima; Porsena chiarito dai disertori come, que' eh' eran dentro vi penuriavano , mandò araldi ad essi intimando che ricevessero Tarquinio se voleano li­berarsi dalla guerra e dalla fame.

XXVII. Non comportarono i Romani il co m a n ^ ,

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risoluti piuttosto di subirne ogni male. Ma prevedendo Muzio che l’una d^le due ne seguirebbe, o che vinti dal bisogno non terrebbono gran tempo la parola, o che tenendola ne perirebbono sgraziatbsimamente^ pregò li consoli che gli adunas^ro il Senato, come volesse proporgli grandi e rilevantissime cose : e radunatosegli, disse: lo medilo o senatori una impresa, donde U popolo nostro s'involi da’ mali presenti. Ardila mollo ella è questa, ma facile , io penso, da compierla. Bensì, riuscendomi, p<Ko, ower nulla io spero su la mia vita. Ora essendo io. per .espormi a tali pericoli , animatovi . da speranze sublimi, non ho voluto che voi tutti lo ignoraste ; perché se mi accada di mancar la prova, io siane celebrato almeno per V azione bel­lissima , e me ne abbia glòria eterna in luogo del corpo mortale. Già non era sicuro palesar quanto macchino al popolo , perchè niuno spinto dcUr util suo noi riferisse a nemici, quando è ciò da nascondersi come arcano indicibile. Pertanto a voi primi e soli ma­nifestalo, i quali, ne confido, lo tacerete: gli altri da voi Fudiranno a suo tempo. La impresa che io medito è questa : Fintomi disertore, andrommene al campo Tirreno. Se non mi credono e muoj'o, voi nori avrete perduto che un cittadino : laddove se mi riesce intro­durmi in quel campo ; io vi prometto di uccidervi il suo re. Caduto Pqrsena, sarà per voi finita là guerra.Io pronto sono ad ogni sorte, qualunque gli Dei me ne destinilo : e tenendo voi per consapevoli e tésli- monj miei presso del popolo, e pigliando il genio buono della patria per guida , partortii e vado.

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XXVIH. Encomiatone dai senatori presenti, ed avuti gli aùgurj propizj per la impresa, passa il Tevere: e giunto agli alloggiamenti de' Tirreni, ne penetra come uno di essi le porte, deludendone le guardie : perchè non portava arme visibili, e perchè parlava alla tir* rena , come eravi fanciullo stato istruito dalla sua nu­trice tirrena. Approssimatosi al Foro ed alla tenda del principe vedevi un uomo cospicuo per grandezza e complessione di membra seduto in veste di porpora nel tribunale in' mezzo a molti che armati lo circondavano. Or. pensò, ma indarno , che costui fosse Porsena, non avendo altra volta mai veduto il re de’ Tirreni : ma egli non era che il regio scriba il quale sedea nel tri­bunale e numerava i soldati, e registravane i paga­menti. In9ltrasi a tal vista tra la moltitudine fino allo scriba, e salito, senza e ^ rn e impedito perchè inerme, sul tribunale, cava il pugnale che celava sotto l’abito , e daglielo in capo. Ucciso con un colpo lo sa'iba, egli è preso immantinente e portato al. re già consapevole della strage. Il quale vedutolo appena, A h scellerafis- j/m o / esclama, pagherai ben presto le pene che me­ritasti. D ì, chi sei ? donde vieni ? e su qual confi­denza osasti un tanto attentato ? D estituii la sola morte dello scriba, o la mia parimente? quali com­pagni hai tu della perfidia? Non celarmelo, o U tor- menti vi ti forzeranno.

XXIX. £ ■ Muzio non presentando pur un segno di paura non col variar del colore, non colla fissezza dei pensieri, nè con altre affezioni solite in chi dee punirsi (li morte gli rispose : Io sono un Romano: venni qual

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disertore al tuo campo , rtè già per causa vile, ma per liberare la patria dalla guerra, lo voleva uccidere te , quantunque io non ignorava che a riuscissi o fa i' lissi nel colpo io ne dovrei morire : io destinava con- scorare alla patria la vka , e lasciarle pel corpo cite essa aveami dato, una gloria sempiterna. Errai : e causa dell errore furono la porpora, lo scanno e le olire insegne del comando. Uccisi chi non voleva ! . .lo scriba tuo per te stesso. Pertanto io non ricuso la morte che io decretava a me medesimo nelS accingermi a questa impresa. Che se tu g u r i per gli Dei di ri­sparmiarmi li tormenti e gli ohbrohrj ; io prometta che ti svelerà cose , gravissime per ìa tua salvezza. Cosi Muzio diceva per deluderlo. E colai come attonito, e temendo pericoli noa veri da molti , glie io giurò. Muzio allora ideato mi inganno del quale non potea (ouvÌBoersi : disse : O re , trecento Romani tutti a me pari di età , tutti patrizj di cond'tiione, abbiamo mac- ehinato di ucciderti, dandocene vicendevoli giuramenti. Pajve a noi quando ci consultavamo su le maniere

insidiarti, che non tutti insieme ci ponessimo a questa impresa, ma ciascuno da sè , tacendo perfino ai compagni, quando, dove , come, e con quale oc­casione t’ investirebbe , acciocché facile ci fosse di occultarci. Così macchinando , ci demmo le sorti, edio me la ebbi il primo per cominciare la impresa. Istruito tu dunque che tanti valentuomini hanno sete eguale di gloria, e che forse alcuno la sazierà con successo più. fausto del mio ; deh ! considera se possi avere mai guardia abbastanza che ti difenda.

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XXX. Il re ciò udendo comaDda ai satelliti che in­catenino costui , se lo menino, e lo custodiscano dili- gentissimamente : egli poi conrocando i più amici , e facendo che Arante il figlio suo gli sedesse da presso ,, ragionò con essi le maniere da far vane le insidie : ma suggerendone gli altri picciole cose ; non pareano co­gliere il punto : quando il figlio suo propose un consi* glio, superiore all' età ; perciocché Tolea che non si pensasse a guardie onde precludere i mali, ma piuttosto a far quello per cui le guardie non bisognassero. E maravigliandosi tutti del suo consiglio, e desiderando sapere come lo eseguirebbe; cól fa rc i, ei disse, amici i nemici, e cól pregiare o padre, la salvezza tua piit che il ritorno degli esuli. Soggiunse il re: che egli ben diceva, ma essere da consultare come con dignità si pac^casseroi Sarebbe gran vitupero, se egli che avea superato in battaglia , e tenea ristretti i Romani fra le mura si ritirava , senza compiere quanto avea pro­messo ai Tarquinj , quasi vinto dai vinti, e quasi

fuggisse chi non ardiva nemmeno uscire dalle porte. Facea conoscere che 1' unico mezzo da togliere le ni» niicizie sarebbe, se gli avversarj mandassero ambasciadorì per trattare gli accòrdi.

XXXI. Così disse in quel giorno agli astanti ed al figlio: tuttavia pochi giorni dipoi fu necessitato egli il ■primo a fare proposizioni di pace per questa cagione. Sbandatisi intorno i suoi m ilitari, e datisi a predar di conlinuo quei che recavano in città le merci ; i consoli Homaul se ne misero in buon luogo alle insidie, e molti uè uccisero , e più ancora ne imprigionarono. Di

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ohè malcontenti i Tirreni ne facean crocchio e sussurro incolpando il monarca e i duci suoi sul tanto prolin- ' garsi della guerra, e sfogandosi in desiderj di rendersi alle lor case. Or vedendo come tutti gradirebbera ma> nifesUmente la pace spedi per trattarla i più intimi suoi. Scrissero alcuni che fu con essi spedito anche Muzio sul giuramento di tornare poscia al monarca: ma vo< glion altri che fosse piuttosto custodito come ostarlo nel campo fino alla pace: il che forse è più verisimile. Questi poi furono gli ordini che il re diede a' commis­sari : non dicessero parola sul ritorno de’ Tarquinj ; ma ne raddomandassero i beni, principcdmente gli ereditar} dal canto di Tarquinia P antico, già posse­duti da essi buonamente : e se ciò ricusavasi; dessero almeno , quanC era possibile , i compensi delle case, de’ bestiami, de’ campi, delie raccolte , come parca loro espediente , col danaro del pubblico , o de’ pos­sessori , ed usufmttuarj attuali de’ beni. E ciò quanto ad essi. Chiedessero poi per lui che deponea le inimi­cizie l i ,selle pagi, cosi detti, antico luogo delC Etru- ■ria, invaso dà Romani nella guerra e tolto a’ proprie' tarj, e finalmente chiedessero de’ giovani delle famiglie più insigni , per ostaggio , che i Romani si terrebborto amici costanti de’ Tirreni.

XXXII. Venuti i deputati a Roma, il Senato per in* sinuazione di Poplicola console si risolvè di accordarne tutte le dimande in vista della penuria che aiBigeya il popolo e la classe de' poveri ; onde accettissima sarebbe loro una pace , giusta nelle condizioni. Il popolo ratificò tutti gli articoli del decreto del Senato ; non soffri però

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che sì vendessero i beni, o si desse a' Tarquin) daaa- ro , privato nè pubblico, e volle che si mandassero am­basciatori a Porsena perchè si contentasse degli ostaggi e della regione che dimandava. Quanto ai beni egli giudice fosse tra' Romani e tra Tarqulnio, udisse i’ una « r altra parte , e ne sentenziasse non per favore nè per nimicizia. Partirono i Tirreni con questa risposta , e con essi gli ambasciadori del popolo i quali condo* ceano per osUggi venti giovani delle famiglie piùtiUn* s tr i , avendo i primi dato i consoli Marco Oj:hzìo il 6glio, e Publio Valerio la Gglia, idonea già per le nozze^ Pervenuti questi nel campo , il re dilettatone, e molto lodati i Rom ani, conchiuse una tregua per un numero certo di giorni, e prese a giudicare la causa. Battristaronsi però li Tarquinj , caduti dalle speranze più lusinghiere, che avrebbegli qiiel monarca ricondotti lul trono ; e per .necessità dovettero acconciarsi. alle circostanzé, e prendere ciocch'era lor conceduto. Giunti da Rotila ai tempo ordiniito i più anziani de' senatori e gli oratori della causa ; il re sedutosi cogli amici nel tribunale, ed assunto anche il figlio per giudice ; intimò che parlassero. ^

XXXIIL Trattavasi ancora la causa, quando un tale annunisiò che gli ostaggi s eràn fuggiti. Perciocché le ilonzelle tra questi, avuU come la chiedeano, la facoltà di andai?e e di bagnarsi nel fiume , andatevi, dissero àgli uomini che alquanto se ne discostassero , finché la­vate e rivestite si fossero, sicché non le vedessero nude. O r questi cos facendo; quelle gittatesi a nuoto ripara- ironii a Roma, eccitatevi da Clelia che lè precedeva. A

P IO U IG I, tomo I I . I O

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lai nuova Tarquinio asiai rimproVeraTa li' Romanf di spergiuro e di mala fede, e provocava il sovrano perv diè più non gli udisse, come divenuto il giuoco dei loro tradimenti. Esciisavasi il console , dicendo quell' opera, lu tu delle donzelle , sensa voler del Senato: e che prè*> •to dimostrerebbe che niente era per inganno. Persa»» sone il re concedè che andasse e rimeuasse come prò- mettea le fanciulle. Andò Valerio appunto con tal fine: ma Tarquinio e il genero macchinarono in onta di ogni diritto un opera infamissima, e spedirono in sa la strmla una banda di cavalieri per sorprendere le fanciulle ri* «ondotte, il console, e quanti tornavano al campo , e ritenersene le persone pe' beni tolti da' Romani a' Tar^ quinj, senz' aspettare il fine del giudizio. Ma non per» misero gl' Iddj che succedesse loro secondo il disegno : perchè mentre gl' insidiatori uscivano dal campo Lau'uo per sopraffarsi a que'che venivano, il console romano era già passato innanzi colle fanciulle ; e già era alle porle degli alloggiamenti Tirreni quando fu sopraggiunto da' persecutori^ Si fé' qui mischia fra loro, ma ben pre­sto fu nota a' T irreni, e ne corsero frettolosissimi in ajuto il figlio del re con de' cavalieri, e la schiera dei fanti che stava di guardia innanzi dei campo.

XXXIV. Sdegnatosi di ciò Porsena convocò li Tir* reni > e narrò come essendo egli fatto giudice da’ Ro­mani di quello ond’ erano accusati da Tarqainio ; gli espulsi, e bene a diritto, da lo ro , aveano tentato di viclave le persone sacre degli ambasciadori e degli ostag­gi , in tempo di tregua, e prima che si decidesse là

causa. Dond’ è che i Tirreni assolvettero tu di ogni

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riduamo i Romani, e togliendosi all' amidzia eli Ma- milio e di Tarquitaio» intimarono loro ch'entro il pros» timo giorno si ritin^so^. Cosi li Tarqmnj , pieni in principio di bdle spenmze per 1* ajuto de' Tirreni, o di essere di nuoro i tiranni di Rom a, o di ricuperare i loro beni, perderbno 1 'ano e l'a ltro per la offesa degli ostaggi e degli ambasciatori , e partirono con infamia, e eoa odio dal campo. Il re poi de' Tirreni facendosi eondacre gli ostaggi dinanzi del tribunale gli rendette al console, dicendogli che pregiava la fed^tà de' Ro-> mani più di ogni ostaggio. E lodando Clelia, che avea persuaso le compagne di passare a nuoto il fiume, come ne' suoi pensien maggiore del sesso e della e tà , e feli- ciundo Roma perché tdlevara non pure de* valentao> mini ma'delle eroine, regalò la donzella di un cavallo gisneroso, e magnificamente bardalo. Sciolta l’adunanza ieV cogli ambasciatori de' Romani gli accordi e li giura­menti di pace e di amicizia, e li onorò come ospiti, e m titai sènza prezzo, perchè li recassero in dono alla loro c itti, tutti li prigionieri, che eran pur molti: or­dinò che rìmanéssero com' erano i padiglioni suoi, fatti non cmiw : per breve durata su le terre altru i, ma fre­giati , quasi uoa c it t i , con private e pubbliche spese; quantunque i Tirreni d ( ^ avervi alloggiato, usassero di bruciarli, non di serbarli. E fu questo, se in danaro d calcola, non picciolo dono pe' Romani, come lo di< chiarò la vendita fattane da' questori dopo la partenza del re. Tal fu ta fine della guerra de’ Tirreni e di Laro Porsena la quale avea ridotto i Romani a tanti

pericoli.

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XXXV. Dopo la partenza de' Tirreni adunatosi lì Senato Romano decretò che si mandasse a Porsena il trono <li avcnrio, ló scettro, il diadema e la veste trion­fale còlla quale i re si adornavano: e che Muzio, espo* stosi alla morte per la patria, e cagione principalissima del termine della goeira , si premiasse a spese del pub­blico, còme già Orazio die resistè sòl ponte, con Unto

ferrano, di là dal Tevere, quanto poteane in un giorno solcare intorno coll' aratro : e questo è il terreno che pur nel itaio tempo si chiama il prato di Muzio. CoA fu decretato su gli uomini. Quanto a Clelia concede­rono che una sutua di metallo se le innalzasse, ed i padri delle donzelle glie la innalzarono nella v ia ^ c ra , dove mette al Foro : ma noi non più ve l’ abbiamo tro> vaia ; e dicesi che mancò per un incendio delle case d’ intorno (i). Fu quest’ anno compiuto il tempio di, Giove Capitolino, del quale partitamente abbiamo scrìtto nel libro antecedente. E Marco Orazio console lo con­sacrò , e lo intitolò prima che potesse tornare Valerio il compagno, uscito per avventura' dalla città coll' esercito, per difenderne la campagna : perocché Mamilio speden­dovi a fiir preda, assai vi danneggiava li coltivatori cbe vi si erano di fresco rìcoodotti, lasciate le fortezze. £ questo è ne' fasti del terzo consolato. ^

XXXVI. Spurio Largio e Tito Erifiinio cònsoU deU r anno quarto (a) lo compierono senza guerra. Morì nel

( i) l’InUTco sebbene posteriore a Dionigi dice che la ttttua: di esisteva «ocora su la via sacra là donde vasai ttr

Ut palatiam. Casaub.(a) An. a4& secondo Catone, e aSo secondo Varrone dalla fouda-

lione di Roma , e S04 aTanti Cristo.

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loto consolato Arunte il figlio di Porsena re de’ Tirreni. Assediava già da due ann i, la città della Riccia , per> chè conchiasa appena 1’ alleanza co' Romani, prese dal padre metà dell' esercito , e marciò contro quella città per sottoporsela, e dominarri. Ma essendo ornai per e^ugnarla , sopravvennero a questa de’soccorsi da Aneio^ dal Tiiscolo , c da Ciuna della Campania. Egli schierò le milizie sue minori contro le più numerose: ma dopo respinti, dopo incalzati ^ i altri fino alla città, peri finalmente, vìnto egli stesso dai Cumani condotti dal» r Aristodemo , che Malaco si chiamava. Fiiggl, non sostennesi a tale caduta 1' armata di lui. Molli ne soc« comberóno incalzati da’ Cumani ; ma più ancora sban» da ti, ridotti senz’ arme , nè più' idonei per le ferite a fuga più lunga , ripararonsi nel territorio non lontano di Roma. Se li menarono i Romani dalle campagne in città nelle proprie case, porUndovene i più malconci a cavallo , o su carri, o su cocchi : e ciascuno a proprie spese li nudrirono, e curarono , e ristorarongli con sol* Ibdtodiòe molto afTettaosa. Di talché molti di loro le­gati dtf tanta benevolenza desiderarono non di tornarsene in pàtria, ma. di> rinanersi fra tali: benefattori; ed il Senato assegnò loro perchè vi si fabbricasser le case, la valle tra '1 Palanteo , ed il Campidoglio, lunga presso a quattro stadj. Chiamasi questa anch' oggi nell' idioma de’ Romani la contrada Tirrena; e vi si passa venendo dal Foro al circo massimo. E per tali cortesi maniere ebbero dal re di quella gente dono non lieve , e che assai li dilettava, la (;ampagna di là dal fiume, ce> duta già da essi quando ne ottenner la pace. Cosi

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tribataroDO agl' Iddj li sagrifizj magnifict d ie aveano già promesso co’ voti se rìcaperavaDO mai U sette pagi.

XXXVn. Correa nell’ anno quinto dopo la espulsione dei re la Olimpiade sessantesima nona, nella quak Iicomaco Crotoniate vinse allo stadio, Àcestoride fa r arconte di Atene per la seconda volta, e forono con­soli Romani Marco Valerio, fiite lb di Valerio Popli- coU, e Publio Postumio, detto Tnberto (i). Arse nel loro consolato un’ altra guerra co' vicini , la quale co» minciò colle p rede , e procedette a numerose e grandi battaglie: finché cessò da indi a quattro consolati, dopo essersi nel tempo intermedio sempre stato fra le arme. Im peroc^è alcuni Sabini considerando Roma indebolita per gl’ incontri suoi co’ T irreai, ^lasi non dovesse mai più ricuperare 1’ antica dignità , ne assalirono, afBn di predarli, e certo molto ne danneggiarono , li coltiva­tori , i quali calavano di bel nuovo dai luoghi forti aUa campagna. I Romani prima di prendere le »rmi spedi­rono ambasciadori a chiedere conto e soddia&zione, tal* chè non più molesussero chi lavoibva i térreni. Ma non ricevendone che orgogliose risposle, intimarono ad essi la guerra. Valerio il console il primo con truppe eque­stri e con fiore di milizie leggere scorse su que' mba- tori de' campi, e grande fu la uccisione de’ sorpresi nei pascoli, sbandati, com' è verisimile, nè provvidi d d venir de’ nemici. E spedendo i Sabini còntr essi un

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( i ) An. 349 di Rom. fecondo Catone) e aSi secondo VarrOne, c 5o3 avaati Crino.

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fftmito sotto un duce perito di guerra, i Romani usci* rono di bel nuovo con tutte le forze, dirette da ambi K consoli. Postumio mise il campo nelle aluire prossimel a Roma, perchè non vi si facesse una subita irruzione da’ fuorusciti. Ma Valerio marciò di fronte al nemico in riva «ir Àniene, fiume che nella città di Tivoli casca da rupe altissima, e poi corre, dividendoli fra loro, t campi de' Romani e de’ Sabini, finché vago in vista e dolce a beverne, scende nel Tevere.

XXXVIII. Erano i Sabini dall’ altra parte del fiume non lungi dalla corrente su di un colle non molto forte, e che poco a poco degrada. In principio gli uni rispet< tando gli altri esitavano a passare il fiume e farsi allb mani. Ma poi non per calcolo e previdenza di bent,met rapiti dall’ ira e dall’ ardor di combattere , furpno alle prese. Imperocché venuti ad abbeverare i cavalli e far acqua, inoltraronsi molto entro il fiume, umile allora nel suo corso , perchè non accresciuto dalle acque in» vernali: e siccome bagnavali appena, poco/piùsu delle ginocchia ; lo trapassarono. Attaccatisi in su le prime pochi con pochi, ecco accorrere altri a difenderli, ognuno dai proprj alloggiamenti, e via via sopraggioii'r geme di rinforzo, come questi o quelli erano superati^ £ quando i Romani respingevano i Sabini dal fiume > e quando i Sabini ne toglievano l’ uso ai Romàni. E molti uccisi e feritivi , ed eccitativisi tutti a combat* tere , come avviene nelle scaramucce fortuite , sorse ar­dore eguale di passare il fiume ne’ duci stessi deg^ eserciti. E primo passandolo il console Romano e con csfo r armata ' sua, piombò su li Sabini, rjfon eransi

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questi ancora nè bene armati, nè soliierati; pure noa esitarono ad accettar la battaglia, inanimili molto e. spregiami, perchè non aveano a farla nè con ambi U consoli, nè con tutte le milizie Romane, e slanciatisi, combàtterono con furia di baldanza e di odj.

XXXIX. Àrdea vivissima la battaglia; ma.se 1' ala destra, ov' era Postumio il. console, superava gli avversari ed avanzavasi ; la sinistra era travagliata e respinto al fiume. Or saputo ciò 1' altro console usci coll'esercito suo: marciava egli pian piano colla fanteria; ma.fe’ precedere in fretta colla cavalleria Spurio Largio Se­niore , e console dell' anno precedente. Andato costui di tutta briglia passò facilmente il fiume , che non em guardato da alcuno , e giratosi attorno 1' ala destra d«i nèmici pigliò di fianco la cavalleria de’ Sabini. Or qui sorse battaglia diuturna e grave di cavalleria con caval­leria. Frattanto avvicinatosi anche Postnmio co'suoi fanti B .queir ala ed investitala, molti ne uccise, e molti ne disordinò : di modo che se non sopravveniva la notte, i Sabini avriloppati da’ Romani che già prevalevano, sa­rebbero stati del tutto disfatti : ma le ombre occultarono quei, che fuggivano dalla battaglia come inermi e radi, e salvi si ricondussero alle lor case. Impadroniroosi i consoli senza combattervi de’ loro alloggiamenti, abban­donati dalle guardie al veder. quella foga : ed occupa­tevi molte suppellettili, e datele in preda all’ esercito,^ lo. rimenarono in patria. Cosi riavutasi Roma , allora la prima volta , da’ mali suoi co’ Tirreni , senti lo spirilo antico, ardì come prima arrogarsi 1’ impero su' vicini, decretò pe’ due consoli insieme un . trionfo, e di più

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fi desse a Valerio che. era l’ óno di.questi, un sito Qdla parte pi& distinta del PaUanteo, dove gli *si fon­dasse una casa a spese del pubblico. Questa è la casa innan4 alla quale sta il toro di bronzo , e questa tra tutti i privati e pubblici ediG j è la sola che ha le porte che aperte si girano in fuori (i).

XL. Presero do{io questi il consolato Publio Yalerlo Poplicola per la quarta volta, e Tito Lucrezio, di bel nuovo collega suo (a). Quest' anno le città Sabine , te- auto u n congresso comune, decretarono far gueira ai Romani, quasi fosse finita 1’ alleansà lo ro , per essere

c^aduto dal trono Tarquinio a cui 1' aveano giurata. Ayeale indotte a ciò l'uno de'figli di Tarquinio, Sesto di nom e, il quale coll' onoraTe e supplicarae i ctt^r

dinit prim arj di ognuna, metteva in tutte un animo la guerra: anzi e\eva a sè guadagnate, e consociate a

queste pur le due citt^ Cambia e Fidene , ribellatele da' Romani. In cpniraccambio le città lo elei^ro gffoe- rldissimo loro con facoltà di reclutare milizia da ognuM, come quelle che aveano perduta la prima battagli^ per la insuf&cienza delle for;ze, e del capitano. Ed in ^^ò si: adoperavamo questi : m^ la fortumi volendo coijtrap- pesare i beni ai mali di Roma, le diede in luogo degU alleati che le si erano t<^ti, un rinforzo , quale non

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' ( t) Tra i Gteoi era ; grande oDOrffioenMdTcr l« porte ch« ti aprif- tero su la pubblica ilriida,' e 5|d u u fcrriiù della pubblica strada comperaTad a gran pretto : come i chiaro da ciò che ii legge d’ I- jficrale pretto di Aristotele negli Economici.

(a ) Ad . di Rom. a5o secondo Catone, eaSa secondo Varrone, • 5oa av . Cristo. -

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Imperava dal canto de' nemici. Tito Claudio, nn Sabino domici]?ato a Regilio, nobile e denaroso, fuggissene in seno di k i menando con sé gran parentado, ed amici é clienti in copia , i quali spatriavano con le famiglie ; tanto che tra questi ce ne avea cinque mila buoni per le arme. E questa dicesi la cagion che lo spinse a trat sferire in Roma la sede. I primarj delle cittA più oospi* ene alienatisi da lui lo aveano incolpato di poca afTe* zione verso il pabblico bene , citandolo qual traditore ; come r unico che mal so£friva la guerra, e che avtia ripugnato in consiglio a ^ i che voleano «010118 1’ al- l'eanza, nè permise che i suoi cittadini ratificassero il decreto degli altri. Or temendo egli nn giudizio, ove le non sue città sentenzierebbero della sua sorte , rac­colse le sue robe , e gli amici, e> si congiunse ai Ro­mani , non senza picciolo bilancio degli affari ; talché parve a tutti la cagion principale deli' esito propizio della guerra. Per tanto il Senato ed il popolo lo «seri»- fiero tra' patriij , lasciandogli in ciJtà quanto sito voHe per fabbricarvi ; e gli donarono i terreni pubblici tra f idene e Piacenza perchè li compartisse co' suoi com­pagni , da’ quali risultò poi la tribù Claudia ohe ancora tiene quel nome.

XLI. Apparecchiausi appunto l 'una e 1' altra partè, li Sabini i primi cavarono le milizie e fecero due ac­campamenti , r uno all' aere aperto non lungi da F ide- n e , l'altro in Fidene a difesa del popolo, come in ri­fugio deir esercito esterno in caso di sciagura. I consoli Rom^pv al sapere la venuta de'Sabini contp-a, }oro, uspi- rono anch' essi con floride schiere , e presero. campO'»

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s e ^ n t l l'uno dall'altro , Valerio a fronte degli allog­giamenti sabini all' aere aperto, e Lncreùo poco più di sopra , in un' altura donde potea vedere l ' armata com­pagna.. Era disegno de’ Romani di venire quanto prìm» a giornata p<!r decidere subiumente , e visibilmente la guerra. Ma il capitano Sabino temendo di attaccare in pieno giorno la baldan^ e la robustezza romàna-, sem­pre ferma, contro ai casi anche più d u ri, deliberò di investirla di notte. Quindi facendo preparare quanto era necessario a riempire le fosse, e trascendere il vallo , quando ebbe pronto lutto, voleva tor seco il fior del- r esercito, ed assalire nel primo sonno le trincee de'Ro* mani. Su tal disegno avea fatto intendere all' armata di Fidene che quando si avvedessero del giunger suo ve­nissero anch’ essi dalla città, ma con armi leggere: ed avea posto in luoghi opportuni gli agguati con ordine die se andavano dei rinforzi a Valerio dall'altro campo, uscissero loro alle spalle e gli assaltassero fra strepito di voci e di arme. Sesto con tale risoluzione, istruitine e trovativi pronti li centurioni, non aspettava che la opportunità. Ma un suo disertore venuto al campo ro­mano disse di quella trama al console. Giunsero riotì molto dopo i cavalieri con dei Sabini che usciti a fiir legna furono presi. Interrogati questi separatamente ófib mai preparasse il lor capo , risposero , che scale e ponti : ma che dove, o qiumdo fosse per valersene , non lo sapeano. Valerio ciò udendo spedi Marco àl- T'altra armata per divisare a Lucrezio che vi comandava r animo dei nemici, e come si dovessero questi assalire. Poi chiamando egli stesso tribuni e centurioni, dicendo

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quaoto avea raccolto dal disertorie, e da'prìgiónieri ; fiùnfortaDdoU ad esser magoanimi, e credere d i'e ra gianto alfine il tempo sospirato onde prendere sa' mici una luminosa vendetta; prescrisse ciocché doves- sero fare, diede i segui, e rinviò ciascuno aUa saa schiera.. XLIL Non era ancora la notte a mezzo, qpando il duce Sabino fatti levare i soldati, ne condusse il fi<M« ^ campo romano, imponendo a tatti che , taciti, avan«' zassero senza strepito di arme; perché i iiemici a<m si avvedessero di loro prima che fossero giunti. Or come i primi a procedere furono vicini al campo, né videro ivi lume di fuochi, né voci vi udirono di sentinèlle, assai riprendeano di stoltezza i Romani j quasi tralaseiau ogni guardia , se la dormissero : e già riempiute le fosse in gran parte , le passavano senza ostacolo alcuno. I Romani però si teneano , non veduti si per le tenebre, ma schierati nello spazio tra i villi e le fosse, e qaaOdo chi le passava era loro alle mani, uccidevanlo. Rimase alcun tempo occulta la rovina di chi precedeva a queL .che seguivano. Ma non si tosto quei eh'erano vicini alle iosse videro col chiarore della luna che nasceva, i mucchi ÌDCODtro de' cadaveri de' compagni, e le schiere valide de’nemici che resistevano; gettarono le arm i, e' fuggirono. Allora alzato i Romani un altissimo grido, perché quel grido era segno all' altra armata, corsero in fòlla su loro. Lucrezio a quei clamori, spediti su­bito i cavalieri per ispiare se ci aveano insidie nemi­che , si mosse iodi a poco egli stesso col fiore della fanteria. Imbattutisi i cavalieri con gli usciti da Fidene

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insidiare , li fugarono: ma la fanteria persegnitaTa, ed uccideieali, ornai disordinati e senz' arme , 'quelli chè erano venuti ad assalire il campo romano. Morirono in t«U combattimenti circa tredici mila Ira Sabini ed al* leali, rimanendone prigionieri quattro mila dugento: ed il campo loro fa prtio nel giorno medesimo.

XLIUi Fidene assediata per non molti giorni, prind* palmenté nella parte che sembràva inespugnabile, fn presa appunto id qveata, perchè poco guardata; ma nè si fecero degli uomini tanti schiavi , nè rovine della città ; che anzi poco fu il sangue che vi si sparse dopo la invasione. Imperocché parve ai consoli pena ben grave per le mancanze di una città nazionale il saccheggio delle robe e degli schiavi, e lo strazio degli uccìsi in battaglia. Ma perchè li vinti non cosi volontieri toc» nassero alle; arm i, parve doversi andar cauto e pren> dere su capi della ribellione la vendetta , consueta trai Roftiani. Pertanto convocando nel Foro i Fidenati che eran presi, e molto redarguendone la stoltezza, e chia* mandoll degni di morte quanti ve ne erano, giacché nè erano grati pe'benefizj, nè &ceano senno pe' mali ; ne batterono alla vista del pubblico culle verghe, e poi vi uccisero i più cospicui per nobiltà. Quanto agli altri lasciarono che albergassero come prima, ponendo a coa­bitare con essi.la guarnigione che era decretata dal Se> nato , e dandole parte de' terreni tolti a quelli. Dopo ciò. ritirarono le truppe dalle terre nemiche , e trionfa^* rono secondo il decreto del Senato. ^ tali furono 1q geste di questo consolato.

X L iy. Creato consolo Publio Postumio Tuberto per

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la secoada volta, e eoa e«o Meaeaio Agrippa Lana^ to ( i ) , fecesi ma con più schiere la tersa irrazione dei Sabini prima che i Romani se a ' avredessero, e pro> OBclette fin presso le mura di Roma. Risnlurono & questa molti uccisioni non solo di agricoltori romani > colti repentinamente da nembo die non aspetuvano prima di ricoverarsi ne' castelli vicini, ma di quelli eziandio che in città dimoravano. Imperocché Postnniio! il console riputando insopportabile quella iùgiarìa; osci di tutta fretta, con truppe comunque per soccorrere i Mio i, più animoso in vero che savb. I Sabini, visto con quanto dispregio, disordinati, e sbandali si avaih- zassero verso loro, e iatto disegno di ampliarne ancor più la negligenza, partirono con marcia più che ordi­naria , quasi fuggissero addietro , finché giunsero ad una «elva profonda ove il resto cehivasi delle loro milizie. Or qui voltando fàccia contrastettero a chi gl'inseguiva; come pure gli occultati nel bosco ne uscirono , vocife­rando. Ed essendo essi in buon ordine e m olti, pro­stesero gli altri che combattevano disoi*dinati, sbandati ; ansanti per lo viaggio ; e rinchiusero in una pendice deserta quanti ne fuggirono, con preoccupare le vie che menavano a Roma. E perocché già la luce era mancata ; posero le arme presso di questi invigilandoli tutta la notte, sicché taciti non s’ involassero. Saputosi in città l'infortunio , vi fo gran turbamento, e concorso' ai muri , e timor comune, che i nemici trasportati dal successo propizio, si presentassero in quella notte a

( i) Ka. di Rom. aSi secondo Ca to n e , aS3 secoada Varrone, t Sol a t . Crino.

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Bioma : e là compiaageTansi i morti ; ijua a d commi» ceravano li sopravvaasati, come quelli che se non erano immantinente soccorsi, caderebbero prigionieri per la penuria. Passatasi con tanto m af in cuore senza sonno la notte, Menenio, nato il giorno, armò li più floridi per anni, e li guidò ben fomiti e con ordine a liberare gli assediati nel monte. I Sabini al vedere che si avan* cavano non li aspetUrono; e tolto il campo si ritira* rono , pensando che bastassero loro i vantaggi presenti: e senza indugiarsi gran tempo, tornarono festeggiando alle patrie , ricchi di bestiami, di schiavi, di danari. .

XLY. Rattristati i Romani dal danno, e credendolo causato da Postumio il console ; deliberarono di mar­ciare sollecitamente con tutte le forze contro la Sabina, desiderosi di rifarsi della perdita inaspettata e turpe ; jnolto più che assaissimo gli aveva esulcerati 1' amba> sceria recente e contumeliosa e superba colla quale i nemici, come già vincitori, e prenditori senza contrasto di Roma se non erano ubbiditi, comandavano che ren< dessero ai Tarquiiij la patria, cedessero ai vincitori r imperio , e stabilissero il governo e le leggi , come sarebbero ordinate da questi. Aveano i Romani replicato a tali messaggi, che annunziassero alle loro comum che i Romani comandavano ai Sabini, di deporre le armi, di sottomettere le loro città , di ubbidire come per addietro, e ciò fatto di venir supplichevoli per iscusarsi dalle ingiustizie e da'mali onde gli aveano vio­lati nelle incursioni passate, se voleano pace ed amici­zia ; ma se ricusavansi a tanto, aspettassero tra non molto la guerra su le loro città. Cosi comandando é

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comandad à vicenda, quando ebbero tatto in pronto y uscirono per la guerra. Conducevano i Sabini il 6ore de' giovani di ogni cittA con arme bellissime : e li Ro­mani tutu la milizia urbana e guarnigioni, conce» pèndo che i domestici e li schiavi, e quanti superavano la età militarè, bastassero in difesa di Roma e dei ca­stelli delia campagna. Cosi concentrati si accamparono ambedue con breve intervallo fra loro non lungi da Ereto , città de’ SabinL

XLVI. Come gli uni sepper degli altri o per con* gettoni dall'ampiezza degli alloggiamenti, o per ciò che ne adivano da’ prigionieri ; si eccitò ne'Sabini confi» denza e disprezzo inverso la scarsezza degl' inimici ; ma timore ne’ Romani per là moltitudine di essi. Pur fe* cero cuore , e pigliarono qualche speranza su la vittoria pe' segni mandati loro dal cielo, e per 1’ ultima visione, quando erano per ischierarsi, che fu questa: Su le punte dei lanciotti (sono queste fe armi che i Romani scagliano nel farsi alle mani; bastoni grossi che ti e n - pion le mani, e lunghi, con feirei spuntoni nell’ uno e nell' altro estremo, diritti, nè minori di ti'c piedi i, tanto che le armi, compt>esovi il ferro, somigliano ad aste mezzane ) su le ferree punte di questi lanciotti, piantati tra padiglioni, brillarono delle fiamme; talché per tutto il campo fu hice continua come di accesi nali, gran tempo della notte. Ora come gli auguri di­chiaravano (nè già era difficile intenderlo ) , concepirono che gli Dei con tal visione annunziassero loro una soU lecita e luminosa vittoria: imperocché tutto cede al fuoco, nè cosa, vi è che per esso oob consumisi. .£<

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perchè le fiamme bitUarono su le armi loro; uscirono con assai fiducia dalie triaciere, e nell' estero di tale fi- du(à« , attaccatisi combaUerono, sebbène di tanto mi­nori , co' Sabioiì La sperienza eh’ era in essi col vìvo amor dei travagli, élevavali a spregiare ogni pericolo; Postumio il primo che guidava 1' ala' sinistra , inteso « riparare la passata disfatta urtò 1' ala destra; de’ nemici, non curando la vita per la vittoria: e come chi rapito è da furore , e fermo per ogni via di morire^ ai lanciò nel mezzo di esisi. Allora i soldati i quali erano nell’aU tr'a la con Menenio ornai stanchi, ornai cacciati di po^ sto , al conoscere che que' dii Pasturalo prevalevano su gli emoli, rimbaldanzirono e tùrbinaronsi su gli avveiv sarj loro. Così piegò 1’ una e 1’ altr' ala de’ Sabini, e diedesi pienamente alla fuga. E dopo la perdita delle ale nemmeno quelli che erano ordinati nel centro per> sistecono, ma forzati dalia, cavalleria Romana che gli assaliva si misero in volta.. Tutti al proprio alloggia­mento si riparavano , ma i Romani seguendo e inve­stendo , ne invasero 1’ uno e: 1’ altro, El se l’esercito ne« mico non iìi totalmente distrutto, ne fu cagione la notte ed il luogo delia sconfitta, che era nella Sabina. Impe­rocché per la perizia de' siti chi fuggiva salvavasi in casa più facilmente di quello che lo potesse , per la imperizi»* sua, sorprendere chi l’ inseguiva.

XLYII. Nel prossimo giorno i consoli , braciati i ca­daveri dei loro , e raccolte le spoglie, e tra queste le armi abbandonate dai vivi nel fuggire, e trasportando seco non pochi fatti prigionieri, e le robe invase (non compresevi quelle tolte da’ soldati ) colla pubblica ven-

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dita delle quali cose ognuno riebbe ì prestiti, contri'* buiti per la spedizione ; tornarono con una luminosa vittoria nella patria. Quindi per decreu> del Senato Funo e l'altro ne trionfarono; Menenio col trionfo primario sedendo su regio carro, Postumio col secondario, e men grandioso, che chiamano della oMuioite,'altera­tone il nome che era greco, sicché più non distin- guesi (i). Conciossiaché per quanto io ne concepisco o ne trovo in molti degli storici Romani questo trionfo chiamavasi nelle origini Evtuione da ciò che vi si pra­ticava : ed il Senato, come Licinio racconta, ora per la prima volta ne ideò la pompa. Differisce quest' onor secondario dalT altro, primieramente perchè chi sei gode, entra la città colle schiere a piedi e non sul carro come in quello: e po i, perchè non porta come l'altro la toga contraddistinta pe' ricami varj e per l'oro ; nè la corona pur di oro; ma la toga candida contornata di porpora, la quale è l ' abito nazionale de' comandanti e de' con­soli , e la corona di alloro {%): e se tien le altre cose ; in questo cede al primo trionfiinte, che non va coUo scettro. Postupùo p o i, sd>bene più che altri segnalato

( i ) Ovaiióne fa detta originalmeiite etmtio ; quindi k la t o c € di Virgilio 1. 6 . En. EvanUs orgia eireum dueehat P hry^as. Questo evari era dal greco il quale esprimeTa le acclamaiioni &tle

eoa dire iv«i , « «vìcr'al Dio datore della littoria ed al Tincitore;

come acclamaTasi a Bacco colla Toce evoe. Per questo Dionigi dica che ovazione k parola derivata dal greco, ma trasmatata ; sicchb la origine ne k diTenuta oscura.

(a ) Questa corona nella OTasione era di mirto , c non d i alloro ; eosì Plutarco , e Plinio , e Fasto , e Gelilo.

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si fosse nella battaglia ; n« ebbe iaferlore la gloria per causa del primo suo iallo, inonorato e grave, ijuando nella sua scorreria, perdè tante truppe, non restando­vi , per poco prigioniero egli stesso , con gli altri fug-

gitivi.‘ XLVIIL Infermatosi , mori nel consolato di questi Publio Valerio detto Poplicola, il più insigne allora dei Romani per le tante sue doti. Nè bisogna, avendo io ciò fatto in principio di questo lib ro , che io qui tau- raeri le imprese che rendono un tal uomo degno di ammirazione e di ricordanza. Solamente non vo' preter­mettere ciocché forma in quest' uomo il più sublime degli encomj di cui non ancora abbiamo ragionato. Io penso che chi tesse una storia debba descrivere ne'grandi capitani non pure le azioni militari e le civili, se ne idearono e fecero alcuna bella e salutevole ai popoli loro, ma le maniere ancora del'vivere se furono ca- stigate e savie, e spiranti sempre i costumi ed i genj della patria. Or quest' uomo che era l 'uno de' primi quattro patrizi che avea tolto i monarchi , e ne avea compartito i beni al popq}o, questo che per quattro volte era stato console , ed avea vinto e trionfato in due guerre grandissime, la prima contro i T irren i, la se­conda contro i Sabini ; quest' uomo con occasioni tali di arricchire, quali niuno avrebbe mai condannate co­me ingiuste e vituperose, non soggiacque alla passion del danaro, la quale tutti doma e riduce ad avvilirsi: ma contenutosi tra' piccioli averi suoi erediUrj visse una vita frugale , contenta, e superiore ai desiderj, educando col picciolo patrimonio figli degni della origine, e di-

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mostrando a tu tti, che il ricco non è già il gran pos­sessore , ma t uomo de’ pochi bisogni. E limpido $ in­dubitato argomento de' tenui desiderj di quest' uomo fu la povertà che in lui si conobbe dopo morte. Imperoc- cUè non lasciò ne' suoi beni nemmen quanto bastava al trasporto ed alla sepoltura che a lui conveniva ; tanto' che n congiunti suoi lo avrebbero, certo non senza mancanza, fuori della città trasporUto , e bruciato , e sepolto, come un altro qualunque. Ma risapendo,il Senato quanta fosse la tenuità delle cose loro de­cretò che gli si facessero a pubbliche spese i funebri onori : anzi destinò un luogo in città sotto Velia presso al Foro ove fu bruciato e sepcJto, egli l’ unico fino al mio tempo di tutti i grand’uomini (i). E si concedette questo luogo come sacro anche ai posteri suoi perchè vi si tumulassero: onore certamente più grande di tutte le ricchezze e li regni, se valutinsi i beni dall' onestà, non dai vili piaceri. Cosi Valerio Poplicola che non avea per sè cercato se non le cose necessarie alla vita, fu dalla sua repubblica onoi'ato, come- i re doviziosis-^ 8Ìmi, con magnifici funerali. E le donne romane lo ac­compagnarono tutte come aveano Bruto accompagnato, lasciata la porpora e 1’ oro ; e gli fecero lutto per un anno, come per la tenera cura il farebbero de’ con­giunti.

XLXIX. Dopo quest' anno furono creati consoli Spu­rio Cassio detto Yiscellino, ed Opitore Verginio Tri-

(i) Cinerone 1. 3 . de legiius , e PluUreo nelle cose Romane dice ■111 quest' onore fu coucèduio aacota a Fabbriiio.

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costò (i). Sarse allora la guerra co'Sabini ; ma Spurioil console la disfece con battaglia non tenue presso 1* a- bitato de’ Cureti; morendo in essa circa dieci mila tre­cento nemici, e restandone prigionieri poco meno di quattromila. Battuti da quest' uUimo colpo i Sabini spe­dirono ambasciadori al console per trattare la pace : rimessi da Cassio al Senato , e portatisi In Roma, a stento , dopo molte preghiere, ottennero conciliazione e pace, col dare all’ esercito il frumento ordinato da Cassio, ed un tanto a testa in argento , e dieci mila, jugerì di culti terreni. Spurio Cassio trionfò di tal guer-, ra : ma Virginio l ' altro console marciò, senza dire ove andasse , con metà dell' esercito contro que' di Came- rinà , città spiccausi appunto In tal guerra dalla con- federazlon dei Romani, e compiè tra la notte il viaggio per coglierli improvidi, nè premuniti, come addivenne. Imperòccbè sul far del glorao sen trovò da presso le mura occulto a tutti ; e prima che mettere il campo, avanzò gli arieti e le scale, e vi fece ogni maniera di assedio. Stupefatti li Camerinesi dalla repentina venuta di lui voleano chi aprire le porte, e ricevere il console, e chi resistergli con tutte le forze nè permettere l’ in­gresso a' nemici. Intanto però che si scindeano e tur* bavansi , colui spezzate le porte, e saliti colle scale i men alti de’ propugnacoli, si mise a forza nella città. Quel giorno e la notte concedè che li soldati predasser le robe e portasserle a ' suoi: nel giorno seguente però

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( i ) Aa. di Koma a5a tecondo Catone] a54 secondo Varrone, e fico ayanti Cristo.

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fatti riunire tutti i prigionieri in un luogo, uccisevi quanti aveano consigliata la ribellione, vendè gli a ltri, e ne distrusse infine la patria.

L. Nella olimpiade settantesima, in cui Nicia Lo- crese di Opunto vinse nello stadio, essendo Miro 1' ar­conte di Atene , presero la dignità consolm Postumo Cominio e Tito Larzio (i). E sotto la lor presidenza le città de' Latini si levarono dall' amicizia de' Romani, percbè Ottavio Mamilio il genero di Tarquinio, indusse i prìmarj di ciascuna di esse , parte colle promesse, e parte colle pr^hiere a cooperare il ritorno degli esuK. Adunaronsi e fecero congresso comune in Ferentino, mancandone i deputati soli di Roma, perchè non invi­tatavi , come solcasi. Doveano colà decidere co' voti la guerra , scegliere i capitani, e consultarsi per altre prov­videnze. M a, perciocché di quel tempo alcuni mandati dai polenti, davano il guasto ai confini, assai danneg­

giandovi gli agricoltori; Roma avea diretto Marco Va­lerio uom consolare, quale ambasciadore alle città li­mitrofe , perchè le supplicasse a non far muUmenti. Or come costui seppe che teneasi 1' adunanza ove le città darebbero tutte il voto su la guerra ; vennevi, e chiesta da’ piesidenti la parola, disse : cV egli era mandato dalla Patria alle città dalle quali uscivasi per le pre­de , a chiedere che , trovati, le si consegnassero i colpevoli per castigarli, secondo gli accordi delle al­leanze: del resto egli aveale a scongiurare che prov\>e-

l 6 6 DELLE a n t ic h it à ’ ROMANE

(i) An. di Roma a53 «econdo Catone , a55. secondo Varrone ,• 499 avanti Cristo.

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dessero perchè niuna mancanza si rendesse pubblica, onde i vincoli non si sciogtiessero fra, loro dett ami­cizia e del sangue. Ma vedendo come tutte le città con« venÌTano sa la gaetra co* Romani, di che gli erano se­gno molte cose, e ^ e lla principalmente, dbe non «Teano convocati al congresso i soli Rotnani qnando em scritto ne' patti , che i presidenti stessi invitassero alle adonanzie comwii i popoli tutti del Lazio ; disse, che non sapeva concepire di che offesi o per quaìe oo- cusa mai li capi del concilio non vi avessero ammessa la sola RoTàa, quando convenivasi che essa la prima V intervenisse, e vi fosse richiesta del suo voto, còpte fatta già spontaneamente da’ Latini sovrana della na­zione pe’ molti, e grandi benefizj ricevutine.

LI. Allora quei della Riccia, chiesu la parola, acca» sarono i Romani come avessero, sebbene parenti, con­citato su lóro la guerra dé' T irren i, e fatto quanto era in essi, perchè questi privassero di libertà tutto il La» sio. n re Tarquinio rinnovando i patti di amicizia e di alleanza col comune delle città > insisteva perchè gli os« servasséro e riponesserlo in trono : i profughi di Carne* rina e di Fidene deplorando chi la presa della patria y e r esilio loro , v chi la distruzione di questa, e la schiavitù del suo popolo , animavano all’armi. Finalmente sorgendo Mamilio il genero di Tarcpinio, e potentis^ simo allora infra tutti i Latini, fece una lunga lamen* tanza su Roma. Giustificavala Valerio contro tutti, tal-> chè pareane vincitore: cosi quelli consumarono il giorno in accuse e discolpe , senza dare alcun fine al consiglio. Nel di seguente i presidenti dell’ assemblea non più vi

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l 6 8 D ELLE ANTICHITÀ* ROMANE

amisero gli ambasciadori di Roma e lasciarono che par* lasserò ' Tarquinio, Mamillo , gli Aricini, e chiunque davasi per accusatore di quella, finché uditili tutti, ten-> tenziarono essere stata I' alleanza rotta dai Romani ; fecero intendere a Valerio che col suo tempo discute^ rebbero come aveano a vendicarsi di loro che aveano i diritti calpes,tati del sangue. In mezzo a Uili vicende congiurarono molti servi d'invadere i luoghi rìgnarde» voli di Roma, e d ' incendiarla in piii parti. Se non che datone indizio da’ complici, ne furono ben tosto chiuse le porte dai consoli, e preoccupati i siti forti dai ca­valieri. Allora quanti erano denunziati partecipi della congiura presi immantinente tra i domestici, o portali dalla campagna , perirono tu tti, battuti, tormentati, crocifissi. E tali sono le cosé operate in quel con­solato.

LIL Sottentrati a tal dignità Servio Sulpizio Came­rino , e Manio Tullio Longo ( i ) , alcuni di Fidene con« vocando de' soldati dal popolo de' Tàrqniniesi occupa­rono il castello di essa, e parte uccidendo, parte esi­liando quelli che si opponevano , ribellarono di nuovo Fidene ai Romani. Venutivi degli ambasciadori da Ro­ma, erano per malmenarli come nemici: ma contenutine da’ seniori, gli esclusero da^a città senza udir nè ri­spondere. Il Senato quando £eppe tali cose non voleva ancor far guerra co’ Latini, perchè aveva udito che uou a tutti piaceano le risoluzioni del congresso, che i po>

( i) An. di Roma a54 secondo Catone, a56 secondo Varrone, • 498 «Tallii Cristo.

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poli in ogni città vi si ricusavano , e per<^ certo di' ceansi più quelli che voleano mantenere 1' alleanza, che gli altri i quali sciogliere la voleano. Pertanto decretò che Manio un de' consoli marciasse con armata poderosa contro Fidene: e questi, depredatane impunissimamente la campagna senza che ninno gli si opponesse, ne andò -coll' esercito fln sotto le mura, e provvide che non più vettovaglie vi s'introducessero, nè arm i, nè soccorso ninno. Ridottisi i Fidenati a . guardare le mura , spedi­rono alle città de' Latini per implorarne solleciti ajuti. Convocarono i capi di quelle un congresso comune di tutte : e datavi di bel nuovo facoltà di parlare ai Tar- quinj come agli altri che venivano dagli assediati, invi** tarono i consiglieri, cominciando da’ seniori e più c<^ spicui, a d ichiarare il lor voto, e come aveasi a far guerra ai Romani. Dicendovisi molte cose , e prima su ia guerra se dovesse ratificarsi, i più torbidi fra i con» siglierì insistevano perchè si riconducesse Tarquinio al trono, e si volasse in soccorso di Fidene. Essi miravano con questo ad ottenere cariche di comando militare, è méscersi ai grandi ailarl ; e quelli vi miravano soprat­tu tto , i quali cercavano in patria preminenza , e tiran­nide , lusingati che avrebbero ad essi ciò procacciato i Tarquinj se ricuperavano il regno. Ma i più agiati e miti ed erau questi i più accreditati nel popolo ) chie-* deano che si stesse ai patti , non si corresse ciecamenté alle armi. Respìnti quei che brigavansi per la guerra dai consiglieri di pace , persuasero all' adunanza che mandasse almeno oratori a Roma perchè la pregassero, ed esortassero a ricevere i Tarquinj e gli altri fuorusciti

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I 7 O D ELLE ANTICHITÀ ROMANE

senza pena e senza memoria d ' ingiurie : giurasse qoe-> sto , e si governasse poi di sno modo. Ritirasse però r annata da Fidene ; non potendo essi guardare con indifferenza che i parenti ed amici loro si spogliassero della patria. Ma se ricusasse far 1' una e l'altra di que> ste cose, le s'intimasse, che deciderebbonsi per la guerra. Non ignoravano costoro che Roma non pieghe- rebbesi nè all' una nè all' altra dimanda : ma cercavano pretesti decorosi onde romperla, sperando intanto di rendersi col tempo e colla buona grazia benevoli i loro contrari. Concluso questo, fissarono un anno, ai Ro­mani per deliberarsi, come a sé per apparecchiarsi: e nominati gli ambasciadorì come parve ai Tanpinj; scioU sero r adunanza.

LUI. Separatisi i Latini, ognuno per la sua patria , Mamilio e Tarquinio vedendo che i popoli propende­vano alla pace; deposero le speranze che aveano su loro come istabili in tutto. E cangiato consiglio si rivolsero a mettere in Roma stessa una guerra interna, nè pre> veduta , svegliandovi sedizione tra' ricchi e tra' poveri. Imperocché già disunita vi si e ra , nè più riguardava al ben pubblico una gran parte del popolo, quella princi­palmente del bisognosi e degli oppressi dai debiti; e ciò' appunto per gli usuraj che non usavano moderazione ne' crediti, ma fin carceravano e malmenavano i debi­tori come schiavi comperati. ' Su tale notizia spedi Tar- quinio a Roma insieme co'messaggeri latini persone noa sospette con oro. Intramettendosi questi co'poveri e coi baldanzosi, e parte dando, e parte promettendo se iviil re sen tornasse; aveano subornato moltissimi. Adun-

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qne feoesi contro de' potenti una congìara de' poveri ingenui, e de' servi malvagi, i quali stimolati dal desi»

. derio di esser liberi, e disamoratisi de' padroni perch& aveaoo punito nell’ anno antecedente i loro conservi, gl' insidiavano. Ed essendo malcreduti e sospetti , come se venutone il tempo essi pure gli assalirebbero ; con piacer^ si diedero a chi gf invitava^ Il disegno poi della congiura era tale. Doveano i capi di essa occupare in una notte senza luna i luoghi eminenti e forti della città ; gli altri poi come intenderebbero dai gridi che gitteriano , aver Ipro già preso que' siti opportuni , do« veano uccidere tra ’l sonno i proprj padroni, saccheg­giare le case doviziose, e spalancare ai tiranni le porte.

LIV. Ma la providenza celeste la quale in ogni tempo, ha salvato, e salva tuttavia Roma , fé' traspirare i di­segni al consolo Sulpizio. A lui ne diedero indizio due già propensi a Tarquinio, anzi principalissimi nella con« giura , Publio e Marco fratelli, della città di Laurento necessitati da impulso divino. Imperocché si presenta­rono loro tra 'l sonno visioni spaventevoli, minacciandoli di pena gravissima , se non si chetavano e toglievansi dall’ impresa. E già parea loro che i rei genj gl’ incal- sassero, li battessero, e sterpassero loro gli occhi, col-, mandoli di altri mali terrìbili. Dond' è «he spaventati e tremanti destaronsi, nè più poterono pel turbamento aver calma nel sonno. E su ' le prime per togliersi ai genj rei che li conculcavano , . tentarono i sagrifizj di, propiziazione co’ quali si allontanano i mali. Non traen­done però niun frutto, si rivolsero alla divinazione: e celando li disegni, perchè non eran da dirsi, cercarono

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solamente d’ialéndere se tempo fòsse da compiere cioo ohé volevano. Ma rùpondeado l'oracolo eh'essi teneano via dì delitto e di perdizione, e che se non mutavaa proposito, ne perirebbero infamissimamente; investiti dal timore che altri non li prevenisse nel portare in lace l ' arcano, lo indicarono essi medesimi al consolo che in città si trovava. Costui lodatili, con promessa grande ancora di beneficarli se il dir loro a'fatti corrispondesse;li ritenne ambedue presso di sè , tacendone con chinn> qne. Allora introdotli in Senato i deputati latini , tenuti a bada fino a quet giorno per la risposu,-disse di con» eerto co' padri; amipi, compagni i ondale^ riferite td eomun dei Latini qhe il popolo. di Roma non condi­scese prima il ritorno al tiranno su le istanze dei Tarquiniesi , nè punto appresso vi si cotnmosse in

forza dì lutti i Tirreni che ciò domandavano, e gui­dati da Porsena ci portavano la più orribile delle guerre; ma che seppe vedere i suoi campi manomessi, ed arsivi li casolari, e perfino ridursi a difendere le, soie sue mura per esser libero, e non comandalo a fare ciò ihs non vuole. D ite, che meravigliati ci sia­mo che sapendo voi ciò , siate venuti a comandarci che ricevessimo il tiranno, e ci levassimo dalt assedio di Fidene , con intimarci la guerra se ricusassimo. Cessino di opporci ornai più tali pretesti, fiacchi, im­persuasibili, di nimicizia. Nondimeno se vogliono per questo scindersi dalla nostra alleanza e fa r guerra, più non s’ indugino.

LV. Data tale risposta agli ambasciadori, ed accom^

pagnatili per significazione di onore futili della città,

I 2 DELLE ANTICHITÀ ROMANE

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poi disse ia Senato della occulu oospiranone acochò aveane appreso dai delatori : ed avutane yutoeità piena d'investigare i complici, e trovarli, e punirli, non tenne già mezzi orgogliosi e tirannici , come un altro rìdpuo a ule necessità gli adirebbe tenuti, ma si rivolse a. mezzi ragionati, salutevoli, e convenienti al governo d'allora. Imperocché non deliberò che i satelliti snoi svellessero per le case i cittadini dall' amplesso delle m o g lid e ’ figli, 'e de' padri, e li traessero a morte; considerando quanta pietà ne sarebbe tpa gli attiaenU nel distacco de'cari lor pegn i, 9 temendo che alcuni» disperatisi, corressero alle arme , e si necessitassero a( male a costo di sangue civile. Non deliberò fihe si eri-* gesserò de’tribunali contro di es^ij ; riflettendo come tutti . negherebbero, e come non avrebbero i giudici argo— menti incontrastabili, e saldi, ma semplici denunzie , q colle quali, se credeansi, dovrebbero sentenziare la Ukirte de* oittadini. Ma per sorprendere i novator» ideò tal metodo, per cui. li capi si adunassero prima spon­taneamente in un luogo, e quiudi arrestati vi fossero per argomenti indubitabili, che non lasciavano mezzo a discolpe : ideò che /osse questo luogo di unione non una solitudine, o ritiro , dove pochi osservassero, ^ convincessero; ma il Foro, talché scoperti alla presenza di tutti ne fossero in proporsene puniti, nè sorgesse i|i città turbamento né sollevazigne degli a ltri, come suole ne' castigi de’ congiurati, massimamente in tempi pericolosi.

LYI. Forse un altro, quasi poco sia bisogno ~di pre­cisione in tai cose, penserà che basti dir sommariamente

LIBRO V. 17 3

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1 ^ 4 DKLLE a n t i c h i t à ’ BOMANE

che arrestò tutti i complici de'maneggi secreti, e git accise; ma io ripuUDdo degna che ricordisi la maniera onde furono presi, ho risoluto non tralasciarla; perdoc- diè giudico che non basti all’utile di chi legge le storie conoscere il termine solo de' &lti, quando brama piut­tosto ognuno che gli si espongane le cagioni, le guise delle operazioni, i pensieri di chi praticavale, e come i Numi li fàvorissero; né gli si taciano le conseguenxe che per natura vi si congiungono. Molto pià ch'io vedo essere tali cogniuoni necessarie agli nomini di Stato , perchè abbiano degli esempj co' quali dirigersi ne* rari casi. Or questa fu la maniera ideata dal console per l'wresto de’congiurati. Chiamati i più validi de'senatori ordini che al segno convenuto occupassero in città con seguito di amiei e di parenti i luoghi forti ne'quali per avventura abiuvano : istmi poi li cavalieri a tenersi a r­mati nelle case più acconcie intorno del F o ro , e com« piere* ciocché sarebbe lor comandato. E perchè neHà presa de' cittadini i loro fautori non si elevassero, aè ci avessero interne stragi nel tumulto, scrisse al console che assediava Fidene , perchè al far delbi notte mar> ciasse col fior dell’ esercito alla volta di Roma , e lo accampasse nelle alture intorno de’ muri.

LVIL Ciò preparato; impose ai delatori che venissero circa la mesza notte nel Foro ai capi de'congiurati con i compagni loro più fidi come a ricevervi l'ordine, il posto, ed il segno, in somma come per udirvi ciascuno ciocché avrebbe egli a fare. Or ciò appunto si fece. E poiché tutti questi si furono accolti nel F oro ; imman­tinente al darsene di un segno arcano per essi, i luoghi

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forti fiirono pieni di uomini, armatici per la patria ; e r intomo del Foro fa guardato da’cavalieri, senza che via vi lasciassero per chi volea ritirarsene. Intanto Manio l'altro console si presentò coll’ armata in campo Marzo. Nato appena il giorno i consoli, ciati da uomini di arm e, recaronsi ai tribunali, e fecero che i banditori invitassero pe'quadrivi il popolo a parlamento. Concorsa la moltitudine, le rivelano il maneggio sul ritorno d d tiranno, e le presentano i delatori. Quindi concedendo che si difendesse chiunque volea per ambigua 1' accusa, nè volgendosi pur uno a respingerla ; passarono dal Foro in Senato per chiedervene la sentenza dai padri : e presa e scrittavela; tornati al popolo gliela pubblica­rono, e tale ne era il tenore. Si desse ai due denun- ziatori la cittadinanza, e dieci mila dramme di ar­gento a testa, e venti jttgeri de terreni del pubblico; e se così ne paresse al popolo si prendessero i com­plici della congiura, e si uccidessero. E ratificando il popolo qud decreto, ordinarono che usòssero dal Foro quanti vi erano per 1' adunanza : e chiamati i littori colle arm e, intimarono che dessero morte a tutti li congiurati : e quelli, circondandoli ; appunto ov' eran già chiusi, trucidarono li colpevoli. Uccisi questi, non che ammettere le incolpazioni su degli altri partecipi , n6 assolvettero qualunque era salvo ancora dal supplì­zio ; e ciò per togliere ogni turbolenza da Roma. Cosi finirono quei che aveano macchinata la congiura. Ap­presso il Senato ordinò che tutti si purificassero per essere stati ridotti a sentenziare la morte de'concittadini : nè concedersi loro d’ intervenire alle sante cose ed ai

I.IBIIO V.

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1 7 6 DEL L E a n t i c h i t à ’' ROMAJHE

sagrifizj, prima di essecne reoduti mondi e temi coll» ecpiazioni consuete. E poiché da quei che dirigono le cose divine, a norma delle leggi della patria fii com­piuto quanto ricercavasi per santificarli , decretò che in rendimento di grazie si facessero sagrificj e giuochi agonali per tre giorni. In questi giuochi sacri e deno­minati di Roma Manio Tullio 1' uno de' consoli caduto tra la pompa dal carro sacro nel circo, ne mori da indi a tre giorni : e perchè poco rimaneva dell’ an> Bo, Sulpizio tenne in questo tempo il consolato senza collega.

LVIII. Furono designati consoli per l'anno seguente Publio Yeturio , e Publio Ebuzio Elva (i). E di questi Ebuzio fu incaricato delle cose politiche le quali sem­bravano abbisognare di cure non tenui, perchè i poveri non &cesservi mutamento. Yeturio poi menando seco metà dell' esercito, devastò le campagne de' FidenatI senza che ninno gli osusse : e postosi all' assedio della città, davale assalti continui. Ma non polendola espu­gnare con questi, la cinse di vallo intorno e di fosse per sottometterla colla fame. E già ne erai#g!i abit&nti nelle angustie, quando venne un soccorso di Latini spedito da Sesto Tarquinio, e grano, ed arme, ed altre cose utili per la guerra. Cosi ringagliarditi osarono uscire dalla città con forze non piccole , e mettersi in campo aperto. Allora non più giovò pe' Romani la cir­convallazione ; ma parve che vi bisognasse una battaglia. Diedesi questa vicino alla città ; pendendone qualche

( 1) Ad. di Roma aSS seconde Catone , 367 secondo Varrone , « 497 av. Cristo.

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tempo dopo l’ esito incerto. InGne, quantunque più co­piosi di num ero, soprafTatti i Fidenati dalla fermezisa Romana ne' travagli, acquisUta col molto esercizio, fu* rono ridotti alla fuga. Non fu la strage loro copiosa, per essersi tra non molto ritornati in città mentre gli altri respingevano dalle mura chi gl' incalzava. Dissipa­tesi dopo ciò le truppe auslliarie sen partirono senza avere punto giovato gli assediati ; e la città ricadde ne' mali e nella penuria di prima. Intanto Sesto T ar- qninio marciò con un armata Latina sopra di Segni do* minata da’ Romani come per occuparla a prim' impeto. Ma resistendogli da entro generosissimamente, tentò di stringerli ad abbandonarla almeno per la fame. Se non che spesovi gran tempo senza opera ninna degna di ri­cordanza , e giunte vettovaglie e rinforzi dal canto dei consoli ; ne perdé la speranza : e ritirandone l 'armata, ne sciolse l'assedio.

liIX . Nell’ anno seguente i Romani elessero consoli Tito Largio Flavo e Quinto delio Siedo, de lio , dolce per indole e popolare, fu messo dal Senato con metà dell'armata su le cose politiche per vegliare contro dei novatori: Largio ordinate milizie e stromenti da impren­der gli assedj, partì per la guerra co'Fidenati (i). E spossatili colla diuturnità dell' assedio, e col disagio di ogni cosa, desolavali ognora p iù , minando i m uri, er­gendo terrapieni, avvicinando macchine, nè lasciando di e notte di stringerli, tonto che sen prometteva in breve

(i) An. di Roma a56 Mcondo Catone, j5 8 secondo Varrou» , • 496 avanti Cristo.

m O S I G I , tomo I I . i>

LIBRO V. 1 7 7

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di espugnarli. Né le città Latine, su le quali contando i Fidenati trovavansi in guerra , potevano ornai più sal­varli. Imperocché niuna città bastava sola da aè per li> berarli dall' assedio: nè le furze comuni di tutte si erano riunite ancora : ma li capi delle città Latine a' frequenti messaggi de’ Fidenati rispondeano sempre di un modo , cioè che presto giungerebbe loro il soccorso: non però mai uiun fatto moveasi proato su le promesse, nè le speranze scintillavano più in là delle parole. Nondimeno i Fidenati non diffidavano in tutto de'Latini: ma per­sistevano su la espettazione di essi alfronte di tutti i mali, soprattutto della fame, la quale facea senza com­battere strazio grande degli uomini. Spedirono, è vero, alfine come stanchi da’ mali a chiedere al console tregua di un numero certo di giorni per deliberare, intanto su la pace co' Romani, e sui modi onde riordinarla. In realtà però ciò non chiedeano per deliberare, ma per fornirsi di compagni di arme, come alcuni diser­tati di fresco da essi indicarono , giacché nella notte innanzi aveano spedito i cittadini loro più cospicui , e più validi tra’ Latini, perchè iu forma di oratori sup­plicassero quel popolo.

LX. Largio, ciò saputo , ingiunse agli ora tori che deponessero le armi e spalancassero le porte, e poi fa- veliasser di tregua : iu altro modo non pace, non armi­stizio , non moderazione, non umanità presumessero dai Romani. Frattanto provvide che gli ambasciadori deputali ai Latini non rientrassero in città ; preoccupando eoa guardie rigorosissime le vie che vi couducevano. Tal che diffidatisi gli assediati di un ajuto qualunque degli

I ' j 8 DELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE

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aUeati v videro astretti a pregar veramente riaimico. E FÌanidsi, oondiiusero di aofTrire la pace, comuaque il vincitore (a desse. Altronde il console ( tanto i costami de' capitani di que' «empi respiravanoi 1’ ataor della pa­tria , e tanto erano lontani dalle maniere tiranniche che pochi san fuggire <le' capitani presenti, invaniti dal co­mando I ) il console sebbene prendesse la città niente vi permutò di voler suo : ma fattala deporre le arm i, e presidiatala, conducendosi a Roma e convocando il Se> nato , lasciò che esso ne deliberasse. Lieti i Padri del rispetto del valentuomo verao loro dichiararono che i pili nobili di Fidene secondo che il console li giudi» casse capi della' ribellione, si battessero colle verghé, el i decapitassero : sa gli alui poi disponesse egli stesso come ^ien parrebbe. Largio divenuto 1' arbitro di tutù «parse in vista del pubblico il sangue, e confiscò li beui di alcuni pochi accasati dal partito contrario: ma con» cedé che gli altri ritenessero la patria e le robe lo ro , e solamente ne dimezzò le campagne, poi dispensale a sorte tra' Romani lasciati in guardia della fortezza. Alfine dopo ciò riconduce in casa 1* esercito,

LXL Risaputasi fra'Latini la espugnazione di Fidene, ogni città ne fu sospesa e tremante , e mal soddisfatta de' capi suoi ; come tradito avessero li confederati, fattosi consiglio in Ferentino, quei che persuadevano la guerra, assai vi accusarono gli altri che la dissuadevano^ Erano de'primi Tarquinio, e Mamilio il genero di lui e li capi tra gli Arìcini. Rapiti dal dir loro, quanti eranoi Latini, vollero generalmente la guerra contro de' Ro« m ani, e diedero scambievole giuramento, che niuua

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l 8 o DELL® a n t i c h i t à ’ ROMAN®

città tradirebbe il cornane, nè farebbe pace senza fl consenso delle altre decretando: che qualunque non servasse i patti decadesse dalla lega alla esecrazione e nitnicizia di tutti. Sottoscrissero e giurarono questi patti ì deputati degli Ardeati, degli A ricini, dei Boialani, dei Bubentani, dei Coresi, dei Corvenuni, dei G abj, dei Lavrentini, de' Laviniesi, dei Labiniani, de' Labi> cani, de' Nomentani, de' Moreani, de' Prenestini, de' Pedani, dei Querquetulani , de' Satricesi, de' Scap- tln i, de' Sezzesi , de' Tellini, de’ Tiburtini, de' Tt»> tscolani, de' Tolerini, de' T rienn i, de' Velitemi (i). Dovéansi scegliere tra gl' idonei alle arm i, tanti in ogni città quanti ne parrebbono ad Ottavio Mamilio e Sesto Tarquinio, i quali erano generalissimi nominati. E per giustificare ancor più li titoli della fguerra spedirono a Roma da ogni città li personaggi più insigni come ora­tori. Venuti -questi in Senato dissero : che quei della jRiecia si richiamavan di Roma, perchè quando i Tir­reni mossero contro loro la guerra, essa non solo ^ie’ a-primi libero il passo per le sue terre, ma li coadjuvò su quanto era cC uopo, ricoverandoli mentre poi ne fila va n o e salvandoli tutti, inermi e feriti : eppure non ignorava che quelli portavano guerra al corpo tutto della nazione : e che se avessero domato

(t) Dionigi nel numerare qaesti popoli siegae l’ ordine dell’ alfa­beto latino e non del greco : del resto numera a4 popoli quando u a tal Bruto nel lib. V I. di quest'opera § 74 ^iee che furono trenta i popoli latini concorsi a tal guerra. DoTrebbero dunque additarsene altri sei. Nel codice Vaticano si numerano ancora i Tolerini che noi abbiamo ugualmente allegati nel testo. La nomenclatura per quanto^ sia stata emendata non par libera ancora da ogni storpiatura.

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la Riccia; niente più. gli avrebbe impediti, sicché nón soggiogassero le altre città. Pertanto annunziavano che se Roma voleva dame cojito a quei della Riccia nel tribunale comune de’ Latini, e rimettervisi al,giu­dizio di tutti, non avrebbon essi cagioni di guerra. Ma se tenendosi aU alterigia sua consueta ricusava qffaóo condiscendere sul giusto e 5u t onesto inverso .de* confederati ; minacciavano che ì Latini tutti le moverebbero con tutte le forze la guerra.

LXII. A tale invito il Senato alieno di fare cogli Ari* cini una causa dov' essi giudicherebbero, e dove preve­deva che i nemici non sentenzierebbero di questo sola­mente , ma vi aggiungerebbero ordinazioni : ancora più gravi, decise che accettava la guerra. Argomentava dal valore e dalla sperienza de' suoi tra le arme che Roma non incorrerebbe in danno niuno; apprendendo però la moltitudine de' nemici, sollecitò più volte con ambascia­tori le città vicine per confederarsele ; se non che spe­divano i Latini ancora nelle stesse città legazioni che

-accusassero a lungo Roma, e la contrariassero. Gli Er^ nici adunati a consiglio di stato diedero all' una e al- r altra ambasceria risposte sospette nè salutevoli, dicendo «he per ora non si vincolavano con alcuno; ma voleano posatamente discutere qual de’popoli seguisse causa più giusta, e prendeansi per discuterne un anno t Rutoli in contrario promisero senza arcano mandate soccorsi ai Latini : ma dissero che se Roma volea deporre le^ini^ micizie > essi mansuefarebbono i Latini, e ne concilie- rebbono gli accordi. Risposero i Volsci che si stupivano 'della impudenza de'Romani j perciocché sapendo essi

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quante volle gli avessero offesi, e come , spogliatili in ultimo del pià bel tratto della loro campagna , sei te» Dessero, avean ouo^e in tanto argomento di odio d'in* viurli a far causa con essi: 'restituissero, dicevano, que sta campagna ; e poi chiedessero ciocché dovevasi dagli amici. I Tirreni teneansi in disparte da ambedue perchè, diceano di avere co’Romani lega recente, e co 'Tar- quinj antica amicizia e parentado. Non si abbatterono ^ r tali risposte i Romani-, come sogliono quelli che presa a fare una guerra ardua , perdono ogni speranza negli alleati : ma contando solamente sulle forze loro si misero baldanzosissimi alla gaia, come valentuomini sospinti ai pericoli dalla necessità : molto più che se faceano secondo il disegno e davano buon fine alla guerra , non avrebbero - divisa con altri la gloria. Tale era in essi il coraggio e 1’ ardore per le Unte bat­taglie !

LXIIL Ma datisi ad apparecchiare la guerra e scri­vere le milizie, caddero in grande incertezza, non pre­sentando tutti la energia stessa per intraprendere. Impe­rocché li poveri , quelli principalmente ( ed eran tanti di numero ! ) che non poteano redimere i debiu , chia­mati alle arme non ubbidirono, e negavano far causa per impresa alcuna co' patrizj, se non rimetteasi ad essi con pubblico decreto ogni debito : anzi taluni protesta­vano di abbandonare anche Roma , e si esortavano a non bramar più di vivere in una citii la quale non co­municava con essi alcun bene. Tentarono i patrizj di ammonirli e dislogliei li ; ma poiché per quanto ammo- nisserli, niente li raddolcivano ; congregatisi, cercarono

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mezzi conrenienti a spegnere quella turbolenza. I più dolci per indole , e più sobbr) di possidenza consiglia­vano che si condonasse a' poveri il debito, e se ne comperasse a picciolo mercato la benevolenza , che uti­lissima riuscirebbe ai privati ed al pubblico.

LXIV. Sostenen tal sentenza Marco Valerio 6 glio di Marco e fratello insieme di Poblio Valerio ; io dico di quel Publio Valerio il quale fu 1' uno dei distruttori della tirannide, e fu soprannominato Poplicola per la benevolenza sua verso del popolo. Costui chiamavali a riflettere che ben suole accendersi ardore eguale d 'im ­prendere in chi dee per beni eguali combattere : ma che non mai sorge alle grandi idee chi non è per goderne alcun utile : aggiungeva che irritati i poveri circolavano pel Foro dicendo : E che rileva mai che vinciamo i nemici d i fu o r i, se poi nelle mani ci tro­viamo de’ creditori ? E se noi che avremo fondalo la signoria della patria, noi non saremo pur liberi delle persone ? Dimostrava che se il popolo inimicava^i col Senato , correasi rischio non solo che abbandonasse Roma tra’ pericoli, il che dovea precludersi da chi cercava la salvezza comune ; ma ( ciocché era pià terribile ) che sedotto dalle lusinghe de tiranni im-, pugnasse le armi contro de’patrizj, e restituisse Tar- quinio sul trono : ancora tutto starsi in parole e mi­nacce ; nè essere il popolo scorso ad opera niuna scellerata : gli esortava a pi-evenii lu , riguadagnando con tale beneficenza il popolo per intraprendere : non. verrebbero già essi i primi a tale determinazione , o ìie sarebbero perciò coperti di obbrobrio, quaudo

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poteàno dimostrare ben altri, ridetti a'ciò fare con circostanze ancor pià dure, senz’ altri mezzi onde ri­pararvi: potere la necessità pià che gli uomini, e cercarsi il decoro quando già si ha la salvezza.

LXY. E qui allegando molti esempj di molte città propose infine la città di A tene, famosissima allora per sapienza, la quale non già molto addietro , ma in tempo de’ loro padri avea decretato per suggeri­mento di Solone la condonazione dei debiti a tuUi i poveri, senza che niuno allora lei di ciò rimprovè- rasse, o ne chiamasse malvagio il consigliero, e adu­latore del popolo ; anzi con esserne riconosciuta pe^ savia la città che fu docile, e per pià savio ancora,, chi ve la indusse. Chi poi, chi se abbia mente, ri­prenderà li Romani, se nel pericolo non di un pic­colo male ma di essere di nuovo sotto V unghie di un barbaro , di un tiranno pià fiero di ogni fiera , procurino fa r de’ poveri non già tanti nemici, ma tanti che combattano per la patria ? E qui finiti gli esempj forestieri si rivolse ai domestici ; commemorando le necessità dalle quali furono essi poco innanzi premub', vale a dire come esserlo invasa la loro campagna dai Tirreni, ed essi ridotti a difender le mura, non la fecero già da impazzati e da uomini intenti a nìorire , ma cederono alle circostanze imperiose, e presa la necessità per maestra di ciò che gteii'ava , sostennero ciò che non aveano prima sos^^gtto, che si. dessero al re Por sena per ostaggi i giovani pià cospicui ; che fossero multati in parte del territorio cioè. Je'Settepagi, t quali eransi dati ai Tirreni, e

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che si rimettesse al nemico il giudizio su le rimo­stranze del tiranno, somministrando essi intanto ar­me , vettovaglie e quanto bisognava per la cesstizipn della guerra. Dimostrava con tali esempj non esser r opera di una prudenza medesima condiscendere ai nemici su quanto dimandano, e poi rendersi per pic­ciolo disparere nemici li cittadini, quelli appunto , che si erano segnalati in tante guerre e sì luminose per U principio quando i re comandavano , quelli eh’ eran stati si pronti per esimere la patria dai ti-, ranni, e che, poverissimi come sono, sarebbero an­cora più. pronti se vi s’ invitassero, per altre nobilis­sime imprese, esponendo senza risparmio ai pericoli la persona, unico bene che ad essi rimane. Insisteva che sebbene questi non osavano per la verecondia dire, o vantare nulla <fi ciò ; doveano i patrisj stessi averne il giusto riguardo, e contentarli ben tosto ad uno ad uno o in corpo su quanto penuriar li vede­vano. JUflettessero che ben era orgogliosissima cosa non condonare i debiti a quelli a quali dimandavano la vita ; ed essi che si gloriano fa r guerra per. la libertà, toglierla a quelli appunto che 1’ han coope­rata , e senza: poter loro opporre altra cosa che la povertà, la qual dee compatirsi, non odiarsi.

LXYI. Cosi dicea Yalerio, e molti ne lo encomia­rono : quando invitato secondo il posto Appio Claudio Sabino £ ^ s l innanzi , e disse in contrario : che quan­tunque si abrogassero i debiti, non si torrebbe di città la sedizione, ma stenderebbesi anzi questa ( doc- ehè era pià terribile ) da' poveri fino a’ ricchi. Impe-

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rocchè ben vedeasi da tutti, che quelli che sarebbero spogliati de’crediti loro , se ne sdegnerebbero, essendo cittadini riguardevoli, già stati in tutte le guerre di Roma, ed impazienti che si compartisse a più, tristi e più. inetti del popolo ciocché aveano ereditato dai padri, e colla industria vantaggiato, e colla parsi­monia. Ben essere stolidissima cosa favorire la classe men buona de’ cittadini col disprezzo della migliore : e dispensare le altrui sostanze ai più rei col toglierle come per confisca ai giusti che le possiedono. Riflet­tessero , pregava , che non sono le città dislruUe dai poveri, da quelli che non han fo rza , e che la forza contiene, ma dai ricchi, e capaci del maneggio pub­blico , se frovansi oltraggiali, e defraudati del giusto. Ma sia, che chi gli ha prestati, e rimansi privo de suoi danari non sen rammarichi, sia che sopporli in pace come senza risentimento il suo danno ; nemmen così, dicea cite v'era t utile e salvezza loro a fare a poveri una concessione, onde il viver sociale si aliena, e si odia , e rifiniscesi delle cose necessarie, senza le quali le città non si abitano ; non più gli agricoltóri semi^ nando e piantando, nè più li negozianti navigando e trasmutando oltremare le merci, nè più facendo i pà­peri Uu>oro alcuno : giaccìiè per tali cose, bisognan­dovi , niun più de' ricchi porgerebbe danaro ; e con ciò la ricchezza se ne odierebbe , e ne rovinerebbe la industria; e migliore ne sarebbe la condizione dei dissipatori , che de' sobbrj , migliore quella degli in­giusti che de’ giusti , e migliore infine quella di chi f altrui manomette , che di chi serba il suo. Esser

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queste le cause ohe produceno nelle città le divisioni, e le stragi implacabili, ed ogni mal vivere; per cui le città stesse, a finirla benissimo , perdono la li’- bertà y e se no ; decadono in tutto e periscono.

LXVII. Pregava soprattutto essi che aveano fondato una nuova repubblica a provvedere che non vi entrasse niuna rea pratica ; dicendo , essere necessitati che tal sia la vita de privati quali sono le forme delle città. Non esservi il peggior costume sia per le città sia per le famiglie , quanto - che ognuna vivasi a piacer suo j e che li maggiori concedano tutto ai minori sia per cattivarseli , sia per non poterli frenare : mentre gli stolti non calmansi coll’ aver ciò che bramano , ma scorrono senza fine in desiderj sempre maggiori, nel che singolarmente manca la plebe. Imperocché quello che ciascuno vergognasi o teme di fa r solo , quello più prontamente fossi in comune, V uno preni- dendo forza dalV altro nella somiglianza de' voleri. Dicea che insaziabili, illimitati sono gli appetiti della moltitudine ceca : che si debbono urtare in sul na^ scere quando sono ancor deboli, e non quando già validi e grandi non piìi si posson reprimere : impe­rocché gli uomini assai piU s’inaspriscono se privansi delle cose già concedute che se non ottengono quelle che sperano. E qui molto vaieasi degli esempj, venendo a' (atti delle città della Grecia, quante ve ne furono, ie quali dimostratesi deboli in alcune circostanze, e piegatesi ad ammettere i principj di prave istituzioni , poi non più le poteron comprimere j nè svellere ; tanto die s’ implicarono in mali turpissimi ed incurabili : af­

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fermava che un popolo somiglia ad un individuo : che V anima di questo ci esprime il Senato, ed il corpo la moltitudine : che quando il Senato lascia che il popolo pazzo predomini ; egli tollera appunto i mali di chi Vanima al corpo sottomette, nè pià vive colla radane, ma coll’ estro delle passioni: laddove quando costumalo ad essere da lui comandato e diretto , al­lora somiglia chi suscita il corpo allo spirto, e vive eli bene, non ai piaceri. Notava che non avviene mai gran danno ad una città se i poveri comcciati che non rilasciansi loro i debiti, ricusino prendere per essa le armi ; dicendo che pochi in tutto son quelli che non hanno altra cosa che la persona, e che tali uomini nè presenti giovano, nè lontani nuocono mai l’ eser­cito prodigiosamente. Ricordava loro come quelli che meno possiedono hanno posto anche minore nelle battaglie : che sono quasi una a ^u n ta de’ legionarj, nè si schierano che per dar vista di terrore ai ne­mici ; e che per questo non portano altr arme, se non la fionda , pochissimo utile nei combattimenti.

LXVm. Quei che chiedono , dicea, che la miseria si compassioni de’ poveri ; e cercano che si ajutino gli impotenti a pagare i lor debiti, avrebbero a con­siderare ciò che ha renduto mai poveri, essi già eredi delle sostanze paterne , già confortati co’ molti spogli delle guerre, e poi con quanto riceverono dei beni confiscati del tiranno. E , se ne trovano altri dati al ventre ed a rei piaceri e con ciò dal ben essere decaduti; li guardino come vituperi e pesti, e concepiscano fondissimo t utile , se spontanei di

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città si aUontana/io ; se poi li trovati mìseri por hciagure, li sóccorrano si ma co'' beni privati : ag> giungeva che ciò benissimo discernevano, e fareì^bero li creditori m ed esim ie né raddolcirebbero la con­dizione , mossi da impulso proprio rum da violenta altrui, perchè se • ne avesse loro la obbligazione se non dei danari j almeno quella bellissima della gra­titudine. Ma fa r beneficenza alla quale partecipino li scellerati, come li buoni, farla co’ beni altrui non co’ proprj > e farla in guisa che nemmen resti un vincolo di latitudine verso quelli che son privati dei loro danari; ciò punto non conviene colla equità dei Momani. Soprattutto ella è dura, ed intollerahile cosa pe’ Romani che vendicano il proprio impero , dare ciascuno i suoi beni che tanti stenti costarono agli a vi, darli non per voglia o persuasione, e non per la circostanza di operare t utile o il meglio della patria; ma quando questa è già presa o sta per es­serlo , e darli in fine contro il proprio sentimento a quelli che poco o niente son per giovarti, anzi dai quali sen temono gli ultimi oltraggi. Essere per loro assai meglio fa r quanto i Latini comandano come più, moderato, e sciogliersi da ogni guerra ; che ac­cordare ciocché uomini sì poco utili esigono, e togliere da Roma la buona fe d e , onoratavi per vecchia isti­tuzione con templi ed annui sagrifi^ ; e togliervelo per avere in campo de’ frombolieri.

Era il cardine di questo consiglio, che si accettassero per la guerra quanti voleanci aver p rte colle condizioni pomuni a tutti, ma si lasciassero a sestessi come inutili,

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ancorché si ammettessero, quanti presumevano far dei patti, comnnque , per cKfeoder la patria. Dieea che quando ciò saprebbono, verrebbero ed esibirebbero sè stassi obbedienti a chi delibera il bene della repub­blica ; imperocché suole chi non ha .mente, elevarsene se lo aduli, ma temperarsi, se lo intimorisei.

LXIX. Tali furono le sentenze dispuUte, direcsissime infra loro : ve n ebbero però molte ancora intermedie fra queste. Imperocché taluni dtcevano che aveansi a condonare i debili a qn^li unicamente che non posse­devano, come soggiacessero ai creditori i beni soli, e non le persone Altri consigliavano che 1' erario levasse i debiti degl’ impotenti ; perchè la pubblica beneficenza mantenesse la fedeltà de' poveri, né sen danneggiassero li creditori. Parve ad altri che chi avea perduta o già era snl perdere la libertà pe' debiti, fosse liberato, con supplire ai creditori in ior cambio la persona di altri, iàtti schiavi odia guerra. Fra tali discussioni prevalse il partito che il Senato per ora non decretasse : ma che dato buon fine alla gum-a i consoli proponessero la istanza, e facessexla discutere col voto Padri. Frafr- unto esazioni ci avessero per contratti, non per sen­tenze di giudici : tacessero tutte le altre liti ; né li tri­bunali , nè li magistrati si brigassero di altro che delle cose spettanti alla guerra. Pubblicato questo decreto di­minuì la interna turbolenza, non però la svelse in tutto. Imperocché ci avcano taluni de'mercenarj a’quali non parea sufficiente confoi'lo o speranza quel decreto, ove niente ero chiaro e definito. Or questi chiedono l’una delle due cose , o. la condonazione aUora allora dei debili, se

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voleasi cbe participassero i loro pericoli, o di non es­sere almeno illusi colle dilazioni; giacché /e idee non somigliano nell'uomo che ha bisogno, a che cessa M averlo.

LXX. In tale 8Ìtnazi'one considerando il Senato come tenere il popolo dalle ionovazioni, deliberò sospendete di pesente l'autorità ciHisolare, e di creare un magi­strato arbitro della guerra, della pace, degli ailari, as­soluto , indipendente, in quanto volesse o facesse. Da^ vansi sei mesi al corso delia nuova magistratura, e do> po i sei mesi tornerebbero i consoli a comandare; Ne­cessitavano il Senato a subire una tirannide volontaria per dare fine alla guerra col tiranno , molti riflessi , e principalmente la legge del console Valerio Poplicola, la quale come dissi di sopra,invalidava le condanne dei consoli, sicché niun Romano fosse punito prima che si difendesse, e concedeva ai rei destinati al supplizio l’ap­pello al popolo, e la immunità nella persona e nei beni avanti che il popolo ne sentenziasse ; pena la morte a chi contravvenisse. Considerava il Senato che sundo que­sta legge, i poveri non ubbidirebbero nemmen colla ioi-za, spregiando come sembra le pene, le quali non s'incorrevan sull’ atto, ma solo quando il popolo gli avesse condannati; laddove tolta la medesima dovreb- Lono irreparabilmente tutti obbedire. E perchè i poveri non si opponessero a chi facea palesemente contro tal legge; deliberò di mettere su gli affari un magistrato eguale ai tiranni, e superiore a tutte le leggi : e fece un decreto col quale deluse ( occuitaildosi ) i poveri, e

tolse la legge che era per essi lo scudo delia libertà. Por*

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tava il decreto che Largio e Clelio, allora consoli, c quanti altri vi erano magistrati o commissarj delpub^ blico , sospendessero gF incarichi loro ; e che intanto un uomo solo , scelto dal Senato, e confermato dai voti, del popolo riunisse in sè li poteri di tutti, e go­vernasse non pià che sei mesi con autorità più, grande che la consolare. Non comprese il popolo la forza del decreto del Senato, e lo ratificò; dando i principj certi di una tirannide a norma delle leggi; e concedè die i Padri, tenutone consiglio, nominassero il nuovo magi­strato.

LXXI. Quindi i capi del Senato si fecero a conside­rare lungamente e providamente il personaggio che avrd)- be a comandare. Parea loro che vi fosse necessità di nn uomo espedito negli aifiiri, piik che perito nell' arme, e savio, e temperato, sicché poi non delirasse per l'am­piezza del comando; insomma di uno il quale oltre le belle doti, quante ai buoni comandanti si convengono, sapesse presieder con fortezza, nè cedere mollemente alle istànze. Di un uomo tale appunto abbisognavasi allora.

Videro concorrere doti sif&tte quante sen chiedeano in Tito Largio, uno de' consoli ; laddove Clelio il colle­ga, uomo altronde buonissimo, non era nè attivo, nè bellicoso, nè imponente , nè temuto, ma mite troppo in punire chi non ubbidiva. Nondimeno il Senato pren- dea verecondia di levare a questo un’autorità che aveva secondo le leggi, e di concentrare nell' altro il potere di ambedue , anzi un poter più che regio. Temea per qualche maniera che Clelio riflettendovi, non si gravasse della rimozione sua, come disonorato dai Padri ; e camr

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iMBle 1« maniere del vivere , si p en e^ alla testa del popolo, e turbasse dal fondo la repubblica. Esitaodo tu tti, e gran tempo , per la verecondia di propoire ciocché ideavano, un seniore, venerabilissimo tra gli uo­mini consolari, diede, un tal suo parere, per.cui fu salvo l’onore di ambedue li consoli, scegliendo essi ap» punto il personaggio p ii acconcio al comando. Diceva j Poiché il Senato Ita risoluto, ed il popolo ha rati fi- eMo che il poter del comando si affidi ad im solo , restano ai Padri due cure non picciole : chi debba sottentrare ad una autorità pari alla monarchia, e chi possa legittimamente nominarvelo. Or egli suggeriva che r uno de’ consoli sia per cessione, sia per sorte , eleggesse il romano più idoneo, a far 1' utile e il bene della patria: giacché trovandosi allora in città magistrati sacrosanti, non vi abbisognavano gl'interré come nella monarchia, per eleggere di accordo chi succedesse al comandò.

LXXII. Applaudivano tutti al partito , quando leva­tosi un altro disse : Mi sembra o Padri che debbasi alla sentenza ingiungere: che reggendo di presente la repubblica, due valentuomini, de’, quali non trovereste i migliori , V uno debba dare la nomina , e V altro riceverla, talché scelgan essi fra loro il piii idoneo ; e t uno e V altro se ne abbia onore e soddisfazione ugucde, quello perchè sceglie nel collega il più degno, e questo perchè scelto sen trova : dolcissime e bonis- sime cose ambedue. Ben vedo che sebbene io non avessi ciò aggiunto ; pure avrebbono i consoli cosi

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praticalo} egli è meglio nondimeno che il facciano eziandio col vostro volere. Parve a tutù ciò detto a proposito , e ninno più notandovi. altra cosa, ne decre* urono. I consoli ricevuto il potere di eleggere fra loro U più idoneo al comando, fecero una mirabilisùna cosa, e ben varia dalle affesioni dell' uomo. A vicenda F uno dicea 1’ altro, e non sè , degno del comando : «osi passarono tutto quel giorno, encomiando l ' un l'altro, e insistendo ciascuno per non comandare : tanto die gli astanti in Senato ne furono in grandi per|des-> sità. Sciolto il Senato, i parenti più prossimi di cisr- seuno , e li Padri più venerabili recatisi a Largio assailo «limolarono fino a notte avanzata, dichiarandogli come il Senato poneva in esso ogni speranza , e di­cendo che le sue ritrosie volgevansi in pubblico danno: egli tuttavia ricusava , ora supplicando , ed ora contra- dicendo. Adunatoti nel prossimo giorno il Senato, mentre colui ripugnava, nè levavasi ancora dal suo pa> rere su le istanze comuni, Gelio sorge, e lo nomina, come ^'interré solevano nominare, e lascia il consolato.

LXXllI. Fu questi il primo che, solo, fu reso ar­bitro in Roma della guerra, della pace, d 'c ^ i affare, col nome di Diltalore (t) sia per la podestà di ordi­nare e dottare leggi su’ diritti e sul bene degli altri , come glien pareva e piaceva, chiamandosi da’Romani Editti gli ordmi e prescrizioni sul giusto e su l’ ingiu­sto ; sia per essere allora un tal uomo detto e dichia­rato da un solo e non dal popolo secondo i riti della

( i ) Ad. di Roma aS6 «ecendo Ottona , a5S secoado Varrone, e 4^6 lY. Cristo.

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patria, perchè cponandasse. Guardaronsi dal dare al magistrato di uua città libera un nome esecrabile « grave per rispetto di quelli che ubbidivano , sicché in odio del titolo non si coaturiiassero, e per rispetto di chi prendeva il comando , sicché nè fosse costui ofTeso dagli altri senza saperlo, uè gli offendesse egli co’modi consueti nel grande potere. £ certo il nome di dittatore BOa bene l'ampiezza ne significa del potere ; non es« sendo la dittatura ohe un Dispotismo elettivo. Sembra die i Romani ne traessero pur da’ Greci la istituzione. Imperocché gli Esimneti che chiamavansi antichissima- mente tra loro erano, come dichiara Teofrasto nel libro intorno del regno > despoti elettivi. Li creavano le citti non per tempo indefinito o perpetuò , ma nella circo- ftanza , e fin quando sembrava che giovassero loro , come li Mitilenei già scelsero Pittaco condro gli esuli, compagni di Alceo poeta.

LXXiy. Tecmero questo metodo i primi che avesino appreso per esperienza ciò che giovava. Imperocché nelle origini era ogni greca città sovraneggiata, non però dispoticamente come tra' barbari, ma secondo le leggi e le patrie consuetudini : ed un re si avea tanto più per potente quanto era più giusto , e più fido alle leggi, e men schivo de’ patrii cosuimi : c iocci s’ in­tende per Omero il qual nomioa i sovrani vindiei d>al diritto , Q delf onesto (i). Tennesi lungo tempo la si­gnoria dei re come quella de' Lacedemoni sotto fisM

( i) Mei teMo: J ta tir r tK u t, • : «ioi che t i ver-

10/10 sui giusto e su f onesto..

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costiluzioni. Ma comiociaado poi taluni di ipiesti a tia- scendere gli usati poteri, poco concedendo alle leggi e molto ai genj loro ; ne furono i popoli in tutto disgu­stati , e rovesciarono l ' autorità de' monarchi, e le toro maniere : e stabilendo leggi e creando magistrati, as­sunsero questi come custodi delle città. Ma perciocdii non bastavano nè a proteggere il giusto le le ^ i poste da essi, nè a coadjuvare le leggi li magistrati o li co- missarj che avean cura di queste ; e perciocché il tempo col volger suo mena tanta varietade ; furono astretti a fare stabilimenti non ottimi si , ma certo i più consen­tanei alle vicende che li sorprendevano o di sciagure abborrite, o di smoderate prosperità. Per le quali con- fondendosi lo stato delia città, e bisognandovi un pronto riparo ed un arbitro immediato , furono necessitati a rialzare l'autorità dei monarchi e dei re, velandone coi nomi la esistenza. Cosi li Tessali denominarono Tetrar- chi questi arbitri, e gli Spartani li chiamarono Armasti per timore d'intitolarli tiraoni o monarchi ; aggiungi che teneano per cosa scellerata rinovare poteri abattuti tra giuramenti ed esecrazioni su l ' oracolo de' numi. Quindi, come ho detto, a me sembra che i Romani prendessero da’Greci l'esempio: Licinio però crede ohe i Romani ideassero un dittatore a norma degli Albani ; scrivendo che questi, venuta meno la regia discendenza dopo la morte di Numitore e di Amuiio, eleggessero annui presidenti col potere appunto dei re, ma con ti­tolo di dittatori. Io non ho voluto esaminare onde Ro­ma derivasse il nome, ma sibbene onde pigliasse la idea deli' autorità che in tal nome si addita. Se non che

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Torse non é pregid dell’ opera che scrivasi di ciò più luogamente.

LXXV. Ora dirò brevemeate ciocché Largio il primo dittetore facesse, e con quale apparato decorasse la sua dignità ; persuadendomi che siane più utili ai lettori le materie appunto che porgono in copia esempj splendidi ed opportuni pe'legislatori, e capi de'popoli, in somma per, quauti vogliono governare e maneggiare il pubblica Imperciocché non io prendo a descrivere le istituzioni^ e li modi di una città vile e negletta, né li consigli e le pratiche di uomini ignobili e di niuna éspettazionev siciché lo studio mio su tenui e volgari cose paja ad altri frivolezza e molestia : ma di una città legislatrice di tutti, e di capitani che la sollevarono a tanto potére; cose tutte che se un amante della sapienza giunga a non ignorare; ne sarà per politico ravvisato. Investito Largio appena del suo potere dichiarò maestro de'cat- valicai Spurio Cassio, già console nella olimpiade 7 0 .* Osservavafsi tal costume da’ Romani fino a'miei giorni ', e muno mai, scelto per dittatore^ ne tenne la dignità senza maestro de'cavalieri. Quindi a rilevare la -potenza di una tal dignità, per imporre piuttosto ohe per usar­ne , ordinò che i littori marciassero per la città con fasci e scuri secondo il costume ivi proprio de’ re , tra­lasciato poscia da' c o n ili , e primieraménte da Valerio Poplicola per diminuire la odiosità del comando. Spa­ventati con questo ed altri segoi di regis» dominazione i turbolenti ed i novatori, comandò a tu ttiR om ani di a d^mpiere la migliore delle leggi di Servio Tullio, sovrano popolarissimo , cioè di assegnare per tribù li

LIBRO V. ÌQ ']

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foro beni, li nomi delie mogK e de’ figli, e la età loro e de'figli. Terminato itt breve il registro per la severità' de' castighi, perdendosi da' contravventori I beni e la cittadinanza ; si rinvennero c«nto cinquanta mila sette­cento e pià Romani adulti. Poi separando gli uòaùnf di età miliure dai provetti, e ridacendoU in centurie; li divise tutti, fanti e cavalieri in quattro parti : e ri-> tenutane una, che era la migliore, per sè, f e c e -^ Qelio già suo collega nel consolato se ne eleggesse Un altra qiJalunque tra le rimanenti : che Spurio Cassio il prefetto de’ cavalieri avesse la terza, e Spurio Largioi il fratello la quarta : la quale fu comandata trattenersi « presidiare insieme eo' vecchi la città.

LXXyi. EgK poi, com' ebbe pronto quanto biso­gnava per la guerra, menò le milizie in campo aperto; appostando tre annate ne'luoghi appunto donde sospèt* tava che i Latini uscirebbono. E considerando esser proprio de’ savj capitani fortificare le sue cose come debilitare quelle! del nemico, e terminare le guerre senza battaglie e stenti, 0 certo col minimo danno delle tnilizie ; anzi considerando che sciauratissime e luttuo­sissime pià che tutte sono le gnfen'e tra’ popoli dmici e congiunti; concludeva che si avean queste a finirs con trdtti di clemenza piuttosto che ^i rigore. Adunque spedendo occultamente persone non sospette ai più ri- gnardevoli de’ Latini, li persuase a rendere la pace alle loro città: e spedendo insieme apertamente ambasciadori ad ogni città , come alla rappresetitanza generale di tu Ite; ottenne senza difficoltà che non tiltti avessero più l’antico ardore per la guerra; alienandoli principalmente

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cogli otseqnion modi e co'beaefizj dai doci Iwe. In opposilO Mamilio e Sesto , che aveaito da' Latini noe» \’Ulo il generai oomatido, rkinite nel Tnscolo le forze « si apparecebiavano come per piombare su Roma ; M non efae spesero: so ciò gran ■ tempo o che aspettassero le città le quali tardavano, o cbe non buoni apparisi «ero loro gli augna santi. Intanto alcuni di loro spic^ caliti dall’ esèrcito devastàivaìDO la campagna romanab Lai|[io, risaputolo, spedi Gelio su loro col fiore dei cavalieri e de'.soldati leggieri: « «ostui, presenutosi inàspettataneme , gli assali., e ne vecise, imprigionan­done la più gran parte. Largio caratine li feriti, e gua­dagnatiseli con alure amorevolezce li rinviò senza ofleslio prezzo al Tnsoolo ; mandando ' riguardevoli^imi ro­mani eoa essi per ambasciadori. Or ^esti operarono che si sciogliesse l ' armata latina, e si facesse tra le città la tregua di un anno.

LXXVII. Largio, ciò fatto, ricoiidusse l 'andata dalla campagna; e designando i ctinsoli depose prima che ne spirasse il tempo la dittatura senz* avere ucciso, o ban­dito , o ridotto comunque a gravi mali un romano. Cominciato l ' invidiabile esempio da un tal uomo si mantenne in quanti ottennero poi quella dignità fino aUa terza generazione prima della mia. Imperocché la storia fino a quest' epoca non presenta ninno il quale non esercilasse/queUa dignità moderatamente e qual cit> tadino, quantunque Roma fosse astretta più volte a sospendere le magistrature ordinarie, e concentrare tutto neUe inani di un solo. E non sarebbe gran meraviglia se personaggi otlimi deila patria pigliando la dittatura

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soiamente nelle guerre cogli esteri si fossero tenuti in­corrotti neHa grandezza del potere: ma piglianclola neUe' sedizioni interne, grandi e molle, per togliere i sospetti di regni e tirannidi rinascenti', o per altra sciagura , tutti, quanti la ottennero’, consei^aron sestessi imma­colati, e simili al primo dei dittatóri. Tanto che tutti UDanimemente conclusero cbe la dittatura era 1’ unico rimedio contro de' mali intratubili, e 1’ ultima speranza di salute quando sparse sono le altre speranze dalla procella. Quattrocento anni però dopo la ditutura di Tito Largio, a memoria de'Padri nostri parve tal carica biasimevole ed esecranda per Lucio Cornelio Siila che primo ne abusò, vendicativo e fiero: talché li Romani allora sentirono a prova, ciocché aveano' prima igno­rato , che la signoria de'dittatori non era se ìion tiran­nide : imperocché costui ordinò un Senato di uomini comunque , infiacchì 1’ autorità del tribunato , devastò città intere, distrasse e creò regni , ed altre cose fece e disfece dispoticamente, le quali lungo sarebbe a rac> contare. Oltre i cittadini uccisi in battaglia, ne trucidò nemmeno di quaranta mila , datisi a lui prigionieri, dopo averne prima tormentati alcuni. Non é questo il tempo di discutere se egli fé'ciò necessitato o per utile del comune : solamente ho voluto dimostrare che ne divenne abominato e spaventevole il nome di ditutore: ciocché pur succede ad altre cosCi ammirate e disputate dagli uomini, non che alle sole dominaàoni: perciocché tutte le cose appariscono belle e giovevoli se bene si adoperino, come dannevoli e turpi se mal si dirigano; di che ne è causa la natura che in tutti i beni ha

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D ELLE ANTICHITÀ ROMANE LIBRO V . 2 0 1

sparso i germi del male : se non cbe. di tali cose di­remo altrove più propriamente. L’ anno prossimo a questo nella olimpiade 7 1 . nella quale vinse allo stadio Tisicrate Crotoniate, e»endo Ipparco V arconte di Ate­ne , presero il consolato Aulo Sempronio Atratino e Marco Minutio.

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D E L L E

ANTICHITÀ ROMANE

D I

DIONIGI ALICARNASSEO

LIBRO SESTO.

L L ANNO prossimo a questo nella olimpiade 7 1 .* nella quale vinse allo stadio Tisicrate Crotoniate essendo Ipparco arconte di Atene, presero il consolato Aulo Sempronio Atratiao e Marco Minucio (i), ma niente vi operarono degno di ricordanza , nè in città nè fra le armi : perciocché la tregua co- Latini dava loro placida calma cogli esteri, e la legge decretata dal Senato di sospendere la esazione dei prestiti , finché la guerra imminente avesse buon termine , avea sopito le som-

f i ) An. di Roma 3 6 7 secondo Catone > aSg secondo Varrone, • 4 9 5 ay. Cristo.

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mosse interne de'poveri, vogliou cbe il debito si estin­guesse did pubUioo. In qne' tempi aveva il Senato sta­bilito cbe le donne latine, quante erano , conjogate ai Romani famosi e cospicoi, e le Romane conjugate ai Latini, rimanessero se voleano co' mariti; e se no, ri- patriasseroc per modo però che la prole virile si tenesse co'padri, e la feminile, non ìsposata anidra, seguitasseio madri. Or ci avea mohissiiiie OEiaritate vicendevol­mente nelle varie città sia per amicìzia, sia pe'Ifgami dei sangue : ma non à. tosto furono per quel decreto libero di sestesse, manifestarono quanto fosse il trasporto loro di vivere in Roma. Perciocché le Romane situale nells città latine abbandonarono quasi tutte gli spoei, tor^ iiando presso de' genitori i laddove toltene due, tutte le Latine congiunte ai Romani si rimasero, non cu­rando la patria , con essi. E que^o fu benissimo au­gurio che Roma prevalerebbe fra le arme. Sotto qotsti consoli è fama che si consacrasse un tempio a Saturno nella via che mena dal Foro sul Campidoglio , e che s'istituissero a gloria del Dio fèste , e sagri6 ibi pubblici per ogni anno. Dicono che ivi prima stesse 1’ altare edificato da Ercole, e che ivi bruciassero le- primizie de' sagrifizj con greca cerimonia quei che 1’ aveano da lui ricevuta. Narrano alcuni che TitOv Largio, impren­desse la edificazione del tempio, altri che Tarquinio r espulso dal trono : come pure che Postumio Cominolo dedicasse in conformità del decreto del Senato. Così, come ho detto, si ebbe sotto questi consoli pace profonda.

II. Presero dopo questi il consolato Aulo Postumio

LIBBO VI. 2o 3

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e Tito Virginio (i). Spirata sotto di essi la tregua coi Latini ; faceami dall' una e dall’ altra parte grandi appa­recchi per la . guerra. Il complesso de' Romani era vo- lenteroso e propensissimo a combattere ; ma il più dei Latini eravi disanimato e forzato : dominando per le città .uomini quasi tutti corrotti dai doni e dalle pro­messe di Tarquinio, e di Mamilio, rimossi dalle cure pubbliche quanti faTorìvano il popolo e ripudiavan la jguerra. Cosi non più dandosi a chi la volea la facoltà di discorrere , si ridussero i più corueciati a lasciare in copia la patria, e fuggirsene in Roma. Nè.qudli che doimnavano ve gl'impedivano , ma teneansi obbligatisi simi ai competitori, deir^esiiio spontaneo. Li riceveano i Romani e compartivano tra le milizie interne, e.me* schiavano alle coorti urbane quanti ne venivano con mogli e figli, ma spedivano gli altri a'castelli : intorno e per le colonie, sopravvegliando intanto che non fa­cessero mutamenti. E consentendo tutti che bisognavaci novamente un arbitro assoluto il qual potesse ordinare a suo mòdo ogni cosa , fu nominato dittatore Aulo Postumio il console più giovine da Virginio il collega : e costui, come già 1' altro dittatore scelse per suo. maestro de'.cavalieri Tito Ebuzio Elva , e registrati in poco tempo tutti i Romani già puberi , ordinò , la mi­lizia in quattro parti, reggendone, egli 1’ una , dandone a reggere la seconda a Virginio il compagno nel con^ solato, la terza ad.Ebuzio.il maestro de'cavalieri, e

(t) An. d i Roma a58 secoado Catone, 3 6 0 secondo Varrone, • 494 avanti^ Cristo. ^

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la quarta ad Aulo Sempronio al quale affidò la cura di Roma.

III. Apparecchiate cosi da lui tutte le cose per la guerra vennero degli esploratori ed annunziarono essere già i Latini usciti con tutte le milizie ; quaiido ecco sopraggiungerne altri che diceano essere già espugnato da essi Corbione un luògo munito, passata a fil di spada la picciola guarnigione Romana che vi era, tener essi tuttavia quel castello, ed averselo costituito centro di guerra : aver fatto prigionieri per le campagne uo­mini e greggi ma pochi, non contando i sorpresi in Corbione, perchè li coltivatori aveano ricoverato già prima ai luoghi muniti più vicini quanto vi poterono trasportare, o condurre : aver però date alle fiamme le case deserte, e devastate le campagne. Narravano giunta da Anzio , Yolsca città nobilissima , ai Latini mentre erano in campo, milita nuova , ed arme, e frumento, e quanto bisognava : dond' è eh’ empiutisi questi di ar­dore vivevano con speranza bonissima, che avendone Anzio dato il principio , anche gli aluri Volsci si uni- i‘ebbero ad essi per combattere. Postumio, ciò udendo, marciò di tutta fretta prima che i nemici si concentras­sero : e conducendo tra la notte per iscorcio di vie le milizie, si trovò prossimo a' Latini accampati in sito forte presso del lago chiamato Regillo : e trincieratosi in luogo alto, scosceso, e preminente a questi, vi aspet* lava il suo meglio.

IV. I Duci Latini, Ottavio Tuscolano, genero , o •come alcuni scrivono , figlio del genero , del re Tar- quinio, e Sesto Tarquinio, accampati allora separata-

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mente, rÌGODgiunsero le armate : e convocando i tribuni militari e li centurioni, consultarono ciocché fosse da fare per la guerra; e varj ne furono i pareri. Chi vo- lea che i Latini, mentre erano ancora temuti, assalis­sero il dettatore, e quanti teneano le alture, sul riilesso che le posizioni forti «ono indizio di timore non di confidenza; e chi Tolea che si tirasse itnomo di essi voa fossa e vi si linùtasseco con poche milizie di guar- idia, e si prendessero e guidassero le ahre su Roma , iàcile ad espugnarsi per esserne uscito il fiore de' gio­vimi. In oppositQ altri antefiopeodo ai consigli più arditi i piì cauti, suggerivano che si aspettassero i soccorsi de Folsci, e degU diri alleati : U Romani niente prò- spererebbero per queU indugio, laddove essi agevole­rebbero assai più le cose loro. Se non che mentre de­liberavano ancora giunse coll' annata sua da Roma Tito >yirginio V altro console, marciato improvvisamente nella JMtte dinanzi : e prese anoh' egli campo in altra altura «ssai forte. Di modo che i Latini rimasero intracchiusi, nè più idonei ad un assalto, avendo a sinistra il con­sole e a destra il dittatore. Adunque tanto più sen con* turbarono tra quelli i capitani i quali non voleano se non partiti sicuri, e temerono che tardando si ridu­cessero a consumare le loro provvigioni, le quali non erano molte. Postumio notando quanta fosse la impe­rizia loro nel comandare spedi Tito Ebuzio maesU-o dà cavalieri col nerbo de' cavalli e de' soldati leggeri ad occupare un monte rilevantissimo in su la via , per la quale recavaast i viveri dalle loro terre ai Latini. Andò questa milizia espedita con la cavalleria, e condotta di

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«pile tra selve non frequentine; prese il monte prima che i neoiiici se ne avvedessero.

V. 1 capitani netnùci osservando invasi anche i posti forti che erano loto alle spalle , nè più avendo spe­ranze huone sul trasporto induliitato de' viveri da’ paesi loro , xleliberarono respingere i Romani dal monte prima che vi si assicurassero anoon cogli steccati. Adunque Sesto i' un d' essi presa la cavalleria vi si lanciò con impeto ; quasi la cavalleria Romana non si tenesse a ribatterlo ; ma tenendosi questa bravissimamente contro gli assalitori, Sesto durò qualche tempo ora dando voU t a , ora tornandole a fronte. Ma perciocché quel luogo riusciva opportunissimo a chi ne avea le alture , e co­stava assai travagfi e ferite a chi vi si recava dabbasso ; e percjoc(;hè giungeva, ai Romani un soccorso di milizia legionaria nvandata appresso da Postumio ; egli ritirò, non potendo altro fare, la cavalleria negli alloggiamenti. 1 Romani impadronitisi appieno del luogo, si misero a fortificarlo pubblicamente. Dopo ciò parve a Sesto e Mamilio non essere più da ' indugiare gran tempo , ma doversi decidere la sorte con una pronta battaglia : e parve allora anche al dittatore di esporvisi, quantunque avesse ne' principj ideato di dar fine alla guerra senza combattere, sperando giungere a ciò , specialmente per la imperizia de’ capitani. Imperciocché da’ cavalieri cu­stodi delle strade furono sorpresi de'messaggeri che an­davano dai Volsci a’ Latini con lettere di avviso che, indi a tre giorni al p iù , verrebbe milizia copiosa di rinforzo da loro ,, come altra dagli E>nici. Or ciò rid­dasse i duci Romatii a venire , sebbene contro il prò-

UBRO VI. 2 0 7

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posito, a pronu giornata. Datosi da ambe le parli il segao della battaglia ; si aranzarono gli uni e gli altri al campo interàiedio , e cosi vi ordinarono le armate. Sesto Tarquinio ebbe a reggere 1’ ala sinistra de' Latini, ed Ottavio Mamilio la destra. Tito 1' altro figliuolo Tarquinio comandava il centro ove erano i disertori e fuorusciti Romani. La cavalleria divisa in tre parti fu dispensata alle ale ed al centro. In opposito Tito Ebuzio ebbe l'ala sinistra de'Romani contro di Ottavio Mami- Uo, e Tito Virginio il cònsole si contrappose colla d»> stra a Sesto Tarquinio* Empiva de' genj suoi Postnmio stesso il dittatore 1' armata di mezzo, e moveala contro Tito Tarquinio, e gli esuli da Roma, I quali eran cou lui. 11 complesso delle milizie venute a combattere erano ventiquattro mila fanti e tre mila cavalieri nella' parte Romana, e quaranta mila fanti, e tre mila cavalieri nella Latina.

VI. Quando erano per andare a combattere i capitani Latini, aringando ognuno i suoi, diedero mille ecci­tamenti di coraggio, e ricordarono lungamente cioc­ché bisogna al soldato. Dall' altra parte il Romano ve­dendo che i suoi temeano come quelli che cimentavansi con gente assai più numerosa , e volendoli sollevare da quella paura, fé' radunarli, e poi tra corona di sena» tori, onorabili per anni e per credito , così concionò : Gli Dei cogli augurj, colle viuime , con ogni segno divinatorio promettono alla nostra patria la libertà, ed una propizia vittoria; contraccambiandoci della pietà verso loro , e della giustizia esercitala da noi verso gli altri in tutta la vita : per lo contrario, ini~

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LlfiRO vr. 2 0 0

mici sano , come deano , de nostri nemici, perchè, tónte voke e umto da noi beneficati, essi parenti , essi ainici nostri, essi legatisi a noi di giuramento p er avere intinto- gli amici stessi e i nemiói ; ora- spregiato ogni'vincolo, ci movono una guerra ingiustàt non per decidere qual di noi si abbia la premirtèrtzà er ii coma^tdo, ciocché sarebbe il meno de’ mali ; ma in fworr- dèi tirm ni, e per Jbìv la patria kóstta thè

■é Ubera f schiava ai Teunfoinj. Ora intendendo l'ók' ò cefituiriMi e -soldad, che militano con vói gli Dèi , tlvoUt nessi-che hanno sempre difesa ^òm a, si V* aé< che magnanimi vi ditttostHate in ijtiena tàglia ; mollo, più - Tfhè ien ' sapeiè o/ie gii Dei fà-> iKinscoHo i bratfi òomSàttimfi i quelli che qitantò -^ ■dà> laro tutto pw Mn&ew, è- non quelli che fitg^ gono i pentodi-^ ma ‘ n6lli, che li soste^igona p^r -siài vare'. sè vte^si. ln o i tr e '^ ^ jono appareciAùiti daUà sòlite idtri mézzi tù>n poòki >-per la vittoria, e Cr» so- jtreM uUa in a m fee t^ si^ .

VH. Mi'priino è là fvdeleà scambievole , re^pàsita prineipaiissimo in chi ditìegna vincen^^^^initrUch ; ’àn- pimMcohi nòn dee già ebnibtoimr questo - giorno à renàemi amici fid i « «ostanti ; ma la' pxOiria ha da ■tanto tempo preparato a voi tu^"uh ud' henè. Voi altm ut'iii una tèrrai educati di tma Maltiera, sagri- ficia»'s^^^Jddj su di altari medesimi'. voi avete fin quv^'pai'tecipafo i'tanti beni e sperimèpoato in- sienie i tanti miài, i quali rinforzanó, anzi rendono wdistfflubili' Je amiùizie fra gli uomini^ qnante vòlte

BTOUJOi ttmi'ir. i li

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presenlofi loro un cimento .comuiie su gravissime cose, Jn secondo luogo , se vói soggiàcerete ai'nemici y già non .sw/à che alcuni di pot ràstino immuni, edtri »u- biscam V estremo, degt infartunj. :-ma tutti, .si , tatti perderete la gloria vostra , / impèrO:, la Mjbertà , non più padroni delle: mo^li, non, pià de' fig li\ ?iofi più delie sostanze, non più dt aUm tene vostro tfualunqw, E \li vostri capi , li vostri pubblici magistrati misieran* damente mànmnno tra flagelli e tormentL Se già non o^^aSi da voi punto nè poco , fecero a>. voi tMti ogni tuamera d incurie ; e che m a i pòteéè\àspettaHtenp ora . se mncano , nella memòria: :-cho, hfumo • de malL f che gUlavete ridotti fuori della' pa tw ,■ dhe gli aVfft» spogliati .de’beni, nè consentite che toriùno alle case paterne?. L ’ ultimo .de’ me^zivindiatfti , nè .m(nore dà* ^iìoUni^ ssyreMamente seti giudio^iìf..è chÌP'naiy^ràviamu fe cose tra' nemici men pmtpere eh» .'non pemavamo^ E ^certo vedete voi ktw\i jo&e teUa\gk.'^aiatà, niuno è qui per soccorrerli néUaf it^ivk.'Noi'.oomef-^ pimmo< che'verrebbero peì!'^si iUtti i e Sa­bini ed Etnici in copia ,,e-i.miUé\ altre vat>ie<paure, ci fingemmo. Erem> 4fMesU- tutti ss>gni\ddXtUini y imm»f ^nati sv.-.pnfmèss», , vaaey. ,su, speranze .vsefita-base. QiAndi aUri nek . meglio ne abbandona (a causa, ‘Spre­giando t mtorità de’ A. beili capitani: cdtii U~,terrae^ anzi a bada die li', soccorreranno > . t^/Spi'eggiandoH con lusinghe f\ e (jueUi che or siie^areeehiapfk\^ come tardi per la ialtaglìa , imuHi diverranno.'vm', \ «. . .

y iir. Che fe alcuni di. voi peru^no òhe^^k^ta-' sia ciocché io dico, èppur temono la quantità-de'nemici

2 IO DELLE a n t ic h it à ’ ROMANE

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conoscano per una breve istruzione, o piuUoslo ricordo, che essi temono non temibili cose. E prima conside^ vino che il più di loro è stalo forzato alle arme con- tro di noi, come ee lo ha con tante opere e detti manifestato ; e che gli spontanei, quelli che di lor pia- cere comhaUono pe’ tiranni sono ben pochi, e piut­tosto una parte insensibile rìmpetto di yoi. Appresso considerino che le guerre guidale a buon successo non la superiorità nel numero, ma nella fortezza. P\ lun^ ghissima opera sarebbe ricordar quanti eserciti di bar^ bari, quanti di Greci, tuttoché preminenti di numero^ siano stati disfatti da piccioli corpi e quasi non ere» dibili a dir. Ma tralascio gli esempi altrui : dite quante guerre non avete voi ben guerreggiato con or-, mata minore della presente, e contro apparecchi assai più potenti di questi? Dite; voi f in qui terribili tigli altri che avete combattuti e vinti, piete ora voi dispret-> gevoli a questi Latini, ai Volsci loro alleati, perchè non,vi han essi mai sperimentato Jra le arme? Sar potè pure voi tutti quante volte i nostri padri gli hanno in campo superati ambedue. E vi par verisimile che la condizione de’ vinti sia dopo tante perdile migliore, e peggiore sia quella de' vincitori dopo tanti bellis­simi fa tti ? E chi, se abbia mente , chi mai dirà questo ? Anzi ben io mi stupirei se alcuno di voi paventasse questa turba ove sì pochi sono li bravi, e spregiasse la milizia nostra si forte e sì numerosa v che nè più numerosa nè più forte mai ne abbiamo finora schwmta in battaglia.

IX. Che più : deve, o cittadini, esservi impulso

LIBRO VI. a l l

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a i a DEXLE a ntichità’ ROMANE

grandissimo a non temere, nè ricusare i pericoli tes* sere come vedete qui pronti ai pericoli, e correre con voi la sorte stessa delle arme i primarf de’ senatori, queUi die la età o la legge gli esenta dalla milizia. Che sì ; che egli sarebbe vituperoso che uomini nel fior degli anni temessero i pericoli quando i provetti gU affrontano. Avran cuore i vecchi di ricevere per la patria la morte se dare non la possono ai nemici; e Pòi li si vegeti, voi che ben potete t una e l’ altra cosa, o salvarvi e vincere senza danno, o certo ma­gnanimamente operare, e soffrire, voi non vórretà nè cimentare la sorte, nè la fam a procacciarvi de’va» lorosi F No , ciò di voi non è degno, o Romani, ai quaU soprawanzan tante mirabilissime gesta degli an­tenati , le quali ninno loderebbe mai quanto basta : e se voi vincerete questa guerra, i vostri posteri an­cora si gioveranno di tante vostre gloriosissime im^ prese. Ma perchè nè sia senia frutto chi si delibera alle grandi azioni; nè si trovi col danno chi ne teme i rischj olirà il debito , udite prima dt incorrerla, udite qual sarà la sorte dell’ uno e delV altro. Chiun­que nel combattere imprende belle e magnanime gesta Ite sarà da chi ’l vede encomiato ; ed io, quando di­spenserò li premj che ciascuno dee raccoglierne se­condo il costume della patria , quando darò in sorte le terre pubbliche, io costui ne appagherò, sicché pià di nulla abbisogni. A l contrario chiunque nel cuor suo vile , offensivo de’ numi , si deciderà per la fu g a , costui si troverà per me colla morte che fugge ; che ben è meglio per esso e per altri che un tale citta-

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éUm perisca,: e così perendo, non che averò i fune­bri onori e la tomba, si resterà, non emidato nè pianto, in abbandono agli uccelli è alle fiere. Con tali previdenze , andate : combattete alacremente ; e v’ abbiate po' guida alle grandi azioni la speranza buona, chè dato a questo cimento un termine gene­roso , come tutti desideriamo, avrete ottenuto amplis­simi beni, avrete liberato voi dal timor dei tiranni avrete t come doveasi, corrisposto alla patria, eh* chiedea la gratitudine vostra per avervi generati « nudriti, avrete operato che i teneri vostri fig li, U vosire • mogli non soffrano oltraggio da nemici^ e che i vecchi vostri genitori vivano in calma il picciolo avanzo di vita. Felici voi a’ quali riservasi tornare da qufista guerra col trionfo, mentre li fig li vostri vé ne aspettano, e le spose , e li genitori. Quanto sa- reté celebrati, quanto invidiali pel cora li) di dare voi stessi per la patria ! Tutti deano morire valen­tuomini o no 5 ma i l m o r i r e coir d i g n i t à ' s c o n

e i& R iÀ m i f È PROPRIO CHE m ' v A L m i v o m m -

' X. Àncora egli continuava tali detti magnaDÌnii ;

ijoando ecco spaigersi nell’ esercito un ardore divino, e tatti ad nna voce gridare : ardisci, e guidaci, E qui Postuniio encomiando la loro prontezza; e votandosi agl' Iddj j se avea buon successo nella guerra, di fare grandi e sontuosi sagrifizj , e splendidissimi giuochi da rinnovarsi in Roma ogn' anno ; rilasciò le milizie perché si ordinassero. Quindi come i duci diedero il segno e le trombe l'invito a combattere; lanciaronsi, gridando, quinci e quindi prima i soldati leggeri e li cavalieri, e

LIBRO VK a i 3

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2 I 4 D E L L E a n t i c h i t à ’ R O M A N E

poi le legioni le quali aveano schieraménto ed armi consimili. Fecesi di tutti una mischia vÌTissitna, ridottasi tutta al dar delle mani. Tennesi questa lungo tempo contraria alla ^espettazione di 'ambedue, sperando gli uni e gli altri che non- avrebbero nemmeno a combattere, ma che a prim'impeto forzerebbero, ed intìmorirebbero rinimico; i Latini affidati alla cavalleria loro numerosa quasi 1' urto ne fosse irrepwabile alla cavalleria Romana; c li Romani all’andarne audaci e spregiami ai perTcoli, quasi cosi avessero a sopraffare l ' inimico. Non ostanti tali primitivi concetti degli uni su gli altri, v«deano tutti seguire il contrario. Quindi considerando che il mezzo di salvarsi e di vincere era la propria fortezza non la paura de'nemici; mHitarono bravissimamente anche so> pra le forze : e varie ne furono le vicende e le sorti.

XI. Primieramente li Romani del centro dov' era il fiore de'cavalli con Postnmio dittatore, e dove combat* teva egli stesso tra' primi, cacciano di posto i loro com- pettitori dopo ferito con uno strale in una spalla^ ed inabilitato a valersene , Tito l’uno de' figli di Tarquif nio ; sebbene Licinio e Gellio senza esaminare le cose yerisinùli e possibili, suppongano esser questo che mili­tando a cavallo restò ferito lo stesso re Tarquinio, uomo più che nonagenario (i). Caduto Tito , le sue milizie

( i ) Anche Tito Livio è di questo p a rere , quantunque avesse Considerata la diffieoltà degli anni : egli scrive in Postumìum prima in acie suo» adhortantem inslruentenufue , Tarquiniiu super bus quam­quam jam alale et viribus trai grauior equiun infestus admisit. 1V& SODO mancati altri re che in quella età foroivano tutti g l ’ incarichi

del regno o combattevano. Massiuissa fu l’ uno di questi, ed Antea

n degli Sciti mori com battendo, vecchio più che di novant'anni

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tiB Ro VI. a i 5lenner^ . froqte alcim tempo, e sòUecite ne raccolsero vìvo il corpo, non però fecero; altro ]|>iù di generoso., ma. rinculavano ìncahate via via da'Romani, finché soccorse da Sesto l 'altro figlio di Tarquinio co' fuoru­sciti Romani, e da truppa scelta di cavalieri si arresta* rono, e tornarono su l' ininiica Cosi rìpigliatò coraggi combattevano iquesti nuovamente. Intanto negli altri cor> pi (i) segnalandosi più che tutti i duci Ebnzio <» Ma« milio, fugando ovunque volgeansi ohi resisteva, e rior» dinandò i loro se soompigliavansi ; vennero a disfida in fra loro : lanciatisi. l'uno su l'altro portaronsi colpi gra­vissimi , ina non mortali, Ebusio spingendo 1' asta per la coraatalial ,petto di Mamilio, e Mamilio traforando il braccio destro >di Ebnzio: tanto che ne caddero ambedue dà cavallo. .

XIL Portati > ambedue futiri della battaglia Marco Va> brio ’ ohe era ud' altra volta luogotenente anzi il più vecchio prese le veci di Ebuzio maestro de'cavalieri : ma contrastando colla sua la cavalleria nemica , e contenen> dola per breve tempo, infine fu violentato e respinto assai lungi ; perocché giunsero in ajuto al nemico i fuorusciti Romani a cavallo, o di milizia leggera: e Mamilio stesso riavutosi ^alia percossa era tornato in campo con cavai­

uoli Filipp» Màcedone. E Laciano scrive che Tanjbinio ‘superbi’ più che nonagenario 'vivera rolnislissicia in'Oùma. Forse'L'icìaio (ì Gelilo non son da riprendere. Dee poi notarsi, che Turqninio, Cliché secondo Dionigi , -visse piò di noVant’ anm. Vedi § ai di <]uesto libro. . •

( i ) Cioè IVramiito nell’ al* destra de’ Latini ed E boiìo nella si­

nistra de’ R om ani, perché già 'stavano appunto in (Quéste ale j uk

Diouigi ha finora detto chc«vesserò caMbrato posto. ' • ■

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lena numerosa e col nerbo de'Boldatl' espediti; an» iil questa pugna eai^de trafitto da un' asta lo stesso luogo- tenente Valerio (i) quegli che il primo avea trionfiito de’Sabini', e rialzato Io spirito di Roma infiacchito pei danni ricevuti da’ Tirreni : e con lui pur caddero altri molti nobili e valorosi Romani. Sorse sul caduto corpo di esso una lotta vivissima facendosi scudo allo zio li due Publio e Marco, figli di PopliccJa. Oc questi con« «egnandolo intatto colle armi sue, mentre mspirava an<« cera, ai scudieri perchè lo riportassero agli iJk^gpa- menti ,' lanciarono sestessl in mezxo al nemico - sfiinti dall' onta ricevuta e dall’ ardore dell' animo : ma piom­bando d*ognintorno i fuomsdti su loro;, alfine carico r Uno e r altro di ferite mori (a). Dopo tale jafortunio l’ armata Romana fu cacciata di posto, ed «toù mal>* menata dàlia sinistra fino al centfo. 11 dilutoK di Co­noscere che i suoi fuggivano , .ben tosto si staocò peti soccoiTerli con i cavalieri ohe aveva d'iatomo : e dato ordine a Tito Erminio di andare ooU' ala delia cavai»

( i ) Intende il Valerio fratello di Valerio Poplicola: però il pri-<

mo Valerio è detto xio de’ figli di PopticolàV II Valerio del ^ a ( e ^ui parUamo fa coniole Doye anni ad«dietìrt» iuiieme con P . P o -

stamio T ubetto . Per altro qui fi diop ; e dqe aQpi appretAQcioi undici dopò il consolalo si dice fatto d itta tore: Tedi $ 49 questo lihro ; par questa una conlradditione. Forse il Poplicola ebba

due fratelli ambedue cal prenoma di M arqo; e forse vi b sbaglip; nel prenonie.

(if) Couvien dire che Valerio Poplicola avesse più figli col nome di Publio; perchi Dionigi qui presenta la morte di un Publio figlio

di Poplico la , * posteriormente nel principio 4 d libro settimo ci

4>cc mandatQ Siciliii un Publio figlio d i PopUpola. Allrimenli

dea sospettarsi d i i«q qaàlche ^baglio ael test^.

a i 6 DELLE a n t ic h it à ’ ROMANE

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Limo VI. 21 <7lec^ alle «palle de'fuggitoiri e femarH , o 'd i noeiderii «e non I9 pdivaBO; egli corse. ca*;più forti ore' gl' ìbm mici erapo.più foUi» Gittoti ìq vicinanisà «fi èssi rilasrii di .tutjb» briglia il cavallo. Divenutone l'iinpeto iiDDieBso e spaventoso, non sostennero i némici f urto di uesaiw e0 ìsrirti e iqaniacì: ma .federo volta e molti-ne «ocoom» beroi>9 » Intanto Ereiinio.ritraendo dalla fuga i suoi sbi gottiti, li menò contro l'armata di Mamilio, ed égli stesso avventandosi >addo^ d[ lui che < era il più grande e pilli gagliardo di quanti gli erano a fronte, lo acciset ma faUoseM a spogliai e il «adavere, egli ancora vi soo«> compiè trafitto ddi brando di un tale in mi lato. Sesto Tarquinio, duce dell' ala sinistra Latina, resistendo tut­tavia tra tanti maU .aveft cacciata di posto l' ala destr* de'Homani: cerne però vide Postumio venite su lui eoi nerbo de'cavalieri, d ista tosi còi se in mezzo a'néraidi P qui ciricondato da'fanti e da'Cavalieri; ed inves^^ qnasi una fiera : d' ogn' intorno, mòri, ma, non sema avef no mche egli ste$i mo li di quelH ohe lo imvesti» vano. Caduti i duci , piietiidsiit>a fu la fuga de' Latini> e ia presa de’loro : alloggiamenti, aMiandonati 4>ur daUe: guardie. Diccbè i Romani se n'ebbero mólti é bélli^^aiH t^ggi. Gravissima fu ,1a perdita de'Latini, i|i>to che tnoltissmiD ne decaddero: e la strage fu tanU, quanta: mai più pei: addietro ;, imperocché di qiùraQla mila fanti e tre mila cavalli, come ho detto di $opi»^ nemmeno dieci niila toi!narono ràlvi alle case.

XIU, È fama che. in. questa battaglia si rendesser vi* sibili «1 dittatore, ed a;l seguito! suo due oàvalieri adouii) dtl fiore prituo di giovànesii » grandi e<, bèlli assai {àà ;

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2 i 8 D E L L E a n t i c h i t à ’ RO M A N E

che la condiaione non sostitiM ddl'uómo ; e che po> «eadòsi alla testa della cavalleria romaaa , percotessero ccdle aste i Latini che le si avventavano, o li sospin­gessero a rapidissima fuga E fama è similmente che iclo^ là fuga de” Latini , e la presa de' loro alloggia­menti, presso al crepuscolo vespertillo, appunto quando la zuffa ebbe fine, si dessero a vedere'in abito militare éel Foro romeno due giovani altissimi, e vaghissimi, spirando in volto ancora l'ardore della battigiiti, dalla quale venivano , e reggendo cavalli, molli di sudore Dicesi che smontali l'uno e V altro d^*cavalli, lavavansi nell'onda, la quale sorgendo presso 9 tempio di Yesu forma una lacuna, pncciola slj ma profonda: ma che fiitRN molli intorno di loro , e chiedendone se punto recassero di nuovo dall? eserdto, rilerarono ad essi dòcch'era della battaglia, e com.e l’aveano guadagnata: e die partiti poscia dal Foro non più fÌEirono veduti da alcuno , tuttoché seti facesse ricerca grandissima dal eomandanie lasciato in Soma. Come però nel giórno appresró riceverono i capi della città lettere dal diti»* tore, e conobbero I' assistenza dei due numi, e tutti i successi della battaglia ; giudicarono che i due persò- naggi apparsi fossero, com’ e«a verisimile , gl’ Iddìi stessi, e coacUasero che erano le immagini di Pollucfr é di Castore. Attestano la comparìgione inaspetuta e meravigliosa di questi Numi , molti segni ancora, come il tempio fondato a Castore e Polluce nel Foro j ap­punto dove comparvero ; e la fonte vicina chiamata e crèdtfta sacra finora e li sagrifizj magnifici che il po- pòlo bei celcbi-a ogni anno per idezzo de’ cavalieri pià

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L IB R O V I . a 19distinti Q^e idi del mese detto Quintile (i), nelle quali acquistarono la TÌttoria. Segno sopratinuo ne è la pompa che dopo il sagrifizio ne fanno i catalieri, i quali or» dinati per tribù e per centurie marciano a squadre , quasi tornino dalla battaglia, tutti coronati di verde qIìto, e cinti di lucide toghe con lembi di porpora , le quali trabee si chiamano. Partendosi t da un tempio di Marte , posto fuori della città , traversano Roma e il Foro , e vengono fin dove è il tempio di Castore e di Polluce in numero di cinque mila, tutti co' premj ricevuti per le battaglie da' capitani : spettacolo bello e degno della grandezza dell' impero. E questo è quantoio conobbi che fa detto e fatto dai Romani intorno la venuta fra loro di Castore e di Polluce : e da ciò po> tremo raccogliere non che altre cose molte e grandi, quanto gli uomini d'allora fossero ossequiosi inverso de' Numi.

XIV. Postumio passata la notte negli alloggiamenti, coronò nel giorno seguente que* che s' erano segnalati in battaglia: e dispensati gli schiavi, perchè li guar­dassero , fece sagrifizio per la vittoria. Ancora sfavasi coronato , e ponea su gli altari le primizie consuete a bruciarvisi; quando «Icuni espióratori, correndo gi& dalle alture, gli annunziano che nemica Minata venivagli contro. Era questa il fiore de'Yolsci mandato pe-Latini prima che la battaglia sì terminasse. Postunuo' a ‘talé notizia comanda che tutti dieno all*armi, e stieno tiégli alloggiamenti, ognuno sotto le proprie' idsegriei ordinati

( i ) Luglio.

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e guardinghi, finché egli dicesse biocch' era da Ideavano i duci de' Yolsci assalire d'improvviso i Ro« mani : ma giunti su di dn' altura ai cospetto di quelli vedendo seminalo U campo di morti, pieno 1' uno e r altro alloggiamento, nè uscirne amico , o nimico ^iunp ; attoniti, non sapeano indovinarne qual fo$se lo 3iato delle cose. Appena però seppero da quelli che si «rano salvati, fuggendo, gli eventi della giornata ; con< sultarono fra loro ciocché fosse da fare. Parve ai più animllsi il migliqre lo assaltare immantinente le trincee de' Roìmani mentre molti vi travagliavanio per le ferite e tutti per la stanchezza , mentre aveano i più le armi non buone, spuntate o rotte ; nè veniva ad essi per anche nuovo rinforzo dalla patria. Imperocché l'esercito loro grande , forte , ben armato , perito di guerra , è giunto fuori della espettazione, incuterebbe paura anche ai più baldanzosi.

XV. Nondimeno a'più savj non parca sicuro venire, seoz'aspettare i compagni, a cimento con uomini vaio* xosistii^i tra le arme , i quali aveano di fresco annien» tata tant^ milizia latina, e venirvi su cose rilevaDtissime nelle terre altrui, dove in caso di sciagura non avreb~ 'hono asilo. Adunque vbleano questij che provvedessero piuttostp sollecitamente a salvarsi nella patria , e tenes- lero per sommo guadagno se non erano punto danneg­giati in quella spedizione. Per l'opposito altri pensavano die Jipn si avesse a fare nè 1' una nè 1’ altra di queste due cose: che era beasi da giovine il trasporto d’ allorft per combattere ; ma che assai più biasimevole sarebbe il fuggirsene a casa : e che qualunque de’ due partiti

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seguissero , andrebbe a genio Ae nemici. Ejra il parere di questi, cbe di presente si triiicieràssero e prepara»-' sero quanto bisognava per la battaglia , e che intanto spedissero ai Yolsci per chiedere che inviassero nuove forze onde pareggiare quelle de' Romani, o che richia­massero le altre già inviate. La sentenza però sembrala f)iù persuasiva e ratificata da’ capi fu di mandare al eampo romano alcuni osservatori col nome di amba> sciadori onde preservarli, li quali, comj^mentandolo, dicessero al capitano, che il comune de' Yolsci man» da vali per ajuto de'Romani: si doleano però che giunti tardi per la battaglia non troverebbero uemmen grati» bidine di tanto amore, védendo come l 'arcano gii vinta a grande lor sorte, anche senza degli alleati. Con tali dolci mabiere illudendo, e dandosi per amici, andas» sero, spiassero, conoscessero la moltitudine de'nemici, le arme, gli apparecchi, i disegni. Conosciuto ciò, discuterebbesi qual fosse il migliore, lo aspettare nuove truppe , o menare le presenti all' assalto.

XVI. Poicliè si riunirono tutti in questa sentenza , ne andarono gli oratori eletti da essi al dittato^ : e poiché recali nell’ adunanza vi esposero gl’ insidiosi loro discórsi ; Postomio soprastando alcun tempo, alfine ri­spose: Fòi siete o FoUci venuti qua con rei consigli sotto belle parole : nemici nelle opere , volete presso noi la stima di amici. Voi foste inviati dal vostro comune ai Latini per combatterci. Ora non essendo voi giunti a tempo per la battaglia; anzi vedendo questi già vinti, cercate deluderci con dirne cose con­trarie a quelle che eravate per fare. Ma nè sineerit

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è V amicizia del parlare che assumete in vista del tempo presente , nè sincero il titolo della vostra le­gazione ; ma pieno è di malizia e d’ inganno. Non voi veniste sensibili pe' nastri beni, ma per investi- gare qual sia lo stato tra noi di debolezza e di forza. Messaggeri ne’ detti, voi non siete che esplo­ratori ne fotti. E negandò questi ogni cosa , soggiuase cbe presto li convincerebbe. E qui produsse le lettere dei Yolsci intercettate da lui prima della battaglia, e chi le portava ai duci dei Latini, nelle quali prometteano mandare a questi un soccorso. Riconosciute le lettere , e palesato dai prigioDÌeri il comando che aveano ; arse la moltitudine di manometter que' Yolsci, quali spie sorprese nel delitto. Non però volle Postumio che essi, uomini probi, si diportassero come i malvagi ; dicendò esser meglio serbare un ira magnanima contro chi gF inviava, e rilasciare g f inviati per lo nome cospi cuo di ambasoiadori ; che perderli per la ignobile tuie di esploratori. E ciò perchè non dessero ai Volsci causa speciosa di guerra su la idea che le persone dei loro ambasciadori erano state abusate contro ogni legge; e perchè agli altri nemici non dessero pretesti di mal* dicenza , falsa d , ma non inverisimile, nè incredibile.

XYII. Contenuta l'ira della moltitudine contro quegli uomini, comandò che partissero senza nemméno rivol­gersi , dando loro una guardia di cavalieri, i quali gli accompagnarono fino al campo de’Yolsci. Cacciando gli esploratori intimò, che le sue milisie si apparecchias­sero, quasi dovessero schierarsi nel giorno appresso. Non però fu d' uopo combattere ; perchè i duci de' Yolsci a

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no(te av^nsala levarono 1' esercito, e si tavviai^ao alla p tria . Ririscitogli così mito secondo i desider], > data sepoltura ai cadaveri de 'suo i, è purificato l’. esereilo si ricondusse a Roma , o.norato di ua nobit trionfo tra. molti carri di arme , -e molti di- suppellettili^ neitti- . che , ' seguitandolo cinquev mila cin(|uecento fatti pri­gionièri: nella battaglia,. Separate la decime dalle spoglie, fece con< quaranta talenti spettacoli e sagrifizj ai Numi y e paUui bou prezzo, come «(veala promessa in vóto, 1» fonda^ione^.de'templi a Cerere» à.Bacco, e Proserpina; percioccliè irie'firindpf. della , guenia ai-ebbe disagio di viveri,'* e. moltos » tefnè che mancassero v nop avendo la tesrà geàérato i suoi fru tti,u è recandosene altronde pe' tumiulti drfle. arme. Fra tale paura . ordinando à quelli che ne erapO .i custodi, di consultare gli'oracoK sibillini; come udì. che voleanò ^ i oracoli .'che. si pia» lessero, ^ e s ti Numi, si.votò qtiando era per uscir ,coI-> r>esfercitodi vdar loro e. templi ed annuì sa^riGzjiv. sb in tempo del. suo comando tornasi vcome prima > in Roma r abbondanza. Esaudendolb questi!, fecéro./che la levraf.assaijfrultiGcasse in seibi e .pomije . j ; cheti'vivevi tra^irtatt^ÌB città vi ridondassero più che. allra; Ivolta-; e Po^umio a tal vista decretò la edificaziotae de'templi. Cosi U c^omani 'estirpata la -guerra co' tiranniviv<eano tra.ièste e tra’ sagrJfizj.< V IH. Pochi giorni' appresi» giunsero ' - |oeO -araba-, seiadorì dai Lat ini , quali jeyaoo stati scelti dalle- viin'e città , ma portando innanzi coroa^ è simbdi di pace , come quelli che aveano su la guerra ben altri senti>

menti che-prima. In(^4p.tU qn^Ù fenato rivolgeano

LIBRO VI. i-x"^

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* 2 4 D ELLE A lfT IC H IT x’ RO M A N I,

ogni colpa della guerra sa’ principi delie dtlà, dicendo: die il popolo non avea mancato in altro che in tener dietro a cttpi rei, dediti a proprj varUaggi : mtìS di questo errore causato in gran parte daUd neces- tàà f ne ai>ea 'ciascun popolo ■ dato te pene non di^ spregevoli <^n perdere U fiore d è giovani: tanto che pon era facile, trovar^ famiglie , sgombre da lutto. Supplicavano di ricevere'in loro non i competitori del principato nè delld eguaglianza, ma gli alleati tpòntanei, e i -sudditi f empitemi > che aggiungerei- bero alla fortuna dt? Romàni quanto i Numi tai^ie- rimo a quella de’ Latini. Da uhimo raccomandavano il lor parentado , ricordavano la sùuserkà dalla kili leanza lóro passata e deploravano le sciagure im- tàarse dai non colpevoli, derto assai piii numerosi dei

eotpewli. E piàngendole ad una ad tuuiy p prostran­

dosi -appiè di tutto il Senato j » déponendo i simboli

di pace ai piedi di Postumio, furono tutti i padri in­

teneriti.d^e lagrime e dalle suppliche loro.XIX. Ritiratiti questi' dal Senato, « dato il percaessò

a qnelli a'quali soieafi che dicessero i lora-pareci^ Tiiò:Largio, il -prìno de'dittatori crealo già per l 'afono antettedente (i) consiglio che usasse^ la sorte sobbiìa- mente. Diceva essere'^eticomio' grdndissimo per unà città come per un uomo se non lasciandosi corrom­pere dalle prosperità, le sostiene con regola e con digmtà : odiarsi tutte le< prosperità , quelle principal­mente per le quali possono ingiuriarsi, e gravarsi i

(i) Vuol dir* tre antri addietro : come fu notato da Silburgio.

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miseri e li sottomessi. Non confidmsero su la sorte , essi che aveano sperimentato tante volte ne’ beni, e ne'mali proprj, quanto fosse mal ferma e mutabile: nè riducessero i nemici alla necessità di pericolo estremo per la quale spesso gli uomini s’ innalzano , e combattono sopra le forze. Temessero , se pren- deano pene irrèparabili e dure su chi avea mancata, di profmcarsene l’ira comune di ogni,popolo sul quale àspilnavano di comandare ; imperocché decaduti dalle maniere consuete coUe quali eransi renduti chiari di oscuri parrebbono aver fatto della sovranità una ti- rannide, non un governo éd un patrocinio. Dieta che mezzmia noti irremisibilé è . la colpa , se città già li- bère, anzi usate al comando, non sanno dftll’ antico grado discendere. Se quei che anelano il meglio siano , se falliscono il colpo , vendicati immedicabil- meritb; niente impedirà, che gli uomini, generati tutti con “inlimo amore dellà libertà si distruggtfno gli uni cògli altri. . Ag^no^eva. che assai piU nobile, assai pià /èrmo è il principato che amministrasi tenendo i sùdditi colla beneficènza m n co’ supplizj : perciocché da quella nasce la benevolenza , e da questi il ti­more , e ciocché si teme , si odia vivamente per ne- eessità di natura. Da uUimo pregavali a pigliar per esempio le òpere bellissime per le quali gli antenati loro tanto erano encomiati : e qui ridiceva co/»' essi aveano magnificato Roma già piccola, non diroccando le città prese, nè spopolandole, nè spegnendovi al­meno gli adulti, ma riducendole colonie di Roma,

P I o r n a i , tomo I I . i 5

LIBRO VI. 2 2 5

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2 2 6 D ELLE ANTICMITA’ BOMANE

e concedendo la cittadinanza a tutti i vinti che in. Roma vollero domiciliarsi. TUo Largio mirava col dir suo princStpAliaeflte a questo, cbe si rinovasse co' Latioi r alleanita, tom' era vi staU , nè più ingiuria alcutia di qualùnque città si ricordasse.

XX. Servio Sulpieio punto non contradisse intorno la pace e la rinovazione dell’ alleanza. Sìacome però si erano essi Latini levati i primi dall’ alleanza, n i allora per la pritlia volta , tanto che ne fossero compatibili per la forza delle circostanze e dd l'e tro re , ms pisi volte già per addietro, tanto che ne erano da correg­gere ; propose che stante il parentado si lasciassero tutti immuni e liberi; ma si toglieste loro mUà del territorio e si dispensasse a’ Jtomani che, mandatici, sei godessero , e guardassero che non pià vi si e«ctJ tasserò movimenti. Per 1' opposito Spurio Cassio con»- sigliava cbe se ne abbattessero le città dicendo : che itupivasi dèlta dabbenaggine di ohi suggerwa che si lasòiàssero'senza pena alcuAa della ofjhsa: quando poteàHo vedere che per la invidia che aveano iitnata ed indelebile contro T ingrandirsi di Roma, le avreb^ bero fatto guerra su guerra, spraa requie mai, Jindiè fosse iti loro la rea malvolenza : e quando avaema queste in onta di tutti i patti, fifmcui alla presene» de’ Num i, cerccOo ultimamente ridurre la città fero consanguinea sotto un tiranno pià barbaro di ogni fiera, non eccitaté da dltra speranza, salvo che pocao niuna pena ne sosterrebbero, se V esito detta guerra non le secondasse. Prega vali che prendessero V esem* pio dalVopere dei loro antenati i quali in'un giorno

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. solo spidnarono Alba dalU quale àUemcUvano osti0 tuUe le città del Lazio, quando videro a prova, cht questa invidiat>à ai lor beni, e che la impunità con­cedutale per i ptimi deìitti erale occafione di altri più. grandi. Credessero che non punire niuno pei grandi ed irreparabili attentici tanto era, quanto non eommiserare niuno per le eolpe lecere. ]Ben sarebbe r opera della stoltezza e della indolenza, non della umanità nè della moderaeione > non auere tollerato la invidia perchè parea grave ed insopportabile, negli collari della lor gente , e poi tollerarla in altri, discendenti come loro: avere punito fino polla Mstru- zione delle lor patrie nemici redarguiti di colpe tanto minori, nè poi prendere vendetta niuna di quelli che aveano tante volte verso loro dimostrato ufi odio im* placabile. Cosi dloendo, e numerando tolte Iq i^bellioni de'Latioi) e ricondaodo quanta essi, la moititudme dei Romani, penti nelle giberne con osai, dw^ad^ : che si trattassero come già gli Albani ; se ne schiantassero U città, e le terre si appropriassero ai Romani : que’ cittadini che aveano dimostrato okìtna benevo­lenza per essi ritenessero i loro beni, am i si arric­chissero : ma gli autori della ribellione , quelli pei quali la tregua fu rotta, si uccidessero conte tradi­tori. I l resto del popolo mìsero, ozioso , imitile, ti riducesse schiave ugualmente.

X ^ . Tali furono le eenleaze perorate d il ^ im i dd Senato. 11 dittatore si dichiarò per la sentenza d* Lv* gio; e nino più contraddisse. Bichiamati, tornarono gli ambasdadori in Senato per la risposta : e Poct^mlo re­

t n n o VI. 3 2 7

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darguendoli della loro incorrigibilità : ben sarebbe, disse, giustissimo che incontraste i mali ultimi, quali a noili preparavate se riusùivate ne’ disegni che avete con- tra noi tante volte macchinato. Non ante.pora.nno peròli Romani il diritto sommo alla moderazione, consi­derando che voi ne siete i parenti e che adddman- daste pietà delle offese: anzi a voi condonemo anche la colpa presente in vista degl’ Iddii comuni e della sorte imperscrutabile, dalla quale ebbero la vittoria. Pertanto andatene, disse, liberi pienamente. E quando avrete rilasciato li prigionieri, quando ci avrete ri- consegnato li disertori , ed avrete espulso da voi gli esuli; allora mandatene gli ambasciadori che trattino deiV amicizia e della pace, e sarete in quanto è de- gnb, appagati. Partirono a tale risposta gli oratori, e sciolti li prigionieri, e congedati dalle loro città Tan- quinio e gli esuli, tornarono tra pochi giorni, ripop* tando i disertori incatenati. Ritrovaront) allora in Senato r amicisìa e 1’ alleanza antica, e rinovaronsi pe'Fecialii giuramenti fatti altra volta intorno di esse. Tal fu la 'fine della guerra fatta co' tiranni per quattordici anni dopo la loro espulsione. Il re Tarquinio, unico avanzo della sua stirpe , dopo aver fatto la rovina di sè , dei figli e della casa del genero, ornai nonagenario in una vecchiaja^ miseranda fin tra'nemici, escluso dai Latini, da’ Tirreni, da’ Sabini , e da ogni vicina libera città, riparossi a Cuma nella Campania presso di Ari­stodemo', detto Malaco, che allora vi dominava. Ma sopravvivendovi pochi giorni giunse al suo termine ; e vi fu seppellito. I compagni di lui nell'esilio parte si

2 2 8 DELLE ANWCHITà ’ ROMANE

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rimasero in Cuma é parie io altre città si sbandarono, e visseroi d^lle: ospitali beneficènze degli altri.

XXll. Liberatisi i Romani dalle guerre in campo aperto ; sorse di’ bel nuovo la discordia fra loro. Impe-, roccbè il Senato avea decretato di restituire i tribunali, e far decidere secondo le leggi le liti .sqspese per le armi ; ma le liti su’ contratti erano procedute a grandi turbanienti ed orrori, ad indegnità e sfrontatezze. E, nel vero: pretestava il pppolo la insufficienza sua a pa­gare i debiti per essere le terre giaciute inculte in una, guerra di tanti anni, per essere venuti meno li bestia' ini ; e diradati assai gli schiavi colle diserzioni e le fu-, ghe; e per essere le rendite urbane state assorbite dalle spese della milizia. Per 1' opposito replicavano i datori de'prestiti essere stata la calamità comune a tutti , non a' soli debitori ; e teneano ch/ì sarebbe a sè stessi du­rissimo perdere non pure quanto era stato lor tolto nella guerra tra’ nemici, ma quanto aveano in pace somministrato a'cittadini stretti dal bisogno. Non voleano dunque nè li prestatori u^r moderazione, nè li debitori giustizia ; nè rilasciare gU uni i frutti, . nè rendere gli altri nemmeno i capitali. Quindi ne’ capistrada faceansi affollamenti di uomini, eguali ne' casi, e nel Foro schieramenti di uni contro gli altri fino a venire talvolta iiUe mani ; tanto che tutto 1’ ordine civile ne era con­turbato. Postumio onorato ancora da tutti, ciò .vedendo riputò buòna cosa di togliersi dai flutti civili , simili a guerra gravissima : e deposta , prima che ne spirasse il tempo , la sua dittatura, ed intimato il giorno de' co- mizj, restituii col compagno suo nel consolato , le mar gistrature della jpatria.

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Ì»3o DELLE ANTICHITÀ HOMANEXXni. PreMro di nuovo secondo te leggi ranniio

comando i consoli Appio Claudio Sabino, e Publio Servilio Prisco (i). Videro questi benissimo in ciò sUre Votile sommo, Cbe il nembo si traeste da entro le mura alla guerra di fuori : e si accinsero ' a condurre bea tostò un altro esercito loro contro de’ Yolsci. Erane r intettto di punirli pel soccono mandato a* Ladni con* tro dè' Romani, e di preóccnpare gli apparecchi bro piccioli ancora ; impeitoccbè dicevasi che ascri?eano colk Ogni diligenza le soldatesche, e sollecitavano con •m- bascerie li popoli vicini a far causa con essi ora che Capevano discordare i patrizj in Roma e li plebei, non essendo diiScile invaderla inferma tra' dotnestici mali. Deliberati, e creduti da' senatori che ben deliberassero, a cavare un esercito sU questi , comandarono a tatti i giovani di presentarsi, datando il tempo entro coi sen frrtbbé la iscrizione per la milizia. Non ubbiditi però dalla plebé inviuta più volte a dare il giuramento mi> litare ; non più l ' tino e F altro furono di un avviso tnedésiibo: ma discofdatin fin da quell’ora proteguirono tutto il tiem^ del consolato ad operare l 'uno in con­trario dell' altro. Pareva a Servilio che si avessero a tenere mezzi più dolci, consentendo in ciò con Marco Valerio, tiomó popolarissimo, il quale volea che si curassero le orìgini del taale, con decretare la remis- iione, 0 certo lo sòemamento dei debiti. Se no, voleva almeno che pròibito di presente 1’ arresto di chi ritat'^ davà le paghe, si ridutiessero i poveri a dare il giara»

( i ) ÀDni di Roma aSg secondo Catone, a6i secondo Varron* , « 49,3 iTanit Ctiito.

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itieiito mililar^ ami colle ammoniBÌoni che còlla TÌolen>; e disentte e miti, come (a cittì coQCotde, non

dure ,fiè inesoràbili fossero le pene sa chi ricusavasi : peroci^è ' coprevasi risehio che astretti a militare a ptt>- prìe spese aoniini che abbrsogdavaao del vitto quoti­diano, si ammutinassero e volgessero a stolti partiti.

XXty. Per 1 opposito Appio fautor principalissimo del potere de' nobili diceva, austero ed inflessibile, cAe non dweansi dare al pojwto segni di deboleeza, ma permettere ai prestatoci la esazione de* crediti , co- munque la facessero, a norma delle leggi : che il console il quale restava in Rom(i dovesse rialzare i tribunali secondo i costumi della patria, e compiere le pene delle leg^ su delinquenti; non essere rfflp concedere al popolo niente sé non gàisto ; nè da coadiuvarlo ad usurparsi un potere soellerato. Que­sti , diceva , liberi divenuti , riiasciunsi ora pik del dovere, immuni dai tributi che pagavano ai re come dalle pene omF erano ajfj^iui nella persona j se ben tosto non gli ubbidivano. Che se procedendo più ol^ tre , tentino sommovere o trammutare cosa niuna} freniamoli colla parte savia e sana de' cittadini, la quale certo appare pià numerosa delf altra de mal' vagj. Abbiamo forze non poche > e pronta è la gio- ventk de* nobili ai nostri comandi. Pià grarfde di tutte le armi, nè facile da conculcarsi è F autorità del Senato : con questa che sta per le leggi, di leg­geri sopraffaremo, umilieremo il popolo. Che se ce­deremo in ciocch’ esso presule , primieramente ne avrem la vergogna di sottomettere a’ plebei le pub-

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a S a DKLLE a n t i c h i t à ’ r o m a n e

Miche rcose, quando potrebhono m ane^ù^si da no^ bili. Appresso caderemo nel rischio non picchiò, che se alcuno colF anima di tiranno serva ai genj del popolo ne acquisti un’ autorità ma^iore delle leggi j « la libertà ci ritolga. Cosi diiFerìvaao i conràli infra loro : e quaate volte adunavansi i Padri, tenendola chi dall’ uno chi dall’ altro ; il Senato ue udiva i dissidj, i tumulti, le cónlumelie colle quali si denigravano , n a scioglievasi poi senza prendere alcuna sabitevole riso> luzione. '

XXV. Consumato in tal guisa gran tempo, Servilio, quello de' consoli al quale era toccata per sorte là spe­dizione, conciliato il popolo coi dolci modi e còlie pre«. ghiere perché si applicasse alla guerra, usci per farla con milizia, non forzau già secondo la leva, ma vo­lontaria come i tempi dimandavano. Ancora i Yolsci si apparecchiavano, non aspèttando che i Romani per le dvili dissensioni e discordie venissero coll' esercito con­tro loro ; anzi pensando che nemmeno verrebbero alle mani con thi gli assalisse, laddove li Yolsci avean forze copiose da movere quando volessero la guerra. Ma poi­ché si avvidero che erano investiti dalla guerra essi che doveano portarla , smarrironsi allora in vista di tanta speditezza romana : e li più riguardevoli delle città ne andarono co' simboli di pace e si rimisero a Servilio perché facesse di loro a piacer suo, .come di uomini che aveano traviato. E costui pigliandone vesti e cibi per r esercito, e scegliendone trecento ostaggi dalle famiglie piiì cospicue, parti come avesse dissipata la j[Uerra. Non però fu questo un dissolverla, ma piuttosto

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un differirla, e dar causa di appareoch) .ad es«, preoò- cupati dal gittagere Iptp inasp^tato. Ritiratosi l’eserdto romano, si accinsero i Yolsci di bel nuovo alla guerra, e munirono e meglio presidiarono, le città , ed ogni luogo acconcio da rilìiggirvisi. Si consociarono con e«ì per l’ impresa i Sabini e gli Emici svelatameli te ; ma segretamente molti altri ancora. I Latini, essendo venuti ad essi ambasciadori per chiederne 1' alleanza, li lega­rono e menarono a Roma. Fu sensibile il Senato alla cosunza dèlia lor fede , e più accora: alla prontezza colU quale voleano sppnuneamente per esso cimentarsi, e combattere. Quindi restituì loro gratuitamente, cipcr cfaè pur vedea eh'essi desideravano , ma- vergognaranà dimandare, intorno a seimila fatti prigionieri ùelle guerr« con essi: e perchè il dono prendesse una forma degna de' parenti, li rivesti tutti con abiti proprj di uomini liberi. Del resto fece intendere che non abbisognavasi di soccorso latino , dicendo qhe bastavano a Roma 1« proprie forze per vendicarsi de' ribelli. ,E cosi risposto ai Latini, decretò la guerra contro de'Volaci.

XXVL Ancora il Senato sedeva nella Curia, ancora ■considerava quali milizie destinasse a marciare ; quando fu visto nel Foro un uomo che antichissimo di anni, sorcBdo ne' vestimenti, . e barbuto, e capelluto , gridava ed invocava soccorso dagli uomini. Accorsa la moltitu­dine intorno ; egli postosi in luogo donde fosse visibile disse : lo generato libero , dopo essere finché n era la età , marciato in tutte le spedizioni, dopo avere sostenuto venlf otto battaglie, e riportato pià volte i premj militari, alfine quando sopravvennero i tempi

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che strinsero Roma alle ultime an^stie fu i necessi­tato a prendere un prestito per suftplire al tributo che mi si chiedeva : perché il ‘ mio campicello era desolato da’ nemici , e le rendite urbane tutte per la penuria de’viveri mi si consumavano. Cosi non avendo come pià redimere il debito , Jui condotto dal pre­statore con due miei figliuoli a servire. Comandan- domi poi quel padrone non facili cose io contraddis» si } e ne fu i con moltissimi colpi baUuto. E cosi d{> ctniio squarciò ki Inrida veste , « mostrò pièno it petto di ferite, e gromlanti le spalle di san^e. E qui ulu­lando ; e piangendone la oioltitndine ; il Senato si di» sciolse : e tutta la città fu percorsa da’ poveri cbe de­ploravano la infelice lor sorte, e cfaiedeano soccorso da'vicini. Uscirono allora dalle case (i) tutti quelli ehè eran servi pe'debiti, rabbuffati le chiome, e la maggior parte coile catene alle mani, e co' ceppi nei piedi, senza clie alcano osasse reprimerli : e se altri osava pur toccarli, enne manomesso co' diritti della forza. Tanta rabbia in quel punto invase il popolo t Nè mok« dopoil popolo fu pieno di uomini che fuggivano la forza di chi signoreggiavali. ' Appio , come autore non ignoto de' mali, temettfe contra di <è le ire della moltitifidrne , e s'involò, foggendo, dal Foro. Ma Servflio deposta la wste contornata di porpora, e gettatosi lagrimando ap­piè di ciascuno} a «tento li persuase « coMenersi per quel giorno, e tornar nel seguente, mentre il Senato provvederebbe in qualcjie modo sa loro. Così dicendo,

( i) De* creditori.

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e comandando al banditore di proclamare, che ninno de' creditori potesse trar seco pe' debiti akan cittadino , finché il Senato sa ciò deliberasse, e che tatti gli asunti ne andassero ove più voleano senza timore ; chetò la turbolenza.

XXYIL Partirono allora dal Foro: ma nel prossimo giorno vi si riunì non solo la moltitadine della città, Dia l'altra ancora de'campi vicini; tanto che sull'alba già il Foro ne ribolIÌTa. Adanatosi il Senato per disca* tere ciocché era da fiire, Appio chiamava il compagno adttlatoré del popolo e capo della insolenza de*poveri: e Servilio rimproverava lui come austero , caparbio, e fabbro de'mali che pativano; nè ci avea niun fine alla disputa. Intanto latini cavalieri spronando, vivissimamentei cavalli si appresentarono al Foro, annunziando essere già usciti i nemici con esercito poderoso, e già sovra^ stare alle cime de' monti loro. Cosi dissero questi: e K cavalieri, e quanti aveano ricchezze e gloria ereditaria, armaronsi in fretta, come su pericolo esti-emo ; laddove ì poveri, singolarmente gravati da’ debiti, nè toccavan arm i, nè soccorrevano in alcun modo a 'pubblici bis(>- gni : anzi gioivano, ed accoglievano con diesiderìo la guen^a esterna, come quella che redimerebbe loro dai mali presenti. E se altri gli esortava a respingere inimici, mostravano a lui le catene « li ceppi, e lò confondevano addimandando, se fosse mai degno com« battere per difendersi tanto benefizio. Anzi tabni osa­rono perfino dire, esser meglio servire ai Volsci, che soffrire i vilipendi de* patrizj. Infine era tutta la città ripiena di ululati, di tumulti , e di ogai lutto di fem­mine.'

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XXVJII. A tale spettacolo i senatòri prégaròno, il console Servilio, «otne più «utorefole presso del popolo, k soccorrer la patria. E costui convocandolo al F o ro , dimostrò la urgenza del tempo presente , e come noa ammettesse discordie civili : pregava e supplicava che piombassero unanimi tutti sul nemico , non che tol­lerassero che rovinasse la patria, ov erano. le divir nità paterne, e le tombe degli antenati, cose prezio-' sissime tutte presso i mortali. Sentissero verecondia pe genitori incapaci a difendersi per la vecchiezza } e pietà delle donne che bentosto sarebbero astretti a subire gravi ed inesplicabili affronti : soprattutto commiserassero che tenari figliuoletti, certo non edu­cati a tale speranza, avessero a finir tra le ingiurie e i vilipendi spietati. Quando fatti al paro concordi, tutti al paro infiammati, avesséro tolto il rischio presente; allora discutessero comera da ordinare un governo eguale, comune, salutevole a tutti, e tale, che nè i poveri insidiassero agli averi del ricco , nèil ricco i poveri ne conculcasse ; cose tutte in società dannosissime. Allora discutessero con quale pubblica discrezione fosse da provvedere ai poveri, con quale agli altri li quali dopo dati i prestiti per soccorrere, ora ne erano ingiuriati: nè dalla sola Roma si le­verebbe la fede de' contratti, bene principalissimo tra gli uomini, e custode dell’ armonia nel corpo delle città. Dette queste e simili cose, quali convenivano al

tempo , da ultimo provò com' era la benevolenza sua

stata sempre, costante verso del popolo; e pregò che in

CQutraccambio, almeno di questa , si unissero per la

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spedÌEÌoné, essendo a lai data V amministrazione delia guèrra, e quella di Roma al oompagno. Pr^itestava cAe la sorte aveva così destinate a loto le parti : che il Senato avevùlo assicuralo di concedere quanto egli prometteva al popolo ; e che egli aveva assicurati} il Senato che il pepblo non tradirebbe la patria ai nemici. i

X X I^ Ciò. detto impose al bapditoré dì pubblicare che niuno potesse arrogarsi le case di quelli che militassero con lui contro i Fblsci, nè venderle , nà impegnarle, nè render servo pe’ contratti alcuno della, stirpe di costoro, nè impedire veruno a guerreggiare: persistessero però secondo i patti le azioni de’ pre­statori contro quelli che .non prendeano le armi. Co- me i poveri udirono ciò ; deciseFO, e laociarònsi tu tti, pieni di ardore, alla guerra, chi stimolato dalla spe- ranza di guadagnare, cbi dalla benevolehza pel eppi- 4ano , e la più gran parte per levarsi da Appio e dai vilipendj verso quelli che in città rimanessero. Servilio .preso r eseipcito , ne andò sollecitissimo , senza perderè ]^ntD di tempo, per attaccar i'inimico , innanzi che 4 gettasse in su le campagne romane.' E scontratili a-pa> scere presso a' campi Pontini le terre de' Latini perchè non avevano secondato l’ invito di combatter con essi', mise verso sera in un colle gli allogamenti , lontani) venti stadj dai loro. Ma fattasi notte i Yolsci gli assal­gono credendoli pochi, stanchi della, via lunga, e senza cuor di combattere pel fermento allora vivissimo de’po­veri intorno dei debiti. Resistè Servilio tra la notte dalle U-inciere, ma poi visti al nascere della luce i ne-

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mici dÌTÌsì, in disordine, cotàan^ i^e si spdaneasSero le porte del campo, le qaali erano, senz' apparire, ben molte y e ne versò tutta ad un segno l 'ormau su loro. Alla subita, impensata, terribile irruzione alcuoi pochi de' Yolsci sovrastando agli steccati furono nel combat­tere trucidati ; gli altri fuggendo dirottisiimamente, e perdendo molti de' loro , salvarousi , feriti per la pià parte 6 senz'armi, ne'pròprj alloggiamenti. Li seguirono immantinente i Romani e ve li circondarono , ed essi fiitta breve resistenza cederono finalmente il campo pieno di schiavi, di bestiami, di arme, di apparecchi militari. Caddero insieme prìgionierì moltissàni Kberi uomini de' Yolsci, o de' coofederati ; la moneta , gU stromenti di oro , di allento , le vesti , tutto eravi in copia grande , quasi fòsse espngnau una citti floridi»> slma. Servilio non riservan^ niente per 1' erario, ma concedendo tutto a'soldati perdiè sen giovassero, ordinò che si di«pensasse. Quindi levando 1' esercito , lo con» dusse a Sessa de' Pomentini m prossima. Parea questa per capacità di circuito , per moltitudine di abitanti , per dovizie, e per magnificenza, superare molto le ai - tre , ed era come la capitale della nazione. E cintala di assedio, nè richiamaodone le milizie , di giorno e di notte perchè li nemici, senza requie, nè posassero m<ii le arme, nè dormissero: e travagtiandola sempre più colla fame, colla esclusione degli alleati, colla d&-

. Scienza di ogni rifugio ; la espugnò fiaalmente dopo non molto tempo, e vi uccise tutti gii adulti. E con­ceduto a'soldati che prendessero e si portassero quanto era colà di pregevole , marciò coll' esercito su le altre

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città, senza che niuao de'ValsQi [fiìi potABse reBÌst«rgli.> XXX. Dopo che li Rombai pro^Uvcono i Yoliot ;

Appio Claudio r altro console recando nel Foro i tre-> > cc nto loro ostaggi , ie’ batterli e decapitèu’U al cospetto ilei pubblico, perchè quanti si ligavano a Roma temes­sero yiolarit la fide confermata oogU ostaggi. Anzi tor« nato . pochi giorni appi?esso il oolUga dalla spedisione e chiestone il trionfo, solito concedersi dal Senato ai «epitapi per le ìitsigtii b a tte re ; costui gli si oppose, chiamandolo sedi i^ s o , ed ai&ico di un pravo governo. ^pRittiitto lo accusava che non avesse riportata punlb di. prede per l’ eràrio; dèa tutto avesse dispensato a d ii pià gli piaceva , ond* esserne gk isiosoi Adunque mise il Senato a non adcotdargll il trioiifo : e Servilio tenen^ jdosene vilipeso, scorse ad uua licenza non consueta ai Romani. Imperocdiè Convocando il popolo al Campo Marzo, e commemorando le cose fatte nella guerra , la invidia del compagno, e t»me il Senato lo disonorava { disse che la condotta <ua e dell' eserdito suo davano a lui di, trionfare su belk è faustissime imprese ; e ciò dicendo comancfó* che i soldati si coronassero , e co^ rouato egli stesso entrò e scorse la città con vèste trionfale , seguito da tutto il popolo, finché ateeso nel Campidoglio soddisfece ai voti, ed offè»6 ai Numi le spoglie. E se per questo ne ebbe odio tanto maggiore de’ patrizj ; égli rendette suo il popolo più ititimai- mentfe.

XXXI. Fra tali sedizioni deUa città pur vi ebbe al­cuna requie per compiere i patrj sagriGzj ; perciocché le solennità che sopravvenivano ^lendide e sontuose

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coatomero la moltitndine. Ma meatre festeggiavasi piom» barono su loro con esercito grande i Sabini , i quali gii molto innanzi aspettavano tale occasione. Marciarono §ol cominciar della notte per giugnere in Romà prima

. d^e gli abitanti se ne avvedessero : ed invasa 1' ayrel> bero facilmente se alenai de’ soldati leggeri sbandati» dall'esercito e datisi a predare i villaggi; non vi desta- van tumulto. Cosi romore subito se ne fece , e ricorso de’ contadini alle mura j innanzi che i nemici se ne a ^ prossimassero alle porte. Conosciuto il giunger lo ro ,’! Romani che stavansi coronati agli spettacoli, gli abban* donarono, e corsero alle atmi. Andò raccoltasi di per sè stessa una milizia sufficiente a Serrilio: e questi, or­dinatala, usci su‘ nemici stanchi dal disagio del sonno é; del travaglio y e spensierati in tatto d’ esserne assaliti. Come si furon sopra, scoppiò la battaglia , ma toltone ogni scbierafmento ed ordine per la fretta di entrami»». Si attaccò, secondo l’incontro-, leeone con legione,, coorte con coorte, e soldato con soldato, combattendo 'tniiti fanti e cavalli. Ma perciocché non erano le réspe»- -tive città molto lontane ; ecco gtiiigerne per ambedue quinci e- quindi i soccorsi. Li ravvalorarono queAi , e fecero che lungo tempo si opponessero ai mali: finché sopravvenendo ai Romani la loro cavalleria, vinsero no- :vamente i Sabini ; e &tta assai ■ strage , tornarono a Ro­ma conducendo seco in copia li prigionieri. Furono poi cercati e messi nella carcere i Sabini che recatisi a Roma sul titolo di veder gli spettacoli, doveano secondo l’ac­cordo all’ avvicinarsi dei loro preoccuparne i luoghi più forti: e li sagrifizj interrotti per la guerra furono per

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decreto del Senato raddoppiati ; talchi ne fu gioja e riposo ner popolo.

XXXII. Ancora festeggiavano} quànd' ecco ambascia- dori dagli. Arunci, popolo che occnpava i più be’ luo­ghi della Campania. Presentatisi-questi in Senato diman­davano” il territorio tolto dai Romani ai Yólsci Eccetrani e dispensato agli nomira ,mandatÌTÌ per guardia della nazione : dimandavano insieme che tal gvardia si richia- inasse ; altrimenti verrebbero quanto prima gli Aruncì 'éu' Romani, e vradicherebbero tutti i mali che aveano causato ai loro vicini.' Replicarono a ciò li Romani. Amhaaciadori , amamziate agli Aranci che noi Ho- mani tenituno per giusto che altri lasci d posteri suoi ciocché ha conquistato per valore su nemici : che la ffterra degU Aranci non la temiamo ; giacché non è questa ^er. noi nè la prima nè la più terribile : che noi costumiamo combattere con chi vuole per t impero e pel b e n e e se la cosa riducasi ora all arme, in­trepidamente a lt arme verremo. Dopo ciò movendosi gli Arunci con esercito poderoso, e li Romani con quello che aveano sotto gli ordini di Servilio ; si scon­trarono presso la Riccia città lontana «entoventi stadj (i) da Roma. Accamparonsi ambedue su di alture forti, e poco distanti fra loro : e poiché vi ebbero trincierati gli alloggiamenti, scesero al piano per combattere. At< laccatisi , lottarono dall' alba fino al merìggio; unto che grande ne fu la uccisione da ambe le parti : perciocché

Ci) i5 miglia. Strabone nel libro quinto d ic tc h a era lontana i6o ktadj cioè ao m i(;lit.

a i O N I G l , umo XI. lO

LtBRO V I. Ckf\l

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a / p DELLE a n t i c h i t à ’ BOMANE

gli Arunci sono bellicosi e terrìbili, per grandezza, perforza, e per aspetto fierissimo.

XXXllL Narrasi che ia questa guerra si distinguesse la cavalleria Romana governata da Postumio Albo, dit­tatore dell'anno precedente. Imperocché non essendo il luogo della battaglia buono da cavalcarvi, per ostacoli di valli cape e di. aspri colli, uè potendo la cavalleria iar utile alcuno per niun degli eserciti ; Postumio co- mandjò che li suoi soeodessero a terra. E fatto un corpo di secento si portò su' nemici e li represse, principa^* mente dove la legione Romana spinta giù pe'declivi ne pericolava. Rintuzzati i barbari una volta.; sorse ne Ro­mani fiductfi ed emulazione tn ' cavalieri e tra' fami. Sor* ratisi ambedue in forma di cuneo cacciano l’ ala desUra de'nemici fin su l'a ltn ra , e chi seguendo que* che fug­givano fino agU alloggiamenti, ne uccideva in copia: e ^hi prendeva alle spalle qneUi che combattevano ; met> -tendo in 'volta ancor essi, incalzaiidaK similmeiitè ^no alle trìnciere mentre a stento e tardi si ritiravano su per ardui luoghi, e tagliando loro colle spade obliquei tendini de* piedi, e le piegature delle ginocchia.' Giunti ^gli alloggiamenti, e forzaune la guarnigione, eie non era molu , gl' invasero, e saccheggiarono. Non però vi trovarono gran preda se non di arme e cavalli, e cose militari. £ tali furono le vicende se' tempi de’ consoli Appio e Servilio.

XXXIV. Ebbero dopo essi la dignità consolare Aulo Verginio Celimontano, e Tito Yeturìo Gemino iptauto che era Temistocle 1' Arconte di Atene nell' anno du«

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gemo sessaola dalla fontiazione di Roma ( i ) , ed per cominciare U olimpiade selUntcsima seconda nella «pale vinse di naovo Stesicraie da Crotona. Nell’ anno loro si appareccUarouo di nuovo i Sabini a > portare esercito più grande sa’ Romani. Li Medullini ribellatisi da’ Romani si convenDero co’ Sabini per la lega. Il Se­nato , uditine i d i s ^ i , allestivdsì per uscire eoa tutte le miiinie. Non però secondavab il popolo, memore delle promesse tante voke delusegli Intorno al sollievo

* 'de’ poteri, oppressi da’ debiti , e come indagiavasi a provvedervi. Adunque riunendosi a bande a bande le- gavansi fra loro cOn jgiuramento di non più tenersela co’ patrizj in guerra niuna, e di soccorrere ciascnno «le’poveri, se ne patisse vit^ensa, contro cliiunqne.'La cosjHrazioae sì rendè più volte sensibile non che per altri modi, co' dissidj in parole ed in opere; soprattutto divenne chiarissinia ai consoli ; ai quali non presenta^ vansi ^ invitati per la leva. Anzi ordinando essi che sì arrestassero alcuni > el popolo ; i poveri , affoUatisi, li ‘f’ilobero mentt^ erano via trasportati, e percossero e fugarono t minbtrì del consolato perchè restii di rila­sciarli : nè SI astennero dall’ avventarsi a qnalunque dei cavalieri o de’ patrizj che presente volesse impedirli. Talché ne fu la città ben tosto ripiena di disiordine e di tumulto. Or come cresceva in Roma la sedizione si ampliavan di fiiori gli apparecchi de’nemici per la gaet- jra ; i Volsci e gli Equi oncdiinavano insorgere nnova- mente ; e giung^ano in città messaggeri da lotti' i sud-

( i) Anni di Roma a6o tecundo C atone, a6u (econdo Varroae ,• kvaati Cristo.

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diti di lei perchè li proteggesse , esposti che erano al transito della guerra. I Laiiai dioeano che gli Equi si erano gutati sa le loro campagne, e già vi aveano sac> cbeggiato alcune città: diceva la guarnigione di Crustu- nieria che i Sabini le erano pròssimi > e che ardentis­simi la combattevano. In somma chi annunziava l 'uno, e chi r altro male incorsò o da incorrere, e tutti chie­devano nn pronto riparo. Anche legati de'Yolsci ven­nero al Senato perché rendesse il territorio del quale gli aveva privati, piuttosto che s' incominciasse nuova guerra.

XXXV. Adunatosi per tali cose il Senato ; Tito Lar- gio invitato il primo da' consoli perchè parea superiore a tutti ' in dignità, e sufficientissimo a' savj consigli , si fece in mezzo , e disse : O Padri coscritti, nè spaven- tevoli sono per me nè urgentissime le cose che spa­ventevoli sono per altri e bisognose di un pronto ri­paro , vale a dire , come soccorransi gli alleati, e come g t inimici si respingano. Quelli però che . di presente non si estimano mali gravissimi e propriis- sim i, e che si trascurano come niente sieno per nuo­cerne ; ' questi sono per me li più, formidabili, e tali che se presto non si riparano saran causa della tur­bolenza ultima e éeUa rovina, della repubblica, lo parlo della inobbedieriza del popolo nel .seguire i co­mandi de' consoli, parlo della durezza nostra contro gP indocili, ed i licenziosi. Io penso che ora non dobbiamo ad altro attendere se non come si tolgano questi mali dalla città , e come unanimi tutti gover­niamo la pubbliche cose, anteponendole alle private.

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'imperocché sa rèndasi conisorde, élla basta la nostra Jbrza a produrre la salvetza degli amici come la costemaàone de' nemici : laddove se discorda , come ora, non potrà niuna di queslb cose ottènerci. Anziio sarà meravigliato se non ci desola, é porge ai ne- jhici facilissima la vittoria : ciocché deVè, e Giòve né attesto e gli altri N um i, succederci quanto prima, sé così proseguiamo.

XXXVI. Noi siamo scissi, cotne i>edete, é della- nica nostra città due ne son fa tte , /' una signoreg* giata dd poveri e dalla necessità , t (dira daìla opu-* lenza e dal fasto ; nè più rimane in alcuna di queste non la verecondia, non t ordine non la giustizia i le quali son la salute di ogni repubblica. Noi siamo a tal punto > che riscotiamo i nostri diritti colla forza-, e poniamo come le fiere la massima giustizia netta massima violenza, anzi vogliosi di perdere t inifnico colla nostra rovina che di assicurare noi stessi, ope­rando la salvezza di quello. Ora io vi scongiuro che a ciò vivamente provvediate, convocandoci a bello studio un Senato , poiché dimesso avrete gli amba- sciadorit A questi poi ecco ciò che di presente coti- Sigliovi che si risponda. Dicasi ai Volsci che richie­dono ciocché abbiamo conquistato colle armi e che ci minacciano la gueira se non li secondiamo che noi Romafii crediamo possidenze bonissime e giustissime quelle che abbiamo ottenute colla guerra e co' trattati^ e che mai soffriremo rendendole a chi non seppe di- fènderle, che il frutto periscaci della nostra virtii pef la nostra stoltezza. Dicasi che noi combatteremo iri

LIBRO VI.

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comune per tramandarle ai posteri nosUri ; c cfce noi taremmo i nemici di noi medesimi se di nostro volere ce ne privassimo. Quanto d Latini, lodiamone la be^ nevoleiìza, rialziamone lo spirito, convincendoli che se ci restart fe d e li, mai gli abbandoneremo in qua­lunque sciagura si trovasser per noi : mandiamo loro quanto prima forze sufficienti da respingere V inimico. Queste sono le risposte che io reputo le pià giuste e le pià convenienti. Partiti poi gli ambasciadori ten­gasi domanii e non pià tardi, il Senato intorno ai ùanulti della città.

XXXVII. Avendo Largio cod detto, ed essendone da tutti encomiato; gli ambasoiadorì ne ebbero la ri- sppsia, e partirono. Nel giorno appresto i conaoli riunito il Senato proposero che si considerasse, come fesse d» -riparare ai torbidi interni. Ed interrogato il primo sa ciò Publio Virginio , uomo popolare, venne a tal mes- zo , e disse : Siccome il popolo nelt anno antecedente dimostrò prontezza pienissima a combattere per la patria , opponendosi con noi ai Fblsci ed agli A - runci che venivano con esercito poderoso , così penso che tutti quelli che si unirono e guerreggiarono allora con noi debbano aggraziarsi, e che non debbano i creditori tenersene in niun modo le persone o le robbe. E penso esser giusto che ciò si pratichi verso de’ pa- dri loro fino agli avi , come verso de' figli fino al nipoti. Cadano poi g^i altri in bclia de’ prestatori come obbligaronsi pe’ contratti. Dopo ciò Tito Largio soggiunse : Ed a me sembra o Padri Coscritti savis». sima cosa che ' assolvasi dai debiti per coruratto il

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LIBRO VI. a 4 7

popolo tutto ; nòn que’ foli che buoni pet le guerre ci ai mostrarono* E questa V unica via da rendere alla città la concordia. Quindi fintosi in mezzo Appio Gkudip j colui che tenne il consolato l'anno precedente» disse :

XXXVIII. Quante volte o Padri Coscritti si è intra* dotto il i^scorso su questo , sempre io sono stato deir avviso medesimo:che non , appaghisi il popoh in dimanda niuna se non è legittima e buona, e che non rilascisi la disciplina di Roma : nè ora mi corredo in cesa niuna di quelle dette fin da prinf cipio. Certamente il pià stolto sarei de'mortali y seio che console • nelt anno scorso con un collega il quale brigava , è pravocavami il popolo cenirario, re* sistetti e perseverai nel mio parere, mai ripiegando^ mene per paura o pref^iere nè per aderenze, orà privato abbassassi me stesso e tradissi la libertà che qui abbiamo del dire. Sia che vogliate la franchigia deir animo mio nominarla generosità, sia die pervi- dacia, non cesserò finché vivo dal tenere per bene ciocché bene mi parve , nè mai concederò la remis­sione dei debiti, anà liberissimo coiUraddirò quanti la vogliOn concedere. Osservo che ogni male , ogni guasto , e per dirla in breve , ogni roiHna della città comincia rilascio dei debiti. ^ sia che alùi creda che io ciò dico per avvedimene > sià , per D io, che per entusiasmo , o per dltra cagione qualunque, io che non cerco la sicurezza propria ma la pubblica^ lascierò che altri di me senta come vuole. Opporrommi però quanto posso a chi tenta introdurre mutazioni

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aliene dalla patria. N o , non escludono questi tempi i debiti: ma dico che il grande, che V unico rimedio contro la sedizione è scegliere ben tosto un dittatore, che indipendente astringa il Senato ed il <popolo a fare il suo meglio, jiltro fine non veggo a tanti medi.' XXXIX. Àvendò Appio co^ detto, ed acclamando» velo strepitosamente i giovani, quasi egli desse il ben della patria; Servilio ed altri seniori sorsero per con­traddirlo : furono però soprafiàttì' da’ gtovani cbe erano venuti preparati ed insistevano con forza grande; tan­toché prevalse infine la sentenza di Appio. Dopo ciò li consoli, sebbene i più volessero Appio per dittatore, come r unico da por fieno alle sedizioni, pure lo esclu- tetro di concerto, ed elessero Marco Valerio fratello di Pubblio già primo console , uomo anziano e popolaris­simo di credito, persuasi che a lui basterebbe la terri­bilità della sua carica; e che si abbisognasse più che tutto di un uomo placido, perchè non si facessero delle innovazioni (i).

XL. Valerio investito della sua dignità, e scelto per maest^ de'cavalieri Quinto Servilio fratello di Servi­lio , collega di Appio nel consolato ; ordinò che il po­polo si radnnasse a parlamento. E radunatovisi allora la prima volta ed in gran. molUtudine, da che guidato all' armata erasi poi scisso manifestamente al dimettersi di Servilio dai magistrato ; Valerio ascese in ringhiera e

( i) Questo Valerio nel § 13 del libro presente si dice ucciso iu battaglia ; ed ora si descrire come dittatore. Vedi la noi* al S la citalo. . \

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LIBRO VI. 2 4 9

disse: Sappiamo 0 attàdini che sempre di vostro buon grado hanno a voi comàndato alcuni della stirpe dei ya terj, da' quali liberati dalla dura tirannide , non

Jbste mai rigettati nelle oneste domande, nè temeste violenza ; affidandovi a quelli che sembravano è sono popólàrissimi infra tutti. Pertanto non io qui parlo, quasi voi abbisognate di essere illuminati che ntd convalidéremo al .popolo la libertà la quale gli ab­biamo da principio vendicato : io parlo per ammo­nirvi solo brevemente affinchè siate pur certi che vi manterremo quanto promettiamo. Non aràmette che vi deludiamo V età nostra venuta alla perfezione, e men sostiene che vi. rigiriamo , il grado supremo che ab- biàmo , e finalmente dobbiamo pur , vivere f avanzo dei nostri giorni tra voi per iscontapvela se parremo di avervi abusati. Io tralascio però queste cose giac­ché non ahbisogncmo di molto discorso tra voi che. le conoscete. Ma ciò che avendo voi sopporta dagli altri, pormi che dobbiate ragionevolmente temerlo da tutti f nel vedere che sempre il console che v invitava contro i nemici, prómetteavi dal Senato, senza man- tenervele, mai , ' le cose , per voi necessarie ; questoio vi comincerò che rvon. dovete di nie sospettarlo , pYineipalmente per tali due argomenti : prima perchè a . deludervi in tal modo mai sarebbesi il Senato abu­sato di me.che amantissimo sono, del popolo., aven^ done altri pià acconci : e poi perchè non mi avrebbe mai condecorato della dittatura per la quale io posso concedervi anche senza di lui ciocché il vostro megli» ini sembra. '

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a 5 o D ELLE a n t i c h i t à ’ r o m a n e

XLL, Non crediate che io dia memo al Sentito per ingannùrvi, nè che io consultando con esso v’insidii. E se voi così giudicate; fa te ciocché pià v q l^ di m e, come del pià scellerata trcìmortali. Ma liberate^ datemi udienza, da tale sospetto gli animi vostri : ripiegate la collera dagli amici su vostri nemici cAe vengono per levarvi la patria, c per /are voi schiavi di liberi, sollecitandosi a premervi con tutti i mali , riputati gravissimi dagli uominL Già non lontani si dicono dalle nostre campagne. Sórgete , accingetevi, mostrate lof'o che la milizia Romana in discordia j assai pià vale della loro , tutta unanime. Se presi noi tutti da un ardore, piomberemo su: loro ; o non ci aspetteranno , o prenderanno le pene degne del- V audacia loro. Considerate che i nemici che a voi portano la guerra sono i Folsci, sono i Sabini, quelli che tante volte avete combattuti e vinti : e che non ora han fatto pià grande il corpo, nè pià oneroso di prima il cuore ; ma che ben altro sé lo hanno } tuttòchè ci disprezzino per le patria gare. Quando avrete punii» V inimico, io vi pmmetto che il Senato darà buon fine alle vostre contese pe debiti, ed alle, oneste dimande secondo la virtà che mostrerete nella guerra. Intanto libere siano le sostanze, libere la persone, libera la fam a de’ cittadini Romani dalie- azioni de’ prestiti, e di ogni altro contratto. Per quelli poi che combàtterà», con impegno bellissima cororta fia la patria ridinszata, luminosa la t r i a tra coni-, pagni, e pari la nostra ricompensa a vivificar le fa-, miglie, e magnificarne cogli onori la stirpe. Siavi

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esempio , ve n ' esifrto, V ardor m h versò pericoli:io stesso come uno combeuterò de più robusti tra voi.

XLIt. Ucll tali detti, consolandosi il popolo é come quello che non pi& sarebbe ddnso, promise di arròlarsi per la guerra; è Sen fecéro dieci corpi militari, ciascuno di quattromila uoiàini (i). Prese ogni console tre. di qaesti corpi con quanta cavalleria gli Ai compartita. Il dittatore prese gli altri quattro col resto de'cavalli. Ed apparecchiatisi ben tosto, marciarono a gran fretta Tito Yeturio contro gli Equi, Aulo Yerginio contro i Voi- sci, ed il dittatore Valerio contro de'Sabini; rimanendo a guardia della città Tito Largio co' pià vecchi, e con piccolo corpo di giovani. La guerra co' Yolsci ebbe prontissima risolutione : imperocché necessitati a com­battere , pensando gli antichi m^li, e come aveano mi* lizia più numerosa, piombarono i primi, > anzi pronti che savj, su’ Romani, appena si videro accampati, gli uni dirimpetto degli altri. AttaccaUsi vivissima la batta­glia , fecero molte magnanime cose ; ma scontrandone ancor più terribili, fuggirono finalmente. Il loro campo fu preso, e Yelletri loro città principale fu ridotta per assedio. Lo spirito poi de'Sabini fu invilito ancor esso in brevissimo tempo, essendosi 1' una e l ' altra parte deliberata a campale battaglia. Dopo riè la campagna (il saccheggiata , e presi alcuni villaggi, ove i soldati acquistarono schiavi e roba in copik GU Equi all’udire la fine de’ compagni, riflettendo la propria debolezza

( i ) Ah. di Roma a6o «econdo Catone, a6a «econdo Varrsne, ■ »v. Cristo. ,

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a 5 2 DELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE

si jnisero su luoghi forti ; e ritirandosi alla meglio per le cime di monti e balze presero tempo e mantennera alcun poco la guerra. Non però poterono ricondurre illeso l'esercito, perchè sopravvenendo i Romani ardi­tissimamente su pe'dirupi; ne espugnarono a forza il campo. ' Dond' è che fuggirono dalle terre de' Latini, e le <;ittà si ridiedero colla facilità, colla quale erano già state prese al giungere del nemico. Alcnue ^erò furono espugnate , non cedendone le ^ rg ig io n i ostinate il comando.

XLIII. Riuscitagli la guerra-secondo il disegno, Va< lecio trionfò, com' era l'uso, per la vittoria, e congedò la milizia , quantunque non paressene al Senato tempo ancora, affinchè i poveri ncm esigessero le promesse. Quindi a diminuire la sedizione in Roma, scelse al­quanti di questi, e li mandò nelle terre acquistate colle arme e lolle ai Volsci, pertihè le possedessero , e le presidiassero. Ciò fiitto chiese ai Padri che avendo avuto il popolo tanto pronto a combattere , gU osservassero le promesse. Non però davano questi udienza, ma si op­ponevano come dianzi all' intento ; perchè li giovani e più violenti e più numerosi tra loro, fatto partito, brigavano ancora in contrario, e chiamavano con alta ■voce la prosapia di lui adulatrice del popolo , e con- ducitrìce alle ree leggi, tanto care ai Valerj su le àdu> iianze é su’tribunali; malignando che aveano con queste annientato tutto il .potere de* patrizj (i). Esacerbatone

( i) Allude alla legge falla da Valerio 1’ anno a47 di Roma se­condo CatoBe , cella quale davasi ad un privalo il dirillo di ap-' peliate al popolo dai magistrati che lo arcano condannalo.. Vedi 1. 5, s ig .

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molto Valerio, e dolutosi come se caI«aàialo a torto patisse pel popolo, compianse il vicino fio d'essi che così consigliavano : e com'è verisimile nel suo caso , presagendo loro più cose, altre per passione, altre per inteo^mento maggiore degli altri, s'involò dalla Curia, e convocato il popolo disse : Cittadini, dovendovi io piena riconoscenza per, la .prontezza colla tfuale mi vi deste per la guerra f è più. per la virtii la quale dimostraste in combattere ; io molto mi adoperai perchè foste voi ricompensati con ogni modo, princi­palmente col non essere delusi nelle promesse cheio vi feci a nome de Padri, quando fili scelto con sigliero ed arbitro di ambe le parti onde ridurvi al­lora scissi, a concordia. Nondimeno ora sono impe^ dito di soddisfarvi da uomini che non mirano il bene dellà comune ma solo il proprio, almen di presente. Questi prèvalendo di numero prevagliono con una potenza che ad essi la gioventù, concede più. che la perizia degli affari. Ed io sono vecchio come vedete e vecchi pur sono i miei compagni buoni solo nel consigliare, ed invalidi per eseguire, e la provvidenza su la repùbblica sembra ridotta propriamente a que­sto , che r una parte pregiudichi V altra. Io sembro al Senato un vostro fautore, e vói mi accusate come benevolo troppo verso del Senato.

XLIV. Se il popolo innanzi carezzato da me fosse venuto meno alle promesse del Senato, ' sca-ebbe la giustificazione mia, che voi siete i mancatori, e non io. Ora però non mantenendosi i patti dal Senato, mi è necessario dichiarare che è senza mia parte

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quanta patite , e che io medesimo sono come voi, anzi pià di voi, circonvenuto e deluso. Imperocché non solo io sono offeso con ingiuria a tutti, comune, ma in ispecie con quante mormorazioni di me vanno facendo. Di me si mormora che io per fa r t utile de’privati dispensai senza il voto del Senato a’poveri tra voi le spoglie prese nella guerra ; che io rendei del popolo ciocché era di tu tti, e' che per impedire che il Senato vi malmenasse, licenziai, ripugnandovi la i, la milizia che dovea tenersi ancora nelle terre nemiche fra le marce, e i travagli. M i si rimprovera la spedizion de’ coloni nella regione de’ F'olsci, per-‘ chè ho io compartito una terra ampia e buona a’ po^ veri tra voi, piuttosto che donarla tipatrizj ed a ca­valieri. Soprattutto mi si provoca indignazione mollis­sima perchè io nel fare la leva ho assunto piii che quattrocento de vostri Ira’ cavalieri ; dond è che ricchi ne son divenuti. Se ciò mi avveniva quando fiorivano gli anni, ben avrei insegnato co’fa tti a’nemici, qual uomo as>essero vilipeso. Ora essendo io piti che sei- tuagenewio, invalido a provedere fino a me stesso, e veggendo che non più la vostra sedizione può da me racchetarsi; rinunzio la dittatura: e chi vuole , io gUel concedo , faccia di me come giudica se credesi comunque da me danneggialo.

XLY. Inteaerironii tutti a que'detti e gli fecero se­guito quando parli dal Foro. Ma questo appunto esa­sperò contro lui li senatori : e ben tosto ebbe tali con­seguenze. 1 poreri non più eelatamente nè di notte , come per addietro, ma pubblicissimamente riunivansi, e

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LIBRO VI- a 5 5

tntlavaao di .scmdarsì|da'patrnj. Il Senato, disegnando iiDj^edirneli, ^ìcdé ordine ai consóli di non dimetter r éseréito. Gertamente enn questi arbitri ancora > ddlle recinte , coiaei sacre: pe' ligami de' giiwainenti miliiari. E per ^ésti vinc^ niuno attentavan di. abbondonarne le insegne ; tianto la r;vérènza potéa de' gim-amenti ! Alle-* garasi per titolo dellft rìtutuone, «he gli Equi e li Sa» bini èransi. eonvenati per la guerra bóntro de' Romani. Ora essendo'i ^onso& asciti colie scfaitfce» «d essradosi accampati nòn iontmii 1* uno daU' altro , i soldati rado* naronàl'tutti in vi» luogo colle arme , e per istigAzione di nn tal Sicinio Belliito se ne ribellàronò ; £^pro{ùan- doà le inwgne , coie tra'Romani OBÓvatissiine e santey eonae sitnulacvi ,di Nomi (i). E creatisi nooti centurioni^ ed un capo in Scinio Belluto; occuparono non lontano da Roma presso I'Àniepe un aionte cìae sacro si chia­ma fin da q u ^ ’ ^oca. Pregando, sò^iirando , prometT tendo , li ricbiamawMio i consoli ed .i «entàrioni; ma Sicinio répKoò: Qudti Jhre è ì'i vostro o JPatrisj che ora vogliale rkkihmare tjueUi die avete espulso dalla pàtria, e che di liheri gli avete seguavi rvnduli ? Con qucd credito mai ci assicurerete l& promesse , le quali siete rimproverati di aver tante volte tradito ? Piutto^ sto , poiché volete in città, soli, aver tutto; ondale; abbiateveU» : non vi angustiate pe’ bisognosi, e pe mi- seri. Per noi sarà' buona ogni terra; e qualunque ne terremo per patria j solohè vi si abbia la libertà. XLYI. Atmoiiziatesi tali cose in Roma, tutto vi fu

( i) An. di Aoma aSo secondo Catoue, a6a secondo Varrone« e 493 «*; CrislQ.

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romore e piaato : e fà correva il ' popoloV inteato a :la-, sciar la città, qna'li patrìzj che voleano alienarne|i , colla'forza aocoira .se ricusavano. Soprattutto eravi da-' more e pianto alle pòrte; ed ingiurie vi si fitcevano, come tra'nem ici, con parole e con opere , nioa pi& riverendo nè ia età, nè l ' amicizia, nè la ^biia della* virtù. Non potendo però, come scarsi, i sòldati di guar» dia destinativi dal Senato custodii^: le uscite, le ablùn- donaronò, soprafTatti dalla moltiludSoei Allora versando- sene fuoni gran popolo; parea lo apeuacolo, come la città fosse presa. Gemeano, si rimproveravano quelli die restavano, Vedendó che desolavasil Dopo ciò si fecero molte ' consultazioni ; si accusaro io gli autori della ìsepa- razione; ed inUnto correano li nemici , depredando la campagna , fino a Roma. Li fuorusciti presero' i >viveri necessari dalle terre intorno , nè punto più le danneg­giarono. Tenendosi in campo ' aperto accòglievano quanti venivano da Roma , o da' castelli intorno ; tanto che ne divennero ' numerosi ; perciocché vi conoorrOTano , non solamente quelli che voleano levarsi dai debiti, dai giu- dizj, e da altre angustie imminenti, ma tutti eziandio gl’ infingardi, gli oziosi, i malcontènti; quelli che in malfar si emulavano, che invidiavano l’alurui ben essere,o che per altri m a liie cause comùnque, discordavano dal governo. ,

XLVII. Adunque si eccitò ne' patmj tùrbazione , ed angustia grande , e paUra, come se li. fuorusciti e li ne­mici stranieri fossero per venire quanto prima contro di Roma. Poi, quasi tutti ad un segno, prendendo coi loro clienti le armi, altri corsero alle strade donde pen^

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sav^no gj'ipiftìici , allri; ai cwieUt .pecdifi^qderpe ,i, p o ^ Jot|i.,,.€td altri «i <Mmp« iaóaasi V Ciil4 pw #>qi^l iefcjs per k VMchiaja qqa

poieKjoo ^ n»Ua 4i sjd, fwo«p ^R<ribu(U pw le twiai, Mppwo^^«h^ i JUoWseiii nè vài «uiyai^ coi

Mniigf ,1 l* «ftWpagntii, «sriaQfiano at>irò i^Dsi4?B»jt)ife, r8»pirw,otto >4«U« pfmn»: e mu^lato pensiero , ^ pazniwpQRCh C9fit$t .si,ncp|g«iij«iiBer». Sug- ^ I ro q o i capi. d^l, S4i^to.>in««(i 4i' «goii^géafetre , din veFn^,pei:,la, pi4 fru tì già flaiwnj «wggevÌMmPi pii « i»w, W telBap .flettere, il pppolo, w f ra separtUfi .hf> p4v malizia,g n^q in fprjfp. .. de' prqpfj ynqlii ,q. ^elh ipfih- messe non mantenutegli, e che aveacosi risoùHQ.l’ur file ^uo pimLtqfia irq Ifij^Uefa che tra M calpta della ragione, vi^o. uqrififptOi nfiila ignprantfi. Aggìu^vs^sp die i più di .gutìftf ai’Cr mfU deì be^rato , e cercc^fi^ .ftmi^n^^fei^ , *?, ,i( biit^n punto ne avessero : , che . già ^a.n {e ,opere coflte ,d i chi si pente : e che vplep^eri ftìrner^hb^o n^Ua palrin 9p potessero au^urif^is^ uji,,(f^yemxe ifelife , 4ando loro il Serialp perdano f e poQ! decorosa. Ij» me^«o a ( ]i coijLsig , suppUf»]F»DO) c;Ae essi che erano C,grandi non tentiiser, la ir^ pifi c^e im im ri: nè differissero stolti ricancilifiiji .(fflor» qui»f4o fysserQ .necessitati -a far ^(tnp f » . euractì U ntali? , piii ,j^ o lo . col più grande v]ipl: dìr» y.,qiutn{h. apfpMero p cadere hs armi, e le perr sone , e toglieffi da Siè stessi la. UbeM: cose tulle quasi impofdbiU. a jurfi. Usassero moderazione » pro-

JOiP'fflGI, tomo I f . i j

XJJJÌIO VI. : ì 57

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ponessero i prùni gF utili consigli, e la riunione, at - verlendo che se età' proprio de’patrizf èomandare e dirigere; era propria àncora, de’ buoni tamlcizià e la pace. Mostilavano che la dignità del Sèhàlo non mi­norasi quando provede alla sióurezza col sop>pàrtarè pazientemente le perdite necessarie ; ma quando op- ponesi tanto ostinatamente alla sorte che la repub­blica ne rovini : gli stolli trascurare la sicurezza per amor del decoro : ben essere da cetvare ambedue queste cose : ma dove sia dà cedere t una ó f dliray

doversi la salvezza riputare più rtedessaria. Eht l'intentó di coBsigKerì che si mandasse a faorascitì per trattar della pace aoa altrimeate che se la colpa loro non fosse insanabile.

JtLVIII. Piacque così appunto al Senato : e scblti per­sonaggi acconcissimi, li d ire ^ a quelli che erano in campo con- ordine d'intenderne i bisogni e le eondi- kioni colle quali Tolbssero in città rìtómare ; perciocché se fossero discrete e fòttiìbili, il Scibato non lè rigette­rebbe: intanto se dep^oniìssero té arme, e tòrnassero in Roma , promettea loro pèrdono ’ e diménticanìa perpe­tua di tutto il passato : come bèlle ed utili le ricom­pense à chi servisse valòroso, ed affrontasse ardente­mente i perìcoli per la pàtrìà.'Rècarono gli oratòri é comunicarono tali voleri al campo, aggiungendovi cose .consentanee. Non accettarono i fUbrusciti J’ invito : anzi rimproverarono a' patrizj 1’ orgogli*», la dhtezza , le si­mulazioni loro perchè fingèvàno inorare i bisógni del popolo, e quelli pe' quali si era-tepàr^o. C i assolvono, diceano, da ogni pena per la ribellione, come fossero

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i ^a^rqnk » esà eike ^ b ù o g ^ m ' dell ofuio nostro. Qwii^o sii,'ìor>o., e t<trà tra non ìtioUo, contull^ (e forze U nemio9 ; non .potr,tmn0. ideare nem- Tftfn Jp fguqràq cantr’ àssoty e pur à t>ogUon 'far cre­dere che non, sift. h^nei Ifiro J^sser difesi { rria felicità

cAj si ,u4iMc . :<^j^nier/ir . Agjgi|an8erQ a t^l^ire che se .v ^ e fi(^ \già le ai/gUstie Roma ; comprendéreh^ ^ffrp,,poi rnf liq.^f!on qm u nemici avessero a guerreg­giar^,:, e qnì i^ia^ccur(i%Q taoltQ e veemeiitetneaie. Non ^n trad 4 isirèro a ciò, ma |wrUnHio> e dichiararono i legati a'p^Itìe) le riaiposte d» .sfigrejgatl : e Roma, uditele, se ne mrb^ e \tentffUe p ir iche per addietro. II. Senato non, s^peado cdme e ^ d in i : o- differire , si disci(4se , dopo avere pjù gioriu ascoltale le iofamazioni e le ac> cuse vipeadevrfi de' «uoi capi, fra loro. Il popolo rimasto in Romf per. hepievolenza verso de' patrizi, o per de* siderip. della patria più non somiglii^va sestesso; dUe« gua^o^ne gran parte < pascostament^ o in pubblico , nè, sembrandpne il r ^ o affatto più stabile. Fra tali vi> cende i conspli, a,vendo ppcp più tempo per coman­dare , fi^cpQO ' U giorno pe' comizj.. XLXIX. Venuto U .tempo nel quale aveansi a riunire .nei campo Marzo e scegliere i proprj^magistrati; niuno ambiva, nè rostenea di esser consolo. Aduàque nella Olinipiade setUntésio^a seconda nella qi^ale Tisicrate da Crotone vinse allo stadio, essendo arconte in Atene Diogneto ; il popolo rielesse al consolato due vecchi consoli Postumio Cpminio e Spurio Cassio, uomini cari alla moltitudine ed ai grandi, da’ quali già domati i Sabini aveano lasciato di competere dell* impero con

LIBRO VK a S g

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' s a f t o D ELLE A l f T ic m 'r À ’ r o m a n e

hàm». 0« ‘f{ué»Tè'riMìtt«Midò 'tt grado aHé «à!èttdlé ài d l « |> rii8 a '‘tìrfM e W p tt’ c to b r t t t t f 'ili

-«onstoli , cOpvOéJh-AW J n t i to i i W «ov ì f S é h ^ tò-pw ^ibfflpirvi' sul rVoi-na éel 'popolo dliie^ò"il j te r ^ di tutti ; itivitarcmd» « niénéhtò Agrippa ", 'lionto aflora wnePàbila p«*'ei4«itkfdiitd pift’cìkfe il* Hfi tosigner iti pfudetizh ì e'4òditó>'p^kòìpàlMéhfè' pèr là -apeittt '^ ' suoi pìei^bè ltéèeitk.àt 'Vnèi!:to' iiòttibf»eatmdo> r anrogafizft' àobili -, nè ‘thsdàb^ ché il popolo opemSM' taÌHd» A Mt> Ittltiéo. Di' questi «sortanèlo il Senato alla rlcOn6iliaztOae, disjCr ; Sé ' Uànti qui starnò o Padri CostrUti )fiys! rHp tiìtti di M ànimo é se niarto si opponesse a fetr pftCe tot popóh , càmurt ijue la fM essimo, pet gitist& ò p&t ingiusti ioiidixh- ni ; è se questo fosse preposto unicamgnt& a discu>- tere ; dichiarerei con poche parole ciò cpè ‘ rie penso. Ma perciocché alcuni giudicàno che éim da ponderare ancora se forse riesca più ktite far'guert^ etfitoru^ setti; non credo che io possa irt pòco insinuare ciò che dee farsi: ma sento U bisogno ét istruir ampia­mente su la pace quanti tra voi ne discordano. Im ­perocché questi conducono a cose tofitraddiltórie ; spa­ventano voi, che già ne tempie , su mali da nulla o lievi a curarsi, e trascurano gl’ immedicabili e gravi. Certamente cosi propongono perchè non decìdano del- r utile colla ragione, ma eoi furore e coll' 'impeto. È come si direbbe che essi provvedono te cose proficue, a fattibili cdmeno , quando stimano che Roma, unà

( i ) Anni di Roma a6i secondo Catone , i63 secondo V arrone,e 491 avanti Cristo.

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éiaà iì , ed 'mbitiw d i\ tème gtìiti 'r'e^'gìA'in­vìdia» « 'w'tìtó / r ìt^ r i» e difèttrììèftti' feteUti^nià s^mà ‘it- sxki\ popolo ■ ^ eke possa tuógo so^Métaiò ÌMrt>dtitf tUtri} pOpolo chepel*-iéi'C&^bMtà' iìèl' ptifmipatO :' c h f i ' U i sia di huOn aecérdé ''ili la t^piSMkài^' e Sf)ìthp^‘m&dérato f» pace ed in gt^rta? Èppuré ìióii ^altro'pmreò&onò diii>i /ffièi cki -tèrmiio dissiiàdènn dalla, pac».•' L. ''Md qUal' sià la itolia' M ijUeste éosé, vorf^ 'èk& i oi 'sless'i h deèid&s^ d^tó op^tg. Considerme, chè' atienalisi dà vài ti pik poveri pefchè abusaste déUci ibrà bifbliciti sent^ lAodéstia e' senta polìtica, e chg màatisi appena-fkoti deità città setaà farvi o màcchia rtàM ìéUto' mate , cól sólo intento di averne una pace Hórt ingloriosa , ttiolti de' wstri nemici abbracciarono t^n trasportò questa O€tasi0né come dorio della sorter,

fià lid i lo spiHtó\, é àrédonO veftutò per lóro fihaU Me^th' li terrtpó fetièe dà bàttere W voàtro impeto. GU Èqùi, t Vólsci, i Sabini, gli Erttici, <ftiesti che mai ai alienano déd fì^d i la giterrà , esasperali ora dalle sconfitte recenti., giét- devastano le nostre cantpagné. ^lie ' Camparti, que' T^reni che vacilAavano nella no­stra soggezione ■ o' à pe&te f abbandonano manifesta^ trt&file, pai^e ih occulto vi si preparano. E gli stesfi Làiini, qttafttìtnque itostri congiunti, a me non sem- fràrt procedere di httona fede, costanti heWamicizia; ma odo che gtiasti Sorto ift gran namero per amore d i icn cambiamento , che tanló gli uomini alletta. Noi ehè àbMamo fin qui portato in campo aperto la gue&a S i i gli altri; noi ci stiamo or qui dentro, difensori

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dtìlle mwai'imcimde. sènza sèrmnoKli. inostri Utrnenii anzi vedendoti- Mfi.cheg iMi 4 .kiUaggi, via levale le prede, e fUggirsBiifi di per, iiìstem >gli' ScJUiu>iy s^ma che etbhiamci . rì’ ^ j « tqnti jnali,. Nfitn pei%anta noi t^tlo so ffriamg, p^reM sperm i^ Accora Jl p o p ^ ci si riconcilj , hen sapendosele :ìda,\.noi,4ip«nde,,H i^ tìere . con un. solo 4ecreto ;ki sedi done.

LI. Ma f0. péssirno è lo slitto nosltn in campagna ; non è meno fujte^ep e temkHe ^e^tro' h-mfiFO" ^ o i non ci siamo apparecch^i .già da'gr^n tempo g per un assedio, nè iaitiamq di ni n^ero c o n ^ U i^ nemici. La nostra genie , è poca^ né da guerra, e pir­ic a per gran parte^ n^rcenarj , cUfiati, artefici, cu­stodi non. affatto, faifli deilo steOo turbato degli Q tfi- mali : e le continue loro diserzioni verso de'fuorusciti ce li hanno renduti tutti sospetti. Soprattutto essendo le nostre campagne dominate , d ^ nemici, ed impos i-m bilitato il trasporto de viveri ; abbiamo a t^mer di una fam e : e quando. a tal disagio saremo ; tanto più ci spaventerà la guerra, la quale senza, questo ancora non concede mai calma allo spirito.. Quello poi che supera tutti i mali è vedere le d o n ^ dei segregati, v^ere i teneri fig li, i padri cadenti , che squallidi e miserandi si rigiran pel Porose per le v ie , che pian­gono e supplicano e stringono a ciascuno la destra ei ginocchi, e deplorano la solitudine loro presente e piìt oficpr la futura, spettacolo in v?ro desolante ed insopportabile ! Niuno è si barbaro che non s’ inte­nerisca a mirarlo , e non si appassioni sul destino de­gli uomini. Che se abbiamo a diffidar su plebei ; do-

2 6 2 DELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE

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^remó rimòvèrhe g t individui, altri torrte 'inutili nel- F'assedio , èd altri come àrtiici non saldi. Or se questi rimovàjisi i qtud forza rimane in guardia di Roma ? o da quàlé soctot'sò ànitnàli cB"dinsino star contro dei niati ?, Ì'unico nostro rifugio , f unica nostra buona spèf^nza è la gioventù patrizia : ma poca come vedete elià è qtièHit, nè bastante a darci i grandiosi disegni. Che dunque im p a zzii , quei che propongon la guer­ra, ò perchè mai ci deludono, e non consigliano piut- 'tósto di cedere fin da óra seHz' angustie, e senza sangue Roma ai tièmi^i ? .

• LIl. Mà forse io ciò dicendo son cieco, e predico per terribili, cose che non son da temere. Roma non corre altro rischio che di un cambiamento, cosa certo TtoH difficHìe ; potendovisi facilissimamente introdurre mercenari ^ clienti in eópia da ógni genie e luogo. Così van divulgando molti de’ contrarj al popolo, uo­mini , viva Dio non dispregievoU. A tanta' stOÌtezzà Vengono alcuni ;■ che non propongono già consigli sa- iùtévoli, ma dèsiderj impossibili I Ora io volentieri dimanderei questi uomini quale tempo mai ne si dia per far tali cose, essendone tanto vicini i nemici : qucde condiscendenza atC indugio o al ritardò dèi giu- gnèfe degli alleati in mezzo a mali che nOh tempo- reggiano , nè aspettano? Qual uomo, o qual Dio mai vi ' terrà sicuri, o congregherà da ogni luogo in gran calma , e qui ei porterà de’ sussidj ? Inoltre e quali mai sàrah quelli che lasceranno^ la patria per venir­sene a noi ? ' Quelli forse che hanno case e Dii Lari e viveri ed onori tra proprj cittadini per la nobiltà

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2 G 4 D ELLE A NJ'ICH KI'V ROMANE

degli anlendti, o quèlU chs pfir Ict, ^h /ia tiifilfitii4oao) de ptvprj mariti F E c(ti mai . sosterrebbe/dì donare i prQprj vqmtfiodi,, e pftrtficipgr^ mi nte i medi . altrui ? JSppur^ ^ noi .iii vert^.bbe .f^ ^ per diviate con noi Itf pace e le deU!fÌ9.,-fim lagu^rf!^ e i p^ricoU y , ft 'qm sti in a ili , se a b^ne riescano ! Convocheretno forse mia turba, qU(il ffi quella rigete tetta da noi, plebea e senza Uui? Ben ^ chiaro pe’ disagi suoi, io dÌQ.0 ptr debiti, per le penalità, fi per. eaufe altreiiali prmder4 vfthnti^rifdipa dovunque una sede: ma sebbene questa pU(lfe siaiMile, e ,( per concederle . questo ancora ) sebbene sia modetma ; tuttavia ci riuscirà gte»eralmente , assai m^Ho buona della nostra , percJiè non è nata tra noi, nè copip^ìtoi disciplinata, e perchè ignora i rtQslri costum i,Jeno^ sire leggi, e le nosu-e maniere.. LUI. Quanto alla plebe nostra san pure qui o s ta ^ ira noi, i figli, le mogli, i genitori, e tante t pre per-: sone che h f^partengono ; e l'amore , viva Dio , della, t rrct, die gli lia nudriti è nat^ri^ in fa tti, ed indei , lebile. Ma una plebe sop^acchiamata , plebe qui ricoverata se tra noi si domicUU, tal che non abbia qui r\im;iQ' dfi beni indicati ; per ifual fine mai correrà tra’ pericoli , se niuno le pi^mi^tta. una^parhe.4^lle terre e della, città, spogliandone chi le possiede quando non abbiamo voluto con^^def le a’ nostri cit-, ^ i n i i quali guerreggiarono tante , volte per, co^qu^r starle? Che sì, die forse non ,sarà, contenta.!^ que- sto solo ; ma yprrà partecipare al paro de' patrizj, gli onori, li magistrati , \ed ogni bene. Or se in ciò

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che <ihiede non la secondiamo ; ne diviene inimica; ma se io: secoridiàmo } addio patria, aeUio governo ! gli aunvwà 'colle mani nostre med&sinie rovesciati. A que­sto agpungo che noi di presente abbiamo bisogno di uomini atti alla guerra, non di coltivfOorif nè di mer­cenari , nè di mercadaati, nè di fai>bri, oziasi tra le arti loro , a quali è uopo insegnare le cpfe mi­litari, e la sperienza di questé ; diJj^HissUna ,pfir chi non vi .fu costumato. Eppure tali per necessità sa^ reibero, quelli, che qua da tutte le gefiti verrebbono, ed. unieebbotisi. Certo io non vedo che a noi si pre­sentino truppe coì\federate, n è , se a noi fuori della speranti si preseroassóro , vi ^esorterei che qui le ri- .ceveste, dopo tante città so^ogate ^ milizie alleate, iatrodoUeyi po' difenderle.

LIV. Considerando voi dunque queste e le cose dette dianzi j ricordatevi ancora in grazia di chi vi ammonisce alla pace, che non qui la prima ed unica volta si è scissa la povertà dai ricchi, nè la igno- . biiità dai nobili ma che la ntoUitudine per lo più tumultua contro de pochi in tutte per così dire le città

.picciole.e grandi: che in queste i capi, del comune salvarono, colla moderazione la patria, ma colla osti- nàzione rovinarono sestessi e tutti i buoni : che ogni cosa composta da pià parti sconciasi naturalmente in alcuna :.\ che inoltre c^mè noti sempre ne’ corpi umani dee recidersi ogni parte che infermasi ; perchè brutto diverrebbe V aspetto , nè,molto durevole il complesso delle altre così non dee troncarsi dalla repubblica ogni. n\embro che le, si vizia, perchè alfine manche-

D i o m a i , Itmo I I . i;*

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rebha tatto il suo corpo instane co' membri. , Consi^ derando injtìte quanta sia la forza della necessità alla quale sóla cedono anche gli ì)ei, non vi sdegnai» colla sorte, nè vi ostinate, nò insanite quasi vadavi W to a seconda : ma piegatevi e condiscendete prenn. derido esempio della iella risoluzione da! fia ti della patria, non delie genti.

LV. Si gloriino, egli è ben giusto, il cittadino, come la intera città per V egregie loro ef/àoni, ma in sieme provvedano come pur le future a queste corri­spondano. Voi tenendo nelle mani k^n id nemici che tanto vi aveano alloggiato , non voleste nè distrag-, gerii nè cacciarli da’ loro poderi ; ma consentiste che avessero le case, i heni, e le patrie ove nacquero , anzi concedeste ad alcuni di loro che , quanto vo i, fossero cittadini e votassero.. E qui dicasi pure V al­tra pià meravigliosa delle opere vostre , cioè che voi lasciaste senza pena molti de’ vostri che aveano gra-K vissùnameme mancato contra voi, sfogando l’ira vo­stra su capi; e sono que’ cittadini, appunto quelli,, che divennero poi li coloni di A n te r a , di Q-ustu- mero, di M edullia, cU Fidene, ed aitri in copia. Che giova infine commemorare quei tutti che voi avete assediato ed espugnato , e poi trattato discretamente e da cittadini? Nondimeno non fu Roma danneggiata o . vituperata, ma celebrasi la vostra demenza, e niente si diminuì la vostra sicurezza. D ite, voi che avete a! nemici perdonato , farete vai guerra agli amici? Voi che avete lasciati impuniti i prigionieri, voi punirete quelli che hanno insieme con voi con-

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^uistato t impero ? Voi che aprivate la vostra città come asilo sicvaro a chiim^ug ne ahbisognat'a , avretxiil cuore di esduderne Quelli che ci nacquero , quelli <ihe furono con voi educeoi e nudrìti, quelli in somma che fiiroho tante volte i vostri compagni de’ beni de’mali in pace, ed in guerra? Ifo } se vorrete fa r «IO che è giusta ciò che a voi s i comviene, e se ciderete senta ira de’ vostri varOaggi.

LVI. Ma dirà taluno : ben dee calmarsi la sedi» ^ione : noi pure il sappiamo > e ccddamente lo desi­deriamo : or t» piuttosto ci addita come debba eal- Tnarsi. Vedi pure queuOA ostinazione è nei popolo,,il quale nò manda A noi per cùìtciliarcisi esso che è

offensore , nè porge risposte umane e ,socievoli a quelli che noi stessi gli abbiamo inviati : ma s’ inai* iero’^ minaccia , nè laida conof cere quello che w - g/ja. Udite voi dunque ciò che io consiglio che fa c ­ciasi. Io nè penso il popolo irreconciliabile a noi^ nè che mai farà quanto minaccia >* dicchè mi sono buon argomento le opere sue che a* detti non somim gliano. Don£ è che io lo credo assai pià che noi sollecito di pacificarsi. Certamente noi abitiamo una patria onoratissima » e teniamo in potar nostro le so­stanze di lu i, le case , i genitori , « tutte le cose pià preziose: ed egli si trova senza patria, senza ma-> gioni, senza i pegni suoi più cari > e senza V àbbon* danza ancora del vivere quotidiano. Che se escano mi chieda: perchè mai fra tanti patimenti egli nè ac­cetti gV inviati nostri j nè mandi a noi per istanza m una, rispondo ciò essere mmìfestamente y perchè

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2 6 8 D ELLE a n t i c h i t à ’ RÒMANE

fin qui non intese dal Senato che parole senza ve­derne poi lè opere o di benevolenza o di modera- zione ; e perchè crede di essere stato mcdte volte in­gannato da noi che promettevamo di provvedere sn lu i, senza at ervi mai provveduto. Non ci spedisce am- hasciadori perchè son qui tanti che ce lo accusano , e. perché teme non ottenere ciò che dimanda: e forse così gli suggerisce un ambizione non bène conside­rata; nè già è meraviglia. Imperocché son puire trA noi non pochi, difficili, contenziosi, i quali colle brighe loro non vogliono che cedasi punto ai contrarj, e cercano per ogni via di soprqffzttli senza mai con­discendere essi i prim i, finché loro non sottomettasi chi vuole essere beneficato. Or ciò considerando io penso che debbansi spedire al popolo ambasciadori, principalmente di sua corfidènza : e consiglio che questi ambasciadori siano plenipotenziarj, perchè le­vino la sedizione coi patti che essi terranno per giu­sti , senza rimettersene al Senató. Questo popolo che ora vi pare sì spregiante e grave , questo dafà loro udienza , al vedere che voi cercate veramente la con­cordia, e ridurrassi a condizioni piti miti^ senza chie­derne alcuna vituperósa, o non fattibile. Impetocchè tu tti, e specialmente i plebeiine’ dissidj s'infuriano con chi su toro insolentisce ; ma si ammansono con chi li blandisce. ■ ,

LVII. Cosi disse Menenio; e levossene In Senato gran romore, parlandovi ciascuno alla stia volta. I fautori del pòpolo esortàvansi a vicenda' a dar tutta la InanO per­chè ripatriasse, avendo per capo di questo consiglio il

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pìà riguardevole de’patrìzj. Per l'opposito quegli ottitnati die cercavano cKe nulla si alterasse 'de' coslubii della patria mal sapeano ciò che avessero a fare, nè volgano condiscendere; nè poteaao ostinarsi. Nondimeno uomini integerrimi nè caldi per l’ uno o 1' altro partito volgano la pace, intenti a questo di non essere assediàti tra le mura. Or qui fattosi da tutti silenzio il più anziano dei cònsoli encomiò Menenio della sua generosità, stimo> landò anche gli al^i a somigliarlo nella cura della re­pubblica , a dir francamente ciocché ne sen tisseroe compiere senza strepito ciocché sen deddesse: indi nel modo stesso cercandolo del suo piarère; chiamò per nome Manio Valeno, uomo infra tùtti gli ottimati ca­rissimo al popoto>, e fratello aU’uno di quelli che aveano Uberato Roma dai 'tiraani.

LVIII. Costui levatosi in piéde ricordò ai Padri i suoi provvedimenti, e còmb avendo egli presagito più volte i terribili casi avvenire , ne tennero pochissimo conto : poscia e^rtò li contrari della pacè*, a non dinutere ornai su la moderazione , ma solo, a vedere ( giacché non aveano permesso che si, estirpasse quandó era ancor piccola) di racchetare ora, comunque ,<il pik presto , la sedizione y perchè trascurata j non proce­desse pià oltre, e non divenisse incurabile f o presso che incurabile , e sorgente di nudi senza fine. D i­chiarò che le dimande del popolo non sdrebbero come per V avanii ; e pronosticò che non s i . accorderebbe colle condizioni di prima insisìéndó per la sóla re­missione dei debiti, ma che vorrebbe forse ~ u» qual­che difensore , onde tenersi illeso nell’ avvenire : af-

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fermava che dopo introdotta la dittatura era i enutd meno la le ^e tutelare della libwià la quale non per* metteva oì patriz^ di uccidere alcun cittadino non giu­dicato , nè di cederlo giudicato reo nelle numi de’ loro contradditori, e la quale concedeva a chi wlea V ap‘ pello , di portare le cause al popolo da*patrizji tanto che quello si eseguisse che il popolo ne decidesse. Poco mancarvi che non fosse stata tolta al popolo tutta la potenza esercitata già da esso ne' tempi ad~ dietro, quando non potè ottenere dal Senato per le imprese militari il trionfo a Pubblio ServiUo Prisco nomo infra tutti degnissimo di quest’ oriore. Pertanto ben essere verisimile che il popolo così offeso sconfortisi nè abbia se non triste speranze della sua sicurezza. Non il console, non il dittatore aver potuto soccorreròil popolo, quantunque il volessero ; ansi averne par­tecipate le ingiurie e V awilimento , perchè studia- vansi provvedere su Im. Essersi poi cospirati per im­pedirli non uomini autorevolissimi fra li patrizj, ma uomini oltraggiosi, avari, acerrimi ne’ rei guadagni,i quali y pe’ grandi prestiti a grandi usure, aveano ridotto ■ schiavi ì piii de’ cittadini : dicea che questi

facendo loro dure, orgogliose. aveano alienata tutta la plebe da’ pabizf ; e - che datosi per capo A p ­pio Claudio y odiatore della plebe , e propizio ai po­chi , rimescolavano tutti- gli affari di Rotna. E se la parte savia del Senato non si contrapponesse, la repubblica pericolerete di essere schiava o distrutta. Da ultimo dichiarò bea fatto valersi del parer di Me- nenio, e chiese che si spedisse al popolo quanto

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prima t procurassero i deputati quanto volessero la calma della sedizione : ma se il popolo non accet­tava le dimanda loro, essi queUe accettassero del popolo.

LIX. Sorse , inritato, dopo lai Appio Claudio, uomo contrario al popolo, e grande estimatore di sestesso, nè senza cagione. Perocché nel virere suo quotidiano era moderato e santo, nobile nella scelta de' provredimenti, e tale da conservare la dignità de' patrizj. Costui preo* dendo occasione dell'aringa di Valerio, disse: Certa^ mente sarebbe Valerio men riprensibile [se palesava uniceunente il suo parere, senza condannare quello de* contrari ; giacché non avrebbe nemmen egli ascol­tato i suoi vizj. Siccome però non fu pago di dar consigli onde renderci schiavi ai cittadini piit v ili, ma sferzò pure i Suoi corOrarj, àmmtando anche me ; così vedami necessitato assai d i rispondere, e di respingere primieramente le calunnie a me fatte. Son io rimproverato di una condotta nè sociale, nè decorosa, quasi io cerchi per ogni via fa r danari , quasi spogli molti de' poveri della libertà, e quasi da me sia derivata in gran parte la separazione del popolo. Ben vi è facile però di conoscere che niente d i ciò è vero ', niente probabile. Or su , dimmi, o Valerio, quali sono quelli che ho io ridotti servi pei debiti, quali i cittadini che ora tengo nella carcere ? Quale dei fuorusciti si è privato della patria per la duretza e per V avarizia mia ? Certo non potrai tu dirlo. A nzi' tanto è lungi che alcuno sia da me ri­dotto servo pe’ debiti; che io sparsi tra molti F aver

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m io, nè mi rendei schiavo, nè disonorai niimo\di quei che''mi hanno defraudato : ma tutù ne aon li- beri , e tutti me ne ringraziano j e stansi nel numero degli amici e de clienti miei pià familiari, .Nè ciò dico per incolpare chi' non opefa come m e, nè per ingiuriare chi ha fatto cose concedute dalle leggi; ma ■solo per levca-e' da me . le ', cabinhici

LX. In ciò' poi che mi accusa della durezza e del patrocinio mùf sui scellerati, chiamandomi odiapdpolo ■ed .o&gtiTca . perchè favorisco il comando de pochi in ciò son io da . , riprendere quantp voi che avete , ricu­sato, come \pià^ riguardeyoU:, di soggioc^e ai men degni y e di. lanciarvi foriere, il comando dei. vo­stri antenati .da una democrazia y pessimo iafra tutti i governi. Nè già perché egli soprannomina oli­garchia il comando de pochi doterà questo disciogliersi per le hqffè \del nome. E pià ^ustamente, e propria^ mente possiamo noi riprendere lui come un adulatore del popolo, ed un ambizioso. ,di tìrfmneggiare,. Per- jcioochè.niuno ifftora che la tirannide nasce, dalle adu­lazioni. della plebe : e che la via speditissima a ren­dere le città scìòàve è quella che mena al comando '■colmezzo dt^.cittadini, peggiori. Or egli ha Jm qui 'earezzatò costoro, nè tuttavia cessa di carezzarli. vedete .che questi abietti , questi ■ tmseri nop, avreh- 'beno mai ardito d'insoléntire in tal modo se non fossero stati eccitati da questo sì riguardevole e sì •heUo amatore della patria, come se .T oper^ non sa- ■i^ b e stata per loro i pericolosa ;.anzi , che in luogo. d’ .iticorrere. alcuna pena , avrebbero vanta^iato di

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Condizione. E , che io dica il vero, potrete conoscerlo, ricordandovi, che facendoci egli paura per la guerra, ed inculcandoci necessaria la pace, affermava insieme, che i poveri, lutto che liberati dai debiti,. non si ac­cheterebbero , ma vori'ebbero una difesa maggiore, senza permettere di essere dominati da voi come per addietro. Da ultima vi esortava di conformarvi ai tem­pi , e di concedere ciocché il popolo volesse pel ri­torno , senza che distingueste ciò che è decoroso da ciò che sconviene, nè il giusto daU ingiusto. Tanto la parte stolida di Roma fu riempita di pervicacia da questo seniore , da questo che noi abbiamo con tutti gli onori magnificato! O r; dì Valerio, convenivati lanciar su gli altri accuse - non proprie , quando a le si doveano propriamente?■ LXl. E su le calunnie di costui basti il detto fin qui. Ma quanto alle consultazioni per le quali vi siete adunati pormi giusto, degno di Roma, ed utile a voi, eiocchà io vi suggeriva da ' principio , e tuttavia , cor- stante, vi suggerisco, vaie a dire, di non turbare la Jorma del gOi erno , di non movere I9 costituzioni in­violabili degli antenati, di non togliere la buona f e ­de , santissimo vincalo della cómun sicurezza, nè di cedere ad un volgo ignorante ; accintosi ad una im­presa ingiusta o svergognata. E non solo io punto non mi rimovo dal mio parere per tema de' miei con- trarj, i quali vogliono impaurirmi coU aizzare in Ro­ma la plebe contro 'di m e, anzi più che prima mi ostino nella indignazione, e raddoppio la insofferenza mia cantra le dimando del popolo. Certo ammiierei o

Dioatai, tomo it.

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2 7 4 D ELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE.

Padri Coscritti t incocrenza vostra, se voi che non avete accordarci t assolusione dei debiti al popolo che ve la chiedeva non essendo ancora vostro aperto ne- miao, voleste accordargliela ora che è su £ arm i, e

fa cose ostili; tutto che gli vergano, in merite ben altre dimande ( e gliene verranno ) , e farà primiet ramenle di essere a voi pari nel competere e nel par- tecipare gli onori. D ite, ammettereste voi dunque untf democrazia , governo , corri io diceva , il più indisci-* plinato di tu lli, e dannosissifno a voi che aspirate a comandare su gli altri ? No , fin che siete voi sayj , ciò non farete. E noti sareste voi stolidissimi, se non avendo comportato di soggiacere ad un solo tiranno, ora vi sottometteste alla dominazione del popolo, quale è la tirannia di molti ? nè già per grazia <f;he. chiedavi; ma per necessità che. imponevi , cedendo, contro voglia , per non sapere che farvi. E se la plebe insana in luogo di esser punita sia prendala de’ tuoi delitti, quanto non diverrà caparbia, e quanto inso­lente ? Non vi lusingate che sia per esser moderata nelle dimanda, quando sappia che voi tutù avrete ciò decretalo.

LXn. ./Assaissimo tri questo s' ingmna, Menenio or- gomentando dalt indole sua la moderazione degU altrii Fi sovrasterà la plebe piil grave del dovere per la baldanza solita a nascere in chi prepondera, e per la imprudenza propria in gfan parte della moltitudine. E quantunque ciò non faccia in principio ; certo col volger del tempo pigliando le arme ogni volta che non sia sonda ta vi fa rà , come ora, violenza terribiie.

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t'arifó che se voi, giudicandolo a proposito, le cot»‘ ixdénte una prima cosa ; ben tosto per esservi così iatciati vinci rè dalla paura , dovrete concederne anche altre , è poi altre a mano a mano pià sconcio e piìi duiré ; 'finché Ui'càccirto di città , come succedette in tdiré, èd tdlinianìentè in ^irdcìisà, ove i proprietarj daUé terre furono ésputsi dai loro clienti. Che se sde­gnati per le nuove dimàrtdé, foste allóra per contrap- porvelé ; tì pèrche non potàte fin da óra aver libero tenore ? P'dl meglió che eccitati ■ da piccioli impulsi, ipieghiaté prinia dì essere óffesi ùn indole generosa; thè riserltirvene dopo àvernè toUérate béri molte i co- tniriciOré a fa r senno , mà tardi, né permettére piil oltre C insolenza. Ninno di Poi tema nè i mòti dei rivoltosi i riè le guerré cogli esteri. Non diffidate delle vostré fò rzè , quasi insufjìciénti alla difesa di Roma. Piccàlà é la ntilizia de’ fàggiiivi j e quella, che ora ti sta ili campo aperto liori resisterà pòi 'lungamente héll’ iris>erno tra le speìonché qiiaitdó consumati i vi­veri ché tiene rion potrà fornirsene altri predando , e

meno pótrà procurarseli altronde compe'randoli, essa che è stretta dalla miseria , é nuda di danari pubblici ó privati. E le giierr^ pér lo pià coll abbondanza dei danari si maniérigonò. Non regna in essi che l’anar­chia , e come è veriiimilé, Seguitando dalT anarchia la sedizione , presto conforiderà e dissiperà tutti i loro disegni. Già nón i>ortanno servire ai Sabini, ai Tirreni, né ad altri, sottomettendo sestessi a quelli a quali un giorno rapirono con noi la libertà. Mollo piil che quelli non si fideranno a questi che pronti

LIBRO VI.

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t l 'jG D E L L E A N T IC H IT À ; R O M A N E

sono a rovinare scelleratamenle e vitMpoi'psameni Ììx patria , affinchè non facciano. aitr^tlanto a chi li ri^ cave. Ti ltje le gent,i intorno-sonO' g o v ern i d(^U o#* limati , né . il popolo, ha diritti egiK li etd ejsi in niuna ciità. Di tal cite li prifnarj di ognuna di qmfMe noti vorranno rimovere, dalla patria ta plebe loro per irtn trodurvene una estranea , e tumultuaria ; perchè esfi stessi che ye t accomunano non jiiano col tprfipo spo­gliati. dei loro diritti. Cìte se io m' ingannassi n e l mio sentimentó , e taluna città li ricettasse, ci si dareb­bero con ciò appunto a conoscere come nerbici, « dovrebbonsi come tali trattare. Ahhiam per ostaggi le hro mogli, i loro padri, e tutto il parentado , dei quali non potremmo chiederne altri migliori da' Numi. Questi, li collocheremo nói questi al cospetto dei loro congiunti, minacciando , se tentano assalirci, di uc­ciderli con estremi supplizi : ma, credetemi, dove ciò sappiano, vai li riceverete inermi, supplichevoli, pian^ genti, pronti ad ogni pena. Terribili sono, tali neces­sità , e frangono, ed annientano ogni bmldonza.

LXni. E questi sono i riflessi pe’ quali non dob­biamo la guerra temere degli esuli. Le minacce poi di altri popoli non ora la prima volta si trovarono,

fin ire in parole ; ma per addietro ancora ci si sco^ prirono sempre minori delt apparenza quante volte i popoli fecero di noi pai'agone. E quelli che tengono per insufficienti le intime nostre forze, e però temono appunto la guerra , quelli non bene le han calcolate. A i cittadini da noi separati, se il vogliamo, possiamo contrapporre scegliendoli e liberandoli il fiore de’servi

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LIBRO V I. Ì2 7 7

Cerlamenle vai meglio donare a questi ia Mèertà', che lasciarsi torre da quelli il comando : tanto più che stali essendò quesU tante volte presenti ne’ nostri campi hanno sperienza che basta di guerra. Per com^ hallere poi coglia esteri usciremo noi stessi pieni di ardore e meneremo con noi tutti i clienti, e lutto ii resto del popolo: e perchè sia questo espedito a’di­menìi , rilascer emo ciascuno priuatamertle, e non mai per legge, ad esso i suoi debiti. Se dobbiamo in vista de’ tempi cedere in .parte e temperarci; non dee mai farsi questo con citladirH che ci s'inimicano, ma cogli amici, perché sappiasi che noi toncediamo gra~ zie , commossi e non violentati s che se queste non bastino, se bisognino altre fo rze , farem venirne dcà presidii e dalle colonie: e quanta sia la moltitudine loro , è facile raccoglierlo dalU ultimo censo, 1 Ho- mani atti alle arn^e son cento trenta mila, e di questi appena la Settima parte è fuggita da ìu>i (i). Non commemoro qui le trenta città de’ Latini, le quali come vostre alleate , comhattercmna di bonissima l'o- glia per voi, sol che decretiate di ammetterle alla vostra cillndinariza che sempre vi hànno domandata.

LXIV. Ora vi aggiungo ( e finisco ) quello che ri- leva fra le arme assaissimo , e che voi non avete av­vertito, o certa niun dice de’ Padri. Chi cerca il buon esito delle guerre, di niente ha tanto bisogno, quanto di egregi capitani. Or di questi la nostra città soprab-

(i) Questo eeusonun par quello fallo da T. Largio primo dittatore, mii l’aliro fissalo da fiigouio nell’ anno 360 di Aoma, ore dice cbe furouo ouroerali pi<l clic ceotddìtei mila ciliadÌDÌ.

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honàa, ma scarsissme ne sono quelle de’ nemici. Le grandi milisie se ricevano duci mal Otti alle arme, si svergognano, e rovinano di per sestesse- con danno tanto maggiore, quanto sono più numerose: ma i buoni condottieri presto rendono grandi anche pUxiole ar­mate. Di qua seguita che fiTwhè avrem uomini buoni al comando, mai avremo penuria di quelli che fa c ­ciami comandare. Or ciò considerando, e ricordando voi le imprese di Roma ; certo mai non porrete de- treli meschini, v ili, indegni. Che dunque, se alcuno mel chiede, ( e già forse bramale da gran tèmpo sa­perlo ) che dunque io propongo che facciasi ? Io pro­pongo che nè spediscansi ambasciadori àfuorusciti , nè sen decida la remissione dei debiti ; nè vengasi ad altra cosa niuna l(t qual sia documento di timore e di debolezza. Che se deposte le armi tornano in patria; se lasciano che deliberiate su di essi; pro­pongo che placidi neW esame usiate moderazione, ri­flettendo che ogni stolido, specialmente la moltitudine, insolentisce con chi se le umilia , ma si umilia con chi le si ostina.

LXV. Tacìulosi Claudio levossì ia Senato clamore e torbido grande e diuturao» Que' che sembravano tenerla dagli ottimati, e pensavano doverst mirare {tnzi al giu< Sto che all' ingiusto, si unirono a Claudio, e solleci­tarono i consoli più che altri a mettersi nel partilo dei potenti con dire, eh’ essi aveano un comando anzi regio che popolare ; o a restarsi almeno neutrali senza avva­lorare niuna delle parti j finché raccolto il voto de' se­natori si dedicassero ai voleri dei più. Se violato 1’ uno

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e ]' altro di questi consigli, faceano di lor voglia la pace ; protestavano che noi permetterebbero, ma vi si opporrebbono di tutto lor animo, colle parole ^ncliè dovevasi, o colle arme in ultimo se bisognava. Era qa&t sto partito il più forte, aderendovi quasi tutta la gio' veniù patrizia. In opposito piegavano al partito di Me­nenio e di Valerio tutti quèlli che aveano cara la pace,0 che temeano soprattutto per l’età loro, considerando quanti siano nelle città li mali delle guerre civili. Mossi però dai clamori e dal tumulto dei giovani , adombrati dall*^ibizione loro, e dall’ arroganza contro de'consoli, e timorosi che, indi a poco si venisse alle mani se nou cedevano ; si volsero in ultimo a piangere, e supplii care, piangendo, i contrarj.

LXVL Sopitosi col tempo lo strepitp, e tornato il silenzio, i comsoli abboccatisi fra loro, cosi conchiuserò, Noi vorremmo primieramente o Padri Coscritti, che yoi lutti foste unanimi d" intelligenza e di volere in-, tomo la salvezza del cotnune : se no, che i più gio^ vani almeno cedessero , non ripugnassero a’ seniori , considerando , che ancK essi giunti alt età di questi avran pari onori dai discendenti. Ora siccome vediamo voi caduti in una discordia, rovinosissima fra i nudi umani, e sorgere qui mollo P arroganza de* giovani; e siccome poco ornai sopravvanza del giorno, nè pos“ sono a\>er fine le discussioni ; ritiratevi dal Senato tornerete in altra adunanza più placidi e con sentenze migliori. Che se qui persevera /' amore delle cotitese, non più ci varremo de'giovani per giudici, nè per consiglieri su quello, che giova.", ma precluderemo il

LIBRO VI. 3 7 9

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a S o DELLE antichità ’ ROMANE

disordine con una legge ; determinando la età che OMer dee chi consiglia. Quanto a’ seniori se non si uniscono ne' seniin%enii ; torneremo a dar loro la pa­rola , e ne risoU>erento le dispute per una via spedii tissima, la quale è meglio che-voi udiate e conosciate precedentemente, f^oi sapete che noi abbiamo fin dalla fondazione di Roma , che il Senato è t arbitro, è vero , di ogni cosa, ma non di creare i ministrati, non di fare le leggi, non di portale o cessare la guerra; le quali tre coso il popolo le difinisce in ul­timo col suo volo. E siocorne ora non consultiamo che su la guerra e la pace ; coti debbo il pòpolo, ii~ herissimo ne suoi voli ratificare indispensabilmente i vostri decreti. Quando voi dunque avrete dichiarato i vostri pareri, noi seguendo questa legge, inviteremo la moltitudine al Forò, perchè ne sententii. Così le contese avran fine ; mentre ciò che la pluralità dei voti destincnA, quello abbracceremo. Senza dubbio son degni di quest' onore quelli che si tennero finora be­naffetti alla patria io dica i comparteeipi de’ nostri beni e de’ mali.

LXVn. Sciolsero, ciò detto, l’ adunana^. Fecero nei giorni appresso annunciare a tutti de’ villaggi e delta «aiYipagna che si presentassero, e similmente al Senato che si riunisse nel di stabilito ; e quando videro la città riempita di popolo, e gli animi de’patrizj mossi dalle preghiere fatte tra le lagrime, e tra’ lamenti de' Teccht genitori , e de’ teneri 6 gli de’ profughi , recironsi nel tempo destinato sul ^nir della notte al Foro , angusto a lutt^ la mollilnditie. Yeqmi al tempio di Yi^lcano

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donde soleano ariogar l’adunanza, lodarono primiera- . mente il > popolo dello zelo e della prontezaa nell’accoro nere in u nu freqneaza; quindi lo esortarono che aspet­tasse in calma la risòlusione del ^Scnato; animando in­tanto gli attenenti de'profughi a buone, speranze, come quelli che riavrebbero tra non molto i loro pegni dol­cissimi. Dopo ciò passando in Senato-vi'tènneÉo bcDÌgai e modesti ragionamenti, ed invitarono ancor gli altri a proporre consigli vantaggiosi, ed anfani..Chiamarono innanzi tutti Menenio, il quale alzatosi in piede rivenne ai suggerimenti di prima stimolando il Senato alla pace : e riproponendo che si deputassero ai segregati bentosto de’ personaggi, arbitri di concordare.

LXYin. invitati poi secondo 1'età sorsero a mano a mano gli uc^nini ooosolari: parve a tutti questi che fosse da seguire il parer di Menaiio finché toccò ad Appio di favellare. Or questi sorgendo veggo , disse, d Padri Costrkli che piace ai consoli e pacò meno che a tutU di rimpatriare il popolo colle condizioni ch’.éi vuole: che fra tutti i contrarj deila pace or io rimangonù solo , esposto aie odio di quello, e niente utile .a voi. Ma non pìer questo rimovomi dalle mie prime delir- berazioni : nè ripudio da me stesso ciò che intendo su la repubblica. Quanto pià restami derelitto da quelli i quali come me ne sentivano ; tanto più c»l volger degli anni ne sarò pregiato tra voi, sarò in vita coronato di gloria, e morto sarò benedétto dalla ricordanza de’ posteri. Sia pure o Gioi>e Capitolino ,o Dei presidenti della nostra città, o eroi e genj, e quanti in guardia avete il suolo Jiomano, sia pur

D W N Z G I, t»mo I I ' | 8 *

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a 8 a D ELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE

bello ed utile a tutti il ritorno de Jìtorusciti, e de- lusa resti la espettazione eh’ io nC avea su V avvenire. Ma se pe' consigli presenti dee venire ( e fia ciò pa­lese tra non moUo ) alcun disastro su JRoma, deh ! rettificateli voi prestamente , e fa te la nostra salvezza. Deh ! siate benevoli e propizj a me ohe non avendo tnai voluto dir le piacevoli per le utili cose, non tradirò nemmerC ora il comunè per la mia sicurezza. Io così volgami a pregare gC Iddj ; perchè non abbiso­gnano pià parole. Aipeto la sentenza di,prim a: A s -

SO LV A St IL POPOLO JaM ASTO IH CITTA* D A I D SB IT I ;

U A COtSSATTANSZ COW TUTTO l ’ARDOSM l rO O R V SC iT l

r m c B È ST A R A jrao s a l x a r m i .

LXIX. E ciò detto fini. Poidiè le sentenze de' seniori oencotdaronsi con quella di Menenio, e poiché venneil discorso ai giovani ; standosi tutti in espettazione, sorse Spurio NaOzio, un rampollo della jwosapia nobi­lissima originata da quel Nauzio compagno di Enea nel guidar la colonia, e sacerdote di Mberva urbana, il quale nel trasmigrare arcane portato seco il divin simu­lacro , dato poi snccesùvamente in custodia a' suoi di­scendenti (i). Ora Nauzio che parea per le sue bdle doti più nobile ancora di tutti i giovani, nè lontano molto dalT ottenére la dignità consiJare, cominciò la difesa comune di questi : diceva che quando nel Senato

( i ) Anche Viigiiiio & umbiìoim di quMto N tax io , cfaa egli cbi»- ois N a u t» , nel libro 5.

' Tarn tenìor N autes , unum Tritonia PalUu ,Quaem docuit, mvUaqua insigium reddidit arte,H ate retfom a dabat.

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precedente weano jjronunziaU) . in contrario dii padri, non fu già per amore di contendere o d insuperbire con es-sij ma solo mancando, se aveano pur mancato, per inesperienza di anni: e soggioose che fa teh- hero fede d i ciò co/ variar sentimene : che lascia^ fono a loro come pià savj decidere co’ voti il ben del comune : essi non contrarierebbono , ma secon­derebbero i seniori. E dichiarando lo stesso aocor gli altri gioyani, tolune pochi, legati di parentado con Appio; i consoli ne lodarono la verecondia; ed esorta­tili 4id essere sempre tali ne’ man^gi pubblici, dessero tra' seniori più cospicui dieci deputati, uoinini consolari tntd, fuori che uno. Furono gli eletti, Manio Valerio, Tito Largio, Agrippa Menenio figliuolo di Gajo , Publio Serrilio figlio di PubUo, Postumio Tnberto figlio di Quinto, Tito Ebnzio Flavio figlio di Tito, Servio Sul- picio Camerino figlinolo di Publio, Aulo Postumio Albo figliuolo di Publio, Aalo Verginio Celimontano figliuolo di Aulo (1). Or qui sciolto il Senato i constai vennero all'adunanza, e vi lessero il Seuatusconsulto, e vi pre­sentarono i deputati. E chiedendo la moltitudine di sa> pere le istruzioni che aveano ; dissero tutti manifesta­mente che erano queste, di riconciliare in ogni motto ma senza intrico ed inganno il popolo co’ patrìzj, e di rendere quanto prima alle case loro quei che le aveano lasciate. .

LXX. Presi tali ordini, partirono i deputati nél giorno

( i ) Nel testo si omettono Manio Valerio , T ito Largio , « si no ­

tano altre maocanx* in questo laogo. Mei abbiamo seguita la lexioae

d i Porto.

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2 8 4 D E L L E a n t i c h i t à ’ RO M A N E

Diedesimo. Precedè la fama il gianger loro, dtvalgaodo nel campo tutte le cose fatte in città : dond' è che la- sciaodo tutti le fortificazioni uscirono inamantinente in­contro a'deputati che erano- in via. Aveaéi nel campo un uomo turholenio affatto e sedizioso j acùto' a preve­der da lontano ciocché 'avverrebbe , nè insùfBcirate , come parlator lusinghiero, a dime quanto, ne pensava. Chiamavasi questi Lucio Giimio col ioorae appunto di lui che tolse i tiranni : e voglioso di assumerne il nome per intero , faceasi mtitolare Briìto ancora. Rideàno i più su la cura vana di esso, e Bruto il chiamavano quando pungere Io volevano. Or questi ihise in cuore a Sicibio, duce deir esercito , che il.baie del popòlo non istava nel rendersi troppo facilmente, sicché men degno ne fosse il ritomo per le umili condizioni; ma nel re- sbtere lungamente, simulando come in una tragedia. E profferendosi egli a Sicinio. di parlare in favore del po­polo , e . suggerendogli altre cose che erano da fare o dire , lo persuase. Dopo ciò Sicinio, convocato, il po­polo, impose a'legati che dicessero le cagioni per le quali vanivano.

LXXI. Recatosi in mezzo Marno Valerio come il più provetto e popolare , e icontestatt^li dalla moltitudine la sua benevolenza con grida e saluti ami<^cyoli, alfine, fatto silenzio, disse: Niente t o popolo proibisce cha vi riconduciate alle vostre case, niente che vi paci- Jichùae co’ Patrizi. I l Senato ha per voi decretcftó un ritorno utile e decoroso, e di- non pià ricordare o vendicare il fatto finora. E noi che vedeva propen­sissimi per voi , come da )eoi rispettati , ha qui de-

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putato con poteri assoluti d i concordan: affinchè nói non opinando nè congetturando su vostri désiderf, ma udendo da voi stessi con quali condizioni chie­dete ricOnciUarvici, ve le accordassimo se moderate , se non impossibili, nè impedite da indecenza insa­nabile , senz' aspettare il voto de’ Padri, e senza 'in­tristire T affare colle dilazioni, e colla invidia dei contrarj (i). Avendo il complesso de'Padri così per voi decretato ; ricevetene il dono lieti , pronti , e benevolit pregiandone deliamente una sorte .sì bella y e rin­graziando vivamente Iddj che Ramai domina­trice di tanti, popoli, che il Senato, regoktUtre di tutto il bene che-è in essa, mentre V usanza della patria, non permette <Ae cedasi ad alcuno^ cedano alle istanze vostre solamente , nè pretendano ■■ come i p ià ’ grandi su men grandi discutere nùrtutamente ijuanto conviene ad ambedue , ma primi essi vi spe­discano per la pace : che non piglìasser con ira le risposte imperiose da voi Jalté ai primi ambascia- dori, ma pazientassero alV-orgoglio e fie r e ^ d i una ostinazione giovanile , come il buon padre sul figlio non savio : che volessero indirizzarvi una seconda

^ambasberia, diminuire i loro diritti, e rimettervisi fin dove la moderazione il consente. Giunti a tanta Jelicità non esitate a dime ciocché bisognavi, e non esorbitate o cittadini: lasciale le iedizioni: tornatevi giubilando alla terra che vi ha generati e nudriti :

LIBRO VI. 2 8 5

( i ) Allade ai senatori th è aTnhbond perorato in contrario nel Senato . '

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2 8 6 DELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE

Già non le deste voi li trofei e le ricompmse piii belle , riducendóla quanto è da v o i solitaria, o come un campo da pascolarvi. Se trascurata questa oc­casione , forse ne richiamerete pià ■ volte la sonùr gliante.

LXXIL Taciatosi Valerio feeesi innanzi Sicinio, e disse, che chi ben consulta non riguarda F utUe da una banda sola, ma lo contempla nel suo rovescio ancora , principalmente in affare di tanta importanza. Pertanto comandò che chi volea rispondesse a ci6, deponendó ogni verecondia e timore. Non permettere la natura delle cose che essi benché ridotti a tante angustie cedessero per paura o per vergogna : E qui, fttto silenzio, e gli uni riguardando sa gli altri, e cer> cando chi perorasse pel comune; ninno si presentò. Ma replicando Sicinio altre volte l'istanza venne alfine in mezzo secondo gli accordi quel Lucio Giunio desideroso di essere cognominato Bruto : ed avuto a far ciò grandi significazioni dalla moltitudine, tenne questo ragiona­mento : I l timore che avevate de’ Patrizj o compagni è scolpito ancora per quanto vedo , e trionfa negli animi vostri. Abbattuti da questo timore esitate fa r qui, udendovi tu tti, i discorsi che usavate tra voL Forse ciascuno confida che il vicino suo aringherà sul comune, e che piuttosto incorrerà tra’ pericoli ogni altra e non egli: anzi che egli tenendosi in sal^ vo , goderà senza pericoli parte del bene ché possa mai nascere dalt ardire degli altri : ma stolto è que­sto concetto. Imperocché se tutti aspettiamo la stessa cosa, la codardia di ciascuno sarà nocevole a tutti;

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e dove ognuno figurasi la sua sicurezta ; ivi insieme oàn tutti rovinerà la comune. Ma se non avete apt preso finora che .per le arme ci togliemmo la paura, e per le arme (n>ete consolidata la vostra libertà ; conoscetelo ora almeno, ed i P atrhj, essi stessi ve lavinsegnino. Questi, orgogliósi, questi d iissim i uo- nUni'f non vengono come prima comandando e w » nàcciando, ma supplùxmdoci, ed esortandoci a tor­nare (die nòstre case.i e già comincìMw a trattarci come liberi vermiente. Che dunque or pià vi anne­ghittite e ta c ^ ? Che non la fa te da liberi uomini ? , e se avete già scosso il fieno : che non dite qui ora pubblicamente ciocché avete sopportalo da loro ? O miseri ! e quali p a ti^n d te m ^ ? se io stesso v’ in- vita a parlar, francamente ? Io dunque, io stesso mi rischierò di dire liberamente per voi ciocché è giusto, senza niente occultare.-JE poiché Kcderio dice che niente proibisce che vi rendiate alle case-vostre conceden- dovisi dal Senato il ritorno, ed essendosi decretata di non perseguitarvi} io risponderò a lui cose nen^ meno vere che g essa n e a dire.

LXXUL Oltre i motivi ben ff'oadi e varj , tre ne seno o Valerio Jbrtissirni e chiarissimi che c i^pe.- discono di rimetterei a voi deponendo le armi, I l primo è che venite a noi per esortarci come traifiati; e gmdioate benefic&wa vostra aecardw^ H ritorno :il secondo è che invitando noi a pac^carvici, niente dichiarato le condizioni compiacevoli o giuste su le quali possiamo ciò fare : è poi f ultimo che niente di qumto ci promettete sarà per essere stabile, giao-

LIBRO VI. 2 8 7

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chè avete continuato a ri^raroi e deluderci tante volte. Discorrerò di ciascuna di queste cose , ÓKominciando dai diritti ; giacché sempre dai diràti si vuol cotmn^ ciare sia che trattinsi le cose private, sia che le pub- bliche. Noi duatjue se ve ne abbiamo mai fa tte , noi non chiediamo jiè-mpumità nè dimenticanza delle in^ giurie. E non vorremo piii no starci, a parte delia vostra città , ma dandoci in bàlia della sorte e dei genj ehe ci guidino , ci fermeremo ì là dove porta il destino. Ma' se .per colpa vostra noi siamo ridotti (dia condizione in cui ci troviamo ; e petchè non cm^es- sate die voi li quali> foste- g liobro f^^to ri, vói abbi­sognate anzi di perdono e di dimenticanza ? Cóme dite di accordata voi questa ; q u a r^ avreste a di'- mandarcela ? Come così vi m agniate quasi voi cal­miate lo sde^io verso di noi , quando dovreste 'cer­care che noi verso di voi Iq placassimo ? Cosi con­fondete la. natura della verità-, così la digmtà dei diritti pervertite / Che 'poi nota siate' voi g li offesi ma offensori ; che voi beneficati, tante volte e , tanto dal popolo per fondare la libertà e V impero, lo abbiate non bene contraccambiato ; uditelo ', e convineetevéne. Io,non parlerò ^se Tton di cose che voi sapete , e se alcuna mai sarà fa lsa ; reclamate per gli Dei ve ne prego , non ohe stiate a bqda pazientando.

LXXIYw II nostro governo primitivo fu monarchico, ,e lo abbiamo conservato per setto generazioni. In tutti que principati il popolo non-fu mai cohadccOo dm re , specialmente dagli ultimi. Anzi lascio'di 4irètihe derivò da quel dominio molti e: segnOflati vantaggi;

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imperocché per obbligarlo a sestetsi ed alienarlo da voi lo adulavano non che lo favorivano, come fanno quelli che van cangiando il comando in tirannide^ Quindi è che espugnata con: lunga guerra Sesta j città doviziosissima ( i) , tatto che potessero , appro-< piarsi la preda y e non dividerla con altri , anicchen^ dosene più che tutti etsi che dominavano, noi sep* pero farey e la recarono in mezzo, e la resera » tutti comune. Tanto che noi ce ne •dù>idemn«f cinque, mine di argento per uno senza contare gli schiavi, li bestiami, e ^ nitri acquisti. Pur noi senza ciò ri^ guardare, dacché si valsero del potere per tiranneg­giare voi, non il popolo , ce ne incollerimmo , e /a- stdammo la benevolenza dei re per volgerci a voi. Cosi noi della città e dell' armala sollevandoci in­sieme con voi abbiamo cacciato essi, e trasferita e eonsecrata a voi la loro potenza. E sebbene tante volte stesse in poter nostro di passare al partito de-* gli espulsi coi bene ancora de'' doni cospicui che ci prometteano, perchè lasciassimo la vostra aderenza ; non abbiamo mai sostenuto di farlo , anzi abbiamo subito per voi guerre e pericoli varj, grandi, inces­santi : e già volge P anno diciassettesimo che abbiam guerra con tutti per la pubblica libertà. Perciocché non èssendo ancora ben fondato io stato di questa , amte accade nelle subite mutazioni; e tenbmdo due città Toscane nobilissime , quella de Tarquiniesi e

( i ) F a espugnata sotto Tarquinio superbo. Vedi lib. 4 i S

Pertanto è chiaro a qual* sovrano qui si a lluda.

m o m a i , umo ii. ■<>

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de Fejenti riportarci con esercito 'poderoso i monar- chi; noi affrontato il pericolo combattemmo , pochi incontro di molti; e spiegato un ardor luminóso li vincemmo schierati in battaglia, e respintili, conser­vammo il comando al console che ci restava. Non molto dopo volendo anche Porsena re dei Tirreni ri- menarci quegli esuli colle milizie di tutta laEtruria e con quelle, raccolte già da gran tempo dagli esuli stessi, pure noi che non m'evanto forze eguali da contrastarlo , noi che ci eravamo rinchiusi in città per esservi assèdicui, e che non sapevamo come espe- dirci in mazo al disagio di tutto , noi col sosienere magnanimamente ogni più terrihile prova , lo ridu­cemmo a farcisi amico , e partire. Da ultimo prepa- randosi i re per, la terza volta di tornare col soste­gno de’ Latini e col movere le armi di trenta città noi nel védervi che a noi vi rivolgevate , che geme­vate, che c invocavate un per uno, a ricordarci della compagnia, della educazione e della milizia comune, noi non avemmo il coraggio di abbandonarvi. Hipu- tando bellissima e nobilissima vhpresa combattere per vo i, ci levammo insieme contro il nembo terri­bile ; e rigettandone il pericolo gravissimo con rice­vere molte ferite, col perdere molti de parenti, degli amici, de compagni, vincemmo gli eserciti, truci­dammo i capitani, e portammo V ultimo colpo alla stirpe dei monarchi.

LXXV. Tali sono le prove che per liberarvi dai tiranni noi vi abbiam dimostrato con ardore maggior delle forze, guidati dalla virtà, non dalla necessità.

2 9 0 DELLE ANTICHITÀ.’ BOMANE

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Ora udite quelle che abbiamo fa tte perchè Jbste ono­rati ; perchè ci comandaste, perchè aveste un impero più ff-ande che in principio non ideaste : e se favel­lando devio punto dal vero, contraditemi pure, come già vi. richiesi. V o i, quando a voi parve di avere la l ib e r tà ^ salva e stabile , non sapeste contentarvi di essa : ma dativi ad imbaldamire e sconvolgere ; teneste tutti i popoli intorno per nimici della vostra eguaglianza, e poco meno che non dichiaraste la guerra alF uràverso. In mezzo a tanti perìcoli, in mezzo a tante gare della vostra ambizione, giudicaste che fossero da avventurare le nostre persone! E qui lascio di commemorare quante città vi abbiamo sog­gettate, vincendole in campo, o negli assalti delle mura, mentre una o due la volta con voi guerreggia­vano per la libertà. E come parlare minutamente di cose tanto feconde a discorrerle ? Ma C Etruria tutta divisa in dodici reggenze e tanto potente in terra e per mare, questa, dite, chi con voi cooperando la sottomise ? E li Sabini, quel popolo si numo'oso , e sì acceso a contendere con voi del principato, questi chi mai li ridusse a non più guerreggiavi? Che più} le trenta città de’ Latini non solo animate dalla gran­dezza della loro potenza, ma sublimate per ciò, che cercavano il giusto, chi le , domò queste, e le rese a voi supplichevoli per fuggire lo sterminio delle mura, e la schiavitù de’ suoi cittadini ?

LXXVI. Z<MCJO le altre imprese , quante ne ah~ hiamo cimentate con voi quando non ancora divenuti discordi partecipavamo anche noi per qualche maniera

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le speranze belle del principato. E poiché manifesta- mente rivolgeste il comando in tirannide y e voi fo tte àonvinti di usare noi come schiavi ; poiché noi non pià ci serbavamo simili ne’ nostri pensieri verso di t>oi, e vi si ribellavano intanto quasi tutti li sudditi cominciando la insurrezione i Volsà, e svitando la gli Equi, gli E tnici, i Sabini ed altri moki ; poiché pi sembrò venuto il tempo quale mai prima ci era venuto di fare , se volevamo , V uno o /' altro, 0 di abbattere / ' autorità vostra o di renderla pià mode­rata ; vi ricordate in quale ^sperazione cadeste ali- lora di poter pià dominare , a quali timori in tutto vi abbandonaste y sia che noi non ci unissimo a voi per cotnbattere , sia che portati dalP ira ci melas­simo co’ vostri nemici? Fi ricordate le preghiere , e le promesse che ci faceste ? E noi depressi, noi ol­traggiati da voi che facemmo ? JVai vinti daUe prer ghiere , noi persuasi dalle promesse , che questo buon Servitìo allora console porgeva al popolo, noi non pià mentori verso di voi dei nudi antichi, noi pieni di lusinghiere speranze per F avvenire, ci dedicammo tutti a voi stessi; e dissipate in poco tempo tutte le guerre, tornammo con seguito folto di schiavi e di prede bellissime. E voi, ne avete voi dato ricompense giuste , o degne de’ pericoli ? ma quando mai ? troppo lungi ne sùmto. Anzi ne avete tradito le promesse che imponevate al console di farci a nome del co­mune. E quest’ uomo bonissimo , del quale abusavate per deluderci, lo avete questo privato del trionfo, quando degnissimo ne era pià che tutti i mortali. Nè

2 9 3 DELLE ANTICHITÀ IlOMANE

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già per altra fagiane coti ancor lo sprecaste , se non pwchè vi dimandava eh» adempiste le prò-’ messe , e perché sdegnato mostratasi vhe ci bef^ fcuta.

LXXyiI. UUifntmeim ( vi aggiungo questo solo intorno al dirùto, e finisco) qmnd». gU Equi, i Sa^ bini, i Folfci inswsero di commi voto, e concitarono ancor gli altri, non foste ridotti, voi venerabili e gravi, a ricorrere a noi negletti e vili , colmandoci di promesse per iscamparvela ? e non volendo parer d! ingannarci come altre volte t trovaste per coprir la impostura questo Manio Falerio, uomo amantissimo della plebe. E noi credendogli come a uomo dal quale non saremnto traditi perchè dittatore, ed ami- cissimo nostro , ci consociammo novamente a voi per questa guerra, e vincemmo i n&mci con battaglie non poche, nè picciole, nè ignobilL Bidotta la guerra a bellissimo fine pròna ancora delle speranze comuni, tanto foste alieni da renderne grazie , e ben copiose al popolo , che cercavate ritenerlo anche sema voglia, sotto le insegne e fra V armi per trasandàr le prò-- messe, come trasandarle destinavate fin dal princi» pio. E non tollerando il valentuomo la beffa, nè la infamia deW opera, e riportando in città le bandiere, e rilasciati do tutti per le proprie case; voi, presone motivo onde non fa r la giustizia, ingiuriaste lui , nè serbaste a noi veruna delle convenzioni con tre abusi gravissimi , perchè profanaste la maestà del Senato, annientaste il credito di un tal uomo, e rendeste inutile a vostri benefattori il merito delle fatiche. Ora

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potendo noi dir queste e simili cose non poche, non abbiamo o Pattizj voluto piegarci alle umiliazio,ni ed àlle preghiere, nè accettare come i rei di gravissime colpe, il ritorno su la obblivion del passato. Seb­bene , essendoci noi qui riuniti pér concordare ; non dobbiamo ttra investigare pià sottilmente^ queste cose ma Vaiam o trascurarle e dimenticarla, e tener­cele.

LXXyilI. Che non dite voi dunque palesemente a qual fine siete qui deputati, e qual 'oof a venite per chiederne ? Su quali speranze volete in città ricon^ darci ? Qual sorte abbiamo a prendere per guida del nostro ritorrio ? Qual giubilo, quale benevolenza ci aspetta ? Fin qtii non abbiamo punto ascoltate esibi­zioni umane e benefiche, non onori, non magistra­ture , non sollevamento dalla indigenza, nè altre cose qualunque, sebben tenuissime. Quantunque non dovea già dircisi ciocché siete per fare , ma cib che fa te , perchè sperimentandovi subito, benevoli nelle opere vostre, vi argomentiamo ancor tali per V avvenire. Ma io. penso die voi risponderete.a ciò, che voi siete qui plenipotenziari, e che qualunque cosa ci persua­deremo a vicenda, sarà stabilita. Or sia ciò vero; e ne sieguano conformi gli effetti ; niente vi contraddico. Bramo però sapere le cose che d^ lóro ci si faranno dopo queste. Vale a dire , quando avremo noi detto su quali condizioni vogliamo il ritorno ; e quando ci saran concedute ; chi ci sarà di esse mallevadore ? Su quale sicurezza deporremo le armi, e metteremo le nostre persone di bel nuovo nelle lor mani ? Sa

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quella forse dei decreti che si faràn dal Senato , non essendovene ancora ? Ma qual cosa mai impedirà che ànnulliho questi con altri decreti, quando così paja ad Appio e ad altri ■ che pensàn coni egli ? Con­teremo forse su la dignità dei deputati che ne pot­a n o in pegno la fede loro ? Ma prima ancora ci han deluso colla interposizione di tali uomini. Riposeremo forse ' ne trattàti fa tti innanzi agl’ Id d j, e confermati da loro co’ giufamer^? Ma io temo di ogni fede umana consimile , vedendola da quei che comandano vUipesa. E so , nè già ora per la prima volta, chei trattati forzosi tra chi brama esser liberò e chi vuol dominare han vigore soltanto finché la necessità cosi porta. Or quale è queir amicizia e quella fede nella quale siamo costretti dd ossequiarci contro' voglia , insidiando f uno il tempo delP altro ? Allora inces­santi i sospetti e le calarmi ; allora le invidie e gli od) ed ogni maniera di nudi: allora la gara di preoc- caparsi a dis&ug^re F emolo ; riuscendo ogn indugio a mal termine.

LXXIX. iVbn vi èy come tutti satino, 'guerra pOt ^ista della civile : questa i vinti fa miseri, ed ' in­giusti li vincitori: e li vinti han dagli amici i lòr m ali, i vincitori agli amici li causano. Or voi dun­que o Patrizj. non vogliate chiamew noi a pari cir­costanze , a pari bisogno non desiderabile e noi o plebei non ci rendiamo loro mai più : ma cóme Uk sorte ci ha divisi , così teniamoci in calma. Abbian pur essi tutta Roma, senza noi se la godano, e ne raccolgano soli ogni bene, essi che han ridotto fuor

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della patria noi miseri, noi disonorcOi plebei. E noi emdiamocene pure dove gC Iddj ci guidano, conride- rondo che non la nostra ma t altrui città lasciamo. JPfiuno di noi qui Imscia non campagne proprie, non abitazioni paterne, non sacerdozj, non magistrature comuni come in sua patria’per {esercizio delle quali siavi ritenutó pur contro' voglia; anzi nemmeno la­sciammo qui per noi la libertà, quella che ci ave­vamo colle carme e con tanti travagli acquistata. Jnir perocché parte i nemici, parte la miseria quotidiana, parte l' alterigia degli usurieri ci han guasto e con­sunto e tolto ogni cosa : tanto che noi miseri eravamo ridotti a coltivare le terre di questi zappando, pian­tando , arando , pasturando, divenuti conservi degli schiavi loto da noi presi colle arme;, e chi di noi portavamo catene alle tnani, chi ne piedi, chi nella cervice finalmente, come fiere intrattabili. E qui non ricordo le ferite , gli avvilimenti , le battiture , le fioi- tiche da notte a notte ( i ) , ed ogni altra sevizia, e non le ingiurie, e non F orgoglio che ne abbiam so­stenuto. Liberati , la Dio mercè, da tanti e sì gran m ali, fumiamo ben contenti quanto possiamo e sap­piamo j e prendiamo per duci della fuga la sorte e g f Jddj li quali veglian per noi, considerando come patria nostra la libertà, e la virtù come nostra ric­chézza. Ogni popolo nè ammetterà, sì perchè non molesti , come perchè utili a chi ne riceve.

LXXX. E ci siano in ciò di esempio molti Greci,

(i ) Dal tempo prima dell’ alba fino a «era.

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e molti barhari f e principalinente gli ' anteneui di quelli e di noi. Gli antenàti nostri passando con Enea dcd£ Asia riM ‘ Europa faniàronsi nel Lazio ima patria: e poi spipcandasi da jiXha soUo gli au'r spicj di Momolo che guidaua' la colonia f pigliarono sede ne’ luoghi appunto ahbahdo tcUiida nai, Abbiamo noi forze: non gi^ poco maggiori che essi m a trtpU- cate, e cagione mollo pià giusta d i trasmigrare. Qùetii partivan da Ilio persèguitati da’ nemici, e noi di quà dagli latiei : e ben è più misera cosa essere e^nUsi dm domestici, che dagli estnmei. Quei che a Romolo si ligarono per compagni trascurarono la patria per cercare terrè migliori: ma noi lasciamo un vit'erip senza città, un vivere ' senza case paterne, quando're^ chiamo la . colonia : e cèrto la rechiamo non odiosa agf Iddj.^ non molesta a^li Uomini, nè gravosa a terra ninna ; non rei del sàngue e della itrage de’citf tttdini che ci hàn discacci^ , non rei del ferro o del fuoco messo m campi che abbandoniamo, nè d ia ltn monumento qualunque fondatovi di eterna inimicieiai come spinti da necessità Sconsigliata rei se ne fannoi popoli traditi ntìlP qUeanza. Noi chiamati in testi- monio i genj e gl’ Iddj che guidano con giustizia le cose mortali, e lasciando che essi prendano per noi la vendetta , abbiamo chiesto unicamente di riavere 4 nostri teneri figli, i.vecchi Padri, che in città si ri- masero, e le mogli in fine, se alcune pur vogliono dividere con noi la nostra sorte. Contenti di ricevere questo, non altro dimandiamp da Roma. E voi tanto

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DELLE AMTICHTrA’ ROMANE

impolitici, tanto insoeiewM v^rso de-jAiséti^ vivete feU ci, e-com^ più desiderata.

LXXXI. Appeoa Bruto ■ d>be ciò dotto si , tacque. Parve ajU asunti tutto; vero quanto disse'iatoroo ai diritti, « <|aanto per Àccosarè la s i^ rb la de" jseÀatbn « l^rincìpalmeate quando didMarò che la sem^ioità ìlei patti tutta piena d’ intrioo 0 d'^nganniL ma'Xjùanilo iftfiae' deliaeò gli afirooti cbe averne patito dagli iuurieri,> « ciaseuno ricordò li suoi mali; piim y'ebbe si fermo di, abisro , che non si desse a piangere j e kunentare i danni eomani. Né impietokironq già sol, essi, tnà fino gl'inviati dal Senato. C^n poteano que’a<etiiow conte­n d e le lagrime, pénsando la calamità per la sépaiaMoae de' cittadiixi r e rliiiasero gran tèmpo tra 1' afflinone , e tra '1 pianto senza sapere ornai cbe più dire. Cessati «Iti gemiti, e tornato il silenzio nell'adunanza, proèe. -cedette per farvi le difese Tito Largio autoPevole soprai tutti i ‘ «itladini per anni, e per dignità i come lui ohe ■due volte ccuisole, e già rivestito della dittatura, avea con esercitarla bene più che gli altri, rendutta venera­bile, e santa una carica altronde odiata. E datosi a par­lare sopra i diritti, e talvolta incolpando gli usuraj per­chè aveano operate cose dure, e disumane; talaltra rimproyerando i poveri come non giusti n e r chiedere che si rimettessero ad essi i debiti per forsa an^i che per grazia, e nell’esacerbarsi col Senato piuttòsto che con

' quelli die impedivano che si concedesse loro alcuna cosa

anche moderata ; e dippiù tentando mostrare cbe pic- ciela era la parte del popolo, ingiuriosa suo mal gi-ado, e necessitata a dimandare per la inopia gravissima la

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cóoAdbarlon^ .dei .dekiti ", ami più gmadfe'«ibm lapparle la. cpide'.-.esi^era' òió ' peróhfei viVeaM scorretta, l'asalente y volottiiMaF ., « f)ir»pv^xii à ràpplire' co’&ifti:.alle silc pss» sivni, tak!iiè d\>v«clbs bea distingiMre i pòveri dai ri^ baldi, quelli che. £riìno dà ;codipatire da «jueMi 6be erano da< odiate ; éd aggi ungendo 'in fiae diseòrsi cóasiinfli , veFÌ'à, iaa non grati gend^alméate; noti soddisfece tptt« Ui ndiéiiz^. Dond’é cbe sorsenie Mrepito grande di Lvooe; altri.sdegmàndosi 'quasi rincrndisse loro gli affanoi,' ci altri oonfessandò ehe dioia pur troppo il veto. Ma<pei<i dicmRiè gli nidori «rarao assai : minori di nninero, soom» parivano tea la: nAòltitudine degli altri, e prcTaleanio àipratiutto i daaalori-! degli adirali.

LXXXn. A qùest^ còse ne aggtugnea Lo-gio. podiQ altre su la . partenxai e précipitansa loro, qamdik:rìpi« gliando. la paróla Sicinio il qipo del popolo ne riaccese assai più lo sdegno, qon dire: 'C ^ hen poteana da ua tal parlare comprendere ^uali onori e qiuUi rlngr»» kiamend'. ne avrebbero, se tornassero niella patria. Sé quelH che stansi nel colmo de'pericoli, ed abhito^ gìiàao del braccio del popolo, e per questo a Iki vengono , aon sàn irovwe nemmen ora discorsi mo* déràtl ed tanàni ; ijual animo dee credersi che avrannq qaandà siano le cose riiucité loro, secondo il dise^na^ e quoftdo chi offendono ora còlie parole , sia sotto^ messo hm ancora nelle opqre ? Da quali iflsòlenàe mai si conterranno? da quali flagelli^ o da-qual^ tiranniche sevizie? Se a voi dà il cuore, ei dicea, di servire tutta la vita incatenati, battuti, straziati col ferro , col fuoco , colla fam e, con ogni guisa di matti

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SU , non perdete tempo, geliate ie armi seguUateli. Ma se t ’ è .p t^ in voi desidèrio d i Ubertà ; non pa> lùenUUe ornai pOL Amhcuciadori! o dite su quali con> dizióni ci richiàmate ; o partite dalC adunanza ; per- ehè non . lasceremo più che vi parliate.. LXXXIIL E qui'tacendosi la i, tutti gli ;astanà né Miepitarono , acclamandolo , perché area detto a: {urapo- Mto. Restituitasi quindi la calma , MeUeniò' Agrippa il ^ l e ; aveva interloquito in Sénato sul popolo, e piro­posto e fatto principalmente che gli s'inviasse un'am*i bascerìi plenipotenziaria, fé' cenno di Volére anch' egli diacotrere. Riuscì la richiesu gratissima ; é : parea come; 1* augurio che udirebbonsi allóra ! finalmente condizioni giùste, e salutevoli ad ambe le p»ti. E siìbito escla­marono tatti a gran race, che parlasse. Pdi si dietaro- BO, e si profondamente, quaìsi fosseri sólitudiné. Parve un tal uomo, com'era verisimile, assai persuasivo nei suoi discorù, e> tutto confacevole ai v c ^ i della udienza: èVfama però che in ultimo proponesse una tal favola sol gusto deQe EUopiàne espressivissima delle circostan», e ohe eoa questa principalmente li guadagnasse. Dond'è che. la favola fu creduU degna d i' ricordanza , e rap­portasi in tutte le storie ant iche. L ' aringa di lui fit qnesu : Popolo, noi veniamo dal Senato a voi, non per difendere lui , nè per accusarne voi: né già pormi che il tempo ciò chieda, nè che ciò sia prosperevole per la sorte della repubblica. Ma noi. veniamo con tutto t ardore e P efficacia per levar le discordie, e rimettere la repubblica nel buon ordine primitivo , riyestiH per ciò fare d i , un potere assoluto. Pertanto

300 D^LLE a n t i c h i t à ’ ROMÀNE

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non perniano chs sim om da esaminare i diriui , come fece con ómsione limghissirna quetto Giunio ; pensiamo piuttos0 €ihe\ debbansi con gli a^otefoli T ^d i. TÌcon^ìfger gli spiriti. Qual fède sia ^ i per garantire le i^ tf:e cometmonf M esporremo, appurilo- alfbiaiìto deì*ker<^- Considerandor^i che \le f^ a io n i si cUrcmo- in ogni città col to~ gli^e. i semi; dvjlle d is^^^ù , abbiamo giudicato né^ cessario di ■ conoscere e spegnere le Cause produUrici 4ella divisione. Or trovcu^o noi cJt>B le esazioni dure de'prestiti sono la erigine de’ mali ipmsenti ; così U correggiamo. Dpcreti^ano che quanti. soggiacciono a debiti, nè possono estinguerli, ne siano del tutto as­so luti. Decnuicmo liberi .tutti ', qufUfU son detenuti per (H>er differite le paghe oltra i tempi legittimi , \e . de.- creliamo liberi i^ f i ^ quanti furono in- mano cofise- gnali dei creditori per sentenze speciali di giudici, eainuUandp noi queste totalmente. Cosi ripariamo ai foritrcdti.precinti, tenuti come c ^ a della sedizione; ^ a q fu » ^ a, qontratti oiverUre facciasi pome, no or~ pitterà la ;_legge che sarà cos^tuita da, voi, da tuttp il popolo, ded Senafo^ Dite , non erano queste U. cose che vi .i^enavano da’ Patrizj ? Non giudicavate voi che sarete, contenti, e che, altro di piii non brame^ reste, se le impetravate ? Oggi vi si concedono ; an.- dato, tornatevi giubilando alla patria.

LXXXIV. I riti poi che convalideranno ed asskur reranno questi trattati saran quelli (^punlg delle leggi, usati nel deporsi delle inimicizie. Il Senato appny- yerà pur egli questi trattati, e i^ 'à loro forza di

XtBKO VI. 3oi

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3 o 2 D ELLE ANTICHITÀ!’! iROMANE

legp qiuind» seriui cg*t>6móiv (JtiiTwi come-'ne piao» ed il^enoM 'Vi' sarà Sótt6nie^só:

che questi si rimamthnó' iti3eleè'iU‘ ' èhi il Sènatà, non po,tpà‘mài soffraggiì^er^i Willà iti tòntfario , nói qui y''noi> U -nii ]fatéitm goTCtttzia sidKorpo, e vita, 'é ì!ftif^e n(>itf^, é'^c(^''i^t piiri! v é w yjih gtiitinàa ‘ U ^ sénatoH ìóhe- firWtètiikrtò "ì/ imp^'OccM inai , rrpì£gHdaiétói>i noi si 'dèà^èteM èòsA 'ninna contto del popolò} gktèckè rtòi' ìfkinìt'd li prìniì nht'Sénalo , e noi li ^p^irtti <* àtch.lhrarè i n ó ^ i pa~ ferii 'Vón farà^ da uttìm& gàmniià 4a fède coihune à ^uttì- i Greci, e ' a tutti ì BWBitri^ ‘ ìjuelfà eker fiiùTi ■tèmpo niai pòtrà- càncèlliì^'j qtteUà chè\ coh •gtèè‘à~ trti^nìi i e li^gioM f^^dé'’ Wàifti 'piHdli dègèi acéordf-, •e su 4a quale ^hèt^o'nsi tante, e ììpn picciole ^niihi^ ■ciiie dé" privali, e tttnte guerfe di \rèpàbl>liea con rè- fittèMiea. Of quésta'fèdè rìcevéteià ancora voi ; sia ^hé" \>ogtiàtff pertketìere a nói, pochi s ì , nkt capi del ìSèfitito , di giuhìàivi a nomè dt questo , sia che vo- 'gliaté che tutti i PàdH sottoscrivanù' & giurino con rito sahto di s'srbarvenè i patti invioUài. -È tu j d

'Btkt&'‘, nó'n'' .irtàoìpàré il^ pegno dàlie desiti non. là libagioni, Ttàfi là fede data hn>ocartdòné i IVumi, nè togliere tali èspedieHti beìlissimi ‘ degli Uomini : e voi Tton vogliate toUèfcitè che costui ricordi le promesse tradite dai scellerati è dai tiranni, da’ quali tanto è iontana la 'virtà de’ Romani. * > * ■ •

LXXX V. Or, lasciate, che io soggiariga (e termino) uria cosa non ignòratà , riè controsMrià. da riiun dei mortali. Ma quàiè è'mài qttistà? Eisà ithpdyta t utii

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«soinuMV .ysaha^l'Io pàfti una colt vltM i et^a à t unica e sola che ci raccolse già tutti in un corpo

mai faràwsapararoi: Abbisogna, nè *ncd cesserà d i <fbb.i Q naite là mokiùtcltkff^ impeMtà d i satff che Ut

;-eoma 'uh .complèsso 4* idonei a.dirigere tdtbitogna' d i d à i ^ i s l governare. JVè ciò per im(na>> ^n fzion i lappiamo,, ma per esperienza. Che dunqivo d ridutciapta a' tràmare òrigandoci gii uni con gli a/> tri { a che ci iogotiamo in triste ^parole ; essendoci •facilissimo tomaroi td£ ùtile nostro ? Che dunque riot\ ■ci èàpandiamo , ed, nòhràeciamo \ e voUmno alla pa~ tday alle Mitiche delizie, agU oggctli di tanti dolcis>- simi e soa»issin\i nostri, desiderj ? A che cercare imm f>ossihiU assipurù^ni? A thè fidanze malfide, come in guerra nemici fierissimi che in ttulO' sospettano H peggio? A noi, o plebei^ a rtoi membri dei Senato^ hasta la sola vostra parola, che non sarete se tornati ■iniqid con noi : e perchè ? perchè sappiamo il vostro ■bum allevamento i la i^ituzioke legittima, e le altrii virtà che avete in guerra- ed in pace dimostrate. E se i contratti oggi ottengono a nome del immune um rifofiha, così dimcmdando la fedeltà , cosi la speranza degli uni verso degli (diri ; teniam certo ancora che siano per corrispondere in voi le altre buòne doli: a niente da voi cerchiamo i giuramenti, niente gli ostag- ^ , nè altro pégno qualunque di sieurvzza ,• nè però mai contrarìeremo Ut vostre dimande. Ma ciò basti la fedeltà intorno la quide Bruto c incolpava. Che se in voi resta ancora àlcuna invila non degna, che vf eccita a pensar pravamente del Senato ; io dii ò pur.

EIBRO V I. 3 o 3

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3 o 4 DELLE a n t ic h it à ’ ROMANE

di ' questa l e voi etUeitti, in culmo , asaoUatemi o piabei., LXXXVI. Somiglia ad un corpo umano una repub- bUoa: perdócchè t uno e t altra risultano da più par­tii nè ciascuna delle parti in essi ha forze eguali, nè porge un uso medesimo. Adurufue se le membra del corpo umano ricevessero tutte , come il senso, la voce , e poi nascesse discordia fra loro congiurandosi tutte le altre ad una ad una contro del ventre y e li piè si dolessero che il corpo intero poggia su loro, le mani che solo esse trattan le arti, procacciano il ne­cessario , combeMono co’ nemici, e pongoru> molti altri beni in comune \ gli omeri perché porlan essi ogni peso, la bocca perché parla, la testa perchè vede , perchè ode, e perchè comprende tutti i sensi orule il complesso vive del corpo; e se quindi dicessero, or tu buon ventre fa i tu niuna di queste cose ? quale riconoscenza, qual utile tu ci rendiF Anzi tanto sei lon^ tono dal cooperare e dal com piei con noi alcun utik comune ; che ne impedisci e conturbi, e quel che è più intollerabile, ci necessiti a servirti, e portarti di ogn intorno quanto ti sazj negli- appetiti tuoi. Or su; chè non ci rendiamo noi liberi, nè cessiamo dedle cure che in grazia di lui sosteniamo? Se così piacesse loro, se niuna parte più fornisse le proprie funzioni^ or potrebbe il corpo a lungo sussisterne ? Anzi in pochi dì consumerebbesi dalla fcune, pessimo fra tutti i mali ; e niuno può dime U coiUrario. Or concepite pure altrettanto di una repubblica. Compiono questa molti generi dì persone niente infra lor somiglianti ;

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e ciascuno le porge un uto proprio di lu i, come le memirt» lo porgptio al corpo. Chi coltiva i campi, cjù. pe campi combatte, co! nemici : chi ne reca assai beiti trajjficwtdo pé mari ; e chi travaglia in su le ai'ti neceesarie. Se ciascun genere di . queste persone iasotga contro il. Senato , che è l' ordine degli ottir moti, e dica: qual cosa, o Senato, tu ci fa i di be­ne? e per qual causa, non avendone tu alcuna; vuoi eomandare su gli altri? Non ci torremò una volta da questa tirannide tua ? nè vivremo indipendenti Se con tali pensieri si levasse ognuno dalle ugat^ incombente; cosa impedirà cho una tale sconcia re-, pubblica miseramente perisca per la fa m e , per la guerra, per ogni male ? Istruiti dunque, o voi de f popolo , che come ne corpi nostri il venire accusatq a torlo da molli, nudrito nudrisce, conservato con­serva ; e quasi uiut dispensa universale , porge ad ognuno il suo bene , e la sussistenza in un tutto ; «Mt nelle repubbliche il Senato che man.Qggia il co­mune e provvede a ciascuno /’ utile suo , tutto s<d/a0 custodisce e dirige ; cessate di lanciai' contro lui voci calunniose, quasi per lui siate fuori della par v ia , e ne andiate raminghi e mendici. I l Senato non volle mai questo, nè faravvelo : anzi vi chiama , e vi supplica, e vi stende le mani, e vi spalanca le porttf, e raccoglievi.

L X X X V II. Intauto che Menenio coacionava, sorgeano

ad ora ad ora voci varie e molte, dagU asiaiiii. Ma poir

ché sul fine del suo l'aglonauieato si diede a coinmo^

verii , e deplorare le diagràiie e la sorte iimniuume suD Ì O S I G I , tomo I I , 2 0

u b a o VI. 3 o5

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3 o 6 DELLE i» ìrtlC aiT A ’ ROMAKE

di anibeclae, sn quelli rimasi ia città e ta gli altri che ne erano usciti ; si misero tutti a piangere, ed «naoimi ad una voce gridarono che li riconducesse alla patria , nè pii!l s'indugiasse. E poco mancò che partissero tntti a furia dall' adunansA ; rimettendo ogni còsa ai depqtati senea brigarsi più oltre della sicurezza, Se non che 9roto facendosi innanzi ritardò l'impeto loro, dicendo: chtt erano pur buone per c uei del popolo le promesse del Senato, e chiedendo che grazie appieno gli si dessero per le cose a loro concedute. Aggiungeva an­cora di temere per l’avvenire che uomini una voke oppressivi, si dessero , venutone il tempo , a ricor­dare , e punire le cose operaie dal popolo. Rimanervi una sicurasza sola per quelli che temow questo dagU pttiauiìi, cioè quella di rendere indubitato che, se vogliono i non posson pik offenderli. Finché sta ia essi il poter danneggiare, non mancheran de’ mal~ vagi che il vogliano. Pertanto se il popolo ottenga tal sicurezza, non altro resteragli da chiedere. Ripi« gliando Menenio , ed incitandolo a dire <|ual sicurezzai pensava che al popolo bisognasse, concedeteci, disse che noi ci scegliamo ogni anno dall' ordine nostro alcuni magistrati i quali non siano ad altro autoriz- zati che a prote^ere gli oltraggiati, e gli (^pressi nel popolo, nè lascino che alcuno sia d^raudato de’’suoi diritti. A lle cose accordLateci aggiungete in grazia ancor questa , ve ne. prediam o , ve ne suppli­chiamo f se la pace esser dee non m parole, ma in fatti.

LXXXVni. Il popolo adendo un tal dire lo accora*

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|M|gaò con grandi e lunghe acdainaaoni, raccomandaa* doti al deputati che gli concedessero anche questo. I deputati ritirandosi dall'adunansa, e conferendo al(juanto in fica loro, vi ritornarono dopo non molto. Taciutisi ttiui, Menenio &ttosi innanzi disse: La dimanda è gtande e piena o plebei di enormi sospetti. A noi rìéne timore ed ansietà che non ahhiansi a fare due città di una sola. Quanto è da noi > nemmeno in ciò ui ci oppofrtmo t or voi compiaceteci (tende anche que­sto at ben uQstro ) date a tré dejmtatì che tornino in Roma, e narrino al Senato la richiesta. Non ci ar­roghi amo noi di risolverne > quantunque abbiamo da esso il potere di concordàre come ne piace, arbitri in tutto di promettere. Siccome il caso che ci occorre lè inaspettato e nuovo ; così ce ite riportiamo ai Pa- ,dri, quasi, in esso l’ autorità ci si limiti. G persua­diamo però cfie efsi ne sentiran come noi. Frattantoio qui resto, e con me parte dei deputati. Valerio e gli altri anderanoo. Stabilito ciò gl'incaricati d'infor- xoare il Senato spronarono i cavalli alia volta di Roma. Proponendo i consoli in Senato la richiesta ; Valerio opinò che si concedesse. Appio , nimico fin da princi­pio di ogni accordo, contraddisse anche allora chiaris­simamente , esclamando e rilevando , chiamatine in te­stimonio i Numi, i germi dei mali che impiantavano alla repubblica. Non però convinse la pluralità , desi- derps«, come ho detlo, di spegnere la discordia. Adun­que il Senato autorisxò con suo decreto le promesse dei deputali al popolo , come pure che gli accordas­sero la sicurezza che dimandava. Fatto ciò tornando il

UBBO VI. 3 o 7

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3 o 8 ’ DELLE a n t i c h i t à ’ R OMANE

giorno appresso i deputati nel campo vi éspojfero j vo­

leri del Senato. Quindi esoftando Menenio il popolo

d 'inviare alquanti a’ quali il Senato desse la sua f e d e ;

fu spedito Lucio Giunio B ru to , del quale abbiam detto

di sopra , e Marco Decio , e Spurio Icilio con eS'so.

Andò metà dei deputati compagna di Bruto in Roma.

Agrippa , pregatone , si riinàse nel campo , per isténde#

la le g g e a iioima d e lla 'q u a le il popolo creètebbft i s u o i

mngistrati.

L X X X lX . Ne! dì seguente Bruto ritornò già ftifi

i patti col Senato per mezso de’ F c c ia lt , ìclie chift»-

maiio. Divisosi allora il popolo in Fratrie', come aJ-

tn qui homìnerel)he quelle che essi dicono C u r ie ,

dìcliiarò suoi magistrati dell’ anno Lucfio Q ionio B ra t^ ,

e Cajo Sicinio Bellutd, fino a quel dì loro capi, e con

essi ancora Cajo e Pnblio Licinio , e Cajo Ictiio Iftì»*-

ga (i)i Assunsero questi cinqtie i primi là potestà tribu­

n iz ia , quattto giorni avanti le idi di deceoibpe (2) , co­me pur nel mio tempo si pratica^ F inite le eleJiio^ii parvé

a’ deputati del Senato, adempito 1* intento della lotx) mM*-

sione. Ma B ru to , ronvOcataTadunanza del popolo, coiT-

sigliò clic dichiarassero i suoi magistrali santi ed InviO'^

( 1) L iv io , Dicn ig i, èd a tu i aiorioi an tid ii non ben si accordano sa la nomina di questi magistrali. Livio dice che i due i primi D o ­

minali furono Cajo L iciuio, e L . Albino, e clie questi poi si scel­

sero tre Colleghi tra quali fn Sicinio 1' autore dèlia sedizione. Ma

Cticnigi pone, per primi Lneio Gimiiq Brnto , e C . SioiairO Bellnt»': e quindi C. e Publio Lictuio , c C. Icilio Ruga.

(a.) Anni di Roma a6i secondo Catone , a63 secondo Varrone ,

e 491 ovanti Cristo.

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léWJi ’stabilenilisoe ' la sicui’ézta colle, e co'giiiiameBtii Piacene eiò a tatti, e si fece su lui e su eoUeghi Ift leg»e : che nitt.no forzasse un tribuno j come im altro qualunque a fa r mai ìi0ntra tua voglia ; nà lo 6atr tesise, ni lo uccidesse , nà ordineuse ari altri hot» terlo i o di ucciderlo. Gf e s« alcuna « ciò cantiìavvengà anche in parte ; siasne reo capitale ; se ne diano a 'Cerei'e i beni : e chiunque lo uccide , abbiasi come jmro iìaUa 'strabe. E {^vclié non si'potesse ani più far cessare gsesta legge , ma restarne immobile in ogni av*- venilre , sv stabili che 4 demani giurassero iKtii^s’riti »4nti di osservarla essi-, ed i po^e?! loro pei^etuaq[iei»t8'. E 31 ' aggiunse ai giifpa«i*eiiti la preghiera , i^e gK -Dtìi saperti!, ed iolierni fossero propizj a chiunque fkvoriva la legge , oba' contràri > a quanti ià violavano, conie eoit- tamiiHilì di de>l'ittòi gravissimo., Da indi sOvse ne’ Romaqi il costnhie che persevera pvr .uè’miei gior^ii, dii rigmiiv dare le persóne de’ trìbani come sacrorante.

XG. Concordato eiò / feoecoi uà altare sti le cime delia montagna ove s’ierano accampati,' lo>deBOnitna rotto nell’ idioma loro, I’ aliare di Giove terribile ; dal teirore che allora tutti'comprese. E fatti a: questo Did ide' sa^iGci, e renduto- sacro il luo^o che aveali. accoltk, ritornarono coi deputati alla patria. Quivi ofiGroii ssor^ ■fiaj di ringramotento a'Numi , di; Roma : persuasi i pa»- irizj a confermare co' voti pvoprj i loro magiatraii , ® ,contentatine ; pregarono ancora. il SensK) a iconcedeBe lofo di nominare ogni atmt> due plebei , U quali mini­strassero ai tribuni in ciò che aveano di bisogno, giu- dicacaer le c a ^ oud'erano questi incaricali y e tenessero

LnsRo VI. 3©9

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3 lO DELLE ANTICHITÀ* KOMAKE

cura de’ templi, de'pnUiJioì iMogU i e deU' dobaodAtiu. Compiaidiiù in jqaetfo «neon dal Senato erearono i mi* DÌstri d a «ilHiai, dÓMUBdoK coUcglii, e giudici. Or« f>er& «BB patrio vocaboi dall' una delie incombenze che adempiono, si chiaipano cnratori de' templi, e di ahrì laoglù (i) ; nè bau pi& come prima un potere compia* «ario di altri ; ma ve§^ano in <ur« varie, e gravi, e •oongltano in gran parte agii abbondansieri de'Gntci.

XCI Poiché fiirono rieon^ioste le cose, e Roma vi> a m nnovamente ccll'oodiiae antico; i capitani arrota^ roQo «in esercito contro i neniò di fuori, mostrando* fiai prontisaimo 1 popolo, tanto che in piociolissimo •ompo si apparecchiò per la gnenra. I consoli, come è loro eostmae, decisero cotte sorli sul comando; Spurio ■Cassio dbbe in sorte la cura di ftoma, e vi rjmase jcoi> ^parte sufficieiHe di troppe scé^e. Postnmio Coniìai» ■anse in ««mpo le altre caotpoMe di Romani degni , 6 di alleati Latini non poehi. Ddiberaio di attaòcare i Yolsci innaneì lutis, prese a. prim’ impeto Longola , «na loro città. Ben cercarono «oloro che vi erano iUa* latrarvtsi con qoah^e iàilore; e «pedirone faora nn eseiv «ito «u la fiducia di respingere i neqùci che si avani .xairaM; ma oostoelti bruttamente a fuggire prima di -dare alcnna noUte prova , nemmen iecero punto di ger -aeroso combattendo poi su le mursb Adunque i Ro^ mani in un sol gioru» a impadronirono senza combat> fiere del lor territorio, e ne presero a forza la cittàiy •nè con molto iravaglio. Il comandante Romano condcdi

sin

(») ViM I dire Edile. Era quest« vomboio proprie de’ RoimbI.

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che le ni^izie •! appropiassero le robe invas^; e presi* diala la città, ne andò col reato delf esercito contro l'altra città de'Yplsci, chiamata Polusca, noa moltfll lontana da Longola. Nè osando alcuno di uscirgli in-* eontro, percorse facilissimamente la campagna, e me iovestl le mura. E datisi i soldati , chi a spezzare le porte, cbi a scalare le mura ed ascenderle; Poloscs anch'essa fu presa nel giorno roedesiniq. Il console scel* tivi aicnm pochi, autori della ribelUoDc, li fé' morire : e multati gli altri in danari, e spogliatili delle arme; gli astrinse a dipendere in avvenire dai Romani.

XCIl. Lasciato anche in guardia di questa un pk« eiolo presidio., andò nel prossimo giorno coll' esercito

Coriola, città molto considerabile ; come antica ma­dre de'Volsd. Stava quivi raccolta milizia potente: nè le mura eran facili ad espugnarsi , avendovi i cittadini apparecchiata da gran tempo la guerra. Pertanto dan> dovi l 'assalto fino alla sera ; ne fu respinto con per* dervi molti de' suoi. Ma nel prossimo giorno tenendo in pronto arieti, yioee, e scale ; preparavasi di violeni> tarla con tutte quasi le forze Ascoltando però che gli Anziati come congiunti dì lei verrebbero, anzi già erano in via oon armata copiosa per soccorrerla; divise le schiere deliberato di combattere con metà sa le mura lasciatovi Tito Largio per capitano, e di traversare coK r altra i sussidj che si avanzavano. Perciò si fecero in un giorno due coinbaUtmenti. La vitlona si decise io aanbedue pe'Romani, adoperandovisi tutti ardentemente} ma uno infrA gli altri fecevi pt^ve di valoi-e maggiori di ogni d ire , e di ogni credere. Discendeva costui da

LtBAO n . 3 l t

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Stirpe patnsia , noli iog[loi>iosa per amenàti ; e Csjo Maif-'

xio eraue il nome. Soiabrio nel visere suo quotidiano'

kunfieggiava tu ttou li liberi genj. L ’ ordine dalla battaglia

fii tale in ambe le parli: Largio insieme col dì ca-Vandw

l’ armala U recò fin sotto C orio la, ifivestendone in pià

hiogfai le mura. Ringrandivansi i Goriòlesi pel soccorso

dagii A nziati, confidando che giungerebbe loro indi a

BOI! molto : e spalandate tutte Je porte poinbaeono ìa

folla o ^ t r o ai nemici. Ne soSlenaeny i Homaiii il primo

impeto , empiendoli di lei’it^ : ma fopziiti poi pel cre­

scere continuo d ^ l i assalitori' si ripiegarono giù per

luoghi declivi. Mareio 1’ ansidetlo , veduto questo , si

(ertnò con pochi , e ricevè lo scontro 'di u n corpo ue-

mico. Prostrotioe molti ; gli altri rineulavauo e fìig«

givacnsi alla città. N on pertanto costui volava ^ u -li>

orm e- loro , e ne uccideva ; invitando via via li Ro­

mani dispersi^ a ' r ÌT i^ e rs i , e confidare, e se ^ ir io . V e r '

gognaftisi questi di sestessi e rivoltisi finalm ente, si

gettarono su gli avversar) ferendo , e incalzando.} tanto

che tra poco tempo fugarono' tutti il loro com petitore,

e i i irono sotto le mura. M arzio, baldanzosissitno già nel

pericolo, si spinse anche più oltre. G iun to ■ a lle 'p o rte

cacciovvisi insieme co'fi|ggi4ivi. ^Panetraiivi con essa

molti a ltri, faceansi in 'più p a n i della^città vicendevòli:

e g ra n d i uccisioni ; . altri cotnimttendo m su lo stretta

delle strade ,■ altri nelle c««e ehe s’ invadevano. Goepe-»

ravano ai k>r-oÌMadÌDÌ tè fémmine, lanciando da’ tetti le

tegole su'nemici. ‘E tutti fin dóve a ^ a n iorza je potenza,

(oecotTevaao pieui di ardore* la - patria. N(M resistoroaa

3 13- DELLE ANTTCHITA’ ROMANE

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però lungo tempo; violentati a rimettersi alfine ai vin> citori. Presa in tal modo Coriola, gli altri Romàni si diedero e per gran tempo a predare una città espu­gnata , intenti a profìttarne, essendovi roba in copia e schiavi.

x e n i. Marzio il primo che avea tenuto fronte ai nemici, Marzio che erasi nobilitato pi& che tutti i Ro» mani nell' assalto , e dentro le mura ; brillò più ancora nell' altra battaglia con gli Anziati. Non rfeputò gii egli, che fosse da non meschiarvisi : m& vinta appena la città, menando con sè pochi idonei a seguirlo vi accorse. Tvo« vate le milizie già schierate e pronte per venire alle mani, egli primo annunziò tra suoi la presa dèlia città, dandone per segno il fumo che alzavasi io copia dalle case incendiate ; e bea tosto , pregatone il console, si mise contro a' nemici più formidabili. Alfine, dati j segni della battaglia j primo si lanciò su' nemici che gU erano incontro ; ed uccisine molti di quelli che veni­vano seco alle mani, si cacciò nel mezzo dèli' armata. Non reggevano gli Anelati « combattere di piè ifermo con lai ; ma dove si presentava, levavansi di ordinanza, e folti gli si giravano intorno e lo saettavano, ritiran­dosi o seguendolo secondo che si moveva, Postumia avvedutosi di ciò, temendo ohe il valentuomo lasciato solo non patisse disastro , spedi per soccorrerlo giovani sceltissimi e fortissimi. Ristrettisi, piombarono questi sui

^pernici che non tennero fronte, ma fuggirono. Inoltratisi i^^varono Marzio pieno di ferite, e molti intorno di lui iporii o semivivi. Allora preso IVfarzio per dace ne an­darono tutti contra quelli qhe serbavano un ordine an-

p i a m o r , tomo i r . »9*

LIBRO VI, 3 l 3

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3 l 4 DELLE AKTICniTA’ ROMANE,

corà, UGcidendo chi resisteva, e malmentandoli come schiavi. Furono per tale battaglia degai di ricordanza anche ahri romani, e principalmente i difensori di Mar« zio.*'a tutti pero Marzio precede come autore incon­trastabile delia vittoria. Fattasi notte \ Romani superbi di sé stessi per ia vittoria, tornarono alle trinciere eoa- ducendovi molti prigionieri dopo avere ucciso .pur molti degli Ànziati.

XCtV. Nel giorno seguente Postumio convocando l'e- sercito vi espose tra le lodi le belle azioni di Manio , « Io condeoorò di nna corona in premio del valor suo e segno di riconoscenza per l 'una e 1' altra batUglia. Lo regalò di un cavallo marziale, fregiato come quello di un capitano; di dieci schiavi a scelta sua, di argento, quanto potesse portarne egli stesso, e di molte altre vaghe primizie della preda. Acclamando intanto tutti con voci di encomj e di riconoscenza ; Mai'zio fecesi ia- oanzi e disse che rendea grazie vivissime al console e agli altri per gli onori che gli compartivano: che lon~ tatto però dall’ abusarne teneasi pago del solo ca­vallo , per la beltà de’ suoi fre g i, e di un prigio­niero solo, già ospite silo. Le milizie che lo avevano prima ammirato per la sua magnanimità, molto più lo ammirarono ora pel disprezzo delle ricchezze, e per la moderazione del cuore in tanta sua buona sorte. Fu perciò cognominato i l . Coriolaiio , divenendone iasigais>- simo infra tutti del suo tempo. Terminatasi cosi la bat­taglia cogli Ànziati, le altre città de' VoUci, e quanti pensavano come queste deposero la nimicizia pe’ Romani. E chi già era su l’arme , e chi vi si apparecchiava.

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. tatti si racchetarono. Postamio dimostratoti benigno con tu tti, si ricondusse in patria, e discioke 1' esercito. Cassio r altro de' consoli rimasto in Roma consagraya intanto il tempio di Cerere , di Bacco, e di Proserpina situato a'con6ni del circo massimo, appunto sopra le

B H isse. Promesso questo. pel bene della repubblica in voto a que' Numi da Aulo Postumio il dittatore quando era per combattere.co'Latini, e dopo la vittoria facen* dosi per decreto del Senato erigere tutto colle prede ; [Hgliava allora finalmente il suo termine.

XCV. Si fecero nel tempo stesso nuovi accòrdi e giu­ramenti con tutte le città Latine per la pace e per l’a­micizia; perchè non si erano punto sommosse ne'tempi della sedisione , perchè notoriamente si rallegravano del ritorno della plebe, e perchè si erano vivissimameate prestate per la guerra contro de* popoli ribellatisi. Fu segnato ne' patti : tra Romani e tutte le città de La^ tini swà pace .vicendevole finché il cielo e la terra avrà lo stato medesimo : nè faranno guerra fra loro; nè la chiameranno gli, uni su gli altri da altre re­gioni , nè le daranno libero il passo : gli uni soccor­reranno gli altri con tutte le forze nelle guerre, e divideranno ugualmente le spoglie e le prede delle guerre comuni. J giudizj de’ contratti privati si com­piano tra dieci giorni ne’ tribunali della gente ove accadde il contratto : e ninno possa aggiungere o to­gliere a questi trattati senza il voto dei Romani, e di . tutti i Latini. Stabilite tali condizioni fra loro, i La-r tini ed i Romani le giurarono su le sante cose ad uua ad una. Il Senato decretando che si porgessero sagrifizj

LIBRO VI. 3 l 5

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3 l 6 D ELLE a n t i c h i t à ’ ROMÀNE

di rìngratiamento agl’ Iddj per la riconciliazione còl popolo , aggiunse la terza alle ferie chiamate Latine che erano due. Istituitane la prima da Tarquinio re quando Tinse i Tirreni, il popolo vi uni la seconda, quando rendè libera la sua pati'ia cacciando i tiranni ; ed ora Ti st appose la terza per lo ritorno del popolo segre~ gato. Pigliarono la presidenza e la cura de* sagrifi2j e d e 'spettacoli sòliti di farsi in esse i ministri de'tribuni; quelli che avendo ora come ho detto il poter degli edili, sono dal Senato privilegiati della pretesta, della sedia curale, e di alun regj ornamenti.

XCYI. Non inolto dopò tal festeggiamento cessò di vivere Menenio AgrTppa l ' uno de' consoli , quegli che avea vinti i Sabinimenandone un trionfo nobilissimo , e pe' suggerimenti del quale il Senato concedette a' se* gregali il ritorno, ed i segregati deposer le armi. Roma ne fece a pubbliche spese gli onori estremi , dandogli bellissima e splendentissima sepoltura : imperocché un tanto valentuomo non avea sufficienza per un trasporto e per una sepoltura InagniGca, tantoché tenutone fra loro consiglio, pareane ai tutori de*figli di lui che do*, vesserò esportarlo e tumolarlo umilmente, come un al* tro qualùnque della moltitudine. Non però lo permise il p ó ^ o : imperocché li tribuni convocandolo a parla­mento , e ripetendo le tante belle virtù, guerriere e po­litiche dell* estinto, e la frugalità, e la semplicità sua nel vivere , e soprattutto celebrandone con lungo elogio la superiorità sua contro le ricchezze ; rilevarono come saria bruttissima cosa che un tal nomo avesse per la povertà non distinti ma tenui gli ultimi Qssequj. Pertanto

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l.tBBO VI. 3 1 7

esortavano il popolo a subirne la spesa, e contribuirTÌ come ordinassero. Piacque all’ adunanza il consiglio} e recate ben tosto da tutti le tasse prescritte , se ne rac­colse somma copiosa. Il Senato, risapendolo, tenne ciò come infamia. Giudicò non essere da tollerare che il più insigne de* Romani mendicasse gli ultimi onori dai privati : e decretò che si facessero col pubblico erario { imponendone ai questori la cura. E questi pattuendo tutto a gran somme, ne fecero trasportare con ricchis­sima gala il cadavere ; e dispensando quant' altro esige- vasi a magnificarne le glorie, lo seppellirono in fine come i meriti dimandavano del valentuomo. Il popolo , emulo del Senato per onorarlo, non sostenne di ripren­dere il denaro contribuito , sebbene si volesse a lui ren­dere : ma diedelo in dono ai figli delFestinto i per pietà su la indigenza loro, affinchè non si umiliassero ad arti indegne della virtù del padre. In quel tempo si fece da' cònsoli il censo; e le persone numeràte si trovarono più che cento dieci mila. E tali sono le cose operate da’ Romani in questo consolato.

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3 i 8

ANTICHITÀ ROMANE

D E L L E

n 1

D IONIGI ALICARNASSEO

LIBRO SETTIMO.

I. I^RENDENDO la coQsoIar dignità Geganio Maceriao, e Publio Minncio (i) fecesi ia Roma penuria somma di grano, come un seguito della sedizione. Imperocché il popolo si era segregato dai Patrizj circa 1' equinozio autunnale, appunto cominciandosi la stagione del semi­nare: dond'è cbe i cultori, abbandonate le campagne, eransi concentrati, i piiì agiati co’ Patrizj, e li merce- narj colla plebe , tenendosi gli uni lungi dagli altri fia- chè la città si riunì, pacificatasi non molto prima del

(i) Anni di Roma zGi secondo Catone, a64 secondo Varrone , 4 9 0 avanti Cristo.

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D ELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE LIBRO V II . S l Q

solstìzio invernale. In tuno quell' intervallo cònsumaa» dosi la stagioae delle sementi, la campagna si restò senza chi la curasse ; male che durò tuttavia molto tem­po ; non essendo facile ripigliarne i lavori ai villani che vi tornavano, danneggiati pe'schiavi dissipatisi, e pe'be- stiami distrutti co' quali la coltivavano, nè fomiti molto di semi, nè di alimenti per l’anno appressQ. Il Senato ciò conoscendo spedi de' comm issar] nell’ Etruria , nella Campania, e nell' agro detto Fomentino, affinché vi comperassero il più che poteano di frumento. Furono spaili in Sicilia Publio Valerio e Lucio Geganio, Va* lerio il figUo di Poplicola, e Geganio il fratello deh* r uno de' consoli. Stavano ivi allora de' tiranni per le città, .e di essi era il più cospicuo Gelone, figlio di Dinomeno, fresco successore d'Ippocrate fratello suo (i),

(l) I critici Iian già notato che qui Dionigi prende un equÌToco. Gelone non era fraiel.Io d ’ Ippocrale , e questi non regnava in Si­racusa ma in Gela. Anzi propriamente Gelone fu 1’ usurpatore più che il successore del regno d ’ Ippocrate. Morto questo, ricusando i Gelesi di ubbidirei ai figli di lu i; Gelone datosi a difendere i-se­condi , «inse i primi ed invase il trono di Gela ; ma egli vi presentò le Tirtù piil desiderate ne’ monarchi. Non molti anni dopo, nata se- ditione in Siracusa, « cacciatine i Gamori; Gelone rimise questi in patria e si attTibuì lo scettro ancora d i Siracusa. Egli diede una disfatta famosa in Sicilia ai Cartaginesi nel giorno stesso che Leo­nida si segnalò contro i Persiani alle Termopile. A lui succedette Jerone tanto lodato da Pindaro : a Jerone succedè Trasìbulo che perdette il regno, fuggendo in Locri. Siracusa tornò libera ; ma dopo pirca 6 0 anni vi si riprodusse la tirannia dei Dionisii e quindi l’altra di Agatocle. Finalmente un altro Jerone disceso dalla stirpe di Ge­lone ricuperò il trono. E questo secondo è quel Jerone insigne per V amicizia de’ Romani : su l’uno e su l’ altro Jerone può consultarsi Paiisa^ia lib- a. '

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e DOQ Dionigi Siracusano , come narra Licbio e GeHio e molti altri autori Romani, non solleciti già, come la cosa stessa dimosiraló, dell'esame diligente dei tem­p i , ma inconsiderati nello scriverne ciocché alla pri­ma ne seppero. Iniperoccbè la legazione deputatavi fece vela per la Sicilia nell’ anno secondo della olimpiade settantesima seconda , essendo Ibrilide ai^oute dì Ate­ne » diciassette anni dopo la espulsione dei re , come si conviene tra questi e quasi tutti gli altri scrittori. Al* fronde Dionisio il Seniore investendo ottantacinque anni dopo quest’ epoca li Siracusani, sea fece tiranno l'aiùio -terzo della olimpiade novantesima terza, essendo ar­conte in Atene Callia successore di Antigene. Si con­donerà forw agli storici se sbagliano di alcuni pochi anni, disponendo memorie antiche e diuturne ; non però mai si permetterà che deviino dalla verità per due o tre generazioni intere. Sembra che il primo il quale cosi peccò nella sua cronologia , seguito poi da tutti gli altri, trovasse ne' vecchi annali solamente , che sotto questi consoli furono spediti deputati in Sicilia per com­perarvi de' grani , e che ne tornarono eoa portarne quanto piacque al tiranno concederne ; e che poi noa cercando più oltre ne’greci monumenti chi fosse questo tiranno lo supponesse, come vennegH a mente , Dionigi, senza considerazione niuna,

IL I deputati navigando verso la Sicilia, colti mare dalla tempesta, e girati a forza intorno delC iso­la , non giunsero che tardi dove era il tiranno : e sop-r portato quivi l'inverno, ripassarono a primavera nell’Ita- li con viveri copiosi. I commissari spediti a'carnpi Pq-

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meatiai per poco non furono accisi da’ Volsci, come spìe, per calunnia degli esuli da Roma : e salvatisi, la buon» mercé degli ospiti loro, quantunque a gran stento, tor­narono a Roma senza danari e senza l’intento. Occorse pari infbrmnio anche agli altri mandati a Ctima d’ Itaw lia ; imperoct;hè vivendo ivi molti Romani , scampati, perché fuggiti con TaBqwnio dall' ultima battaglia ; que> sti si fecero su le prime a chiedere dal re del luogo , per ucciderli, que' deputati : e respintine, dimandarono di ritenerli almeno coiàe ostag'gi, finché riavessero i loro beni dalla città che gli aveva deputati. Diceano che erano que’ beni confiscati ingiustainente, e pensavano che il re stesso del luogo dovesse giudicar di tal causa. In quel tempo era tiranno di Cuma Aristodemo figlio di Ari- stocrate, nomo non ignobile di lignaggio. Chiamato da’ cittadini il Molle , fu col volger degli anni noto prin­cipalmente pel soprannome , sia che si ammorbidisse fin dalla fanciullezza , sia che porgesse in sé gli usi di una femmina come narrano alcuni, sia che mite fosse per indole e dolce nell'ira, come altri pur notano (i). Edio non credo fuor di proposito sospendere alquanto le cose Romane, e dire di lui brevemente come si accinse alla tirannide, per quali vie vi pervenne, e ne resse il comando , e come vi peri finalmente.

( i ) Plutarco riprende chiunque allude a questi significati ; e dica che fu chiamato Malaco perchè, giovinetto ancora ebbe gran pregia di fortezza tra 'barbari, cioè quasi fosse adulto anzi tempo. Caiaab. Questa interpretaiione è ben diversa <fa quella di M olle. Forse colla voce Malato si alludeva ad ambedue li siguiiìcati. Qui par che si alluda a quello di Molle.

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III. Volgendo la olimpiade sessantesima quarta , in­tanto che Milziade era arcontè di Atene, i Tirreni dei contorni del golfo Ionio, cacciati poscia di li dai Galli, e ^ Umbri con essi, e li Daunj , ed altri barbari in copia tentarono distruggere Cama , Greca città tra gli Opici fondata dagli Eretrj e da’ Calcidesi ( i ) , senz' al­tra vera cagione, se non che ne odiavano la prosperità. Imperwchò Cuma famosissima di quei tempi in tutta r Italia per la ricchezza , per la potenza, e per molti altri ben i, avea le terre le piiì irattuose della Campa­nia, con porti utilissimi presso al Miseno. Invidiandone i barbari il si gran biene, le mossero incontro con di­ciotto mila cavalli e con cinquecento mila,fanti (a), e non meno. Accampatisi questi non lungi dalla città surse un portento meraviglioso, quale non ricordasi accaduto mai nè tra' Greci dovunque, nè tra'barbari. 1 fiumi che scorreano presso gli alloggiamenti ( Volturno no- minavasi 1' uno , e l 'altro il Ciani (3) ) lasciando lo

(i) Gli Eretrj ed i Calcidesi erano popoli dell’ Eabea o IN'egro- ponle. Eretria era distante venti miglia da Calcide. Vi erano due altre Eretrie. Vedi tom. i , la not. al § 4^ , qui si parla della prima.

(1) Par troppo torrente contro di una città s forse vi è sbaglio nei numeri.

(3) Vi sono altri fìami di pari nome. Questo « quello additalo da Virgilio 1. a , Georg.

Vicina Vesevo Ora jugo , e t vacuis Clanitu non aequus acervis.

Antonio Boadrand: (vedi uovum Lexicon Geograpbic.) chiama que­sto fiame ^giio ; e dice che passa presso di Acerra , di Aversa a Minturno. Forse il Ciani h quello stesso fiume che ora chiamasi Patria nelle cane geografiche.

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scadere lor naturale, si ripiegarooo, rifluendo gran telnpo daU’ imboccatura alle fonti. Vista la meravìglia , ièeèro core i Cumani di piombare su’barbari, come se i Nomi fossero per deprimere l’altezza di quelli, e per sublimare loro che depressi ornai ne pareano. Pertanto dividendo in tre corpi la gente militare > con ubo guar­darono la città, con altro le navi, e col terzo., 'Schie-< ratolo avanti le mura, aspettarono 1’ inimico cHe.iool- travasi. Seicento erano i cavalli Cumani, e quattro, milq cinqo^nto i fanti : pure si pochi di numero tennero fronte a tante migliaja I

IV. Come i barbari seppero che eransi apparecchiati per con^attere, datò un grido, corsero in barbara for­ma , disordinati e misti, cavalli e fanti, appunto per annientarli' tutti in un colpo. Il lno|[o, dove innanzi la città si affróntaronc, era una valle angusta , rinchiusa da lagune, e da'monti, propizia al valor de’ Cumani, ma nemica alla folla de’ barbari. Dond’ è che, travolgendosi e calcandosi questi, gli uni gli altri in più luoghi, e principalmente su pel fai^o intorno la palude , si di­strussero in gran parie fra loro, senza pur veiiire alle mani colla Greca milizia di Cuma: e quell’esercito ap­piedi sì numeroso, e disfatto, e sbaragliato da sestesso, fini qua e là fu rtiv o , senz' avere operato nulla di generoso. Li cavalieri però si avventarono, e molto tra­vagliarono i Greci: ma non polendo circondar l’ inimico per r angustia del loco, e temendo i destini che com- batteano per Cuma colle piogge, co’ tuoni, co’ fulmini, si diedero anch' essi alla fuga. In questa battaglia i ca­valieri Cumani militarono tutti luminosamente, ricono-

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sciutine quindi come autori della vittoria. Si distinse so­pra tutti Aristodemo chiamato Malaco ; imperocché solo opponendosi, uccise il capitano nemico , e molti Talo-

rosi. Finita la guerra porgeansi sagrifizj di ringrazia­mento ai numi , e davasi magniBca sepoltura agli estinti in battaglia : ma quando si ebbe a decidere a chi si dovesse la corona , come al più forte ; assai se ne di­sputò. Li giudici piilt ' ingenti, e con essi anche il po­polo , voleano che ad Aristodemo si concedesse ; ma i più potenti, e con; loro tutto il Senato, ad Ippome<- donte , duce de' cavalieri. Di que' tempi era in Cuma il governo degli ottimati, nè molto il popolo vi potea : ma natavi sedizione appunto per tal controversia, i se­niori temendo che tanta ambizione finisse colie armi e colle stragi , persuasero ambedue li partiti di dar pari onore all' uno e all’ altro di que' valorosi. Da quell' ora divenne Aristodemo Malaoo il protettore del popolo ; e poiché si avea procacciato una persuasiva nei discorsi di Stato, commovea con questa la moltitudine , allet­tando lei con stabilimenti gradevoli, beneficando coll'aver suo molti de’ poveri, e rimproverando i potenti che si appropiavano ciocché era del comune. Dond’ è che ne divenne ai primi degli ottimati molesto e terribile.

V. Venti anni dopa la battaglia co'barbari veanéro ambasciadori dalla Riccia co’ simboU di pace ai Cumani per supplicare che li soccorressero nella guerra contro i Tirreni. Imperocché Porsena re di questi dopo là pace con Roma dando metà dell’ esercito, come esposi ne’li- bri antecedenti, ad Arante suo figlio, lo aveva inviato, voglioso che o' era , ad acquistarsi un dominio : e costià

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di quel tempo appniUo assediava gli Aricitiì rifugiatisi tra le mura, sulla idea di preaderne tra .non molto la città colla fame. A tale ambasceria li primi degli otti­mati. odiando Aristodemo e temendo che non causasse alcun male al governo ; concepirono di avere il buon punto di levarsel d'intornò con delicate maniere. Per» suadendo il popolo a spedire due mila per soccorso de« gli Aricini, e nombandone capitano Aristodemo come il più insigne nelle armi, fecero pòi tal maneggio , onde lusingarsi che colui perirebbe o pér le battaglie co' ne­mici , o per le fortune di mare. Imperocché resi dal Senato arbitri di scegliere quei che dovrebbero andare di rinforzo , non v' inchiusero alcuno de’ più famosi e f)iù riguardevoli ; ma reclutando i più poveri e più scel­lerati da’quali, aveano sospettato sempre delle sommosse, «rdinarono con questi l’ armata, e riducendo in mare dieci navi antiche j pessime a correr le acque, e dan­done il comando a Cumani poverissimi, ve la soprap­posero , con minacciare di morte chiunque ne disertasse.

VI. Aristodemo , dicendo unicamente che non igno« rava le mire degli avversar] che in apparenza lo man­davano per soccorrere , ma in realtà per farlo soccom­bere ; assunse il comando dell’ esercito. E facendo ben tosto vela co’ deputati Aricini, e superando a stento e con pericolo il tratto interposto di mare, approdò sui lidi più prossimi dell’ ArLcia. E lasciata guarnigione sufficiente alle navi, e fatto nella prima notte il cam-

; mino, il quale vi restava , che certo non era lungo, si . presenlò su 1’ alba inaspettato agli Aricini. Accampajtosi presso di loro, e persuasi gli assediati di uscire all’ a-

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peno sfidò ben tosto i Tirreni a battaglia. Schieratisi ■ed attaccatisi, gli Aricini resisterono picciolo tempo, e piegarono e rifuggironsi in folla tra le mura. Aristodemo però coi pochi scelti Cnmani che avea d 'in torno, so­stenne tutto il forte della battaglia, ed uccisone di sua mauo il duce, mise in fuga i Tirreni, riportandone una vittoria nobilissima. Ciò fatto, e magnificato dagli Aricini con doni copiosi rinavigò speditamente verso Cnma per essere egli stesso nunzio della vittoria. Teneano dietro a lui molte barche Aricine colle spoglie e coi schiavi presi ai Tirreni. Avvicinatosi a Cuma e messe' a proda le D a v i, concionò tra 1' armata. E molto accusando I capi della c itti, e molto encomiando quelli che si erano se­gnalati nella battaglia, e dispensando argento e parteci* pando a ciascuno i doni degli Aricini; pregò che di tali beneficenze si ricordassero , quando sbarcherebbero nella patria, e lo fiancheggiassero se mai gli otùmati gli creavan pericolo. Confessandosi tutti obbligatissimi per la salvezza insperata che aveano da lui ricevuta , come perchè tornavano colle mani non vuote in fami­glia ; e protestando che darebbero a'nemici anzi sestessi che lui ; Aristodemo , ringrazionneli, e sciolse 1’ adu­nanza. Quindi chiamandone al suo padiglione i più ma< liziosi e prodi, e guadagnandoli tutti co' doni, co’ bei discorsi, e colte speranze lusinghiere, li fé' pronti a mutare il governo che vi era.

VII. Presi questi per ministri e per combattitori, istruitili parte a parte su ciò che avessero a fare, e messi in libertà gli schiavi che conduceva per obbligarsi

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ancor essi, viaggiò pii\ oltre colle Davi coronate (i) fino ai porti di Cuma. I padri e le madri de'militari, tutto il parentado, i figli insieme e le mogli, venutili ad in<i contrare mentre scendevano a teiro, lagrimavano , gli abbracciavano, li baciavano, li chiamavano con teneri»- siffli nomi. Tatto il resto della moltitudine urbana rice* vette fra tripudj ed acclamazioni il capitano, accompa* gnandolo fino alla casa. Di che dolenti i capi delia cittd, qaeiU principalmente che gli aveano affidato 1’ armata e ne aveano con altri modi tramato la rovina, fecean tristi colloqnj su l 'avvenire. Aristodemo lasciati deoor» rere alquanti giorni onde rendere agl' Iddj li suoi voti, e ricevute intanto le sue navi da carico rimaste indietro alfine venutone il tempo, dbse voler esporre in Senato le cose operate nella guerra e mosti’argli le prede ripotii fatene. Riunitisi in numero i primarj, ed i magistrati nel Senato, egli fattosi innanzi prese a dire e narrare tutOe le cose operate nella battaglia ; quando gli uomini apparecchiati da lui per l’ impresa , accorsi in folla nel Senato co' pugnali sotto gli abiti, vi uccisero tutti gli ottimati. Si diedero allora a fuggire e correre , chi alle proprie case, chi fuori della città, quanti erano al Foro, eccetto i complici del disegno, i quali avevano occupato la fortezEa , il porto, ed ogni luogo munito della città. Nella notte seguente sprigionando quanti vi erano ( e molti ve ne erano ) dalle pubbliche carceri, destinati alla morte,' ed armandoli con altri suoi amici, tra'quali

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( i ) I d »egno della v ittoria r ip o rta ta . Co»l ne’ttioDfi »i CoroDavaao

a n c o ra li fiisci.

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erano gli schiavi Tirreni, ne fece un corpo di guardia per la sua persona. Fatto giorno, convocato il popolo a parlamento, ed accusativi a lungo gIL uccisi, disse che. erano stati meritamente puniti ; avendo per tante volte insidiata a lui la vita.: ma che , quanto agli altri cittadioi, egli darebbe loro la libertà, la eguaglianza dei diritti, ed altri beni copiosi.

Vili. Ciò dicendo, ed elevando tutto il popolo a speranze meravigliose, subill due regolamenti, pessimi tra tutti irégolamenti, ed iniziativi di ogni tirannide, io dico la nuova division delle terre e la remissione dei debiti. Egli promettea provvedere su l'una e l'altra cosa, purché fosse eletto comandante assoluto, finché il comune fosse in salvo, e v’ordinassero uno stato popolare. Con piacere udì la plebe e tutti i peggiori che avrebbonsi a ghermire i beni degli altri: ed egli, avutone un polene indipen- dente, aggiunse un nuovo decreto col quale decadendo ancor essi, alfine tolse a tutti la libertà. Imperocché fingendo temere torbidi e sedizioni dé'nobiy contro dei plebei per le assoluzioni dai debiti e per le divisioni nuove de' terreni, disse che a precludere una guerra ed un eccidio civile , trovava un solo rimedio, cioè che tutti prima di ridursi a tal male recassero dalle loro case le arme, e le consacrassero agl' Iddj per averle nel bisogno pronte contro i nemici esterni se ne venivano, € non contro sestessi: pertanto esser bonissima cosa che stessero quelle presso de’Numi. Persuasi di tanto.i Cu- mani ; egli nel giorno stesso ebbe le armi di tutti, e negli alu’i appresso fe’ cercare le ca?e di ognuno , uc­cidendovi molti buoni sul pretesto che non avessero

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portate al Numi tutte le armi. Dopo ciò fortificò la ti.< rannide suà con tre generi di guardie: il primo fu di que' vilissimi e reissimi cittadini ' co’ quali tòlse 1' auto­rità d ^ li ottimati : il secondo fu de' servi indegnissimi renduti liberi da esso perchè aveano trucidati i loro pa* droni : ed il terzo furono i militari assoldati da’ barbari più inumani. Erano questi nommen di due mila, e va»' lidissimi pili che gli altri nelle arme. Tolse le immagini degli uccisi da ogni luogo sacro e profano supplendovi in vece loro le sue. Le case , ì campi, ogni avere di questi lo donò tutto ai complici suoi nel preparargli la coronà , riservando per sè l 'oro e 1' argento , e quanto «Itro é base della tirannide. Ma li doni più numerosi e più grandi li profuse tra gli assassini dei loro padroni ; i quali chiesero perfino in moglie le donne e le figlie de' padroni medesimi.

IX. Quantunque però niente avesse in principio cu­rata la stirpe virile degli uccisi, alfine si accinse a ster­minarla tutta in un giorno, sia che per un qualche oracolo f sia che per computi verisimilt concludesse che perpetuava con questa a sestesso uno spavento non pic­colo. Ma perciocché vivamente nel distoglievano quelli (i) •presso a' quali dimoravauo i figli e le madri, egli vo­lendo concedere loro un tal dono, gli assolvè, sebbene contro sua voglia , dalla morte. Per cautelarsi però da loro sicché congiurandosi non insorgessero contro il suo regno ; comandò che uscissero tutti dalla città chi verso r uno e chi verso 1’ altro luogo : e vivessero per le

^i) I Satèlliti del tiranno alli quali egli stesso le avea marilat«.

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campagne senza istrnzione e coltura , propria di liberi gioTinetti, con pascer le greggi o con altri campestri esercizi, minacciando di morte chiunque di loro in città fosse preso. Cosi quelli, abbandonati ì patrj lari, SO' steneansi come schiavi per le campagne, servendo agli uccisori medesimi de' padri loro. E perdiè niente pià ci avesse di virile o di generoso prese ad effeminare colle istituzioni sue tutta la gioventù Cnmana, toglien­dole i ginnasi e gli esercizj militari , e variandone le maniere già consuete del vivere. Volle che i giovani come le donzelle nudrisser la chioma , e bionda la ri­ducessero e riccia sserla, e riccia ta di reti lievi la cir­condassero; e portassero toghe talari e ricamate , ie clamidi sottili e molli, vivendosi all' ombra. Donne, educatrici loro, li acoompagnavano, recando parasoli e ventagli ai spettacoli di suono e danza e simiglianti mtisiche dissolutezze: ed esse li lavavano, esse porta­vano ai bagni i pettini, e gli alabastri con gli unguenti, e gli specchj. Con tal modo ammorbidiva i giovani fino ai venti anni, concedendo allora che passasser tra gli uomini. Ma egli che avea cosi vituperato e danneggiato i Cumani, egli che non avea risparmiato loro nè im­pudenze , nè sevizie , egli alfine già vecchio , quando si credea sicuro nella tirannide, sterminato con tutti i suoi , ne pagò le giustissime pene ai Numi ed agli uo>. mini.

X. I prodi che insorgendo liberarono la patria dalla tirannia di lui furono i figli de' cittadini uccisi : quelli che egli avea risoluto in principio di trucidare tutti in un giorno, m adie poi risparmiò, come ho detto, vinto

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Malie istanze de' satelliti snoi, maritati da luì eolie ma­dri loro, comandaudo che abitassero per le campagne. Pochi anni appresso viaggiando egli pel' contado e ve­dendoli già adulti e molti e floridi ; temè che non si congiurassero ed assalisserlo : e macchinò di prevenirli ed ucciderli tutti prima che niuno se ne avvedesse. Adunque consultandosene cogli amici, deliberava eoa essi le maniere sollecite e piane ma occultamente, onde spegnerli. Sepperlo que' giovinotti per indizio forse di alcuno che ne era consapevole, e , forse mossi da con* getture probabili, fuggironsi ai monti, dando di piglio ai ferri degli agricoltori. Corsero ben presto in ajuto loro i fuorusciti Cùmani rifugiati in Capua , tra' quali erano i più cospicui, e segniti in gran parte dagli ocpiti loro Campani, i figli d’ Ippomedonte, di quello che ndla guerra Tirrena avea comandato la cavallerìa. Essi armati recavano a' compagni le armi con una truppa nou picciola di amici e di mercenarj della Campania. Alfine riunitisi scorrevano e turbavano predando i campi nemici, ritoglievano gli schiavi dai padroni, ed ogni altro qualunque dalle carceri, e gli armavano, e quanto non poteano trasportare o menar seco lo davano alle fiamme, o alla morte. Ansio dubitava il tirando come avesse a combatterli, perchè nè sapeasi quando impren* derebbero , nè'téneansi fermi sempre in . luoghi mede­simi , ma regolavano le loro incursioni o colla notte fino all’ aurora, o col giorno fino alla notte. Avendo più volte spedilo milizie ma indarno a guardia delle cam­pagne , a lui ne venne un ‘.ale degli esuli malconcio di battiture, spedito ad arte da essi quasi un iliserkore.

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Costui diiedendo ' la impunità promise al tiranno di guidare l ' armata che manderebbe con lu i, nel luogo appunto ove quelli sarebbero nella notte imminente. In> dotto il tiranno a credergli perchè non chiedea verna premio , e porgea sestesso in ostaggio , spedi li suoi duci più fidi, seguiti da molti cavalieri e da’ mercenari , con ordine di condurre a lu i, legati almeno , ì p iù , sé non tutti quegli esuli. Il disertore eh' erasi a ciò posto menò tutta la notte 1’ armata a disagi gravissimi per vie non trite e per boschi, in parti le più lontane dalla città.' XI. Come i ribelli e i profughi posti per le insidie intorno all' Àvemo , monte vicino alla città, conobbero peWgnali dati dagli esploratori che l'armata del tiranno era uscita, mandarono circa sessanta i più arditi di loro che

. cinti da irte pelli portavano fasci di sarmenti. Or que­sti nell' ora , quando accendonsi i lumi, chi per l’ una e chi per 1’ altra parte entrarono, quasi operaj , la città senza essere conosciuti; ed entrati cavarono da’sarmenti le spade die vi occultavano, e si raccolsero tutti ad un 'luogo. Donde marciando in schiera alle porte che me­nano all' Averno, ne uccisero i custodi che dormivano, e spaìancatele, v' introdussero tutti i loro che v' eraa già prossimi, nè per Unto il fatto ravvisavasi ancora. Scontravasi per sorte in quella notte una pubblica festa, ond’ è che tutti oziavano per tutto in città tra le be­vande ed altri diletti. Or ciò diè loro gran sicurezza di trascorrere tutte le vie che guidavano alla casa del ti- ramio : e nemmen qui trovando nelle entrate molti, nè

.vigihaii, ve gli acciserO'senza stento, oppressi dal sonno

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o dal vino : ed internatisi in folla trucidarono nell' abi­tazione, quan una gnèggia, tutti gli altri, ornai pei viab non più arbitri de'corpi nè degli animi loro. Or qiit preso Aristodemo, i figli, e tutti i parenti, e battotiU gran parte della notte, e tort^iratili, e devasutili con ogni male, gli uccisero finalmente. Cosi sterminando dalle radici quella stirpe, di tiranni fino a non lasdarri non fanciulli, non domie, non consanguineo niuno ; e rintracciati tutta la notte tutti li cooperatori a fondar la tirannide ; andarono , nato il giorno , niel Foro , e con* Tocatovi il popolo , e depostevi le arme, renderono là patria a sestesSa,

XII. Or questo Aristodemo nel quartodecimo anno della sua tirannide in Cuma , questo voleano gli esult compagni di Tarquioio che giudicasse' tra loro e la pa­tria. Ripugnarono alcun tempo i deputati de Romani, come quelli che nè erano a tal fine veduti; nè avevanò dal Senato i poteri per difendere ivi Roma Non pro> fittando però niente, anzi vedendo quel despota pre^ pendere in contrario per le brighe, e per le istanze degli esuli ; chiesero un tempo per le , difese , e deposi tarOQO una somma per garanzia di eseguirle essi stessi.* Ma poi nel córrere di questo tempo, quando ninno più vegliava su loro, fuggirono, ritenendosi il tiranno gli schiavi, li giumenti, e li danari che aveano portato per comperare de' viveri. Tali furono gl' incontri di queste legazioni, e così riuscì loro di tornarsene in patria sd>- bene senza l ' intento. Ma la legazione spedita Dell'Etru- ria comperatovi miglio e fiirro lo trasportò su barche fluviali a Roma, e Roma ne iu nudrita ebbene per

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poco ; finché coasumatili, ricadde ne' disagi medesimi Non eravi ^nere di alimenti & oai non si rivolgesse. Dond'è che non pochi tra la scarsezza, e la inconve­nienza de' cjbi non soliti, s avean male nella persona,o diventavano a tutto impotentinon soccorsi nella po­vertà. Come ciò seppero i Volsci doinati di fresco, s’ isti­garono con vicendevoli occulti messaggi a riprender le armi, quasi foase impossibile, che i Romaui resistessero bersagUati dalla guerra e dalla £ime. M al ouàù propizj cbe vegliavano perchè non rimaeessero in preda . a' ne­mici , ne dioiQsirarono allora più «Ivai'amente la prote­zione. Di repente si mise tra'Volsci una tal pestilenza, quanta non ieggesi mai stata in Greche o barbare terre, ditiacendoli promiscuamente di ogni ^ , di ogni fortu­na , di ogni temperamento, validi p invalidi. Mostrò soprattutto gli eccessi del male Yelletri, città insigne , de'Yolsci, e grande allora e popolosa. La peste appena ne risparmiò la decima parte, investendovi e consu- mandovene le altre. Ond' è che i superstiti a tanto in­fortunio , mandati ambasciadori, e dichiarau a' Romani la loro solitudine, sottomisero la città. E siccome aveano prima ricevuto de' coloni da essi ; ne chiedeano di pre­sente ancor altri.

XIII. Impietosirono, sapendoli, ai loro teali i Ro­mani; nè pensarono che si avessero a {wemere come nemici fra tanta sciagura, dacché pagavano agl’ Iddj le pene per ciò che voleano fare su Roma. Piacque loro di riammetter Velletri, e spedirvi numero non picciolo di coloni presagendone sommi vantaggi. Parea che il posto , se presidiavasi acconciamente , sarebbe ostacolo

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grande e ritardo a chiunqae si voleva rimesoolare e sommoversi. E concepivasi che la penuria di Roma non poco si scemerebbe se una parte notabile di popolo al­trove si trasferisse. Inducevali soprattutto a spedire una colonia la sedizione che vi si riproduceva, non essen­dovi ancora sopita in tutto la prima. Imperocché il po­polo discordava un altra volta come per addietro , e ne odiava i Patrizj : e molta era 1’ amarezza dei discorsi co'quali accusavano la poca cura, e la scioperatezza di essi perchè non aveano a tempo preveduta nè riparata la penuria fuiara, dicendo alcuni perfino che ad arte aveano procurato la carestia per astio e desiderio di af­fliggerne il popolo in memoria della ribellione. Per tali riguardi sollecitissima iii la spedizione della colonia , de­stinativi dal Senato tre condottieri. Da principio udiva il popolo con diletto che trarrebbonsi a sorte i coloni, {lercbè sarebbe cosi levato dalla fame, e perché vive- rebbe in terra fdiice: ma poiché .rifletté che la peste ge­nerata» nella città che gli avrebbe a ricevere aveva di­stratto i suoi cittadini, e temè che in tal modo ancora maltratterebbe i coloni, variò poco a poco di sentimento. Tantoché non molti, anzi meno assai che il Senato ne permetteva, esibironsi per la colonia: e questi bentosto Ile fìiron pentiti come sconsigliati, e scansavano di usci- xe. Da tale vincolo erano trattenuti questi e quanti al­tri non pi Ci si acconciavano ad andare. Ma decretato avendo il Senato che la colonia si ricavasse dal com­plesso di tutti i Romani secondo le sorti, e stabilendo dure ed irreparabili pene per chi ricusava ; alfine fu per tale necessità condotto il numero conveniente in Velie-

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tri. Non molti giorni appresso un’ altra colonia fa tra-isferita in Norba, città non igaobilé dei Latini (i).

XrV. Non però segui da ciò ninna delle cose con- ghietturate da’ patrizj secondo la speransa di spegnere le discordie. Imperocché la plebe rimasta intristì più an^ Gora, vociferaildo con assai clamore contro de' padr» nelle adunanze prima di pochi, indi di molti, per la fiime divenuta gravissima; e concorrendo al Foro vol- geasi lamentosa ai tribuni suoi perché 1' aiutassero. Or tenendo (juesd adunanza, fattosi innanzi Spurio Icilio allora capo di essi, perorò lungamente contro de’ padri- aumentandone guanto potè la malvolenza. Egli istigò pur altri a dire pubblicamente ciocché sentivano , e prin­cipalmente Siccinio e Bruto allora edili, invitandoveli a nome, appunto come capi già del popolo nella prima sedizione , ed inventori, anzi magistrati la prima volta della podestà tribunizia. Presentatisi dissero andi'essi, udendoli il popolo vogliosissimamente , malignissime cose già da molto tempo premeditate, come se la caresda fosse procurata per malizia de' ricchi, perchè II popolo avea loro malgrado, ricuperata colla sedizione la libertà. Dissero che I ricchi non aveano pur la minima parte del disagio dei poveri molta essere la loro non cnranza de' mali, perchè aveano cibi occulti e danari onde com perarli se introducevansl, laddove I plebei mancavano- di ognuna di queste due cose : protestarono che mandare I coloni a’ luoghi contagiosi, era un avviarli a rovina visibile e funestissima, aggravando quanto più poteano

(i)'.A tempo di Piiaio era nu ammasso di rovine • Restava circa sei miglia lontana da Segni a m«uogiomo.

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LIBRO VII. 3 3 7còn parole il male. Cbiedeano qual ^sarebbe il fiae a unte sciagure , e richiatnavaao loro in memoria gli aa< tichi ilageHi , ond’ erano stati malmenati da' ricchi ; ag- giungeudo ancora impuuissimamente cose consimili. Da' ultimo Bruto la fini minacciando, dicendo cioè, ché se secondavano, . egli necessiterebbe quanto prima a spe­gner l’ incendio quelli stessi che eccitato l’aveano. E cod r adunanna fu sciolta.

XV. Intimoriti i consoli sii tali innovazioni, e solle­citi che le adulazioni di Bruto verso del popola noo terminassero, in grandi sciagure, jntimairono nel prossi­mo giorno il Seaàto. Ivi si fecero discorsi molti e varj da essi, come dagli alfi’i seniori. Pensavano alcuni ohe. si dovesse blandire i plebei eoa ogni dolcezza di parole e promessa di òpere, e renderne i capi più moderati, con esporre lo stato delle cose, e convocarli e consuU. tare insieme il bene comune : in opposito altri consiglia­vano che non cedessero, nè si abbassassero verso dei popolo : essere la moltitudine, impériia, e caparbia : in­solente , incredibile l’ ardore dei capi che 1’ adulano : facessero piuttosto costare che non ci avea né' pati'Ì£) ; colpa uiuua, e promettessero ovviare, quanto potevasi,' al male. Redarguissero e minacciassero di pene conde­gne i s o m m Q v ito i’i del popolo , se non si chetavano. Ap< | jÌo era il p r i m o in tal sentimento, e {Prevalse in mezzo alle grandi opposizioni de’ padrì. Tanto che il popolo turbato all’ udirne tanto da lungi i clamori accorse alla curia , e tutta la città fu sospesa nella espettazione. Dopo ciò li consoli uscixi «dunarono il popolo, restandovi breve

D IO K IG I , tomo I I . a a

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parie del giorno, | tentarono di esporgli i voleri del Senato. Contraddissero i tribuni, nè già fa vicendevole nè ordinato il colloquio. Gridavano , interrompevansi ; tanto che non era facile agli astanti distinguere i loro penàerì , e ciò che volessero.

XVL Diceano i consoli ch'esà come di autorità pre­minente doveano comandare in tutto alla città; laddove i triboni replicavano che i consoli avean dritto in Se­nato , ma su le adunanze del popolo i tribuni : questi aver tutto il potere su quanto si dee discutere e sen­tenziare da’ vod del popolo. Prendea parte, vociferava per essi la moltitudine, pronta ad assalire se bisognava, chiunque ostasse loro. Altronde i patrizj acclamavano, e davan animo ai consoli, circondandoli. Vivissima era la contesa per non cedere gli uni agli altri ; quasi allora. appunto si cedessero i diritti una volta per sempre. Già il sole era per tranionUre, e tuttavia concorrea dalle case nuovo popolo al Foro: e se la notte non li tron­cava, forse i dissidi finivano a colpi , ancora, di pietre. Bruto perchè ciò non seguisse, fecesi innanzi, e chiese ai consoli di parlare ; promettendo di sedare il tumulto. Concederono questi che parlasse, parendo loro che sì deferisse ai consoli mentre quel capipopolo ciò chiedeva da essi, presenti i tribuni. Fatto silenzio , Bruto senza dir altro interrogò U consoli di tal modo: ricordale^ voi che lasciando noi le divisioni, ci accordavate per. diritto che quando i tribuni adunassero sotto quaiun- qìte fine il popolo, i patrizj nè intervenissero al^ a- dunanza, nè la turhassem ? Ce ne ricordiamo, disse Geganio. E Bruto ripigliò ; qual mede aveste voi dun -

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LIBRO VII. 3 3 9'que da noi che c impedita, nè permettete che i tri­buni dicano ciocché vogliono? E Geganio rispose: per~ chè non voi, ma noi consoli avevamo chiamalo il popolo a patiamento. Se fosse staio invitato da voi, non ^ impediremmo ; anzi nemmeno curiosi ci brighe­remmo in ciò che si tratta : ora essendo da noi con^ vocato , non v' impediamo che favelUate ; ma che noi ne siamo impediti, ciò non è giusto. Allora Bruto , abbiamo vinto, disse, o popolo', conce desi a noi dagli avversar] quanto chiedevamo : ora desistete, chetatevi, ritiratevi', domani promettovi dichiarare quanta forza v' abbiate. E voi tribuni cedete ad essi di presente nel Foro : non sempre già qui cederete quando ab­biate compreso ( e presto lo comprenderete, io pro­metto chiarirvene J il potere del vostro magistrato, jébbasserete cotanta loro preminenza', e se troverete che io V* abbia deluso, Jote ciocché vi piace di me.

XyiL E uiuflo più contraddicendo, ritiravansì lutti dall' adunanza : non però gli ani e gli altri con pari divisamente. Credeano i poveri cbe avesse Bruto ideato gualche nobile impresa, e cbe non indarno la probiet* tesse : ma i patriz) trascuravano la leggerezza di lui , pensando che V audacia delle promesse non andasse più in U delle parole ; non essendo conceduta dal Senato ai tribuni altra autorità cbe di proteggere il popolo, se lion facevasi ad esso ragione. Non però la cosa parea pregevole a tutti, specialmente ai seniorT, ma cbe do­vesse attendersi cbe la mania di un tal uomo non ge­nerasse mali insanabili. Bruto la notte appresso svelato il parer suo fra i tribuni, e raccolta una massa non tenue

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di popolo , ne andò di .conserva nel Foro : e prima che si facesse di chiaro, occupato il tempio di Vulcano donde eglino soleano concionare , invitarono il popolo a parlamento. Empiutosi il Foro di un concorso, quale mai più v'era stato, presentasi Icilio il tribuno, e par­lavi lunghissimamente contro de’padri. Egli commemora quanto han fatto in danno del popolo, e come nei giorno addietro aveano impedito lui fin di parlare con­tro i poteri ancora della sua dignità. E qui disse : e di che altro sarem più padroni se nol siam di parlare Come potremo soccorrere voi se ojffesi, quando ci si toglie la libertà di adunarvi ? Son le parole i preludj, delle operazioni: nè ignorai che quelli che non pos^ fono dir ciocché pensano, nemmen possono fa r cioc­ché vogliono. Pertanto o ripigliatevi, disse, la potestà che ci deste, se non volete mantenercela inviolabile;o proibite con legge che alcuno pià ci si opponga. A., tal dire provocavalo il popolo che egli stendesse la leg­ge ; e siccome teneala già scritta, la lesse. E , dispen-, sati i voti, fe' che il popolo immantinente ne decidesse;, parendogli non esser questo un afiàre da esitarne, o, differirlo, perchè non avesse altri inciampi dai consoli. La legge era questa; Concionando un tribuno al po­polo , niuno aringhi in contrario, nè interrompalo : e se alcuno contravvenga, dia mallevadori ai tribuni di, pagare, chiamatone in giudizio, la multa che gS im-’ porranno : e non dandoli, egli sia punito di morte, li beni di lui sien sacri, e tutte le controversie su tali multe spettino al popolo. I tribuni confermata coi voti la legge dimisero 1’ adunanza: ed il popolo si ri.<

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tirò , tutto di buon animo, e pieno di riconoscenza per Bruto , come per l 'autore della legge.

XYIII. Dopo ciò li tribuni ripugnavano ai consoli molto, e su molte cose : nò- il popolo rati6cava i de­creti del Senato , nè il Senato approvava decisione niuna della plebe. Così tedeansi contrapposti e sospetti. Non però r odio loro, cotee avviene in simili turbqlenze, procedette a danni irreparabili. Imperocché nè i poveri investirono mai le case de' ricchi ove concepivano che troverebbon de'cibi riservati ; nè mai si lanciarono su pa> lesi merci per involarle : ma pazienti comperavano a gran costo il poco , e sosteneansi di radici e di erbe se pe- nuriavan di argento. Nè ' mai li ricchi per dominare soli nella città violentarono colla forza propria, o de' clienti, ( eh' era pur molta ) la classe indigente, esiliandone o trucidandone; ma conduceansi come padri savissimi in­verso de' figli, con cuore sempre benevolo e premuroso -tra le lor delinquenze. Or tale essendo lo slato di Boma, le città vicine invitavano qual più volealo de' Romani a traslatarsi nel seno di esse, allettandoli con dar loro la cittadinanza, ed altre propizie speranze : ma le une in­citavano mosse dai bei genj per benevolenza e pietà nei mali altrui, le altre (ed eran le più !) per invidia della prosperità passala della repubblica. E furono ben molti quei che partirono con tutte le famiglie, e posero al- irove il soggiorno : ma taluni di questi, riordinato lo stato , ripatriarono, e tal' altri mai più.

XIX. Or ciò vedendo i consoli parve loro, per voler del Senato, che avesse a farsi una iscrizione di soldati, e porre in campo un esercito. Prendeano occasione spe-j

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ciosa a tanto dall' essere la campagna tante volte dan* neggiata dalle scorrerìe, e saccheggi de' nemici ; calco­lando ancora i beni che nascerebbero dall'inviare un esercito di là da’ conGni : mentre quei che restavano avrebbero, come diminuiti, le vettovaglie in più copia: e gli altri colle arme vivrebbero in siti più abbondanti a spese dell' inimico, e la sedizion tacereMie , almen quanto si tenesse in piedi l'armata. Tanto più poi sem« brava che restiluirebbesi la calma tra patrizj e plebei, quanto che dovrebbero militare insieme, e partecipare i beni e i mali a fronte de' pericoli. Non però la mol­titudine ubbidiva , nè si presentava spontanea, come aU tre volte , per essere iscrìtta. Non vollero i consoli foiv xare secondo le leggi i renitenti : ma alcuni palrìzj s'iscris» tero volontari co' loro clienti, congiungendosi ad essi che uscivano, anche picciola parte di popolo per mili- tare. Era duce di quest' esercito quel Caio Marcio, il quale espugnò la città de' Corioiani, e riportò la co> rona dei forti nella pugna cogli Anziati. Or vedendo lui per capitano, i più de'plebei che aveano pigliato le armi vi si confermarono, altri per benevolenza, altrì per la speranza di f^serne diretti a buon fine. Imperocdiè famosissimo egli era quest' uomo, e gran­de il terrore sparso di lui fra nemici. Si avvanzò tal esercito fino ad Anzio ; impadronendosi di schiavi f e di bestiami in copia, senza dirne il molto grano che era ne’ campi ; tornandone indi a non molto ricchissimo fello di viveri: tanto che quei che s’eran rimasti, eran mesti e dolenti verso de'tribuni, pe’ quali Sembravano privi di un tanto bene : cosi Geganio e Minucio consoli

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di qnéir anno trovatisi in tempeste varie e gcaudi, e più volte lu pericolo di rovinar la cilti, non operarono nulla con troppa efficacia : - pur sai w ono la repubblica più savj che prosperi nell* uso delle circostanze.

XX. Marco Minucio Augurino, ed Aulo Sempronio Atratino eletti consoli dopo lo ro , presero per la se­conda volta quel grado ( i ). Non imperiti nell' arm e, e nel dire, empierono con assai provvidenza la città di grano e di ogni maniera di viveri, come si ristrìngesse all’ abbondanza la concordia del popolo. Non però po­terono ottenere 1' uno e 1' altro bene ; ma venne colla sazietà pur l'orgoglio in quelli eh' eran saziati. E quando meno pareva, allora fu su Roma il pencolo maggiore che mai per addietro. I commissarj spediti pe'grani , comperatone negli emporj entro terra o sul mare, lo aveano già trasportalo a'pubblici serbato). Quand' ecco ì negozianti pure di viveri ne condussero d' ogn’ intorno in Koma ; e Roma comperando a pubbliche spese I lor carichi, li custodiva. Vennero i primi i commissarj spe­diti in Sicilia, Geganio e Valerio con piene assai bar* che : portavano in esse cinquanta mila moggia siciliane di grano, metà procacciato a lievissimo costo, e metà regalato e mandato a ^ese sue dal tiranno. Nunziatosi in città l'arrivo delle navi portatrici de'grani siciliani; discussero i patrizj longamente come avesse a dispor­sene. 1 più moderati e popolari fra loro, considerata la pubblica calamità, consigliavano che il grano donato dal re si donasse ancora a tutti del popolo, e che 1' altro

(i) Auni di Roma a63 seconda Catone, a65 secondo Varone , e

489 avanii Ctitio.

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comperato coll’ erario , si vendesse loro a picciol mer­cato V ricordando che per tali beneficenze principaltnenle «i ainmansaDO gli ànimi de’ poveri verso de' ricchi. Per r opppsito i più arroganti fra loro, ed amici del co­mando dei pochi, sentenziavano che aveasi con tutto r ardore e l ' ingegno a deprimere il popolo, ed eccita­vano a non fargliene se non carissima la vendita, per­chè la necessità li rendesse per innanzi pià savj e più conformi alle leggi.

XXL Fra questi amici del comando de’ pochi era pur <}uel Marcio, chiamalo Coriolano, nè già dicea come gli altri in occulto e con riguardo i proprj sentimenti, ma di proposito, e con ardore, sicché molti del popololo udirono. Avea costui non che le cause comuni con­tro, del popolo, motivi privati e recenti onde parer di odiarlo meritamente. Cercando esso ne’ comiz) ultimi il consolato , il popolo se' gli oppose, ad onta de'padri che lo sostenevano , nè permise che lo conseguisse ; per­chè sospettava che tm tal uomo colla chiarezza ed ar­dire suo prendesse ad abbattere il tribunato : e tanto più ne temea che vedeva che tutti i patrizj aderivansi a Iq i, come a riiun altro mai per addietro. Infiammato costui dalla ingiuria, e macchinando riordinar la repubblica su le antiche maniere, adoperavasi, come ho detto, pale­semente , incitandovi pur gli altri, all'annientamento del popolo. Lui cingeva un segufto di molti nobili e rio- chissimi giovani, e per lui stavano molti clienti, pro­speratine già nella guerra. Esaltato da questi, andavane fastoso, e minaccievole, e fra tutti chiarissimo ; noa però ne ebbe termine fortunato. Adunatosi pe’ casi pr&;

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semi il Senato e proponendo, com' è costume, il pro­prio parere prima li seDÌori, tra quali non molti con­trariarono manifestamente la plebe ; alfine riilottasi la disputa ai giovani, egli chiese da’ coilsoli il poter dire cioccbè voleva : e tra ’l favor grande, e la grande atten> zione di tutti cosi contro del popolo ragionò.

XXII. Che U popolo non siasi ribellato per neces- sità e per disagi, ma sollevato dalla rea speranza di abbattere il comando de pochi, e farsi egli stesso /’ arbitro del comune ; credo ornai che lo abbiate o padri compreso voi tutti , considerando la inconlen- labilità sua nel pacificarcisi. Non era il solo disegno suo di violare la fede de’ contratti, e di abolirei le leggi che la garantivano, senza passare più oltre. Esso per levare il magistrato de consoli, ne fondava un altro nuovo, e lo rendeva sacrosanto ed immune per legge, ed ora, e voi non vel conoscete, lo ha con un ple­biscito recente immedesimato al poter dei tiranni. E per certo-, quando g t incaricati di un tal magistrato col pretestare i bei titoli di proteggere i plebei mal­menati opereranno con esso e disporranno come a lor piace , quando niuno, non uomo privalo , non pub­blico , potrà impedirne gli abusi per timor della legge la qual toglie anche il dire non che il fa re , minac­ciando la morte a chi pur lascia fuggirsi una libera voce in contrario; dite , e qual altro nome dee met­tere allora chi ha senno a tal magistrato se non quello di ciò che è veramente, e che voi tutti confesserete, quello cioè di una tirannide ? Siasi un salo che tiran- neggia , siasi il popolo tutto , e qual divaria ? quando

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uno appunto è f operar di ambedue? Era ottimùsima cosa non lasciare mai che il seme / introducesse di un simil potere, e soffrir prima tutto, come il valo^ rosissimo ^ppio voleva, antivedendone da latito tempo le ree conseguenze. Ma giacché ciò non si fece , ora almeno sradichiamolo , gettiamolo dalla città mentre è debole ancora, e facile da superarlo. Certo voi non siete, o padri coscritti, nè i primi, nè i soli a quali tocchi ciò fare ; quando moki già tante volte deviando daUe buone risoluzioni su di affari gravissimi; e ranf- voUisi in necessità sconsigliate, tentarono' estinguet e il mal già cresciuto , se impedito nel nascere n^n lo aveano. E quantunque la penitenza di chi tardi fa senno sia da meno della previdenza ; tuttavia sott’al^ Irò rispetto apparisce- non inferiore, annullando t er> ror già commesso colt impedir che si termini.

XXKT. Se alcuni di voi han per gravi le operai zioni del popolo, se pensano doversi lui prevenire sicché più non esorbiti, ma vien loro la verecondia di parere i primi a rompere i patti e li giuramenti; sap­piano , che se fa n ciò, saranno incolpabili innanzi g t Id d j, e compiran la giustizia colf utile proprio ; giacché non eomincian essi t oltraggio ma lo respin­gono , non tolgon essi i patti , ma chi prima li tolse puniscono. E grandissimo argomento siavi che non voi cominciate a rompere i palli, non voi t alleanza^ ma il popolo il quale non più soffre le leggi colle quali ottenne il ritorno. Non chiese già egli i tribuni per danneggiare il Senato; ma per non essere dan- neggìato. Eppure or ne usa non per ciò che lo dee^

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LIBRO VII. 3 4 7nè per ciò che fu crealo , ma per turbare e cottoti- dere lo stato della repubblica. Ben vi ricorda delt ul­tima adunanza, e della cose dettevi da tribuni, e quanta arroganza e quale disordine y i dimostrassero. Ed ora, niente più savj, quanto fasto non menano al vedere, che tutta la forza della città sta ne’ voti, e ne’ vóti ci vincon essi, tanto maggiori di numero ? Se dunque han essi incominciato a frangere i patti e le leggi; che dobbiamo noi fare se non rispinger la ingiuria, se non ripigliarci giustamente ciocché ingiù- stamente ci han tolto ? e ftenar tante lor pretensioni ognora più grandi ? e ringraziarf; g l Iddj che non han permesso che essi colf acquisto del primo potere di­venissero savj per t avvenire ; ma gli han ridotti a tal vituperio e briga per la quale voi di necessità tentaste ri­cuperare il perduto, e custodir ciocché resta, come si dee?

XXIV. Se volete riavervi; non altra occasione mai fia così buona, quanto la presente.'Ora la pià parte di essi è vinta dalla fa m e, -e f altra non potrà resi­stere lungamente per t indigenza, 'se abbia i viveri scarsi e cari. L i più rei, quelli non mai propensi al comando de' pochi, ridurransi a lasciarci, ma gli altri più miti diverranno ancora più docili, nè mai più vi turberanno. Custodite dunque , non iscemate di prezzo i viveri, e fa te che vendansi il più caro che mai. Vai ne avete oneste occasioni, e pretesti lodevoli nella ingratitudine di un popolo che mormora, quasi ab­biate voi prodotta la carestia, nata dalla ribellione loro e dal guasto che diedero alle campagne, levan­done e trasportandone ciocché vollero come da terre

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nemiche, e nelle spese delT erario per la spedizione de' commissarj in cerca di viveri, e nelle tante altre ingiurie, onde foste oltraggiati. Conoscansi fin da ora quali sono i mali co’ quali ci ajliggeranno , se non facciamo tutto a piacere del popolo, come i capi loro dicono per atterrirci. Se vi lasciate fuggir di mano questa occasione ; ne sospirerete le mille volte una simile. E se il popolo sappia una volta che voi mac­chinavate di abbattere tanta sua fo rza , ma ne desi' steste ; tanto piìi vi si renderà grazioso, tenendovi nei vostri voleri come nemici, e come impotenti ne’vostri timori.

XXV. Si divisero a tal dire di Marcio i pareri, e molto si romoreggiò del Senato. Imperocché quelli che da principio contrariavan la plebe, e ne ammisero mal­grado loro la pace, tra quali erano i giovani, quasi tu tti, e li più ricchi e più rignardevoli de' seniori ; esasperandosi della impudenza di essa, encomiavan que­st' uomo come generoso, come amico della patria , e che parlava il ben del comune. Ma quelli che propen- deano, come prima, verso del popolo, nè stimavano le ricchezze oltre il dovere, nè credevano cosa alcuna necessaria quanto la pace, eransi corucciati a tal d ire , non che vi aderissero. Volevano che si vincessero i po­veri colle dolci, non colla violenza: essere'la dolcezza una cosa non solo conveniente ma necessaria ; prin­cipalmente per la benevolenza verso de cittadini : e chiamavano que'suoi consigli non libertà di detti, e di opere ; ma delirj : nondimeno questo partito , come pic­ciolo e debole, era -sopraffatto duU' altro più forte. Oi(.

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tjBRO V II. 3 4 9ciò vedendo i tribuni ( eran questi - presenti, ìnTÌtaii ia Senato da' rònsoU ) gridarono e fremerono j chiamando' Marcio peste e rovina della città ; come lui che usciva in discorsi sì rei contro del popolo. E se i patinzj nonlo frenavano coir esilio o con la morte, mentre svegliava in Boma una guerra civile , essi, diceano, che lo pu­nirebbero. Or qui nato un tumulto ancora più vivo pei discorsi dei tribuni, principalmenté dal canlo dei gio­vani che mal sopporUvano quelle minacce ; Marcio ani­matone parlò più veemente ancora e più risoluto. I o , diceva, io se voi non la finite di fa r qui turbolenza, e di sommovere i poveri; io da ora innanzi mi farò can­tra voi non colle parole, ma colle opere.

XXVI. Or qui riscaldatosi più ancora il Senato^ i tri- buni vedendo che più erano quelli che volevano richia­mare, che serbare i poteri conceduti alla plebe , fug­girono dal Senato gridando, e protestando gl' Idd], vin dici de'giuramenti. £ convocata immùitinente Tfidu- uanza del popolo esposero i discorsi di Màrcio tra'se­natori , citandolo a giustificarsene. Non attese costdi li messi di quelli che lo citavano, ma li vituperò, e re­spinse. Dond’è che i tribuni esasperatine preser seco gli edili e molli altri; e volaron su lui. Stavasi ancor egli dinanzi la curia tra seguito di patrizj e di altri compa­gni. Come i tribuni lo videro^ ordinarono agli edili di invaderlo, e di portarlo a forza, se ricusava di andare. Erano allora gli edili Tito Giunio Bruto, ed Icilio Ruga; e questi si avvanzarono come per arrestarlo. I patrizj riputando terribilissima cosa che un di loro fosse por­tato via colla forza , prima di ogni condanna, furono

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35o DELL E ANTICHITÀ,’ ROMANE

alle difese di Marcio : e percotendo quanti gli si aTren» tavauo, li rispinsero. Divulgatosi l ' incontro, ovuaque per Ift citti ; sboccavano faori delle case i cittadini ; i più graduati e ricchi per difendere Marcio co' patrizj, e restituire la ferma antica della repubblica : ma li pià abietti e poveri per sostenere i tribuni, e far quanto im­ponessero. Cosi fu tolta la verecondia che avea (in II contenuti gli uni e gli altri, senz’ ardire di offendersL Tuttavia per quel giorno non commisero nulla di gra­ve : ma vinti dai voleri, e dalle ammonizioni de’ con­soli , differirono tutto al giorno seguente.

XXVII. Primi nei prossimo giorno scesero al Foro » tribuni , e vi chiamarono il popolo a |>ariamento. Poi gli uni dopo gli altri accusarono ampiamente i patrizj come avessoo traditi i palli e rotti i giuramenti fatti al popolo, di scordare il passato ; dabdo per argomento ehe non s' eran essi riconciliati, davvero, e la carestia da loro voluta de'grani, e la spedizione delle due co» Ionie, ed altre cose dirette a scemare la moltitudine. Inveirono sopi^ttùtto contro di Marcio, narrando t di* scorsi tenuti da lui nel Senato, e come chiamato s( di­fendersi non solo avea ricusato, anzi avea rispinto colle percosse gli edili che lo arrestavano. Allegavano per testimonj dell' avvenuto in Senato tutti i pià riguarde- voli di queir ordine : come per 1' affronto degli edili allegavano tutti i plebei, quanti ne erano presenti ia quel punto nel Foro. Ciò detto concederono ai palriz), se voleano , di giustificarsi ; giacché essi terrebbero il popolo in adunanza finché il Senato si disciogliesse. Consultandosi anch’ essi appunto allora i senatori su le

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vicende, dubitavano se avessero a purgarsi dalle calun<T tiie presso del popolo, o se guardassero la calma. Ma poiché li voli dei più preferirooo i consigli della bene- volenta » quelli del riseotimento ; i consoli, sciolto il St'tiAio, vennero al Foro per togliervi le accuse comuni e perorare su Marcio ; sicché il popolo non prendesse aspre risoluzioni ^u lui. Àdunijue presentatosi Minucio il pili anziano dei due disse :

XXVIII. B m v o popolo è t apologia su la scar­sezza de viveii ; nè offero altri testimonj che voi su quanto sono per dire. Ben sapete voi che ne mancò la raccolta dei grani, perchè tralasciata ne fu la se~ menta. Non dovete poi conoscere da altri che da voi, donde sia nato £ altro guasto de’ campi, e come in­fine la terna più ampia e buona sia quasi restata senza fru tti, sènza schiavi, senza bestiami. Ciò nacque pai'te per le ruberie de’ nemici, e parte perchè insuf- ficieiUe a nudrire tutti voi, tanti di numero, nè fo r­niti di viveri da altra parte niuna. Se dunque è ri'- saltata la fame non donde i tribuni dicono , ma donde voi ben sapete ; cessale dt imputare a nostri artifizj un tal male, e d" irritarvi contro noi che ne siamo innocenti. Le spedizioni delle colonie si fecero di ne~ cessità, giudicando voi tutti pubblicamente che si do.- vesserò guardtwe de' luoghi opportuni per la guerra: e queste, fatte in tempi durissimi, assai giovarono chi addava e chi si rimase : perocché gli uni trovano là vìveri abbondantissimi , e gli altri qui scemati di numero ne sentono minore il disagio. Nè già potrà mai rimproverarsi £ eguaglianza la quale noi patrizj

LIBRO VII. 351

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3 5 2 DELLE a n t ic h it à ’ ROMANE

abbiamo con voi plebei participalo con fa r uscire , so- condo le sorli, per la colonia.

XXIX. Di che dunque son offesi in ciò li tribuni che cen riprendono, se noi tutti in comune ne abbiamo deliberato e partecipato , sia che triste, coni essi di­cono , ne fossero le conseguenze , sia che giovevoli come noi crediamo ? Ciò poi che essi c imputano circa il Senato ultimò , vale a dire che noi non vogliamo in memoria ed astio della ribellione , mitigare i prezzi de viveri, mircmdo sempre ad abbattere il tribunato, e deprimere per ogni guisa il popolo e fa r ingiurie consimili; questo noi lo escludiamo ben tosto intera­mente colle opere. È tanto lungi che noi siamo per causarvi alcun danno ; che la potestà tribunizia ve la confermiamo appunto come ve t abbiam conceduta. E questo grano , venderawisi questo còme voi fisse­rete. Aspettale dunque , e se ciò non facciamo , allora sì ci accusale. Che se vorrete esaminar piit dappresso ciocché ci divide f forse noi patrlzj abbiam piti diritto a richiamarci del popolo , che il popolo ne abbia a richiamarsi del Senato. Foi ci fate ingiuria o plebei ( non vi offendete ciò udendo ) se volete accusarci su le nostre risoluzióni senz’aspettare che siansi ulti­mate. Or chi non vede quanto è facile a chi lo vuole, confondere con tali accuse una città, e levarvene la concordia? Una risoluzione non dichiarata ancora co’ voti, se credesi che esser lo possa, non esime più noi dalT incorrer nell’odio ; ed è per gli oppositori un pretesto per sembrare di non offenderci. Se non che non soriano da riprendere solamente i vostri capi per.

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ji,iBBo vir. 353le calunnie che c impongono ; ma \>oi nommeno che prestate lor fed e , e con noi vi sdegnate innanzi de~ gli esenti. Voi se temevate cC ingiustizie future , do- vevate riservar C ira vostra appunto per quel tempo. Ma ora vi deste a divedere anzi precipitosi che savj} e che tanto vi tenete più sicuri, quanto piit malignate.

X SX . Ma su* pubblici aggratf/, su'quali i Ixibuni accusano tutto il Senato, credo che basti il detto fin qui: voglio ora soggiungere quanto io giusto ne cre­do , intorno U rnalignare che fanno su ciò che ciascuno di noi ha detto in SenaUf f a t ùtadptmene quasi di­suniamo la città, ed intorno il chiedere finalmente la morte o l esilio di Caio Marcio , uomo amantis­simo della patria e che liberissfmamente per la patria ha parlato. E voi, o plebei, voi giudicherete^ se io parli con moderazione, e con verità. Quando voi vi pacificaste col Senato, pensavate che vi bastasse tas­soluzione dai debiti', e solfi dimandaste de m e^tra ti tra voi, perchè difendessero i poferi che fossero vio­lentati. Otteneste , . assai ringraziandocene, t una- e t altra dimanda. Ma nè chiedeste, nè pensaste voi mai di chiedere che si togliesse il magistrato de' coh^ soli, che non pià valesse il Senato nella puòbUca pre* siden)ui, e tutto si sconvolgesse F ordine dello stato. Ora e che ne avete dippiìt patito che vi accingete a confondere tutte insieme queste cose ? Su quali diritti mai cercate spogliarci de' nostri onori ? Se volete chei membri del Senato tremino a dir liberamente ciò- chè pensano ; e quando sarà piià moderazione ne'capi

V I O i r i G l , tomo IT . s3

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3 5 4 d e l l e AJ»TICHITA’ ROMANE

vostri? Con quali le ^ i cercheranno la morte a l’eMlià di akuno de’ patrizi ; quando oè gli antìqhi dirktixiàt eoncedono, nè gli ultimi accordi vostri col Settato ? Passwv i confini delle leggi, preferite- alla giustizia la violenza ; già non è> questo un canKtndare- alla pò-, polare , f»a un darsi piuttosto per tiranno. io per ma vi esorterei a tenervi i benefizj cìte già trovaste dal Senato y senza pretendere ciocLhè nemmeno allora pre^ tendevate, tfuando le inimicizie si deposero,

XXXI. Ma perchè meglio conoscasi che i tribuni non-domandano nè V onesto nè il giusta, ma 1’ ìH' giusto e t impossibile , trasferite ^ considerate' la vi- eenda in voi stessL Fate il caso che i senatori, accu^ sino i vostri magistrati, perchè vaa seminando rei discorsi contro del Senato, e t autorità ne ddssolr* vana che era /' autorità della patria , e mettono in eittà. la sedizione j ( cose tutte- vere e di fatto ) , e (sfte « eoTOgano ( ciocché è più' duro ancora ) un po- tere< pià grandi di fanello che a lor si concede, pre-< tendiMdo di fa r morire senza prt'y io giudixio., pAi piU voglion di noi ; e fa te il caso ch.9 il SertatOi> dacida che debhasi a tali uomini impunemente la morte, f con qual mùmo sofferireste voi la lialdanza- del no­stro consesso? che ne direste? uan vi sdegnereste^ non vi dimostrereste oltraggiati, se' almna vi togliesse ifdesta franchigia di parlare., questit Ubeì'tà, ridu- cendo a pericoli, estrèmi chi osasse pur fiatare con liberi accenti, verso del popolo ? Certo che si. E: se voi non sapreste patir ciò , reputerete poi giust» ch& altri lo sopportino ? Son questi o popolo i moderati,

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i sóc{ei>éli yòstrì prvi^edilnenti ? Chsl nòHfate vai ptu-èr vera te calurmié òhe di f^ i »t épar^' gonó ? e cAé sat>j sòhò pet pàbblicoìfUàMi i^niU glianq <ifie MrS pià dtèsder i i lasci ifuèsta i^ostrà ffdii teAzà viótà^itìB dèllè léggi ? A fnè èàsì pàf b e i^ mente. Ma sé t'Orfete ' fètr tó ié , càntf-afiè a ^iteth dèlie quali vk* éilòusàrió, mòdèrMevi i rie èa/iii^ti(/’! ricevete a con* pldèidtì j e rtòrt cOti irà, S discò^ièJiii quali siete investiti. Voi tè tb il fa te , ile ptOreté nò*- miài dabbène, 6 tòlord thè vi òéieMo i riè stértUtno pentiti^

X!^X-IL- Ai^&téòvi é o iì noi fiàtò t‘ ó n è ' àMptit'‘ tinta coiHe pinHiàmo \ non iiàite , w n éic^tiamó , indegni di voi. Foleiidó'vi fidi implaeidiré rton esà- spérétìr'e m iti, titìianè'futorio lé óp& e colle qucdi t i abbiamo mittàtè : tó diéo, per tàc'érè lè-àfiéic^, ifùeìlé fattevi Ai rècenie vostrò ritotriò. Oàttà- menté sarebbe pOf" gèàs6> che vói vi ficarddsté di queste } dritte ' ftài vo^rehwio di/henticareetie. Tàttav^ la necesiìià ci itrin^' à ricordaivèlé per chiedervi in c&ntràccdmbid di tanti è ^a n d i béhefttj che noi ^ià concediamo atie iiùuìse vóstré i che riè Vi uccida, ne Ifandisààsi ièri ùotrio' àtn&ntissiriio' dèlia p’àlérià'i e ndifCtissinh infra tutti nelld guerra. Non poca sàrèhbe (à perdita: , voi lo vèdete', se Homa fosse privata di tanta vtr&i. Egli è ^ustò che mitighiate lo sSé^ào verso lu i, ris^uairdàrido (Àrierió quanti ne ìAlW di voi nella guerra, è ripéteridorie lé belle sue ^ s t d , non p’èrsegttìfaridoàé té vahe paróte. Niente vi haririo i detìi nociiUo- di litii ina- rrK&ttìisirrio i fatti' vf gvo-

LIBRO VII. 355

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3 5 6 D ELLE ANTICHITÀ.’ ROMANE

var<no. Che se pur siete infl^fibUi in suo riguardo^ donatelo almeno a n(ki 3 donatelo al Senato nhe vel iMede : rendete una volta la stabile calnM, e la sua unif4 primitiva alla patria. E, se .voi non vi piegherete alle nostre persuasive; rimettete che neppur noi ce­deremo, alle vostre, violenze. Così i l , popolo messone a,,, prova o sarà cagione a tutti di amicizia sincera e

.maggiorii o nuovQ prwuipfO di una guerra civile f e di ff•avitsin^i inali., I tr^poì > avendo . MiapzÌQ così piotato ,consideraune la moderazioa del dire, e come la plebe .ee%. m«esa dalla dolcezza delle sne pfomesse, ne furono ,8df^^tl e doleriti j e soprattutti Caj.o 3>cinio Belluto , ^e|[U che ayea. suscitato i poveri a ribellarsi da’ patrixj ed erane stato nominato, capitano, finché furon su I'ap> nyi.^Nei)iicissiato degli ottimati, ei?a perciò stato portato

.a gn^ide. chiarezza da' djttaditii. Ora creato per la se­conda volta tribuno giudicava che a ninno giovasse men che a lui che la città fos» appieno concorde , e

.ripigliasse la forma aptica. Imperocché vedeva che se governavano gli otUmati, egli nato e cresciuto ignc^e,

}uoe alcuna d'imprese in pace o in. guerra , non . avrd)be più gli onori, né la influenza medesitna ; anzi <cbe correrebbe pericoli estremi, come sompiovitore del popolo, ed aurore di tanti suoi mali. Fissato adunque

, cioophè avrebbe a dire e fare, e consnlutosene co'tri- l;>uni compagni, poiché li ebbe unanimi, sorse, e la­mentata brevemente la disgrazia del popolo, lodò li consoli perchè degnati si.fossero di rendere ragione ai plebei, senza spregiarne la loro bassezza: e disse che

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LIBRO V II . 357rìngraziaVA i patrizj aooora, perdiè nasceva fiftabneote in essi la carà della Alate de'poveri ; e clie molto più egli ciò contesterebbe a nóme di tutti i cdlegfai, quando darebbero pur le opere, simili ai ^ t i .

XXXIV. Così proemiando, e parendone dnz! sedato e propenso alla pace, si volse a Marcio presente.ai coo< soli, e disse E tu o Palentuomo niente ti d^eiuU cot tuoi cittadini su quanto hai detto in Senato ? Chè non supplichi piuttosto, e ne plachi lo sdegno i, sic* chè miti sieno nel sentenziartene? Già non vorréi che tu negassi un tale tuo fàUo , avendolo ' tanti ve» duto ; nè che, tu Marcio, tu più akero in cor tao che un privato, ti volgessi ad invereconde dijkse. Sarà paruto non-indegno ai consoli ed ai patrigj di aringare essi in tuo bette, nè parrà per te degno che tu lo facci su te stesso ? Or cosi parlava costui ; ben conoscendó che quél generoso non soffrirebbe 'mai di essere l'accusaitor di -sestesso, e chiedere come col- pevolé la esention della pena , nè mai contro l ' indole ràa ricorrerebbe alle umiliazioni ed alle suppliche : ma che o ricuserebbe fare ogni difésa; o facendola ooll'!n> nato ardimento suo, niente tetnperereldie nè il popolo, nè il dire. E cosi fu; perdiè taciutisi, e {«'esi i plebei, quasi tutti, da bel desiderio di Ite rarlo , purdiè- egli ne favorisse la occasione, manifestò tanu insolenza e dispregio per essi ; che nè , presentatosi, negò' le parole da lui dette in Senato, nè come penatone, si diede ad impietosirli e placarii<: ma fin sul principio non li come privi di autorità competente per giudici di cosa nittna, pronto per altro a sottomettersi, com’ era la

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3^5S DELLE a n t i c h i t à ’ KOMAME

legge , «t trìlHHwJe d«' eonsoli se alenno voleste ac- cAsamlo* e obiedenie. fiQddw&BÌQne p e 'd e tti, o per le

opere» Diceva eb' egli er», «pU venm o, giacché vel chia­

marono , parie per ri^reDdere le lorO; prevoricaeioDi, e

I9 ÌQConteDtabilit& s manife^iaia aesiprepiù nella separa- » o n e , e dopo il ritorno ; b parie p«r conwgliaFli> per*

fhèi fienasseró una voU&, e reatnnge«aero gl'ìngiiuti de* side»). Dopo ciò sferjiavA con assai amarezsifi e coniìdenjui

tutti qaanti, e p iù che tu tti,, i trihnni. Non era nei d ir 800 la beltà verwomU» di un ciuàdioo che aipmae-

s tn U amo p o p o lo , U savio contegno di uq privato odiato daUa iu<>hitudÌBe il qti^Ie parli dipanai ai potenti sdegnati, ma la rabbia si^enata d i uq nimicp ch|e di-

sùncmi i v in ti, ^ q«ali tiev prigionieri, e l’ ocgoglio fiero di ehi è sialo gravemente oltraggi^iq.; XXXV, Adunque, lui peroivatlo, descavasi orfi quinci

ora quindi , come tra nióliitudini scinse nè unanimi D«’ voleri, nji romqr grande e frequente , CPQipiacendosi

gli u n i , e fremendo gli a ltr i, e passionando» varia­mente a quel dire^ Ma piit ancora crt;bberp i clamori e

il tum ulto, qu99d$i egli tacque. Imperocché li patrizj

chiamandolo fortissimo uomo , lo encomiavano del franco

SUO d ire , e I9 additayi^o <ome l ' unifio liber<^ infra

tt>tti, il qualé nè temeva gli assalti de’,nemici fra le

arm i, nè g u a d a g n a v a a d u l a n d o l i i «uoiii de' qittatjjini,

caparbi contro le leggi. Per 1‘ opposito i pl^>«i, esa-i

éerbAti dàlie ingiurie^ lo chiam^uufc u^mo acoiaro, e nemico «he» «lutti i n ìim é . C già

( e gvènde; ne ei» la- iaoiiiià ) «loàttwaciio un ardor vivo

di assalirlo;co’diritti d^Ua forza, e di ucciderl’p ; con-

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M oetn^ e eooperanclo con essi i tìrifauni, e Sicinio ,principalmeiiUi tl <}nal dava lit^rimmo il ikeao tii lor desideri. lòBae dòpo avere molto iaveito, e mollo in* .fiatìimatà, soffiandovi, l’ ira del popolo, concluse r.«o «osa, <ch« il tribunato'ne sentenziava la morte, per tl’oluaggio (atto agli edili, dhe egli percosse e respinse» mentre per ocdin soo lo aiiKstavtHio il di precedente < fion finire che su chi g f incarica) gU oltraggi danU- nittri. E cosi dicendo ordinò che portassero Marcio al l'altura ohe sovrasta sai Foro. È questa un dirupo ro* vinoso e vasto donde soleaoo precipitare i rei «ondan* nati alla inórte. Corsero gli edili per pcenderlo: ma -dato tea altissimo stndoy « levarono contra loro in ^ lla i patrizj, e quindi contro de' patmj il popolo t c Diolio eira in ambe le pwti il disordine , mólto lo io> giuriarsty lo spingerti, l'assaticsit Se non che gli autori di wa tanto moto farouo rattenuti e necessitati a mo^ dorarsi dai consoli i quali, cacciatisi in mezzo, cOman« daroDO ai littori di rìmovèr la turila. Tanta era allora negli uomini la riverema per quel magistrato, e tantoil pregio dell’ autoritik suprema ! Intanto Sicinio non più saldo,>ma perturì)ato, e' timoroso di ridurre i partiti 8 respingere forza con forza , non volendo lasciare , nè potendo continuate la impresa una volta tentata, m i pensierosissimo su ciò che fosse da fare.

XXXVl. Or lui vedendo in tanti dubbj Lucio Giù* nio Bruto, quel capipopolo che ideò le condizioni della concordia, uomo aclito specialmente in trovare, ove mandano t gli espedienti, venne, e solo con solo, sug* gerì che non si ostinasse itt una disputa ardente.

tifino VII. 3^9

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3 6 0 D ELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE*

nè I^ìttim a: mirasse tutti i patrizj irritati, e .tutti pronti alle armi se vi fossero incitati dai consoli, ma dubbiosa la parte migliore del popolo nè ben animata a permettere senza previo giudizio la morte deir uomo pià insigne di Roma : cedesse per allora, egli così consigliava ; badasse a non combattere i consoli per non eccitare medi maggiori: piuttosto in­dicesse a un tal uomo, fissandone un tempo qua­lunque, di perorar la sua causa, i cittadini votas­sero per tribù su lui: e ciò sen facesse che la plu­ralità de’ voti dichiarerebbe. Non competere che ai tiranni la violenza che ora minacciamosi, facendosiil tribuno accusatore in un tempo e giudice ed arbi­tro delia pena : ma in una repubblica doversi agli accusati le difese come voglion le l ^ i , ed il.gastigo secondo il voto dei pià. Cedette Sicinio a tale consi­glio non trovandraie altri 'migliori, e fattosi innanzi disse I Foi vedete o plebei V entusiasmo de’ patrizj per la violenza e le stragi: vedete, come tengon voi tutti da meno che un solo caparbio che oltraggia una intera repubblica. Non conviene che noi li somigliamo e corriamo alla nostra rovina, cominciando o respin­gendo una guerra. Ma perciocché alcuni di loro ed­ita n o , come onorevol pretesto , la legge la qual non permette che uccidasi un cittadino senza previo giu­dizio , ed allegandola ci tolgono infiiger le pene ; diasi pur luogo alla legge ; quantunque ne’ Twstri di- sagj non abbiamo noi mai sofferto nè cose giuste,, nè secondo le< leggi da essi. Dimostriamoci anzi probi colle clementi maniere, che del numero de’ vostri of-

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LIBRO V II . 3 6 1

Jinsori colla violenza. Ritiratevi ; aspettate, nè già sarà molto, il tempo avvenire. Noi preparando in^ tanto le cose che importano, fisseremo a codesi uomo un tempo perchè si difenda, e non eseguiremo se non la vostra sentenza. Quando v' avrete in mano i su ffra^ secóndo la legge, votatene allora la pena che merita. E dò basti su questo proposito ; Che poi giustissima facciasi la compra e la distribazitme dei grani, noi vi provvederemo, se questi ( i ) ed il iSe> nato non vi provvedono. E ciò detto disciolse 1' ado* nansa.

XXXYII. Dopo qaestb evento i consoli convocandoil Senato considerarono posatamente come dar fine alia discordia presente. Sembrò loro primieramente cbe do­vettero cattivarsi il popolo con vendergli i viveri a pic­ciolo e fkcil mercato, e poi persuadére i lòr capi a che» tarsi in gnudà del Senato, nè astringere più Marcio al giudizio, è temporeggiare in fine lunghissimamente, se non lasciassero persuadersi, finché l'ira del popolo si diminuisse. Ciò decretato portarono e proclamaroM al popolo tra pubblici applausi l'editto su i viveri cosi concepito che: sarebbero i prezzi de-generi necessarj al vitto quotidiano , tenuissimi come innanzi la sedi­zione. Poi col molto insistere presso de' tribuni ebbero per Marcio dilàzion quanta vollero, se non piena asso­luzione. Anzi essi stessi gli procacciaroi o altro indugio > valendosi di questa occasione. Gli anziati , spedita una banda di pirati, aveano predato non lungi dal lido,

(i) I Conssli.

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36a DELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE

mentre tomavano in casa, le navi e i depntali dd te dì Sicilia, che aveaao recato i grani in dono ai Re­nani } e TO^;endoae ogni cosa come di nemiol àd ntile proprio, ne teneano in carcere le penone. 1 consoli, ciò saputo, spedirÓBO agii Anziati : ma non patendone per ambMcikdori oftener la giofttiàà, deciaero marciare eolie armi su loro. Adunque fatto il ruolo di tutti gl' i* donei a oonibaUere, uscirono ambedue; promulgato m-> nanzi il decreto che sospendeva , durante ia guerra, tu te le cODtrov«mie sU private, sia pubbliche. E cosl fìi; non però quanto tempo essi ideavano,* ma per molto minore! Imperocchi gli Apziati vedendo i Ro­mani usciti con tutte le forse, aemmeno si opposeoo loro : ma pregando , ed istando, e restiiuendo le per­sone e le robe de’ commissari predati, ioeeto che i Ro^ mani létrocedessero verso la patria.

XXXyin. Disciolta Tarmata, Sicioio il iribaaotXHHro' cato il popolo, gir prescrìsse il giorno, nel quale ultim erei^il giudizio su Marcio. Egli esortò quanti erano in Roma ad accorrere in folla per ascoltare e decidervi, e quanti abitavano per le campagne a sospendere per quel giornoi lavori, e presentarsi come per votare della libertà e ^eHa laiute della repubblica. Intimò similmente a Mar­cio di comparire a difendersi perchè non mancherebbe- gU ninna ddle cose ordinate dalle leggi su de’ gludizj. Pareva ai, consoli,. deliberatisi col Senato, che non fosse da permettere che il popolo s’ impadronisse di un tanlor potere. Or si diè loro nn titolo giusto e legittimo d’im* pedirneli ; e credeano, usandolo, di renderne vani tuttii disegni ; tanto che invitarono a colloquio tutti i capi

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del popolo. Congregatisi con quanti erauo gli opportuni per essi, Miooicio disse : Tribuni, ci è piaciuto decre­tare die basiscasi la sedizione da Monta con tutte le forze , nè pià nudrasi contesa niwia m i pftpolo ; vedendo voi principalmente che tornavate dalla vio­lenza alla giustizia fd alla ragione. Or noi Iqdando voi di questo proposito , abbiamo repuU^o che il Se­nato , come è plifria ustfn^a, vi precedesse co’ suoi decreti. E potete contestare vai stessi che dalP ora che i nostri avi fondarono Roma r il Senato che la ebbe, ritenne sempre questa precedenza : e che il popolo senza la previa risoluzione di lui mai nè giu­dicò , nò votò non solo in questi tempi, ma nemmeno in quelli dèi re» Tanto die li re non rimettevano al popolo, se non le cose decise in Senato , e cosi le confermavano. Non vogliate dunque levarci questo di­ritto , nè abolirti tal bella istituzione primitiva. Pream­monite il S e n f^ , se avete il bisogno di mse. mode­rate e giusti , e r quello che il Senato ne avrà giudi- c<fto, quello, mtificaie al popolo, e ne decida.

XXXIX. Còsi discorreodok i codsqIì , Stcioio mal

sópportavali, uè volea r eocter arbitro di cosa niuna il

Senato. Ma gli a ltrieguali a lui di potere, seguendo, i suggerimenti di Lucio (i) cousentirono che si facesse questo previo decreto. Imperoccbó ancor essi arevauo

( I ) Lucio Bruto : fotie cont) p«Dsa> il Gelenio , de« Ir^gersi Decio {n luogo <Ji Lucio. C«Ftameiito In <]ue&ti af&ri ehbe (varte anche De­

cio Dominalo prima e pof da Dionigi: vedi I. 6, § 83. Bruto aveva,

è' vercr il prooome di Lucio : Ma 1)1011%! non lo ha mai contrasse*

gaa^o « n eo n col wlo;ptaiiQ ine...................

LIBRO VII. 3 6 3

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3 6 4 d e l l e ANtlGHITA* ROMANE

fatta (nè i consoli la esclusero ) la istanza ragionevole ; Che il Senato desse la parola anche ai tribuni, che sono i procuratori del popolo , come agli altri che volevano aringare favorendo, o contrariando ; e che infine, dopo udite le discussioni di tutti, allora cia­scun padre porgesse il siuì voto, premesso il giura­mento legittimo , come ne* giudizj, e dichiarasse cioc­ché gli paresse il giasto e F utile della repubblica : e quello si tenesse per valido che i pià pr^erissero. Concedendo i tribuni che si decretasse come i consoli dimandavano ; si divisero. Raccoltisi nel giorno appresso i padri in Senato ; i consoli vi esposero le convenzioni : e quindi chiamando i tribuni gl'invitarono a dire le cause per le quali venivano. E qui fattosi innanzi Lu« ciò, colui che avea condisceso diè si fecesse il previo decreto, disse :

XL. Potete ravvisare o padri ciocché sia per suc­cedere, vuol dire che noi saremo accusati appresso il popolo dell’ essere qui venuti, e che F accusatore sarà quel nostro collega , per quel previo decreto che V abbiam conceduto. Pensava costui che non doves­simo noi chiedere da voi quello che ci attribuiscon le leggi, né prendere per benefizio quanto avevamo per diritto. Chiamati in giudizio correremo in rischio non tenue , che condannati, abbiamo a sortire bruttissi­mamente come chi diserta, e tradisce. Ma quantun­que ciò sapessimo ; noi siamo qui venuti, superiori a noi stessi, confidando su la rettitudine della cau­sa , e mirando ai giuramenti secondo i quali voi do­vete dirigere le vostre sentenze. Nai tenui siamo, e

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disacconci più. assai che non conviene, a parlar di tali cose y che piccole certamente non sono. Parateci non pertanto udienza, e se queste vi parranrio giusta ed utili i e vi orango , necessarie a ^ r a pel comu ne > vogliate spontaneamente concedercele,

XLI. Primieramente dirò sul diritto. Quando o se- natati ctuxiaste i monarchi avendo nói com pari nel^ ropera, e fondaste il governo nel quale ora siamo, ed il quale noi non riproviamo, voi vedendo i plebei {gravati ne giudizj- se mai li facevano ( e molti sea facevano ) co’ patrizj , emanaste per suggeriamo di Publio Valerio consolo una /egge per la quale per- mettevasi a tutti i plebei sovverchiati dà quelli di ap­pellare al popolo : e per niutì altra, quanto per que-’ sta legge , procacciaste la concordia di Roma, e re­spingeste i re che vi tornavano in seno. In forza di questa legge citiamo codesto Caio Marcio dinainà. al popolo , e gli prescriviamo che risponda su cose nelle quali tutd ci diciamo da lui sovverchiati ed offési. Nè su questo abbisognavi previo decreto del Sènato. Imperocché voi siete gli arbitri di deliberare i primi, éd i l . popolo di confermare do' voti quello su cui le legj^ non'parlano ; ma dove ci han le leggi, sono immobili e debbono osservarsi, quantunque nierOe ora voi, perchè si osservino, decretaste. Già non dirà niuno che in caso di aggravio ne’ ^udizj. un privato appelli validàmente al popolo, nè valida­mente V appellino i tribuni. E forti per tale conces- sion della legge, veniamo qui, non sènza pericolo, ad esser sotto vm giudici. Pel diritto della natura ,

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diritto che non è scritto , nè introdotto come le aUre leggi , noi vogliamo che il popolo non sia nè dapià hè da meno di voi : mentre con questo diritto ha con voi sostenute molte e grandissime guerre, e màstretto ardore vivissimo per compierle i contribuendo non poco perche Roma lé desse, iton ricevesse da altri le leggi. Or voi farete che noi non siamo da meno che voi se frenerete col terror di ìot giudizio ekiun* que attenta óontro le nostre persone e la libertà. Pen* siamo che ì magistrati, le precedenze , gli onori bansi compartire ai primi e più. viituosi tra voi: ma pensiamo pure ben giusto che essendo tutti sotto un governo, mtti dobbiamo ugualtnente « senza riservao non essere offesi, o riceverne putrì soddisfatiom, CorOe d u m ^ a voi concediàmo ifue’ gradi sublimi « laminosi, così non vogliamo esser privi dèi diritti eguali e comuni. Ma ebbene potrebbero aggiiMgersi le mille cose, bastino le dette fin qui sul diritto.

XLIt; Or quanto sian utili queste eose, quanto il popolò le apprezzi se facciansi, lasciate ohe io brè­vemente ve lo esponga. Su dunque :■ se alcuno vi di­mandi qual pensiate U pià grande de' mali, quale là cagion pià pronta della rovina delle città f non. dt^ reste che sia questa la dissensione? certo che sì. Oir chi è si stolido, òhi 5Ì fatto a rovescio, chi sì né^ miao della eguagUan'sa, il qual non védA, che s^ concedasi al popolo' dì giudicare le caiise che gli spettano , avrem la coneordia ; ma se g li si n e ^ i , leverete a noi per fino la libertà ( c/té lor libertà si toglie, a chi U leggi si tolgono e li g iad izj), e oi

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ridorme ad insorgere- nuovamente, & coinbeatervi? Certo die nelle città dalle (piali si escludonò i giu> dizj e lé- leggi, la,'discordia sottentra e la guerra. Od non si è travata in- guerre civili non è meeettrigtim che per ia inesperit^nsa noti sertta ribrezzo de mali ànteckdenti, nè pneeliida- i Jiuuri: Ma quelli, che cmdùti éóme voi trai pericoli estremi, felicemente se ne libérarono , sgombrando 1 mali come permettevasi dalle circostanze ; queiU, io dioo , se vi ricadono , qUkL tnai scu^a aver postorio sufficiente e decorosa'? -Chi mn: condannerebbe la éte4tee^a « deliria vostro bandissimo , considerando che fo i li quali per noi\ aver» la plebe discorde vi> piegaste, non ha. guarii w tante eòticeisiòni., forse npn ^ tte convenevoli ed utili, ora vogliate in ~discordia to r n a rv i, tutto che non siéUe offesi negli averi, helf onore , o in altre pubbliche cose, e solo per favorir chi la-odia? Se non che voi ciò non farete S0 sm>j'. Con- piacere io V interrogherei quali concetti erano i vostri quando ci concedevate il ritorno colle condizioni che chiede­vamo. JXe apprendevate voi forse ragionando un be­ne ? o Ju necessità che vi ridusse a cedere ? Se ne apprendevi» il bene di Roma, e perchè ora non vi ci attenete? se fu necessità, se impossibilità di ei- sere diversatnenté,, or che vi dolete delfaUo ? Biso­gnava, se pur tanto potevate j nori cedere forse da principio ; ma <^duto avtenào una fwha^ non dovete più> rimppoverarvene.

XLUL A nie sembra o padri che voi seguiste il i>o4tro migliore nel pacificarvici : ma se fu necessità

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di scendere a condizioni ; ella è pure necessità man­tenercele. Voi gl’ Iddj chiamaste vindici degli accor­d i , imprecando molte e terribili pene a chiunque li viola/m di voi o de' nipoti in perpetuo. Ora io non vedo perchè dobbiamo tediare più a lu n ^ voi che tanto bene il sapete t con dire che giuste ed utili sono le nostre dimande, e molta la necessità che vi astringe a corrisponderle , se memori siete de' giura­menti. Voi capite, o piuttosto ( giacché io non dico cosa che voi non sappiate ) voi tenete presente, thè rileva per noi non poco il non desistere dalla impresa per violenza o per inganno, e che un fortissimo sti­molo ci ha qui condotti, offesi gravemente , e pià che gravemente, da quest’ uomo Date dunque su quanto ho dello il vostro voto, ma, dandolo, consi­derate qual sarebbe il vostro animo verso quel ple­beo, se alcuno pur ve ne fosse , il quale tentasse dire o fare contra voi nelle adunarne, ciò che qui codesto Marcio ha pur tentato di dire.

XLIV. Le convenzioni della pace sacrosante al ■Senato , quelle che munite pià che con vincoli ada­mantini , niuno di voi, per averle giurate, nè de’ vo­stri discendenti può sciogliere, finché Roma fia Ro­ma ; quelle ha il primo codesto Marcio tentata di rovesciarle , non essendo nemmen quattro anni che si conclusero, e tentato ha di rovesciarle non col silen­zio , non da oscurissimo luogo , ma qui, pubblicissi­mamente, al cospetto di voi tutti, sentenziando j che non dovea pià lasciarsi, ma ritogliersi a noi la po­destà tribunizia, che è la primaria ed Unica difesa

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della libertà, e col mezzo della quale potemmo rU congiungersi. Nè qui P ardimento fin ì del suo dire f ma vi consigliava a riCoroela ; divulgando come una incuria la libertà dei poveri, e tirannide nominando C uguaglianza, Risowengavi ( era questa la più ififame delle istanze sue ) corn egli disse allora, che era pur venuto il lenito di ricordar tutte le ingiurie del pe» polo nella prima discordia^ e come esortam quindi a mantenere la stessa penuria di viveri, giacclié U popolo, logoro fìai disagj diuturni si ridurrebbe a cedere in tutto ai patritj. Non resisterebbero 1 poveri gran tempo comperando a cfirissimo prezzo cibi scar» sissimi ma parte se ne andrebbero lasciando la città^ e parte rimanendovi, perirebbero in/èUcissimamenta, E msi delirava, oosl era in ira agt Iddj ciò persua'r deridavi { che non discerneva che oltre i tanti medi co’ quali travagliatasi per annientare i trattati del Se» nato, quando avrebbe ridotto i poveri i quali cren pur tatui, alle angustie de’ viveri, questi poveri ap» punto farehbonsi addosso agli autori delle angustie non più tenendoU per amici. Tanto che te voi pur delirando approvavate il suo parere; non restava pià mezzo : ma ne andava la rovina intera del popolo,o de’ patrisj. Imperocché non ci saremmo già dati quasi schiavi à spatriare o morire : ma chiamando i genj ed i numi in testimonio de' mali che soffrivi^ mo ; avremmo riempiute , ben la intendete, le piazze^ e le vie di cadaveri, e fatto un mare di sangue ci­vile ; avremmo cosi ricevuta la sorte che ci si doveva,

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Sono questa o padri t empietà ohe vi proponeva queste ie aHn§he lo quali cnJea dpver fare.

XLV. JVe già tentò Marcio dir», senza fare mai cose che scirtdevano la eitlà ; ma tenendo ami a fianqo una banda di uomini prontissima -a tutti i suoi cepni^ citato dal nostro magistrato ntm si presentò, e. re i fpmse a furia di colpi i nostri eteòutori accintisi per òrdin nostro ad arrestarlo, non conterusndp de Jnaìa/« nemmeno dalle nostre persone. Tanto che , quanto e da lu i, restava a noi un bel nome, m a.vilipeso, df un magistrato inviolaiile f e senza paten eseguire rtep^ jfur una delle operaettmi attribuitegli. Come avremmo, soccorso ad altri che cltiamavansi offesi, quand» non ¥ era nemmeno per noi la sicurezza? Malmerutti cosi noi'poveri da un tal uomo, che non era ancora un, tiranno, ma che qffrettm>asi ad esserio, avutine già iaU oltraggi, eravamo ornai vicini a riceverne ancor pià, se voi non vi opponevate, o padri, coll» vostra pluralità. Non dobbiamo noi dunque a-ragion corruc- darcene? E si; che noi pensiamo non senza esserne pur da voi compassionati, doverci da lui premunire chiamandolo a giudizio comune e legittimo, ove tutto il popolo diviso per trihit conceda di parlare a chiio chiede , e dia il suo giuramento ed il volo. Vanne ivi dunque o Marcio, ivi dì per iMa difesa nell’adu. fumza di tutti quella che qui diretti. E sia che qui consigliasti il beriei a buon fin e , e giovasse a Ho ma iJie fòsse fatto , nè debbansi giustificare altrove le cose qui disputate; sia che'non ad arte e premedita- tarnenle, rnct cederido al^ ira , scorresti a . suggerire

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iati vèrgogne ,* iia che tu abbi «»' edtm difesa ìfuct- iunqae; scandi da fuel tuo entusiasmo ■ orgoglioso e tirannico, tom a, ó teiauFoto, ai concetti dei popolo: renditi simiie agli altri: pfendi come ehi ha peccato ,e raccontandosij un abito dismessa, àddolorevole, conforriie ai disastri, e cérca il tuo scampo ; nfnUian^ •doli, non insolentendo dinansi gli oltraggiàti da te* Sianti esempio di heUa moderazione le opere,, le quali se tu aife.ssi itnitato « non saresti ora tipreso dai •Utói cittadini, io dito qi^elle di tanti buoni quanti 4fui ne vedi, segnalati per tante, virtù .militari £ ci­vili, quante non sarebbe facile nemmeno, in gran tempo percorrere. Li quali quantunque grandi e ri'* \ipettabili ; nientemai fecero di duro, Hiehté di or» .gogiioso contro noi si tenui e bòssi, e pruni intromi­sero'discorsi dì pace , primi la pace offerirono, quando la sorte ci avea separati § e concederoit la pace non 9u le eóndizioni clte essi ripiitavan migliori, ma sU quelle che noi chiedevamo; dandosi infitte premura grandissima di levare i disgusti recenti su la dispensa de* grani per là quale noi gli accusavamo.

\ L \ l . Ma tralasciando le altre cose, quali pte* ^ ie re Hon fecero per te , nel tuo. superno accecai fkenta, presso tulli, e prèsso ciascuno del popolo per involarti alla pena? Appresso i consoli ed il Senato^ i qOali invigilano sU questa, tanto grande città, ere* deron bene che al giudizio ti sottomettessi del pO- polo , nè tu o Marcio a bei),e lo tieni ? Questi tutti noh han per un biasimo il pregare per tuo scampo il popolo., e tu per biasima tei prenderai? Nè ciò ti

LlBKO v n .

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bastava, o magnammo ; ma quasi fatta una beir ai- pera ne vai con fronte altera e magnificandoti, e niente adoperandoli a mansuefarti? per non dire che insulti f che rimproveri, che minacci la plebe. E pre­tendendo lui qaanto niuno di voi ; non vi sdegnerete, a Padri , a tanto orgoglio ? Se voi tutti risolveste di accingervi ad una guerra per esso ; egli dovrebbe tHOotvene, e tenersi tutto pronto per voi, non accet­tar però mai un tal bene privato col danno comune, ma sottomettersi alle difese, alla sentenza , a tutte infine le pene, se bisognasse. Questo sarebbe T ob- bligo di un vero cittadino, di uno che vuole il berte eolie opere, non colle parole. Ma le violenze pre­senti qual ne additano mai t indple sua , quale la incUìUtzionà? quella appunto di violare i giuramenti , di tradire la fe d e , di rescinder gU accordi, di fa r guerra al popolo, di oltraggiare le persone dei ma­gistrali , di non sottometter la propria per niuna mai di queste cause, e di girarsela franchissimamente, non come un eguale di tanti cittadini, ma come uno che ^niun teme, e di niuno abbisogna, immunissimo in tutto da tribunali e discolpe. Or non è questo un vi­vere alla tirannicaF certo che si ! Eppure a conforto di quest’ uomo spargono aure lievi e suoni dolci, al­cuni tra voi che pieni di odio implacabile verso del popolo non san vedere che questo nude si termina anzi contro de'nobili che degt ignobili, e credonsi affatto sicuri, sol che deprimano il partilo che è loro contrario per natura. Ma non così sta il vero , ingan­nati che siete. Prendete a maestra la esperienza che

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Marcio stesso vi somministra, , prenderne U corso dei tempi: iUuminatevi per gli esempj stranièri insiemi e domestici, e ravvisate , che la tirannia la quàirtii^ dresi contro i plebei, contro tutta la città si alimen- la : e che la tirannia che ora contro noi s’ ineomiit-^ eia, fortificatasi, cantra tutti ruggirà.

XLVII. Ragionate queste cose da Decio , e supplita a* tribani compagni quelle che mancar vi sembravano,

quando il Senato nè dovè sentenziare, levàronsi i primi in piedi i seniori tra gli uomini consolari, inviati condo r ordine consueto dai consoli, e quindi via via gli idtri men riguardevoli- per queste qualità : seguii-òno ultimi i giovani, ma non disser parola ; perocché ci «v6a que' giorni ancora tra' Romani la verecondia , che niun giovane si arrogava saperne più degli anzianf. Ì*értanto acoostaronsi essi alle seatenze de'consolari. Erasi preordinato che i senatori presenti giurassero prima, -come ne' tribunali, e poi dessero il voto. Appio Clan** dio il patrizio, come bo detto, più acerbo col popolo, « che mai non aveva approvato che si concordasse con esso, mal soffriva che ora si &cesse un pari dec^o^ e disse :

XLVni. ^ ife i veramente voluto, e- più. polle ne ho supplicato i num i, essermi sbagliato io circa il sentimento su la pace col popolo, vale a dine che il ritorno de’fuorusciti non era nè giusto, nè decoroso, nè utile; tanto che quante volte sen prese a trattare, tante io primo ed ultimo mi vi opposi, anche abbartr donato da tutti. Anzi avrei voluto o padri, che voi li quali per le speranze concepute del meglio i' ctmi».

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^scendeste al popolo, sul giusiQ e su t ingiusto, ne con^ariste ora più sani di rne, Rittscil^vi però le eos&, jtori coma io desiderava, anche pregandone i numi, ina come io prevedeva, e cangialeVisi là henefiù.enze in vilipendio ed odio; io lascerò, come estraneo a ciò che dee fa rsi, di riprmdervi « di 'contristarvi in t/ano per le vostre' mancanze, quantunque iarehhe pur facile, ed è pur questo P wo dei più. Dirà piut­tosto ciò che può rettificare le cose passàtó, quelle almeno che non sono in tutto insanabili, e tenderei pifl qirca le presenti. Quantunque non ignoro che. dicendo io liberamente i miei sentimenti > parrò farneticare e sagrifiearmi, ad alcuni di voi, li.ufttaU cQTtsiderino quanto sia disastroso il parlar franca/nenie^ p rifi^tftno la, cal(fmilà di Marcio, il quale rton per uUra elione ota corre pericolo tdella vila. RlaioMOU penso che la cura della propria salyezta sia da pre* giarsi più che il ■p^bblico benet Già questa 'mia peri- sona è ti4 ta pe’ vostri periiioU, ' tutta pe’ timeati deità patria ; tanto che gl’ incontrerò generosissimamente , com^ piape agl" ìd d j , coti tutti vài, o con pochi, e solo ancorase bisogna. Nè finché io' vivo, mai mi terrà la. paura- .dcd di(v quello che io pensò.

P prirnietaments io voglio che n persua- diatie «W« viflta senzà eccezioni che il popolo è ma* hffetto e nemicò al governo presente ) e che qua- lunque, cosa gli avete , coma deboli, conceduta, tavetei spesa varùssimamente, e vi è stata cagione di vilip4»tr dio , quofi cangeduta F abbiate per .forta,■ non a ra*

vfidùta, e per beneplacito. Conùdèrate come rf

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popolo si appartò da voi, pigliando le armi, e come ardi mostrarvisi palesissimamente per inimico, non offeso da voi realmente, ma fingendosi offeso: per^ che non potea corrispondere a suoi creditori, è di^ cendoi che se decretax'ote la remissione dei debiti, e la condonazione delle colpe commesse per la sedi- zione, non desidererebbe pià oltre. 1 più di voi, non però tutti, sedigli da vani consiglieri {così Jattó mai non lo avessero ! ) deliberarono di MinuJlare le le ^ i, malleyadrici della fede pubblica, né piil ricordare,

perseguitare P esorbitanze passale. Egli però non. si tepn^ già contento di questa concessione -, pel solo bisogno della quale diceva di essersi ribellato ; ma ben tosto pretese altra prerogativa più grande, e meno- ìegittima ; io dico quella di eleggersi ogni anno dtd* Sordin suo i tribuni, pretestando il troppo nostro potere, perchè fossero scudo e rifugio a* poveri oUrag giati ed oppressi, ma in realtà tendendo insidie alto stato delia repubblica, e volendola ridurre democr»* tica. Adunque vi persuasero questi consiglieri a la­sciare die entrasse in repubblica il tribunato; come in fa tti vi entrò per isciagura comune, e principtd-^ tnente in onta del Senato, mentre io , se bene ve ue ricorda, tanta ne schiamazzava, protestando ai numi ed agli uomini, che introdurreste tra voi una guerra alterna ed implacabile, e presagendovi tutti i nudi, quanti ve ne avvengono.. L. E questo buon popolo che vi ha egli fatto dopo /che gli avete conceduto il tribunato? Non ha già va- Ifitato degnamente tanto dono, (mai nemmeno da voi

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10 prese con prudenza, e con verecondia, come sa gli» lo abbiate accordalo, premuti e costernali dall» forze di lui. Ha detto che aveasi. a rendere sacro , iiwiolabile i sicuro pe’giuramenti , ed ha pretesa un autorità nàgliofe che non qwella da voi destinata pei consoli. E voi avete tollerato ancor questo, e là tra le vittime giuravate la rovina di voi e de’ vostri di» scendenti. E dopo questo ancora che vi ha fatto egU mai questo popolo ? In. luogo di riconoscervene, in luogo di custodire il.governo degU avi, pigliata orì­gine da queste prerogative, e volutosi di esse corno dS mézzi indegnf per ottenerne ancor altre, propeso leggi non discusse prima dal Senato, e le autorizzò tol suo voto , senza del vostro. Niente baàa agli sta> biUmenti da voi fa tti, ed accusa i consoli, quasi non iene governino, e f in per cose che avvengono fuori del vòstro consenso, a caso, e motta rte avvengono che t intelletto umano non può prevedere, eppure non11 caso, come ho detto, ne incolpa, ma i vostri di­segni. Fingendo di essere insidiato da voi, e temerò che lo priviate della libertà , e lo escludiate dalla pa* tria , egli stesso va tramando contro voi queste cose. E ben è chiaro eh' egU difendesi dall’ incorrerli, col

fare a voi previamente i mali che dice temere. Egli ha ciò dimostrato già prima con moki documenti, cha U tempo ora toglienti di ricordare; ma soprattutto col tentare di uccidere anche senza condanna questo Marcio, uomo tanto bellicoso , non oscuro di natali, nà minore ad altri per .virtà, sul pretesto che lo ah- bia insidiato, e ne abbia qui detto i mille mali. £

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se , vista tanta scelleraggine, voi consoli , ed altri i pià savj non vi riunivate, e li contenevate ; sareste in un sol giorno stati privati degli o n o r id e l co- mando, della libertà; vuol dire di tutto quello che i vostri padri vi hanno lasciato come frutto di tanU loro stenti, e che voi con altri non minori conser-' vavate. Ma voi generosi, voi che non amavate ,pih nulla senza que beni, avreste voi perduto qual pri-‘ ma , qual po i, piuttosto la vita che quelli. E se questo Marcio era così turpemente e scelkratamerUo manomesso, come in uria solitudine; qual cosà im pedirebbe più che pur io soccombessi tra. le mani di questi nemici, e ne soccombessero, quanti si oppo^ sero , 0 fossero mai per opporsene ai temerarj'^ ca^ pricciì Se dobbiamo dalle cose passate argomentar, le fu ture , non sarebbesi il popolo appagato della strage di noi due, nè proceduto fin qua , sarebbesi contenuto : ma fatto da noi principio , avrebbe qual rovinoso torrente rapito e trasportato seco chiunque: si opponeva o non cedeva, senza guardare nè età, nè stirpe , nè virtà.

LL Ecco, o padri, le belle ricompense che pei tanti B la n d i vostri benefizj la plebe vi ha fin qui dimostrMe, e che era p ^ dimostrarvi, se voi non la frenavate. Or su considerate ancora cfò eh’ ellc fece dopo quella savia e maschia vostra risoluzione, perchè raccogliate in qual modo avete a condurvi con essa. Come seppe che voi non eravate per sof­ferirla pià oltre i ma che vi apparecchiavate a resi­sterle , ne sbalordì : ma rivenendo alcun poco a sè

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stessa, come da delirio o da crapola; si rivolse dal fa r violenza al chiedere un giudizio : e prescrittone il giorno, citò Marcio a subire un esame ov’ ella sarebbe accusatrice, testimonio , giudice , ed arbitra del grado della pena. E poiché vi opponeste anche a ciò , conghietturando che un tal uomo chiamavasi' al castigo, non al giudizio; ella al vedere che niente potea di per sestessa , ma che solo era V arbitra di ratinare le cose che avreste voi decretale , scese dalla tanta superbia che respirerà, e viene a chie~ dervi che ciò per grazia le concediate. Considerato ciò, capite y e convincetevi una volta , che quanto le avete fin qui conceduto pià semplici che savj ne'vostri consigli, tutto vi ha recato danni ed offese: e che quanto le avete virilmente negato opponendovene alle violenze ed ai capricci; tutto a bene vi si è termi­nato. E ciò toccato da voi con mano; che debbo io consigliarvi f che suggerirvi su la discussione pre­sente ? Io vi consiglio che le cose che voi date e concedute per finir le discordie , le osservùUe co­munque , senza violarne niuna ; non perchè sieno oneste e degne di Roma ( giacché e come lo sareb-

. bero mai?) ma perchè necessarie, nè pià capaci tU emenda : vi consiglio insieme però , che' quante cose pretende per violenza, contro la legge, e vostro mal grado, tutte le neghiate, nè le permettiate, opponen- dovele ad uno ad uno e tutti co' detti e colle opere. Imperocché non se alcuno vinto dalla seduzione o dalla fo rza , ha mancato una volta, dee pur fare il simile per V avvenire; ma memore delle cose passate

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dee vedere di non imitare pià oltre sestesso. Queste sono le cose che io giudico che dobbiate voi tutti conoscere, e che vi esorto che adempiansi contro le pretensioni ingiuste della moltitudine.

LII. Che poi t affare ora posto ad esame non sia equo e giusto come il tribuno, illudendovi > cerca persuadervi, ma somigli li altri tentativi iniqui ed ingiusti del popolo ; conoscetelo a prova quanti non bene ancor 1’ apprendete. La legge de’ giudizj popo­lari alla quale Decio principalmente si appoggia, non fu gjià formata in danno di vói patrizj, ma per garanzia de’ plebei sovverchiati, come ella stessa di- mostra; essendone non equivoca la scrittura, e come voi tutti , che ne siete appieno istruiti, andate con~ t^nuamaite dicendo. E gran segno è di questo il tempo , ( bonissimo in ogni controversia a fa r di­scernere il dritto ) il tempo io dico di diciannove anni già decorso dalla introduzion della legge. Ora in tutto questo tempo non può Decio dimostrare niifna causa nè privata nè pubblica giudicata in forza di questa legge ^ntro alcuno de’ patrizj. E se pur dica di averla ; dimostrila, nè pià avran luogo le dispute. I trattati ultimi pe’ quali vi riconciliaste col popola, questi trattati che il tribuno interpreta, tra­volgendoli, e che però vi si debbono espor netta­mente , questi comprendono due concessioni : vuol dire che si assolvesse la plebe dai debiti, e si nomi­nasse ogni anno il magistrato per difender gli oppressi, e non altro. Ed argomento grandissimo che nè la legge , nè i trattati concedono al popolo il potere di

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giudicare un patrizio è la inchiesta appunto che oggi egli fa . egli chiede dà voi una facoltà cheprima non aveva ; niun cercando dagli altri ciocché già tiene per legge. Come dunque, o padri coscritti ( che così pure volea Decio che la pensassimo) , come sarà un dritto di natura non scritto quello cioè che il popolo sia giudice delle cause che i plebei sosten^ gono da patrizj o le intentano ; nè poi li pairizj giudichino quelle d£ patrizj sia che questi le inten^ tino a’ p lebei, sia che vi pericolino ? che i plebei s’ abbiano in ogni caso il vantaggio, e noi non pos- siam paleggiarli ? Se Marcio, se un altro qualunque de’ patrizj conculchi il popolo , e sia giusto che ne abbia la morte > o T esilio ; non da lu i, ma qui sia giudicato e condannato secondo le leggj. È fo rse , o Decio, il popolo un giudice equabile, un giudice che niente condiscende a sestesso , dando il voto contro di un nemico ? E li patrizj se- dian essi questo voto, pregieranno pià un reo che la patria ojfesa per su­birne dagli uofnini la esecrazione e P odio di sper­giuri , e dagli Dei la pena della giustizia tradita j e per vivere sempre tra lugubri speranze ? Non così penso, o plebei, di un Senato , al qitale consentite che si dispensino per la sua virtà gli onori , i ma~ gistrati, e tutti gV incarichi pià belli di Roma , chia­mandovi ad esso obbligatiisimi per la propensiort dimostrala sul vostro ritorno. Or le cose ripugnan fra loro : come va mai che quelli che encomiate, temete ? che ad essi vi rimettete in cose gravissime , e ve ne sottraete nelle altre ? Che nqn siete sempre

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coerenti a voi stessi, che non vi fidate in tutto, o in tutto vi diffidate di loro, l i reputate bonissimi ■perchè deliberino essi i primi le cose, nè poi bonis­simi li reputate, perchè ne sentenzino ? Avrei da aggiungere o padri , più, cose intorno ai diritti ; ma il fin qui deUo ne basti.

LUI. E poiché Decio ragionando sull' utile, si fece a dire , quanto bene sia la concordia, e quanto di­sastro la discordia, e come avrem la concordia nel popolo se lo contentiamo, ma la discordia se gli proibiamo di bandire o di uccidere chi vuol de’pa­tri^ ; io gli farò breve risposta, quantunque pur lunga me V abbia. E primieramente io mi stupisco della dissimulazione di Decio, per non dire della stolidità, quando egli che si è messo non è 'molto a*pubblici affari, pensa vedere Putii comune meglio che noi che abbiamo invecchiato tra questi, e ren- duta grande di piecìola la repubblica: e mi stupisco in secondo luogo che egli mai si lusingasse di per­suadervi che v’ era d'uopo di consegnare ad essi che ne sono nemici, pel castigo vn cittadino collega vo­stro non ignobile, nè dappoco, ma da voi riputato insignissimo in guerra , sohbrissimo di costumi , .nè inferiore a niuno nel maneggio del pubblico. Eppure egli ha osato dir questo , tuttoché vedo che voi avete gran rispetto pe supplichevoli, e che lo avreste, be- nevoli ugualmente, anche pe’ nemici di arme, se mai qui ricorressero. Che se ci avessi tu o Decio cono­sciuto dediti a cose contrarie, pensar malamente dei numi, ed operare ingiustamente cogli uomini ; e qual

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cosa pià indegna avresti mai suggerito che sostener• simo , perchè sradicati, dismessi in tutto , perissimo trik t odio degli uomini, e degl'Idd]? JYon ci abbi­sognano y o Decio_i.: i tuoi consigli non su la conse­gna de'cittadini, nè su di altra cosa niuna che deb- basi da noi fare. Nè pensiamo che noi giunti fino a

' <juesta età tra tanta esperienza di beni e di mali , dobbiamo ora decidere t util nostro colla inespe­rienza di un giovine , e di un giovine estraneo da noi. Le minacce di guerra le (fuali usate per atter­rirci , non le abbiamo ora la prima volta da voi ; ma essendoci già state faUe tante volte e da tanti, le sosterremo imperturbàbilmente., reggendoci coll’an­tica nostra mansuetudine. Che se a’ detti conforme­rete pur le opere, vi rispingeremo ; giacché stanno per noi gl' Iddii , li quali non favoriscono le guerre ingiuste, ed è per noi pronto non poco di truppe ausiliarie. Saran per noi tutti i Latini ai quali ab­biamo di fresco conceduta la cittadinanza, e com­batteranno per questa città come per la patria loro. E le colonie di qui partite , le quali ora formano tante e buone città, soccorreranno ancor esse con tutto r impegno la città loro madre. Che se vorrete ridurci alla necessità di raccoglier sussidj da ogni parte j vi si ridurremo o Decio { ed invitati i servi ad èsser liberi, i nemici di arme ad avere la pace^, e tutti a partecipare la speranza della vittoria ; vi faremo insieme la guerra. Ma deh ! che non sianci mai questi bisogni, o Giove, o Dei tutti difensori di Roma ! iton scorrano i terrori oltre le parole ; 'nè mai sieguane opera disgustosa. ,

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LIV. Appio così disse : Marco però Valerio il più popola re di tatto il consesso , quegli che avea dimo­strata la propension più grande per la pace, propizio^ anche allora manifestamente verso del popolo , tenne no assai studiato discorso ; riprendendo quelli che noa permettevano che la città fosse unita, ma vi scindevano la plebe da patrizj, e vi risuscitavano per tenui cagioni una guerra intestina ; encomiando, quelli che seguivano il bene comune, e pregiavano la conconlia più che ogni cosa ; e facendo riflettere che se il popolo dive­nisse l'arbitro, come chiedeva, di quel giudizio, e ne avesse la concessione dal Senato, forse non procede­rebbe fino agli estremi, ma contento di aver 1' accu­sato , ne disporrebbe piuttosto con mansuetudine , che con durezza. Che se i tribuni ad ogni modo volessero compiere secondo le forme tutto il giudizio,' il popolo arbitro de' voti assolverebbe colui da ogni colpa , parte per verecondia di vedere in pericolo un uomo del quale dovea ricordare tante e si splendide imprese , e parte per gratitudine al Senato che gli avesse conceduto qnel potere senza contriapporsegli nella onesta dimanda. Pertanto consigliava i consoli, tutti i membri del Senato ivi presenti, e tutti gli altri patrizj di andare in folla e trovarsi a quel giudizio, di difendervi iwùeme il reo, e di supplicare il popolo a non sentenziare con rigore su lui ; mentre conferirebbe ciò non poco, nè di lieve momento sarebbe per la saviezza di Marcio in pericolo. Consigliava che non solamente essi fossero così animati, ma che v’ invitassero ciascuno i proprj clienti, vi cou- gregasser gli amici, e vi assumessero, se ne aveano,

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quanti erano i loro beneficati, dal popolo, e ne diie- dessero allora nel dar di quel voto la riconoscenza già prima .dovuta. Diceva che non poco lo giovereUie la parte di popolo che amava la patria, e detestava gli sceU lerati, e la parte ancora più numerosa, la quale si ad­dolora per le altrui sciagure, e sa ^mpatire gli uomini costituiti in dignità, se la 'sorte loro travolgasi. Tuttavia diresse a Marcio la maggior parte del discorso mista di amoionimenti, di esortazioni, e di preghiere che face­vano violenza. E giacché egli era la causa della discoiw danza del popolo dal Senato, e calunuiavasi come ti­rannica la esuberanza, delle sue maniere, e temeasi che per lui si desse principio alle sedizioni e ai mali gra­vissimi, quanti ne sorgono dalle guerre civili pregavalo a non verificare, o non confermare almeno le incolpa- zioot e le paure con quel suo non gradito contegno : assumesse un abitò più umiliato : souom^esse la sua pèrsona per dar conto a quelli che chiamavausi oltrag­giati da lui : si presentasse alle difese contro di un ao^ cusa ingiusta sì, ma che in giudizio appunto si annul­lerebbe. Sarebbe un tal lare più sicuro per la salvezza, più splendido per la fama che desiderava , e più con* fientaneo i/olle opere antecedenti. Dichiarava che se ostinavasi anziché raddokinsi, e se riduceva , persua- ^deadoli, i padri a subire ogni perielio per esso, mi­sera sarebbe per loro se vinti la perdita, ma turpissima jie vincitori, la vittoria. £ qui tutto davasi al pianto , riepilogando i mali gravi e non dubbj che straziano «elle discordie le città.

LY. Tali cose esponendo con molte lagrime non

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artificiose e aoa finte, ma vere, egli venerabilissimo per anni e per m eriticom e videne commosso tutto il Senato , cosi con più confidenza seguitò, dicendo : S» alcuno di voi conturbasi, o padri, pensando che in- troducesi un tristo costume nel concedere al popolo di votar su patrizj, e che non produrrà niun bene r autorità de tribuni che tanto si fortifica , sappiate che voi siete errati, e v ideate il contrario di quel che conviene Imperocché se mai vi sarà metodo sa­lutare, metodo per cui non si tolga nè la libertà nè le forze a Roma, e per cui le si conservi in perpetuo la concordia ; senza dubbio il metodo principalissimo sarà quello che assumasi anche il popolo al governo talché non sia questo nè pretta oligarchia, nè demo^ crazia, ma un tal misto di tutti. E questa la forma che più che tutte ne giovi ; perché ciascuna delle al­tre , applicata sola, coni è per sestessa, scorre faci­lissimamente alle insolente ed alle ingiustizie; laddove quando una forma si abbia ben contemperata da tutte, allora se utia parte commovesi ed esce dal- P ordin suo, vien contenuta sempre deUt altra, che è savia, e tiensi al dovere. La monarchia diventila dura, superba, tirannica, suole abbattersi da pochi valenti uòmini: la oligarchia , qual voi f avete al presente, se troppo s' innalza per le rochezze e per le ade­renze, nè più tien conto della giustizia e della virtù, si annienta da un popolo savio; un, popolo savio e che vive secondo le leggi, se poi volgesi ai disordini ed alle ii^iustizie; è sopraffatto dalle arme, e rimesso

V l O N i a i , ionio l i . - . . aS.

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in dovere dal pià forte. Voi trovaste, o padri, rimedj efficaci perchè il potere di un folo non si mutasse i n tirannide. Voi scegliendo in luogo di un solo due capi della repubblica , e dando loro il comando non per un tempo illimitato, ma per un anno; destinaste oltracciò per invigilarli i trecento palrizj, i piìt anziani e più grandi, da quali è composto il Senato. Ma voi, per quanto si vede, non avete fin qui messo per voi niun che vi osservi, e tenga in dovere. Cer­tamente io finora non temei che vi corrompeste ancor voi tra t abbondanza, e la grandezza dei bejii, per­chè non è molto che avete liberato 'Roma da una vecchia tirannide ; nè aveste mai comodo di scoprici ciiirvi e (f insolentire per le guerre continue e lunghe. Ma riflettendo io ciocché può succedere dopo voi, e quante mutazioni suol produrre la diuturnità dei tempi ; temo che i potenti del Senato si rimescolino, e riducano per occulte vie finalmente il governo in tirannide.

LVI. Ma $e comunicherete il comando col popolo, non sorgerà quindi alcun male. E se altri ( giacché tutto dee prevedersi da chi consulta su la repubblica) se altri tenti elevarsi piii de’ colleghi e del Senato , procacciandosi un seguito di uomini pronti a congiw- rare e ad offendere ; costui citato dai tribuni al po^ polo, per quanto egli sia grande e magnifico, renderà conto ai negletti ed ai poveri : e trovatosi reo , ne subirà le pene che merita. Ma perchè il popolo con tal potere non insolentisca nemmen esso, nè guidato da capi rei s'inalberi contro de buoni, tiranneggiando

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( che nasce anche nel popolo la tirannide J ; lo invi­gilerà , nè permetterà che ne abusi un uomo dislin^ tissimo per saviezza. Un dittatore eletto da voi con potere assoluto, inappellabile, separerà dalia città la parte infetta di popolo, nè lascerà che la sana se ne corrompa. Egli, riordinati i costumi e le preclare maniere del vìvere, nominati i magistrati, che giudica savissimi per la cura del pubblico , ed eseguiti tali cose in sei mesi, rientri di bel nuovo nella classe de privati, conservando per sè H onore, e non più. Pertanto considerando voi questo , e giudicando bo- nissima tal forma di repubblica, non vogliate da ciò che chiede escludere il popolo. Ma come avete attri­buito al popolo che scelga ogni anno i,magistrati che regolino , che ratifichi o annulli le leggi, e decida della guerra e della pace, cose tutte rilevantissime e principali tra quante in uno stato sen facciano nè avete di ninna di essé lasciato arbitro indipendente il Senato ; cosi chiamate anche il popolo a parte dei giudizj, massimamente se alcuno sia accusalo di of­fendere la stessa repubblica, eccitando sedizioni, pre­parando la tirannide, convenendosi co’ nemici di tra" dirci, e macchinando mali consimili. Imperocché quanto più renderete ten ibile agl! indocili ed ai superbi la trasgresslon delle leggi, e le innovazioni di Stato, mostrando intenti su loro più occhi e più guardie ; tanto più la repubblica starà nel suo fiore.

LVII. Dette queste e cose consimili, tacque. Con­vennero nel parere medesimo gli altri senatori sorti

dopo lui , eccettuatine pochi, E standosene ornai per

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3 8 8 DELLE a n t ic h it à ’ ROMANE

formare il decreto ; chiese Marcio la parola e disse ; Quale, o padri coscritti, io sia stalo verso la repub~ blica , come io sia venuto in tanto pericolo per la benevolenza mia verso di voi, e come ora io ne sia da voi contraccambialo fuori della mia espetiazione, voi tutti il vedete, e meglio lo intenderete ancora dopo dato un fine alle mie cose. Ed oh ! se come la sentenza di Valerio prevede ; così vi giovasse, edio mi sbagliassi nelle mie congetture sul Juturo. A l­meno però perchè voi che siete per emanare il de­creto , conosciate le cause per le quali mi consegniate al popolo, nè io ignori su ette sarò combattuto neh- t adunanza di esso ; intimate ai tribuni che dicano alla presenza vostra la ingiustizia su la quale mi ac­cuseranno , e qual titolo diasi a questo giudizio.

LVIII. Egli cod diceva , perchè congetlurava che a- vrehbe a difendersi appunto pe’ discorsi fatti in Senato, e perchè voleva che i tribuni convenissero che su que­sto appunto verserebbe l’azione. Ma i tribuni consulta­tisi lo accusarono che brigato avesse la tirannide , e su questa accusa chiedevano che venisse a difendersi. (Schivi di restriùgere 1' accusa ad una sola causa, e questa nè valida nè cara al Senato ; riserbavansi il potere di ac­cusarlo su quanto volevano , pensando che resterebbe così Marcio spogliato di tutto il soccorso del Senato ). Marcio dunque replicò : se io debbo essere giudicato su questa calunnia, mi sottometto al giudizio del popolo , nè mi oppongo che ne stenda il Senato il decreto. Piaceva al più de' padri che su ciò si rigi-»- rasse l'accusa e per dae fìqi: perd^ da indi in poà

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non più sarebbe un senatore incolpato per dire cioc­ché pensava nelle consultazioni ; e perché di leggieri quel valentuomo se ne purgherebbe, sobbriissimo altron­de , ed irreprensibile nella vita. Fu dunque , secondo ciò, steso il decreto pel giudizio : e dato a Marcio tem­po per preparar le difese da indi al terzo mercato. Te> nevasi allora, e tuttavia si tiene da’ Romani il mercato in ogni nono giorno. In questi adunandosi i plebei dalle campagne in città ; vi cambiavan le merci, e vi discu­tevano le liti -private : e ricevendo i voti ; sentenziavano su le cause pubbliche, riservate loro dalle leggi, o dal Senato. Negli otto giorni intermedj a' mercati viveansi nelle campagne, essendone i piiì di loro lavoratori e poveri. I tribuni preso il decreto, e recatisi al Foro , v'adunarono il popolo : e lodatovi con ampj encomj il Senato , e lettavene la sentenza ; intimarono il giorno nel quale si finirebbe quella causa; raccomandando a tutti d'intervenire, perchè discuterebbono importantis­sime cose.

LIX. Divulgato ciò ; vivissime furono le cure e i ma­neggi de’ plebei e de’ patrizj ; di quelli come per punire un arrogante, e di questi perchè non restasse all’ arbi­trio de’ loro avversar] il difensore del comando de’ po­chi. Pareva ad ambi che si mettessero in quella causa a pericolo i diritti tutti della viu e della libertà. Giunto il terzo mercato , si ridusse dalle campagne in città tanta moltitudine , quanta mai più per addietro , occu­pando infìno dall’ alba il Foro. I tribuni la invitarono a riunirsi per tribù, separando con funi il sito dove ciascuna si alluogherebbe. L’ adunanza su quest’ uomo

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fu la prima la quale votasse per tribù ( i ) , sebbene as­sai si opponessero i patrizj perchè ciò si facesse ; chie­dendo che si tenessero, com'era l’uso della patria, i comizj per centurie. Imperocché ne' primi tempi se il popolo dovea votare su di una causa qualunque rimes­sagli dal Senato ; i cousoH adunavano i comizj per cen­turie, compiendo prima i sagrifìzi legittimi , che in parte si compiono ancora. Il popolo ordinato come nei tempi di guprra sotto i centurioni e le insegue , adu- navasi nel campo di Marte posto innanzi della città. Quivi non prendevano e davano tutti insieme il lor voto ; ma ciascuno nella propria centuria, secondo che eran chiamate dai coasoli. Ed essendo le centurie cento novanta tre , e dividendosi queste in sei classi, chiama- vasi innanzi tutte, e dava il suo voto la prima classe, la quale formata dei più riguardevoli per sostanze, e primi negli ordini militari, comprendeva diciotto cen­turie equestri, ed ottanta appiedi. Appressò votava l’ al­tra classe la quale men comoda per sostanze, seconda neU’ordine della battaglia , e men cospicua de' primi per armatura , formava venti centurie ; aggiuntene ancor due di artefici, i quali apprestano legni e ierro, ed ogni alira macchina militare. Costituivano i chiamati nella terza classe venti centurie, inferiori tutte nell’ onore, nell’ ordine della battaglia, e {belle armi, non simili a quelle de’ precedenti. Gli altri chiamati appresso , rispet­tabili anche meno in pregio di sostanze e di armi, ma più sicuri di posto nella battaglia, divideansi ugualmente

(i) Anni di Roma a63 secondo Catone, aC5 secondo V arrone, • 489 av. Cristo.

Ó QO D FXLE ANTICHITÀ ROMANE

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in venti centurie ; alle quali se ne anivano altre due, di suonatori di corni e di trombe. Chiatnavasi per quin­ta , la classe tenuissima per averi e per armi oh' erano strali e iìonde. Non aveano questi luogo nella legione, ma spediti e leggeri, e divisi in trenta centurie, com­battevano insieme con quelli di grave armatura. Final­mente i cittadini più poveri, tuttoché non minori agli altri di numero, ristretti, tutti in una centuria, pren- deano gli ultimi il voto. Immuni essi per sestessi dai ca­taloghi militari, e dai tributi ordinati secondo gli ave­ri, erano appunto per queste due cause inferiori a tutti nella collazione de'voti (i). Se le centurie della, prima classe, vuol dire le novantotto tra le equestri e pedestri e che aveano il primo posto in battaglia, si trovavano tutte di accordo ; la collazione de' voti era finita, nè lasciavasi alle altre, che erano sole novantacinque , di votare (“ì ) ; e se ciò non succedeva , chiamavasi la se­conda delle ventidue centurie, e quindi la terza : e cosi procedevasi finché unanimi si trovassero novanta sette centurie. E per lo piiì le discussioni ultimavansi col chiamare la prima classe; non bisognandovi punto le altre. E di raro mai scontravasi un tal fatto così dub-

(1) Questa namerazlone i forse saperflua. JNel lib, 4 > $ 30 ; si tratta >a materia medesima. I soldati che qui si dicoDo immuni dai

cataloghi militari, erano certamente liberi dalle coscrizioni: p e ra l ­tro potevano militare se volevano.

(a) Nella prima classe ci aveano ottanta centurie appiedi e diciotto a cavallo , iu tutto novantotto yedi loco citato. Le, altre classi in tutto

costituivano novantacinque centurie : perché la seconda classe com­

prendeva ventidue centurie: la terza 'venti: la quarta di nuovo ven- tidae : e la quinta tren ta ; risultando la sesta da una sola.

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bio da ricorrere al volo finale de' poveri. Era questo il refiigio estremo, se mai le cento aorantadue ceotn- rie sciadeansi in parti eguali ; e ne preponderava la parte alla quale quell’ ultimo voto si volgeva. Chiedeano i difensori di Marcio che si adunassero i comizj ordinati secondo gli averi, immaginandosi forse che il valentuomo sarebbe liberato dalle novantotto centurie della prima classe quando le chiamavano, o dalle altre almeno della seconda o della terza. Ma sospettando eziandio ciò li tribuni, conclusero che si avesse a riunire il popolo per tribù, e cosi- renderlo giudice della contesa ; perchè nè i poveri ci avessero men potere dei ricchi, nè i soldati leggeri men di quelli di grave armatura, nè la molti­tudine , differita per 1' ultima chiamata, fosse impedita a dare egual voto. Divenuti tutti pari nell’onore e nel voto , avrebbero ad una sola chiamata dato i loro suf* fragj per tribù. Or pareano i tribuni più giusti che gli altri, col pensare che il giudizio del popolo fosse ve­ramente del popolo, non della parte fautrice degli ot­timati ; e che su le offese di tutti, tutti dovessero sen­tenziare.

LX. Conceduto ciò con stento da’ patrizj , essendosi omai per disputare la causa, Minucio l’ altro de'con* soli ascese il primo in ringhiera, e disse quanto eragli stato commesso dal Senato. E prima ricordò tutte le be­neficenze , quante il popolo ne avea ricevute da’ patri- zj : e poi chiese in contraccambio di queste, eh’ eran pur tante, che il popolo concedesse una grazia, neces­saria ad essi che la domandavano, pel pubblico bene : quindi lodò la concordia e la pace e rilevò di quanti

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L IB R O V I I . 393beni 8ien causa 1’ una e 1’ altra nelle città: condannò le sedizioni e le guerre intestine; e mostrò che ne erano state distrutte le città con gli abitanti, anzi le intere nazioni : raccomandò che secondando l'ira non iscegliès- sero il peggio per lo migliore : che provvedessero il fu­turo con saviezza, non si valessero in consultazioni gra> vissime del consiglio de' cittadini piii tristi, ma di quelli che tenean per bonissimi , da' quali sapeano .essere stata tanto giovata in guerra ed in pace la patria , e de' quali non era giusto che diffidassero, quasi avessero già mu­tato natura. Era l ' intento di tanti discorsi, che non dessero niun voto contro di Marcio , ma in vista prin­cipalmente di essi assolvessero quel valentuomo ; ricor­dandosi quale egli era stato per la repubblica, quante guerre avea portato a buon termine per la libertà e per r impero di Roma, e come non farebbero cosa nè pia; nè giusta, nè degna di loro, se ingrati alle opere segna­late di lui ne punissero le vane parole. Esservi bellis­sima la opportunità di dimetterlo ; giacché egli presen< tava la su^ persona ai nemici , per subirne in pace il giudizio che di lui formerebbero. E se non che ricon- ciliarsegli, persistevano duri, implacabili con esso, al­meno giacché il Senato trecento i più insigni della città, facevasi a supplicarli, s'impietosissero e mansuefacessero, ciò considerando; nè per punire, un nemico ributtassero le preghiere di tanti amici, ma in grazia di tanti va­lentuomini condonassero la pena di un solo. Dette que­ste consimili cose , aggiunse in ultimo , che se assol­vessero dopo dati i voti un tal uomo , parrebbono rila­sciarlo per non esser stato un offensore del popolo : ma

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se proibivano di prosegairae il giudizio, mostrerebbero di donarlo a tanti che per lui supplicavano.

LXI. E qui taciutosi Minucio, fecesi innanzi Sicinto il tribuno, e disse : che uè egli tradirebbe la libertà del popolo, nè permetterebbe di buon grado che altri la tradissero. Pertanto se i patrizj sottomettevano realmente ùa tal uomo al giudizio del popolo, &rebbe che su lui si votasse, nè punto da ciò si scosterebbe. E qui su­bentrando Minucio replicava : Poiché siete o tribuni ferm i in tutto di dare il voto su quest'uomo; almeno non lo accusate di altro che della offesa imputatagli. E poiché lo dinunziaste reo di ambila tirannide, di­chiarate e convincete ciò con gli argomenti: ma non vogliale nè ricordare nè accusare le parole , le quali10 iiKolpavate di aver detto in Senato. Imperocché'11 Senato lo dichiarava immune da questa colpa , e sentenziò che al popolo si presentasse per le cause convenute. E qui lesse la sentenza. E dette e protestate queste cose, discese. Allora Sicinio il primo fra' tri­buni espose r accusa con cura ed apparecchio grande, riferendo tutte le cose dette o fatte da quest'uomo ai disegni di fondar la tirannide. Parlarono dopo lui gli altri più potenti de' tribuni.

LXII. Ma non sì tosto toccò a Marcio di perorare , cominciando da capo, numerò quante spedizioni mili­tari avea sostenuto dalla prima età sua per la repub­blica , quante corone trionfali avea riportate da suoi co­mandanti , qnanti erano i nemici presi da lui prigiooie- r i , quanti li cittadini salvati nelle battaglie. E ad ogni dir suo mostrava i premj dati al suo valore, e ne prof-

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feriva in testimonio i capitani, e ne chiamava a nóme i cittadini liberati. E questi si presentavano sospirando e supplicando i cittadini a non uccidere, nè distruggere come nemico chi era la causa della loro salvezza ; chie> dendo la vita di un solo per quella di tanti, ed esi­bendo in luogo di lui sestessi, perché come più vo- leano ne disponessero. Erano i pià di loro del popolo, anz^ al popolo utilissimi. E preso il popolo da verecon» dia all’ aspetto ed alle lagrime di tanti ne impietosi, e ne pianse. Quando Marcio squarciandosi l'ab ito , mo­strò pieno il petto, piene le altre membra di cicatrici, e dimandò se credeano poter esser le opere di un uomo stesso salvare il popolo in guerra dd nemici, e salvato opprimerlo nella pace : e se chi fonda una tó- rannlde , caccia dalla città una parie del popolo, dal quale principalmente la tirannide si alimenta e cor­robora. E lui parlando ancora, tutti i più mansueU, e più umani del popolo esclamavano, che si rilasciasse: e vergognavansi che stesse fin dal principio in giudizio per simil cagione un uomo che avea tante volte spre­giata la propria salvezza per quella di tutti. Ma tutti i più invidiosi, tutti i più malevoli ai buoni, e più pronti alle sedizioni, soffrivano di mal in cuore di avere a li­berare un tal uomo : tuttavia non sapeano che più fare, non apparendo in esso indizj nè di tirannide, nè di ambizion di tirannide , e su ciò doveasi giudicare.

LXIU. Or ciò vedendo quel Decio che avea ragio­nato in Senato, e procurato che si stendesse il decreto per la causa , levatosi in piede fece silenzio e disse : Poiché, o popolo, i patrizf hanno assoluto Marcio

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detUe parole dette in Senato, e d d fa tti violenti e superbi che le seguirono: nè vi hanno lasciato mezzi onde accusarlo ; udite , non le parole, no , ma la egregia cosa che questo valentuomo vi apparecchiava ; uditene t orgoglio, la sowerchieria, e conoscete qual vostra legge , egli privatissimo uomo , violasse. Fot tutti secete che quante spoglie nemiche ci riesce di acquistar col valore, tutte per legge son del comune, e che niuno, nemmeno lo stesso capitano non che un privato , ne è r arbitro ; sapete che il questore le prende, le vende, e , fattone danaro, lo versa nel pubblico erario- Or questa legge che niuno da che Roma è Roma non solo non ha mai violato, ma nemmeno ha ripreso come non buona ; questa già firm ata, già invalsa, questa ha C unico Marcio con­culcata, appropriando le prede che erano del comune, C anno scaduto, e non prima. Imperocché essendo noi scorsi su le terre degli A nziati, e pigliato aven­dovi prigionieri, e bestiami, e frum enti, ed altro in copia ; egli non depositò già tutto nelle mani del questore: e nemmeno, aUenandolo, ne mise il prezzo neW erario : ma divise in dono agli amici suoi per cattivarseli, tutta la preda ; or questo io dico eh’ egli è argomento certissimo di tirannide. E come no ? Costui beneficava col tesoro pubblico li suoi adulatori, li custodi della sua persona, li cooperatori della ti­rannide, E vi affermo che questo fu come un abro­gare manifestamente la legge. Or su, facciasi pure innanzi Mai cio, e dimostri P una o F altra delle due; o che egli non comparti le belliche prede a’suoi

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ànici ; o che se bene ciò fe c e , non ruppe la legge. Ma egli non potrà dire niuna di queste due cose. Imperocché %>oi sapete P una e V altra, la legge e

opera : Nè mai potrete col£ assolverlo , dar vista di conoscere i diritti ed i giuramenti. Lascia o Marcio le corone ed i premj, lascia le ferite ed ogni osten­tazione , e rispondi a questo, su che ti concedo ornai che tu parli.

LXIV. Cagionò tale accasa grande mutazione; e li più dolci, e più premurosi per 1' assoluzione di questo uomo si rallentaron ciò udendo. E li più perfidi, quali erano i più della plebe , deliberati aifatto di perderlo, vi si ostinarono ancor più , per una occasione si gran> de , e sì manifesta. EU’ era ben vera la distribuzion della preda , non era però fatta per mal genio, nè in vista di una tirannide , come Décio calunniava, ma solo con fine benissimo, con quello cioè di riparare ai mali della repubblica: perchè, essendo allora il popolo di­scorde ed alienato da'patrizj, i nemici dispregiandoli, ne scorrevano e ne predavano di continuo le campagne. E quante volte parve al Senato di spedire una forza che li reprimesse , niuno usciva del popolo, anzi giubbilava contemplando i casi d'intorno , nè le forze dei patrizj ha* stavano a contrapporsi. Or ciò vedendo Marcio promise ai consoli, se lo creavano capitano, di portar su' nemici un'ar* mata spontanea, e di pigliarne ben tosto vendetta. Ottenuto Marcio il potere , congregò li clienti, gli amici, e quanti voleano partecipare le sue fortune , e la sua gloria nelle armi. E quando parveg]i chp si fosse raccolta milizia suf­ficiente ; la menò su’ nemici che niente ne prevedeano.

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Scorso ia region doviziosissima, ed arbitro divenuto di amplissima preda, peimise alle sue milizie che tutta se la dividessero , afSnchè li compagni dell' impresa , rac­coltone il frutto, andassero pronti anclie agli altri ci­menti : e quelli, che impigrivano in casa, considerando da quanti beni, a' quali poteano partecipare , gli allon­tanasse la sedizione; divenissero più savj per le spedi­zioni seguenti. Tale era su ciò la idea del valentuomo. Ma la turba invida e -tenebrosa , considerandone con malvolere le operazioni, credette vedere in esse un pre­dominio , una largizione tirannica. Dond' è che il Foro si riempié di clamori e di tumulto : nè più Marcio, nèil consolo, nè alcun altro sapeano che rispondere, riu ­scendo la incolpazione inaspettata ed improvvisa. Poi­ché dunque niuno più faceane le difese; i tribuni di­spensarono alle tribù li suffragi, proponendo per pena del delitto 1' esilio perpetuo, io credo perchè temevano, che se proponevano la morte, non sarebbevi stato con­dannato. Dato da tutti il voto, e numeratili, non vi fu gran divario. Imperocché essendo allora ventnna le tribù le quali ottennero il voto, nove si decisero per la li­berazione di Marcio , tanto che se altre due vi si ag­giungevano , sarebbe stato, come ordina la legge , libe­rato per la uguaglianza (i).

( i ) Se le tribù erano a i , e nove si dichiararono per M arc io ;

dunque dodici lo condannarono; e però tre e non due altre t r ib ù

ci voleaao per uguagliare i Toti della condanna e dell’ assoluzioné.

Forse Diaoigi vuol dire che se la tribìl condauaavano ed n u d ic i assolvevano, l ’ efRcacia de’ voli era la stessa in guis4 , che per u a

voto di più non condannavasi il reo , ma si rilasciava. Se ciò è , n^l teslu non vi è discordia , ma la voce dovrà tradursi

S g S D ELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE

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LXY. Fu questa la prima citazione di un patrìzio al popolo. per esserne giudicato : e d' allora in poi fu stabilito il costume che i tribuni chiamano chi lor piace de' cittadini a subire il giudizio del popolo. E dopo tal fatto ancora assai il popolo si elevò, decadendo nom- meno il potere de' pochi, perchè ne furono ridotti ad ammettere i plebei nel Senato, a concedere che aspi­rassero agli onori, a non vietare che prendessero i sa­cerdozi , e a dividere con essi per forza e loro malgra­do , o per provvidenza e saviezza, i tanti bei pregi, un tempo proprj solo de' patrizj , come ne' luoghi op­portuni diremo. Del resto l 'uso di citare i cittadini pri- marj al giudizio della moltitudine può sopaministrare ma­teria bea ampia di discorso a chi vuol biasimarlo o lo> darlo ; perciocché molti uomini probi ed egregj ne so* stennero cose non degne della loro virtù, fatti inglorio- sameute uccidere e malvagiamente pe' tribuni : e per r opposito ne pagarono pure la debita pena molli uomini arroganti e tirannici, astretti a dar conto del vivere e procedere loro. Quando dunque vi si faceano con cor buono le discussioni, e vi si reprimevano le esorbitanze dei graudi, quella sembrava mirabilissima cosa, ed erane da tutti lodata : ma quando a torto il merito vi si pro­strava de' valentuomini egregj nel governo del comtme ; sembrava orribilissima, e gli autori se ne accusavano

nou per la uguaglianza de' voli come abbiamo fallo ma per la t f j i ^ cada de’ voli. Sappiasi in fine che talaoo de’ critici afferma che le tribù allora erano 3 i , e non a i ; ma il Slgooio d t civilate Rom, c. 2 , ed Onofrio Paavino al c . 8 , sosteogoao che erano realmeole Tcntuna.

LIBRO V II . 3 ^ g

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400 DELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE

della cobsaetudine. Esaminarono , evvero , più volte i Romani se la dovessero annullare , o custodire come 1' aveano ricevuta dagli antenati ; ma non diedero mai flue all' esame. E, se pur io debbo dirne ciocché ne pen­so, a me ne sembra la istituzione, se per sé si consi­deri , vantaggiosa, anzi necessariissima a Roma ; esservi però più o men bene riuscita, secondo il carattere dei tribuni. Imperocché se scontravansi savj, giusti, e sol­leciti del pubblico, più che del proprio lor bene, e se chi offendeva la patria ne era , come dovea , caligato; in tal caso un timor vivo frenava ancor gli altri dal fare altrettanto. E 1' uomo buono , I' uomo avvanzatosi con cuore puro ai maneggi pubblici nè subiva pene vergo­gnose , nè giudizj, alieni dal procedere suo. Ma quando aveansi il poter tribunizio uomini scellerati, intempe­ranti , avari, succedeane tutto l'opposito. Tantoché non doveasi retti6c{ir come.erronea la consuetudine, ma curar piuttosto come si avesser tribuni probi ed onesti, senza che tanta autoiitA temerariamente si conferisse.

LXVI. Tali furono le cagioni, e tale il termine della prima sedizione de' Romani dopo la espulsione dei re.Io ne parlai lungamente , perchè ninno si meravigli come i patrizj permiseró che il popolo si attribuisse tanto po­tere , né succedessero intanto come in altre città, gli eccidj e le fughe degli ottimati. Ciascuno brama cono­scere delle insolite cose la cagione ; proporzionandosene a questa la credibilità. Dond’é che io conclusi che non sarei stato creduto in gran parte o in tutto, se io di­ceva nudamente , e senza allegarne le cause, che i pa­trizj aveano ceduto ai plebei la primazia ; e che po-

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LIBRO V II . 4 o *

tendo' dominare come nèl comando dei pochi, ayeano reuduto il popolo arbitro di affari gravissimi: e c«sl concludendo ; volli esprimerle tutte. E pòichè fra loro non si violentarono e necessitarono colle armi, ma couf* cordaronsi colla persuasiva, giudicai portare il pregia dell' opera, che si esponessero soprattutto i discorsi te­nuti allor dai' primarj di ciascun dei partiti. E ben iq mi stupirei che taluni pensassero doversi i falti d ^ a guerra descirivere minntissinaamente, é talvòltar consu­massero tante parole intorno di una sola battaglia d ^ cenda la natura de’ luoghi, la proprietà delle arm i, U forma delle ordinanze, le ammonizioni del capitano, e tutti i motivi, quanti coadjuvarono la vittoria ; nè poi credessero- che narrando i nummenti, e le adizioni vili sen dovessero insieme riferire i discorsi pe'quali *i operarono impensate é maravigliosissime iràprese. Certa^ mente se nel governo de' Romani vi fu portento degno di eDcomj, e della emulazione di tutti, fu quésto a parer mio, famosissimo più che i tanti, che pur vi fu- roBO. stupendissimi, vuol dii« che i plebei spregiando i patirizj non si avventasser su loro, uccidendone in coi- pia i più insigni, ed. usurpandoné i beni, è-che quelli ohe . esercitavan le cariche non conquidessero di per fiestessi' o co’ soccorsi di fuori tutto il popolo, rimanea- dosene poi liberi dfi paure in città ; ma che a. guisa di fratelli .co’ fratelli, e di figli co' padri in una savia fa­miglia , la discorresser fra loro su’ diritti comuni, e Gnis- serò le controversie col dialogo e colla persuasione, senza permettersi gli uni contro degli altri azione alcuna inir

D i o m c i , unno I I . a6

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qna ed iosanabile , come nelle loro secliziom ne feceroi Coreiresi, come gli Argivi, i Miiesj, e la Sicilia in­tera , e tani'altri. E per queste cause io volli anzi esten­derne che rìsiringeme la narrazione ; e ciascuno oe pensi come glien pare.

LXyiI. Avuto allora il gindizio un ul esito , il po­polo si parti con una vana ghiattania; concependo aver tolto il comando dei pochi. Altronde i patrizj ne an­elavano umiliati e mesti, ed incolpavano Valerio per SQggerimento del qoale avevano rimessa al popolo sentenza. E quelli che riconducevano Marcio ; impieto- « ti, ne sospiravano e ne lagrimavano : non perà ve- deasi Marcio nè piangere, nè lamentare la sorte sua, nè dire o fere cosa qualunque, non d ^ a de' soblimi suoi genj : anzi dimostiò più ancora la generosità e for» tezza dell’ animo suo, quando giunto in casa videvi b moglie e la madre che aveansi squarciata la veste, e pesto il petto , e gridavano, come sogliono in simili casi, donne separate dai bro più cari per 1' esilio , o per la morte : niente invili tra le lagrime , niente tra' damori delle donne. Ma dato loro un amplesso, le animava a tollerar virilmente la disgrafia, racconuadand* ad esse i suoi figli. Grande era T uno di dieci anni , ma soeteneano l ' altro colle bracòa ancwa. E senza dare aU tri pegni della sua benevolenza , e senza tor seco cioc> thè bisognavagli per 1' esilio , usci solleciumente dalle porte, non indicando a niuuo, dove si trasferiva.

LXVll. Venuto pochi giorni appresso il tempo de'co» miz}, furono dal popolo scelti consoli Quinto Sulpicio Camerino e Spurio Largio Flavo per la seconda voi-

4o a DELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE

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LIBRO V II . 4 ^ 3

m (i). Turbarono quest'aniio la città mohi segni di ce> lesti terrori. Imperocché apparvero a molli visioni inso» lite , e vopi si udirono senza niun che parlasse ; le ge« neraziom degli uomini e delle liestie assai scostandosi dal naturale tendevano al mostruoso ed all' incredibile : e si udivano in più luoghi risonare gli oracoli, e donne da divino furor sorprese annunziavano alla città lamen» teroli e terribili sorti. Si aggiunse a tanto un tal contagio cella moltitudine. Fece questo assai strage di bestiame, ma non molta fu la mortalità degli nomini, non esten* ^endosi il morì>o più in là che a far dei malati. £ (hi diceva succedere l'infortunio per disegno de'numi i quali si Yendicavano dell’essere espulso dalk patria il miglio^ de' cittadini ; e chi dicea che gli eventi non erano opeca divina, ma fortuiti, come tutte le vicende degli uomi-* ni. Poi si presentò, portatovi in una lettiga, un in&r> m o, chiamato Tito Latino di nome, vecchissimo d'annr, fornito a sufficienza di beni, e che avea per lo più' vi* vuto nella campagna, lavorandola colle sue mani. Co* stui venuto in Senato rivelò che avea tra il sonno ve^ duto Giove Capitolino che standogli a fronte, r a , gli disse ; fa intendere a' tuoi cittadini che nelt ultima pompa che mi celebrarono, non mi diedero un buon capo per la danza. Pertanto mi ripetano, e compiano uri altfu fetta di nuovo, non avendo io accettata la pri^ ma. Dicea costui che risvegliatosi non facea vemn caso della visione, ma teneala come una delle comuni ed il­lusorie. Quando ecco infine gli si presentò nel sonno

(i) Anni di Roma a64 tecondo Catone, >66 secondo Varrone, e 488 Criflo.

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4 o 4 D E L L E a n t i c h i t à ’ ROM A N E

la imiDagÌDe stessa, e bieca e «donata, che non ayessv annuneiaio i 'comandi al Senato, e miaacciandolo , se non gli annunciava immantinente che apprendet'ebbe con grave suo danno a non trascurare g^ Iddj. Que­sta seconda TÌsioae, egli disse, cb« la riguardò comc la prima, vergognandosi di assùmér l'iqcatico, egli vec­chio e lavoratore , di portare al Secato 4 sogni gaoi pieni di augurio e di terrore, pepcbè noo vi fosse de­ciso. Or pochi giorni appresso il vago e giovine suo figlio , senza malattia , e senza nkioa càusa sensibile fo isapìto da morte improvvisa. E ben tosto il simulacro 8tesw dd nnme apparendogli nel sonno gli dichiarò che egli avea. già colla perdita, del fi^io subita la pena della sua trascuraggine, e del dispregio delle celesti voci , ma che ben tosto ne subirebbe-ancor altre. Udendo tali cose disse che contentissimo ne accettava Fannun» zio , se avesse a morirsi , non piii curando la vita: che non gli diede il nume però questa pena, ma che gFin^ terhò per tutto il corpo dolori acutissimi ed insoj^ri- inli j non potendone movere parte alcuna senza tor» mento estremo. E che allora infine con^unicato teverUo agli amici, venivane per consiglio loro al Senato. Pa­rca , ciò dicendo , che poco a poco si riavesse dal do­lore. Alfine compiuto il discorso, usci di lettiga, ed in­vocato il nume,, ne andò per la città libero e sano ia sua casa.

LXIX. Il Senato ne fu spaventalo ed atlonito ( i) ,

( i ) Questo fatto è riportato anche da L ivio. Cicerone lo allega

nel lib. I de Divinatione. Quanto i facile sognare con chi sogna !

Ala il Senato avea bisogno d’ illudere un popolo supertiixioso, e ue

secondò li delirj. Fer tali vie la verità si confonde, e si allontana!

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LIBRO VII. 4^)5

nè sapeva ladovinare ciocché il nume significasse, e qual fosse nella festa antecedente il dace de' salti die buono a lui non paresse. Alfine un tale, memore del- r evento, lo disse ; e tutti se gli accordarono. Or fu l'evento cosi: Un Romano non ignobile consegnando un suo schiavo agli altri conservi perchè lo menassero alla morte , ordinò per renderne più romorosa la pena, die lo traessero, flagellandolo , pel Foro , e per tutti , quanti erano, ì luoghi più insigni della città. Precedi costui la festa che la città avea prescritto che si facesse in quei tempi a lai nume. Coloi'o che lo spingevano al supplizio slargandogli e legaodogli ambedue le mani ad nn legno, postogli dietro il petto e diretto per le, spalle fino agli estremi delle braccia, lo seguivano, e lo bat* levano nudo co'flagelli. Stretto costui da tale, necessità gridava e eoa sconce voci, quali il dolore gliele sug­geriva, e tra salti indecenti, per le battiture. Or questo giudicarono tutti che fosse il saltatore non biiono indi* cato dal nume.- LXX. E giacché sono a tal parte d’ istoria penso non dover tralasciare i riti che nella feista si tengono dai Romani: non perchè più bella ne sia la narrazione per giunte teatrali e per fioriti discorsi , ma perchè sia più credibile il proposito rilevantissimo , vuol dire, che greche furono le colonie fondatrici di Roma , e venute da famosissimi luoghi, e non barbare e non prive di case , come alcuni hanno esposto. Imperocché nel fine del primo libro, tessuto da me su la origine sua , pro- tnisi convalidarla con mille forti argomenti di leggi, d i cpstumi, d'industrie che vi persistono ancora, quali si

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4o 6 DELLE ANTICHITÀ’ ROlt^^NE

ricevette dagli avi; nè giudico che basti a chi scrive le storie antiche de* luoghi delioearle come degne di fede perchè tali si odono da' paesani , ma per l 'opposito giudico che a renderle credibili abbisognino queste di altri documenti invincibili, quali sono principalissima- mente le cerimonie, ed il cullo usato in ogni città verso i numi e i genj patrj. Cerumente li Greci e li barirari custodiscono queste gelosamente per lunghissimo tempo frenati dalla riverenza de' numi vendicatori. E ciò ibano i barbari soprattutto, per molte cagioni da non essere qhi ricordate. E ninno ha mai persuaso a dimenticare o corrompere alcuna delle divine case gli Egizj, i L ibj, li Celti, gli Sciti, gl' Indi « e general­mente tutti i barbari, seppure caduti sotto il comando ^ «luri non furono necessiuti ancora di volgersi ai riti IcNTo. Roma però non fu mai ridotu a tal sorte , anzi «ssa diede agli altri le leggi perpetuamente. Se traeva da'barbari l’origin sua, dovette pur da'barbari derivare le istituzioni nazionali, per le quali giunse a unta foiw tona : e quindi dovette astringere tutti i sudditi a ve­nerare gl' Iddj con le forme Romane come- migliori. Se dunque i Romani eran barbari, niente poteva ritar4are che bariiiara si rendesse tutta la Grecia che ornai da sette generazioni ne poru il giogo.

LXXI. Alcuno forse crederà che bastino per segno non piccolo delle pratiche antiche, quelle che ancor vi si usano. Ma perchè altri noi prenda come insufficiente per la opinione non giusta, che i Romani quando vinser la Grecia , con piacere ne assunsero i <xtstumi come migliori, ripudiando i proprj ; ho deliberato ar>

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IJBftO VII. 4t>7gomentar dal tempo quando espii non ci dominavano ancora , nè avevano oltre mare l ' impero , valeadomi bell’autorità di Quinto Fabio senza che altra me ne bisogni. Imperocché antichissimo tra quanti scrissero le cose romane, ce le accredita non solo perciò che ne ha udito, ma perciò che ne ha veduto ancora. Il Se­nato , come ho detto di sopra , aveva decretato quella festa, per adempiere il voto fattone da Àulo Postumio ditutore , quando fu per combattere le città ribellatesi de’Latini, che tentavano rimettere Tarquinio sul trono: ed aveva decretato che si applicassero ogni anno per li sagriGcj e pe' giuochi cinquecento mine di argento ; e puntualmente ve le applicarpno fino alla guerra con i Cartaginesi. In questi sacri giorni si fàoeano molte cose conformi alle greche usanze circa il concorso , 1' acco­glienza de' forestieri, e le immunità, cose tutte bea diflìcili a descriversi. Le cose poi, che concernono la pompa, i sagrifizj, ed i cerumi, erano come sieguono, e ben da queste si possono argomentare , quali fosserp ancora, le tante che sen Uciono.

LXXII. Prima che si desse principio ai giuochi, le persone che aveano il potere più grande, avviavano dal Campidoglio la pompa, conducendola pel Foro al Circo Massimo: e nella pompa eran primi i lor figli prossimi alla pubertà : ma que' garzoncelli che poteano per 1* età far parte della pompa ne andavano a cavallo "se fossen di equestre famiglia , o a piedi , se a piedi dovessero militare: e quali ne andavano ad ale e caterve, e quali a corpi ed ordinanze maggiori come per essere istruiti: e ciò perchè fosse visibile ai forestieri la gioventù Ro>

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tnana cHe en per giungere alla età militare, e quanto ne fosse il numero, e quanta la bellezza. Venivano ap­presso loro i guidatori di quadrighe , di bighe, ed altri che pompeggiavano su cavalli' non aggiogati. Seguivano quindi i combattitori di certami leggeri o gravi; e nudi si vedevano, se non quanto velavano le parli del sesso. E tal costume conservasi ancor tra' Romani come nei principi aveasi pure tra' Greci , finché tra' Greci vi fu tolto dai Spartani: Perchè il primo che prese a nudarsiIl corpo e nudo corse ne* giuochi Olimpici nella olim- (liade decimàquiuta fii Acanto di Lacedemonia; laddove innanzi lui vergognavansi i Greci di avere tutto nudoil corpo ne' spettacoli, come certidca Omero scrittore antichissimo e degnissimo più che tutti di fede, il quale introduce gli eroi cinti da una zona. Quindi descrivendoil certame di Ajace e di Ulisse ne'funebrì onori di Par trodo disse :

Sceser cìnti di zona amii alla pugna.

E ciò dichiara ancor più nell’ Odissea, narrando il pu< gilato di Irò e di Ulisse in tal modo :

SI disse ; e tutti eneomiaro Vlisse ,E di una zona circondando i lombi,Gli ampj e vaghi suoi femori scopria ,E nude sen vedean le vaste spalle ,Nudo il petto t e le Iraccia.

Ed introducendo quel misero che non volea combattere, ma ne temea ; scrive :

Cosi diceano : ad Irò il cor si scosse .<Cinserlo i proci di una zona , e tutto Tremante lo sospinsero alla pugna.

4o 8 DELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE

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LIBRO VII. '4 0 9

Tal costume primitivo de' Greci serbato fino all’ ultimo tempo dai Romani dimostra die questi non lo appresero nltimamente da noi , anzi clie non lo mutaron col tempo, come abbiamo noi fatto. Tenean dieUro agli atleti , cori di salutori divisi in tre bande : erano i primi adulti, imberbi gli altri, e giovani gli ultimi ; venivano quindi sonatori cbe davan fiato a tibie di an> tica forma, e picciole, come costumasi ancora, e cita­redi che toccavan c<J plettro lire eburnee di sette cM^e, ed altre ancora di p iù , barbiti nominati. Di questi era mancato l'uso ne'miei tempi tra'Greci quantunque fosse lor proprio: ma tra’ Romani conservasi in tutti i sagri- fizj di antico rito. Erano l ' apparato de' salutori pur» puree toniche, cinte con metalliche fasce , e spade che ne pendeano , ed aste anzi corte che giuste : vedeasi negli altri uomini elmo di bronzo con cimieri vaghi ; e pennacchi cbe 1' adornavano. Era di ogni coro il duce un uomo il qual dava agli altri la forma del ballo ; rappresentando moti marziali e vivi, con ritmo per lo più proceleusmatico (i). Era greca antichissima pratica anche quella di saltare colle armi é Pirrica si chiamava, sia che Minerva cominciasse la prima dopo la disfatta de' Titani a danzare e saltare colle arme tra cantici trionfili per la vittoria ; sia che prima ancora fosse il

(i) Proceleusmatico chiamavati no piè tnetrico di quattro sillabe breri : e qi^iadi «i diceaao wf»xt\ivrftMTticm i veni che

conteneano qae' piedi. Forse furono cosi detti perchè solcano pte- metlersi, cantandoli, r t ì f xiAivr/«tr< vuol dire alle esortazioni

o comandi. Quindi il ritmo proceleusmatico ne ' balli dovrebbe avere allusione a tati piedi o versi, ed esortazioni.

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4 l O DEL LE a n t i c h i t à ’ BOMANE

rito intrOiiotto da' Cureti , quando educando Giove leano cai$ezzarlo col «nono delle arme, e con lieti moti e cadenze, come la favola narra. Omero pià ^oite , e principalmente netta formazione de|lo scudo che dice donato da Vulcano ad Achille, mostra l'aatichità di questo rito, e la nascita sua tra’Greci. Imperocché rap* presentando in esso due città , l ' una ornata di pace bella, e l’ altra sUraziata dalla guerra, delinea, com’era naturale, la feUdià di quella con feste, con matrimonj, e conviti, e dice :

Faeeott la daeta i giovani, e frattm ta Udiasi il $uon di tibie, e cetre ; t tutte , Meravigliando ai limitar di casa,Slavati le donne.

E dì nuovo effigiando con vago ornamento nello scodo un altro coro di giovani e di vergini Cretesi dice :

Aveaci etpresto V ìncUto Vulcano Un vario coro somigliante a quello Che Dedalo firmò per Ariama,Che in sì óei ricci aven la chioma attorta:Qui giovinetti e ver^nelle v a ^ e ,Tenendosi per man , facean lor dama.

Ed esponendo 1' ornamento di questo coro per dichia­rare che i giovani saltavano colle arme, scrive :

E quelle avean va^e ghirlande, e questi Aim te spade a cinti argentei appese.

E parlando dei, duci del salto loro , di quelli che da­vano agli altri le prime mo^e , dice :

Il popolo prendea dolce dilettoIntorno al coro; e due de’saltatoriGian cantando e danzando a tutti in mezzo,

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Nè solo potrem Tedere la somiglianza co' greci riti da queste danze maniali ed ordinate, osate da' Rpmatit ne' sagriGcj e nelle pompe, ma dalle danze ancora satl* ricfae e derisorie. Dopo i cori armati vedeansi io mostra cori imitatori de* satiri, non dissimili dalla greca Siciii* ne (i ). L’ abito in chi rappresentava un Sileno erano ispide vesti, chiamate da . alcuni Cortee (a) ; e roadti con ogni varietà di Gori: in quelli poi che somigliavano un satiro erano perizomi e pelli caprine, e sai capo criniere irte di lioni, e cose altrettali. Or questi befiit» vano e contraffaceano serj moti, spai^endovi del ridi» colo : e gli andamenti de' trionfi assai palesano che era antico e proprio de'Romani il motteggio e la satira. Imperocché permettevasi a quelli che segnivan la pom[ia lanciar beffe e giambi su gli uomini più riguardevoli, e fino sa'comandanti ; siccome un tempo in Atene era permesso che ne lanciasser quelli che sul carro segui» tavan la pompa , e dhe ora cantai versi improwisL Edio ne' funerali di personaggi cospicui , specialmente M già fertanati, vidi tra le altre pompe cori in forma di satiri che precedevano il feretro, e saltavano come nefla Sicinne. Che poi il gioco e la danza alla guisa de'satiri non fu ritrovamento de' Liguri nè degli Dmlvi nè di altri barbari , abitanti dell' Italia , ma de’ Greci} temo di sembrare molesto, volendo a lungo convincere una cosa deUa quale già si conviene. Dopo questi cori pas>

( i ) Vosfio «crire più co«e intorno a ^aeuo genere di Mllatisiie nel I. a o. 1 9 . Inttilut. Poet.

(a) Cortee proviene queslà voce da ohe t i g n i f i c a e r -

baec.

LIBRO VII. l ^ l t

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4 i 2 D ELLE a n t i c h i t à ’ ROMANE

savane mdti sonatori di tibie e di cetere: e poi quelli che portavano profumi di aironhi e d’ ÌDcensi, e quelli che portavano lavori meravigliosi di oro e di argento ^a de'templi, sia del comune. Venivano in ultimo della pompa recati su le spalle di uomini i simulacri divini , foggiati come quelK de' Greci quanto alla forma , agli abiti, ai simboli ed ai doni, secondo che que’numl es* sendone stati i trovatori, gli aveano, ciascuno , donati ai mortali, nè solo v' erano i simulacri di Giove , di Giunone , di Minerva, di Nettuno , e degli altri che li Greci contano tra i dodici numi (i); ma di altri più antichi da' quali la favola origina i dodici ; io dico i simulacri di Saturno, di Rea , di Temide, di Latona, delle Parche, di Mnemosinie, in somma di tutti, quanti haa tempii, ed are fra i Greci, come quelli de' numi c|ie fiivoleggiansi nati dopo che Giove ottenne l’impero, Vuol dire quelli di Proserpina , di Lucina, delle Ninfe, ideile Muse, delle Ore,, delle Grazie, di Bacco, é quelli de'semidei, l'anime de'qaali spogliate del corporeo frale xticeansi andate in cièlo, e godervi onori simili ai divini, <doè quelli di Ercole, di EscuUpio, di Castore e Poi* luce , di ^ena , di Pane, e di altri mille. Se dunquei fondatori di Rocna eran barbari, e se v'istituiron tal festa; jcom'era possibile mai che adorassero tulli i numi e genj della Grecia, negligentando i propr) ? Almeno mi si. dimostri un altra gente non greca, la quale avesse

( i) Erodoto narra nel libro sacondo che t Greci derivarono que­sti dodici Numi dagli Egizj. L'interprete di Apolluaip scrive ciia questi èrano: Giove, Apollo, Mercurio, Nettnao , Marte, Valcaao^ Giunone, Diana, Pallade, Cerere, Venere , e Vesta.

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tali sante cose come nazionali ; ed aHora si condanni lai mia {limosuasione come non buona. TerminaU la pompa facean sagri6zio i ^consoli e qua' sacerdoti a'quali spet- lavasi, e la forma del santo rito era quale appunto tra noi. Lavatesi le mani , lustrale le viuime con acqua pura, sparsi i frutti di Cerere sui capo di esse , e poi fatti de’voti, comandavano infine ai loro ministri d'im ­molarle. E quale di questi mentre la vittima era in piede ancora ne percotéa le tempia colla mazza, e quale nel cadere la trafiggeva colle cehella. E poi scor­ticandola e squartandola prendean le primizie di cia­scuno de’ visceri e di ogni membro : e sparsele con fa­rina di farro , le portavano ne' bacini a quelli che sa- grificavano : e questi soprappostele ali' altare , le arde-< vano, e spruzzavano intanto di vino. £ poi facile in­tendere dalle poesie di Omero essersi ciascuna di queste cose fatta secondo le leggi istituite da’Greci pe'sagrifiz^: percioc(!liè descrive gli eroi che si lavan le mani ed usano farina di farro con sale dicendo :

E laparon le mani, e sparser farro :

E che ne tagliano i capelli e li gittano al foco in quei detti :

Ma cominciancb il santo rito getta 1 capelli sul foco :

E li descrive che colpiscono colle mazze in fronte le vittime, e che cadute le immolano come fa nel sagri- fizio di Emeo.

Percofela, di quercia alzando un tronco.Cui rapido poi lascia ; e lascia insieme Lo spinto la vittima, e qid gli altri Miseria in èrani, e ne arrostirà . . .

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‘4 l 4 d e l l e a n t i c h i t à ’ r o m a n e

E descrivdi òhe pigliano le (HÌarizie delie viscere , e di altri membri, e le iafàrinaao, e le braciaDo sa gK altari: cooae fa nel s^rificio OK^esimo.

E da ogni parte le primiziv pigliaVe’ memlri tutti, e crudi ancor U copreDi grasso , e di farina ; e da^ì al foco .

Ora io so per averlo vedato, che i Romani osservano ancora tali riti ne'loro sagrificj: e su questo argomento, anche solo , mi rendei certo, che i fondatori di Roma non furono barbari, ma greci venuti da tutte le parti. Ben può essere che alcuni barbari somiglino in parte ai Greci nelle istituzioni de' sagrifizj, e delle feste ; ma che in tutto somiglino toro, ciò non è verisimile.

LXXni. Mi resta ora di dir brevemente de’ giuochi che ikceaao dopo la pompa. Era prima la corsa delie quadrighe, delle bighe, e dei cavalli sciolti, come nei giuochi Olimpiaci e Pitiaci de'Greci in antico, e 6 d

di presente. Ne’ certami equestri si conservano ancora tra’ Romani due istituzioni antiche , come furono fon­date in principio, quella, cioè de’ carri a tre cavalli, la quale ora in Grecia è cessata ; sebben vi fosse atto tichissima e già ne' tempi eroici ; introducendo Omero de’ Greci che ne usarono nelle battaglie. Imperocché essendo due cavalli congiunti come nelle bighe un terzo accompagnavali contenuto e tratto colle redini, e chia­mato parioron appunto dall' esser più libero ; e non come gli alu-i in biga. L’ altra cosa di cui restano an­cor le vestigie ne'riti antichi di aleune poche città di Grecia è la corsa di quelli che andavan su' carri ; pe-

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rocchè finite 1 gare a cavallo , smontati dal carro qudli che vi sedeano presso de' guidatori, e che li poeti chia* roano parabati, e li Ateniesi chiamano apobati (i) contendeano infra loro correndo nello stadio. Adunque dopo le gare equestri entravano in campo quelli che de' corpi loro facean prova , cursori, atleti, lottatori ; giacché questi erano i tre certami, antichi presso dei greci , come Omero ci fa intendere ne' funerali di Pa­troclo. Ne' tempi intermedi a queste contese presenta- Tansi uomini che faceano sul costume bonissimo, e propriissimo de' Greci, coronazioni ed onorificenze colle quali condecoravano i loro benefattori, come usavasi in Atene nelle feste di Bacco; e quindi poneansi in vista le spoglie che prendeansi nella guerra. Ora tali cose non era bene ucerle : noi volendo il subjetto, nè bene flafcbbe prolungarle oltra il dovei^. E già è tempo che io riprenda la narrazione interrotta. Appena il Se­nato riseppe da chi glie ne ravvivava la memoria , le vicende del servo spinto al supplizio, e come egli era r antesignano della pompa, concependo che questo fosseil previo saltatore non buono, significato, come ho detto, dal nume, ricercato quel si ofTensivo padrone , ed impostagli la pena che meritava, decretò nuova pompa allo Dio, é nuovi spettacoli, sontuosi il doppio de* primi. E uli sono gli eventi di quel consolato.

(i) Air*/8<£r«< cioi smonuii.

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