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APPUNTI DALLE LEZIONI DI DIRITTO COMUNE PROF.SSA A. SANTANGELO (IL PROCESSO CIVILE ROMANO-CANONICO) SECONDA PARTE

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APPUNTI DALLE LEZIONI DI DIRITTO COMUNE

PROF.SSA A. SANTANGELO

(IL PROCESSO CIVILE ROMANO-CANONICO)

SECONDA PARTE

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Abbandonate progressivamente, a partire dall’anno Mille, le prove ordaliche di marca germanica, si aprì la via alle prove razionali, praticate peraltro anche nell’età alto-medievale dalla Chiesa, contraria a prove volte a strumentalizzare il potere divino e a sollecitarne quasi a comando una manifestazione nelle vicende umane.

In un'epoca in cui mancavano per lo più archivi notarili e i documenti e le carte scritte in genere erano facilmente soggette a distruzione a causa di incendi o di guerre, la prova per testimoni costituiva la prova per eccellenza. La parte che intendeva avvalersene doveva innanzitutto compiere la publicatio testium, vale a dire comunicare per iscritto al giudice i nomi dei testimoni e i capitoli dell'interrogatorio che sarebbe poi stato condotto dal magistrato. Circa il loro numero, vigeva la regola che unus testis nullus testis (est), cioè vox unius vox nullius, secondo un principio giuridico che affondava le sue radici nell'Antico Testamento (Libro del Deuteronomio) e che aveva trovato successivamente conferma nel Codice e nel Digesto di Giustiniano e nelle Decretali di Gregorio IX. Pertanto due testi facevano piena prova, uno solo costituiva prova semipiena da completarsi dunque di necessità con altri strumenti probatori; ciò però non valeva in materia di danni alle coltivazioni nei campi dove bastava un singolo testimone per la difficoltà di rinvenire con facilità persone all’interno delle terre adibite a coltivazione.

I testi, per essere considerati degni di fede e dunque attendibili, dovevano presentare requisiti di conditio (condizione sociale idonea), sexus, aetas, discretio (capacità di discernimento), fama (buona fama), fortuna (condizione patrimoniale adeguata), fides (fede religiosa), valutati attentamente dal giudice. Venuto il momento della deposizione testimoniale, l'avversario doveva essere citato per assistere al giuramento dei testimoni di dire il vero - toccando il Vangelo - e all'esame dei testi medesimi, per essere messo in condizione di dedurre subito le controprove. Le deposizioni avevano ad oggetto esclusivamente il fatto (la sua qualificazione giuridica e la questione di diritto erano infatti di esclusiva competenza del giudice), venivano redatte per iscritto dal notaio della causa e dovevano essere obbligatoriamente rese entro il termine perentorio assegnato dal giudice. Erano altresì valide, secondo l'uso comune, le deposizioni rese prima della litiscontestatio dai testimoni c.d. affuturi, interrogati anticipatamente in esordio di lite e alla presenza della controparte previamente citata: l'urgenza si giustificava di fronte a soggetti gravemente malati oppure in età avanzata, reputandosi tale l’età superiore ai 50 anni, per i quali dunque si temeva la morte, oppure di fronte a persone in procinto di partire.

Ai testi non era consentito di correggere la deposizione resa validamente, se non nell'immediatezza del proprio intervento, poiché decorso un intervallo di tempo si presumeva che il teste fosse stato maliziosamente istruito su cosa dire dalla parte che lo aveva chiamato a deporre. Le loro parole, inoltre, si interpretavano, nel dubbio, contro la parte che li aveva prodotti. Il giudice, alla fine della deposizione, doveva leggerne il contenuto al testimone che l’aveva resa e chiederne conferma, dopodiché veniva assegnato alla controparte un termine per controdedurre.

La tendenza ad attribuire minor valore alla prova testimoniale e a richiedere di preferenza la prova scritta si avverte soprattutto nella legislazione posteriore al Cinquecento; nell’epoca precedente, al contrario, si diceva con convinzione che “dignior est vox viva testium quam vox mortua instrumentorum” (è più degna di fede la voce viva dei testimoni della voce fredda dei documenti scritti). Resta comunque un contributo della dottrina dei glossatori e dei commentatori aver dato alla materia delle prove documentali quelle regole e quella disciplina che non esistevano invece nel diritto romano, il quale non faceva alcuna differenza tra documento pubblico e privato, anche perché il diritto romano non attribuiva alla professione dei notai un carattere di ufficialità in virtù del quale ai loro atti fosse conferita l’efficacia di prova piena. Ai glossatori e ai commentatori va dunque il merito di avere elaborato l’odierna teoria dei documenti, riuscendo a costruirne le regole, col solito metodo interpretativo fondato sull’analogia, sulla base degli scarsi spunti offerti dalle fonti giustinianee.

Tra le prove scritte massimo valore era attribuito, nell’età intermedia, allo strumento pubblico redatto da un notaio, che faceva in giudizio piena fede se era stato confezionato in osservanza di tutte le formalità richieste: rogatio, cioè chiamata delle parti, da cui il termine moderno di rogito, presenza e la sottoscrizione dei testimoni, sigillo del notaio, infine data e luogo. Il sigillo del notaio era qualificato vox mortua, mentre le sottoscrizioni dei testi erano la vox viva del documento.

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L’importanza che veniva assegnata agli atti pubblici giustificava le sanzioni che erano comminate contro chi deteneva un documento che ad altri interessava e si rifiutava di esibirlo. La mancanza di archivi pubblici imponeva difatti severe misure affinché non fossero sottratte prove utili all’accertamento giudiziale della verità; così gli statuti autorizzavano i giudici a far perquisire le case e a fare arrestare chi non consegnava le scritture richieste. Le scritture private, quali le lettere dei privati, i libri delle corporazioni e i registri parrocchiali, avevano valore di prova se erano munite della firma di tre testimoni e del sigillo dello scrivente, o, in mancanza, se l’autore le riconosceva o si provava diversamente che egli le aveva scritte; ad esse era accordata in ogni caso un’efficacia probatoria tendenzialmente inferiore a quella dell'atto pubblico. Nell’età comunale si potevano compiere con scrittura privata anche compravendite di immobili, donazioni e testamenti, in alternativa all’utilizzo dell’atto pubblico. Anche i documenti privati non valevano senza limiti di tempo, fissandosi in linea di massima la scadenza ai 5 anni, con la conseguenza che, decorso il termine fissato dalla legge, le carte dovevano essere rinnovate. Secondo le elaborazioni dottrinali la confessione, giudiziale o extragiudiziale (in questo caso doveva essere però provata da testimoni), aveva la più completa efficacia probatoria e si presentava dunque come prova piena in pregiudizio di chi confessava, definita pertanto “optima regina probationum”: ottenuta la confessione dell'avversario, non era più necessario il ricorso ad altre prove; vi erano tuttavia delle eccezioni a tale principio tra cui l'incapacità di agire del soggetto, perché per esempio minore d’età o insano di mente, o la palese contrarietà della confessione alla verità (era dunque necessaria la sua verosimiglianza). Resa la confessione il giudice aveva l’obbligo di fondarsi su quella prova piena e decisiva. Doveva quindi pronunciare la sentenza, se la confessione era stata compiuta dopo la litis contestatio; se invece veniva resa prima della litis contestatio alla confessione seguiva in modo diretto il praeceptum del giudice immediatamente esecutivo. Viene poi in considerazione la materia del giuramento, del notorio e degli indizi. Il diritto canonico e la scienza canonistica diedero molta importanza al giuramento, creando nuove figure ignote al diritto romano: ne ampliarono l’applicazione e innovarono in punti di notevole importanza, in particolare elevando il giuramento a vero e proprio mezzo di prova là dove il diritto romano lo considerava semplicemente come surrogato di prova cui ricorrere in assenza di prove effettive. Vi era il giuramento suppletorio, deferito dal giudice alla parte che avesse un fondamento di prova, ma non una prova piena: la parte richiesta non poteva rifiutarlo senza perdere la causa. Perché il giuramento fosse valido doveva essere prestato da persona di buona fama e al di sopra del sospetto di spergiuro e in una lite di modico valore. Se entrambe le parti avevano provato le loro affermazioni con prove semipiene, cioè con prove non piene (un solo testimone anziché due o più, o poche presunzioni non in grado di dare complessivamente vita ad una prova piena), era nell’arbitrio del giudice deferire il giuramento suppletorio all’una piuttosto che all’altra, e la preferenza doveva comunque accordarsi a quella che si poteva verosimilmente presumere non avrebbe giurato il falso. Non erano idonei a prestare questo giuramento gli scomunicati, gli ebrei e gli usurai. Anche il iuramentum purgationis (purgatorio) aveva il favore del diritto canonico e venne accolto pure nella legislazione statutaria. Vi si faceva ricorso nei giudizi penali per consentire all’imputato di un delitto di difendersi dall’accusa qualora non vi fossero testimoni contro, e a carico del convenuto nelle cause civili in assenza di altri mezzi di prova. Vi era infine il giuramento decisorio, detto anche giuramento di verità che veniva deferito o dal giudice o dalla parte, in quest’ultimo caso però con l'approbatio iudicis, per porre fine alla lite giudiziaria. Non era tuttavia ammesso contro un atto notarile, né contro testi giudicati attendibili e nemmeno nelle cause matrimoniali; vi si ricorreva invece ampiamente per la stima dei danni.

Oltre a queste prove la dottrina elencava un’altra serie di strumenti probatori, costituiti dal notorio, dagli indizi e dalle presunzioni. In alcuni casi si consentiva difatti la prova attraverso il notorio, la fama, attraverso cioè la circostanza che un determinato fatto fosse noto a molti e quindi innegabile, stando sotto gli occhi di tutti.

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La fama e la notorietà di una circostanza dovevano essere provate per mezzo di testimoni disposti ad attestare l’esistenza di una publica voce; il numero dei testi, in genere 2 o 3, era variabile a seconda dei singoli ambiti in cui la notorietà veniva fatta valere. Infine, in tema di indizi e presunzioni notevole fu lo sforzo di civilisti e canonisti per ridurre tutta la materia entro schemi sistematici. Innanzitutto si definirono le presunzioni come prove generalmente semipiene, necessitanti dunque, per lo più, di essere integrate da altri elementi al fine di costituire piena prova, in nome del fondamentale principio che governava tutta la materia probatoria secondo cui “quae singula non prosunt collecta iuvant”: singoli elementi di prova di per se stessi insufficienti possono contribuire, se assommati ad altri, a creare una prova piena.

ALLEGAZIONI E CONSILIA

Come tutti gli atti del processo, anche le difese in fatto e in diritto degli avvocati, le c.d. allegationes,

dovevano essere redatte per iscritto, oltre che esposte a voce davanti al giudice, che doveva ascoltare con attenzione; non mancavano nel diritto comune regole precise sul modo di comporre le allegazioni: dovevano essere brevi, complete, senza false citazioni di leggi o errata interpretazione delle stesse e, a partire dal tardo Trecento, fondate sulla communis opinio. Il giudice poteva privare della parola l’avvocato arrogante, cavilloso e perfino quello troppo verboso e troppo loquace.

Dalle allegationes degli avvocati vanno tenuti distinti i consilia dati nel corso delle liti dai giuristi di professione. La prima forma di consulenza a venire in considerazione è il consilium sapientis: istituto di origine consuetudinaria, come documentato dallo Speculum iudiciale di Guglielmo Durante (1270), esso rappresenta il parere che negli ordinamenti comunali i giudici solevano domandare al giurista dotto per la definizione della causa. Professionisti della politica ma non altrettanto del diritto, consoli e podestà si rivolgevano dunque al sapiente (studioso indipendente che non sedeva a lato del magistrato) e riproducevano poi nella sentenza il consilium da lui ricevuto che garantiva così la giuridicità della decisione.

Nell’ambito della sententia secundum consilium va dunque sottolineata la perfetta separazione tra essenza (sostanza), formulata dal sapiens, ed esistenza (forma), posta autoritativamente dal giudice.

Ampiamente diffuso fino a tutto il ’500, il consilium sapientis iudiciale si avviò progressivamente al declino nel secolo successivo con l’affermarsi negli stati assoluti dell’autorevole e prestigiosa giurisprudenza dei Grandi Tribunali, formati da giuristi dotti e funzionanti secondo la regola “iura novit curia”; una residua vitalità fino a tutto il Settecento si mantenne in ogni caso presso le corti inferiori, per quanto i consilia tendessero a subordinarsi agli orientamenti giurisprudenziali dei tribunali supremi che potevano riformare in appello la sentenza che da quegli orientamenti si discostasse.

L’altro tipo di giurisprudenza consulente è rappresentato dai consilia elaborati su richiesta della parte desiderosa di produrli al giudice come elemento di convinzione. L’uso dei giureconsulti di dare pareri scritti anche alle parti si afferma soprattutto a partire dal Trecento, in seguito all’aumento della litigiosità, dovuto al tramonto del sistema feudale e all’incremento delle ricchezze, e in seguito al sempre più pressante bisogno di orientamento dei litiganti nella selva delle norme giuridiche e delle interpretazioni dottrinali.

I consilia pro parte rappresentano qualcosa di diverso e di qualitativamente superiore rispetto alle memorie difensive degli avvocati (le allegationes) che venivano ad integrare: emessi essenzialmente pro veritate (da cui la denominazione), erano tendenzialmente caratterizzati da una maggiore oggettività ed imparzialità di valutazione della lite.

Il giudice cui il consiglio era direttamente o indirettamente rivolto voleva essere informato, più che dell’opinione personale del consulente, del diritto da applicare che, in un sistema di diritto giurisprudenziale, era essenzialmente rappresentato dalle interpretazioni dei giuristi; insomma, il parere rivestiva tanta più importanza agli occhi del magistrato quanto più poggiava su numerose e accreditate opinioni simili, che il consulente ricercava nelle opere della dottrina del diritto comune e tra le raccolte di consilia esistenti. Di qui dunque l’abitudine dei consulenti di ricercare sui singoli punti di diritto la coincidenza di opinioni delle maggiori autorità, considerando determinante tale circostanza.

Pur implicando la rinuncia all’indipendenza e alla creatività del singolo giurista, la communis opinio si presentava come il necessario prodotto del bisogno di certezza in un sistema giuridico in cui la legge era

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insufficiente, la dottrina universitaria tendeva alla ripetizione di insegnamenti ormai vecchi e superati e dunque il ruolo di guida all’interno del sistema giuridico veniva ad essere assunto dal giurista pratico (il forense).

LA PROCEDURA SOMMARIA

La legislazione pontificia, fin dal XII secolo aveva cercato di semplificare, nelle curie ecclesiastiche, le

formalità procedurali e di abbreviare la lunghezza dei processi, soprattutto nelle cause beneficiali (relative alla distribuzione delle cariche ecclesiastiche e dei relativi patrimoni tra i membri del clero) la cui natura particolarmente delicata richiedeva una maggiore speditezza. Questa innovativa normativa ecclesiastica raggiunse l’importante risultato di avvicinare al processo sommario anche la dottrina civilistica, in origine comprensibilmente legata al rigoroso dettato delle norme romanistiche sui tempi del rito ordinario. La Chiesa, infatti, dagli inizi del secondo millennio, si era trovata ad essere titolare di una larga proprietà fondiaria che venne a costituire, in breve tempo, la base di continui litigi, che trovavano la loro origine nell’intricata materia dei conferimenti ai chierici degli uffici ecclesiastici e dei relativi patrimoni. Divenne quindi di primaria importanza iniziare a risolvere queste vertenze con una procedura più sollecita e semplificata, senza però sacrificare la piena cognizione delle liti.

I pontefici, dunque, cominciarono a prescrivere ai vescovi investiti della funzione di giudici ecclesiastici nelle rispettive diocesi di procedere summarie, de plano, sine strepitu e sine figura iudicii, quando ci fosse il consenso di entrambe le parti: in particolare con l’espressione summarie si intendeva la riduzione dei termini; de plano significava facoltà di ascoltare le parti anche nei giorni festivi e addirittura di notte; sine strepitu alludeva alla limitazione dei testimoni e delle perorazioni degli avvocati, e infine sine figura iudicii comportava la soppressione delle formalità.

Papa Clemente V (1305-1314), con la famosa costituzione Dispendiosam del 1312 (Clem. 2.1.2), riconobbe ai giudici la possibilità di optare per il rito abbreviato per le cause di diritto matrimoniale e beneficiale, indipendentemente dalla richiesta delle parti, ed estese il procedimento sommario anche alle cause in appello.

Veniva in questo modo riformato il sistema processuale formale e solenne, con una notevole semplificazione delle procedure: si conservavano gli atti e le solennità che avevano valore sostanziale ed irrinunciabile e si omettevano le mere formalità. La concreta applicazione di queste disposizioni era comunque, come è evidente, rimessa in buona sostanza all'arbitrio del giudice. Nell'ambito del processo sommario un favore particolare era accordato alle cause possessorie. La parte che aveva subito lo spoglio di un bene, secondo le regole processualistiche di origine romanistica, agiva in giudizio intentando contemporaneamente il giudizio petitorio, volto ad accertare la titolarità del diritto di proprietà, e il giudizio possessorio, rivolto all’accertamento della spettanza del possesso del bene. In questo contesto, nel diritto intermedio, si riconosceva all’attore il privilegio di sospendere il giudizio petitorio e proseguire il solo giudizio possessorio con le modalità del rito sommario, al fine di ottenere una rapida reintegrazione nel possesso del bene sottrattogli, senza entrare, momentaneamente, nel merito del diritto di proprietà. Si voleva così ovviare alla lunghezza del giudizio ordinario e procedere e senza ritardi alla difesa del possesso, attraverso la prova del possesso originario e dell’avvenuto spossessamento, per conservare, almeno provvisoriamente, la condizione iniziale delle parti, in vista del successivo accertamento della spettanza del diritto di proprietà. Ulteriore peculiarità del giudizio possessorio era che la reintegrazione del possesso avveniva anche attraverso prove del possesso e dello spoglio normalmente ritenute incomplete, come la testimonianza de auditu (di aver cioè sentito dire da altri, normalmente prova insufficiente, a differenza della testimonianza de visu, cioè oculare) e la notorietà. Viceversa, se risultava evidente la mancanza del diritto in capo allo spogliato, il bene non veniva restituito, anche qualora fosse stato appurato che nemmeno il convenuto era proprietario della res litigiosa.

LA SENTENZA

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Terminati tutti gli atti processuali delle parti ed esauriti tutti i mezzi di prova, veniva richiesta al giudice dai contendenti - o da uno di essi - la conclusio in causa. La conclusione era un atto formale, dato per iscritto, che importava il divieto per le parti di presentare nuove prove e nuove allegazioni, con la richiesta del quale si sollecitava al magistrato la pronuncia della sentenza definitiva.

La prassi finì tuttavia col permettere, anche dopo la conclusione, non solo le semplici informazioni, ma pure la produzione di nuove prove fino alla citazione delle parti ad audiendam sententiam: si voleva, dunque, favorire senza riserve il pieno accertamento della verità dei fatti, anche in extremis, attraverso l’esibizione di documenti appena scoperti, confessioni inizialmente non prestate e deposizioni di testimoni prima ignoti. La sentenza definitiva, se pronunciata dal giudice secondo le formule di rito, costituiva la decisione giudiziale della res litigiosa e metteva fine al processo. Primo obbligo del giudice era di pronunciarsi entro il termine prestabilito a partire dal conclusum in causa, in genere fissato dalle norme locali a 10 giorni. Le solennità richieste per la sentenza, la cui inosservanza determinava la nullità dell'atto, erano in gran parte quelle di diritto romano e consistevano nella forma scritta, nella lettura pubblica in presenza delle parti regolarmente citate ad audiendam sententiam e nella pubblicazione. Quanto al contenuto, l'atto di chiusura del giudizio, di estrema brevità e semplicità, doveva riportare il nome del giudice e delle parti, esprimere in sintesi le fasi del processo (“viso libello”, “testibus et positionibus visis” etc.) e contenere il dispositivo, cioè l’accoglimento o il rigetto della domanda dell’attore così come formulata nel libello introduttivo della lite. Non era richiesta la motivazione della pronuncia. A pena di nullità della sentenza, le parti dovevano essere citate ad audiendam sententiam con indicazione del termine perentorio nel quale presentarsi, con la consueta formalità delle tre citazioni consecutive compiute dal messo del tribunale, a seconda dei casi, ad personam, ad domum e per edictum (v. supra). Accanto alle sentenze definitive vi erano poi quelle interlocutorie che si pronunciavano su presupposti processuali (competenza del giudice, revoca di un attentato etc…) o su questioni di merito incidentali, non dedotte nella domanda dell'attore né nelle risposte del convenuto (ad es. assegnazione degli alimenti in via provvisoria in cause dotali o di accertamento della paternità). Tali pronunce erano sempre appellabili ed avevano in certi casi l'efficacia di sentenze definitive, ponendo fine alla vertenza, come avveniva ad esempio per le sentenze dichiarative dell’incompetenza del giudice. Le norme e la dottrina di diritto comune esigevano per le interlocutorie forme e solennità minori rispetto alle sentenze definitive, non reputando necessarie né la scrittura né la citazione delle parti; siffatte sentenze, però, non potevano essere pronunciate in giorni festivi (a differenza delle sentenze definitive), in quanto tappa intermedia del processo che, secondo il rito ordinario, non si poteva svolgere in giorni festivi. Alle sentenze che avessero percorso tutti e tre i gradi di giudizio, o per le quali fossero inutilmente decorsi i termini 'fatali' (perentori) per l’impugnazione, era riconosciuta l'efficacia di res iudicata che impediva ulteriori contestazioni sulla stessa cosa e tra le stesse persone. Il concetto di cosa giudicata non richiedeva un intervento ad hoc ma operava automaticamente in presenza di una tripla sentenza conforme. E' evidente che la res iudicata, dando vita ad una presunzione di verità, mirava a dare stabilità e certezza ai diritti dei privati, attribuendo carattere irrevocabile ad una pronuncia pur difettosa nelle forme o falsa nel merito. Si garantiva in questo modo alla sentenza passata in giudicato la forza di creare una verità formale, vale a dire una situazione giuridica incontestabile che veniva tutelata contro ogni tentativo di ulteriore impugnazione.

LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA

La motivazione della sentenza non era obbligatoria nel processo romano-canonico e per tutta l’età medievale la si incontra pressoché esclusivamente nella prassi della Rota Romana. Le leggi e la dottrina, infatti, non la richiedevano, e sarebbe stato pericoloso per il giudice formularla ugualmente poiché la sentenza

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avrebbe potuto essere dichiarata nulla se la motivazione fosse stata trovata falsa o erronea; pertanto i giudici scelsero, per lo più, di non motivare le proprie pronunce sia nelle cause civili che – con conseguenze ancora più devastanti per le più gravi implicazioni - in quelle criminali.

L’obbligo della motivazione, strenuamente sostenuto dalla dottrina illuministica settecentesca per liberare le parti dall’arbitrio dei giudici e sottoporre questi ultimi a controllo e alle conseguenti responsabilità, verrà introdotto nelle legislazioni italiane e più in generale europee a partire dalle moderne codificazioni ottocentesche.

L'APPELLO

Tipico rimedio ammesso contro le pronunce giudiziali era, allora come ora, il reclamo al giudice

superiore tramite appello. Si trattava sia di un mezzo di adizione del supremo tribunale contro sentenze di primo grado delle autorità giurisdizionali inferiori, sia di un mezzo di riesame di vertenze già giudicate in secondo grado presso l’alta corte di giustizia, per le quali era tuttavia prevista l’impugnazione davanti a giudici diversi dello stesso supremo organo giudiziario per un’ulteriore istanza di giudizio: soltanto infatti di fronte a tre sentenze conformi la lite poteva considerarsi veramente conclusa. L'appello, che poteva essere proposto in ogni causa e contro qualsiasi sentenza, era diritto di tutti, e non solo del soccombente ma anche del terzo che provasse il suo interesse e il danno a lui derivato dalla pronuncia che veniva impugnata.

Persino il contumace, secondo la dottrina prevalente, poteva ricorrere al giudice d'appello, purché si trattasse di ficte contumax, cioè di soggetto citato non personaliter bensì ad domum o per edictum e non comparso in giudizio: poiché la citazione non gli era stata intimata di persona, non gli si imputava la colpa di non essersi presentato in giudizio. Questi poteva dunque ricorrere al giudice superiore entro il termine di dieci giorni previsto dal diritto comune, che per lui decorreva, però, non dal momento della lettura della sentenza (alla quale non aveva assistito) ma dal momento della sua conoscenza; restavano comunque validi gli atti esecutivi nel frattempo intrapresi, decorsi dieci giorni dalla pronuncia della sentenza.

L'appello andava presentato al giudice di primo grado nel termine romano di dieci giorni dalla pronuncia della sentenza, accolto anche nel processo canonico: si trattava del decedium appellationis previsto da una Novella di Giustiniano (Nov. 23, c. 1), seguito anche nelle curie ecclesiastiche e confermato dalla dottrina processualistica sia civile che canonica. Ricevuto l'appello, il giudice a quo era obbligato a rilasciare, su richiesta della parte soccombente, i c.d. apostoli (in greco “inviati”), o litterae dimissoriae, con cui inviava al giudice superiore la richiesta di riesaminare la causa, insieme con la sentenza e tutti gli atti del processo. Dati gli apostoli, il giudice a quo assegnava all'appellante un termine ad prosequendam appellationem entro cui raggiungere il tribunale superiore e introdurre la causa davanti al giudice dell'appello. Il magistrato d’appello, ricevuti gli apostoli, ordinava al giudice inferiore di sospendere la prosecuzione del giudizio e tutti gli atti di esecuzione della prima sentenza (atto denominato inhibitio), in attesa della nuova pronuncia: ogni atto compiuto dal primo giudice sarebbe stato pertanto revocato quale attentato alla litispendentia davanti al secondo magistrato. Si richiedeva, per la validità dell'inibizione, la citazione della controparte. Il giudice ad quem, a questo punto, aperti gli apostoli contenenti gli atti processuali e la sentenza, e riconosciuta la regolarità della sua adizione, notificava l'appello alla controparte (appellato), con le consuete formalità previste per l'atto di citazione e nel termine di un mese prescritto dalla clementina Causam alla rubrica De electione. Introdotta la causa, il giudice superiore riesaminava la controversia, generalmente con rito sommario, senza libello e senza contestazione della lite. Davanti al secondo giudice era ammessa la deduzione di nuovi mezzi di prova non presentati in primo grado, come previsto dal diritto canonico e sostenuto con decisione anche dalla dottrina. Si riguardava infatti l'appello come un nuovo processo in cui i litiganti erano abilitati a proporre ulteriori riscontri oggettivi.

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Il processo d’appello doveva concludersi entro pochi giorni, secondo quanto prevedevano le norme statutarie, mentre il diritto romano fissava il limite di un anno per la conclusione del giudizio d’appello e il diritto canonico accordava addirittura un intero biennio. Si ammetteva peraltro, contro il decorso dei termini 'fatali', la restitutio in integrum ad appellandum.

LA QUERELA DI NULLITA' Accanto all'appello, vi era, tra le forme di opposizione alla sentenza, la quaerela nullitatis. Il rimedio della querela, già in parte elaborato dal diritto romano ma perfezionato nell'età di mezzo soprattutto dalla scienza canonistica, veniva utilizzato nei confronti di quelle pronunce talmente viziate nella forma che ad esse si arrivava persino ad escludere l'efficacia di sentenze, per la presenza di errori macroscopici nell'applicazione della legge o di difetti per solennità non osservate. Si distingueva in sostanza nel processo romano-canonico tra ingiustizia e nullità del giudicato, tra error in iudicando e error in procedendo, e si provvedeva al primo con l'appello e al secondo con la quaerela nullitatis. Rendeva la pronuncia nulla, secondo il diritto comune, la palese violazione e la palesemente falsa interpretazione delle leggi, e gli errores in procedendo, quali ad esempio il difetto di competenza del giudice, la mancanza della citazione, l'illegalità della procura, la non stesura per iscritto della sentenza o la sua pronuncia fuori dai termini processuali, nonché la corruzione dell'organo giudicante. Il giudizio sulla nullità veniva proposto al giudice di secondo grado, il quale poteva quindi annullare la sentenza e sostituirla con una nuova pronuncia. La quaerela nullitatis poteva persino essere deferita assieme all'appello, poiché era ammesso il cumulo dei due rimedi secondo la comune opinione dottrinale recepita anche dalle norme statutarie; in tal caso il giudice prima decideva sulla nullità e poi, in caso di pronuncia che escludeva la nullità, esaminava l’eventuale iniquità. La querela, pur essendo perpetua e non sottoposta a termini, si poteva tuttavia presentare una sola volta: la sentenza resa in proposito era infatti definitiva e contro di essa era precluso ogni altro ricorso e rimedio.

GLI ALTRI RIMEDI CONTRO LE SENTENZE

Contro le sentenze era esperibile anche la restitutio in integrum, rimedio straordinario cui si ricorreva solo quando non era più possibile l’esercizio dell'appello per il raggiungimento della res iudicata. Costituiva giusto titolo per chiedere la restituzione il ritrovamento di nuove prove, testimoniali o documentali, inizialmente ignote alla parte soccombente, da indicare pertanto nell'atto introduttivo della causa come elementi utili da far valere contro la sentenza passata in giudicato; doveva trattarsi di argomenti rilevanti, tali cioè che, se utilizzati tempestivamente, avrebbero determinato fin dall’inizio una pronuncia diversa.

Vi era poi il rimedio della supplicatio, forma di ricorso al principe contro sentenza divenuta inappellabile, che differiva dall’appello per il maggior tempo dato per presentarlo, di due anni dalla sentenza definitiva, e per il suo carattere di rimedio straordinario di grazia, dipendente dalla benignità del sovrano.

Anche la revocazione era un mezzo straordinario di impugnazione delle sentenze che i giuristi giustificarono sulla base di norme sia romane che canoniche. La finalità era quella di ottenere una riforma della sentenza di primo grado da parte del medesimo giudice che l’aveva pronunciata. Tale revocatio era ammessa se il giudice fosse stato tratto in inganno da uno dei litiganti o avesse giudicato sulla base di documenti scoperti come falsi dopo la sentenza o nel caso di documenti ignorati dalla parte soccombente o prima non producibili per difficoltà oggettive.

IL PROCEDIMENTO DI ESECUZIONE FORZATA

Fin dall’altomedioevo, anche nei periodi di maggiore indebolimento dei poteri pubblici, i vertici istituzionali non abbandonarono mai del tutto all’azione del privato, vincitore in sede processuale, la realizzazione del diritto consacrato nella sentenza divenuta cosa giudicata, ma intervennero direttamente con mezzi di coazione contro la resistenza che eventualmente opponeva il soccombente. In tutti i periodi di civiltà

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e presso tutti i popoli si avvertì in sostanza che, senza esecuzione forzata, la legge sarebbe stata inutile e la giustizia una parola vuota di significato.

A partire dall’XI secolo i giudici comunali assunsero il compito di portare ad esecuzione le proprie sentenze. L’esecuzione presupponeva però uno stadio di perfezione nell’organismo politico e una acquisita autorità da parte del potere centrale che solo lentamente conseguirono i comuni dell’Italia centro-settentrionale e le monarchie del Mezzogiorno. Inizialmente, nei primi tempi del comune, si faceva ricorso, per l’esecuzione delle sentenze civili, ai mezzi adoperati contro la criminalità, cioè il bando e la confisca dei beni: si puniva così la persona per l’offesa all’ordine del giudice di dare esecuzione alla sua pronuncia, offesa equiparata ad un reato. Appena però venne raggiunto un regolare assetto, i comuni si dedicarono in modo specifico alla disciplina dell’esecuzione forzata delle sentenze civili, per rispondere alle esigenze di una più elevata civiltà e alle più complesse relazioni giuridiche dipendenti dall’esercizio di attività economiche: si imponeva in sostanza la realizzazione di misure per rendere sicuri e spediti i diritti dei creditori.

Ancora nel XII secolo l’esecuzione privata sulla persona e sui beni del debitore, di marca germanica, non era del tutto scomparsa. Pertanto, il debitore che non pagava il suo debito riconosciuto da regolare sentenza di condanna veniva consegnato dagli organi pubblici al creditore che poteva o adibirlo al compimento di prestazioni di lavoro presso di sè per estinguere le sue obbligazioni, oppure togliergli la libertà, facendolo chiudere in carcere; se poi il debitore inadempiente fuggiva dalle carceri, il comune rispondeva del debito al creditore, per la negligenza manifestata nella custodia del carcerato. Questa prassi era prevista dagli statuti e ammessa anche dalla dottrina, sia nei riguardi dei debitori forestieri, che nei confronti dei concittadini.

Altra alternativa per i creditori rimasti insoddisfatti dopo la condanna definitiva era l’occupazione dei beni del debitore insolvente che venivano così presi in pegno. Ciò era spesso consentito anche da specifiche clausole inserite nei contratti, con le quali il debitore autorizzava il creditore a pignorargli i beni, esercitando così nei suoi riguardi un’esecuzione reale: era questo il pactum de ingredienda possessione - conosciuto anche dal diritto romano - inserito, secondo lo stile notarile di redazione dei documenti, nei contratti da cui nascevano obbligazioni a carico di una sola parte; in tal caso non era neppure richiesto uno specifico provvedimento del giudice che autorizzasse l’esecuzione forzata, che si definiva pertanto come esecuzione convenzionale, ovvero stabilita con pattuizione tra le due parti al momento stesso della stipula del contratto.

Tali strumenti di esecuzione erano residui di una pericolosa autogiustizia e contrastavano con quei principi di ordine e di autorità che il comune cittadino voleva attuare, nel senso che l’esercizio della giustizia nella sua interezza, inclusa l’esecuzione delle sentenze, fosse di esclusiva competenza dei consoli o del podestà; gli uni e gli altri al momento dell’assunzione della carica giuravano infatti di assistere i titolari di diritti soggettivi e di impedire che i privati o per arbitrio o per patto scavalcassero l’autorità pubblica e ricorressero alla giustizia privata. Nel comune dunque, in linea di principio, i poteri di esecuzione erano esclusivamente nelle mani del giudice che agiva in nome dei suoi diritti giurisdizionali; col tempo si affermò pertanto il principio che il creditore, con le sole clausole convenzionali, nulla potesse fare di propria autorità, ma dovesse ottenere dal giudice un provvedimento ad hoc e avvalersi dell’aiuto degli ufficiali del comune al fine di ottenere sequestro, immissione in possesso o arresto del debitore.

Numerosi statuti minacciavano dunque pene a chi effettuava pignoramenti di propria autorità sui beni del debitore, ma l’ordine esplicito, contenuto nelle legislazioni municipali, di non procedere all’esecuzione senza licenza del giudice induce a ritenere che ancora in pieno Trecento e Quattrocento i creditori avessero più fiducia nelle proprie forze che in quelle dei pubblici poteri. A questi ultimi non mancava certo la volontà di sostituire ad un sistema di giustizia privata un razionale apparato di intervento esecutivo nelle mani dei funzionari pubblici, ma questa volontà era tuttavia contrastata dalle abitudini alla violenza dei contemporanei e dalla lentezza degli stessi ordinamenti giudiziari, spesso insufficienti e talvolta anche privi di mezzi efficaci per portare ad esecuzione le sentenze definitive; lo stesso Baldo giustificava l’espediente della cattura privata con la mancanza di giudici.

Di fronte a queste difficoltà oggettive si comprendono pertanto quegli statuti che, accostandosi maggiormente alla realtà dei fatti, ancora nel XV secolo, ammettevano l’esecuzione convenzionale, che aveva altresì l’approvazione della migliore dottrina processualistica: ne parlano Paolo di Castro, Alessandro Tartagni, Raffaele Fulgosio, Giason del Maino, il procedurista napoletano Roberto Maranta, e Matteo degli

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Afflitti ne attesta l’osservanza consuetudinaria nel Regno di Napoli in età aragonese. Per tutto quel secolo e per il successivo il pactum de ingredienda possessione è giustificato dai giuristi più accreditati e dai consulenti che distinguevano così tra patto sulla persona e patto sui beni: il primo, finalizzato ad ottenere la cattura del debitore da parte del creditore, non era ammesso perché - si argomentava - gli uomini non possono validamente pattuire sulla propria persona e la cattura spetta ai soli pubblici poteri; il secondo era al contrario pacificamente riconosciuto, anche per l’accoglimento che ne aveva fatto il diritto romano.

Questa esecuzione privata poteva essere condotta sia sui beni immobili sia, persino con maggiore estensione, sui beni mobili, inclusi gli animali; le leggi riconoscevano questa facoltà di pignoramento dei beni mobili soprattutto al proprietario di terre o di case contro i coloni o gli inquilini inadempienti nel pagamento dei canoni di locazione o delle pensioni di affitto.

La pratica dell’esecuzione convenzionale continuò per tutto il XVII e parte del XVIII secolo sia nell’Italia settentrionale che nei regni di Napoli e di Sicilia, dopodiché esso scomparve dalle opere processualistiche settecentesche, per le quali tutti gli atti esecutivi erano oramai di competenza della sola autorità giudiziaria.

La legislazione statutaria era poi unanime nel permettere che chi veniva danneggiato dal pascolo abusivo sulle sue terre potesse trattenere gli animali che trovava nel fondo, al fine di venire indennizzato dal colpevole attraverso il pagamento di un’ammenda e il risarcimento dei danni; ciò era previsto in particolare in Piemonte, Sardegna e Sicilia, ma anche nelle città lombardo-venete.

Altra forma di tutela dei diritti si realizzava nelle città maggiori, caratterizzate da una più vivace attività economica e da un maggior movimento di affari, consistente nell’accordare al creditore un diritto di controllo sul debitore, nel caso di sospettata dilapidazione del patrimonio o di temuta fuga, quando non si era ragionevolmente sicuri dell’adempimento di un credito pur non ancora giunto a scadenza.

Nei confronti del debitore forestiero, gli statuti prevedevano che il giudice consentisse al creditore che ne facesse richiesta l’intromissio de omnibus rebus debitorum (pignoramento dei beni del debitore straniero presenti nel territorio del comune), oppure ammettevano il pagamento di cauzioni a garanzia del futuro adempimento del debito. Le città italiane, centri di vita commerciale, studiarono così espedienti per non chiudere le porte ai forestieri, ma nello stesso tempo impedire che questi, con la fuga, danneggiassero i creditori cittadini. Come estrema misura, se lo straniero si sottraeva all’adempimento con la fuga, il creditore poteva ottenere dal giudice le lettere di rappresaglia e procedere contro i beni dei concittadini del fuggiasco presenti nel territorio del comune, solo però dopo sentenza di condanna passata in giudicato.

Quanto alle misure cautelari contro lo stesso cittadino debitore, sempre qualora si temesse l’insolvenza o la fuga, le norme statutarie e la dottrina mostrano quanto stessero a cuore alle città italiane gli interessi dei creditori, nell’ambito della nascente economia capitalistica che richiedeva precise garanzie per assicurarsi vitalità, sviluppo e crescita. Negli statuti era pertanto frequente la disposizione che riconosceva al creditore la facoltà di richiedere al magistrato un praeceptum intrandi et capiendi relativo ai beni del debitore che venivano pignorati senza alcuna cognizione di causa da parte del giudice, quando vi era il sospetto di insolvenza o di fuga del debitore; si esigeva però per lo più il giuramento del creditore circa l’esistenza del suo titolo di credito e il sospetto di fuga o inadempimento del debitore, ovvero la testimonianza di due o tre persone degne di fede disposte a deporre sul sospetto di inadempienza o di fuga.

Tali misure conservative, di esecuzione preventiva, poste in atto prima della scadenza del credito, erano adoperate specialmente nelle curie mercantili. Il commercio e il capitalismo italiano nei suoi primi albori esigevano infatti forme di protezione contro il debitore sospettato di fuga o di dilapidazione del patrimonio, che le leggi subito accordarono e che la stessa dottrina riconobbe come necessarie e giuste. La scienza giuridica, tuttavia, non trovando nel diritto romano quanto occorreva per giustificare la missio in possessionem o la sequetratio senza regolare giudizio e sentenza, fu pertanto costretta a dare ai testi interpretazioni più ampie e a volte persino forzate.

Il fuggitivo era dunque equiparato all’insolvente e, se commerciante, era trattato come bancarottiere, procedendosi così anche contro i suoi familiari e parenti, obbligati in solido all’adempimento dei suoi debiti. La fuga del commerciante era pertanto reputata una forma di fallimento con la conseguente necessità di recuperare i beni alienati in precedenza; si trattava però di un procedimento delicato, cosicchè si raccomandava al giudice di procedere con cautela all’arresto preventivo per non privare ingiustamente il

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debitore della sua onorabilità; in ogni caso bisognava far precedere all’esecuzione personale la preventiva esecuzione reale con sequestro dei beni del sospettato. L’opposizione del debitore apriva il giudizio di merito nel quale si accertava il credito in vista del finale adempimento del debito.

Si consentiva al creditore anche un altro rapido espediente per ricordare al debitore, prima della scadenza del termine fissato per l’adempimento, gli obblighi assunti ed invitarlo ad adempierli: si trattava della richiesta rivolta dal creditore al giudice perché emettesse invito al debitore di pagare o di fare opposizione, in base alla sola affermazione del creditore dell’esistenza di un diritto di credito. Questo praeceptum executivum sine cognitione causae (appunto perché veniva concesso sulla base della sola richiesta del creditore) fu introdotto nella pratica italiana, nell’ipotesi in cui risultasse abbastanza chiara la favorevole situazione economica della controparte che rendeva ingiustificati atti preventivi di esecuzione; ci si limitava così ad ammonire l’obbligato, ad invitarlo a pagare o a fare opposizione, nel quale ultimo caso si dava inizio al giudizio di merito sull’effettiva spettanza del diritto di credito in capo al sedicente creditore.

I contraenti potevano poi inserire nei loro contratti conclusi davanti ad un notaio il c.d. praeceptum o mandatum de solvendo executivum, che comportava per il debitore l’obbligo dell’adempimento entro un certo termine, in mancanza del quale il creditore era autorizzato a ricorrere all’esecuzione forzata sui beni dell’obbligato senza richiedere un nuovo precetto al giudice. Il precetto notarile veniva così riguardato come un titolo immediatamente esecutivo, su istanza dell’interessato che si rivolgeva ai pubblici ufficiali per ottenerne l’esecuzione immediata alla scadenza del termine indicato, senza che fossero necessari ulteriori accertamenti.

Il fatto che nella prassi procedurale dell’età intermedia gli strumenti notarili avessero acquistato il valore proprio delle sentenze si spiega col carattere di pubblici ufficiali attribuito ai notai fin dagli ultimi tempi dell’impero romano, che si mantenne anche nei regni romano-germanici. Nel XII secolo l’autorità dei notai era pienamente riconosciuta in tutto il territtorio italiano, tanto da attribuirsi loro la qualifica di iudices cartularii e da equiparare i loro atti alle confessioni giudiziali raccolte dai giudici ordinari in sede di contenzioso.

Tale sviluppo dell’attività notarile ebbe inizio in Toscana, e non a caso, date le peculiarità dell’attività economica della società mercantile toscana che conobbe precocemente le esigenze di un’economia capitalistica e i vantaggi derivanti dallo svolgimento di proficue attività commerciali; essa era per contro avversa alle lungaggini delle procedure giudiziarie e dunque incoraggiata ad investire i notai della stessa autorità delle magistrature giudicanti e a permettere che i loro atti valessero come res iudicata, ottenendo così immediata esecuzione.

Dalla prassi toscana questo modo di considerare i notai e il loro operato divenne rapidamente comune a tutta Italia: la confessione di un debito resa davanti al notaio era reputata pertanto pubblica e solenne e acquistava efficacia di giudicato a garanzia del creditore che si trovava in possesso di un titolo immediatamente esecutivo. Alla presentazione del documento alla scadenza, restava al magistrato solo l’obbligo di vendere i beni del debitore e consegnarne il ricavato al creditore fino al raggiungimento della somma a lui dovuta, oppure assegnare i beni direttamente al creditore, in assenza di compratori. Da tutto ciò la professione notarile uscì notevolmente valorizzata, vedendo attribuita ai suoi atti la stessa efficacia esecutiva delle sentenze.

Addirittura in Toscana e in qualche altra regione, come ad esempio in Lombardia, dove i notai godevano di una particolare reputazione, non era neppure necessario l’intervento del tribunale per dare attuazione ai loro strumenti, bastando la semplice esecuzione interamente privata del creditore; questo intervento, richiesto invece senza eccezioni dalla dottrina processualistica, era imprescindibile soprattutto negli ordinamenti retti da monarchie, come il Piemonte, lo Stato pontificio, la Sardegna e i regni di Napoli e Sicilia.

Per quanto invece concerne l’esecuzione di autorità, è indubbio che la volontà del governo comunale di riservare a sè l’attuazione delle sentenze risulta già dai più antichi statuti. Nel giuramento che pronunciavano i consoli al momento dell’assunzione della carica essi si obbligavano, tra l’altro, ad assistere i vincitori dei giudizi anche con l’uso della forza. Nella pratica però la strada da percorrere in questa direzione era ancora lunga, se in pieno XIV secolo si era ben lontani dal rinunciare del tutto all’iniziativa privata in fase di esecuzione dei giudicati, come attesta in termini chiari lo stesso Bartolo: “executio sententiae potest fieri

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etiam sine executore, quia potest propria auctoritate victor ingredi possessionem et sic ipsemet esse potest executor et nuncius in causa propria”. Gli ufficiali pubblici spesso intervenivano solo in caso di resistenza della controparte che si sottraeva all’esecuzione privata.

Malgrado simili tolleranze legate all’insufficienza degli organi deputati a coadiuvare le magistrature nel dare attuazione alle loro pronunce, l’intendimento della legislazione italiana fin dal XIII secolo fu di reazione alle forme di esecuzione privata e di esclusione dell’azione dei privati. L’esecuzione era vista come atto dell’autorità che doveva essere disposto dal giudice ed eseguito dai pubblici ufficiali.

In una prima fase di vita dei comuni l’impiego della forza da parte degli stessi pubblici ufficiali in sede di esecuzione dei giudicati non conosceva limiti di sorta, potendo giungere alla distruzione dei beni dell’inadempientee al bando. Simili mezzi di coazione corrispondevano a quel livello di violenza che dominava tutta la vita sociale, politica e privata tardo-medioevale: come gli odi di parte e di fazione si sfogavano nella distruzione delle case degli avversari, così la pressione del giudice sul debitore si manifestava con analoghi atti di devastazione legittimati dall’autorità pubblica, segnale evidente di impotenza oltre che di inciviltà.

I mezzi di esecuzione delle sentenze civili rivestivano dunque, in una fase iniziale, i caratteri specifici di una condanna penale, cosicché un inadempimento contrattuale accertato con sentenza definitiva acquistava tutto il disvalore di un reato contro la pubblica autorità: davanti al debitore ribelle o fuggiasco la giustizia del comune cittadino si armava per non apparire impotente e inefficace nella sua funzione di tutelare la pace sociale e l’ordine interno.

Tipico rimedio contro il condannato in sede processuale era, di conseguenza, il bando, che consisteva nell’esilio che veniva richiesto dal creditore insoddisfatto che non avesse rinvenuto beni del debitore insolvente coi quali soddisfare il suo credito giudizialmente accertato. Pertanto, contro il debitore privo di beni, il giudice ordinava l’allontanamento dalla città e dal distretto. Mentre chi subiva bando per la commissione di gravi delitti poteva essere ucciso impunemente da chiunque, il bandito per debiti non doveva subire alcuna offesa alla persona, non potendo però ricoprire cariche pubbliche, essere notaio, tutore, curatore, pur non perdendo la capacità di deporre in giudizio come testimone. Il suo nome era generalmente iscritto in uno speciale liber bannitorum finché il debito non veniva pagato.

A Milano il procedimento del bando apparve eccessivo al legislatore, forse per la maggiore vitalità economica che, sia nell’età romana tardo-imperiale che nel medioevo, aveva contraddistinto la città, con la conseguenza che un’applicazione puntuale dell’esilio per debiti avrebbe causato non pochi problemi alla produttività cittadina. Qui si ritenne pertanto sufficiente colpire gli insolventi con la c.d. nota di biasimo (in lingua volgare blasmo), cioè di riprovazione, proveniente dal giudice, che solo in un momento successivo si sarebbe trasformata in bando se il debitore non avesse obbedito all’ordine di pagamento che accompagnava l’atto di biasimo; ci si liberava invece dal blasmo se si pagava quanto indicato nella sentenza di condanna, insieme ad una multa. Il blasmato era privato del diritto di ricevere giustizia, di essere testimone e di ricoprire cariche pubbliche, decadendo da quelle già rivestite. Nella perdurante inadempienza del condannato colpito da nota di biasimo, si procedeva a pignoramento dei beni mobili che venivano assegnati al creditore, fino a concorrenza della somma a lui spettante, e, in mancanza di cose mobili, si disponeva l’immissione nel possesso degli immobili; là dove l’executio realis non era praticabile, si ricorreva come ultima ratio all’arresto personale o, appunto, al bando.

Generalmente, in osservanza di un antico sistema previsto dal diritto romano, in sede di contezioso giudiziario si imponeva alle parti il versamento di un certo numero di cauzioni, somme di denaro a garanzia dell’impegno che veniva con esse assunto di perseverare nel processo iniziato e di rispettare la sentenza. Era dunque questo il primo mezzo di coazione, vale a dire il trasferire al vincitore della lite la cauzione del soccombente, che costituiva così il primo e principale oggetto dell’esecuzione.

Chi aveva ottenuto una sentenza di vittoria doveva poi presentarsi davanti al medesimo giudice che l’aveva pronunciata e chiedere che essa fosse mandata ad esecuzione; il giudice intimava così all’avversario di ottemperare a quanto stabilito entro un intervallo di tempo che di solito era fissato dagli statuti a 10 giorni; solo decorso questo termine si procedeva all’esecuzione forzata nelle due forme reale e personale.

L’esecuzione reale era la datio in solutum dei beni del condannato che venivano assegnati al creditore fino al raggiungimento del suo credito ovvero venduti con corresponsione del prezzo alla controparte fino

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all’estinzione del debito. Essa non si rivolgeva indistintamente a tutti i beni del debitore né si compiva necessariamente in un’unica soluzione: il giudice doveva a questo riguardo regolarsi in base al proprio arbitrio e lasciare al debitore di indicare i beni da dare in solutum, limitandoli comunque allo stretto necessario per evitare un ingiustificato arricchimento del creditore, ed adoperandosi affinché tutta la procedura venisse compiuta senza scandalo e disonore per il condannato: il buon nome e la buona fama di un soggetto avevano nella società dell’età intermedia enorme importanza, equiparandosi addirittura la perdita dell’onore e della dignità alla perdita stessa della vita.

L’esecuzione iniziava sui beni mobili, poi proseguiva sui crediti e infine si concludeva sugli immobili. Riguardo ai beni mobili, vi erano consuetudini secolari che esentavano i beni necessari all’economia familiare ed agraria, in conformità a quanto sancito in materia anche dal diritto romano: così non erano pignorabili le provviste alimentari, gli strumenti di lavoro, il letto, le coperte, i vestiti, gli utensili domestici, gli animali da lavoro e via dicendo. La dottrina si ingegnò a trovare ampliamenti e limitazioni, escludendo dal pignoramento anche le tegole del tetto, le imposte delle finestre, le armi e i cavalli dei soldati, i libri di dottori e studenti. Un sentimento di cortesia voleva poi esentati i doni che la moglie aveva ricevuto il giorno delle nozze.

I mobili che venivano pignorati dovevano essere venduti all’asta, che si svolgeva nella piazza principale, in giorni di mercato, in presenza del pubblico banditore; col prezzo della vendita si pagavano i debiti, le spese giudiziarie e le multe dovute per la mancata esecuzione tempestiva della sentenza.

Se le cose mobili non bastavano a soddisfare il diritto della parte vincitrice, si passava ai titoli di credito, ma prima si invitava il debitore a giurare ad purgationem, se vi era il sospetto che con dolo e malizia avesse nascosto le proprie sostanze per sottrarle al pignoramento: la mancanza o comunque l’insufficienza di libri catastali che rendessero evidenti i beni posseduti da ciascuno nel contesto cittadino rendeva opportuno il ricorso al giuramento.

Nell’esecuzione immobiliare la procedura era più lunga e complessa e iniziava con l’affissione dello stemma pubblico sugli edifici che si intendevano sequestrare, cosicché chi turbava le operazioni incorreva nella confisca di metà delle sue sostanze. Fatto il sequestro si nominava un custode, si citava il debitore e si bandivano le aste col suono della tromba: gli incanti si tenevano di domenica, davanti alla chiesa, all’ora dell’uscita dei fedeli dalla messa, oppure in giorno di mercato. Se l’asta andava a buon fine si corrispondeva il ricavato al creditore; in caso contrario gli si assegnavano in solutum tanti beni quanti erano sufficienti al pagamento del debito e la controparte aveva un anno di tempo per riscattarli, decorso il quale il dominio del creditore diveniva irrevocabile.

Al momento della vendita giudiziaria dei beni del condannato era ammesso il diritto di prelazione in favore dei parenti del debitore insolvente; uguale preferenza era accordata ai condomini, e gli uni e gli altri godevano pure di un diritto di riduzione del prezzo, purché non ne venisse danneggiato il creditore. Dalle aste erano esclusi i forestieri, al fine di conservare le terre e le case nel possesso dei nativi del luogo.

Non erano soggetti ad espropriazione i beni feudali, fedecommissari ed enfiteutici e inoltre i benefici ecclesiastici, dei quali solo le rendite potevano essere assegnate ai creditori.

Nei secoli XV e XVI, grazie ai contributi della dottrina giuridica, all’esperienza maturata e al progresso della civiltà, si raggiunsero notevoli traguardi in direzione della tutela dei creditori ma anche della salvaguardia dei debitori dalla rovina, per impedire che il diritto del creditore fosse indebolito dagli stratagemmi posti in atto dall’avversario al fine di prolungare i tempi dell’esecuzione, e per converso per ridurre al minimo il collasso patrimoniale del debitore.

Prima di procedere alla vendita all’asta dei beni dell’insolvente, veniva compiuta la notifica del pignoramento o del sequestro al condannato che poteva evitare la vendita offrendosi di pagare. Tale offerta (oblatio) poteva essere verbale (con assunzione formale dell’impegno di pagare) o reale, cioè cum consignatione (con pagamento di quanto dovuto); la prima aveva l’effetto di impedire il pignoramento, il decorso degli interessi e delle penalità di mora fissate dalla legge, mentre l’offerta reale liberava del tutto il debitore, ma doveva farsi con l’autorità del giudice, in denaro contante. Se il creditore si rifiutava di ricevere il denaro, il debitore lo faceva contare alla presenza di testimoni e deporre in un sacco sigillato che rimaneva presso il debitore o che veniva depositato nella sacrestia della chiesa fino al ritiro da parte dell’avente diritto: spesso infatti i creditori rifiutavano il pagamento per lucrare le pene stabilite per i casi di mora e gli interessi sul denaro dovuto.

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Quando non vi erano beni del debitore, il creditore poteva rivalersi sulla sua persona, secondo una pratica ereditata dal mondo romano, il quale faceva in ogni caso riferimento al debitore vivo. Nell’alto-medioevo, invece, vi furono pretese persino sul cadavere del debitore da parte del creditore insoddisfatto che pretendeva di esercitare così una sorta di sequestro giudiziario; tale offesa al morto e alla sua famiglia, di autentica origine barbarica, non era ancora del tutto svanita in pieno Trecento – tanto che ne parlano non solo i novellieri ma anche i commentatori civilisti e canonisti -, e sarebbe stata accolta nella prassi in misura ancora maggiore, se non fosse stata frenata dal timore della peste.

Se non si rispettavano i morti, si può facilmente immaginare quanto e come i creditori inveissero contro il debitore vivo ma insolvente, in una prima fase di vita comunale in cui vi era ancora ampio spazio per la vendetta privata. Per esempio era invalsa nell’uso di molte località italiane la pratica di chiudere dall’esterno le porte delle case dei debitori condannati, impedendo così a chi era dentro di uscire e a chi ne era rimasto fuori di entrare, con danni incalcolabili per le persone che vi abitavano, costrette ad abbandonare le loro case e i loro averi.

Alle vendette private le leggi sostituirono il diritto del creditore di fare incarcerare il debitore insolvente e tale sistema prevalse in Italia e durò fino al 1876, anno di abolizione del carcere per debiti.

In linea di principio la detenzione doveva essere sofferta nelle carceri pubbliche. Tuttavia i comuni, che preferivano in genere infliggere pene corporali e pecuniarie piuttosto che detentive, in pochi casi aprivano le carceri quale luogo di pena, per non aggravare il bilancio dello stato col mantenimento dei carcerati; pertanto, almeno nei primi tempi, non si concedevano le prigioni per la custodia dei debitori i quali rimanevano così in balia dei creditori e dell’esercizio del carcere privato. Questo uso era abbondantemente diffuso soprattutto in Toscana e in Lombardia, fino a tutto il Duecento, cominciandosi solo dal tardo XIII secolo a comminarsi pene contro chi deteneva qualcuno contro la sua volontà, in reazione a consuetudini evidentemente non infrequenti.

Da quel momento le carceri pubbliche si aprirono anche per i debitori, oltre che per i condannati per reati, e l’esecuzione personale divenne competenza esclusiva della pubblica autorità, benché spesso il creditore fosse tenuto ad assumersi le spese di mantenimento del debitore in carcere. Mentre in un primo tempo era facoltà del creditore scegliere tra esecuzione sui beni e esecuzione sulla persona del debitore, tale sistema, osteggiato tanto dai civilisti quanto dai canonisti, in seguito tramontò per dare luogo all’altro del carattere meramente sussidiario dell’arresto, da praticarsi solo in mancanza di beni del debitore. L’arresto veniva così ordinato dal giudice ed eseguito dal messo pubblico dopo che si era constatata la nullatenenza del debitore.

La Chiesa fu invece sempre contraria all’arresto per debiti, non ammettendo che venisse molestata la persona per pretese connesse a beni materiali, sulla base del principio che tutte le ricchezze non valgono quanto la dignità di un essere umano.

L’arresto era vietato per i piccoli debiti e ne andavano esenti i nobili, i dottori, i pubblici funzionari, le donne oneste, i genitori per i debiti dei figli, i minori di 18 anni, gli anziani oltre i 70, i cristiani per un debito contratto con un ebreo. Spesso ai debitori ricercati veniva concesso asilo nei c.d. borghi franchi - terre originariamente feudali che, con l’avvento dei comuni, erano state sciolte da ogni vincolo verso il signore, dichiarate libere e immuni -, oppure nelle città se debitori forestieri.

Non si poteva procedere all’arresto in chiesa, nelle abitazioni private, considerate luoghi inviolabili al pari degli edifici di culto, nei giorni di festa e dopo il suono del coprifuoco.

L’arresto non era inflitto a scopo di pena, ma per costringere il debitore al pagamento, dunque come mezzo di coazione piuttosto che come strumento di punizione; del resto esso andava spesso a tutto vantaggio del debitore che si sottraeva così alle molestie anche più gravi minacciate dal creditore. La stessa circostanza che il creditore era tenuto a somministrare il vitto al debitore carcerato conferma il carattere cauzionale di tale detenzione, che gli fu proprio fino a quando l’arresto per debiti non venne definitivamente abolito.

Accanto alle regole comuni in materia di esecuzione personale, vi erano poi le peculiari consuetudini locali, come ad esempio quella fiorentina del “tocco”, chiamato dai giuristi tactus o captura verbalis. Il tocco si introdusse nella prassi fiorentina nel 1474 e consisteva nell’incarico dato dal giudice al messo pubblico di toccare appunto con un’asticella il debitore contro cui era stata pronunciata sentenza di condanna, intimandogli di presentarsi in tribunale e di pagare il suo debito. Il tocco faceva dunque le veci dell’arresto; se

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il debitore ciononostante non si presentava o non pagava, si procedeva alla vera e propria cattura. Si disponeva inoltre negli statuti che i c.d. toccatori non dovessero entrare nelle abitazioni private, reputate luoghi inviolabili al pari delle chiese, mentre potevano recarsi nelle scuole, nelle botteghe, negli alberghi e in generale in tutti i luoghi pubblici. Tale usanza fu abolita nel 1778.

L’avvenuto pagamento, se pure tardivo, liberava in ogni caso il debitore dal carcere, ove comunque non rimaneva mai più di un anno, tempo ridotto a 6 mesi in caso di assoluta povertà. Per porre fine alla carcerazione il debitore non in grado di pagare era tenuto a sottoporsi ad un particolare rituale che consisteva nello spogliarsi dei suoi pochi beni, fino a rimanere coi soli vestiti strettamente necessari. Con la cessio bonorum, di origine romanistica, il debitore si liberava della sue pendenze con una cerimonia pubblica offensiva nei riguardi di chi la subiva e spettacolo ridicolo per il pubblico che assisteva, in cui l’insolvente doveva ‘cedere’ tutto ciò che aveva, dal momento che non era stato in grado di pagare adeguatamente il creditore.

La cessione era un estremo rimedio per i poveri, per sottrarli ad una carcerazione che altrimenti sarebbe stata definitiva, una volta accertato che l’insolvenza era dovuta a cause indipendenti dalla volontà del debitore; per questa ragione non la si accordava ai mercanti falliti, ai giocatori d’azzardo, ai dilapidatori dolosi, ai debitori del fisco, i quali dovevano inesorabilmente subire il carcere.

Il povero che non era dunque in grado di pagare, rispondeva del suo debito rinunciando pubblicamente alla sua dignità, presentandosi quasi nudo (con indosso solo una camicia) e scalzo nella pubblica piazza, esposto alla derisione della cittadinanza convocata col suono delle campane, facendo mostra di sè per un’intera giornata, seduto su di una pietra posta al centro della piazza, costretto a subire gli insulti e la derisione dei presenti. Dopodiché veniva bollato come infame a vita e costretto ad indossare un apposito copricapo, generalmente verde, speciale segno distintivo dei debitori cedenti che se ne liberavano solo pagando il proprio debito al creditore.

Il fine di queste pratiche era di manifestare in modo popolare e chiaramente visibile a tutti chi si era comportato da pessimo debitore, così da indurre i cittadini dal guardarsi dall’instaurare rapporti giuridici con quei soggetti che venivano appositamente segnati con abbigliamenti riconoscibili. E’ certo che alcune espressioni entrate nel linguaggio comune, come ridursi in camicia o ridursi al verde (dal colore dei cappelli che coloro che avevano fatto cessione erano tenuti ad indossare) derivano proprio da queste formalità. Il diritto comunale era del resto piuttosto propenso a fare largo uso di pene ignominiose e infamanti, molto economiche per le casse dello stato e, a quei tempi, di maggiore efficacia dissuasiva rispetto ad altre pene afflittive, data l’elevatissima importanza del buon nome e della dignità personale nella vita sociale dell’epoca.

Era invece di diversa natura il regime punitivo cui veniva sottoposto il commerciante fallito. Il mercante fallito incorreva fin dai primi tempi del comune in pene particolarmente severe, in

considerazione del peculiare rilievo sociale ed economico che rivestiva l’attività commerciale nelle rifiorite realtà cittadine. L’attività mercantile, che veniva esercitata sia nel contesto europeo che in direzione dell’Oriente, era riguardata quasi come un ufficio pubblico, tanto era elevata la reputazione dei mercanti, cui si doveva accompagnare una corrispondente severità nei confronti di chi aveva l’onore di appartenere alle superiori corporazioni dei mercanti e dei banchieri e che, in seguito al fallimento della sua attività, macchiava il buon nome e l’alta considerazione della categoria.

Nacque dunque il procedimento di esecuzione fallimentare, la cui legge comunale più antica è quella senese del 1180.

La severità di tutta la procedura si spiega con l’alto senso di responsabilità che incombeva sul commerciante che doveva possedere sostanze sufficienti per far fronte ai suoi impegni, e sul banchiere che doveva avere sempre denaro disponibile: in caso contrario si presumeva la frode e si procedeva immediatamente al sequestro dei beni e all’arresto personale come misure preventive e conservative; si apriva poi un giudizio sommario per verificare la sua condizione economica presente ed anteriore, giudizio nel quale poteva essere applicata anche la tortura per costringere il fallito a rivelare quali beni avesse sottratto e nascosto: contro il fallito, infatti, il dolo era presunto fino a prova contraria; accertata l’insolvenza, gli si chiudeva la bottega e lo si cancellava dalla corporazione, condannandolo al carcere o all’esilio e in certi casi perfino alla pena capitale; infine coi suoi beni si tacitavano i creditori. In alcune città, una volta scontata la pena del carcere, vi era la berlina, cioè l’obbligo di indossare un cappello verde per tutta la vita. Il

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procedimento contro il fallito aveva dunque carattere rigorosamente penale, affinché, una volta liquidato il patrimonio, fosse colpito il debitore nella sua persona con sanzioni penali.

Tutta la procedura - di genuina creazione dottrinale sulla base di pochi e superati principi romanistici - si svolgeva davanti ai tribunali della mercanzia ed aveva come primo obiettivo quello di salvare il patrimonio del fallito nell’interesse dei creditori.

CONCLUSIONE

Il pregiudizio che in Italia, nel passato e fino alla vigilia del XIX secolo, la tutela dei diritti fosse molto labile e che gli ordinamenti giudiziari subissero potentemente la pressione degli interessi politici non resiste di fronte ad una serena riflessione. L’origine di siffatto preconcetto e la sua persistenza nel tempo erano specialmente dovuti al carattere assunto dal procedimento criminale basato sul principio della vendetta pubblica e del terrore, con pene esagerate, irreparabili, arbitrariamente applicate, con un’inquisizione fondata principalmente sulla tortura giudiziaria e che limitava la difesa dell’accusato e lo condannava senza che conoscesse i motivi della sentenza. La negazione di tutti quei principi di diritto naturale che sembrano oggi così elementari e scontati ma che sono trionfati solo dopo secoli e sforzi di illuminati pensatori finiva col coinvolgere in un giudizio di valore fortemente negativo tutta la giustizia.

In realtà anche in questa valutazione c’è molta esagerazione; è vero d’altra parte che gli eccessi, che pure non mancarono, erano determinati dalla accesa lotta contro la grande criminalità e dalla debolezza dei pubblici poteri nella repressione. Nello stesso tempo la gravità delle sanzioni e l’illogicità delle procedure erano comunque attenuate e in parte neutralizzate dalla frequente applicazione di pene straordinarie ridotte, rispetto alle ordinarie previste dalle nrme giuridiche, ad arbitrio del giudice. Ma pur tenuto conto di tali circostanze, è certo che il procedimento criminale era viziato nelle direttive essenziali e aveva fortemente bisogno di riforme radicali.

Tanta severità di giudizio non si può invece rivolgere al processo civile che ebbe sì difetti di forma ma non di sostanza, specchio com’era della civiltà italiana che lo rese se non il più agile, certamente il più idoneo strumento al servizio di una vera giustizia la cui realizzazione fu sempre avvertita come precipuo interesse pubblico, affidata ad una classe di giudici sempre riguardati come primi funzionari dello stato e circondati in ogni epoca della più alta considerazione.