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ECCLESIOLOGIA DEL NUOVO TESTAMENTO L'impostazione del problema Ci chiediamo come il NT comprenda la Chiesa. Non ci interroghiamo sulla storia della Chiesa ai primordi del cristianesimo e quindi il nostro oggetto non è costituito dall'origine e dallo sviluppo storici della Chiesa quali ci vengono delineati nel NT. Infatti, nel quadro della riflessione di fede sulla Chiesa, è importante soltanto l'interpretazione che il NT, nei suoi diversi scritti, dà della Chiesa e non la descrizione del cammino storico da questa compiuto dalla nascita e nella sua crescita. La risposta al problema, in base alla testimonianza neotestamentaria sulla Chiesa, deve naturalmente tener conto della peculiarità del NT. Deve avere dunque ben in chiaro che lo stesso NT non può fornire una presentazione sistematica della Chiesa. Lo vieta già il carattere frammentario e condizionato dalle situazioni degli scritti raccolti nel NT. Ma neppure l'interesse, molto diverso, dei singoli scritti per il tema della Chiesa lo permette. Tematicamente di essa si parla al massimo in Eph. e negli Act. Per lo più emerge soltanto in connessione con altri theologumena. Questi rapporti poi possono essere visti sotto diversi aspetti. Ciò che, ad es., dice la lettera agli Ebrei sulla Chiesa può essere descritto, in base al suo tema principale cristologico, sotto un profilo completamente diverso da quello, ad es., delle lettere pastorali. Si deve tener presente il diverso grado d'intensità di tale riflessione nei singoli scritti del NT. Nessuno negherà che essa, ad es. in Mc., è molto inferiore a quella delle lettere paoline. Inoltre si deve considerare fino a che punto questa riflessione venga espressa in maniera esplicita o anche solo giustifichi le esplicitazioni. Così, ad es., sullo sfondo del vangelo di Giovanni c'è indubbiamente una precisa coscienza ecclesiale, essa però non viene sufficientemente portata in primo piano. Solo nelle lettere di Giovanni ottiene una certa formulazione. Una risposta al problema della comprensione della Chiesa nel NI dovrà prestare attenzione a questi e ad altri momenti analoghi. Si lascerà guidare da essi nel rilevare nei singoli scritti del NT, presi separatamente, le affermazioni frammentarie sulla Chiesa, che non sono altro che degli accenni e degli abbozzi variamente elaborati, e nell'accostarli tra loro conservandone tutta la problematicità e l'apertura per ulteriori riflessioni. In tal modo si eviterà per lo meno i fraintendimento assai diffuso, che cioè il NT abbia da offrire uni immagine unitaria del vero volto della Chiesa alla quale, con un po’ di buona volontà, travalicando i secoli, si potrebbe ritornare per assumerla come «modello» normativo della Chiesa in generale. Prescindendo dal fatto che la storia non si svolge in modo tale che un «modello» fondamentale venga elaborato o addirittura imitato, ciò che il NT dice della Chiesa non sono altro che degli appelli vincolanti, del tipo più diverso, rivolti alla fede, affinché questa li accolga nella sua riflessione e vi conformi la vita e, ascoltandoli, «edifichi; la Chiesa secondo le direttive essenziali contenute in essi. Se si riflette su ciò, il modo suaccennato di presentare la comprensione della Chiesa, emergente dai singoli scritti e gruppi di scritti neotestamentari, contribuisce ad una conveniente trasmissione di questi appello del NT e a mettere in movimento, per così dire, la riflessione di fede sulla Chiesa. Da questo punto di vista non è allora sbagliato limitarsi agli scritti del NT paradigmatici per il nostro problema e mettere in luce i postulati di un'ecclesiologia non in Mc. ma in Mt., che ha recepito e illustrato i pochi accenni di Mc. ali preformazione della Chiesa nel discepolato di Gesù, poi negli scritti lucani, in Giovanni e nelle epistole giovannee, nelle lettere paoline in quelle pastorali, in Hebr., i Petr. e nell’Apoc. Una breve sintesi delle fondamentali caratteristiche comuni della comprensione neotestamentaria della Chiesa può indicare la direzione in cui la riflessione di fede, fondata sul NT, deve essere proseguita.

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ECCLESIOLOGIA DEL NUOVO TESTAMENTO

L'impostazione del problema

Ci chiediamo come il NT comprenda la Chiesa. Non ci interroghiamo sulla storia della Chiesa ai primordi del cristianesimo e quindi il nostro oggetto non è costituito dall'origine e dallo sviluppo storici della Chiesa quali ci vengono delineati nel NT. Infatti, nel quadro della riflessione di fede sulla Chiesa, è importante soltanto l'interpretazione che il NT, nei suoi diversi scritti, dà della Chiesa e non la descrizione del cammino storico da questa compiuto dalla nascita e nella sua crescita. La risposta al problema, in base alla testimonianza neotestamentaria sulla Chiesa, deve naturalmente tener conto della peculiarità del NT. Deve avere dunque ben in chiaro che lo stesso NT non può fornire una presentazione sistematica della Chiesa. Lo vieta già il carattere frammentario e condizionato dalle situazioni degli scritti raccolti nel NT. Ma neppure l'interesse, molto diverso, dei singoli scritti per il tema della Chiesa lo permette. Tematicamente di essa si parla al massimo in Eph. e negli Act. Per lo più emerge soltanto in connessione con altri theologumena. Questi rapporti poi possono essere visti sotto diversi aspetti. Ciò che, ad es., dice la lettera agli Ebrei sulla Chiesa può essere descritto, in base al suo tema principale cristologico, sotto un profilo completamente diverso da quello, ad es., delle lettere pastorali. Si deve tener presente il diverso grado d'intensità di tale riflessione nei singoli scritti del NT. Nessuno negherà che essa, ad es. in Mc., è molto inferiore a quella delle lettere paoline. Inoltre si deve considerare fino a che punto questa riflessione venga espressa in maniera esplicita o anche solo giustifichi le esplicitazioni. Così, ad es., sullo sfondo del vangelo di Giovanni c'è indubbiamente una precisa coscienza ecclesiale, essa però non viene sufficientemente portata in primo piano. Solo nelle lettere di Giovanni ottiene una certa formulazione. Una risposta al problema della comprensione della Chiesa nel NI dovrà prestare attenzione a questi e ad altri momenti analoghi. Si lascerà guidare da essi nel rilevare nei singoli scritti del NT, presi separatamente, le affermazioni frammentarie sulla Chiesa, che non sono altro che degli accenni e degli abbozzi variamente elaborati, e nell'accostarli tra loro conservandone tutta la problematicità e l'apertura per ulteriori riflessioni. In tal modo si eviterà per lo meno i fraintendimento assai diffuso, che cioè il NT abbia da offrire uni immagine unitaria del vero volto della Chiesa alla quale, con un po’ di buona volontà, travalicando i secoli, si potrebbe ritornare per assumerla come «modello» normativo della Chiesa in generale. Prescindendo dal fatto che la storia non si svolge in modo tale che un «modello» fondamentale venga elaborato o addirittura imitato, ciò che il NT dice della Chiesa non sono altro che degli appelli vincolanti, del tipo più diverso, rivolti alla fede, affinché questa li accolga nella sua riflessione e vi conformi la vita e, ascoltandoli, «edifichi; la Chiesa secondo le direttive essenziali contenute in essi. Se si riflette su ciò, il modo suaccennato di presentare la comprensione della Chiesa, emergente dai singoli scritti e gruppi di scritti neotestamentari, contribuisce ad una conveniente trasmissione di questi appello del NT e a mettere in movimento, per così dire, la riflessione di fede sulla Chiesa. Da questo punto di vista non è allora sbagliato limitarsi agli scritti del NT paradigmatici per il nostro problema e mettere in luce i postulati di un'ecclesiologia non in Mc. ma in Mt., che ha recepito e illustrato i pochi accenni di Mc. ali preformazione della Chiesa nel discepolato di Gesù, poi negli scritti lucani, in Giovanni e nelle epistole giovannee, nelle lettere paoline in quelle pastorali, in Hebr., i Petr. e nell’Apoc. Una breve sintesi delle fondamentali caratteristiche comuni della comprensione neotestamentaria della Chiesa può indicare la direzione in cui la riflessione di fede, fondata sul NT, deve essere proseguita.

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La Chiesa secondo Matteo

Chiesa e Regno di Dio

La Chiesa, com'è compresa e come vive in Matteo, in quanto Chiesa del Messia Gesù (hv evcclhsiva mou, Mt. 16,18), non è soltanto quella promessa da Gesù ma anche la Chiesa che inizia segretamente già con lui. Essa, fondamentalmente, è già all'opera nell'«imminenza» del regno escatologico di Dio, «del regno dei cieli», che è insieme «il regno del Figlio dell'Uomo», 16,28. Questa «imminenza» del regno dei cieli infatti, secondo Mt., è presente nella persona di Gesù, cioè nella sua opera e nella sua vita. Senza dubbio anche per Mt. il regno dei cieli è un'entità futura. Si pensi ad es. alla seconda peti-zione del Padre nostro, Mt. 6,10: «Venga il tuo regno». Ma anche le metafore accolte da Mt., come quella del «banchetto», 8,11-s.; 26,29 o della «mietitura», 13,39, le dichiarazioni sull'ingresso nel regno, ad es. 18,8 s., il legame del regno futuro di Dio con la fine del mondo, 13,40.49 ecc., e il giudizio finale, 8,12; 13,41 s. 49 s.; ecc., con la gioia e la dannazione eterne, 5,12 par.; 18,13 par.; 25,21.23; 5,22.23; 5,22.23.33 ecc., mettono in luce il suo carattere escatologico. Ora però di questo regno dei cieli il Gesù di Mt. dice anche che esso si «è avvicinato» o «è venuto vicino», 4,17 par.; 10,7 par. Come questo «essere venuto vicino» di Mt. debba essere inteso, lo si può vedere in maniera relativamente facile. In esso si allude ad un'imminenza temporale di cui resta indeterminato il momento dell'avvento, come ad es. nella sentenza di Mt. 16,28, che varia la tradizione marciana: «In verità vi dico: Vi sono alcuni fra quelli che stanno qui, che non gusteranno la morte finché non avranno visto il Figlio dell'uomo venire con il suo regno». Si veda anche la pericope di consolazione per i messaggeri di Gesù perseguitati: «In verità vi dico: Non avrete esaurito le città d'Israele prima che venga il Figlio dell'uomo», 10,23. Ma a questo senso cronologico della «vicinanza» si sovrappone quello concreto, secondo cui essa è già iniziata e la si può incontrare in Gesù e nel suo evento. Il senso cronologico viene corretto e completato da quello concreto. Il regno dei cieli futuro è «vicino», poiché in Gesù esso è penetrato e, quindi, divenuto presente nell'orizzonte della storia. Il suo futuro incombente, in questo modo, è superato dal suo avvento nascosto in Gesù. Ma il regno dei cieli, secondo Mt., è «vicino» anzitutto nella «parola del regno» pronunciata da Gesù, 13,19.20, nel «vangelo del regno», 4,23; 9,35, nelle «parole» di Gesù, che sopravvivono al cielo e alla terra, 24,35; cf. 5,17; 7,24, nella «predicazione» di Gesù, 4,17.23; 11,1, soprattutto, sempre secondo Mt., nei suoi «insegnamenti» e nella sua «dottrina», 4,23; 5,2; 7,29; 9,35; 11,1; 13,59 ecc., che sono come di uno che ha evxousiva e non insegna come gli scribi, inoltre nel suo laleivn pollav evn parabolaiv", 13,3.10, nel cui «parlare enigmatico» sono celati i MUSTHVRIA THV" basileiva" twvn ouvranwvn13,11, che però vengono anche svelati a coloro che ascoltano, ai discepoli, ai «fanciulli», cf. 11,25 s. affinché si «convertano» alla loro consolazione e alla loro gioia, ad es. 5,1 ss.; ii,4 s., nonché alle loro esigenze, 4,17; 11,20 s.; 12,41, e si pongano alla ricerca della basileiva e della dicaiosuvnh, 6,33, che non è altro che l'amore di Dio e del prossimo, 5,43; 19,19; 22,34 ss. Con il suo «insegnamento» Gesù semina nel cuore «la parola del regno», 13,19. In esso il regno è «divenuto vicino» e il suo accesso si è aperto, 5,20; 7,21. Questo regno di Dio, dischiuso nella parola di Gesù, irrompe su tutti gli uomini, ma il suo appello è rivolto anzitutto ai «peccatori», 9,12 s. Quanto poi la parola di Gesù sia strettamente congiunta con il suo comportamento — infatti anche il suo agire è parola — si può vedere nel fatto che egli chiama alla sua sequela dei doganieri, il tipo per eccellenza del peccatore pubblico, 9,9, siede a tavola «con pubblicani e peccatori», 9,10 s., facendosi così considerare «amico dei pubblicani e dei peccatori», 11,19. La sua parola, nella quale si incontra il regno dei cieli, diviene esplicitamente parola di perdono, 9,2. In Gesù trionfa il perdono, che è divenuto esperienza, cioè «si è avvicinato». In tal modo viene promesso ai poveri l'intervento di Dio; essi però non vengono consolati dal fatto che il loro sguardo si appunta su un futuro indeterminato, ma perché il tempo della salvezza già ora si manifesta, si realizza ed attualizza. Ma non soltanto nella parola o nell'insegnamento di Gesù «il regno dei cieli» si è già dischiuso; esso è presente anche nelle sue gesta miracolose, che sono delle dunavmei", 11,20 s. 23; 13,54.58; 14,2, e in quanto tali, secondo la formula di Mt. 11,22 , tav ‘erga touv Cristouv Sono quindi tav shmeiav twn cairwvn, segni escatologici, 16,3. Consistono nella guarigione di ogni sorta di malattia e nel cacciare i demoni dagli ossessi. Mt. accoglie qui i sommari di Mc. dedicati a tali guarigioni ed espulsioni di demoni, 4,24 s.;

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8,16 s.; 12,15; cf. 12,24 ss.; 14,34 ss.; 15,29-31. Egli stesso ne formula alcuni, come ad es. in 12,15 ss. Si tratta di gesti di compassione, 9,36; 20,34; 15,32. In essi è all'opera il Servo di Dio, 12,16 ss., «che ha preso su di sé le nostre debolezze e ha portato le nostre infermità», 8,17 (Ir. 53,4). In essi accade l'avvento del Messia-Figlio dell'uomo «che viene» (Dan. 7,13), 11,3 ss., e quindi di Dio stesso, della sua salvezza e del suo giudizio. Nella lotta vittoriosa di Gesù contro i demoni e il loro capo, è all'opera lo Spirito di Dio ed è incominciato il suo regno: «Ma se io scaccio i demoni con lo Spirito di Dio, vuol dire che il regno di Dio è giunto a voi», 12,28. Come il regno di Dio è già presente nella «parola poco appariscente» di Gesù, 13,24, e nella sua remissione dei peccati è già stata emessa la sentenza esca-tologica, 9,6, così il «regno dei cieli» si manifesta emblematicamente anche nelle gesta salvatrici e liberatrici di Gesù. Ma dietro a tutto ciò sta la persona di Gesù. Non a caso la sua risposta all'interrogazione del Battista, che elenca le sue azioni messianiche, conclude con la frase: «E beato colui che non troverà in me occasione di scandalo», 11,6. La sua attività mette di fronte alla sua persona e provoca la decisione nei suoi confronti. È quanto accenna anche 12,6, benché in maniera diversa: «Ma io vi dico che c'è qui uno più grande del tempio», o 12,41 s.: «Gli uomini di Ninive compariranno al giudizio insieme con questa generazione e la condanneranno; perché essi si sono convertiti alla predicazione di Giona, ed ecco, qui vi è più che Giona. La regina del mezzogiorno comparirà al giudizio insieme con questa generazione e la condannerà; perché essa venne dalle estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone, ed ecco, qui vi è più che Salomone». Si può ricordare anche 13,16 s.: «Ma beati i vostri occhi perché vedono, e le vostre orecchie perché odono! Perché in verità vi dico: Molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo hanno visto, e udire ciò che voi udite, e non l'hanno udito». Ma che cosa essi vedono e ascoltano? Le sue parole ad azioni, e in esse lui stesso. Anche secondo Mt. egli rinvia a se stesso come a colui di fronte al quale viene presa la decisione di vita o di morte. In questo contesto si comprendono affermazioni come quelle di 10,39: «Chi trova la sua vita la perderà e chi perde la sua vita per amor mio la troverà», o di 12,30: «Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde», cf. 11,12 ss.; 16,25; 19,29. In esso si può vedere implicito anche il concetto di «Figlio dell'uomo», che Mt. usa sempre come titolo apocalittico di Gesù. Il suo avvento futuro viene ricordato di frequente. Egli «verrà», 10,23 (= IO. 10,33) come giudice e signore futuro, 16,27 s. La sua parusia nella potenza sarà come il balenare del lampo, 24,27; cf. 24,30; 25,31; 26, 64. Essa piomberà su un'umanità ignara, 24,37 ss. Ma «il Figlio dell'uomo» è anche già venuto in Gesù, che, per svelarsi e insieme celarsi, si attribuisce appunto questo nome, 16,13-15. «Il Figlio dell'uomo è venuto, mangia e beve; ed essi dicono: ecco il mangione e beone, l'amico dei pubblicani e dei peccatori», 11,19. E il Figlio dell'uomo è colui che «semina la buona semente», 13,24. Egli ha il potere di rimettere i peccati sulla terra, 9,6.8. È il signore del sabato, 12,8. Certo, il suo regno è ancora nascosto: «Le volpi hanno tane e gli uccelli del cielo hanno nidi, il Figlio dell'uomo invece non ha un posto per posare il capo», 8,20. Egli è anche «diffamato», 12,32, anzi, ancora di più, sarà fatto «soffrire» dagli uomini, 17,12. «Sarà consegnato nelle mani degli uomini ed essi lo uccideranno», 17,23; 20,18 s. Sarà «consegnato per essere crocifisso», 26,2. «Se ne va come sta scritto di lui», 26,24. La sua dipartita è il compimento della volontà di Dio. In questo modo ci viene ora offerto un altro elemento decisivo per comprendere il problema della «vicinanza» del regno di Dio. Esso irrompe — ed è questa la sua «vicinanza» — nell'insegnamento di Gesù e nel suo potere di rimettere i peccati. Si dispiega nelle sue gesta. Lo si incontra nella sua persona. Così però esso si dischiude in colui che per volontà di Dio percorre, spintovi dagli uomini e per essi, la via della passione che porta alla croce. Esso infine si «è avvicinato», cioè è entrato nell'orizzonte del mondo e ne è divenuto possibile oggetto di esperienza, anche in colui che, con la parola, il perdono e i miracoli, ha inaugurato questo regno celeste sulla via della passione. Questa visione fondamentale Mt. la condivide con l'intera tradizione neotestamentaria. L'ostilità, che gli procura tale passione, si scatena contro il radicalismo sovvertitore delle sue richieste ed insieme contro la sua libertà nei confronti della legge fraintesa e abusata, ad es., contro la sua interpretazione del precetto sabbatico, 12,1 ss.9 ss.; 13,53 ss.; 15,8.12; 23,34 ss. Essa comunque viene provocata anche dalle sue parabole, 21,45 s., dai suoi miracoli, 9,34; 10,25; 12,24; 21,14 ss., dalla sua autorevole attività profetica in generale, 21,23. Ma si accende soprattutto di fronte alla sua pretesa di poter rimettere i peccati, 9,1 ss., e la sua convivenza con i pubblicani e i peccatori, 9,9 ss. Essa quindi si scatena contro l'imminente «regno dei cieli». E Gesù, secondo Mt., è consapevole

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delle conseguenze di una tale ostilità, come appare non solo nelle tre profezie della passione, ma ad es., anche nella sentenza dello sposo strappato via, 9,15, nella requisitoria contro Gerusalemme che uccide i profeti, 23,37-39, cf. 21,39, nelle minacce riferite da Mt. 23,29-32; 23,34 ss., ecc. Ma Gesù percorre il suo cammino nella conoscenza e obbedienza alla volontà di Dio. Ciò appare chiaro anche dalla sua violenta risposta a Pietro, che vuole preservarlo dalla passione: «Va' via da me, Satana. Tu mi sei di scandalo; poiché tu non pensi i pensieri di Dio, ma quelli degli uomini», 16,23. Si può ricordare anche la frase rivolta ai figli di Zebedeo, 20,22: «Potete voi bere il calice ch'io berrò?», e l'uniformarsi di Gesù alla volontà di Dio nella scena del Getsemani: «Non come voglio io, ma come vuoi tu». «Sia fatta la tua volontà, 26,39.42. Così egli rimane in attesa del suo «tempo», cioè dell'«ora» stabilita da Dio, 26,18.45. In tal modo, nell'opera e nella vita di Gesù, si realizza quel servizio del Figlio dell'uomo di cui, nello stile del sommario, parla 20,28: «Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita come riscatto per molti», cf. 26,28.

Discepolato e sequela

Secondo Mt. quindi l'evento escatologico fondamentale è costituito dal fatto che nella persona di Gesù e nella sua opera in parole ed azioni, sulla via della passione, «il regno dei cieli» «si è avvicinato» ed ora può essere incontrato nell'orizzonte della storia. Ma il regno dei cieli nel senso di Mt. si è avvicinato solo nell'evento Gesù? La sua «vicinanza» non ha esercitato anche un'influenza inseparabile dall'evento? Questa «vicinanza» non fu anche sperimentata, e tale esperienza non le è anch'essa parte costitutiva? C'è il regno dei cieli, avvicinatosi in Gesù, senza coloro che ne hanno sperimentato la vicinanza e le sono divenuti intimi? Per Mt., certamente no. Per lui il regno dei cieli avvicinatosi compare nell'orizzonte della storia in maniera che la sua vicinanza si inserisce nella storia in determinati modi e forme. Essa si è situata in un luogo e questo luogo è il discepolato di Gesù, che egli, guardando al futuro, chiama «mia Chiesa», 16,18. Esso è il risultato e il rifugio del regno dei cieli avvicinatosi nella persona, nell'opera e nella vita di Gesù. Prendiamo le mosse dal fatto che Gesù parla continuamente dell' ‘oklo", 9,23.25; 15,10.32 ss., ecc., e ancora più spesso degli ‘okloi, 5,1; 7,28; 9,8.33; 11,7; 12,32, ecc., o degli ‘okloi polloiv, 4,25; 8,1; 14,13, ecc. Ad essi — che sono «le pecore sperdute della casa d'Israele», 10,6; cf. 10,23; 15,24, ov lao;" ov caqhvmeno" evn scotiva, 4,16; cf. 13,15; 15,8 — Gesù rivolge la sua parola, in mezzo ad essi opera guarigioni, ed essi si stringono attorno a lui, lo seguono, si spaventano o si stupiscono dei suoi prodigi. Essi formano la folla fluttuante delle città e dei villaggi in mezzo alla quale Gesù opera pubblicamente, ma dalla quale a volte si ritira, 12,15; 14,13; 15,21. Essi sono tutti chiamati, 11,28. Alcuni di essi giungono alla fede, 8,10; 9,2.20 ss.; 15,21 ss. Da questa folla vengono espressamente distinti «i discepoli», 5,1 s.; 8,21.23 (cf- 18); 13,2; 10.11 ss.36; 14,13 ss., ecc. Per Mt. essi non costituiscono certamente una schiera numericamente delimitata bensì una cerchia aperta, cf. 27,57. E dalla folla essi si distinguono sia per la chiamata che per la «sequela». Il racconto della chiamata, 4,18-22, che parla dei primi quattro membri dei «dodici», è certamente anche un paradigma per la chiamata in generale dei discepoli. Così in Mt. 5,1, con la folla, appaiono anche «i discepoli» che Gesù istruisce. Quando agisce in pubblico Gesù, secondo Mt., non è mai senza «discepoli». Sono i «suoi» discepoli, alla stessa maniera che Giovanni Battista aveva i suoi, 9,14; 11,2; 14,12. Ed egli è il didavscalo", 9,11; 17,24; 23,8; 26,18 e come tale viene anche chiamato, 8,19; 12,38, ecc. Essi sono coloro che accompagnarono Gesù, 12,1, i suoi messaggeri, 21,1, i suoi commensali, 9,10 s., i suoi servitori, 14,15 ss.22; 15,32 ss.; 21,2.6; 26,17 ss.; ecc. Ne condividono le abitudini, ad es., non digiunano perché egli non digiuna, 9,14; cf. 12,1 ss., ecc., lo seguono ovunque vada, cf. 8,21.23. Sono essi che pongono a Gesù delle domande e ne ricevono risposte istruttive, 13,10; 17,10; 18,1; 24,3. Essi sono «i figli dello sposo», 9,15. Vengono iniziati da Gesù nei «misteri del regno dei cieli», 13,11. Ad essi il Messia confida il suo destino di sofferenza, 16,21; 17,22 s.; 26,1 s., 20,17 ss., sono oiv dwvdeca cat’idivan. È ancora ad essi, e sempre cat’idivan, che viene rivolto il discorso apocalittico, 24,13. Ancora una volta la delimitazione tra i «discepoli» e i «dodici» rimane indeterminata.

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L'essenziale però del discepolato è costituito dalla «sequela», intesa come il seguire Gesù in maniera decisa, 4,20.22; 8,22, abbandonando tutti i possedimenti e i legami terreni, 9,9; 10,37; 19,21 s. 27 ss., credendo, 18,6.10, seguendolo cioè sulla via incerta, disonorata e pericolosa della passione che porta alla croce, cf. 8,19 ss.; 12,22 ss.; 13,53 ss., ecc. Il discepolato in quanto «sequela» comporta che uno prenda su di sé la croce, rinneghi se stesso, perda la sua vita per amore di Gesù, s'assuma il «giogo» di Gesù, 10,38; 11,29 s.; 16,24, passi per «la porta stretta», 7,13 s., e adempia tutto ciò che viene designato come la «giustizia maggiore», che è più grande di quella degli scribi e dei farisei, 5,20, e di cui si parla ad es., in Mt. 5-7; 10,18, ecc. Discepolato significa «cercare il regno e la sua giustizia», 6,33. Esso è «fare la volontà del Padre mio che è nei cieli», 7,21; 12,50, «ascoltare e mettere in pratica le parole» di Gesù, 7,24, «fare opere buone», 5,16, «produrre frutti», 7,16 ss.; 12,33; 21,43 e in tutto «amare Dio e il prossimo come se stessi», assecondando così «il comandamento più grande della legge», 22,34 ss. Mt, caratterizza anche il rapporto vicendevole dei discepoli. Siccome essi, in quanto coloro che «fanno la volontà del Padre mio che è nei cieli», sono «fratelli» di Gesù, anche tra loro sono dei «fratelli», 5,22 ss.; 7,3 ss.; 18,15.21.35; 23,8. Perciò devono riconciliarsi «con il fratello», 5,24, perdonarsi a vicenda, 18,21 s.23 s., non devono dare scandalo ai piccoli di ogni sorta, 18,6 s., né «di-sprezzarli», 18,10, ma devono anche correggersi l'un l'altro, 18,15 s. In tutto saranno «umili» come un bambino, 18,1 ss., del quale «è il regno dei cieli», cf. 19,14. Il più grande tra loro deve essere il loro «servo», 23,11, alla stessa maniera del Figlio dell'uomo che è venuto per «servire e dare la sua vita per il riscatto di molti», 20,26 ss. Come tali «seguaci» di Gesù essi però prendono anche parte alla sua missione e sono destinati a lavorare nel «raccolto», iniziato con l'attività di Gesù, 9,37 s.; 10,1 ss., Essi sono anzi «il sale della terra» e «la luce del mondo», 5,13 ss. Sono «istruiti sul regno dei cieli», 13,52. Questi discepoli di Gesù, che vengono distinti dalla folla che accorre a lui e sono i suoi seguaci, servitori, confidenti e inviati, che lo seguono come una comunità di fratelli e si servono a vicenda, a detta di Mt., sono pieni di incomprensione, di debolezza e di infedeltà. La loro incomprensione concerne le parole di Gesù, ad es., 15,15 ss.; 19,25 s., nonché la sua azione, il suo comportamento, ad es. 15,23; 19,13 ss., non meno la sua persona e la sua missione, 16,21 ss.; 26,8 s. Spesso viene ricordata la loro «poca fede», 8,26; 14,31; 16,8 s.; 17,20, la loro «paura», 14,265.; 17,6. Si «scanda-lizzano» di lui, 26,31, e ciò nell'ora della sua passione si concretizzerà nella fuga, nel rinnegamento e nel tradimento, poiché anche in quel momento i dodici rappresentano i discepoli di Gesù. «Alcuni» dubitano anche di fronte al Risorto, 28,17. Il discepolato viene intenzionalmente delineato anche nelle sue debolezze umane. Finora abbiamo visto che al regno dei cieli, avvicinatosi nella persona, nell'opera e nella missione di Gesù, secondo Mt., appartiene anche un popolo interessato ad esso e che preme alle sue porte. Da questo popolo si distinguono i suoi discepoli, che ne hanno accolto l'appello e, istruiti da lui in questa sequela, in mezzo ad ogni sorta di debolezze «cercano» il regno dei cieli e la sua giustizia. Questo discepolato è ingaggiato da Gesù, che lungo il cammino che lo porta alla croce predica in opere e in parole «il vangelo del regno», affinché i suoi discepoli prendano parte al lavoro del suo «raccolto» escatologico per il bene del popolo emarginato, oppresso e senza pastore, 9,35 ss. Così la vicinanza del regno dei cieli, che si è realizzata con e nel «regno del Figlio dell'uomo» Gesù, 13,41, si crea un luogo nella storia.

I dodici

All'interno della schiera dei discepoli, per Mt., c'è anche l'istituto dei «dodici». Essi vengono ricordati in 10,5; 20,17; 26,14.20 come oiv dwvdeca. In 20,20.24 compaiono come «i figli di Zebedeo» e «i dieci». In 28,16 sono soltanto «gli undici». In 10,1; 11,1; 26,20 sono detti «i dodici discepoli» e, in 10,2, significativamente, oiv dwvdeca a;povstoloi. Come abbiamo visto, sono i discepoli per eccellenza, ma oltre a ciò godono di una specie di condizione privilegiata. È vero che Mt. non recepisce la formulazione di Mc.: e;poivhsen tou;" dwvdeca, Mc. 3,14, e che, a differenza di Mc. (1,145.-8,26), la prima parte del vangelo non è articolata da pericopi dedicate ai discepoli (Me. 1,16-20: chiamata dei primi discepoli, 3,13-19: la «creazione» dei dodici, 6,6b-i3: la loro missione), comunque non mancano degli accenni che fanno capire che anche per lui essi sono una specie di istituzione. Di essi e precisamente dei primi quattro della lista degli apostoli 10,2 ss., e di Maqqaivo", 9,9 viene narrata

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espressamente la chiamata alla sequela e dei primi viene riportata anche una specificazione del loro futuro servizio di «pescatori di uomini», 4,18-22. Una lista di nomi, che si discosta un po' da quella di Mc., viene inserita in 10,2 ss. La loro missione e i loro poteri, nonché il loro compito: «Andate e predicate: il regno dei cieli si è avvicinato. Guarite gli ammalati, risuscitate i morti, mondate i lebbrosi, scacciate i demoni», 10,7 s., quindi la continuazione dell'attività escatologica di Gesù, vengono sottolineati da Mt. che riporta anche le istruzioni esortative e consolanti di Gesù in vista di questa attività missionaria, svelando così la loro sorte, 10,9 s.16 ss., ecc. Essi sono anche coloro di fronte ai quali, già ora e un giorno nel giudizio, si decide la salvezza o la dannazione di una casa o di un luogo in cui essi entrano, 10,11 ss. Con essi, anzi, c'è colui che ha dischiuso il regno dei cieli: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato», 10,40. Insomma, con i «dodici» chiamati, autorizzati, incaricati e inviati da Gesù, agli uomini giunge Dio stesso. «I dodici (discepoli)» — Mc.: «i dodici»; Le. «gli apostoli» — sono anche coloro ai quali Gesù, nel suo ultimo convito con essi, sotto il segno del pane e del vino, consegna in testamento se stesso in corpo e sangue, immolato per tutti, Mt. 26,20-25; Me. 14,17-21; Lc. 22,14.21 ss. E quando il Figlio dell'uomo «sul trono della sua gloria» giudicherà i popoli, anche i dodici «siederanno su dodici troni e giudicheranno le dodici tribù d'Israele», 19,28, al cui resto essi furono inviati come «alle pecore perdute d'Israele», 10,6 con l'annuncio e i segni del regno dei cieli che si avvicina. Essi, come eponimi escatologici del nuovo Israele, sostituiscono quelli dell'antico, cf. Test. XII, Test. Jud. 25, e come reggenti assieme al sovrano escatologico, Gesù Cristo, sono anche i giudici futuri dell'Israele ricostituito. A ciò sono fin d'ora designati da Gesù e nella loro attività attuale stanno già in questa luce. All'interno di questa corporazione dei «dodici», che emerge dalla schiera dei discepoli, risaltano a loro volta alcune persone singole. Per Mt., in base alla sua tradizione, sono soprattutto i figli di Zebedeo, che vengono nominati in 4,21; 10,2; 20,20; 26,37; 27,56. Secondo 17,1 ss. e 26,36 ss., Gesù li distingue rispetto agli altri discepoli. Ma di una preminenza di principio si può parlare soltanto a proposito di Pietro. Egli, così com'è visto da Mt., nonostante ogni «pochezza di fede», 14,31, e ogni incomprensione di fronte al Messia sofferente, 16,22 s., nonostante tutte le illusioni di risolutezza di fronte allo scandalo di questa passione, 26,33.35, nonostante ogni debolezza nel Getsemani, 26,36 ss., e il triplice rinnegamento di Gesù, 26,34.57.69 ss., è chiaramente presentato sempre come il portavoce dei discepoli: 15,15; 17,4.245.; 18,21; 19,27; 26,40. È altresì il primo discepolo ad essere chiamato, 4,18 ss., e il primo ad essere nominato nella lista dei «dodici apostoli», 10,2. Ma la sua posizione di preminenza per principio è documentabile solo in base a 16,17 ss., versetti caratteristici di Mt. che si riallacciano a Mc. 8,29. Secondo questo testo egli è 1) Colui che, a nome dei discepoli, confessa solennemente che Gesù è il Messia e il Figlio dell'uomo; 2) Colui al quale, perciò, è stata partecipata la rivelazione di Dio; 3) La «roccia» scelta da Gesù, il fondamento solido della futura, invincibile Chiesa di Gesù. Per comprendere questo e;cclesiva mou si deve tener presente che Mt. usa questa espressione nel senso del suo tempo, cioè nell'ottica della Chiesa globale a lui contemporanea, che egli considera il popolo escatologico nel suo insieme, cf. 21,43 e contempo una oivcodomhv, una compagine; 4) Il detentore e l'amministratore delle chiavi del regno dei cieli, il titolare del potere di legare e sciogliere in vista del regno dei cieli, cioè di condannare e di assolvere, forse anche di permettere e di vietare. Ciò che nel passo di Mt. 18,18, dal punto di vista della storia della tradizione considerato secondario rispetto a 16,19,' viene attribuito a tutti i discepoli in quanto pastori del gregge, cf. 18,12 ss., è qui attribuito a Pietro nei confronti dell'intera Chiesa: il potere giudiziario di dichiarare innocente o colpevole, che è riconosciuto anche in cielo, e, legata ad esso, forse anche la potestà magisteriale. Ci troviamo così di fronte alla seguente situazione: all'interno del discepolato, sopraffatto dalla vicinanza del regno dei cieli in Gesù e deciso a viverla, che è una comunità aperta, c'è la cerchia dei «dodici», che sono stati scelti, chiamati, investiti di autorità e incaricati espressamente da Gesù, e che, come eponimi e capi del nuovo Israele, custodiscono responsabilmente, con la parola, con l'esempio e nella sequela, la vicinanza del regno di Dio in Gesù e, in questo senso, si espongono di continuo all'incontro con un mondo ostile. All'interno dei dodici Simon Pietro è il primo, in quanto, pur con tutta la sua debolezza umana, rappresenta il fondamento del futuro discepolato che Gesù chiama «mia Chiesa». Così questo discepolato con i dodici e Simon Pietro, per Mt., è la preformazione della futura Chiesa. Essa, si può anche dire, nella sua struttura fondamentale è questa Chiesa nel modo della promessa. Il regno di Dio, la sua irruzione nell'orizzonte della storia in Gesù, il suo inserimento, all'interno della storia, nel

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discepolato circoscritto, ma insieme aperto, di coloro che «seguono» e ne comprendono il mistero, l'articolazione di questo discepolato nei discepoli e nei dodici con Simon Pietro al vertice e a fondamento del tutto, sono per Mt. i dati che principalmente fondano e indicano la struttura della Chiesa nel discepolato di Gesù.

La preformazione della Chiesa

Che nel senso di Mt. il discepolato di Gesù rappresenti la preformazione della Chiesa, lo si può confermare anche con le seguenti osservazioni. Per molti aspetti si delinea l'apostolato già alla luce della comunità posteriore. E questo, in genere, lo si considera un travisamento. Qui si presuppone che l'evangelista e già la sua tradizione leggano più o meno ingenuamente dentro le situazioni storiche che emergeranno più tardi e quindi le falsino. Ma, a prescindere dall'incertezza teorica e pratica nell'individuare tali situazioni storiche, rimane la questione se la Chiesa non sia l'interpretazione teoricamente adeguata del discepolato di Gesù e se Mt., comprendendo ciò, non ne abbia interpretato a ragione le origini alla luce degli sviluppi posteriori. In ogni caso egli considera il discepolato di Gesù, nell'ottica della Chiesa, come anticipazione di quest'ultima e quindi nel suo carattere relazionale. Il discepolato — solo per ci- tare un paio di esempi — nella pericope del tributo del tempio, 17,24 ss., è la comunità dei «figli», cui si associa Gesù, i quali sono «liberi» e pagano il tributo solo per non dare scandalo. La trattazione dei doveri fraterni, 18,15 ss.21 s.35, e l'ammonizione dei «fratelli», tra i quali c'è una certa gerarchia ed è conosciuta una certa prassi penitenziale, 18,12 ss., e in mezzo ai quali sta lo stesso Gesù, 18,20, ma anche il discorso sul servo fedele e saggio, 24, 45 ss., la parabola dei talenti, 25,14 ss., la messa in guardia contro i falsi maestri, 5,19 e profeti, 7,15 ss.; 23,34, fa descrizione della comunità nel mondo e del suo compito missionario, 10,17 ss.26 ss.; 23,34 ss., ecc., nelle loro formulazioni riflettono le posteriori condizioni della comunità, tradiscono quindi una comprensione del discepolato di Gesù quasi fosse la Chiesa ancora nascosta ma già segretamente presente. Si può anche ricordare l'uso di Cuvrio"; come titolo divino, ad es., in 22,41 ss., com'è praticato dalla comunità. A volte l'interpretazione (nell'ottica della comunità) viene posta accanto all'antica sentenza, che in tal modo viene per così dire attualizzata dall'interpretazione, come ad es., si può vedere in 23,10, doppione greco di 23,8. L'evangelista è in ogni caso consapevole dell'obiettivo legame di continuità che stringe la comunità con il discepolato del Gesù terreno. Anche l'escatologico «regno dei cieli», la cui «vicinanza» si è concretizzata nel discepolato di Gesù, da Mt. viene visto nell'ottica della Chiesa, rivelatasi quale luogo della sua presenza. Ad esso si riferisce ciò che dice 11,12 s.: «I violenti rapiscono il regno dei cieli» «dai giorni di Giovanni il Battezzatore fino ad oggi». Il vero dottore della legge — e cioè il vero maestro della comunità — è «un discepolo del regno dei cieli», 13,52. In quanto accolto e annunciato dai discepoli come presente in Gesù, l'escatologico «regno del Figlio dell'uomo», 16,28; 20,21, è già presente nella Chiesa. Quest'ultima è già lo spazio del regno dei cieli. È quanto si può vedere dalla parabola della rete, 13,47-50. «L'immagine è connessa con quella dei pescatori di uomini (4,19 = Mc. 1,17-). Degli uomini vengono presi, costretti da Dio; ma chi di essi sia utile lo dimostrerà solo il giudizio finale. È naturale pensare qui alla Chiesa che diviene». Nel regno del Figlio dell'uomo convivono insieme «il buon seme», «i figli del regno», e «la zizzania», «i figli del male». Entrambi sono cresciuti nel campo che è il mondo e solo al tempo della «mietitura», «del compimento del corso del mondo» saranno separati dal Figlio dell'uomo giudice. «Il Figlio dell'uomo invierà i suoi angeli ed essi raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e gli autori d'iniquità», 13,41. «Nel nostro passo il “Regno del Figlio dell'uomo” (v. 41), cui subentrerà nella parusia (v. 40) il Regno di Dio (v. 43), è precisamente una designazione della Chiesa; questa dizione è assolutamente unica negli evangeli». Ma si osservi: la Chiesa non è il «regno dei cieli» o «il regno di Dio» stesso. Essa, piuttosto, in quanto «regno del Figlio dell'uomo» sulla terra, è il modo provvisorio della sovranità di Dio nel mondo. Qui vengono tratte le conseguenze della continuità sostanziale della Chiesa con il discepolato di Gesù: la prima è il secondo nella forma evoluta di una comunità che rimane terrena. Come tale essa è l'ambito provvisorio di sovranità del Figlio dell'uomo. Forse anche in 18,1, ove Mt. aggiunge e;n thv basileiva, è intesa l' e;cclhsiva e, con la domanda dei discepoli: «Chi è il più grande?», si allude alla gerarchia

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nella Chiesa. Allora anche qui la Chiesa verrebbe concepita come il compimento del discepolato e insieme come il luogo di presenza del regno di Dio avvicinatosi. Anche per Mt. quindi già nel discepolato di Gesù avviene il passaggio da Israele, cui era legata la promessa del regno di Dio, ad un nuovo popolo di Dio che l'accoglie e custodisce. Ai suoi discepoli che lo pregano di liberarsi della donna cananea che li segue gridando, Gesù dice: «Io sono stato inviato solo alle pecore perdute della casa d'Israele», 15,24. E comanda anche ai dodici: «Non andate sulla via che porta ai Gentili e non entrate in nessuna città dei Samaritani. Andate piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele», 10,5 s. I figli d'Israele sono «i figli del regno», 8,12. Ma l'esempio della donna cananea, e della sua «grande fede», 15,28, dimostra come la fede in Gesù, nel quale il regno di Dio si è avvicinato e provoca ad una decisione finale, si trovi anche al di fuori d'Israele. Così, nella scena paradigmatica posta all'inizio della descrizione dei miracoli di Gesù, nel racconto cioè del centurione di Cafarnao, 8,5 ss., Gesù afferma solennemente: «In verità, vi dico: in nessuno in Israele ho trovato una fede simile», 8,io. Che questo fatto particolare abbia per Mt. un'importanza di principio, lo si può riconoscere dal fatto che egli inserisce qui il Logion desunto dalla Q (cf. Lc. 13,28): «Ma io vi dico: molti verranno dall'oriente e dall'occidente e avranno posto a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli; ma i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre...», 8,11 s. Significativa è anche la parabola del banchetto nuziale, 22,1-10: «Le nozze sono allestite, ma gli invitati furono indegni», 22,8. E così «i servi uscirono sulle strade e raccolsero tutti quelli che incontrarono, cattivi e buoni», 22,10. Il regno di Dio era destinato ad Israele, ma quando si avvicinò nell'evento Gesù esso trovò «la generazione cattiva ed adultera», «che chiede un segno che non le verrà dato», 12,38 ss.; 16,4. Gerusalemme si rivela come la città che «uccide i profeti», 23,37, e tutto il popolo grida: «Il suo sangue cada su di noi e sui nostri figli», 27,25. Così viene tolto ad Israele il regno di Dio, che passa al nuovo, «il vero Israele». «Il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato ad un popolo che porta i suoi frutti», 21,43. Sono altri uomini, gente da tutto il mondo, quelli che prendono su di sé «il giogo dolce», 11,30. Per Mt. questo passaggio si realizza già ora nella Chiesa, formata da tutti i popoli, cf. 2,1-12; 3,9; 5,5.13.14; 8,28 ss.; 24,9.14; 26,3, ecc. Quando ritornerà il Figlio dell'uomo, «tutti i popoli saranno radunati davanti a lui», 25,32. «Ed essi (gli angeli del giudizio) raccoglieranno i suoi eletti dai quattro venti», 24,31. Ma il Figlio dell'uomo è già venuto e la raccolta è già incominciata. Il nuovo Israele esiste ed ha i suoi eponimi e giudici-sovrani nei «dodici» e i suoi figli nei discepoli di Gesù. La sua attività nascosta in Galilea si presenta come il compimento della profezia del Servo di Dio, Is. 42,1-4, in cui tra l'altro è detto: «Ed egli annuncerà il diritto ai pagani», 12,18. «Nel suo nome i pagani spereranno», 12,21. Ma quando ciò sarà svelato? Quando colui, nel quale il regno dei cieli si è avvicinato, si manifesta come tale e risorge dai morti. Della sua resurrezione dai morti in Mt. si parla in termini misteriosi rinviando al «segno del profeta Giona», 12,38 ss.; cf. 16,4. Viene poi nominata espressamente nelle profezie stilizzate della passione, senza però metterne in evidenza l'importanza, 16,21; 17,22 s.; 20,17 ss. L'apparizione del Risorto, o del Glorificato, viene vista in anticipo, sulla strada di Gerusalemme, in una «visione» (‘orama), 17,9, dal cerchio più ristretto dei dodici, da Pietro, Giacomo e Giovanni, 17,1 ss. Essi dovranno tacere «fino a che il Figlio dell'uomo non sia stato risuscitato dai morti», 17,9. Dopo la resurrezione il Crocifisso viene annunciato alle donne, da parte dell'angelo al sepolcro, come il risuscitato dai morti; ad esse egli poco dopo si farà incontro, 28,1 ss. Il significato della resurrezione viene appena accennato: riguardo a Gesù essa rappresenta l'ingresso nella gloria del Servo di Dio, che è il «diletto figlio» di Dio, 17,5. Ri-guardo ai «santi addormentati», ne rappresenta la resurrezione dai morti, 27,52 s. Infine, riguardo al discepolato, ne rappresenta la costituzione in Chiesa universale. È qui che vanno letti anche 1) la comunicazione ai dodici sulla strada che conduce al Getsemani: «Voi tutti vi scandalizzerete di me questa notte... Ma dopo la mia resurrezione vi precederò in Galilea», 26,31 s., 2) la conferma di questa promessa da parte dell'angelo che al sepolcro affida il seguente incarico: «E andate presto e dite ai suoi discepoli: 'Egli è risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea. Là lo vedrete», 28,7, 3) e l'incarico affidato dallo stesso Risorto alle donne: «Andate e annunciate ai miei fratelli che vadano in Galilea, e là mi vedranno», 28,10. Il nuovo Israele si raccoglie nuovamente negli undici, in seguito alla convocazione di Gesù, in Galilea, «nel segreto, vicino al paese dei pagani, con lo sguardo rivolto alla vastità dei popoli». Esso è allora il discepolato dei «fratelli» del Risorto. Che cosa la resurrezione di Gesù dai morti rappresenti per questo discepolato raccolto in Galilea, apparirà chiarissimo nella scena conclusiva di Mt. 28,16-20. In essa vengono in chiaro anche il punto di vista dell'evangelista e la sua

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interpretazione dell'intero evento Gesù. In questa scena finale sul «monte», il luogo della rivelazione, Gesù, il risuscitato dai morti, appare agli «undici discepoli», agli eponimi e giudici e signori escatologici designati del vero Israele. Ad essi, che lo «vedono» e gli «si prostrano» davanti — «alcuni dubitavano» —, egli rivela che a lui, il risorto e il glorificato, «è data» da Dio pavsa e;xousia, «ogni potestà in cielo e sulla terra». Egli quindi si fa conoscere come il signore universale per eccellenza. Ed è come tale che egli invia i suoi discepoli nel mondo con l'incarico «di fare discepoli tutti i popoli», quindi di fondare il discepolato universale. Il discepolato di tutti i popoli, e cioè l'Ekklesia, che egli costruisce sulla roccia di Pietro e definisce sua, è quindi debitore degli inviati dal Glorificato, i quali in tal modo, oltre che signori e giudici designati del nuovo Israele, diventano anche «apostoli». Tale «fare discepoli» ( maqhteuvein, cf. 27,57) avviene mediante il battesimo «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Ma avviene anche mediante l'«insegnamento», cf. 5,19; 13,52, cioè i «precetti» di Gesù, che per Mt. abbracciano l'intero ordinamento della vita del nuovo Israele, che mira, appunto, all'osservanza di questi precetti. Mediante il battesimo e l'insegnamento degli apostoli, in virtù del mandato del Risorto, viene costituito il discepolato universale, la Chiesa. Al mandato del Kyrios risorto e glorificato segue ancora la promessa della sua perenne presenza in mezzo al suo popolo e della sua indefettibile assistenza, fedele al suo nome «Emmanuele, che tradotto significa: Dio è con noi», 1,23. Il discepolato universale, la Chiesa, non è mai senza il Risorto e il Glorificato che «ha ogni potere in cielo e sulla terra». Questa Chiesa dura fino alla suntevleia touv a;iwno" e mira oltre questa fine. Non è essa il compimento, ma lo porta ugualmente in sé, in quanto il suo Signore, che è con lei, sta in mezzo ai discepoli, anche là dove solo «due o tre sono radunati nel suo nome», 18,20.

Sintetizzando le affermazioni di Mt. sulla Chiesa si possono elencare i seguenti tratti caratteristici:

1. Essa è il discepolato universale di Gesù, la Chiesa di tutti i popoli. 2. Essa è tale in quanto vero Israele, che ha sostituito l'Israele delle «pecore perdute». 3. Essa è la volontà e l'opera di Gesù crocifisso e risuscitato dai morti, il quale è il Messia, il Figlio di Dio e dell'uomo, glorificato con il conferimento dei pieni poteri in cielo e sulla terra. 4. Questi è anche il suo centro segreto fino alla fine di questo eone, quando egli si rivelerà come signore e giudice. 5. Costitutivi per la Chiesa sono il battesimo e l'insegnamento, che Gesù le dona mediante l'incarico conferito ai suoi inviati. 6. I patriarchi del nuovo Israele sono i «dodici» che sono insieme designati per essere i suoi signori e giudici escatologici. La Chiesa di Gesù viene edificata sulla roccia di Simon Pietro. 7. Nel discepolato del Gesù terreno è preformata la struttura dell'Ekklesia e, in tal modo, garantita la sua continuità. 8. Così già alla schiera dei suoi discepoli può essere riconosciuta la caratteristica essenziale dei membri della Chiesa. Essi sono distinti dalla massa del popolo, sono un circolo aperto di coloro che lo seguono, una fraternità dei seguaci risoluti, dai quali si distinguono, a loro volta, «i dodici». 9. La Chiesa, preannunciata nella schiera dei discepoli del Gesù terreno, mediante questi è il luogo di presenza del regno escatologico di Dio. In lui infatti esso si è avvicinato in modo tale che, benché segretamente, se ne potesse fare l'esperienza.

LA CHIESA NEGLI SCRITTI LUCANI

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Tempo della Chiesa Secondo Luca la storia della Chiesa si inserisce nell'evento generale della salvezza; in altre parole, l'evento della salvezza trascende il suo fondamento costituito dall'evento salvifico Gesù ed opera anche nella nascita della Chiesa fino all'arrivo a Roma dell'apostolo Paolo e del suo vangelo. Perciò, secondo il nostro evangelista, oltre al vangelo anche la storia degli apostoli, in quanto pure essa annuncia la salvezza, deve avere un senso kerigmatico. Secondo Luca, la Chiesa che colma il tempo che si estende tra la resurrezione di Gesù Cristo e la sua parusia, è «opera» di Dio. Essa è l'opera di cui secondo Act. 13,41 già «nei profeti è detto: Guardate, o schernitori, ammirate e scomparite! Poiché nei vostri giorni compirò un'opera che non credereste se ve la raccontassero», Abac. 1,5. Essa è il prodigio escatologico di Dio che, in quanto tale, secondo Act. 5,38 s., non può essere annientato e, secondo Act. 15,18, «è noto al Signore... fin dall'eternità». È detto esplicitamente che a questa sua opera Dio «ha chiamato Barnaba e Paolo», e lo Spirito Santo li ha voluti separare «per quest'opera», Act. 13,2, che essi poi «compiono», Act. 14,26. Ma anche le formulazioni passive, con cui si riferisce della fondazione e dell'incremento delle comunità, ribadiscono questo punto. Così, ad es., è detto in Act. 2,41: «E in quel giorno si aggiunsero (prosetevqhsan) circa tremila anime», e in Act. 2,47: «E ogni giorno il Signore aggiungeva coloro che erano salvati», cf. Act. 5,14; 11,24. Degna di nota è anche la formulazione di Act. 17,4: «Alcuni di essi si lasciarono convincere e furono guadagnati da Paolo e Sila...». Questo Dio che è all'opera per edificare la Chiesa e la suscita come opera sua, secondo Lc., è il Dio Creatore. Egli è il Dio che «a tutto dà vita e respiro», che non ha mai mancato di «rendersi testimonianza» e non «è lontano da ognuno di noi», «nel quale viviamo, ci muoviamo e siamo», cf. Act. 14,15 ss.; 17,24-28. È lui che tutti gli uomini intendono, cercano e onorano, senza saperlo, quando adorano degli dei, costruiscono templi e altari e fanno dei sacrifici, cf. Act. 14,11 ss.; 17,22 ss.; 19,29 ss.; 28,6, ecc. Ed è precisamente il Dio che si è rivelato per la prima volta in Israele. Egli è il Dio d'Israele e dei suoi padri. E lo è in modo tale che questa sua rivelazione è ricca di promesse e prefigurazioni per Gesù, cf. ad es. Act. 3,22 ss. Da Dio la storia della salvezza d'Israele è orientata verso la meta, ancora nascosta ma reale, che è Gesù, cf. ad es. Act. 13,16 ss. Tutti i profeti e Mosè hanno in realtà annunciato un'unica cosa, appunto questo Gesù che è il Cristo: «Ed egli, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro ciò che sta scritto su di lui in tutte le Scritture», è detto del risorto Gesù in Lc. 24,27; cf. 24,45; e del suo apostolo scrive la conclusione degli Act. 28,23: «Ed egli spiegava loro il regno di Dio dandogli testimonianza e cercava di persuaderli riguardo a Gesù, partendo dalla legge di Mosè e dai profeti. E ciò durò dalla mattina alla sera». Cf. anche 8,30 ss.; 10,43; 13,32 ss.; 17,11; 26,6, ecc. Ma con Gesù la promessa di rivelazione di Dio ad Israele ha già sempre presente anche la Chiesa formata di Giudei e di pagani. Così si esprime Giacomo al concilio apostolico, Act. 15,153., citando Am. 9,11: «In quel giorno rialzerò la capanna vacillante di Davide, riparerò le brecce e rialzerò le rovine»... Anche in Le. la Chiesa è «il vero Israele» che ha sostituito l'antico. «Ciò può essere documentato dal fatto che il Risorto appare in Gerusalemme e lega provvisoriamente gli apostoli a questa città. Qui verrà effuso lo Spirito. A Gerusalemme si rife-risce anche la Chiesa pagano-cristiana...», scrive a ragione H. Conzelmann. Da ultimo, e in maniera definitiva, Dio si rivela in Gesù. E mediante questa rivelazione avviene l'adempimento delle promesse, l'opera di Dio, la Chiesa. Questa rivelazione, per Lc., comprende Gesù nella sua storia terrena, il Crocifisso e il Risorto, e colui che appare ai suoi testimoni designati come il Risuscitato dai morti, il Glorificato. E questo merita, per diversi aspetti, una certa attenzione. Dio si rivela come colui che realizza tutto già nel Gesù terreno, in Gesù il «nazareno», come spesso viene chiamato, Lc. 18,37; Act. 2,22; 3,6; 4,10, ecc. Probabilmente con tale appellativo Lc. intende Gesù «di Nazareth». Questo inserimento dell'attività terrena di Gesù nella rivelazione è posto in particolare rilievo due volte negli Act.: 2,22 ss. e soprattutto 10,36 ss. Ma sono proprio questi passi — cf. anche Lc. 24,19 — a farci capire che anche per Lc. quest'attività di Gesù è soltanto la premessa per il vero e proprio avvenimento della rivelazione di Dio in Gesù, per la croce e la risurrezione, e soltanto nella loro luce può essere compresa. Di questi eventi si parla in diversi modi, e subendo già l'influsso delle formule di fede della comunità primitiva, dall'epilogo di Lc. alla finale degli Act. Essi inoltre sono chiaramente coordinati tra loro così da formare il centro dell'intero evento salvifico di Gesù. Basta che continuiamo a leggere i due testi citati perché ci divenga chiaro ove stia per Lc. il centro di gravità della predicazione della

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salvezza, Act. 2,23 ss.; 10, 39b-43. Ma si può ricordare anche, tra l'altro, 2,36; 3,13 ss.; 5, 30 ss.; 13,26-35, ecc., Dio si rivela in un evento, nel quale sfocia quanto Gesù compie nella sua passione, anche se il nesso azione - passione è appena accennato da Lc. Il senso di questo evento viene svelato nella risurrezione di Gesù: il Dio, che risuscita i morti, è qui all'opera, cf. ad es. Lc. 24,5; Act. 26,8; anche 23,6; 24,21. Caratteristica è l'affermazione di Act. 4,2: cataggevllein e;v tw° ;Ihsou th;n avnavstasin th;n e;c necrwn. Ma la risurrezione di Gesù crocifisso compare nell'orizzonte della storia in quanto il Risorto si fa «vedere» come tale. E ciò Lc. lo annuncia sia in Lc. 24, in maniera esplicita e ripetutamente, che in Act. 1; 3,15; 10,40 s.; 13,31. Non si deve inoltre dimenticare che anche per Lc. le apparizioni, circoscritte nel tempo, di Gesù risorto sono le apparizioni di colui che è già stato veramente glorificato nella risurrezione. Egli, secondo Lc. 24,5, è «il Vivente», colui che «vive», 24,23, che «con numerose prove si è mostrato vivo dopo la sua passione; durante quaranta giorni è apparso e si è intrattenuto sul regno di Dio», Act. 1,3. Risuscitandolo, «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri, ha glorificato» il suo servo Gesù, 3,13. E il Risorto chiede ai disce-poli che andavano ad Emmaus: «Non doveva il Cristo soffrire queste cose ed entrare nella sua gloria?», Lc. 24,26. Di qui si può anche comprendere perché per Lc. Paolo compaia accanto a Pietro, benché a lui fosse apparso «soltanto» il Glorificato come tale e quindi egli, Paolo, non fosse un testimone dell'attività terrena di Gesù e delle sue apparizioni come Risorto. E proprio questo punto di vista, secondo il quale il Risorto come Vivente e Glorificato si fa vedere entro un tempo sacro e a determinati testimoni, ha per Lc., un'importanza particolare. Infatti, in questo evento rivelativo, in fondo, per Lc. viene fondata la Chiesa, ancora in maniera nascosta ma già non più soltanto nella promessa bensì nel compimento. Che cosa accade per Lc. in questo evento? L'autosvelamento di Gesù come il Risorto in persona agli «apostoli», Act. 1,3; Lc. 24,36 ss., il suo rivelarsi attraverso la parola e i segni, in particolare la manifestazione dell'agire di Dio nella passione e risurrezione di Gesù alla luce degli scritti dell'AT, Lc. 24,26.32.44 ss., la predicazione del regno di Dio, Act. 1,3, e poi l'automanifestazione di Gesù nel segno della frazione del pane, Lc. 24,30 s. 35. E ancora l'inaugurazione del kerygma nel suo nome per tutti i popoli, Lc. 24,47, l'assunzione degli «undici» a testimoni, Lc. 24,47; Act. 1,8, e la loro investitura da parte dello Spirito santo (cioè del Risorto), Act. 1,2 e la connessa promessa dello Spirito santo ai testimoni, Lc. 24,49; Act. 1,8. Infine la concessione di un certo «tempo» o meglio: un «periodo» incalcolabile per l'azione dello Spirito e dei testimoni sotto il dominio del Signore glorificato che ritorna, Act. 1,6 ss. I «tempi dell'incertezza» sono passati, Act. 17,30; cf. 3,17, appunto a causa della rivelazione. Da quando Dio «ha reso Gesù credibile per ognuno risuscitandolo dai morti», Act. 17,31, è incominciato il tempo nuovo. La Chiesa, la cui premessa è costituita dagli eventi ricordati, ha ora questo tempo, che non dura all'infinito ma soltanto fino a quando il Glorificato ritornerà come il giudice stabilito da Dio, Act. 1,11; 3,19 ss.; 10,42 s.; 17,30 s.

Tempo di azione dello Spirito Il tempo della Chiesa per Lc. è il tempo dello Spirito che agisce. Questo Spirito viene normalmente detto to; pneuma a;vgion, Act. 1, 2.5.8.16; 2,4.18 ecc. Egli quindi è designato come lo Spirito proprio di Dio che confonde ogni spirito del mondo. Com'è detto nella citazione di Gioele in Act. 2,17.18, egli è il «mio Spirito», lo «Spirito del Signore» (pneuma curivou), cf. Act. 5,9.3; 8,39. Egli operava già nella parola di Davide conservata nella Scrittura, Act. 1,16; 4,25 e in quella del profeta Isaia, Act. 28,25, ma anche nei profeti immediatamente anteriori a Gesù, in Giovanni Battista, Lc. 1,15.17, in Elisabetta, Lc. 1,41, Zaccaria, Lc. 1,67, e Simeone, Lc. 2,25.27. Ma questo Spirito è anche lo Spirito di Gesù. Così egli viene chiamato in Act. 16,7: «Lo Spirito di Gesù non lo permise loro». Gesù, che secondo Lc. è generato dallo Spirito, Lc. 1,35, è unto dallo Spirito, Lc. 23,21 s.; 4,16 ss., agisce e parla in virtù dello Spirito santo, Act. 10,38, ed è guidato da lui, Lc. 4,1.14; 10,21, è anche colui che «battezzerà con lo Spirito santo e il fuoco», Lc. 3,16. Ma quando avverrà questo? Dopo la sua risurrezione ed esaltazione. Così Gesù risorto parla ai suoi discepoli a conclusione di Lc.-. «Ed ecco, io mando a voi la promessa del Padre mio», Lc. 24,49. E gli Act. lo confermano. Al riguardo sono particolarmente importanti tre passi, cioè 1,2; 2,33-36 e 2,38. Come cuvrio", e Cristov" egli effonde lo Spirito santo, che ha ricevuto dal Padre nella sua esaltazione alla destra di Dio, sui «dodici» per coloro che si convertono e si fanno battezzare al fine di ottenere la remissione dei peccati. Sono così giunti

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«gli ultimi giorni» e le promesse sono adempiute. Ma in che misura, secondo Lc., l'effusione dello Spirito crea la Chiesa? È infatti sotto questo profilo che noi ora ne parliamo. Possiamo dire che lo Spirito scende sui membri delle comunità e domina in esse, in quanto si impadronisce dei dodici, che per Lc. sono già «gli apostoli», e viene comunicato anche a Paolo per inviarlo alle genti, e in quanto poi questi dodici e Paolo con il suo aiuto costituiscono delle comunità. Approfondiamo brevemente questo concetto. Per Lc. «i dodici», e «gli undici», anche dopo la morte e risurrezione di Gesù, svolgono il ruolo di un'istituzione normativa per la Chiesa nascente. Ma è importante notare che essi vengono ricordati come oiv dwdeca solo in Act. 6,2. Normalmente essi sono oiv e;vndeca a;povstoli, Act. 1,26, o semplicemente oiv a;povstoli, Act. 1,2; 2,37. 42.43; 4,33 ecc., così come in Lc. 6,13 vengono identificati esplicitamente con gli apostoli, cf. Lc. 9,10; 17,5; 22,14; 24,10. In altre parole, per Lc. essi sono i principi e i giudici escatologici nei confronti della Chiesa universale, e ciò come protomissionari. Lc., dopo il racconto delle apparizioni del Risorto e della sua ascensione in cielo, riproduce il cosiddetto catalogo degli apostoli, Act. 1,13, che aveva già riportato in Lc. 6,12-16. Con essi egli menziona la prima comunità di Gerusalemme, di cui fanno parte, stringendosi attorno ad essi, «le donne e Maria, la madre di Gesù, e i suoi fratelli», Act. 1,14. Sono «gli undici e i loro compagni», Lc. 24,33; cf- 24,9.10. Questi «undici» verranno di nuovo completati con l'elezione di Mattia compiuta da Dio mediante il sorteggio, Act. 1,26. «Erano riuniti in circa centoventi persone» coloro ai quali Pietro fece la proposta, Act. 1,15. Si trattò del completamento della corporazione escatologica che, quindi, anche ora è costituita da «gli apostoli». Essi hanno un' e;piscophv, Act. i,2ob, e convocano «la moltitudine dei discepoli», Act. 6,2. I diaconi eletti dalla comunità «vennero presentati agli apostoli che, dopo aver pregato, imposero loro le mani», Act. 6,6. Sono essi che inviano Pietro e Giovanni in Samaria, Act. 8,14. Donde essi traggano la loro autorità si può vedere dalle condizioni che il candidato doveva adempiere. Questi doveva essere uno degli uomini «che ci hanno accompagnato durante tutto il tempo in cui il Signore Gesù è vissuto in mezzo a noi, dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui ci fu tolto», Act. 1,21 s. Ma quale sia il loro compito essenziale appare dalla continuazione della frase citata: «uno di essi deve diventare assieme a noi testimone della risurrezione», Act. 1,22b. Tra gli «apostoli» poi emerge Pietro, cf. Lc. 22, 31 s., per cui anche ora si può parlare di «Pietro e gli altri apostoli», Act. 2,37, di «Pietro con gli undici», Act. 2,14, di «Pietro e gli apostoli», Act. 5,29. Quando si parla di lui negli Act., fino a 12,18 e, in seguito, ancora una volta in 15,7 ss., egli è anche il portavoce, cf. Act. 1,15; 2,14.375.; 3,3 s. 6.11.12; 4,8.13.19; 8,20. Ma gli spetta anche la direzione della comunità. Dietro sua iniziativa i dodici vengono completati, Act. 1,15 ss. Anania e Safira depongono «una parte dei loro beni alienati ai piedi degli apostoli», Act. 5,2, cioè di Pietro, 5,3.8 s. Pietro è anche l'iniziatore della missione tra i pagani dopo aver lavorato da missionario in Samaria, Act. 9,32 ss. 36 ss. Lo è per esplicito ordine di Dio e difende questo passo con cui i dodici diventano testimoni apostolici per la Chiesa dei giudei e dei pagani, Act. 10 s.; 15,6 ss. Ora, secondo Lc., a questi dodici viene comunicato lo Spirito santo Act. 2,11, che era stato loro promesso dal Risorto, Lc. 24,49; Act. 1,4 s. 8. Essi diventano i portatori e comunicatori originari dello Spirito e, come tali, i «testimoni» di Gesù «in Gerusalemme e in tutta la Giudea e la Samaria, fino ai confini della terra», Act. 1,8; cf. anche 5,31 s. Non è lo Spirito a renderli ciò che sono in quanto «i dodici». Comunque ricevono lo Spirito come la duvnami", il potere e la forza di essere degli apostoli, nel senso di «testimoni» che con il suo aiuto suscitano nuovamente lo Spirito. Così lo Spirito non parla solo a Pietro, Act. 10,19, così non è solo Pietro che parla «pieno di Spirito santo» davanti al Gran Consiglio, Act. 4,8, così Pietro e Giovanni non chiedono soltanto per i Samaritani lo Spirito santo, che questi ricevono con l'imposizione delle mani, Act. 8, 15 ss., coloro che mentono agli apostoli «mentono allo Spirito santo», Act. 5,3, o «tentano lo Spirito del Signore», Act. 5,9, non è decisione dello Spirito santo soltanto la decisione degli apostoli e degli anziani di Gerusalemme, Act. 15,28, ma i dodici, e ciascuno di essi, riempiono il mondo, se così ci si può esprimere, di Spirito. Benché divenuti portatori dello Spirito a pentecoste, essi, come apostoli e testimoni, diventano comunicatori dello Spirito ad ogni nuova pen-tecoste. Il grande esempio al riguardo, per Lc., è costituito dalla predicazione di Pietro a Cesarea davanti a Cornelio e ai suoi Act. 10,44-48. Ma per Lc. non ci sono solo «i dodici», divenuti «testimoni» apostolici mediante l'effusione dello Spirito santo, ma anche lo strano solitario, l'apostolo di eccezione, Paolo. Questi, indubbiamente, trova un po' di difficoltà ad essere collocato nell'insieme della storia salvifica della Chiesa primitiva. Di lui ci riferisce quasi l'intera seconda parte degli Act.,

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alla stessa maniera che Pietro costituisce il punto focale della prima, per cui gli Act. nel senso del loro autore potrebbero essere detti Ada Vetri et Pauli. Eppure solo due volte, assieme a Barnaba e in un senso generale, viene detto a;povstol", come i dodici, Act. 14,4.14. Osserviamo brevemente: Paolo non fa parte degli «uomini che ci hanno accompagnato per tutto il tempo in cui Gesù è vissuto in mezzo a noi», Act. 1,21. Egli era piuttosto un persecutore ufficiale e personale delle comunità di Gesù, Act. 7,58; 8,3; 9,13.21 s. Non appartiene alla schiera sulla quale a Gerusalemme, nel giorno di pentecoste è sceso lo Spirito santo; lo Spirito egli lo ha ricevuto con il battesimo, come ogni cristiano, Act. 9,17 s.; 22,16. Dopo la sua conversione, secondo Lc., fu anzitutto maestro nelle sinagoghe e nelle comunità di Damasco, Gerusalemme e Antiochia, Act. 9,19 ss. 27 ss.; 11,25 s.; e fece parte «dei profeti e dottori» della Chiesa di Antiochia, Act. 13,1. Da Barnaba fu condotto «dagli apostoli» a Gerusalemme, Act. 9,27, da Tarso fu portato ad Antiochia, Act. 11,25, e poi assieme a Barnaba fu inviato per la colletta a favore di Gerusalemme, Act. 11,29; 12,25. In altre parole, rispetto ai dodici, sui quali si fondava la Chiesa, egli era una comparsa del tutto nuova, e non era neppure un dottore carismatico o un diacono della comunità di Antiochia. Dall'altra parte però egli si convertì e comprese che il suo essere cristiano lo rendeva «strumento eletto di Dio», Act. 9,15, nell'apparizione diretta del Kyrios glorificato, Act. 9,3 ss.; 22, 6 ss.; 26,12 ss. che per lui fu insieme la destinazione ad essere «servo e testimone» del Kyrios Gesù glorificato, Act. 26,16 ss.; cf. 9, 15 s. Questa apparizione del Glorificato sta, come Lc. e Paolo hanno ben capito, sullo stesso piano delle apparizioni del Risorto agli undici. Anche la missione di Paolo si fonda in essa. L' w;vfqh cavmoiv di 1 Cor. 15,8 corrisponde, anche secondo Lc., all' w;vfqh Khfa°, eivta toiv" dwvdeca 1 Cor 15,5. In quanto tale — e non soltanto come profeta e dottore carismatico, quale fu certamente per un dato periodo — ora egli diventa l'apostolo Paolo, che si avvicina ai «dodici» e, come essi, diviene fondamento della Chiesa. E a ciò egli viene espressamente deputato anche dallo Spirito santo, durante il servizio di culto della comunità riunita, Act. 13,1-4. Perciò si può parlare anche della sua missione da parte di Dio e del «servizio» che egli ha «ricevuto dal Signore Gesù», Act. 20,24. In un'estasi nel tempio di Gerusalemme Dio gli dice: «Va', poiché ti voglio inviare lontano, tra i pagani», Act. 22,21. Egli quindi, secondo la presentazione che ne fa Lc., non viene inviato né dagli apostoli né dalla comunità di Gerusalemme, e neppure si arroga da sé tale missione, ma è Dio che mediante Gesù Cristo lo invia nello Spirito santo. E così egli, come «i dodici apostoli», compie il suo servizio missionario guidato dallo Spirito santo, Act. 16,6 s.; 20,22; e «riempito di Spirito santo». cf. Act. 13,9: plhsqteiv" pneuvmato" a;givou, Act. 4,8. Il suo servizio è la predicazione del vangelo in parole ed opere, Act. 13,16.43.45; 14,9.12; 16,14 ecc.; inoltre 14,10 s.; 16,18; 19,6 ss.; 20,10 ss.; 28,8 s., nella «testimonianza», Act. 18,5; 20,21.24; 22,143., ecc. Ma del suo servizio fa parte anche la sorveglianza sulle comunità, come accenna ad es. Act. 14,23 e come soprattutto testimonia il racconto della convocazione a Mileto degli anziani della comunità di Efeso e del discorso di addio dell'apostolo, Act. 20,17-35. Si può quindi dire realmente che Paolo è accostato ai «dodici». Probabilmente in ognuno di questi due apostolati Lc. vede il complemento e il correttivo dell'altro.

La parola apostolica

Ora però in che cosa consiste più specificamente questa missione che si può vedere comune sia ai dodici apostoli che a Paolo? O in altre parole, rimanendo più aderenti al nostro contesto: in che maniera lo Spirito, che riempie gli apostoli e spinge all'apostolato, diviene attivo? Od anche, ma sempre nella stessa direzione: come viene convocata la Chiesa ad opera degli apostoli in virtù dello Spirito e come sorgono le comunità in tutto il mondo? La risposta è unanime: mediante la parola e i segni degli apostoli che servivano la parola. Lo Spirito santo, che è lo Spirito di Dio e di Gesù, mediante e nel quale Dio si rende percepibile in Gesù, si esprime nella parola apostolica. Già Lc. 12,12 (= Mt. 10,20) riferisce un detto di Gesù rivolto ai suoi discepoli secondo il quale, quando si troveranno in giudizio, non dovranno preoccuparsi di come difendersi. «Poiché lo Spirito Santo in quell'ora vi insegnerà cosa dovrete dire». La formulazione di Mt. è un po' diversa: «Poiché non siete voi che parlerete, è lo Spirito del Padre vostro che parlerà in voi». Lo Spirito Santo dona la parola giusta della testimonianza. E ciò vale, pur con tutte le distinzioni, soltanto per la parola della missione e della predicazione. Una presentazione paradigmatica si ha nel

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racconto della pentecoste. In Act. 1,8 si prometteva: «Ma voi riceverete una forza, quella dello Spirito Santo che discenderà su di voi. Voi sarete allora miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e fino ai confini della terra». E Act. 2,4 riferisce: «Tutti furono allora riempiti di Spirito santo e cominciarono a parlare in altre lingue, secondo che lo Spirito dava loro di esprimersi». La lingua dello Spirito — ecco che cosa per Lc. è contenuto in questo evento escatologico, cf. Act. 2,17 — è insieme lingua miracolosa e miracolo linguistico. Ma il rapporto Spirito-lingua viene espresso anche in altri modi, ad es. 4,8: «Allora Pietro, ripieno di Spirito Santo, disse loro...» oppure Act. 4,33: «E con grande potenza (megavlh° dunavmei) gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù». In Act. 9,31 si parla della paravclhsi" tou a;givou pneuvmato"; in rapporto con la missione apostolica. Ma del rapporto parola e Spirito santo si parla anche — lo approfondiremo in seguito — a proposito di Stefano, Act. 6,10, di Barnaba, Act. 11,24, di Apollo, 18,25, nonché della comunità, Act. 4,31. Questa parola, nella quale si esprime lo Spirito santo, riaccende a sua volta lo Spirito, come mostrano Act. 10,44 ss.; ",15; 13,52 (e 44 ss.), ecc. Così anche la parola della predicazione apostolica, da una parte, viene detta ov lovgo" tou Qeouv, Act. 4,29.31; 8,14; 11,1; 13,7, ecc., oppure lovgo" tou curivou, Act. 8,25; 12,24; 13,48-49; ecc., e dall'altra sono ta; rhvmatav mou (di Pietro), Act. 2,14; cf. 10,44; 11,14, o di Paolo, Act. 26,25. Oppure, da una parte, è hv didachv twn a;postovlwn, Act. 2,42; cf. 5,28; 17,19, e dall'altra hv didachv tou curivou, Act. 13,12. La parola, in cui si esprime lo Spirito santo, è insieme parola di Dio e dell'uomo. Che tale parola venga ora designata in molti modi negli Act., facendo così emergere la pienezza delle istanze che pone, lo accenniamo soltanto. Significativo per il nostro contesto è forse il fatto che la predicazione apostolica è un parrhsiavzesqai, un dire parole libere e aperte, come ad es. in Act. 9,27: Paolo e;n Damascw° e;parrhsiavsato e;n tw° o;novmati ;Ihsou e in 9,28: parrhsiazovmeno" e;n tw° o;novmati curivou , cf. 13,46; 14,3; 18,26; 19,8; 26,26: parrhsiazovmeno" lalw. Pure il sostantivo corrispondente parrhsiva affiora in tali contesti, Act. 2,29; 4,13.29.31; 28,31. La parresia è la parola che scaturisce dalla libertà garantita dallo Spirito, la parola franca in senso pregnante. Un altro concetto importante per la predicazione apostolica è quello di paracaleivn, dell'esortare incoraggiare, consigliare, confortare, ma anche pregare. A prescindere da Act. 2,40, viene usato soprattutto per connotare un detto di incoraggiamento proferito all'interno della comunità, Act. 11,23; 14,21 s.15,32; 16,40; 20,1.2. La parola quindi, che è vangelo, insegnamento, proclamazione, annuncio pubblico, discorso, notifica-zione, comunicazione, testimonianza e anche detto dell'araldo o kerygma, assume i tratti di parola franca e di esortazione, supplica e scongiuro, di appello e di incitamento. Ed è sempre ov lovgo"? per eccellenza, Act. 4,4; 6,4; 8,4; 10,36.44; 11,19, ecc. Questa parola, in quanto parola dello Spirito, non cade sotto l'impiego arbitrario dell'apostolo e nemmeno dei carismatici e della comunità in generale. I dodici apostoli sono piuttosto dei servi della parola, Act. 6,4; cf. Lc. 1,2. Paolo, come apostolo, è stato attivo «nel servizio di Dio», Act. 21,19, parla del «servizio che io ho ricevuto dal Signore Gesù: di testimoniare il vangelo della grazia di Dio», Act. 20,24, cf. 26,16. E i dodici apostoli e Paolo servono il vangelo nella misura in cui accettano persecuzioni e sofferenze a motivo di questa parola. L'intero libro degli Act. è pervaso di notizie e racconti di minacce, insidie, prigionie, flagellazioni, uccisioni, ecc., dei messaggeri apostolici: Act. 4,3 ss. 25 ss.; 5,17 ss.26 ss.41; 6,it ss.; 7,54 ss.; 8,1 ss., ecc., inoltre 13,50 ss.; 14,5 ss.; 15,26; 16,19 ss.; 17,5 ss., ecc. Essi danno la loro vita per il vangelo, Act. 20,22 s.; 21,13 s. Ma questa sofferenza non è qualcosa di casuale o di legato alle circostanze, essa è piuttosto necessariamente connessa con la predicazione e l'adesione al vangelo, Act. 9,15 s.; 14,22; cf. 20,18 s. Questa parola, cui gli apostoli servono, viene infatti spesso presentata come un'entità autonoma. Così può essere detto: «la parola di Dio cresceva», Act. 6,1 «La parola del Signore cresceva e si moltiplicava», Act. 12,24, «Così la parola del Signore cresceva e si affermava potentemente», Act. 19,20, cf. anche 13,49. Così pure Paolo, congedandosi da Mileto, può dire: «Ed ora io vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, che ha il po-tere di costruire l'edificio e procurarvi l'eredità con tutti i santificati», Act. 20,32. La Chiesa è affidata a Dio e alla potente parola della grazia. Ma qual è il contenuto di questa parola dello Spirito che edifica la Chiesa, che cosa dice? Naturalmente essa esprime l'evento che lo Spirito santo dischiude e nel quale si manifesta. Abbiamo già affermato questo evento come il presupposto fondamentale della edificazione della Chiesa; ora vogliamo ricordarlo nel contesto del nostro argomento. Questa parola, cui la Chiesa è debitrice, annuncia «il vangelo di Gesù», Act. 8,35: eu;aggelivsato... to;n ;Ihsoun .

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Perciò si può dire anche: «il Messia Gesù», Act. 5,42, o parlare di ceruvssein to;n Cristovn, Act. 8,5, di eu;aggelizesqai tovn cuvrion ;Ihsoun , 11,20. È in questo contesto che compaiono le brevi formule di fede, come ad es. in Act. 18,5: Paolo testimoniava ai Giudei ei?nai to;n Cristovn ;Ihsoun cf. 18,28 O: e;chvrussen tovn Ihsoun, o?ti ou?to" evstin ov uivo;" tou qeou , Act. 9,20. Inoltre la parola esprime tav periv tou ;Ihsou «l'affare Gesù», che per Lc. naturalmente comprende morte, resurrezione, glorificazione e ritorno, Act. 18,25; cf. 28,23. In Act.: 28,31 è detto: «Egli annunciava il regno di Dio ed insegnava ciò che riguarda il Signore Gesù Cristo con piena franchezza e senza ostacoli». Ma il cuore di tale predicazione per Lc., sia riguardo ai dodici apostoli che a Paolo, è costituito dalla resurrezione di Gesù Cristo dai morti, come si può vedere ad es., in Act. 1,21 s.; 2,30 ss., 4,33; 22,14 s., 26,16. Cf. anche Act. 17,18: tovn Ihsoun cai th;n avnavstasin eu;hggeli;zeto. È del resto naturale mettere in evidenza la resurrezione di Gesù che ha sofferto ed è morto sulla croce, come in Act. 17,3; 26,22 s. Ma croce e resurrezione vengono inseriti nel contesto degli altri eventi di Gesù, di cui furono testimoni anche i dodici, come mostra soprattutto Act. 10,36-43. L'insieme degli eventi di Gesù, da Giovanni Battista fino al futuro ruolo di giudice che Gesù svolgerà, viene inserito, a sua volta, nella vasta storia della salvezza, quale viene presentata ad es. da Paolo in Act. 13,16-43. Essa è anzi pasa hv boulh; tou qeou, Act. 20,2. In questo evento salvifico di Gesù viene offerta da Dio «la remissione dei peccati» che ora, mediante il vangelo, è annunciata: «Sappiatelo dunque, fratelli, è per lui che la remissione dei peccati vi è annunciata», Act. 13,38; cf. 5,31; Lc. 24,4633. In tal modo la rivelazione dell'evento salvifico di Gesù Cristo provoca «la conversione» degli uditori, facendoli rivolgere al Dio vivente che è il creatore e la guida della storia, Act. 14,15; 26,17 ss.; 11,18. Ma questa conversione, come vedremo in seguito, è il sorgere della fede che genera la promessa remissione dei peccati, cf. Act. 10,43. Così la predica di Pietro nel giorno di pentecoste termina esortando alla conversione e al battesimo, Act. 2,37 s. In tutto Gesù è presente la parola di Dio che fa incontrare in lui l'agire di Dio mediante lo Spirito Santo e fa nascere la fede» edificando così la Chiesa, ov logo" th" swthriva" tauvth", Act. 13,26. Pietro «ti (a Cornelio) dirà delle parole che daranno la salvezza a te e a tutta la tua famiglia», è detto in Act. 11,14. Ma la salvezza o la guarigione è «la vita». Perciò Act. 11,18 può dire: «...essi dicevano: Così dunque, anche ai pagani Dio ha dato il pentimento che conduce alla vita», cf. 5,20; 13,46.48. Il Gesù crocifisso e risorto è addirittura ov a;rchgo;" th" zwh", 3,15. Ma la «vita» è anche «la luce». La conversione è quindi passaggio «dalle tenebre alla luce», Act. 26,17 s. Gesù risuscitato dai morti annuncia la luce sia ad Israele che ai pagani, cf. Act. 26,23. Così il lovgo" tou qeou, che gli apostoli bandiscono, è ov logo" th" cavrito" auvtou, Act. 14,3. Paolo «deve testimoniare il vangelo della grazia di Dio», Act. 20,24. Così egli, come abbiamo già udito, affida la comunità di Efeso al cuvrio" e tw° lovgw° th" cavrito" auvtou, Act. 20,32. Salvezza, vita e luce, questa è la grazia di Dio. Essa viene offerta a tutti i popoli in forza dello Spirito Santo, attraverso la parola apostolica. Lo Spirito Santo, secondo Lc., non si serve soltanto della parola, ma agisce anche nei segni efficaci. Già il racconto della pentecoste lo sta a dimostrare là dove lo Spirito produce il miracolo delle lingue, che viene presentato come un misto singolare di glossolalia e discorso in lingue straniere. Lo Spirito produce una parola che, al di là di ogni linguaggio umano, può essere detta e compresa in ogni lingua umana, Act. 2,4.6.11.17. La glossolalia è ricordata pure in Act. 10,46. Lo Spirito opera anche altri tevrata caiv shmeia o semeia caiv dunavmei", cf. Act. 2,22.43; 4,39 ecc.; 8,13; 10,38, ecc., o soltanto crpsla, cf. Act. 4,16.22; 4,8. Tali prodigi e segni consistono ad es., in guarigioni, Act. 4,16.22.30, ecc., o nello scacciare i demoni o pneuvmata a;cavqarta, ad es. 5,16; 8,7; 16,18. Essi avvengono soprattutto «ad opera degli apostoli», Act. 2,43 o, come si dice, dia; twn ceirwn twn avpostolwn, Act. 5,12. Costoro s'inseriscono quindi nell'attività di Gesù, Act. 2,22; cf. 4,16 s., ecc. Eppure non sono proprio essi che qui agiscono, è invece Dio che compie le sue opere attraverso essi e le loro mani. «Il Signore rendeva testimonianza alla predicazione della sua grazia operando segni e prodigi con le loro mani», Act. 14,3; cf. 15,12; 19,11; anche 4,29 s. Queste opere tuttavia vengono compiute anche mediante Gesù Cristo, Act. 9,34 e soprattutto «nel nome di Gesù Cristo», Act. 3,6 ss.16; 4,10.29 s. Il nome stesso salva, quando si crede in esso, Act. 3,16. Ciò contraddice palesemente la supposizione che si possa agire per virtù propria, Act. 3,12. È «il nome», per la cui predicazione è stato scelto l'apostolo, Act. 9,15, in virtù del quale si predica, Act. 4,17 e si «insegna», Act. 4,18; 5,28.40, e nel quale l'apostolo si presenta sicuro, Act. 9,27.28; è esso che, oltre al regno di Dio, forma il contenuto del vangelo, Act. 8,12.

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Mediante questo nome ognuno che crede in esso riceve il perdono dei peccati, Act. 10,43; cf. 26,18. È ancora in virtù di questo nome che si produce la conversione, cf. Lc. 24,47. È l'unico nome in cui si possa trovare salvezza, Act. 4,12; cf. 2,21. In esso si deve credere, Act. 3,16, lo si deve «invocare», Act. 2,21; 9,14.21, e «glorificare», Act. 19,17. Su esso o in esso si viene battezzati, Act. 8,16; 19,5 s.; 10,48, e mediante l'imposizione delle mani si riceve lo Spirito, Act. 8,16; 19,5 s. Esso, infine, è il nome per il quale gli apostoli soffrono e muoiono, Act. 5,41; 9,16; 15,26; 21,13. In questo nome è presente Gesù stesso. In Act. 4,7 Pietro e Giovanni, dopo la guarigione del paralitico, vengono interrogati dai membri del Gran Consiglio: e;n poiva° dunavmei h;v e;n poivw° o;novmati e;poihvsate touto uvmei" . Nel nome di Gesù opera la sua potenza. Che ciò debba essere inteso concretamente risulta dal fatto che a Lc. preme contrapporre questi prodigi degli apostoli ad ogni sorta di stregoneria, cf. Act. 8,9 ss.; 13,8; 19,13 ss. Lo Spirito Santo non si può ottenere con denaro, esso è «il dono di Dio», 8,20, e non è a disposizione dell'uomo. Il nome del Signore Gesù, inoltre, non può essere usurpato, 19,13 ss. Prodigi e segni in questo nome avvengono solo nella fede, Act. 3,16; 14,9. In questo modo si è già accennato al senso di tali prodigi e segni». Essi vengono spesso nominati accanto alla parola, cf. Act. 4,29 s.; 8,6 ss.; 19,10 s. Anzi, in Act. 13,12, la minaccia di Paolo, seguita dal fatto miracoloso, viene definita «la dottrina del Signore». Come debba essere inteso nel senso di Lc. il rapporto tra parola e prodigi si può vedere dal testo già citato, Act. 14,3, secondo il quale i prodigi e i segni operati dalle mani degli apostoli sono testimonianza di Dio in favore della parola predicata della sua grazia. Essi sono una dimostrazione della potenza della parola apostolica. Prodigio e segno sono una predicazione mediante dei gesti, per cui appartengono al vangelo. Riassumendo possiamo dire che, secondo Lc., Dio, mediante la forza illuminante e vivificante dello Spirito Santo, rende Gesù, crocifisso, risorto e glorificato per la potenza di Dio, intimo all'uomo e lo fa vedere, nel tempo delimitato dallo Spirito Santo, come colui che è stato promesso, è venuto e ritornerà nel mondo. Ciò avviene in virtù della parola, colma e ricolmante di Spirito, dei «dodici apostoli» in mezzo ai Giudei e ai pagani, e in virtù della parola, colma e ricolmante di Spirito, dell'apostolo per eccezione: Paolo. Essa si conferma parola di salvezza (in senso pregnante) nei gesti salvifici che ne rivelano simbolicamente la realtà di salvezza.

Fede, culto, carisma e ministero

Con questa parola apostolica nasce la Chiesa. È la sua sorgente e la sua perenne forza interiore. E lo è per coloro che l'accolgono e credono come il lovgo" touv Qeou. Questo è l'altro aspetto della realtà continuamente ribadita negli Act. Per questo si parla anzitutto di a;couvein tovn lovgon touv Qeou. Ci si raccoglie attorno alla parola e si «ascolta» ciò ch'essa dice, cf. 13,44. Il proconsole di Cipro, Sergio Paolo, desidera «udire la parola di Dio», Act. 13,7, cf. 10,44; 19,10. L'uditore percepisce la parola e l'accoglie. Al riguardo si parla di devcesqai, e una volta di a;podevcesqai, Act. 2,41. «La Samaria ha accolto la parola di Dio», Act. 8,14; cf. 11,1; 17,11. Accogliere la parola, e quindi la realtà salvifica che in essa si fa presente, equivale a «giungere alla fede» e credere. Così si esprime Act. 4,4: «Molti di coloro che avevano inteso la parola abbracciarono la fede». E Pietro dichiara nel concilio apostolico, Act. 15,7: «Affinché i pagani udissero dalla mia bocca la parola del vangelo ed abbracciassero la fede», cf. Act. 13,7.8. Come si debba valutare più dettagliatamente il processo della fede lo mostra Act. 16,14 s. Lidia «ascoltava», «il Signore le aprì il cuore», essa «si attaccò alle parole di Paolo», diviene «credente nel Signore», si fa «battezzare insieme con la sua casa», pisteuvein viene spesso usato in senso assoluto, Act. 13,48; 14,1; 15,5, ecc. ma spesso viene anche ricordato l'oggetto della fede, ad es., ei;"... Ihsoun , Act. 20,21; ei;" to;n cuvriou, Act. 14,23, ecc. La fede si apre a questo Gesù e, da non dimenticarsi, all'intero evento Gesù, cf. Act. 10,43: 36 ss. Questa fede implica un rivolgimento o una svolta. Essa rappresenta un e;pistrevfein e;piv to;n cuvrion, cf. Act. 11,21; 9,35-42. Secondo Act. 20,21, Paolo ha testimoniato davanti ai Giudei e ai pagani th;n eiv" Qeo;n metavnoian cai; pivstin eiv" to;n cuvrion hvmwn ;Ihsoun. Il rivolgersi a Dio è metavnoia conversione. Metavnoia è il contenuto della predicazione universale ad opera dei testimoni in virtù dello Spirito, Lc. 24,45-49. E metavnohvsate (ou^n cai; e;pistrveyate) è l'appello degli apostoli agli a;vvdre" a;vdelfoiv, Act. 2,38; 3,19; cf. 5,31 e agli uomini in generale, Act. 17,30; cf. 26,20. Questa metavnoia per quanto concerne «gli uomini israeliti», comprende l'allontanamento dai peccati, Act. 2,38; 3,19 e il conseguimento della remissione, Act. 5,31. Per quanto riguarda invece i pagani, essa costituisce lo scopo della missione di Paolo, Act. 26,18: «per

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aprire loro gli occhi affinché passino dalle tenebre alla luce, dal dominio di Satana a Dio, ed ottengano, mediante la fede in me, la remissione dei loro peccati, e una parte di eredità con i santificati». Per essi si tratta quindi «di abbandonare tutti questi idoli vani per rivolgersi al Dio vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare...», Act. 14,15. A proposito della metavnoia si devono notare ancora i seguenti punti: 1) essa è anche «un convertirsi... dalle opere cattive», Act. 3,26, o un metavnoein...a;pov th" caciva", Act. 8,22, e un e;pistrevyein e;piv to;n Qeovn, a;vxia th—" metanoiva" e[rga pravssein, Act. 26,20. La fede implica un'esistenza obbediente. 2) Questo divenire-credente è sigillato dal battesimo, nel quale si comunica lo Spirito Santo mediante l'imposizione delle mani, cf. Act. 8,17 s.; 9,17; 19,6. Il battesimo viene affermato solo di passaggio come un atto della realizzazione del divenire cristiani, Act. 8,16.38; 9,17 s., ma per lo più in connessione con, il convertirsi, Act. 2,38, l'accogliere la parola, Act. 2,41, e soprattutto con il divenire credenti, Act. 8,12; 16,15; 18,8. 3) Così questa svolta rappresenta certamente una decisione dell'uomo - gli uni accolgono la parola di Dio mentre gli altri la respingono, ad es., Act. 13,46 s.; 14,4; 18,6 —, è certamente un dono di Dio per colui che la compie. Dio concede ad Israele, Act. 5,31, e ai pagani, Act. 11,18, una «conversione che conduce alla vita». Egli «apre la porta della fede» ai pagani, Act. 14,27, e chiama i lontani, Act. 2,39. In quanto destinati da Dio alla vita eterna, Act. 13,48, pervenuti alla fede e battezzati, i membri delle comunità sono dei maqetaiv, Act. 6,1.2 (to; plh—qo" twn maqhtwn).7; 9,10.10, ecc. Ad Antiochia essi vengono chiamati per la prima volta cristanoiv, Act. 11,26. In quanto sono i pistoiv, come in realtà sono chiamati solo in 10,45, ma cf. 16,1.15, essi sono anche oiv a[gioi, Act. 9,13.32.41; 26,10. Sono altresì coloro che camminano sulla «Via», Act. 9,2, che viene detta «la via di Dio» o «la via del Signore», Act. 9,2; 18,25.26, ove questa o;dov", secondo Act. 19,9.23; 22,4; 24,14.22, è una designazione dell'orientamento e della comunione di fede cristiana, che agli occhi degli estranei e degli avversari costituisce una ai[resi", Act. 24,5.14; 28,22. Essi sono il «popolo» (laov") riservato al nome di Dio, Act. 15,14; cf. 18,10. Insomma sono l’ejcclhsiva. Con questo concetto viene designata in parte la Chiesa locale, ad es., di Gerusalemme, Act. 5,8.11; 8,1.3, ecc.; o di Antiochia, Act. 11,26; 19,1, ecc., o di Licaonia e Pisidia, Act. 14,23, o dell'Asia, Act. 20,17.28, e in parte, anche se veramente in un solo caso, l'intera Chiesa di Giudea, Galilea e Samaria, Act. 9,31. Ora però, qual è la vita di questa Chiesa di giudei e pagani, convocata dai dodici apostoli e da Paolo in virtù dello Spirito mediante la parola e i segni, e i cui membri hanno udito la parola, sono giunti alla fede e si sono convertiti, facendosi battezzare come discepoli, credenti, santi, in cammino sulla «Via»? Elenchiamo ancora alcuni tratti della ecclesia primitiva quali si possono individuare in Lc. La comunità si raduna fin da principio, cf. Act. 1,4.6.13 s. 15; 2,1.44; 4,31 ecc. Nei primi tempi il luogo d'incontro era ancora il tempio, Le. 24,53; Act. 2,46 ecc., ma anche le case private, Act. 5,42; 12,12; 16,5.40; 20,20 ecc. Se non viene nominato nessun luogo, si può pensare che si tratti anche di più grandi ambienti privati nelle case o anche a delle sale private o pubbliche, cf. Act. 19,9. Naturalmente ciò è avvenuto per dei motivi pratici. Non è l'ambiente a creare la comunità, al contrario è la comunità che di volta in volta si crea il suo ambiente per il culto. Qui «essa si edifica», come dice Act. 9,31, cf. 20,32, e come abbiamo visto mediante l'acquisizione di nuovi membri tra i Giudei e i pagani ad opera della predicazione apostolica, ma anche, come mostra 11,19 ss., mediante la predicazione di alcuni membri della comunità di Gerusalemme, in esilio, e nella comunità ad opera dei singoli carismatici, come ad es. Stefano, Act. 6,8 ss.; 7,54 ss. Di continuo si parla della crescita della Chiesa. Così ad es. in Act. 2,41: «In quei giorni si aggiunsero circa tremila anime», o 2,47: «Il Signore aggiungeva ogni giorno coloro che saranno salvati», inoltre Act. 4,4; 5,14; 6,1. Come abbiamo visto, non è casuale, il fatto che si parli di «crescita» o «moltiplicazione» della parola: Le due cose per Lc. avvengono insieme, cf. Act. 6,7: «E la parola di Dio cresceva, e il numero dei discepoli si moltiplicava in Gerusalemme...», anche Act. 11,21; 12,24; 19,20. La parola, che poi continua nella comunità, Act. 5,42; 20,20, e ciò in modo ch'essa sia sempre «la dottrina degli apostoli», Act. 2,42, e «confermi» anche i discepoli, ad es. 14,21 s.; 18,23, vengono affidati a Dio, cf. 20,32. Ma così non si è ancora pienamente descritta la vita dell'Ekklesia. Alla comunità e alla sua assemblea appartiene ancora qualcosa d'altro. Ne possediamo un semplice sommario in Act. 2,42-47. Qui, e l’ha ben dimostrato J. Jeremias, viene descritto il culto cristiano primitivo, com'è conosciuto da Lc. Vi vengono menzionate 1) la didach; twn a;posto;lwn 2) la coinwniva che, probabilmente, indica la comunione della tavola e non la distribuzione o il contributo; 3) la clavsi" tou— a[rtou che poi designa l'eucaristia, in origine è il rito della tavola che apre e chiude ogni convito e che, dopo la separazione del banchetto dall'eucarestia,

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passò ad indicare il convito del Signore, cf. Lc. 24,30.35; Act. 2,42.46; 20,7.11 (27,35). In ogni caso con clavsi" tou— a[rtou s'intende un'azione cultuale che, pur ancora connessa con un banchetto, è già un gesto cultuale autonomo. Essa rappresenta una continuazione del convito con il Risorto e quindi una continuazione dell'ultima cena con il Gesù terreno. È inserita nel dialevgesqai cf. Act. 20,7 o ovmilein, cf. Act. 20,11. È per essa che la comunità si raccoglie, cf. Act. 20,7; 4) trovano espressamente le preghiere (comuni) con cui si conclude la celebrazione. In Act. vengono spesso citate delle preghiere. Sono proferite da singole persone, ad es. in Act. 8,24 da Pietro e Giovanni, 9,11.40 ecc. da Pietro, 16,25 da Paolo e Sila ecc. Ma anche la preghiera comune della comunità viene ricordata, ad es. in Act. 1,14; 2,42; 12,5 ecc. Si tratta di orazioni non meglio specificate, Act. 20,36; 21,5, in cui compare l'intercessione, ad es. 12,5; 14,23 e il ringraziamento e lode, Lc. 24,53; Act. 11,18; 21,19 s. Lc. ne fornisce un esempio anche in Act. 4,23 ss. In generale in Act. 13,1 si parla del leitourgein dei profeti e dottori di Antiochia. Indipendentemente dalla questione del modo di comprendere la coinwniva, si può affermare che per Lc. la comunità, che onorava Dio nelle sue assemblee, si sentiva obbligata anche verso i suoi membri, come si può vedere ad es. in Act. 2,44. La comunità universale dispone fondamentalmente e idealmente di una proprietà comune che non viene alienata. «Ogniqualvolta nella comunità si aveva bisogno di denaro per i poveri, uno dei possidenti vendeva la sua sostanza o i suoi preziosi, e il ricavato veniva distribuito tra i bisognosi». Non era una forma di comunismo. I propri possedimenti infatti venivano messi a disposizione liberamente e spontaneamente a seconda dei bisogni, il che non impediva che continuasse a sopravvivere la proprietà privata, cf. Act. 4,32 ss.; 5,4. I membri delle comunità non sono soltanto maqhtaiv, pistoiv e a[gioi ma, come tali, soprattutto ajdelfoiJ ad es. Act. 1,15; 9,30; 10,23. La Chiesa, per la sua origine, per i suoi doni e per il suo modo di vivere, è per Lc. una fraternità, anche se non viene impiegato il concetto di ajdelfoJth". Che i membri della Chiesa siano dei «fratelli» non significa per Lc. ch'essi siano tutti uguali. Da questa fraternità infatti, senza che essa ne venga compromessa, emergono due gruppi, che conosciamo anche da altri testi del NT, cioè i carismatici e i titolari di un «ministero». Dobbiamo qui distinguere esattamente con Lc.: 1) Senza dubbio, come abbiamo visto, lo Spirito è sceso su tutti i membri della comunità, sulla Chiesa intera. A pentecoste si trovavano «tutti insieme nello stesso luogo», Act. 2,1. E di essi 2,4 dice: «e furono tutti riempiti di Spirito santo...». Ciò in Act. 2,17 ss. viene giustificato da Pietro con Ioel 3, cf. anche Act. 2,33b. Nel cosiddetto secondo racconto di pentecoste, Act. 10,44, è detto parimenti: «Men-tre Pietro stava ancora pronunciando queste parole, lo Spirito santo scese su tutti coloro che ascoltavano la parola». Ma anche Act. 4,31; 5,32; 11,16 s.; 19,6 meritano di essere ricordati. 2) Tra questi membri delle comunità, che hanno ricevuto lo Spirito, emergono singoli carismatici. Lc. non riflette sulla differenza di questi carismatici dagli altri membri delle comunità, non conosce ad es. la distinzione paolina tra essere nello Spirito ed esistenza nello Spirito, cf. ad es. Rom. 8,1 ss. Egli ne ricorda solo l'attività servendosi di alcuni nomi. Essi sono profhtai, come ad es. Agabo, Act. 11,27 ss.; 21,10 s. o i gruppi di Antiochia ricordati in 13,1 ss. Anche Giuda e Sila vengono detti «profeti», Act. 15,32, e 15,22 li annovera significativamente tra «i fratelli in considerazione». Anche altrove appaiono singoli individui riempiti di Spirito con una posizione di emergenza, come Stefano, Act. 6,8.10.15; 7,55, Filippo, di cui si ricorda come fosse guidato dallo Spirito, Act. 8,29.39, ed avesse quattro figlie che erano parqevnoi profhteuvousai, 21,9, Barnaba del quale si dice che era «un uomo buono e pieno di Spirito santo e di fede», Act. 11,24, infine Apollo, Act. 18,25. L'effusione generale dello Spirito santo su tutti i membri delle comunità non significa quindi affatto una uguaglianza nei doni dello Spirito. In modo speciale sono i «profeti» ad emergere dalla massa. 3) Che i membri della Chiesa abbiano ricevuto lo Spirito non significa neppure che non si possa vedere in essi dei titolari di un «ministero». Naturalmente questo non è ancora ben precisato e Lc. non mostra un eccessivo interesse al riguardo. Ma in pratica viene descritto distintamente come continuazione del ministero apostolico, anzitutto a Gerusalemme e poi nelle Chiese locali. Compare nei presbuvteroi. Questi vengono menzionati per la prima volta in Act. 11,30. Le collette dei fratelli di Antiochia per i fratelli «che abitano in Giudea», vengono inviate «agli anziani di Gerusalemme» attraverso Barnaba e Sila. In Act. 15,2.6.23; 16,4 costoro vengono nominati a Gerusalemme insieme con gli apostoli, o con questi e l'Ekklesia, 15,4.22. Vengono distinti dagli ajpoJstoloi, il che riceve un'importanza particolare anche dal fatto che Act. 11,1 distingue tra oiJ ajpovstoloi caij oiJ ajdelfoi, così come in Act. 12,17 tra Giacomo e i fratelli, e che in Act. 15,23 sono detti «fratelli» soltanto i presbuvteroi. I presbiteri quindi, secondo

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Act. 15 e 16,4, costituivano a Gerusalemme assieme agli apostoli un senato chiuso, ma in sé differenziato, e insieme con gli apostoli fungevano da guida e da istanza dottrinale per la Chiesa intera, radunavano quindi in sé qualcosa come la presidenza della sinagoga e il sinedrio. Una specie di presidenza della sinagoga essi rappresentano in Act. 21,18. Qui essi si raccolgono attorno a Giacomo, che detiene manifestamente la presidenza. Che questo Giacomo sia per Lc. l'autorità monarchica postapostolica della comunità di Gerusalemme, è già accennato in Act. 15,13 ss., ove nell'assemblea egli compare dopo Pietro, cita la prova scritturale in favore del fondamentale discorso di Pietro e sottopone «la richiesta alla decisione ormai improrogabile dell'assemblea». Act. 12,17 anticipa questo trapasso dai dodici in quanto titolari della ejpiscophv a Giacomo, in quanto capo della comunità posta-postolica. Pietro si congeda con le parole: «Annunciatelo a Giacomo e ai fratelli». Al di fuori di Gerusalemme Lc. riferisce soltanto una volta di una nomina di anziani e precisamente ad opera «degli apostoli Barnaba e Paolo», cf. Act. 14,4.14, in comunità etnico-cristiane, Act. 14,23. Scorrendo i testi si possono rilevare i seguenti punti nella concezione che Lc. ha degli anziani: 1) nelle comunità etnico-cristiane essi sono nominati dagli «apostoli» (Barnaba e Paolo) mediante la imposizione delle mani, Act. 14,23. (Non sappiamo invece come venissero iniziati al loro ministero a Gerusalemme), 2) In tal modo, secondo 20,28, lo Spirito santo li ha costituiti «intendenti». Il ministero dipende dallo Spirito. Lo Spirito non è contro il ministero. 3) Così in pratica essi si trovano nella successione apostolica. 4) Insieme agli apostoli hanno potestà di decisione in materia di dottrina e di governo, Act. 15,1 ss. In termini più generali, tale potere ci è descritto come un poimaivnein thjn ejcclhsiavn da parte di ejpivscopoi. 5) Ed è proprio in questo contesto che si parla anche del loro dovere di vigilare sugli eretici che s'infiltrano nella comunità, Act. 20,29 ss. In altre parole, nella Ekklesia descritta da Lc. si trovano già gli elementi della tradizione e della successione, della potestà magisteriale e di governo, insomma del ministero. Questa Chiesa, di cui parla Lc., è infine anche una ecclesia pressa, che viene perseguitata e conosce la passione e il martirio. Della comunità si può ben dire, Act. 2,47, che essa «loda Dio ed ha il favore del popolo» e, in Act. 9,31, «aveva pace in tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria». Ciò tuttavia dice soltanto che la persecuzione e la tribolazione per la Chiesa non sono di necessità e che essa, qua e là, in questo o quel momento, può godere della pace di Dio e del favore del popolo. Ma la situazione «normale» per la Chiesa, secondo Lc., è quella descritta e sunteggiata nei cc. 4-5.6.8.9,1 s. ecc., cioè la condizione di persecuzione e di martirio. Essa è ciò per cui Dio l'ha destinata. «Noi dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni», predicano Barnaba e Paolo ai discepoli, Act. 14,22. Ed anche le sofferenze servono alla diffusione del vangelo e quindi all'edificazione della Chiesa, cf. Act. 8,4; 11,19 ss. Secondo Lc. 21,12 ss. par. questi dolori rientrano negli inizi della tribolazione escatologica. Riassumiamo brevemente quanto abbiamo reperito in Lc. a proposito della Chiesa. 1) La Chiesa è l'opera prodigiosa di Dio. 2) Essa è inserita nella storia generale della salvezza e sostituisce Israele nel tempo che va fino al ritorno di Gesù, e ciò come Chiesa dei giudei e dei pagani. 3) La sua origine sta nelle apparizioni del Risorto che è stato crocifisso da Israele. 4) Essa viene «edificata» dallo Spirito santo, inviato dal Glorificato. 5) Questi si impadronisce dei «dodici», che dopo la morte e risurrezione di Gesù Cristo svolgono un ruolo fondamentale in quanto «apostoli», cioè «testimoni» dell'attività di Gesù e della sua risurrezione, custodi della dottrina, fondatori e capi della Ekklesia. 6) Lo Spirito santo invia anche l'apostolo di eccezione, al quale il Glorificato si è manifestato. 7) Lo stesso Spirito opera mediante la parola e i segni, con i quali vengono partecipati l'evento salvifico di Gesù e i suoi doni di salvezza. 8) Là dove questa parola viene ascoltata, accolta e creduta, là dove si opera la conversione, che viene sigillata con il battesimo, sorge il discepolato e la fraternità della Chiesa. 9) Essa si raccoglie, nel culto, attorno alla parola e all'eucaristia e si manifesta nell'assistenza disinteressata dei poveri. 10) Fin dall'inizio, nella sua struttura, si può vedere una certa articolazione: nella comunità, che ha lo Spirito, emergono i carismatici, in particolare i profeti, e ci sono i titolari di certi uffici, ancora embrionali, di sorveglianza e di governo, ed a costoro spetta la potestà dottrinale e di decisione. 11) Questa Chiesa apostolica di Gesù Cristo, Chiesa dello Spirito e dei ministeri, nel mondo conoscerà fino alla fine la persecuzione e la passione, ma qualche volta anche il favore e la pace.

LA CHIESA SECONDO IL VANGELO DI GIOVANNI

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Nel delineare la visione giovannea della Chiesa si deve essere consapevoli non solo che nel vangelo manca il concetto di e;cclhsia ma anche che non vi si parla mai esplicitamente della Chiesa. Nondi-meno essa è sempre presente allo spirito dell'evangelista, benché solo sotto un determinato punto di vista, cioè, se così possiamo esprimerci, sotto quello della sua natura intima. Ciò appare chiaramente già dal fatto che Io. difficilmente si interessa della struttura concreta della Chiesa; la sua considerazione si concentra invece sulla comunione dei suoi membri e sul loro rapporto con Gesù. In altre parole, per questo vangelo la Chiesa è il discepolato di Gesù. E così, per l'evangelista, è presente fin dall'inizio, cioè nel discepolato del Gesù terreno si presenta con valore paradigmatico come il discepolato del Risorto e raggiunge la sua vera essenza nel discepolato del Glorificato, il quale è presente nello Spirito. Secondo Io. Gesù non operava mai senza i suoi discepoli. Essi compaiono in 1,35 ss. nelle singole persone, indicate per nome, che vengono a Gesù, e da 2,2 fino ai cc. 20-21 essi sono menzionati come «i discepoli» nel loro insieme. Non c'è inoltre alcun dubbio che, specialmente nella sezione Io. 13-17, quindi nella seconda parte del vangelo, i discepoli rappresentino il discepolato di Gesù di tutti i tempi, od anche che questo sia sempre implicito nei primi. Così ad es. in 13,1 vengono detti in senso generale «i suoi» oppure, in 17,6, «gli uomini» «che tu mi hai dato nel mondo». E in 21,23 discepoli sono detti «i fratelli». Il discepolato di Gesù confluisce nella Chiesa; la Chiesa, cioè i suoi membri, si riallaccia alla schiera del Gesù terreno. La Chiesa nei suoi membri può quindi essere vista essenzialmente già nella schiera dei discepoli del Gesù terreno. Questa costituisce un rimando continuo a quella. Tale stato di cose corrisponde soltanto all'altro, centrale per Io., secondo cui nel Gesù terreno il suo essere vero sarebbe appena accennato simbolicamente e solo nel Risorto e nel Glorificato diventerebbe manifesto. Questi cioè è già segretamente presente nel Gesù terreno, ma sarà conosciuto manifestamente solo al momento del suo ritorno nello Spirito. Lo Spirito lo farà comparire nella sua gloria, cioè nella sua verità. Questo «Spirito» era presente già nel Gesù terreno, Io. 1,32 ss., e in lui operava: «Le parole ch'io vi ho dette sono Spirito e vita», 6,63. Ma ciò diviene manifesto e produce i suoi effetti solo dopo l'ingresso di Gesù nella Doxa di Dio. In questo senso 7,39b può dire: «Lo Spirito infatti non c'era ancora, perché Gesù non era ancora stato glorificato». Solo nello Spirito il Gesù terreno traspare chiaramente nella sua verità per i discepoli. Solo con esso hanno fine le loro incomprensioni o i loro fraintendimenti storicizzanti, che condividono con il popolo, 2,17.22; 4,27; 6,16 ss.; 11,12 s. 12,16; 13,28 ecc. Le parole di Gesù allora non saranno più degli «enigmi» (paroimivai) ma procederanno con parrhsiva°, libere e senza veli, 6,25.29. Del resto alla base di questa comprensione di Gesù e quindi del suo discepolato sta una concezione generale della storia, secondo la quale delle persone e dei fatti storici si svelano nella loro essenza solo nell'orizzonte della storia posteriore che tiene conto anche dei loro effetti. La concezione giovannea della storia pretende solo di vedere Gesù e il suo discepolato nell'orizzonte definitivo e normativo dello Spirito rivelatore. Per Io. un interpretazione «storica» di Gesù e del suo discepolato, quindi tale unicamente per luce propria, senza l'illuminazione da parte dello «Spirito di verità», sarebbe inutile come la «carne», cf. 6,63.

La Chiesa come schiera dei credenti

Ma come va vista la Chiesa, come va considerata nel discepolato terreno del Gesù terreno, che la cela in sé anticipandola? Essa è sempre la schiera dei credenti. Ed è quanto s'intende dire in 1,12 quando si afferma: «Quanti però lo accolsero, ad essi diede il potere di diventare figli di Dio, (ad essi) che credono nel suo nome», oppure quando in 3,18 si dice: «Chi crede in lui non viene giudicato; ma chi non crede è già giudicato, poiché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio», cf. 3,36; 5,24 ecc. Questa schiera rimane aperta, cf. 6,66. In Io. vengono ricordati anche dei credenti che non sono dei discepoli, nel senso che non appartengono alla loro cerchia, cf. 4,39.41; 4,53; 9,38; 11,27, ecc. Da essi si distinguono coloro che non credono, 5,38, non possono credere, 5,44; 12,39, che, pur avendo visto Gesù, non credono, 6,36; 10,24 s-5 15,24 ecc. Ma anche tra i credenti ci sono delle distinzioni: ci sono coloro che credono di nascosto, 12,42; 19,38, oppure quelli che credono solo ai suoi segni ma dei quali Gesù non si fida, 2,23 s., benché i prodigi di Gesù possano condurre alla vera fede, ad es. 11,45; I2;10; 14,10. La vera fede del discepolato e quindi dei membri della Chiesa, secondo Io., ha una

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triplice caratteristica: 1) è un rimanere nella parola di Gesù, 8,31 o «la parola abita in voi», 5,38; 15,7; 2) è una fede che «conosce», 6,69, ecc.; 3) una fede che «porta molto frutto», 15,8: «Da questo il Padre mio riceve gloria: che voi portiate molti frutti e vi mostriate miei discepoli». Esempio dei veri discepoli che credono, anche se certamente in mezzo a molte incomprensioni, per Giovanni sono «i dodici». Essi naturalmente vengono da lui considerati alla luce della tradizione, tuttavia non sono più visti come eponimi del nuovo Israele o come «gli apostoli», ma sotto il profilo del discepolato esemplare di Gesù. A intenderlo esattamente, si può dire che essi, i dodici, per Giovanni sono i discepoli per eccellenza. A prescindere dall'accentuata designazione del traditore Giuda, 6,71, e del dubbioso Tommaso, 20,24, essi vengono menzionati solo in 6,67.70, e precisamente come veri discepoli che non si allontanano da Gesù ma aderiscono a lui. Ad essi Gesù chiede: «Non ho scelto io voi dodici?», 6,70. Ma è la stessa cosa che egli dice dei discepoli in generale, cioè dei credenti, in 15,16: «Non voi avete eletto me, ma io ho scelto voi», cf. 13,18; 15,19. Quando viene fatto il nome di qualche discepolo si tratta sempre di qualcuno dei dodici: Andrea, 1,40.44; 6,8; 12,22; Filippo, 1,43 ss. 48; 6,5 ss.; 12,21 s.; 14,8 s.; Natanaele, 1,45 ss.; 21,2; Tommaso, 11,16; 14,5; 20,24 ss.; 21,2; Giuda, non 1'Iscariote, 14,22; i figli di Zebedeo, 21,2; Giuda Iscariota, 6,71; 12,4; 13,2.26,29; 18,2.3.5. Essi però, ad eccezione di Giuda Iscariota e, come vedremo più avanti, di Pietro, sono visti tutti come tipi e rappresentanti dei credenti.

Il discepolato

Il rapporto di Gesù con i suoi discepoli e, implicitamente, con i membri della Chiesa è determinato soprattutto dalla sua presenza futura nello Spirito. In generale si nota che è Dio a darli a Gesù, 6,39; cf. 6,44: che «nessuno può venire a me se il Padre non lo attira» o in 6,65: «che nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre». Il discepolo o il credente si sente affidato da Dio a Gesù. Perciò si considera scelto da Gesù, 6,70; 13,18; 15,16 o come è detto sinteticamente in 15,19: «scelti dal mondo». Ma colui al quale i discepoli sono affidati, dopo essere stati scelti dall'umanità, è colui che per essi si è immolato dimostrando loro così il suo amore. Egli, «avendo amato i suoi che erano nel mondo, mostrò loro il proprio amore sino alla fine» 13,1. Egli dà la sua vita «per i suoi amici», 15,12 s.; anche 12,24. 25,13-34. Muore «per il popolo», 11,50 s.; 18,14. In tal modo egli è «l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo», 1,2.9.36. Ma proprio in questa sua «dipartita» Gesù ritorna per rimanere con i discepoli che si sono affidati a lui e da lui sono stati scelti. Egli però ritorna e rimane nello Spirito, che la comunità riceve nella fede, 7,39. Nel suo agire Gesù incontra sempre la comunità dei discepoli, cf. 16,7. Lo Spirito infatti, si può dire nel senso di Io., è l'«altro Gesù». Giovanni stesso dice: «l'altro Paraclito», che ora è con essi «in eterno», 14,16. In lui Gesù ritorna e i discepoli lo «vedono», 14,3.17: 18 s.; 16,16.22. È mediante lui, che «insegnerà loro ogni cosa... e ricorderà tutto» ciò che Gesù ha detto loro, 14, 26, che «non parlerà da sé, ma dirà ciò che sente e vi annuncerà le cose a venire...», 16,13, che «prenderà del mio e ve lo annuncerà», 16,14, che «convincerà il mondo riguardo al peccato e alla giustizia e al giudizio», 16,8, in breve: colui che «guiderà alla verità», 16, 13, e per mezzo del quale Gesù è continuamente presente nel discepolato della Chiesa. Lo Spirito, come sta scritto, «glorificherà» Gesù, manifesterà la Doxa di Gesù, 16,14, e Gesù sarà «glorificato» proprio nei discepoli, 17,10. Coloro che aderiscono a Gesù rifletteranno il suo splendore e la sua potenza. Così il discepolato nel tempo del Gesù terreno e in quello del Glorificato è la schiera cui Gesù si rivela, 14,22. Così essa avrà nel suo seno il nome di Dio, nel quale egli l'ha sempre custodita, 17,12. Così essa sta sotto la sua parola dalla quale riceve luce e vita, 17,2. 6.8. La Chiesa per Giovanni è la Chiesa sotto la parola. È la parola che ne svela il presente e il futuro, 14,29; 15,20 ss.; 16,1.13.14,32 s. Essa quindi è anche la Chiesa sotto il suo comandamento —- il comandamento dell'amore — e sotto il suo modello normativo, 13, 34 s.; 13,15; 15,12 ecc. Sta sotto la sua destinazione, 15,16 e la sua chiamata alla sequela, 1,43. È sorretta dalla sua preghiera, 17,9, che ne chiede la santificazione nella verità, 17,16, e la preservazione dal male, 17,15, e quindi che rimanga nel nome di Dio, 17,11, e sia una cosa sola come lo sono il Padre e il Figlio, 17,12.21, lo raggiunga e ne veda la gloria, 17,24. Essa è il luogo in cui le preghiere nel nome suo vengono esaudite, 14,13; 15,16; 16,23 s. 26. Per lui e in lui le è già preparata «la dimora» e le è dischiusa la via che porta ad essa, 14,1 ss.; 17,24. I discepoli di Gesù saranno la dimora sua e del Padre, 14,23. Così essa, il discepolato dei discepoli, che egli per volere di

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Dio, 6,39, ha sempre custodito, 17,12, riceverà la sua pace, 14,27; 16,33, senza timore, e sarà colmata della sua gioia perfetta, permanente e tranquilla, 15,11; 16,20 ss.; 17,13. Questi discepoli e quindi anche i membri della Chiesa, fondata nella sua dipartita e nella sua immolazione, nella quale egli è pre-sente nello Spirito, hanno in lui il loro «Signore» e sono suoi servi, 13,13.16; 15,20. Ma questi servi sono anche i suoi «amici» poiché a coloro che ha «scelto» e destinato a portare frutto, 15,14 ss., egli comunica la parola del Padre e in ciò essi, come in 8,31 s. nell'esperienza della verità, sono i «liberi». Il Gesù terreno parla ai suoi discepoli come se fossero anche i suoi «figlioli», 13,33: un'espressione con la quale il maestro chiama i suoi discepoli. Il Risorto la ripete, 21,5. Ma i «figlioli» sono anche «i fratelli», 20,17, del Risorto, che con lui hanno lo stesso Padre, che è insieme il Dio di entrambi, dei «fratelli» naturalmente per la sua mediazione. Come suoi «servi», che però sono i suoi amici», come suoi «figlioli» e «fratelli», i discepoli sono paradigmaticamente «i suoi» per eccellenza (oi; “idioi), 13,1; cf. 10,14, a lui il Padre ha affidato, 10,29, e che obbediscono a lui e al Padre, 17,10. Che il discepolato viva di Gesù risulta chiaramente, sotto diverso profilo, da due testi. Anzitutto in 15,1 ss., nel discorso su Gesù quale vite vera, cioè genuina e reale. L'immagine, probabilmente mutuata dall'AT, presenta il discepolato di Gesù sotto i seguenti punti di vista: 1) i discepoli sono uniti a Gesù nella maniera più stretta, si potrebbe dire per loro stessa «natura». Essi sono i tralci della vite che è Gesù. 2) Egli è colui del quale essi vivono e nel quale operano. Senza di lui non possono fare nulla. 3) Nella fedeltà della fede in lui, la loro fede porta frutto, egli diviene vivo nell'amore, e la loro preghiera è esaudita. E soltanto in quanto fedeli nella fede essi sono in realtà i suoi discepoli. 4) È così ch'essi sono quello che sono, cioè «mondi» per la parola di Gesù. 5) Essi non portano mai frutto sufficiente. Ma Dio li monda continuamente affinché portino più frutto. 6) Se abbandonano Gesù, cadono nel giudizio. Vengono recisi e buttati via, si seccano e vengono bruciati. L'altro testo è quello del gregge e del pastore, 10,1-17. L'immagine ha una lunga tradizione nel mondo dell'antico Oriente, in quello ellenistico, gnostico, giudaico, neotestamentario e soprattutto veterotestamentario. Nei diversi usi essa esprime diverse condizioni ma sempre un medesimo contesto, cioè 1) Gesù è colui che le pecore seguono come loro legittimo e ben conosciuto pastore. Esse hanno dimestichezza con lui da lungo tempo, per cui lo riconoscono subito. Lo conoscono come coloro che sono sua proprietà ed hanno fiducia in colui che è venuto e continuamente ritorna. 2) Gesù è colui nel quale le pecore trovano ingresso e uscita e pascolo e così vengono «salvate». 3) Gesù è «il buon pastore» che dà la vita per le sue pecore. I discepoli vivono della sua volontaria dedizione. 4) Gesù le custodirà eternamente e donerà loro la vita eterna. Nessuno le strapperà dalla sua mano e da quella del Padre suo, 15,28 s. Vediamo così che il discepolato ricevuto da Dio, scelto da lui, Gesù, acquistato con la sua immolazione e con la sua presenza nello Spirito posto sotto la sua parola e sorretto dalla sua preghiera, ha la sua vita da lui sotto ogni aspetto. Egli è l'origine e il futuro comune e il centro fecondatore della sua comunione.

Chiesa universale

Questo discepolato di Gesù sarà l'unica Chiesa universale. Essa è accennata già nell'agire del Gesù terreno. Ad essa rinvia la donna samaritana, c. 4. Ad essa Gesù si rivela come il Messia, 4,26, e sarà essa stessa a rendere testimonianza al Messia tra la gente della sua città, 4,28 s., mettendola sulla strada di Gesù, 4,29 s. Molti, mediante la sua parola, giungono alla fede. Ma sono ancora di più coloro che credettero a causa della parola di Gesù che ascoltarono allorché egli si intrattenne con essi per due giorni. Questa fede dice: «Noi stessi abbiamo sentito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo», 4,42. Che in tale senso il c. 4 debba essere inteso, cioè come un'allusione alla Chiesa universale, lo ribadisce l'aggiunta di 4,31-38. Gesù «compie la sua opera», che è la volontà di Dio e per la quale Dio l’ha inviato, 4,34, nella «messe» escatologica della Chiesa. Quando i Samaritani si misero sulla strada di Gesù, la «messe» era matura. Il campo del mondo è divenuto maturo con l'attività di Gesù. Ora esso viene mietuto e produce frutto per la vita eterna. I discepoli sono stati inviati alla messe. Essi subentrano nel lavoro di altri. Anche in 12,12 ss. si allude all'universalità della Chiesa. Il popolo corre incontro al re d'Israele che entra a Gerusalemme. Esso ha udito che Gesù ha risuscitato Lazzaro dai morti. I farisei notano il concorso: «Ecco, tutto il mondo gli è andato dietro», 12,19. Che essi abbiano ragione, senza saperlo, lo dimostra il fatto che «alcuni Greci, tra coloro che erano saliti

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per fare adorazione nella festa», 12,20, quindi dei proseliti ellenisti, ricorrono alla mediazione di Filippo, che, come viene notato espressamente, è «di Bethsaida in Galilea», per vedere Gesù. Essi pregano così Filippo: «Signore, vorremmo vedere Gesù», 12,21. Filippo con Andrea va da Gesù e gli riferisce la commissione. Ma Gesù, senza accedere alla richiesta, fa loro osservare che il grano di frumento porta molto frutto soltanto se cade a terra «e muore», 12,24. Quindi solo dopo la morte di Gesù, che è l'ingresso nella gloria, i popoli verranno a Gesù attraverso i suoi discepoli. Solo il Glorificato «attirerà tutti a sé», 12,32. Allora i discepoli «compiranno le opere» che egli compie, «e ne faranno di maggiori», 14,12. Allora essi agiranno nello Spirito che non conosce barriere. Questa schiera universale di Gesù formata da tutti i popoli, fondata nell'attività di Gesù e costituita dall'opera dei discepoli, sta davanti agli occhi di Io. come l'unica Chiesa in Dio e in Gesù. La sua unità interiore ed esteriore, che ne scaturisce, è il senso e lo scopo dell'opera di Gesù. Per questo Gesù è morto, «Infatti Gesù sarebbe morto per il popolo, e non per il popolo soltanto, ma con l'intento di raccogliere insieme anche i figli di Dio che erano dispersi», 11,51 s. È questo il desiderio del buon pastore che 10,16, forse alludendo ai LXX, Ez. 34,23; 37,24, formula così: «E ho altre pecore ancora, le quali non sono di questo ovile; anche queste devo radunare, ed esse ascolteranno la mia voce, e ci sarà un solo gregge, un solo pastore». E la preghiera di Gesù è «che tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, (sei) in me ed io in te, affinché anche essi siano in noi (una cosa sola), 17,20. E per questo Gesù ai discepoli, mediante la cui parola si giunge alla fede, ha dato «la gloria», cioè lo splendore e la potenza del suo amore eterno, cf. 17,5.24, «affinché siano una cosa sola, come una cosa sola siamo noi: io in loro e tu in me, affinché giungano ad una perfetta unità», 17,22 s. Ma questa schiera di discepoli della Chiesa, universale e unificata in Gesù e in Dio, non ha in sé il suo obiettivo bensì nel fatto che il mondo mediante tale unità può giungere alla fede. Gesù prega: «affinché tutti siano una cosa sola... affinché il mondo creda che tu mi hai mandato», «affinché essi giungano ad una perfetta unità, affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati, come hai amato me», 17,21.23. Il mondo ha bisogno dell’unità della Chiesa in Dio e in Gesù Cristo per giungere alla fede nella rivelazione e alla conoscenza dell'amore di Dio per esso. Senza la Chiesa una, unificante e conglobante tutto in Gesù, il mondo non giunge alla fede e all'esperienza del fatto che Dio l'ama come ama il suo Figlio. Con la disunione la Chiesa non riesce credibile al mondo, come non riesce credibile nemmeno l'amore di Dio per esso.

Chiesa e mondo Ma com'è in generale il rapporto dei discepoli con il mondo e del mondo con i discepoli, secondo io.? I discepoli sono mandati nel mondo, alla stessa maniera che vi è stato inviato Gesù, 17,18. Essi però non sono «del mondo», 17,14, così come non lo è Gesù. Non conducono la loro vita alla maniera del mondo, ma, come abbiamo già visto, sono «scelti dal mondo» da Gesù, 15,19. Eppure essi sono nel mondo e Gesù non prega il Padre suo affinché li tolga dal mondo ma, nel mondo, li preservi dal male, 17,15, affinché quindi non divengano conformi al mondo. Questo infatti è «tenebra», 1,5 e le sue vie e i suoi fini per essi sono fatali, ad es., 12,35; 14,4 s. Gli uomini che credono in esso e l'amano vengono attratti nella fatalità delle sue tenebre, 3,19 s. L'oscurità e l'impenetrabilità del mondo possono essere avvertite nella menzogna, nel peccato e nella morte, come dimostra soprattutto il c. 8. Ma la menzogna, alla stessa maniera del peccato, del fare il male, 3,19 ss., si oppone alla verità e consiste nell'incredulità e nelle varie forme di egoismo. La morte poi è il frutto e l'energia interiore, come pure la rivelazione, della menzogna e del peccato. Gli uomini, così come compaiono nel mondo, sono «morti», 5,25. Questo mondo, in mezzo a tutte le sue tenebre, le menzogne, i peccati e la morte, cerca la luce, la verità, la libertà e la vita, ha quindi in un certo senso una conoscenza di esse e vi aspira, ad es. 4,15; 6,31. E in questa aspirazione è inclusa una comprensione, come a sua volta questa comprensione implica un'aspirazione. Ma gli uomini sono ciechi, poiché pensano di vedere, 9,41, e si credono luce, verità, libertà e vita mentre non credono che tali cose siano Gesù, 5,39; 8,24, ecc., anzi lo odiano e lo distruggono, 8,37 ss. Il discepolato invece crede in lui e vive di lui, non crede nel mondo e non vive di esso. Partecipa così del destino di Gesù nel presente e nel futuro, 15,18. Come secondo

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9,22 i Giudei si erano accordati «perché chiunque lo confessasse come Cristo fosse espulso dalla sinagoga», così anche in futuro succederà ai discepoli nella Chiesa: «Vi cacceranno dalle sinagoghe; anzi, sta per giungere l'ora in cui chiunque vi uccide potrà credere di offrire un sacrificio a Dio. E questo faranno perché non hanno conosciuto né il Padre né me», 16,2 s. È quindi fondamentale tutto ciò: «Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo», 17,14. Il mondo, che vive di se stesso e si capisce da sé, avverte i discepoli come una odiosa contraddizione. In questo mondo tuttavia i discepoli sono inviati per convincerlo dell'amore di Dio per esso, per condurlo alla fede e salvarlo, cf. 3,16 s.; 5,34, ecc.

Strutture della Chiesa

Se è vero che per Io. la Chiesa nella sua essenza è la comunità, identificabile già nei discepoli del Gesù terreno e rivelata nel tempo del Gesù glorificato e quindi dello Spirito, dei credenti che vivono di Gesù e, come tale, l'unico universale discepolato di Gesù, che inviato nel mondo viene da esso perseguitato, si possono però comunque rilevare in Io. anche certe strutture di questo discepolato e quindi della Chiesa. Esse non interessano l'evangelista, per cui rimangono piuttosto nello sfondo. Ma è un errore pensare che Io. conosca soltanto una Chiesa spirituale o anche carismatica, che starebbe addirittura in opposizione ad una Chiesa sacramentale e ministeriale del suo tempo e quindi di ogni tempo. È vero invece che anche nel vangelo, e non soltanto nelle lettere di Giovanni, ci sono certi accenni che ci fanno comprendere che la Chiesa vista da Io., dal punto di vista della sua costituzione, esiste nel quadro di una Chiesa visibile ed «esteriore». Così per Io. esiste la missione concreta. Essa viene espressa con i verbi avpostevllein e pevmpein. Di essa si parla a proposito di Giovanni Battista che Dio ha inviato, 1,6.33; 3,28, continuamente e ad- dirittura in maniera lapidaria a proposito di Gesù, che Dio o il Padre ha inviato, 3,17; 5,36.38; 6,29, ecc., 4,34; 5,30; 6,38, ecc., e a proposito dei discepoli che Gesù invia. In questo contesto compare anche — l'unica volta nel vangelo — il concetto di avpovstolo" in un senso generale, 13,16. Interessante è anche 4,38, il passo che abbiamo già citato: «Io vi ho inviato a mietere dove non avete lavorato». La missione è un fenomeno escatologico. La catena delle missioni si può vedere in 17,18: «Come tu mi hai mandato nel mondo così io ho mandato essi (i discepoli) nel mondo». I discepoli, in quanto inviati di Gesù, ne continuano la missione, cf. anche 13,20. Importantissimo è 20,21, ove il Risorto ai dieci discepoli, i dodici senza Tommaso e Giuda Iscariota, dice solennemente: «... Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, così io mando voi», e dove poi Gesù, infondendo lo Spirito, conferisce ai discepoli il potere di rimettere i peccati e di ritenerli. In queste affermazioni sulla missione si presenta il volto della Chiesa missionariaIn Io. si parla anche del «ministero». È riconoscibile nella persona e nella funzione di Pietro. Anch'egli compare anzitutto come uno dei discepoli, o dei dodici, anche se ne è già il portavoce, 6,68, come lo conosce pure la tradizione. Ma per Io. egli è manifestamente di più. A lui viene attribuito da Gesù il nome di Cefa, che nella tradizione ha il senso specifico di fondamento della futura Chiesa, 1,42. Accanto a lui sta la misteriosa figura del «discepolo che Gesù amava», 13,23; 19,26; 20,2; 21,7.20, che comunque, secondo 20,3.8, deve essere identificato con «l'altro discepolo», 18,15 s., e forse con «colui» che depone in favore dell'autenticità della testimonianza del testimone oculare, 19,35, e con il discepolo che ha scritto il van-gelo, 21,24. Ma Pietro e il «discepolo che Gesù amava» nel vangelo sono dei concorrenti, e sembra che con le loro figure si voglia dare forma alla concorrenza tra colui che detiene l'«ufficio» e la persona carismatica. In ogni caso in tutte le pericopi in cui Pietro e quel discepolo compaiono insieme, 13,23 ss.; 20,1 ss.; 21,7.20 ss., lo strano è che il secondo appare come colui che aveva una particolare consuetudine con Gesù, mentre Pietro è colui che ha autorità (e l'«ufficio»), Nell'aggiunta di Io. 21, Pietro viene presentato come il pescatore di uomini, che accoglie nella rete indilacerabile della Chiesa i credenti, 21,11, e come il pastore degli agnelli e delle pecore incaricato da Gesù, 21,15 ss. che ama Gesù e diviene martire, cf. 13,36; 21,18 s.22. È riconoscibile anche il principio della tradizione. Vi si accenna in 4,26; 16,13 e 5,26 s. Secondo questi testi la predicazione dello Spirito non è altro che un'interpretazione della tradizione. Egli «non parlerà da sé, ma dirà ciò che sente, ... prenderà del mio e ve Io annuncerà», 16,13 s. Ciò però significa che «egli vi insegnerà tutto e vi ricorderà tutto quello che io vi ho detto», 14,26. Le parole di Gesù, che sono state pronunciate, rimangono come parole dette in quanto lo Spirito le assume e, dopo l'ingresso

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di Gesù nella Doxa, le «insegna» ai discepoli nel suo «ricordo». Se non ci fosse lo Spirito, ciò che Gesù «ha detto» (ha fatto ed era) sarebbe un evento morto, passato senz'essere compreso. Se non ci fosse «la tradizione», cioè l'evento-Cristo che già in quanto avviene si tramanda alla storia, lo Spirito non avrebbe niente da dire. Lo Spirito rende testimonianza a Gesù. Ma lo fa attraverso i discepoli, che «dall'inizio sono con Gesù», e quindi anche ora sono con lui e in questo essere-con conservano come suo «ricordo» ciò che dall'inizio è avvenuto in lui in virtù dello Spirito. Così anche Gesù, secondo 3,11, può identificarsi con la comunità e dire che il suo conoscere e vedere immediato è assimilato a quello che la Chiesa assume nella tradizione. Anche il culto della Chiesa, se si presta una maggiore attenzione, può essere visto nel vangelo. Al riguardo si può ricordare che la adorazione «dei veri adoratori», che «adorano il Padre in Spirito e verità», ha sostituito tutti i culti finora esistenti, da quello di Gerusalemme a quello sul Garizim. L'ora escatologica della vera adorazione è già incominciata con Gesù ed irrompe con lo Spirito, 4,19-24. Il «tempio del suo corpo», al quale appartengono i credenti, è eretto, mentre quello antico è distrutto, 2,18-21. Anche ai sacramenti viene fatto accenno. Del battesimo si parla espressamente nel colloquio con Nicodemo, 3,1 ss. Esso, all'opposto di quello con acqua di Giovanni, 1,26.31.33, è un battesimo con lo Spirito, più esattamente un battesimo con l'acqua e lo Spirito, 3,5. Esso opera «la nascita dall'alto» o «nuova» e fa «pervenire nel regno di Dio», 3,5 o «vedere il regno di Dio», 3,3, a chi «è nato dallo Spirito», 3,8, e non è più «carne» ma «spirito», 3,6. Che 5,14 ss.; 9,1 ss.; 13,9.10 siano delle allusioni al battesimo, come pensa O. Cullmann, è dubbio, ma qui non è necessario affrontare il problema. 19,34 invece è certamente, nel senso di Io., una allusione al battesimo e all'eucarestia, e precisamente sotto il profilo della loro origine dalla morte di Gesù. L'eucarestia è menzionata frequentemente. Sarà certo difficile poter convenire con O. Cullmann nel vedere un accenno ad essa in 2,1-11. I capitoli 14-17 potrebbero essere designati piuttosto come discorsi dell'Agape. 19,36 invece, come abbiamo visto, è un'allusione all'eucarestia dal punto di vista della sua origine. E il cap. 6 è interamente dedicato ad essa, in quanto per Io. già il pane dei cinquemila ne costituiva il compimento segreto nel tempo del Gesù terreno, e i seguenti discorsi di Gesù ne presentano il senso sotto diversi aspetti, finché, in 6,51c, mettono in luce senza veli il tema. Nell'aggiunta essa viene celebrata dal Risorto insieme con i discepoli, rivelandosi così radicata nella Chiesa. Anche l'incarico e il potere di rimettere i peccati e di ritenerli vanno qui ricordati, 20,21 ss. Infatti non si tratta, come pensano alcuni commentatori, di una continuazione, conferma e compimento della generale funzione di giudice propria di Gesù, 3,19; 5,27; 9,39, ma di una missione dei discepoli da parte del Risorto con speciali poteri, tra cui quello concreto di giudicare i peccati dei discepoli, che possono perdonare o ritenere. Come la comunicazione dello Spirito non è affatto già il compimento delle promesse generali dello Spirito, ma una nuova forma specifica, così il giudizio cui i discepoli vengono abilitati, in particolare come variante di Mt. 16,19; 18,18, non è affatto ciò che si realizza con la predicazione della parola, ma un atto giudiziario sui generis. Che questo potere non sia uno speciale potere apostolico, non lo «si capisce interamente da sé». Piuttosto si deve dire che qui ricompare il duplice ruolo che i discepoli, o i dodici, di cui dieci sono qui raccolti, rivestono, cioè, da una parte, il fatto di rappresentare i credenti e, dall'altra, di mettere in luce, in questa occasione, il loro carattere tradizionale di schiera degli apostoli. Riassumiamo ancora una volta il modo con cui Io. vede la Chiesa. 1. In primo luogo essa è la schiera dei credenti. Questa è presente nel discepolato del Gesù terreno e, paradigmaticamente, nei dodici, ma dopo la sua glorificazione si rivela, come lui stesso, mediante lo Spirito. Essa si distingue, nella sua condizione di provvisorietà e di definitività, dalla folla fluttuante dei credenti e dagli increduli. 2. I membri di questa comunità sono affidati da Dio a Gesù. Sono scelti da Gesù e, come discepoli, sono debitori della sua immolazione per loro. Egli si affida ad essi mediante lo Spirito di verità. Sotto ogni aspetto essi costituiscono la Chiesa di Gesù. 3. Essi vivono della sua parola (unita ai segni), che apporta loro la salvezza, e stanno sotto il comandamento del suo amore e il suo invito alla sequela. Vengono sorretti dalla sua preghiera, che chiede che siano conservati nel suo nome in mezzo al mondo, che siano santificati nella verità, lo raggiungano e vedano la gloria. Ricevono la sua pace ed hanno la promessa della sua gioia. Così i membri della Chiesa sono presentati come discepoli di Gesù, suoi servi ed amici, figlioli e fratelli, i suoi. Senza di lui non possono portare frutto; formano il gregge del buon pastore.

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4. Il discepolato della Chiesa è universale e trova il suo compimento nella sua unità in Gesù. In quanto tale continua l'opera dell'amore di Dio nella missione di Gesù, la quale sta nel guadagnare il mondo alla fede e nel dargli la vita. Soltanto unita, in conformità con la volontà di Gesù, essa riesce credibile al mondo. 5. Come sua Chiesa che non è del mondo, abita nel mondo e in esso e mediante esso fa l'esperienza del destino di Gesù. Il mondo infatti è caduto nella menzogna, nel peccato e nella morte e odia, desiderandole così inconsciamente, la verità, la libertà e la vita. Odia e uccide Gesù e i suoi, per cui la Chiesa è una Chiesa sofferente. 6. Che in definitiva, quando Io. tratta della schiera dei discepoli di Gesù, parli della Chiesa concreta, lo si intravede dal fatto che sullo sfondo compaiono certi elementi della struttura della Chiesa: la missione, il ministero, la tradizione e il culto. Io. quindi non tratta di una comunità puramente spirituale o carismatica, piuttosto egli vede la Chiesa prevalentemente sotto l'aspetto spirituale. È si-gnificativo ch'egli parli tematicamente del battesimo e dell'eucarestia all'interno del contesto spirituale.

LA CHIESA SECONDO LE LETTERE GIOVANNEE

Anche in questi scritti, il cui rapporto con il vangelo di Giovanni è stato per lo meno chiarito nel senso che con ogni probabilità sono più recenti del vangelo ma traggono sempre origine dalla stessa «scuola», la Chiesa è presente sullo sfondo, tuttavia qui emerge con maggiore chiarezza in alcuni elementi della sua struttura concreta.

L’autore di fronte alla comunità All’interno della comunità riflessa in 1 Io. si distingue anzitutto l’autore della lettera dalla comunità cui egli scrive, ad es. 2,1: « Vi scrivo queste cose affinché non pecchiate » o 2,7: « Non è un comandamento nuovo che vi scrivo e che voi avete ricevuto fin dall’inizio. È un comandamento antico…». Cf. anche 2,8.14.21; 5,13. In 3 Io. imitando (?) 2 Io. l’autore si definisce ov presbuvtero", il che con ogni probabilità non è ancora un titolo ministeriale, ma una designazione della sua dignità ed autorità, forse nel senso di quei presbuvteroi, « che Papia dice depositari e trasmettitori della tradizione apostolica». In 1 Io. l'autore rinuncia a tale denominazione ma mette in luce tanto più energicamente la sua autorità spirituale. Lo si ricava da tutto il tenore della lettera, ma in particolare dal fatto 1) che egli non si comprende soltanto nel «noi» della comunità, ma come tale pretende di essere anche all'interno della comunità il rappresentante e il portavoce di un gruppo, cioè di quello che custodisce la tradizione. Al «noi» si contrappone un «voi» e questi devono prendere parte alla coinwniva, di cui sono partecipi i «noi», 1 Io. 1,3; 2) che egli presenta alla comunità delle proposizioni vincolanti dal punto di vista della fede e, precisamente, con la pretesa di offrire così una verità infallibile, 2,1.15.27; 3) dal modo con cui chiama i membri della comunità cui scrive, che da una parte sono detti ajgaphtoiv, 2,7 (sott. ajdelfoiv); 3,2.21; 4,1.7.11; 3 Io 2,5.11; e ajdelfoiv, 1 Io. 3,13, e dall'altra, tecniva o paidiva, 1 Io. 2,1.12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21 e 2,14; 18, il che fa intendere una stretta relazione personale, ma fa anche conoscere l'omileta che parla con potere spirituale ai suoi uditori. In 2 Io. 1 il presbuvtero" scrive ejclecth curiva caij toi" tevcnoi" . L'«anziano» sta di fronte all'intera comunità cui si rivolge. In 2 Io. 13 egli invia saluti in nome dei membri della comunità, che in 3 Io. 4 vengono detti «miei figlioli». Si può quindi dire complessivamente che nelle lettere giovannee compare una comunità alla quale un rappresentante e portavoce di un gruppo della comunità, come custode della tradizione, scrive fraternamente e paternamente in forza dell'autorità spirituale. In 2 e 3 Io. egli si definisce o pjresbuvtero", probabilmente usando il termine come appellativo tradizionale di dignità. In 3 Io. si oppone con autorità ad un certo Diostrefe, che è forse investito di un ufficio ecclesiastico e che potrebbe essere un ejpivscopo", ma non certamente in questioni dottrinali.

L'AUTOCOMPRENSIONE DELLA COMUNITÀ

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Ma che cosa ci dice una tale autorità spirituale a proposito della autocomprensione della comunità? In ogni caso che essa sta nella «comunione» con il Padre e il suo Figlio Gesù Cristo ed è fondata nell'amore preveniente di Dio. Questo amore Dio lo ha dimostrato mandando il suo Figlio, che è la manifestazione della vita eterna, i Io. 1,1 ss. Cf. al riguardo anche i Io. e 4,7 ss., special mente 4,9 s.16.19. Gesù, 1 Io. 1,7; 4,3.15; 5,1.5, il Cristo, 1 Io. 2,22; 5,1, Gesù Cristo, 1 Io. 1,3; 2,1; 4,2; 2 Io. il Figlio, 1 Io. 2,22.23.24; 4,14; 5,12; 2 Io. 9, il Figlio di Dio, 1 Io. 1,7; 3,8.23; 4,10.15; 5,5.9.10.11.12.13.20, il Figlio del Padre, 1 Io. 1,3; cf. 2,22 s.24; 4,4; 5,12; 2 Io. 9, il Figlio unigenito, 1 Io. 4,9, il Giusto, 1 Io. 2,1.29; 3,7; cf. 1,9 nel quale «non c'è peccato», 1 Io. 3,5, egli è inviato da Dio, per amore, nel mondo, 1 Io. 4,9, come il Salvatore del mondo, 4,14. Egli è «venuto nella carne», 4,2, è «venuto e ci ha dato l'intelligenza affinché conosciamo il Verace», 5,20. Egli è «venuto nell'acqua e nel sangue», quindi come il Gesù che è stato battezzato ed è morto in croce, 5,6. Egli ha «dato la sua vita per noi» come prova del suo amore e dell'amore di Dio, 3,16 s. Dio lo ha «inviato propiziazione per i nostri peccati», 4,10. È «apparso per togliere i nostri peccati», 3,5. È «la vittima di propiziazione per i nostri peccati» e per «quelli del mondo intero», 2,2. Ora noi abbiamo «il Giusto» come celeste avvocato presso il Padre, 2,1, ora «il sangue di Gesù ci purifica... da ogni peccato», 1,7, «ci rimette i peccati» e «ci purifica da ogni ingiustizia», 1,9. I peccati sono «rimessi per la virtù del suo nome», 2,12. In tal modo sono distrutte «le opere del diavolo», 3,8. Gesù ha emanato i suoi comandamenti, 2,3 s.; 3,22, che sono i comandamenti di Dio, 3,22.24; 5,2 s., o il comandamento suo e di Dio, che è antico ma anche sempre nuovo, 2,7 s., il comandamento dell'Agape, 2,7 ss.; 3,23; 4,21; 2 Io. 4.5.6. Così «le tenebre se ne vanno e brilla già la vera luce», 1 Io. 2,8. Ma anche il futuro viene determinato da Gesù, dalla sua parusia e rivelazione. Egli anzi è il giudice davanti al quale ognuno deve rispondere e che prende la decisione definitiva, 2,28; 3,2 ss.; 4,17. Questa comunità, che è debitrice a Dio e a Gesù Cristo in tutto, ha anche lo Spirito. È questa una seconda caratteristica. Si tratta dello «Spirito di Dio», 1 Io. 4,2 che si manifesta in molteplici maniere, 4,1 s. È stato donato da Dio, 3,24; 4,13. Ma si può anche dire che la comunità lo ha ricevuto da Gesù Cristo come to; crisma, l'unzione, che «rimane» nei membri della comunità, 2,20.27. Egli è «lo Spirito di verità», 4,6, anzi è egli la verità, 5,6. Egli dona la gnosis, 2,20, ed «istruisce su tutto», 2,27. Dona testimonianza al battesimo e alla croce di Gesù, 5,6. Per la sua forza il battesimo e l'eucarestia sono dei «testimoni», 5,7 s. Egli è anche colui che fa la vera confessione, 4,2. Agisce nella parola della comunità, 4,6. Ed è la virtù e la prova del fatto che l'amore di Dio ci muove, cf. 3,24; 4,13. In virtù dello Spirito la comunità possiede anche la parola. Gesù è «la Parola della vita» o «la vita», che si è manifestata, 1,1 s. E la comunità lo annuncia come il Logos divenuto carne. Si giunge così alla coinwniva tra noi, con Dio e con lui, 1,2 s., cf. 1,7. Viene annunciato e si rende testimonianza del fatto «che Dio ci ha dato la vita eterna e questa vita è del Figlio suo», 5,11. Viene annunciato anche «che Dio è luce e nessuna tenebra è in lui», 1,5, il che rende possibile e richiede il nostro camminare nella luce e l'osservanza dei suoi comandamenti, cioè la «custodia della parola», 2,3 ss. Ma i comandamenti di Dio sono il suo comandamento, «che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, come egli ci ha comandato», 3,23. Ma può essere espresso anche così: «Ecco il comandamento che abbiamo ricevuto da lui: che colui che ama Dio ami anche il suo fratello», 4,21; cf. 2,3,7 s.; 3,11.24; 5,2; 2 Io. 4,5 s. Tuttavia — e questa è la cosa più notevole per le nostre lettere — la parola, che lega la comunità a Dio e a Gesù Cristo, fa rifluire sui suoi membri la vita e fa sì che si amino vicendevolmente, è sempre la stessa della tradizione, e certo non soltanto come una sua ricapitolazione, ma anche come una ripetizione attuale della medesima nello Spirito. Lo si coglie immediatamente da 1,1 ss., dove essa appare come Gesù sempre presente, dato ajp’ajrch" , come la Parola della vita; ma anche da 2,7 s., in cui il «nuovo» comandamento non è altro che hj e;ntolhv palaiva, h[n ei?cete ajp’ajrch", ed infine pure da 3,11, dove si parla della ajggelija, h[n hvcouvsate ajp’ajrch", cioè i[na ajgapwmen ajllhvlou", cf. anche 2 Io. 4 ss. La comunità vive della parola pronunciata con la apparizione di Gesù e tramandata «dal principio», di una parola che offre e dona la vita. Il suo carattere di tradizione diviene formalmente evidente nelle omologie cristologiche che ritroviamo nella nostra lettera, e che costituiscono per essa la formulazione dei criteri della fede. Cosi ad es., in 2,22-25, in cui si parla dell’ovmologein tojn uijovn, designato indirettamente come o[ hjcouvsate ajp’ajrch". Tale ovmologiva, già formulata nella tradizione, si trova in 4,15 come ovmologein, o[ti jIhsou" ejstin ov uijo;" tou Qeou, cf. 5,5 e 4,2 come ovmologein jIhsoun Cristo;n ejn sarci; ejlhluqovta, il che poi 4,3 esprime così: ovmologein to;n jIhsoun, cf. 2 Io. 7. Tale ovmologein fa

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«rimanere nel Figlio» e conserva la promessa della vita eterna, 1 Io. 2,27 s., o fa rimanere Dio in lui e il confessante in Dio, 4,15. Siccome poi, come già sappiamo, lo Spirito di Dio è la sorgente di ogni confessione, come pure è la fonte di ogni predicazione, la comunità non avverte alcuna collisione tra tradizione e Spirito. Dei sacramenti nelle lettere giovannee si parla esplicitamente soltanto una volta, cioè in 1 Io. 5,7 s., ove in contrapposizione a 5,6 «l'acqua e il sangue» designano i sacramenti del battesimo e della cena del Signore, «che, in quanto comunicano alla comunità la salvezza donata mediante Gesù Cristo, testimoniano che egli è il Figlio di Dio», e precisamente assieme al pneuma. Forse il crisma ricordato in 2,20.27 allude alla gnosis ricevuta nel battesimo, la quale viene partecipata al neofita nella forma della confessione battesimale, cf. 2,22, e così istruisce in verità su tutto. Ad una esplicita e personale confessione dei peccati (davanti a chi?) pensa 1 Io. 1,9. Ma non vi si parla dell'absolutio mediante la comunità o del suo presidente. Questa però è implicita nel fatto che il perdono dei peccati da parte di Dio e la purificazione da ogni ingiustizia vengono presentati come una risposta ad una confessione. In questo senso si può parlare di una prima forma di confessione sacra-mentale.

CHIESA E MONDO In quanto comunità fondata dall'opera dell'amore di Dio in Gesù Cristo e dotata dello Spirito, che in realtà è all'origine di tale agire divino, e nella quale è operante come testimonianza e comandamento la parola tramandata e confessante, il battesimo e l'eucarestia svolgono una loro funzione in quanto sacramenti testimoniati in virtù dello Spirito, ci si confessa dei peccati e si ottiene il perdono, essa è la comunità dei credenti, di coloro che conoscono e amano, la comunità dei purificati dal perdono di Dio e di Gesù Cristo, di coloro che riposano in Dio e lo conservano in sé. La fede viene suscitata e risponde alla marturiva dello Spirito nella parola, 1 Io. 5,6.9 ss. Il suo oggetto è formulato in diverse maniere. Essa è un pisteuvein tw Qew, 5,10 oppure un pisteuvein th;n ajgavphn, h[n e[cei ov Qeov" ejn hjmin, in quanto essa crede: o[ti jIhsou" ejstin ov Cristov", 5,1 o[ti jIhsou" ejstin ov uijov" tou Qeou, 5,5 oppure anche pisteujein eiv" to;n uijovn tou Qeou, 5,10, eiv" to; o[noma tou uijou tou Qeou, 5,13, e tw ojnovmati tou uijou aujtou jIhsou Cristou, 3,23. Tale fede è allora: «avere in sé la testimonianza del Figlio di Dio», 5,10, «avere in sé» una parola di Dio, 1,10. Se si crede, la parola di Dio rimane in noi, 2,14. È il rimanere in noi di ciò che «abbiamo udito dal principio», 2,24; cf. 2,7. Tale fede è un gnwnai Dio, 3,1; 4,6.7 s.; cf. 4,16, o Gesù Cristo, 2,3 s.13 s.; 3,6; 5,20, un «sapere» la verità, 2,20 s. La fede e la conoscenza si dimostrano nell'osservanza dei comandamenti, 2,3; 3,23, che richiedono la fede in Gesù Cristo e l'amore per Dio e per i fratelli, 3,23; 4,2.21; 5,1 5.3, cf. 2,7 ss.; 2 Io. 5 s. Di tale fede, che è conoscenza e si dimostra nella osservanza dei comandamenti, è detto: «E chi osserva i suoi comandamenti, rimane in lui ed egli in noi», 1 Io. 3,24, oppure: «Dio è carità e chi rimane nella carità rimane in Dio e Dio in lui», 4,16; cf. 4,12. Di questo essere e rimanere in Dio e in Gesù Cristo si parla spesso in 1 Io. anche in una semplice formulazione d'immanenza non reciproca, ad es. 2,5.6.24. In questa fede, che si rivela come conoscente nell'amore, si realizza il vincolo intimo dell'uomo con Dio e la sua determinazione da parte di Dio, così come, secondo 2,29; 3,9; 4,7; 5,1.4.18 s., realizza l' ejc Qeou gennasaqai e, secondo 4,3.6; 3 Io. 11, ei?nai ejc quindi la filiazione divina nell'amore della fede. In tal modo la fede, in quanto atteggiamento dei membri della comunità, è la vittoria sul mondo, i Io. 5,4, e i credenti sono i vincitori, 5,5, del mondo, del maligno, 2,13 s., e dell'eresia, 4,4. In quanto persone che credono e amano, i membri della comunità sanno di essere separati dal mondo, anzi di essere in contrasto con esso, 2,15 ss. Il mondo è visto sotto il profilo di ciò che «è in esso» e quindi di ciò in cui lo si incontra. Esso però è caratterizzato anche dal suo rapporto con se stesso e quindi con i beni da esso custoditi. Il tratto fondamentale della sua natura è l'ejpiqumiva th" sapcov", la concupiscenza o l'alienazione dell'uomo perduto. Esso è hv ejjpiqumiva twn o;fqalmwn, la concupiscenza che eleva il suo sguardo, lo sguardo che ricerca se stesso. È ancora caratteristica fondamentale della natura del mondo hv ajlazoneiva tou bivou un primitivo mettersi in vista, l'ostentare i propri mezzi e le proprie ricchezze. E questo mondo, nelle sue intenzioni, non ha ricevuto il suo essere da Dio, ma vive di se stesso, quindi di ciò che è passeggero. Nel suo complesso è posto «nel maligno», in quanto è dominato da esso, 5,19. Il male, si potrebbe dire, è la sua situazione. In quanto ricerca se stesso, esso è scotiva, poiché si irretisce ed acceca nell'egoismo colmo di odio, 1,5 s.; 2,9-11.

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Diviene così comprensibile perché il cosmo, che non ha conosciuto Dio, non conosca i figli di Dio, 3,1, e non li ascolti, 4,6, e perché esso li «odi» «rimanendo» così nella morte, che fa parte della tenebra e del male, 3,13 ss. Il contrasto tra i membri della comunità e gli uomini che vivono del mondo è così grave che essi devono essere definiti taj tevcna tou Qeou cai; ta; tevcna tou diabovlou, 3,10. In-fatti l'avmartiva, che è l'a;nomiva, 3,4, procede dal diavolo, che è «peccatore dal principio», 3,8. I peccati, che sono primariamente l'ingiustizia, l'illegalità, la mancanza d'amore di colui che odia il fratello e ama se stesso, si manifestano come e[rga tou diabovlou, 3,8. Essi ripetono e rappresentano in ciò l'antichissimo peccare del diavolo. Così il mondo e il suo svolgimento sono in mano di Satana, peccatore da sempre. Perciò si può dire anche dell'apparizione del Figlio di Dio che essa è avvenuta «per distruggere le opere del diavolo», 3,8. Ma dei «neofiti» si potrà affermare che essi, in virtù del lovgo" tou Qeou che abita in loro, «hanno vinto il maligno», 2,14, e dei credenti in generale che la loro «fede ha vinto il mondo», 5,4. Il mondo e il suo principe sono però penetrati anche nella comu-nità, mediante le eresie che la minacciano. Già parecchi «anticristi» sono apparsi nella comunità, 2,18, rappresentanti del plavno" e dell' ajntivcristo", cf. 2,22; 4,3.6; 2 Io. 7. E molti pseudoprofeti sono venuti nel mondo, 4,1. Essi trascinano i membri della comunità nell'errore, 2,26; cf. 3,7. Sono usciti dalla comunità, ma per loro natura non appartengono ad essa; se così fosse, sarebbero rimasti in essa, 2,18 s. I loro errori riguardano la cristologia. Essi difendono evidentemente una posizione «docetista», che non vuole confessare come Cristo il Gesù terreno, 2,22; 4,2 s. Ma l'eresia concerne anche la concezione del peccato. I suoi aderenti s'immaginano d'essere senza peccato, benché trasgrediscano la legge e siano così del diavolo, 1,8; 3,4.7 s. Essi «non rimangono nell'insegnamento di Cristo» e «non hanno Dio», come si esprime 2 Io. 9. Di loro vale quanto dice 2 Io. 10 s.: «Se qualcuno viene da voi senza portare questa dottrina (la retta dottrina di Cristo), non ricevetelo presso di voi e astenetevi dal salutarlo. Colui che lo saluta diviene partecipe delle sue opere malvage». I cristiani devono piuttosto stare in guardia «dagli idoli», il che vuol dire che devono guardarsi dal mondano, che s’impone nell'eresia, 1 Io. 5,21. Essi devono «provare gli spiriti», 4,1, e rimanere in ciò che hanno «ascoltato dal principio», 2,24, il che insegna loro il crisma che hanno ricevuto, 2,26 s.; cf. 2 Io. 8 s. La comunità vive nel tempo finale. Gli eretici o anticristi, che compaiono in seno alla Chiesa, sono il segno dell'«ultima ora», 1 Io. 2,18. Ma questo tempo finale, con più esattezza, è il tempo «in cui le tenebre se ne vanno e brilla già la vera luce», 2,8. La vera luce però brilla e scaccia le tenebre in quanto l'antico e quindi nuovo comandamento si è realizzato in Gesù e si realizza nella comunità mediante la fede e là carità. La Chiesa tentata, ma sempre fedele alla dottrina di Cristo, è il segno del tempo finale incominciato. In questo modo sono stati citati tutti gli elementi caratteristici della Chiesa, così come appare nelle lettere giovannee. Il fondamento è costituito da Gesù divenuto carne ed è il Cristo. Egli, nel suo sangue, ha espiato i peccati ed ha portato il comandamento sempre nuovo. La forza vitale di questa Chiesa è lo Spirito. La sua parola, in quanto tradizione attuale, e i sacramenti del battesimo e dell'eucarestia, testimoniati mediante essa, suscitano e conservano la Chiesa di coloro che credono e amano in mezzo ad un mondo tenebroso ed ostile e nella tentazione dell'eresia scaturita dal suo seno, la quale costituisce un segno del tempo che volge alla fine. Questa Chiesa, in 1 Io., è esortata da un autore anonimo, che in 2 e 3 Io. si presenta come l'«anziano», si afferma con un'autorità spirituale e parla in nome della comunità ortodossa.

Le caratteristiche essenziali della chiesa secondo le lettere paoline

I nomi della Chiesa Ci accostiamo a ciò che l'apostolo Paolo intende per Chiesa tenendo presenti i concetti con cui egli ne ha di preferenza espresso la natura. Sono tre e sottolineano da soli molteplici e diversi aspetti della Chiesa: popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito santo. Analizziamo questi concetti dal punto di vista delle prospettive che essi dischiudono alla comprensione della peculiarità essenziale della Chiesa.

Popolo di Dio ed e jcclhsi va

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L'applicazione alla Chiesa dell'espressione «popolo di Dio» in Paolo è rara, vi compare due volte in altrettante citazioni dall'AT, Rom. 9,25 s. e 2 Cor. 6,16. Ciò dimostra, da una parte, quanto naturale fosse per l'apostolo il nesso, anzi, in un certo senso, l'identità del popolo di Dio veterotestamentario con la Chiesa. D'altra parte però ciò dimostra che per lui il concetto ov laov" tou Qeou in quanto tale non esprime in maniera abbastanza pregnante ciò che la Chiesa è. Esso manifestamente non esprime un momento essenziale del popolo di Dio radunato. Per questo Paolo, per connotare la Chiesa, ha desunto dall'AT greco e dalla comunità ellenistica primitiva un altro concetto più pregnante, nel quale si condensa anche il significato di «popolo di Dio», cioè il concetto di hv ejcclhsiva. Per Paolo, e già per la comunità primitiva, è un concetto grave e solenne, insieme però anche evidente, «biblico». Nell'AT esso è la traduzione quasi esclusiva del concetto ebraico qàhàl, che soprattutto nel Deut., nei Par. e nei Ps. designa l'intera comunità d'Israele e la sua assemblea, cf. ad es. Deut. 11,30; 1 Par. 13,2.4; 28,2.8 ecc.; Ps. 22,23.26; 26,5. 12, ecc. Anche la primitiva comunità aramaica presumibilmente si definiva un qàhàl, in aram. qehalàh, e non edàh o sod o kenìsta', ai quali per lo più corrisponde sunagwghv. In ogni caso la comunità primitiva di lingua greca si ritrovava meglio nel qàhàl veterotestamentario e in hv ejcclhsiva. Questo qàhàl, più esattamente qehal-jah- weh o ejcclhsiva curivou, è quanto Paolo recepisce nella forma hv ejcclhsiva tou Qeou, 1 Cor. 1,2; 10,32; 11,16.22; 15,9; Gal. 1,13; 1 Thess. 2,14; 2 Thess. 1,4, mentre altrove nel NT appare soltanto una volta come variante, Act. 2o,28b. Che ejcclhsiva, nel senso di popolo di Dio radunato, per Paolo fosse ancora un concetto vivo traspare dal fatto che egli poteva scrivere anche: th ejcclhsiva...ejn Qew patriv cai; curivw jIhsou Cristw , 1 Thess. 1,1; 2 Thess. 1,1. E quando distingue la Chiesa dal popolo di Dio dell'AT, egli può parlare ad esempio di aiv ejcclhsiva tou Qeou...ejn Cristw jIhsou, 1 Thess. 2,14; cf. Gal. 1,22. In entrambi i testi la Chiesa è vista come il popolo di Dio radunato, che ora è il popolo in Dio, nel Padre e nel Signore Gesù Cristo, o in Cristo in questo o quel luogo. Ma che cosa intende per Chiesa Paolo quando la definisce con la espressione hv ejcclhsiva tou Qeou? Anzitutto questo: la Chiesa, in quanto popolo di Dio «in Cristo», rappresenta la continuazione del popolo di Dio che è Israele. La Chiesa si riallaccia ad esso. Essa inizia là dove ha inizio il popolo di Dio dell'AT. Quest'ultimo è indubbiamente fin dal principio, per così dire, l'Israele in Israele, e la sua continuazione è la Chiesa dei giudei e dei pagani. Israele nei suoi padri, nella sua santa radice e nella sua origine, Israele, l'olivo nobile sul quale sono innestati anche i rami dell'olivo selvatico, Rom. 11,17 s., Israele in quanto seme di Abramo, del padre della fede, Rom. 4,11 s.; 9,7 s.; Gal. 3,6 ss. 29, l'Israele non secondo la carne ma secondo lo Spirito e la promessa, Rom. 9,6 ss.; 1 Cor. 10,18, Israele nel suo «resto», nella «scelta di grazia», Rom. 9,27 ss.; 11, 5.7, Israele, la cui madre non è la Gerusalemme terrena bensì quella di lassù, la libera, Gal. 4,26, insomma «l'Israele di Dio», Gal. 6,16, «la circoncisione», Phil. 3,3, cioè la Chiesa che continua il popolo di Dio dell'AT. Ma in quanto tale continuazione essa ne costituisce insieme il compimento. La «Chiesa di Dio in Cristo Gesù» o «la Chiesa in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo», 1 Thess. 1,1; 2,14, è il popolo di Dio degli ultimi giorni. È questo il secondo aspetto del concetto hv ejcclhsiva tou Qeou. Il popolo di Dio, con il quale Dio stipulerà il suo «nuovo patto», Ier. 31,31 ss., che dapprima sarà riunito, Ier. 31,1; Ez. 48; Zach. 9,1 ss. ecc., e poi tratto fuori dal suo nascondimento e manifestato come il vero «popolo», è appunto quello che per Paolo si è realizzato nell' ejcclhsiva, con cui Dio nel sangue di Gesù Cristo ha sigillato la nuova alleanza e la continua a sigillare nel convito del Signore, 1 Cor. 11,25. Parlando della Chiesa come della ejcclhsiva tou Qeou Paolo mette in evidenza il fatto che essa è ora il nuovo popolo scelto e chiamato da Dio, il popolo che si raduna attorno a lui e per lui è disponibile ed insieme viene continuamente costretto alla decisione, il popolo cioè di colui che è presente per salvare e giudicare, il popolo escatologico di Dio. Per questo, secondo Paolo, la Scrittura dell'AT, ad es. nella sua descrizione del popolo itinerante nel deserto che si ribella a Dio, è di ammonimento alla Chiesa, nella quale il popolo veterotestamentario di Dio è conservato e reso perfetto sino alla fine, 1 Cor. 10,5 ss. Questo popolo escatologico di Dio, che vive alla fine degli eoni, c'è soltanto una volta, ed anche se già ai tempi dell'apostolo e in virtù della sua attività compare ovunque nel mondo nelle singole chiese, è pur sempre un popolo unico. La singola comunità non è altro che una rappresentazione appunto di quest'unico popolo di Dio. Ed è proprio quanto si può evidenziare con il concetto di ejcclhsiva. Questo è il terzo aspetto che il nostro concetto rivela. Certo, con hv ejcclhsiva Paolo per lo più intende la

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singola comunità, Rom. 16,1.16.23; Cor. 4,17; 6,4 ecc., o anche la comunità domestica, Rom. 16,5; 1 Cor. i6,ic)b; Col. 4,15; Philm. 2, di modo che può scrivere aiJ ejcclhsivai al plurale quando parla di più chiese locali, Rom. 16,4; 1 Cor. 11,16; 14,33 s.; 16,1.19 ecc. Ma anche la chiesa locale è spesso detta hv ejcclhsiva (tou Qeou), 1 Cor. 10,32; 11, 22; 12,28; 15,9; Gal. 1,13; Phil. 3,6. Come però debba essere visto il rapporto tra le due ce lo indica ad esempio la formulazione dell'indirizzo di 1 e 2 Cor.: thv ejcclhsiva tou Qeou th ou[sh ejn Korivvnqw, 1,2; 1,1. La Chiesa di Dio si manifesta a Corinto o a Roma o a Tessalonica o in qualsiasi altro luogo in cui esista una comunità. Il popolo di Dio è presente nelle singole comunità locali o domestiche. Non c'è dubbio per Paolo che «tutte le chiese» e non solo quelle della sua circoscrizione missionaria, quindi ad es. anche quelle di Gerusalemme o di Roma formino per essenza una unità. Non ci sono due o tre popoli di Dio. E ciò comporta delle conseguenze anche per la singola chiesa locale. Essa è la rappresentante del popolo di Dio nel mondo, per cui sarà credibile soltanto se conserverà nella sua cerchia l'unità, che anche l'apostolo raccomanda continuamente alle sue comunità, Rom. 12,3 ss.; 14,1 ss.; 1 Cor. 1,10 ss.; 11,17 ss., ecc. Essere hv ejcclhsiva tou Qeou e dividersi in conventicole è una contraddizione in termini. Ma con il concetto hv ejcclhsiva tou Qeou in Paolo viene in luce ancora un quarto punto di vista. In quanto ejcclhsiva la singola chiesa locale si presenta anche come un'assemblea santa. Ciò risulta dalla qualificazione dei membri delle comunità di Roma e Corinto negli indirizzi di 1 Cor. e Rom. Il già citato indirizzo della 1 Cor., «alla Chiesa di Dio che è in Corinto», continua: «ai santificati in Cristo Gesù, ai chiamati ad essere santi con tutti quelli che in qualsiasi luogo invocano il nome di Gesù Cristo nostro Signore», 1,2. E nell'indirizzo di Rom. Paolo scrive: «a tutti quanti sono in Roma diletti di Dio e santi per chiamata», 1,7. Ciò che abbiamo tradotto con «santi per chiamata» (clhtoi; a[gioi) potrebbe essere reso anche con membri dell'«assemblea santa». Infatti i clhtoi; a[gioi sono coloro che costituiscono la clhth; a[giva. Ma clhth; a[giva è la traduzione dei LXX dell'ebr. miqrà' qodes che in Ex. 12,16; Lev. 23,2 ss.; Num. 28,25, designa l'assemblea santa del popolo di Dio. È la denominazione della santa comunità d'Israele che, al sabato e nelle feste, si raccoglie per il servizio religioso. Quando pertanto Paolo si rivolge alla ejcclhsiva che è in Roma o Corinto e, tra l'altro, chiama i suoi membri clhtoi; a[gioi, egli ha presente come destinatario delle sue lettere il popolo di Dio scelto, convocato e riunito per l'assemblea santa. Perciò egli parla dei membri delle comunità come dei clhtoi;, Rom. 1,6 (clhtoi; jIhsou Cristou); 8,28; 1 Cor. 1,24, degli ejclectoi; Qeou, Rom. 8,33; 16,13; Col. 3,12; (2 Tim. 2,10; Tit. 1,1), e soprattutto degli a[gioi, Rom. 8,27; 12,13; 16,2.15; 1 Cor. 6,1 s.; 14,33, ecc. La santità dei membri di questa assemblea santa del nuovo popolo di Dio si fonda e consiste sempre nel fatto che essi sono già santi in quanto costituiscono la ejcclhsiva la sua santa assemblea. Ma dal concetto di ejcclhsiva, anche se non per Paolo ma comunque per i fedeli delle comunità ellenistiche cui esso viene applicato, emerge una quinta idea. Quando ad es. i cristiani di Salonicco, riuniti per il servizio religioso, venivano chiamati ejcclhsiva Qessalonicevwn, 1 Thess. 1,1; 2 Thess. 1,1, oppure quando i cristiani di Corinto sentivano parlare di ejcclhsiai th" Macedoniva", 2 Cor. 8,1; cf. 1 Cor. 16,1.19; Gal. 1,2, sarebbe stato strano se non avessero pensato anche che nella loro vita civile quotidiana l'assemblea dei cittadini con pieni diritti della loro polis, convocata regolarmente per compiere degli atti giuridici pubblici, era detta ejcclhsiva. Di tale ejcclhsiva dei cittadini di Efeso si parla del resto in Act. 19,32. 39.40. Da questa ejcclhsiva profana per i cristiani doveva certamente derivare una certa luce nella comprensione della ejcclhsiva tou Qeou, che si è raccolta per il servizio religioso, in cui viene letta anche la lettera dell'apostolo. Di qui forse divenne per essi chiaro che anche la loro comunità non era una unione o una corporazione, bensì una entità pubblica. È a ciò che l'apostolo allude quando, di passaggio, mette in rapporto la Chiesa con la polis antica. Così egli dice che gli etnico-cristiani un tempo erano «lontani dalla politeiva tou jIsrahvl », dalla comunità di Israele, ora però sono divenuti «concittadini dei santi» (sumpolitai twn aJgivwn), Eph. 2,12.19. Oppure dice che la polivteuma dei credenti è in cielo, Phil. 3,20, per cui sulla terra essi sono come una colonia di cittadini del cielo. Vediamo così che nel concetto di ejcclhsiva o di ejcclhsiva tou Qeou si delineano chiaramente alcuni tratti caratteristici della Chiesa. Quando la chiama ejcclhsiva, Paolo la considera il popolo di Dio, già preparato in Israele e che ora, nei tempi finali, si trova concentrato in questo «Israele di Dio» formato di giudei e di pagani. Esso compare ovunque, da Gerusalemme a Roma e fino in Spagna e ben presto in molti altri luoghi dell'ecumene, ma è sempre un unico popolo

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che si presenta come la santa convocazione e la santa adunanza, come la cittadinanza della colonia della città celeste sulla terra, la quale si raduna per compiere gli atti sacri e pubblici del culto.

Corpo di Cristo

Questo popolo è il popolo di Dio in quanto popolo di Cristo. Alla comunità romana Paolo scrive: «Vi salutano tutte le Chiese di Cristo», Rom. 16,16. E abbiamo già sentito che egli parla delle Chiese della Giudea come delle Chiese di Dio «in Cristo Gesù», 1 Thess. 2,14; cf. Gal. 1,22. La Chiesa è «il popolo di Dio» «in Gesù Cristo». Essa è proprietà di Cristo. Per esprimere questo rapporto della Chiesa con Cristo, Paolo ha inventato un concetto pregno di significato. Da questo punto di vista per lui la Chiesa è «il corpo di Cristo». Swma Cristou è il suo concetto caratteristico per indicare la Chiesa. Non c'è bisogno che esponiamo qui da quali fonti Paolo può aver attinto tale concetto. Non c'è neppure bisogno che indaghiamo come vi sia giunto. In 1 Cor. e Rom. esso non è ancora stato coniato. Solo in Col. ed Eph. compare in tutta la sua pienezza e domina le affermazioni sulla Chiesa. Vediamo quindi anzitutto il concetto elaborato in Eph. e Col. In queste lettere non si parla soltanto della Chiesa come corpo di Cristo ma, in stretta connessione, anche di Cristo quale «capo» di questo corpo, cf. Eph. 1,22 s.; 4,12.16; 5,23.30; Col. 1,18.24; 2,19 (17). In entrambi i casi con questi concetti si indica il rapporto di Cristo con la Chiesa. La Chiesa è il corpo di Cristo. In questo modo essa non viene solo confrontata con lui ma viene chiamata così dalla natura delle cose. Essa è Cristo nel suo corpo. Come, secondo Paolo, il corpo di un uomo è l'uomo nel suo corpo, il corpo quindi è l'uomo sotto un certo aspetto e non solo una parte di esso, cf. Rom. 1, 24; 6,12; 7,24; 8,10 ss.23; 12,1 ecc., così è anche del rapporto di Cristo con il suo corpo. Nel corpo di Cristo, la Chiesa, è presente Cristo stesso in una maniera particolare. Ma come l'uomo sta insieme di fronte al suo corpo, così è anche per il corpo di Cristo. In esso Cristo è presente in modo che egli sta insieme di fronte alla Chiesa, può rapportarsi ad essa. La Chiesa in quanto suo corpo non può essere separata da lui. Essa però non può nemmeno identificarsi in senso pieno con lui. Egli e la Chiesa non sono la stessa cosa. Essa però è il suo corpo ovvero egli è nel suo corpo. Questa determinazione generale può essere comunque chiarita ulteriormente. Se guardiamo al confronto nel quale Cristo si rapporta al suo corpo come a se stesso, incontriamo come chiarificazione la citata correlazione di capo e corpo. Essa esprime anzitutto l'indissolubile rapporto della Chiesa con Cristo e di Cristo con la Chiesa. Cristo è anzi il «capo del corpo, della Chiesa», Col. 1,18, in virtù della destinazione voluta da Dio, Eph. 1,22 s. Ma con il concetto di capo emerge che questa destinazione di Cristo alla Chiesa implica una preminenza di Cristo e una subordinazione della Chiesa nei suoi confronti. Questa supremazia di Cristo sul suo corpo, la Chiesa, però non è soltanto quella del suo dominio su di essa, ma come capo del corpo Cristo è anche colui dal quale e in vista del quale il corpo «cresce», Eph. 4,15 s. Cristo è il fondamento imperituro della Chiesa e il suo fine permanente. Come suo corpo essa procede sempre da lui e compare sempre dopo di lui. Egli è l'origine e la fine del suo dinamismo interiore. Egli è la sua ajrchv, il suo «principio», Col. 1, 18, che qui indica la stabile energia interiore. Ma dicendo che Cristo è il capo del corpo, non si è ancora messo in luce l'altro aspetto, cioè che il corpo sulla terra permette di raggiungere il capo in cielo. Noi tutti, dice Eph. 4,13 ss., non desideriamo altro che raggiungere l'«uomo perfetto», che è Cristo, cioè ci lasciamo trasformare nel suo corpo, nella Chiesa, in vista di lui. Ma in questo, alla fine, diviene chiaro che il capo ha anche tracciato nel suo corpo la strada per raggiungerlo. Il rapporto di Cristo con la Chiesa e della Chiesa con Cristo, espresso dal concetto di Chiesa come corpo di Cristo, è toccato ancora una volta in Eph. là dove Cristo, capo del corpo, viene presentato come suo sposo e questo corpo come sposa di Cristo, Eph. 5, 21 ss. Sotto questo aspetto si propone un nuovo confronto tra i due. Solo che ora chiaramente la Chiesa incontra Cristo in una specie di personalità. Certamente, non si può dimenticare una nuova limitazione, determinata dal fatto che anche in essa si trova presente Cristo: «Chi ama la sua sposa ama se stesso», Eph. 5,i8b. Nella Chiesa, che è la sua fidanzata, la sua sposa, Cristo ama anche se stesso. Ma nel nostro contesto si accenna ad un altro aspetto. La relazione Cristo-Chiesa è altresì una relazione d'amore. E si tratta dell'amore preveniente di Cristo. La Chiesa è anzi la sposa di Cristo nella dedizione a colui che l'ha amata e al cui continuo interessamento essa risponde con il suo amore obbediente, Eph. 5,25 ss. Come terzo punto si può anche dire che il confronto, espresso pure dal ricordato rapporto tra Cristo e la Chiesa, comporta insieme per quest'ultima uno stare

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davanti a Cristo. Egli se l'è condotta davanti come sua sposa, e cioè in modo ch'essa ora, in virtù dello splendore del suo sguardo, possa stare davanti al suo volto e[ndoxo", «splendente». In- tradotta da lui, dopo essere stata purificata dall'amore di Cristo e in virtù della sua propria carità, e santamente rivolta a lui, essa concepisce di continuo il suo amore di affezione, appunto in quell'interessamento di cui abbiamo parlato. In quanto donna che è la sua sposa, la Chiesa esperimenta di giorno in giorno la protezione, la assistenza e l'intimità dell'amore previdente di Cristo. Il confronto che include un davanti-a-lui, è insieme un con-lui. Ma il con-lui è in realtà solo la risposta al fatto ch'egli è con essa. Al riguardo non si deve dimenticare che lo stato della Chiesa è anche un sotto-di-lui. È la Chiesa soggetta e obbediente a Cristo che vive con lui, sta davanti a lui e si salva in lui. Ma che la Chiesa sia detta «corpo di Cristo» non significa soltanto ch'essa è in rapporto con Cristo; nel concetto di corpo in quanto tale sono implicite certe condizioni. Dal punto di vista dello sfondo linguistico, che qui è determinante, si può dire che «corpo» in tali contesti sottolinea la realtà della manifestazione e della presenza. Questo momento svolge certamente un ruolo specie quando si parla del corpo di Cristo in croce, come ad es. in Rom. 7,4; Eph. 2,16; Col. 1,22, ma talora è implicito anche quando si parla del corpo della Chiesa, come ad es. in Rom. 12,4; Eph. 4,4; Col. 3,15. Però con «corpo», in base al supposto sfondo concettuale, si intende anche l'essere che tutto abbraccia e unifica. L'«unico corpo» è il corpo unificante onnicomprensivo, cf. Eph. 2,16; 4,4; Col. 1,16 s. E ciò trova una conferma nel fatto che la Chiesa è detta di seguito swma Cristou e plhvrwma tou taj pavnta ejn pasin plhroumevnou, Eph. 1,23, il regno onnicomprensivo che Cristo si è conquistato, e la dimensione della pienezza di Cristo, mediante la quale e nella quale Cristo tutto attrae. In tal modo si è già nominato il terzo aspetto che in tali contesti ribadisce il concetto di «corpo»: il carattere cosmico della Chiesa. Questa, in quanto «corpo di Cristo», del secondo Adamo, dell'uomo primordiale, è un «mondo». Per principio dunque la sua estensione coincide con quella del cosmo. Tutto il mondo, in virtù di Cristo, è sottoposto al suo diritto e alla sua cura e in essa viene rinnovato, cf. Eph. 1,10; 3,18. Ora però in Paolo c'è, a proposito della Chiesa, ancora un altro concetto di corpo, diversamente orientato, il quale compare soprattutto in 1 Cor. e Rom. In esso non si prende in considerazione in primo luogo il rapporto dei credenti con Cristo bensì il loro vicendevole rapporto. Nel complesso la Chiesa, quanto al rapporto dei membri con il corpo, è vista in due modi: 1) il corpo in quanto corpo di Cristo è sempre «prima» dei singoli membri. Sotto questo profilo i membri non costituiscono il corpo, al contrario è il corpo che costituisce i membri in esso compaginati. È quanto mettono in luce Col. ed Eph.; ma 2) «il corpo» è la comunità dei credenti. Sono costoro a costituirlo. Questo è il punto di vista fondamentale delle lettere più antiche, soprattutto di Rom. 12 e 1 Cor. 12,12 ss. In questo senso il corpo è una creazione sociale, un organismo. I singoli sono prima della Chiesa che è rappresentata dalla loro schiera unita. E mentre nel primo caso la Chiesa è un «mondo» onnicomprensivo, il mondo in Cristo, nel secondo caso invece, là quindi dove la Chiesa è la comunità dei credenti, essa è uno spazio preciso del mondo e un ambito necessariamente ristretto. Ma in entrambi i casi «corpo», quanto al rapporto dei suoi membri tra di loro, significa che questi sono per principio complementari tra loro e non vivono quindi soltanto assieme, l'uno accanto all'altro. Essi assecondano la loro appartenenza al corpo di Cristo e in quanto corpo di Cristo soffrendo insieme, godendo insieme, curandosi e rispettandosi vicendevolmente, insomma amandosi gli uni gli altri, cf. Rom. 12,3 ss.; 1Cor. 12,14 ss.; Eph. 4,1 ss. Ma non si contraddicono questi due aspetti della Chiesa in quanto corpo di Cristo e in quanto corpo dei membri di Cristo? No. Al contrario, si completano. La Chiesa per Paolo è sempre le due cose insieme: essa è il corpo che, mediante e in Cristo, unifica molti credenti, è il corpo stesso di Cristo. Essa, si può dire, è sempre il Cristo stesso nel suo corpo, il quale si compone di molti credenti. Il corpo di Cristo è il corpo formato dai suoi fedeli. La Chiesa è il corpo di Cristo in virtù della sua origine, sempre presente, dal corpo crocifisso. E in questo senso essa è sempre prima e più dei singoli, più anche della loro somma, cioè il corpo che caratterizza tutti come tali. Essa però è questo e niente altro in quanto ha la sua consistenza nei singoli membri e nella loro compagine sociale. In tal modo, sia per la sua origine che per il suo futuro, essa è un cosmo onnicomprensivo in una formazione al presente circoscritta. Così essa è il corpus Christi in quanto organismo che si aggrega continuamente nuovi membri. Per essenza essa è un mondo-Chiesa e di ciò era consapevole fin dall'inizio, quando cioè nulla di tutto questo era ancora stato realizzato. Essa però lo è nella comunione concreta e nelle comunità reali dei credenti battezzati in Cristo. Soltanto così va concepita la storia della Chiesa primitiva, che fin dall'inizio non

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tollerò i confini della piccola comunità originaria di Gerusalemme ma corse oltre la Samaria, verso i popoli, si stabilì qua e là nelle città dell'impero romano, con due o tre piccole colonie del popolo di Dio in una provincia conquistò regioni enormi ponendo così le mani sull'ecumene, con la pretesa di assumere questo mondo smisurato, nel suo corpo, nello spazio concreto della sovranità di colui che è già il capo del cosmo. La convivenza e la compenetrazione del corpo di Cristo e della comunità dei credenti nella Chiesa sottolinea un altro dato di fatto: la convivenza e la compenetrazione di compagine e organismo. Dalla prima dipende sempre l'aspetto sacramentale, cioè i sacramenti mettono sempre in luce anzitutto la compagine o l'«edificio» del corpo di Cristo. Lo si vede già in i Cor. 10,17; 12,13. All'aspetto sacramentale poi è connesso quello giuridico in quanto ordinatore della compagine, come si può vedere ad es. nei primi accenni ad una «liturgia» eucaristica, cf. 1 Cor. 16,19 ss. Inoltre viene conservato interamente l'aspetto personale della compagine del corpo di Cristo. Da quella che si potrebbe chiamare la Chiesa come organismo dipendono essenzialmente gli aspetti carismatico ed esistenziale del corpo di Cristo, i cui membri, secondo Paolo, sono fondamentalmente dei pneumatici e carismatici, cf. 1 Cor. 2,13 ss.; 3,1; 12,1 ss.; Gal. 6,1; Eph. 5,19; Col. 1,9; 3,16. I doni dello Spirito fondano e rivelano la vivente unità dei membri delle comunità che sono complementari tra loro. Questo essere-in ed essere-con dei credenti tra di loro è il presupposto per l'unità tra chiesa del diritto e chiesa della carità. Riassumiamo. Questo secondo concetto fondamentale, con cui l'apostolo cerca di comprendere la Chiesa, il concetto di «corpo di Cristo», è ricco di forme e di significati. Con esso si toccano i rapporti della Chiesa con Cristo, con il mondo, con i suoi fedeli e i rapporti dei fedeli tra di loro. Il popolo escatologico di Dio, per così dire, emerge sensibilmente in questo mondo in un corpo — nel corpo di Cristo — che al mondo si sottrae pur esistendo per esso e desiderando incorporarsi per la sua salvezza. Nel corpo di Cristo esso si conserva e si rivela come popolo di Dio.

Tempio di Dio

Un terzo concetto fondamentale per la comprensione della Chiesa secondo Paolo è quello di «tempio di Dio». «Non sapete che voi siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se qualcuno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui», scrive Paolo in 1 Cor. 3,16 s., cf. 2 Cor. 6,16; Eph. 2,21. Questo concetto non ha certamente l'importanza dei primi due. Esso inoltre fa parte del più generale concetto di Chiesa come «edificio», che viene «costruito», come si può vedere chiaramente in Eph. 2,19 ss. Affine ad esso è il concetto di «casa», impiegato per connotare sia la singola comunità, Gal. 6,10, che la Chiesa universale, Eph. 2,19; cf. 1 Tim. 3,15. Ma anche il concetto di «città», di polis celeste, ruota nel suo ambito, come si può vedere da Gal. 4,21 ss.; Phil. 3,20; cf. Hebr. 11,10; 12,22; 13,14. Con il concetto di tempio di Dio sono connessi in senso lato anche alcuni aspetti che ci sono offerti dagli altri concetti. Così, in base alla sua storia, esso ha un significato escatologico. Nella Chiesa è stato eretto il tempio messianico. Il concetto di tempio di Dio connota altresì la Chiesa come compagine, soprattutto là dove trapassa in quello di «edificio», cf. 1 Cor. 3,5 ss.; Eph. 2,19 ss.; 4,7 ss. Ma nel concetto di «tempio di Dio» viene in luce soprattutto un altro tratto essenziale della Chiesa. Essa è il luogo in cui Dio agisce mediante lo Spirito santo. Dio è presente in essa mediante lo Spirito. «Noi — dice Paolo in 2 Cor. 6,16 — siamo il tempio del Dio vivente», e ricorda che Dio ha detto: «Io abiterò e camminerò con essi; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo»; in altre parole, nella Chiesa in quanto tempio di Dio si sono realizzate le promesse di Dio ad Israele di cui si parla in Lev. 26,11 s.; Ez. 37,26 s.; Zach. 8,8 ecc. Ma Dio abiterà in questo tempio in Spirito. Di lui la Chiesa è debitrice, per suo mezzo essa si edifica, in quanto egli è colui che distribuisce i suoi doni e il principio vitale dei suoi ministeri e dei suoi membri, cf. Rom. 8,1 ss.; 12,11; 15,16; 1 Cor. 2,10 ss.; 6,11; 12,1 ss.; 2 Cor. 1,22; 3,3.6 ss.; Gol. 3,1 ss.; 5,16 ss.; 1 Thess. 1, 5 s.; Epb. 1,13 s.; 2,17 ss.; 3,3 ss.; 5,18 ecc. In tal modo essa non è soltanto la «dimora di Dio nello Spirito», come dice Eph. 2,22; infatti è talmente ispirata da tale Spirito che il non iniziato o l'infedele, che entra nelle sue assemblee, viene toccato nel suo cuore dai membri spirituali della comunità e, «cadendo a terra, adorerà Dio e proclamerà che egli è veramente in mezzo a voi», 1 Cor. 14,23 ss. Ma in quanto proprietà, colma di Spirito santo, anche la Chiesa è santa. E in realtà l'apostolo mette espressamente in rapporto la sua

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santità con il concetto di tempio di Dio, 1 Cor. 3,i7b. Questa santità la separa dagli infedeli e dai loro dei, dietro i quali stanno i demoni e Belial, cf. 2 Cor. 6,14 ss. Essa espelle dalle sue file la malignità e l'impurità, l'ingiustizia e l'impudicizia, cf. 1 Cor. 5,7 s. 13; 6,9.12 ss. 20; 10,7.14.18 ss.; 2 Cor. 6; i6a; 1 Thess. 4,3 ss., ecc. In questo tempio di Dio, infatti, ogni credente è a sua volta «un tempio dello Spirito che abita in voi e che avete ricevuto da Dio», 1 Cor. 6,19. In quanto tale egli non appartiene più a se stesso ma al Dio santo. Sintetizziamo gli aspetti essenziali della Chiesa che per Paolo vengono in luce nei suoi tre grandi nomi. La Chiesa è il popolo di Dio. Quindi essa è il compimento del vero Israele nel popolo di giudei e di pagani. Insieme però è il popolo degli ultimi giorni. È presente nelle comunità disperse dell'ecumene come Chiesa una e universale, e ciò primariamente nelle loro assemblee sacre. La Chiesa però è anche il corpo di Cristo, sulla terra essa è nel Cristo, il capo. In quanto tale corpo, essa gli è strettissimamente congiunta; a lui soggetta, vive di lui e in vista di lui. Egli la guida verso se stesso per cui essa gli sta davanti così da unirglisi sempre più intimamente. In quanto «corpo» essa abbraccia, unificandolo nella sua compagine, il mondo intero, e, insieme separata dal mondo nella comunità dei suoi fedeli, affida gli uni agli altri affinché si salvino nella vivente carità. Infine, la Chiesa è il tempio dello Spirito santo, il santo possesso di Dio tra gli uomini, ispirato dallo Spirito e custode, a sua volta, di questo medesimo Spirito mediante la sua santità.

Il mistero della Chiesa Come abbiamo visto, uno dei concetti paolini, anche se non il centrale, per indicare la Chiesa è quello di «corpo di Cristo». Com'è giunto Paolo, concretamente, a questa denominazione? Per lui il corpo di Cristo è in primissimo luogo il corpo crocifisso. Come può allora indicare anche la Chiesa? Questo interrogativo ci pone sulle tracce della misteriosa natura della Chiesa, anzi ci consente di penetrare nel cuore di questo mistero. Non a caso è ancora soprattutto Eph. a documentarci al riguardo. Per il Paolo della lettera agli Efesini la Chiesa ha la sua origine nel mistero della provvidenza e predestinazione divine. Da sempre Dio vede davanti a sé la Chiesa e la vuole. In essa si concretizzano la sapienza e la volontà eterne di Dio. Questa volontà eterna ha il seguente obiettivo: «condurre tutte le cose sotto un solo capo, il Cristo, gli esseri celesti come quelli terrestri», Eph. 1,10. Ed ora, nella pienezza dei tempi, il mistero di questa sapienza e di questa volontà opera mediante la Chiesa. Prima di ogni altra cosa, dice l'Apostolo, sono gli eoni, i periodi di tempo, ad essere passati dalla apparizione della sapienza di Dio, Eph. 3,11. Ma insieme ad essa appare già la figura variegata della Chiesa, Eph. 3,10. La Chiesa quindi, secondo l'apostolo Paolo, non trae la sua natura e la sua essenza dal mondo e dalla sua storia. La sua essenza è l'essenza dell'insondabile volontà salvifica di Dio, che è anteriore ad ogni natura che chiama all'esistenza. Ciò fa già parte del suo mistero. Non sorprende pertanto che questa essenza echeggi già nella creazione, anche se vi è presente ancora in modo nascosto, in quanto cioè ancora celata nel creatore, Eph. 3,9. La creazione è compiuta tenendo presente il mistero della Chiesa che la precede, o forse meglio: in vista di questo mistero, che così diviene operante segretamente in essa. «Tutto», secondo Col. 1,16 s., è stato creato «in», «mediante» e «in vista di Cristo» e in lui ha la sua «consistenza». Evidentemente, per comprendere questa affermazione, dobbiamo illustrare meglio il rapporto di Cristo con la Chiesa. Ma che per Paolo non sia soltanto la Chiesa a presupporre la creazione ma, viceversa, anche e anzitutto la creazione a presupporre la Chiesa come sua intenzione divina, è un dato che deve rimanere ben saldo. Quanto meno il Paolo di Eph. procede oltre, non solo considerando la paternità terrena come un’analogia con cui comprendiamo la paternità di Dio ma, viceversa, facendoci altresì scoprire soltanto in questo essere-padre di Dio il nome della paternità terrena e la sua vera realizzazione, Eph. 3,15. Per questo la società senza-Dio porta alla società senza-padre. Ma se la creazione è già segretamente orientata verso la Chiesa, vuol dire che con il mistero della Chiesa viene in luce anche il mistero della creazione. E anche ciò fa parte del mistero della Chiesa. Il mistero della volontà eterna di Dio e della sua sapienza eterna, che è pure il mistero nascosto della creazione, «ora», dice l'Apostolo, è stato rivelato in Gesù Cristo. Esso si è ora compiuto nel Messia Gesù. Con maggiore esattezza dobbiamo dire: esso si è compiuto là dove questo Gesù Cristo ha realizzato se stesso: sulla croce e nella resurrezione dai morti. Il mistero di Dio è .quindi divenuto evento nel cuore della storia. Per questo Col. 2,2 definisce espressamente Gesù Cristo come «il mistero di Dio» e l'evento della sua croce e della sua resurrezione come «il mistero di Cristo», 4,3. Ma quale è

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il mistero della croce e della resurrezione di Gesù Cristo? Paolo ricorda continuamente, e a volte impiegando formule tradizionali, i fatti della morte in croce e della resurrezione di Gesù Cristo, ad es. Rom. 4,245.; 5,8.10; 6,3 s. 9; 7,4; 8,11.34; 10,9; 14,15; 1 Cor. 1,23; 2,2.8; 6,14; 15,3 s. 7 s.; 2 Cor. 1,9; 4,14; 5,15;13,4;- Gal. 1,1; 2,20; 3,1; 6,14; 1 Thess. 1,10; 4,14; 5,10; Eph. 1,20; Col. 2,12, ecc. Soltanto di rado li separa. Per tale motivo non è molto facile caratterizzare più precisamente il loro mistero. Se stiamo a 2 Cor. 5,14 s., esso consisterebbe nel fatto che Uno, Gesù Cristo, muore per tutti, cioè a vantaggio di tutti. In questo suo morire tutti sono morti, in quanto tutti gli uomini vengono privati di se stessi, cioè della vita da e per se stessi. Ogni vita, in virtù del sacrificio della sua vita immolata, ha acquistato un nuovo fondamento. Tutti sono ora vincolati all'amore generoso di Gesù Cristo come alla sorgente della loro vita. Affermazioni di questo tipo compaiono ad es. in Rom. 14,7 ss. La morte di Cristo e la sua resurrezione dai morti lo hanno costituito signore dei vivi e dei morti. A causa di esse noi non viviamo più da noi stessi, in, per e in vista di noi stessi, ma di lui, in lui, per e in vista di lui; è lui che decide della nostra vita e non più noi. Nella sua morte infatti egli ci ha presi sulle sue spalle per donarci il perdono, e nella sua resurrezione dai morti la sua vita immolata per noi si rivelò superiore alla morte e al tempo, e onnipresente. Il mistero di Dio nel mistero di Gesù Cristo, secondo Paolo, è il mistero della sua autoimmolazione per amore di noi nel corpo concreto di Gesù Cristo sulla croce, la quale ci libera del nostro auto disporre e ci fa ascoltare colui che è risorto dai morti. Il mistero eterno della nobilitazione dell'uomo, nel quale consiste già la creazione, è ora venuto in luce in Gesù Cristo. È il mistero semplice, ma insieme impenetrabile, secondo il quale noi, in virtù del suo amore generoso, siamo di nuovo accolti corporalmente da Dio e posti al sicuro in lui, al sicuro da noi stessi, dagli uomini, dai destini enigmatici e dalle potenze del mondo che dominano gli uomini, cf. Rom. 8,31-39.

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Ma se il corpo di Gesù Cristo in croce è in questo modo il mistero di Dio, che la sua provvidenza ha sempre di fronte a sé e in vista del quale è stata compiuta la creazione, se Gesù Cristo nel suo corpo, nel quale noi tutti ritorniamo a vivere come «un uomo nuovo» e siamo «riconciliati con Dio mediante la croce», Eph. 2,15 s., è il mistero di Dio, come può poi essa diventare anche il «corpo di Cristo», la Chiesa? Come può in generale il corpo di Cristo in croce, che Dio ha risuscitato dai morti, diventare il «corpo di Cristo» nel senso della Chiesa? Infatti il discorso dell'Apostolo sulla Chiesa corpo di Cristo, come abbiamo sentito, non è affatto un discorso puramente metaforico. Tra il corpo di Cristo in croce, che è divenuto il nuovo fondamento della nostra vita, e il «corpo di Cristo» che è la Chiesa, Paolo vede una vera relazione, anzi, in un certo senso, una identità che indubbiamente bisognerà specificare. Ma in quale senso? Nel senso che la realtà del corpo di Cristo in croce, la quale estendendosi a tutto il mondo lo riconcilia, lo regge e gli ridona la vita, prende forma e si costruisce come dimensione salvifica della Chiesa. E ciò avviene per opera dello Spirito santo che dischiude e attualizza in concreta dimensione salvifica questa realtà redentrice che si offre assieme al corpo di Cristo in croce. In virtù di questo Spirito, che è lo Spirito di Dio e di Cristo, il mistero del corpo crocifisso di Cristo diviene accessibile nel mistero del corpo, come abbiamo detto, «mistico» di Cristo. Dobbiamo tener presente che lo Spirito santo per Paolo è la forza dell'autorivelazione di Dio già sulla croce e nella resurrezione di Gesù Cristo dai morti. Già in esse avviene fondamentalmente la rivelazione concreta di Dio nello Spirito santo. Questi, come si esprime Paolo, è lo Spirito «di colui che ha risuscitato Gesù Cristo dai morti», Rom. 8,11. Gesù Cristo «è stato costituito Figlio di Dio, secondo lo Spirito santo, mediante la (sua) resurrezione dai morti», Rom. 1,3 s. Così il Signore, risuscitato dai morti in virtù dello Spirito e glorificato, anche adesso vive per la potenza dello Spirito, per «la potenza di Dio», 2 Cor. 13,4. In virtù dello Spirito egli continua l'«intercessione per noi» che compì sulla croce, Rom. 8,34. Ma Dio continua a rivelarsi con la stessa potenza. Ora nello Spirito santo anche Gesù Cristo, crocifisso, risuscitato e glorificato, diviene provvisoriamente presente sulla terra. Dio lo rende presente nello Spirito santo in modo che nella sua persona salvifica egli divenga nella Chiesa la nostra dimensione e il nostro destino di salvezza. Ecco ciò che nel corpo crocifisso di Gesù Cristo, che segretamente è già il corpo della resurrezione, viene preparato e donato agli uomini: il nuovo fondamento e il nuovo spazio per una vita riconciliata divengono ora stabilmente presenti, in virtù dello Spirito donatore, nel corpo salvifico di Cristo, la Chiesa. Così in Eph. 2,17 s. il pensiero dell'opera istitutrice della pace compiuta da Gesù Cristo sulla croce, per la quale egli trasformò giudei e pagani in un uomo nuovo e li riconciliò con Dio in un corpo — nel corpo crocifisso — può essere continuato come segue: «Ed egli (Gesù Cristo) è venuto a proclamare la pace, pace per voi che eravate lontani e pace per coloro che erano vicini. Per lui infatti noi abbiamo tutti e due (giudei e pagani) in un unico Spi-rito accesso al Padre». E questo accesso al Padre, continua l'Apostolo, si realizza per ciascun credente in maniera che egli viene «integrato» nella costruzione che è «la dimora di Dio nello Spirito» e organizzato per divenire «un tempio santo nel Signore», Eph. 2, 19 ss. Nello Spirito santo Dio, se così possiamo esprimerci, amplia la dimensione salvifica, reale ma latente, presente con il corpo di Cristo sulla croce, nella dimensione della Chiesa. Vediamo così che il mistero della Chiesa si riallaccia al mistero della eterna volontà salvifica di Dio. La Chiesa sulla terra è il com-pimento e il ricordo della sua sapienza eterna. Il suo mistero è già presente nella creazione. Perciò nella Chiesa viene nuovamente in luce anche la creazione che approda ad essa e al suo mistero. Dopo che gli uomini hanno rinnegato la loro creaturalità e la saggezza che regna in essa, Dio ha rivelato il suo mistero nel mistero di stoltezza e di beatitudine, che è Gesù Cristo crocifisso e risuscitato dai morti. In lui è divenuto presente in maniera definitiva il mistero della volontà salvifica di Dio. Da esso trae origine la Chiesa. Questo mistero essa non lo ha soltanto al suo centro e non si limita a tramandarlo, ma è essa stessa che, in virtù dello Spirito santo, ne trae incremento e lo testimonia con la sua stessa esistenza. La Chiesa è tale mistero nella provvisorietà del mondo a motivo della sua stessa natura. Nella forza dello Spirito santo rivelatore essa è il frutto e la manife-stazione visibile del mistero di Dio sulla terra, che è apparso definitivamente in Gesù Cristo.

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L'edificazione della Chiesa

Ma, ci chiediamo ora, in che maniera lo Spirito santo realizza e trasforma la dimensione salvifica del corpo di Cristo in croce nella immagine salvifica della Chiesa? La risposta di Paolo è relativamente chiara e semplice: mediante il vangelo e i segni efficaci, e con l'ausilio dei servizi ministeriali e carismatici. Il vangelo è «vangelo di Dio», Rom. 1,1.9.16, ecc., «testimonianza di Dio», 1 Cor. 2,1, «parola di Dio», 1 Cor. 14,36; 2 Cor. 2,17, ecc. Dio non è soltanto l'autore di questo messaggio, ad es. 2 Cor. 2,17; 5,19, ma in senso pregnante è anche colui che in questo vangelo «chiama», 1 Thess. 2,12) 4,7; 5,24; Gal. 1,6 ecc., e viene «ascoltato» in questa parola, Rom. 10,14. Il medesimo vangelo, di cui si serve lo Spirito per edificare la Chiesa, è detto anche «il vangelo di Cristo», 1 Thess. 3,2; 2 Thess. 1,8, ecc., «la testimonianza di Cristo», 1 Cor. 1,6, «la pa-rola del Signore», 1 Thess. 1,8; 2 Thess. 3,1 e precisamente nello stesso senso. Per questo poi Eph. 2,17 scrive: «Ed egli (Cristo) è venuto a proclamare la pace», intendendo così il Signore glorificato. Ma questo vangelo dall'apostolo è definito anche come il «mio vangelo» o il «nostro vangelo» e il «vangelo da me annunciato», Gal. 1,11; 2,2; 1 Thess. 1,5; 2 Thess. 2,14 ecc. La parola di Dio o di Cristo risuona quindi nella parola dell'apostolo. Quando l'apostolo predica il suo vangelo, in esso risuona l'appello di Dio. Se Dio e Cristo danno testimonianza, ciò avviene nella parola del testimone apostolico. La parola di Dio e il Cristo e la parola dell'apostolo si compenetrano. La parola di Dio si esibisce in virtù dello Spirito nella parola umana degli apostoli. È così che Paolo ringrazia la comunità di Tessalonica «poiché quando riceveste la parola di Dio che noi vi facemmo udire, voi l'avete accolta, non •come una parola umana, ma per quello che essa è realmente, cioè la parola di Dio», 1 Thess. 2,13. Essa è la parola di Dio sulla bocca dell'uomo e, come parola divino-umana, attualizza la realtà della croce. Insieme svela la realtà della resurrezione e mette l'uomo in contatto con essa. Infatti tale vangelo è stato trasmesso all'Apostolo «mediante una rivelazione di Cristo», Gal. 1,12. Esso è la cristallizzazione dell'auto- svelamento diretto e anticipato del Signore glorificato all'Apostolo, rivelazione che questi, assistito dallo Spirito, riceve, custodisce, anima, sviluppa e tramanda. Ma con Cristo Gesù il vangelo dischiude ogni salvezza nella virtù dello stesso Spirito che rivela Cristo e la sua salvezza. «Poiché è a noi che Dio l'ha rivelata (la gloria a noi riservata) mediante lo Spirito...: E noi ne parliamo non con un linguaggio insegnato dalla sapienza umana, ma con parole apprese dallo Spirito...», 1 Cor. 2,10 ss. Ed è ancora lo Spirito che, attraverso la rivelazione attuata dalla parola apostolica, dischiude agli uomini «la grazia di Cristo», Gal. 1,6; 5,4, «la giustizia di Dio», Rom. 1,16 ss.; 3,21. È lui che fa loro incontrare «la croce», 1 Cor. 1,18. Poiché procede dalla forza dello Spirito, il vangelo apostolico non si limita a parlare di ciò che predica ma lascia anche che quanto testimonia giunga ad espressione in se stesso, nella sua potenza e, in questo senso, divenga presente agli uomini. Esso non orienta soltanto verso la salvezza manifestatasi in Gesù Cristo ma già la manifesta e vi introduce gli uditori. Per 2 Cor. 4,2 il vangelo è una fanevrwsi" th" ajlhqeiva", cioè un far-apparire la verità. E per 2 Cor. 4,4 nel vangelo risplende la 8ó£a, l'irradiante potenza del Cristo presente. Così finisce per essere esso stesso una «potenza di Dio», Rom. 1,16; 1 Cor. 1,18. Proprio perché questo vangelo di Dio fiorisce sulla bocca degli apostoli e lo Spirito, per la rivelazione di Cristo nel vangelo apostolico, manifesta questo Gesù Cristo, la sua croce, la sua resurrezione, la sua riconciliazione, la sua vita, tutta quanta questa vita che ci salva e ci porta nell'eternità, viene posto il fondamento della dimensione salvifica della Chiesa, che è Cristo, e la dimensione salvifica del corpo di Cristo viene, per così dire, «costruita» e «portata a compimento», cf. 1 Cor. 3,10 ss.; Rom. 15,20 s. Così nel vangelo dell'apostolo, mediante lo Spirito rivelatore, viene in luce il mistero di Dio in maniera che la sua verità segreta ora appare nell'edificio della Chiesa, cf. Eph. 3,8 ss.. Ma lo Spirito, per la rivelazione della realtà di Gesù Cristo e quindi per l'edificazione della sua concreta dimensione salvifica sulla terra, non si serve soltanto del vangelo ma anche di determinate azioni e di certi segni che noi chiamiamo «sacramenti». La Chiesa viene convocata dal vangelo in virtù dello Spirito e se è già là dove il vangelo viene proclamato e ascoltato, essa è pur sempre ancora in cammino finché raggiunge e scopre la sua identità nel battesimo. Soltanto i battezzati per Paolo sono «in Cristo», e precisamente come «membra» del corpo di Cristo. Essi vengono messi in relazione già ora con l'evento salvifico della morte e, in futuro, con quello della resurrezione di Gesù Cristo, Rom. 6,1

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ss., e per Eph. 2,5 ss. anche con quello dell'ascensione al cielo; come tali rappresentano nella loro unità l'edificio celeste della Chiesa sulla terra. In essi è impresso il «sigillo» di Cristo. « ... è in un solo Spirito che noi tutti siamo stati battezzati... e tutti siamo stati abbeverati allo stesso Spirito», i Cor. 12,13; 6.11. Lo Spirito «sigilla» con se stesso «coloro che hanno ascoltato e creduto alla parola della verità», Eph. 1,13. Coloro che nel battesimo sono passati dalla parte di Cristo e sono stati introdotti nella storia della salvezza e nella dimensione salvifica di Cristo rappresentano «le pietre» di cui si compone «il tempio di Dio», lo spazio corporale e santo del corpo di Cristo, la Chiesa, Eph. 2,20. Quanta importanza abbia per Eph. proprio il battesimo, lo si può vedere dal fatto che secondo Eph. 5,26 Cristo si è dato per la Chiesa, che è la sua fidanzata, la sua sposa, così da «purificarla e santificarla mediante il bagno di acqua nella parola». L'immolazione di Cristo sulla croce tiene già presente il battesimo, cioè la Chiesa che, mediante il battesimo, viene strutturata come suo corpo. Questo edificare e portare a compimento la realtà del corpo crocifisso di Cristo mediante lo Spirito rivelatore in vista della concreta dimensione salvifica della Chiesa sulla terra si attua anche di continuo nel «convito del Signore», come Paolo chiama l'eucarestia. Qui essa diviene visibile nella sua interezza e qui si rende presente in maniera fondamentale lo stesso Cristo Gesù, il quale in virtù dello Spirito dall'alto della croce mediante il vangelo suscita, come glorifi-cato, la dimensione salvifica del suo corpo. Tale corpo che, nella forza del medesimo Spirito fa apparire la Chiesa mediante il battesimo, ora la conferma costantemente mediante gli elementi e i segni efficaci del pane e del vino. Proprio qui si vede nella maniera più chiara il rapporto del corpo di Cristo sulla croce con il corpo di Cristo in quanto dimensione salvifica della Chiesa. In quanto nella cena del Signore viene proclamata la morte in croce di Gesù Cristo e Cristo diviene presente nel segno, in virtù dello Spirito, nel suo corpo crocifisso, egli edifica la sua dimensione salvifica, il «corpo» della Chiesa tra i radunati e i suoi membri. Nella 1 Cor. l'Apostolo tratta più in profondità questo rapporto. Proprio e soltanto qui, nei cc. io e II, compare un terzo concetto del corpo di Cristo, cioè il corpo di Cristo sotto la forma del pane in quanto pneumaticovn brwma, il «pane prodotto dallo Spirito e donante lo Spirito», come lo chiama Paolo. Ogni edificazione e costruzione della realtà del corpo crocifisso di Cristo, in vista della concreta dimensione salvifica della Chiesa sulla terra, si realizza alla fine mediante la proclamazione di Cristo e cioè: mediante l'obbligatoria attualizzazione della sua morte sacrificale nel convito del Signore e mediante la sua presenza sotto i segni rivelatori in virtù dello Spirito. Ora però il vangelo, il battesimo e la cena del Signore operano mediante determinati ministri e servizi, ai quali Dio ha affidato la loro amministrazione. Ciò si può vedere chiaramente in Paolo a proposito del vangelo, ma vale anche per il battesimo e la cena. La rivelazione di Gesù Cristo all'Apostolo non è soltanto l'origine del suo vangelo ma anche del suo apostolato, Gal. 1,11 s. 15. Bisogna ben distinguere le due cose, tuttavia non le si possono mettere in contrasto. La parola, in cui Gesù Cristo si è rivelato, è per la sua origine la parola dell'«ambasciatore» che agisce in nome di Cristo, 2 Cor. 5,20. E il «servizio» (diaconiva) o l'«ufficio» (oijconomiva), che è stato «confidato» all'ambasciatore, 1 Cor. 9,17; Col. 1,25, è «il servizio del vangelo» o «il ministero della parola», cf. Rom. 1,9; 2 Cor. 3, 4 ss. E «servo di Cristo» o «servo di Dio», «servo di Cristo e amministratore dei misteri di Dio» egli lo è in quanto gli è stato confidato il vangelo ed è stato inviato a predicare il vangelo», cf. 1 Cor. 1,17; 4,1 s.; 2 Cor. 6,4; 11,23 ecc. in quanto è il leitourgov" di Cristo Gesù, Rom. 15,16. Per produrre la «nuova creazione in Cristo» Dio ha fatto due cose. Egli, secondo 2 Cor. 5,18 s., mediante e in Cristo ha riconciliato con sé noi e il mondo ed ha «affidato a noi (apostoli) il ministero della riconciliazione» «mettendo sulle nostre labbra la parola della riconciliazione». Non che ci debbano essere sempre degli apostoli. L'apostolato come tale cessa con l'apostolo Paolo, cf. 1 Cor. 15,8. Ma il servizio apostolico non ha fine. Esso viene esercitato dai discepoli dell'apostolo e lentamente si struttura, alla stessa maniera che il suo vangelo viene da essi custodito e sviluppato. Un accenno a questa successione pratica, ma già quasi, formale, si ha in 1 Cor. 4,17. Qui essa si manifesta a proposito del figlio spirituale Timoteo, rappresentante dell'Apostolo, il quale non insegna una dottrina e una condotta sue bensì quelle dell'Apostolo e in tal modo continua con il suo «ricordo» l'opera apostolica. Anche per lui quindi Paolo esige la riconoscenza e l'assistenza delle comunità, cf. 1 Cor. 16,10. Anche per questo ufficio lo Spirito è la potenza e la forza garantite ai suoi titolari che le devono ricevere per svolgere il loro servizio, — un punto di vista che, in realtà, trova espressione

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solo nelle cosiddette lettere pastorali. Per Paolo, come mediatori e investiti dello Spirito, il quale mediante il vangelo dischiude la dimensione salvifica della Chiesa, oltre agli apostoli ci sono i profeti. Secondo Eph. 2,20, l'elemento profetico è costitutivo per la Chiesa, la quale «è edificata sul fondamento degli apostoli e dei profeti» del NT. La profezia nel senso neotestamentario, la quale è meno predizione del futuro che manifestazione del presente, si accende soltanto alla testimonianza apostolica, 1 Cor. 1,7, e bisognerà di continuo commisurarla e provarla mediante questa testimonianza, cf. Rom. 12,6; 1 Thess. 5,21. Ma la Chiesa, secondo Paolo, è ispirata dallo Spirito che dà questo grande dono assieme ad altri minori al fine di edificare, anche mediante esso, la dimensione salvifica di Cristo. Ciò, secondo Paolo, evidentemente vale per tutte le comunità, cf. Rom. 12,6 ss.; 1 Cor. 12-14; 1 Thess. 5,19 s. E l'esortazione dell'Apostolo mira a che «non si estingua lo Spirito», 1 Thess. 5,19 s. L'unica limitazione è che i doni dello Spirito si attengano alla fede e che nel servizio religioso, per rispetto dei membri della comunità e per la santità dell'avvenimento tutto proceda con ordine. In nessuna parte invece l'Apostolo presuppone che i carismi siano nella Chiesa dei fenomeni soltanto transitori. Essi, per Paolo, prestano un servizio necessario accanto all'ufficio spirituale. È molto significativo che, in 1 Cor. 12,28 ss. ove ricorda le membra del corpo di Cristo che concorrono alla sua edificazione, egli elenchi di seguito e senza distinzioni di sorta i titolari dell'ufficio e i carismatici. Con ciò non si vuol dire che ufficio e carisma siano la stessa cosa e che l'Apostolo consideri l'ufficio come fondato nel libero dono dello Spirito. Ma è detto che ministri e carismatici sono dati insieme da Dio affinché ognuno di essi nel suo modo e nei suoi limiti, ed entrambi insieme nell'ordine che determina il tutto, edifichino il corpo di Cristo in virtù dello Spirito. I membri del corpo di Cristo devono «edificarsi a vicenda» confortandosi gli uni gli altri, 1 Thess. 5,11, e in forza dello Spirito illuminatore e vivificatore lasceranno che divengano operanti il fondamento, la struttura, la fortezza e la vitalità che Cristo stesso ha dischiuso nel prossimo, cf. ad es. Rom. 14,7 ss. 13-20; 1 Cor. 8,11 s. Facendosi così conoscere vicendevolmente Cristo, essi promuovono con i loro doni la vitalità del suo corpo nelle sue membra. Essi non sono, al pari dei ministri, l'elemento di ordine nella Chiesa, ne costituiscono invece le energie vivificatrici. Questo fatto dell'edificazione e quindi della fondazione e dello sviluppo del corpo di Cristo ad opera di ministri e carismatici, è sintetizzato nuovamente dall'Apostolo nella sua lettera sulla Chiesa, quando in Eph. 4,11-16 dichiara che tutti i ministri e i servizi della Chiesa sono dono del Cristo glorificato, cosi gli apostoli, i profeti e gli evangelisti che hanno gettato le fondamenta della Chiesa intera, come pure i pastori e i dottori che operano nelle singole comunità. Essi tutti sono destinati ad un lavoro di servizio. Il servizio di tutti promuove l'edificazione del corpo di Cristo verso la Chiesa matura. In tutte queste persone e attività l'intero corpo della Chiesa è interessato al suo sviluppo da Cristo verso Cristo. Che ciò avvenga in forza dello Spirito, non lo si dice. Ma in Eph. 2,20 è presupposto che questo «corpo» sia «la casa di Dio nello Spirito». Sintetizziamo quanto siamo venuti dicendo. Lo Spirito santo, che edifica il corpo crocifisso di Cristo nella concreta dimensione salvifica della Chiesa sulla terra, nel far questo si serve della parola umana e di determinati segni e si serve del ministero e dei carismi. Mediante l'inesauribile movimento dello Spirito santo, mediante i mezzi di salvezza e nei servizi di salvezza, la Chiesa viene ordinata e riceve la sua vitalità.

I membri della Chiesa

Dobbiamo procedere ancora di un passo nel tema della edificazione della Chiesa. Dobbiamo cioè ricordarci che secondo l'apostolo Paolo il corpo di Cristo, la Chiesa, è insieme una comunità di uomini. Che cosa succede quando un uomo diviene membro del corpo di Cristo? Non succede niente, oppure si verifica semplicemente ciò che accade quando uno entra a far parte di una società? Oppure succede qualcosa di più? Accade qualcosa di fondamentale, qualcosa di essenziale che investe l'intera persona, in ciò che essa è e nel modo con cui essa esiste. In maniera del tutto generale si potrebbe dire con l'Apostolo: la Chiesa, quanto ai suoi membri, non viene «edificata» se non nella misura in cui gli uomini che vengono ad essa «edificano» se stessi. Infatti al di fuori della Chiesa gli uomini non sono «edificati», non hanno un fondamento e una struttura, alla stessa maniera che, secondo Paolo, anche all'interno della Chiesa c'è ad ogni istante per i suoi membri il

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pericolo che essi perdano la loro condizione e che si disgreghi l'intera compagine. «Colui che pensa di stare in piedi veda di non cadere», dice 1 Cor. 10,12. Ma come si compie questa «edificazione» degli uomini in membri della Chiesa? Secondo l'Apostolo la risposta più adeguata è la seguente: in quanto vengono inseriti e consolidati «in Cristo». Se Paolo può dire: «Poiché siamo stati battezzati tutti nello stesso Spirito», 1 Cor. 12,13, egli può descrivere lo stesso fatto anche in questo modo: «Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo avete rivestito il Cristo... tutti voi non formate che un'unica cosa in Cristo», Gal. 3,27 s.; cf. 1 Cor. 1,30, ecc. Questo essere assunti «in Cristo» va inteso in senso pregnante. Coloro che vengono inseriti nel corpo di Cristo entrano in tal modo nell'ambito nuovo di una sovranità personale, nel quale Gesù Cristo si è rivelato nella sua essenza e vive con essi. Come cristiani gli uomini sono da e in vista di Cristo, mediante e per Cristo. Come cristiani infatti anche noi siamo stati introdotti nella storia salvifica di Gesù Cristo ed abbiamo ottenuto di partecipare alla sua morte e resurrezione, alla sua ascensione in cielo come nostro futuro o addirittura già nostro presente, stando a quanto sia Rom. 6 che Eph. 2 e Col. 3 insegnano. Ma su questo nuovo fondamento della nostra vita in Cristo Gesù siamo stati collocati per il fatto che Gesù Cristo si è impadronito di noi ed è divenuto nostro destino. «Io sono crocifisso con Cristo; e se vivo, non sono più io, è Cristo che vive in me», dice Paolo in Gal. 2,20. E altrove, nello stesso senso, parla del Cristo «in voi», Rom. 8,10; 2 Cor. 13,5; Col. 1,27. Noi quindi, come cristiani, siamo «in Cristo» in modo che egli, Cristo, è «in noi», e viceversa: egli è «in noi» in modo che noi siamo «in lui». Egli quindi si è rivelato a noi in modo da aprirci a lui. Nel corpo di Cristo noi siamo coloro ai quali Gesù Cristo si manifesta come il fondamento e lo spazio vitali che ci sorreggono e vincolano. In quanto persone di cui ha preso possesso dall'interno, egli ci ha introdotti nel regno della sua potenza in maniera tale che ora gli «apparteniamo», Rom. 8,9; 1 Cor. 3,23; 6,13; Gal. 5,24. E gli apparteniamo nello Spirito. Cristo infatti si apre a noi «nello Spirito». Lo Spirito, che è lo Spirito di Dio, è la forza nella quale Cristo può essere compreso. Così, secondo Paolo, gli uomini sono membra del corpo di Cristo perché ad essi è stato «dato» lo Spirito ed essi lo hanno «ricevuto», Rom. 5,5; 2 Cor. 5,5; Gal. 3,2.5.14; 1 Thess. 4,8; 2 Thess. 2,13, ecc. Questo Spirito li ha «generati», Gal. 4,29, ed essi ora sono «nello Spirito», Rom. 8,9. Il regno dello Spirito, e con esso Cristo, si dischiude in noi in quanto si impadronisce di noi. Noi siamo «nello Spirito» in quanto siamo diventati «un tempio dello Spirito che abita in noi e che abbiamo ricevuto da Dio», 1 Cor. 6,19. Ora egli abita «in noi», «nei nostri cuori», e ci accorda la possibilità ed insieme c'impone di condurre la nostra vita «secondo lui», cioè secondo il suo criterio, Rom. 8,4 ss. Accolti nello Spirito e divenuti suo possesso, noi apparteniamo a Cristo, dato che egli è il suo Spirito, Rom. 8,9b. Viceversa, noi apparteniamo a Cristo in modo che «con lui siamo un solo Spirito», 1 Cor. 6,17. «Il Signore è Spirito», 2 Cor. 3,17, nel senso che lo si può incontrare nello Spirito. E dove «c'è lo Spirito del Signore, c'è libertà», 2 Cor. 3,17. Infatti nello Spirito noi siamo radicalmente privati della nostra esistenza, «non apparteniamo più a noi stessi», ma siamo debitori del Signore, 1 Cor. 6,19. Ma questa non è altro che la caratterizzazione generale del nuovo modo di essere di coloro che sono diventati le membra del Corpo di Cristo in modo tale che in essi viene edificata la Chiesa. La caratterizzazione specifica ci è più familiare. Ma è importante non dimenticare che tutte le determinazioni concrete del cristiano non sono altro che delle esplicitazioni della determinazione fondamentale secondo la quale, come cristiani, siamo stati accolti nella dimensione personale di Cristo e del suo Spirito e da essa abbiano ricevuto il fondamento, il fine e i mezzi della vita. Soltanto allora potremo essere preservati dall'errore di considerare l'edificazione del singolo uomo e, in essa, della Chiesa come un fatto soltanto morale o primariamente sociale. Soltanto allora tutti i concetti con cui viene descritta l'esistenza cristiana possono conservare il loro significato trascendentale. Per il fatto di essere «in Cristo» o «nello Spirito» uno fa l'esperienza della sua «elezione», è divenuto un «eletto» di Dio, Rom. 8,33; Col. 3,12; 1 Thess. 1,4; 1 Cor. 1,27; Eph. 1,4. Egli è eletto perché Dio lo ha «conosciuto», Rom. 8,29 ; Gal. 4,9; 1 Cor. 8,3, ecc., lo ha «determinato» o «definito», Eph. 1,4. Ne consegue che egli è un «chiamato» da Dio, uno che sta nella chiamata di Dio, Rom. 8,28.30; 9,12.24; 1 Cor. 1,9; 7,15. 17 ss.; Gal. 1,6, ecc. Egli ora può essere e aspirare ad essere soltanto un chiamato e un interessato alla chiamata di Dio, uno al quale Dio si rivolge. Ma in questo modo egli è anche un giustificato. La vita di colui che Dio chiama come un uomo ch'egli ha conosciuto, scelto e determinato nel suo amore, è una vita giustificata,

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Rom. 3,26.28.30, ecc., 8,30, ecc., giustificata per «grazia», come sottolinea Paolo, Rom. 3,24, e non ad esempio per la sua origine o il suo futuro, per le sue prestazioni in opere e pensieri, insomma per tutto ciò che l'uomo pensa lo giustifichi. Il cristiano è l'unica persona la cui vita, in quanto fondata «in Cristo», e naturalmente nella misura in cui egli si mantiene «in Cristo», sia giustificata. Essa anzi è la vita di un riconciliato, cioè di uno con il quale Dio, mediante Gesù Cristo, si è riconciliato. In esso, per il favore' di Dio in Cristo Gesù, mediante il «sangue di Cristo» e la sua croce, non c'è più nulla che non sia conciliato, Rom. 3,24 ss.; 5,xo; 2 Cor. 5,18; Eph. 2,16. Mediante Cristo e in Cristo egli è anche «santificato». Paolo scrive la sua lettera «ai santificati in Cristo Gesù che sono a Corinto»; «ai chiamati ad essere santi», 1 Cor. 1,2, «insieme a tutti i santi dell'intera Acaia» egli indirizza la 2 Cor. 1,1. E santo qui significa tratto fuori dal mondo e assunto nella santa vicinanza di Dio per svolgervi una vita e un servizio santi e obbedienti. In quanto santificati i cristiani sono anche «illuminati». La loro vita e il loro pensiero sono radicalmente aperti e luminosi. Il battezzato è un «figlio della luce», anzi, come si esprime Eph. 5,8, «luce nel Signore». Su di lui, come dice l'inno battesimale di Eph. 5,14, in quanto risvegliato dal sonno del mondo e risuscitato dai morti, Cristo ha irradiato la sua luce come il sole. In tutto egli è pure «liberato» della libertà per eccellenza. «Non vi è quindi nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù, giacché la legge dello Spirito di vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte», scrive Paolo in Rom. 8,1 s. Si accenna qui al fondamento e alla profondità della libertà cristiana. Chi è «in Cristo» è liberato dalla potenza del peccato, che non ha più potere su di lui. Egli in questo modo è anche sottratto alla legge abusata dal peccato, a quella legge la cui pretesa sull'uomo peccatore non fa che suscitare ingiustizia ed autogiustificazione, Rom. 7,7 ss. Ma con il peccato e la legge da esso provocata, egli è anche sottratto alla morte, che il peccato porta con sé come sua forza e nella quale entra il peccatore. L'uomo in Cristo è liberato anche dal mondo e dalle sue potenze, Gal. 4,1 ss.8 ss.; Rom. 8,37 ss., dalle sue leggi della paura e dalle sue minacce mortali, libero anche dagli uomini, in definitiva libero della sua stessa libertà, cf. 1 Cor. 7,20 ss. Sottratto alla potenza del peccato, della legge e della morte, il cristiano è invece premunito dalla tentazione di lasciarsi nuovamente irretire dalle illusioni del mondo e dalle promesse degli uomini/Certo, la più grande illusione e la più grande promessa per lui sono rappresentate dalla sua stessa persona. Ma è proprio di se stesso che egli si è liberato: «Voi non vi appartenete, infatti siete stati acquistati a caro prezzo», dice Paolo in 1 Cor. 6,19 s. Ma, liberato di se stesso, egli è ora finalmente libero per Dio e per gli altri uomini. Libero di vedere e di assecondare il comandamento di Dio come diritto della sua santa sapienza, libero di guardare il prossimo in genere come tale e di incontrarlo nell'amore; egli serve, Gal. 5,13 e ama. In questo amore in cui si è aperti e disponibili per Dio e gli altri uomini e non soltanto per se stessi, si consolida e completa la libertà alla quale nel vangelo l'uomo viene stimolato e nella quale è entrato mediante la fede e il battesimo. Essa è la libertà in cui, come si esprime l'Apostolo in 1 Cor. 3,21 ss., «tutto ci appartiene», poiché noi «apparteniamo a Cristo» e non vogliamo più nulla per noi stessi, ma tutto accettiamo come destinatoci da Dio in lui. Se è avvenuto tutto questo in coloro che in virtù dello Spirito rivelatore sono in Cristo, ed è loro avvenuto in maniera radicale, allora non ci si deve meravigliare se Paolo finisce per dire che Dio, coloro che ha preconosciuto e predestinato, i chiamati e i giustificati, li ha anche «glorificati», Rom. 8,30, cioè li ha posti nell'immenso splendore del suo volto. È vero che per Paolo la gloria rivelata non è ancora presente, è però anche vero che i cristiani, nel fondamento segreto della loro esistenza, appunto «in Cristo» e «nello Spirito», si trovano già in essa, cioè nello splendore vivificante del volto di Dio che in Cristo si rivolge nuovamente a loro, cf. 2 Cor. 3,18. Essi, se perseverano a contemplare lo specchio del vangelo, non vi vedono il loro volto bensì quello di Cristo e verranno così sempre più attratti nel suo splendore. Come credenti e battezzati in Cristo in virtù dello Spirito, essi sono già dei «figli» e, come tali, anche «eredi», Rom. 8,14 ss.; Gal. 3,26.29; 4,6 s.; Eph. 1,18. «In Cristo», inoltre, essi sono già ora una «nuova creazione», Gal. 6,15; 2 Cor. 5,17; cf. Eph. 2,10. Tutto ciò e ancora di più avviene all'uomo che, come membro del corpo di Cristo, è in Cristo Gesù e in tal modo concorre a costruire in sé la Chiesa. Ma in che modo egli favorisce tutto ciò e lo preserva? Questa domanda aspetta ancora una risposta. Ciò che l'uomo, divenuto membro del corpo di Cristo nel battesimo, esperimenta deve essere un autentico evento storico, deve divenire sua esperienza. In generale Paolo dice — altra anticipazione — che per il cristiano ora è importante

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solo «stare nel Signore», Phil. 4,1 i Thess, 3,8, avere e mantenere in lui la propria dimora, «rimanere solido» «in Cristo», nel quale Dio lo ha «stabilito», 2 Cor. 1,21; Col. 1,23. Che Dio fortifichi a questo fine i cuori e i cristiani «perseverino fino alla parusia di Cristo», ecco la ripetuta preghiera dell'Apostolo e la sua fiducia, 1 Cor. 1,8; 1 Thess. 3,2.12 s.; Rom. 16,25. Questo «stare nel Signore» è cosa che «riguarda il Signore», Rom. 14,4. È quindi uno «stare» per eccellenza, 2 Thess. 2,15. L'uomo 'sta' solo nel Signore. Tale «stare» consiste nel fatto di «piacere al Signore», 2 Cor. 5,9, ovvero di «preoccuparsi delle cose del Signore» senza affanno e con cuore indiviso, 1 Cor. 7,32, di «aderire al Signore senza pentimenti», 1 Cor. 7,35. «Stare nel Signore» però equivale a stare «nello Spirito», Phil. 1,27. Stare nello Spirito equivale però a «camminare nello Spirito», Gal. 5,25. Ma si cammina nello Spirito in quanto si conduce la propria vita «secondo lo Spirito», secondo il suo criterio, ad es., «pensando ciò che lo Spirito pensa, sentendo ciò che lo Spirito sente», Rom. 8,4 ss., e anche «uccidendo nello Spirito le opere del corpo» — qui le realizzazioni dell'uomo egoista, Rom. 8,13. Si cammina nello Spirito lasciandosi «guidare dallo Spirito», Rom 8,14. Si conduce la propria vita secondo lo Spirito se si ascoltano le sue indicazioni e le si accoglie nelle proprie decisioni. L'«essere nello Spirito» va vissuto in maniera tale che, aperti alle sue mo-zioni, ci si metta attivamente a sua disposizione. Ma in che maniera avviene tutto ciò? Per Paolo ciò accade primariamente nella fede. La fede è il consegnarsi dell'uomo a Dio in Cristo Gesù in una sottomissione al vangelo, avvenuta un tempo e da rinnovarsi continuamente. Essa è la risposta, decisa e da decidere continuamente, alla parola di Dio rivelata in Gesù Cristo in virtù dello Spirito. È l'obbedienza d'ascolto da parte di colui che vuole appartenere a Gesù Cristo e, in lui, a Dio. È quindi la fede nel Dio che risuscita dai morti, «che ha risuscitato dai morti il nostro Signore Gesù Cristo», Rom. 4,17.24; 10,9; 1 Cor. 15, 17 ss. È fede «nel Figlio di Dio che mi ha amato e si è donato per me», Gal. 2,20. È il sottomettersi- all'azione di Dio in Gesù Cristo. Siccome quest'azione ci si disvela nel vangelo, essa è fede nel vangelo, Rom. 1,16, obbedienza «al vangelo del nostro Signore Gesù Cristo», 2 Thess. 1,8; Rom. 1,5, accettazione obbediente e adesione al vangelo, Gal. 1,9; 1 Cor. 15,1 ss., che si presenta agli uomini già, ad esempio, nella forma di consolidate tradizioni di fede. Ma nel vangelo — ed è questo il particolare punto di vista di Paolo -— giunge ad espressione «la giustizia di Dio», cioè la giustizia che Dio ci ha dimostrato come sua fedeltà, negli ultimi tempi, nell'immolazione di Gesù Cristo. Perciò la fede è soprattutto accet-tazione di questa giustizia assicurataci da Dio in Gesù Cristo e sottomissione ad essa. In tal modo essa, e non potrebbe essere diversamente, è abbandono dell'autogiustificazione, al fine di poter accogliere la giustizia di Cristo, cf. Rom. 10,2 s.; Phil. 3,6 ss. Tale fede quindi è una conversione, cioè il rifiuto di tutti gli idoli finora adorati, al cui vertice c'è il mio io, e il ritorno a Dio, «per servire il Dio vivente e vero», 1 Thess. 1,9. In quanto tale svolta essa, in fondo, è il passo invisibile che ci porta dal conosciuto all'ignoto che, però, nel trapasso diviene il conosciuto. Tale fede poi, che viene sigillata nel battesimo, secondo Paolo, è «all'opera nell'amore», Gal. 5,6. Questo amore è la risposta attiva del credente alla parola dell'amore di Cristo, la quale rivela che la mia vita è amata da Dio ed è destinata agli altri uomini. Per Paolo ci sono molte maniere e forme di dimostrare la fede all'opera nell'amore. Una delle più essenziali è per lui, come per l'intero NT, la reciproca accettazione, soprattutto l'accettazione del debole, 1 Cor. 8,9 ss.; Rom. 14,1 ss.13 ss.; 15,1 ss.; e il vicendevole perdono, ad es. 2 Cor. 2,6 ss.; Eph. 4,2 s.32, come pure il rallegrarsi e il rattristarsi con l'altro, Rom. 12,4 s.; 1 Cor. 12,12 ss. Tale vicendevole amore è un riconoscimento del fatto che un membro è in Cristo affidato all'altro, poiché ognuno è sorretto da Cristo. Ma quasi altrettanto essenziale per Paolo è il concreto «amore fraterno», che si manifesta ad es., nell'ospitalità 0 nell'obolo «per i poveri dei santi» di Gerusalemme, e partecipa della «grazia» della colletta, come Paolo chiama la raccolta delle Chiese, Rom. 12,10 ss.; 2 Cor. 8,7; 1 Thess. 4,9, ecc. L'amore, quello che una volta Paolo chiama «la fatica dell'amore», 1 Thess. 1,3, è per lui il dono che rende veri tutti gli altri doni, e quindi «la via» che è insieme la meta, che da sola si pone un termine e quindi porta già sempre in sé il compimento, 1 Cor. 13. L'amore è la sostanza incorruttibile e immutabile della realtà. Dio non è né fede né speranza: è amore. Se nella fede si affida e abbandona alla salvezza assicuratagli in Cristo e nell'amore dà espressione alla sua esperienza, nella speranza (l'uomo) vede nella visione che gli offre la salvezza e le va incontro. «Noi camminiamo nella fede, non nella visione chiara»^ dice Paolo in 2 Cor. 5,7. La nostra vita è ancora «nascosta in Dio» «insieme a

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Cristo» e soltanto insieme a Cristo sarà rivelata, Col. 3,3 s. Fino a quel momento la fede crederà in ciò, la carità ne esibirà i segni, e la speranza vi si protenderà. Essa attende «con capo elevato», Rom. 8,19, la vita manifestataci in Cristo Gesù. «Per noi è lo Spirito che ci fa attendere dalla fede i beni che spera la giustizia», Gal. 5,5. È la giustizia, avvenuta per noi in Gesù Cristo, nella quale siamo stati inseriti nel battesimo e che ora ci circonda nella speranza come una corazza. Eph. 6,14. La speranza attende con pazienza, evidentemente nella pazienza di uno che corre senza pigrizia e stanchezza, cf. 2 Cor. 4,16 ss. Essa non anticipa niente temerariamente. Ma accoglie il futuro di Dio che in Cristo Gesù è penetrato nel mondo, viene compreso nella fede e dimostrato sensi-bilmente nella carità, vi persevera e cammina verso di esso. Ci sarebbero da dire qui ancora molte cose. Ricordiamone soltanto una. Lo «stare nel Signore» e «il camminare nello Spirito» possono essere caratterizzati dall'Apostolo anche diversamente che mediante la fede, la carità e la speranza. Il cristiano manifesta il suo essere «in Cristo» anche, ad esempio, «gloriandosi» in Cristo o nel Signore, / Cor. 1,29 ss.; Phil. 3,2, e non in se stesso. «Gloriarsi» è qui la forma superlativa della fiducia e un modo dell'edificare. La fede esclude l'autoglorificazione, Rom. 3,27. Il cristiano dimostra il suo essere «in Cristo», tra l'altro, anche assistendo e sopportando l'altro, e ciò precisamente nella carità. È questa la dimostrazione della sua umiltà, magnanimità e longanimità, le quali pure scaturiscono dalla speranza che ci è stata immessa nel cuore dalla chiamata del vangelo, Eph. 4,1 ss. In questo «portare i pesi gli uni degli altri», i pesi delle debolezze e dei peccati, ma anche i pesi del destino che Dio ci invia, si osserva il comandamento di Cristo, la carità, Gal. 6,2. In esso conservano anche la pace che li unisce tra loro «in Cristo» e che, sola, custodisce il corpo della Chiesa nella sua unità, Eph. 4,3 s. Il cristiano, infine, rivela il suo essere «in Cristo» anche vivendo «sobriamente» e «vigilando»; potremmo dire che egli giudica con grande attenzione e disinvoltura, con grande libertà e obiettività, se stesso, il suo mondo e il suo tempo, e in ciò vive. Essere vigilante e sobrio equivale a «riscattare il tempo» che Dio ci dà, cf. Eph. 5,16; Rom. 13,11. In sintesi, la maniera con cui, secondo Paolo, la Chiesa, dal punto di vista dei suoi membri, viene «edificata» può essere caratterizzata ancora sotto un duplice profilo. Da una parte dicendo che la vita per il cristiano è una vita «come se non», 1 Cor. 7,29 ss. È una vita che partecipa delle gioie e delle sofferenze e in generale degli sforzi degli uomini, senza però perdervisi; essa al contrario può essere vissuta con un particolare distacco nella coscienza della finitudine beata. Dall'altra, ciò che caratterizza sinteticamente l'esistenza cristiana è il fatto che per il cristiano tutto è dono. Ecco le domande che l'Apostolo pone ai cristiani di Corinto che avevano dimenticato questo carattere fondamentale della vita cristiana e volevano celebrare davanti all'Apostolo la loro ricchezza spirituale: «Che cosa dunque ti distingue? Che cos'è che non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché ti vanti come se non lo avessi ricevuto? Già, voi siete sazi! Già voi siete ricchi!», 1 Cor. 4,7 s. Eppure hanno ricevuto tutto. È «dono di Dio», Eph. 2,8. Tutto è dono di Dio. La Chiesa viene edificata nei suoi membri sempre in quanto questi conoscono la realtà e vivono in conformità con essa. Ma la realtà è che il mondo passa e tutto è dono. Perciò la vera vita costruttiva è quella di colui che, partecipando del mondo, lo lascia passare e accoglie tutto come dono, con riconoscenza. Abbiamo visto che essere membro del corpo di Cristo e collaborare alla sua edificazione equivale in realtà a vivere in una dimensione diversa da quella in cui vivono gli uomini. Vivere cioè come nuova creatura in una nuova dimensione, che è quella di Gesù Cristo e dello Spirito. Vivere cioè nell'obbedienza della fede che non si gloria di se stessa, nella fatica della carità che si interessa degli altri, nella pazienza della speranza, che è sobria e vigilante, cercare di corrispondere a quanto Dio in Gesù Cristo ha fatto di noi e a quanto ci è stato dato nel battesimo. Ma significa anche altre cose, ad es. essere gioiosamente in armonia con tale speranza e di qui dedurre tutti gli altri beni, Phil. 4,1 ss. In fondo significa vivere tenendo conto che il mondo passa e che il nuovo mondo è già incominciato in Gesù Cristo, e vivere ricevendo tutto come un dono. Questi membri costituiscono il corpo di Cristo, che in essi si «edifica». E come esso, per la sua origine dal corpo crocifisso di Cristo e in virtù della sua realizzazione ad opera dello Spirito di Dio, trascende tutte le formazioni e tutti gli organismi sociali, così pure l'essere e l'esistenza dei suoi membri superano tutte le possibilità umane. La Chiesa per Paolo, quanto alla sua origine e alla sua comunione, è essenzialmente un mistero che si svela solo nella fede.

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LA CHIESA NELLE LETTERE PASTORALI

Le lettere pastorali, che appartengono al genere non insolito nella antichità degli scritti pseudo-epigrafici, sono post-paoline. Esse hanno presente, non solo rispetto a Paolo ma anche ad es. rispetto a Lc. e Io. una struttura nuova della Chiesa. Comunque esse sono convinte che la nuova forma della Chiesa e soprattutto del ministero ecclesiastico debba essere considerata come una trasformazione storica della Chiesa paolina sotto l'urgenza della nuova situazione post-paolina, e che questa trasformazione rappresenti la conseguenza delle istruzioni impartite da Paolo ai suoi discepoli, e quindi corrisponda allo spirito e alla volontà dell'apostolo. Della Chiesa come tale vi si parla indubbiamente assai poco. Essa vi compare — e ciò è molto importante —- sotto un aspetto particolare, quello cioè del ministero ecclesiastico. Si possono tuttavia rilevare tre elementi ecclesiologici, È nata dall'immolazione di Gesù Cristo per noi ed è proprietà sua: «Egli si è donato per noi per riscattarci da ogni iniquità e purificarsi un popolo che gli appartenga e sia zelante del bene», è scritto in Tit. 2,14 con un linguaggio veterotestamentario. Qui, evidentemente solo in una frase incidentale e con un vocabolario tradizionale, la Chiesa è la sostituzione di Israele con il nuovo popolo dei cristiani. Anzi, qui l'evento salvifico d'Israele è l'evento della Chiesa. Un'ottica diversa è quella che considera la Chiesa contrapponendola ad una famiglia terrena, come fa 1 Tim. 3,5. «Come colui che non sa governare la propria casa potrebbe prendersi cura della Chiesa di Dio?». Se si può paragonarla ad una «casa» antica nel senso di una famiglia, allora evidentemente essa è una specie di familia Dei, come si esprimerà chiaramente 1 Tim. 3,15: «Bisogna che tu sappia come comportarti nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente». La Chiesa, che appartiene a Dio e a Gesù Cristo, è la «casa», cioè la famiglia di Dio, che abbraccia e custodisce i suoi membri, cf. Hebr. 3,6; 1 Petr. 4,17. Ma contemporaneamente essa viene caratterizzata anche mediante l'idea di edificio. Infatti 1 Tim. 3,15 prosegue: «colonna e fondamento della verità». La formulazione però, che in parte ricorda un'espressione di iQS v,5 s., ecc., intende dire che la Chiesa è la famiglia di Dio, nella quale si fonda la verità, e cioè la fede in Cristo, cf. 1 Tim. 2,4.7; 4,3 ecc. Parimenti, in quanto ov...stereov" qemevloi", essa è «la grande casa» in cui ci sono vasi di diverso tipo e di diverso uso, credenti e increduli, 2 Tim. 2,19 ss. Essa quindi, da una parte, deve essere considerata come il fondamento divino della fede e, dall'altra, come la convivenza di credenti e infedeli. È una istituzione divina formata di uomini. In quanto tale ora essa si fonda sul ministero apostolico ed è curata da esso. È questo il centro di gravità delle nostre lettere. È soprattutto sotto questo aspetto che esse ne parlano e la caratterizzano. Principio di questo fondamento della verità è l'apostolato paolino. Allo stesso apostolo Paolo «il vangelo della gloria del beato Iddio» è stato in origine affidato, 1 Tim. 1,11. Egli è stato stabilito per il vangelo, mediante il quale il Cristo risorto «ha fatto risplendere la vita e l'immortalità», 2 Tim. 1,10 s.; cf. 1 Tim. 2,6 s. Egli è stato introdotto e abilitato a questo suo servizio, 1 Tim. 1,12; cf. 2 Tim. 4,17. Perciò è apostolo di Gesù Cristo «secondo l'ordine di Dio nostro Salvatore e di Gesù Cristo, nostra speranza», 1 Tim. 1,1; cf. 2 Tim. 1,1; Tit. 1,1. Ciò, tutto sommato, l'avrebbe potuto scrivere anche Paolo. Ma il ministero dell'Apostolo acquista nel suo complesso un'accentuazione un po' diversa. Infatti come è visto ora, in età postapostolica, l’Apostolo; in che maniera è egli, benché morto, ancora l'apostolo per eccellenza? Significativo è il modo di esprimersi di 2 Tim. 1,11 6 1 Tim. 2,7. Secondo questi testi Paolo è stato costituito chrux cai; a;povstolo" caiv didavscalo" e chrux cai; a;povstolo" e didavscalo" evqnwn e;n pivstei caiv avlhqeiva°, cf. 2 Tim. 4,17. Khrux e a;povstolo" sono termini che traggono origine dalla tradizione paolina, alla stessa maniera che l'accentuazione dell'apostolato universale, il titolo di didavscalo", ci mostra Paolo attualmente in attività mentre scrive ai suoi discepoli e, attraverso essi, alla Ekklesia. Egli è presente appunto con il vangelo, che viene annunciato da Paolo come la tradizione normativa, come catav th;n didach;n pistov" lovgo", Tit. 1,9, come paraqhvch apostolica, come «modello» (uvpotuvpwsi") «delle sane parole», ecc., 2 Tim. 1,12 s.; 1,6,20. Paolo, «il maestro», è il Paolo attuale nell'età postapostolica, e questi è il vero Paolo nella nuova situazione e conforme alla trasformazione avvenuta. Il kerygma o vangelo paolino, in quanto dottrina vincolante, è la sua interpretazione autentica che mantiene storicamente attuale il vangelo di Paolo. Anche il potere di ordine e di governo dell'Apostolo compare in una nuova luce. Esso è presentato come uno sviluppo di quello paolino e come una trasposizione, dal

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diritto divino a quello ecclesiastico. In entrambi i casi sono tenuti presenti, da una parte, ciò che era transitorio nell'apostolato di un tempo. in quanto tale e, dall'altra, ciò che in esso era fondamentale e permanente. Ricordiamo che nelle lettere pastorali tutto, servizio religioso, ordinamento, vita e pensiero ecclesiastico, è sottoposto alle direttive apostoliche. Per quanto concerne i ministeri ecclesiastici, l'Apostolo ne prescrive il modo di cooptazione, le norme che fissano le condizioni di dignità, i princìpi del loro servizio e della loro condotta e del rapporto con essi. L'Apostolo ha anche il potere giuridico d’infliggere delle penitenze, i Tim. 1,20, di ordinare, 2 Tim. 1,6; cf. 1 Tim. 4,14. Egli, si può dire, ha potere persino nei casi particolari. È l'Apostolo presente nella tradizione paolina esplicitante l'ordinamento della Chiesa, ad es., ora nelle lettere che riassumono e con-centrano tutto nel ministero. In esse infatti viene chiaramente messo in luce il lato ministeriale dell'ufficio apostolico. Appunto in questa permanente ministerialità l'Apostolo è storicamente presente. Ma la ministerialità permanente ha anche come presupposto la trasformazione del diritto sacro in diritto ecclesiastico. Nel diritto ecclesiastico amministrativo, quale agli inizi è in vigore ad es. nell'ordinamento riguardante i presbuvteroi, 1 Tim. 5,17 ss., non si parla più del diritto sacro che in questo tempo escatologico fissa un ordinamento escatologico, ma è l'aspetto giuridico del diritto sacro presente nella giuridicità permanente che crea un ordinamento sempre vincolante. E anche questo non è un rifiuto dell'apostolicità ma una trasformazione coerente sulla base della nuova situazione post-paolina e quindi una sua conservazione che tenga presenti le circostanze. Questo ministero apostolico così inteso, il quale è la forma presente e permanente di quello passato di un tempo, secondo le nostre lettere fa scaturire da sé dei ministeri che parimenti, sotto diverso profilo, devono essere visti come delle esplicazioni e delle trasformazioni del paolinismo nel presente. Ora Timoteo e Tito diventano i tipi dei titolari di un ministero, per cui possiamo attenerci prevalentemente alla loro figura nelle lettere pastorali quando cerchiamo di descrivere il ministero postapostolico. In essi viene in luce con estrema chiarezza, nei suoi tratti fondamentali, la peculiarità di questo ministero postapostolico. È inoltre significativo che non si sia estinta la coscienza del procedere dei ministeri ecclesiastici dai servizi personali che Paolo aveva promosso. Timoteo e Tito vengono visti anche nelle lettere pastorali ancora in un rapporto personale con l'Apostolo. Lo documentano proprio le note personali che sembrano prive di importanza, ad es. 1 Tim. 5,23 secondo cui Timoteo dovrebbe bere un po' di vino mescolato con l'acqua a causa della sua debolezza e per il bene del suo stomaco. Si potrebbe. dire che qui è conservata la situazione storica del rapporto maestro-discepolo. Ma ciò serve a chiarire la radice concretamente apostolica dei ministeri. Ciò che secondo le nostre lettere si celava nel rapporto storico dei discepoli con l'apostolo, e che appunto rivela l'ufficio apostolico come suo costitutivo, è l'immissione formale in un ministero, che non è la continuazione dell'escatologico ufficio apostolico di un tempo e tuttavia sostanzialmente ne deriva. Si tratta dell'esplicitazione della ministerialità dell'ufficio apostolico per la concreta situazione postapostolica. In tal modo la giustificazione del servizio esemplare di Timoteo diviene ora formale e «sacramentale». Ciò che durante la vita dell'Apostolo, quando l'ufficio apostolico includeva ancora in sé vitalmente tutti i ministeri, appariva ed anche era un provvedimento personale, ora si manifesta e diviene operante nel suo senso giuridico e istituzionale fino a quel momento rimasto nascosto. Anche qui il diritto sacro si trasforma in diritto ecclesiastico, proprio al fine di conservarsi nella nuova situazione. Ciò che nel provvedimento. personale e nella missione pratica ordinata dall'Apostolo era operante in maniera velata, ora viene in luce in questo modo: voci profetiche indicano Timoteo come autentico rappresentante e suc-cessore dell'Apostolo, 1 Tim. 1,18. Il presbiterio è radunato. Davanti a questi testimoni a Timoteo viene consegnata dall'Apostolo «una sintesi formale dell'insegnamento» (Dibelius). Il rito di ordi-nazione è costituito dall'imposizione delle mani da parte del presbiterio e dell'Apostolo. Essa comunica il carisma di Dio, che appartiene al suo servizio e viene conferito una volta per sempre. È «in esso», cioè lo determina rispetto al suo servizio. Egli naturalmente deve «preoccuparsi» e «rinfocolarlo» affinché divenga operante, cf. 1 Tim. 1,18; 4,14; (5,22?); 2 Tim. 1,6; 2,2; Tit. 1,5. Ordinato in questo modo ora Timoteo può svolgere, in determinate circoscrizioni ecclesiastiche, la funzione di rappresentante dell'Apostolo, r Tim. 3,15; 4,13; 2 Tim. 4,9; cf. Tit. 3,12, e di suo successore, 2 Tim. 4,5 s. In questo contesto s'inseriscono anche le sue funzioni ministeriali. Anche per lui sta in primo piano il servizio dell'«insegnamento» che, come mostrano i concetti usati, è un

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multiforme servizio della parola, è predicazione, testimonianza, istruzione, esposizione dottrinale, esortazione pastorale, ecc. I temi di questo «insegnamento», che del resto ha luogo soprattutto nelle assemblee pubbliche della comunità, cf. 1 Tim. 2,12; 4,3, sono la fede, il comportamento, l'ordine nella comunità. Anche l'insegnamento del discepolo e rappresentante dell'Apostolo tradisce una particolare accentuazione derivatagli dalla nuova situazione della Chiesa. Esso è il fondamento della reazione contro gli «eretici», che fanno la loro comparsa nella comunità. Questa difesa, che praticamente apparteneva al servizio dell'Apostolo, viene ora esercitata d'ufficio e legalmente dal suo successore. Non c'è bisogno che descriviamo qui nei particolari il modo di procedere differenziato a seconda delle circostanze. Degno di nota però è il fatto che sia un'istruzione apostolica quella , che prescrive; di presentare la dottrina di fronte agli eretici in maniera cordiale e pedagogicamente positiva, di proclamare la parola «a tempo e fuori tempo», 2 Tim. 4,2, di custodire il deposito apostolico, ad es. 1 Tim. 6,20, di non discutere (logomacein), 2 Tim. 2,14.23 ss:, e di non abbandonarsi a «favole profane e racconti da vecchie donne», 2 Tim. 4,7.Il detentore di un ufficio ha anche potestà amministrativa, che non condivide con la comunità ma, tutt'al più, con altri titolari di ufficio a lui subordinati. Timoteo deve sapere «come comportarsi nella casa di Dio», 1 Tim. 3,15. Egli è responsabile di questa «casa di Dio». Perciò deve sorvegliare non solo sui membri della comunità ma anche su tutti i ministeri. Ad es. deve «stabilire» delle direttive per l'istituto delle «vedove», 1 Tim. 5,7. Ha inoltre potestà disciplinare sui «presbiteri», 1 Tim. 5,17 ss. Sarà stabilito per essi un accurato procedimento disciplinare. Timoteo e Tito, secondo le nostre lettere, hanno infine, se così possiamo esprimerci, un «potere di ordine». Il discepolo dell'Apostolo ha ricevuto da lui l'ordine e il potere di costituire dei presbiteri nelle comunità, Tit. 1,5. Anche dei presbuvteroi, che in funzioni direttive vengono detti e;pivscopoi, cf. Tit. 1,5.7, e al cui fianco stan-no dei diavconoi titolari, cf. 1 Tim. 3,1-7; 8-13, si dice che insegnano, presiedono e ordinano, 1 Tim. 5,17; 2 Tim. 2,2; 1 Tim. 4,13. Ma è significativo che le lettere pastorali vedano la missione Paolina dei discepoli dell'Apostolo e i ministeri riconosciuti e onorati da Paolo nelle comunità come fondati nella successione ministeriale e nell'ordinazione sacramentale. È loro interpretazione che la potestà ministeriale apostolica non solo fondi. ma altresì edifichi la Chiesa. La Chiesa, esse pensano, nella sua nuova situazione postapostolica e nei suoi concreti uffici trova il giusto compimento dell'intenzione apostolica e la retta esplicazione della permanente potestà apostolica. Ma anche la forma interiore del ministero apostolico è conservata negli uffici ecclesiastici secondo il tipo di Timoteo e di Tito, anche se un po' modificata. Pure gli uffici ecclesiastici sono una unità di ministero, Spirito ed esistenza. Il ministero però è prevalente. Lo Spirito è il fondamento e la forza dell'attività ministeriale, 2 Tim. x,6 s.14; 2,1; 1 Tim. 4,14. È in questo senso un ministero «spirituale». E come tale si rivela anche nell'esistenza del suo detentore. Così l'Apostolo esorta il suo rappresentante e successore: «...persegui la giustiziarla pietà, la fede, la carità, la costanza, la dolcezza. Combatti la buona battaglia, conquista la vita eterna», 1 Tim. 6,11 s.; cf. 2 Tim. 2,3 ss.15, ecc. Anche questo detentore di un ufficio deve essere un tuvpo" per la comunità, 1 Tim. 4,12; Tit. 2,7. Egli pure deve soffrire con l'Apostolo «per il vangelo, sostenuto dalla forza di Dio», 2 Tim. 1,8; 2,11 ss.; 3,10 s.; 4,5 s. Questo ufficio è in tutto e per tutto due cose: strateiva, 1 Tim. 1,19; 2 Tim. 2,3.4, e diaconiva, 1 Tim. 1,12; 4,6; 2 Tim. 4,5, alla stessa maniera dell'ufficio apostolico dell'Apostolo. Bisogna però notare un'altra cosa: l'ufficio ecclesiastico non deriva solo formalmente da quello apostolico, neppure ne condivide soltanto certi compiti e poteri né l'eguaglia unicamente dal punto di vista della struttura interna, ma viene esercitato soltanto in un continuo riferimento all'ufficio apostolico. Lo si può vedere già nell'insieme delle stesse lettere pastorali che in tutte le prescrizioni e istruzioni fanno parlare l'apostolo interpretandolo e attualizzandolo. Ciò però viene anche riflesso ed esplicitato, soprattutto per quanto concerne la dottrina. Timoteo e Tito non propongono un proprio insegnamento originale. Essi insegnano ciò che l'Apostolo scrive loro, come si ribadisce continuamente. «Insegna queste cose ed esorta», i Tim. 6,3, «Richiama alla mente queste cose», 2 Tim. 2,14; Tit. 3,1, ecc. Viene loro raccomandata la tradizione apostolica ed essi devono «vegliare» su di essa e «conservarla», 1 Tim. 4,16; 6,20, ecc. Ma come avviene questa «conservazione»? In certe circostanze ricevendo e trasmettendo delle tradizioni formulate, cf. 2 Tim. 2,2.11 ss. Ma fondamentalmente così: «Prendi per norma le sane parole che hai udito da me, nella fede e nell'amore di Gesù Cristo. Custodisci il buon deposito con l'aiuto dello Spirito santo

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che abita in noi», 2 Tim. 1,13 s. E ancora: «Comprendi ciò che voglio dire. D'altronde il Signore ti farà comprendere tutto», 2 Tim. 2,7 s. La tradizione apostolica quindi viene custodita in quanto la si accoglie con fede e con amore, la si comprende e interpreta con l'assistenza del Signore e la forza dello Spirito e quindi la si trasmette appropriatamente. In altre parole, il detentore di un ufficio ecclesiastico insegna guardando con fede e amore alla vivente tradizione apostolica, continuamente interpretata e tradotta con l'aiuto dello Spirito. Ma anche le attività ministeriali giudiziarie e di governo sono la esecuzione, dietro propria responsabilità e decisione, di normative istruzioni apostoliche. Anche su questo punto le nostre lettere, nel loro insieme, ci offrono una testimonianza. Un esempio particolarmente pregnante si trova in 1 Tim. 5,19. In questo testo si prescrive un accurato procedimento disciplinare. Vengono date delle norme alle quali Timoteo deve attenersi e che devono applicare. Gli altri modi di procedere possono variare, e naturalmente anche il giudizio da emettere di volta in volta viene lasciato ai detentori dell'ufficio. Similmente ci si comporta nell'ordinazione o nella regolamentazione dello stato delle «vedove», cf. 1 Tim. 3,1 ss.7 ss.; Tit: 1,5 ss.; 1 Tim. 5,3 ss. Anche la condotta del ministro della Chiesa è legata all'Apostolo, come abbiamo visto, al suo esempio e alle sue istruzioni. Ne dipende strettissimamente anche quanto si riferisce all'esercizio del suo ministero. Ma proprio sotto questo aspetto è naturale che l'attualizzazione nelle singole circostanze postapostoliche sia oggetto di decisione personale, sulla base delle indicazioni apostoliche. Ma quale è la posizione, all'interno della Chiesa, di tale ministero ecclesiastico che applica e sviluppa come una tradizione vivente il ministero apostolico? Anche sotto questo profilo è ribadita e conservata, nella nuova situazione, la caratteristica dell'ufficio apostolico escatologico. Nei confronti dell'ufficio, per quanto concerne una partecipazione al potere spirituale, la comunità è pienamente subordinata. Ciò non è fondato soltanto nel particolare tema delle nostre lettere. Nei temi che queste svolgono — ed è sintomatico — non si interessano della comunità ma di coloro che in essa sono responsabili di uffici. Della comunità veniamo a sapere soltanto che essa «ascolta», i Tim. 4,16(14), prega, 1 Tim. 2,1.8; 5,5, che i suoi membri sono battezzati, Tit. 3,5 s. Vi si parla anche della sua attività caritativa, cf. 1 Tim. 5,10.13; 6,17 ss.; Tit. 1, 11 ss. Naturalmente anche per le lettere pastorali esistono singoli servizi volontari, resi da membri della comunità nei confronti dell'Apostolo o del suo rappresentante, cf. 2 Tim. 1,16.18; 4,10 ss. 19 ss.; 2 Tim. 4,11; Tit. 3,12. Viene raccomandata anche la vicendevole istruzione, Tit. 2,3 s., come pure non ci si dimentica che la Chiesa nel suo insieme, quindi anche nei suoi membri, è la «casa di Dio, Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità», 1 Tim. 3,15 e popolo acquistato da Cristo, Tit. 2,14. Ma rilevante è anche il venir meno dei carismi. In realtà vengono citati solo i «profeti» e questi solo a proposito della designazione dei candidati adatti all'episcopato, quindi nel loro carismatico judicium dei, 1 Tim. 1,18; 4,14. Il pneuma profetico però mette in guardia anche contro i futuri eretici, un segno premonitore della fine dei tempi, 1 Tim. 4,1. Ne consegue che per le lettere pastorali — quindi dal punto di vista della Chiesa che intorno al 100 d.C., vive della tradizione paolina — ogni autorità e responsabilità è riposta nei detentori di uffici ecclesiastici. Il loro insegnamento, che indubbiamente non è loro bensì della vivente tradizione apostolica da essi accettata, diviene vincolante per tutti. In questo contesto il paraggevllein si affianca al didavscein, 1 Tim. 4,11; 6,17; cf. 1 Tim. 1,5.18; 6,13. Secondo 1 Tim. 2,12 l'insegnamento pubblico comprende un au;qentein tino" quindi una supremazia che fa valere la sua autorità, per cui la donna non può insegnare in pubblico. Ecco quanto scrive Tit. 2,15: «Insegna tali cose, esorta, riprendi metav pavsh" e;pitagh", con un'autorità piena». Non a caso si aggiunge: «Che nessuno ti disprezzi», così come a Timoteo è detto: «Nessuno disprezzi la tua giovane età», 1 Tim. 4,12. Poiché si tratta di autorità ministeriale, l'età non vi ha alcuna importanza. Tale autorità dottrinale poi si impone soprattutto come autorità critica nei confronti degli eretici. È a questo proposito che si usa l'espressione: «dispensare fedelmente la parola della verità», 2 Tim. 2,15, oppure «ordinare» la parola, 1 Tim. 1,3. Ma anche in questi uffici l'autorità è limitata dall'Agape, in quanto è sorretta da essa. Per questo nei confronti degli eretici è previsto un discorso paziente e benevolmente insi-stente, 2 Tim. 2,14.24 s.; 4,2 e in generale la raccomandazione di non dimenticare che la Chiesa è una familia Dei, 1 Tim. 5,1 s. Anche nelle sue funzioni direttive l'incaricato di un ufficio deve «co-mandare», 1 Tim. 5,7. E anche in questo caso egli non condivide la sua autorità con l'assemblea della comunità, neppure con i carismatici, ma soltanto con il collegio dei presbu;teroi, 1 Tim. 4,14;

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5,17 ss. Questa autorità però, come abbiamo visto, è un'autorità trasmessa e confidata, la quale, scaturita dall'apostolato, può far fronte alla nuova situazione senza apostoli e quindi essere eserci-tata in un modo particolare, ma anche fondamentalmente solo rifacendosi ad essi. Ed è un'autorità che attua questo continuo rifarsi all'apostolicità soltanto nella fede e nell'amore in Cristo, 2 Tim. 1,13, nella forza dello Spirito, 2 Tim. 1,6 s.14; 1 Tim. 4,14, sotto l'assistenza del Signore e mediante la sua grazia, 2 Tim. 2,1.7. Essa è quindi essenzialmente un'autorità «spirituale». Dal compimento personale e ministeriale del servizio apostolico in quello ecclesiastico dipende la salvezza del detentore di un ufficio e la salvezza degli uditori, per cui il primo dev'essere mantenuto dalla comunità, 1 Tim.. 5,17 s., onorato, 1 Tim. 5,19, rispettato, 1 Tim. 4,I3; 4,12; Tit. 2,15.

LA CHIESA NELLA LETTERA AGLI EBREI Della comunità cui, è indirizzata la cosiddetta lettera agli Ebrei, per quanto concerne la sua fisionomia concreta, sappiamo poco. Comunque essa è una comunità (etnico-)cristiana della seconda generazione cristiana, che ha alle sue spalle il tempo delle origini, 5,11ss.; 6,1 ss., ha già sofferto molte tribolazioni, 10,32 ss., ma ha anche dimostrato molta carità per il nome di Dio, 6,10; ora però è in pericolo di stancarsi e di rinunciare alla fede, 12,3.12 ss., anzi di distaccarsi da Dio, 3,12; 4,11; 6,6; 12,15. Questa comunità si raduna in assemblee, 10,25, che però alcuni già disertano. Essa conosce e valorizza il battesimo, in ogni caso i suoi membri sono battezzati, 6,4 ss.; 10,23.(26).32. Nella comunità agiscono la parola, 2,1 ss.; 4,12; 6,1; 12,25; 13, 7; 7,22 il vangelo, 4,2.6, la dottrina, 5,12 s.; 6,1 s., sia come istruzione elementare che come gnosi superiore, cf. anche 13,9. Essa conosce la tradizione, 2,3, la confessione, 3,1; 4,14; 10,23, la lode, 13,15, la preghiera, 13,18. Ha dei presidenti o capi (hvgouvmenoi) che le predicano «la parola di Dio», 13,7, e ai quali essa deve «obbedire» e sottomettersi, poiché è a loro demandata la responsabilità davanti a Dio delle anime dei fedeli, 13,17; bisogna che si ricordi di essi e ne «imiti» la fede, 13,7. Nei saluti alla comunità essi vengono distinti da «tutti i santi», 13,24. L'autore stesso della lettera si attribuisce l'autorità spirituale di insegnare a questa comunità una gnosi superiore, 6,1.3, e ne esorta i membri, che egli qua e là pastoralmente chiama «santi fratelli», 3,1 o soltanto «fratelli», 3,12; 13,22, ma anche «diletti», 6,9, ad accogliere la sua «breve» lettera, cioè tou lovgou th" paraclhvsew" ajnevcesqai, 13,22. Ma, come si può vedere in 12,25, è Dio stesso- che parla mediante la sua parola. La comunità deve pregare per l'autore affinché sia loro reso più presto, 13,18 s. Forse, di fronte alla comunità, egli si ritiene nella stessa posizione del «nostro fratello Timoteo», 13,23. Questa comunità, che difficilmente si può delineare nelle sue strutture concrete, non assorbe l'interesse dell'autore. La gnosi, che egli diffonde, riguarda Gesù (Cristo), «il Figlio» e il «Sommo Sacerdote»; è quindi orientata cristologicamente. Essa è interamente inserita in un lovgo" th" paraclhvsew", come si può vedere già dal suo piano, nel quale le riflessioni su Cristo vengono interrotte continuamente da parenesi. In ogni caso la dottrina sviluppata su Gesù Cristo è rivolta alla comunità come base delle «esortazioni», ed entrambe, gnosi e paraclesi, tradiscono almeno atema-ticamente diversi elementi della loro essenza teologica. Così l'autore della lettera considera la comunità come ó olxo^ TOÙ I!EOÙ, Io. 21, sopra il quale sta un «grande Sacerdote», cioè Gesù Cristo, e che perciò è anche «la casa» sopra la quale sta Cristo in quanto «Figlio» che l'ha preparata, 3,3.6. Mosè, con cui Cristo (e la sua casa) viene confrontato, «è stato fedele in tutta la sua casa, in qualità di servo, per testimoniare ciò che avrebbe dovuto essere detto», 3,5. Come servo nella sua casa egli rappresentava un'anticipazione della futura casa di Cristo, che è la comunità. Questa comunità è altresì «il popolo di Dio», 4,9; 10,30; 11,25, mentre Israele è detto «il popolo», cf. 2,17; 5,3, ecc. I membri della comunità, i cristiani, e Cristo stesso, «sia il santificatore che i santificati hanno tutti la stessa origine. È per questo ch'egli non si vergogna di chiamarli fratelli, quando dice: 'Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli. Ti canterò in mezzo all'assemblea'», 2,11 s. I «fratelli di Cristo», i membri della comunità, sono anche suoi «figli», come testimonia Is. 8,18: «Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato», 2,13. La comunità, secondo la nostra lettera, deve la sua esistenza a Dio e a Cristo, essa è loro proprietà in quanto populus Dei e familia Christi. Ma ciò si fonda su quanto Dio ha fatto e fa in Gesù Cristo. Dio — così comincia la nostra lettera — «in questi ultimi giorni ci ha parlato mediante il Figlio», 1,2. In tal modo ha continuato e portato a

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termine il discorso che aveva iniziato sotto molteplici forme con i profeti. Questo «Figlio», Gesù, è il mediatore della creazione e il reggitore di tutto mediante la sua parola onnipotente, 1,2.10. Egli, se si può mettere in rapporto ciò con 11,3, è la parola creatrice di Dio, è colui «per il quale e mediante il quale tutto esiste», 2,10. Questo Figlio, che è la parola creatrice di Dio, lui lo «ha introdotto nel mondo». Egli, benché generato da Dio, 1,5; 5,5; cf. 2,11, e benché sia lo «splendore e l'immagine della sostanza di Dio», 1,3, ha partecipato alla «carne e al sangue» ed «è divenuto in tutto simile ai suoi fratelli», 2,14.17. Egli, come dice 7,14 in altro contesto, «è uscito dalla tribù di Giuda». Ha «esercitato la giustizia e odiato l'empietà», 1,9. Ha sofferto, 2,9.10.18, sulla croce, cf. 6,6; 12,2 e vi è stato «tentato», 2,18, «senza peccare», 4,15. Ha sofferto «fuori della porta», 13,2. Questo soffrire e morire nella tentazione, che lo rende misericordioso e soccorrevole verso gli uomini che vengono tentati, 2,17 s.; 4,15, va compreso nel senso che Gesù «ha sopportato una tale contraddizione da parte dei peccatori», 12,2 s., e così «espiò», «i peccati del popolo» (2,17) che prese su di sé, e «compì la purificazione dei peccati», 1,3, o, ma in forma positiva, «santificò il popolo con il proprio sangue», 13,12. La sua passione e la sua croce furono dunque, anche nel senso di Hebr., un prendere su di sé i peccati altrui da parte dell'innocente e la dimostrazione del fatto ch'egli è in senso radicale «per noi». Di qui consegue ancora qualcosa d'altro, anche se Hebr. ne parla soltanto in un'occasione, cioè che Gesù «gustò la morte a beneficio di ogni uomo», 2,9. In forma più precisa: «La sua morte ridusse all'impotenza colui che ha la potenza della morte, cioè il diavolo» e, poiché ora morire non significa più soccombere al diavolo, «liberò tutti coloro che, per tutta la loro vita, furono tenuti in schiavitù dal timore della morte», 2,14 s. L'intimo nesso che lega peccato, diavolo e morte non è messo in luce, è però almeno accennato. Il prendere su di sé i peccati, avvenuto nella passione e morte di Gesù Cristo per noi, e quindi la liberazione da essi in virtù della sua morte, strappa l'uomo al diavolo, potente nella morte del peccatore e mentitore, 3,13, e colui che come peccatore è sostenuto da Gesù lo libera dalla paura della morte. Così Gesù «si carica» «della discendenza di Abramo», 2,16. «Per la sua passione mortale» Gesù stesso è stato «condotto alla perfezione» da Dio, 2,10, e «incoronato di gloria e onore», 2,9. Egli si è «seduto alla destra della Maestà nell'alto dei cieli», 1,3; cf. 12,2, superiore agli angeli, 1,4 ss.; 2,5 ss. È stato «stabilito erede di tutte le cose», 1,2, e tutto gli è stato sottoposto da Dio, 2,8. Egli perciò è ov ajrchgo;" th" swthriva" aujtwn 2,10; cf. 12,2. In tal modo il «propter nos» suo e di Dio è divenuto presenza perenne per tutti gli uomini. «Gesù Cristo ieri, oggi e nei secoli», 13,8. Lo stato di cose, venuto in luce nella considerazione di Gesù come «Figlio» e sul quale si fonda il fatto che noi... mevtocoi... tou Cristou gegovnamen, 3,14, ricompare là dove Hebr. definisce Gesù «Sommo Sacerdote», titolo che può essere scambiato senz'altro con quello di «Figlio», cf. ad es. 3,1-6; 4,14-15; 5,5a-5b.8-io. Queste considerazioni per l'autore di Hebr. sono la gnosi vera e propria, la teleiovth" del lovgo" tou Qeou, 6,1 e costituiscono il centro del lovgo" th" paraclhvsew", 4,14-10,18. Di qui esse sono penetrate nella prima e terza parte della lettera, come pure in 2,17; 3,1 e 10,12 (13,11 s.) compare il concetto di ajrciereuv", e nella citazione iJereu;" mevga". In stretto nesso con le riflessioni sul Sommo Sacerdote compaiono anche i concetti di diaqhvch, ejpaggeliva, evlpiv", fondamentali per la nostra lettera. Ed è proprio nell'ambito di queste considerazioni che viene esteso e chiarito il concetto di salvezza piena e definitiva, che nell'AT compariva solo in maniera provvisoria e allusiva. Gesù è «divenuto per l'eternità gran sacerdote secondo l'ordine di Melchidesech», 6,20; 7,17.21. Siccome questi rinvia come prototipo a quello, vale del primo ciò che viene detto del secondo. Melchidesech è stato «assimilato al Figlio di Dio», 7,3, per cui anche «il gran sacerdote secondo l'ordine di Melchidesech» è «senza padre, senza madre, senza genea-logia, i cui giorni non hanno inizio e la cui vita non ha fine», è quindi sottratto alla storia di eternità in eternità, 7,3. Egli è costituito da Dio come gran sacerdote, 5,5; 7,28, «secondo la potenza di una vita indistruttibile», 7,16. Della sua passione, di lui che è il Figlio, della sua tentazione senza peccato e della sua morte si è già parlato. Possiamo aggiungere il passo 5,7 ss. Qui è sintetizzato quasi tutto quello che si può dire di questo gran sacerdote: la sua incarnazione, la sua tentazione senza peccato, la sua obbedienza, la sua perfezione. Egli è l'autore della salvezza. Degne di nota sono altre tre cose: 1) l’accentuazione del sacrificio che è stato offerto, naturalmente in opposizione al sacerdozio veterotestamentario, come ad es. in 7, 27; cf. 9,23 ss. In connessione con il sacrificio si parla spesso anche del «sangue» di Gesù come mezzo di salvezza, in opposizione al sangue del

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sacrificio veterotestamentario, 9,6 ss. 12.14.18 ss.; 10,19. 29, ecc. 2) L'immagine della via che Gesù percorre per produrre la salvezza mediante il proprio sacrificio, 2,10; 6,20; 9,11; cf. 4,14; 9,24; 10,19 s- 3) L'accentuazione della sua presenza vivente, come in 7,8: «Di lui si attesta che vive». Il suo sacerdozio immutabile è garanzia della sua intercessione per noi, 7,24 s.; 9,24. Il sacrificio di sé compiuto un tempo per noi, 7,27; 9,3 s., e nel quale noi siamo stati santificati una volta per tutte mediante l'immolazione del corpo di Cristo, è presente in maniera tale che egli ora intercede continuamente in nostro favore. Quest'unico sacrificio immolato per noi del resto è anche il sacrificio definitivo. Infatti «Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere i peccati di molti», e dopo «essersi manifestato, una volta per tutte alla fine dei tempi, per abolire il peccato», «apparirà una seconda volta, fuori del peccato, a coloro che l'attendono», 9,27 s. Il giorno già si avvicina, 10,25, c'è ancora «un poco, ben poco tempo», 10,37. Ma quale è il frutto di questo evento salvifico? Si potrebbe rispondere in generale con il nostro autore: «Noi abbiamo un grande sacerdote sovrano», 4,14, oppure: «Abbiamo un grande sacerdote alla testa della casa di Dio», 10,21. Egli «per tutti coloro che gli obbediscono è divenuto principio di salvezza eterna», 5,9. E questa salvezza significa «perdono dei peccati», 9,28; 10,12.18, «purificazione della coscienza dalle opere morte per poter servire il Dio vivo», 9,14.15, e in senso positivo: santificazione, 10,10.14; cf- 29. Coloro «che vengono santificati» egli li ha «resi perfetti per sempre», 10,14. In questo modo però è avvenuto qualcosa di grande, cioè la fondazione della nuova alleanza da parte di Dio. Al riguardo vengono citati in 10,15 ss- i testi di Ier. 31,33 ss.; Ex. 19, 3 ss.; Zach. 8,8. Gesù è «mediatore di una nuova alleanza», 9,15; 12,24, «garante di un'alleanza migliore», 7,22, di fronte alla quale l'antica «sta per scomparire», 8,13. Il suo sangue è «il sangue dell'alleanza», 10,29. Questa nuova alleanza è un'alleanza delle promesse migliori. Il gran sacerdote Gesù «ha ottenuto un ministero tanto più elevato quanto migliore è l'alleanza di cui egli è il mediatore, e fondata su migliori promesse», 8,6. Cristo è venuto «come gran sacerdote dei beni futuri», 9,11. Coloro che sono chiamati alla nuova alleanza hanno «ricevuto l'eredità eterna promessa», 9,15; cf. 1,14. Soltanto insieme ad essi i fedeli defunti dell'AT, i quali pure credettero alla promessa e, come Abramo, soggiornarono nella terra promessa come in un paese straniero, 11,9, dovevano pervenire alla perfezione, 11,39. Al popolo di Dio «è riservato un riposo, quello del settimo giorno», 4,9. «La promessa di entrare nel suo riposo rimane in vigore», 4,1. Questa ajnavpausi" è la zwhv, 10,39, in quanto «possesso di una ricchezza migliore e stabile» al confronto di tutti i beni terreni, 10,34. Essa, si può dire con 9,28, è data con l'apparizione del Cristo atteso come portatore della salvezza. Essa anzi è «vedere Dio», 12,14, è «ricevere il possesso di un regno incrollabile», 12,28. Così la nuova alleanza con le sue promesse nuove e definitive è anche «l'introduzione di una speranza migliore, mediante la quale ci avviciniamo a Dio», 7,19. La nuova alleanza delle promesse eterne, istituita per il popolo di Dio mediante l'autoimmolazione di Gesù Cristo, del Figlio e gran sacerdote, è altresì l'inizio della speranza. Promessa e speranza sono correlative, 10,23. Entrambe formano la caratteristica del nuovo popolo di Dio. «Mediante il sangue di Gesù» abbiamo parrhsiva eij" th;n ei[sodon twn aJgivwn, «speranza sicura di entrare nel santuario», 10,19. Gli «eredi della promessa» hanno una speranza che è come «un'ancora dell'anima, tanto sicura quanto solida, la quale penetra oltre il velo, là dove è entrato per noi, come precursore, Gesù, divenuto per l'eternità gran sacerdote secondo l'ordine di Melchidesech», 6,19 ss. Ma l'istituzione della speranza, costituisce anche, come si può vedere in 6,20, l'apertura di una via che attraverso Gesù porta a ciò ch'è promesso e sperato. In tal modo il popolo di questa nuova alleanza della promessa e della speranza, la comunità di cui parla Hebr., è il popolo in cammino, «il popolo peregrinante di Dio». Esso ha una meta celeste ed è continuamente in cammino verso questa meta. È così che si parla di ejggivzein, di «avvicinarsi a Dio con una migliore speranza», 7,19, di prosevrcesqai, 4,16; 7,25; 10,1.22; 11,6; 12,18.22, di eijseJrcesqai, 3,11.18.19; 4,1.3.5.6.10.11, ecc. e di uJsterein, 4,1; 12,15, ecc. Ma ancor più significativo è che il popolo peregrinante di Dio, da una parte, è giunto (proselhlu;qate) «alla montagna di Sion e alla città del Dio vivente, la celeste Gerusalemme...», 12,22 ss., e non all'antico Sinai, 12,18 ss. D'altra parte però si può anche dire che «noi non abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella futura», 13, 14, così come viene detto di Abramo: «Egli infatti attendeva la città provvista di fondamenta di cui Dio è l'architetto e il costruttore», 11,10; cf. 11,14.16. Il popolo di Dio è quindi giunto alla città del Dio vivente in quanto si apre alla città

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futura, e viceversa: esso si apre alla futura perché è pervenuto a quella presente. In altre parole, il fatto che la nuova alleanza sia un'alleanza della promessa, ora però della promessa eterna, viene sottolineato accennando alla presenza di ciò che è futuro e al futuro di ciò che è presente. Giungere presso il futuro equivale ad irrompere in esso. Ma come si svolge questo pellegrinaggio del popolo di Dio? In che modo incontra come presente il futuro che ricerca? Ascoltando la voce di Dio, 4,7, ascoltando la predicazione, che ha preso inizio con il Signore e ci è stata trasmessa autenticamente dagli uditori, 2,3 s., obbedendo alla parola viva ed efficace di Dio, cf. 4,12 s., che viene annunciata da coloro che presiedono e dall'autore di questa lettera, 13,7.22, obbedendo così al Figlio, il quale pure ha imparato l'obbedienza diventando così il principio della salvezza, 5,9, credendo in tutto e per tutto. «Chi vuole pervenire a Dio deve credere...», 11,6. «Noi che abbiamo creduto entriamo nel riposo», 4,3, e nella fede otteniamo la vita, 10,39. «Gesù è l'iniziatore e il consumatore della nostra fede», 12,2. Che cosa sia questa fede, il cap. 11 lo dice con abbondanza di particolari ricorrendo a degli esempi dell'AT. 11,1 dice: «La realizzazione nel senso di attualizzazione delle cose che si sperano e la dimostrazione delle cose che non si vedono». I prototipi dell'AT, ricordati, poi, in particolare Noè, Abramo e Mose, confermano che fede e speranza, fede e pazienza sono complementari. «Mediante la fede e la paziente attesa» si ereditano le promesse, 6,12; cf. 10,35 ss. Al centro della fede, se così si può dire, per il nostro autore sta il battesimo. In esso si concentrano provvisoriamente tutte le esperienze della salvezza. Perciò è ad esso che ci si riferisce quando si mette in guardia dall'apostasia e si parla dell'impossibilità di un'altra metavnoia radicale, 6,4 ss.; cf. 12,17. È ancora esso che viene indicato come presupposto per l'ingresso nel santuario, quando si esorta a compiere questo «avvicinamento», 10,22 s. La promessa viene ottenuta solo quando i battezzati proclamano la speranza nella fede. Naturalmente in questa fede, che nella speranza e nella pazienza corre verso la promessa della nuova alleanza, anche tutte le prove della fede sono incluse nell'agire della volontà di Dio. La nostra lettera è scritta come lovgo" th" paraclhvsew" 13,22 appunto per conservare e rafforzare il popolo di Dio in questa fede. E per caratterizzare meglio il pellegrinaggio del popolo di Dio si potrebbe sviluppare più dettagliatamente questa paraclesi. Ma per il nostro scopo può bastare quanto diremo qui di seguito. Le esortazioni in realtà hanno presente davanti a sé la Chiesa in cammino verso la sua meta celeste. Il pericolo che si deve evitare in questo cammino, cioè in fondo la disobbedienza come apostasia dalla fede, 4,11; cf. 3,18, viene spesso descritto con immagini che presentano la Chiesa come una colonna di pellegrini. Coloro che vengono esortati non devono fallire la meta, 2,1, non devono arrestarsi, 4,1, né deviare, 12,12. A questo pericolo i membri del popolo peregrinante di Dio devono far fronte con tutte le forze. L'apostasia per i cristiani è infatti molto più pericolosa che per Israele, 2,2 s.; 10,26 ss.; 12,25 s. E Dio è un giudice infallibile, 4,12 s. È spaventoso cadere nelle sue mani, 10,31. Ma come possono essi far fronte a questo pericolo? «Facendo attenzione a quanto hanno udito», 2,1, come eredi futuri. E ciò concretamente ora significa che essi devono fare buona accoglienza alla parola dell'autore, 13,22, devono ascoltare la parola dei loro capi, 13,7. In questa parola si realizza di continuo l'«oggi» di cui parla Davide: «Oggi, se udite la mia voce, e non indurite i vostri cuori», 4,7; cf. 3,13. Ma questo prestare attenzione a quanto si è udito comporta anche che non ci si lasci «fuorviare da dottrine diverse ed estranee», 13,9. Tale ascolto poi richiede uno sforzo zelante per entrare in «quel riposo», 4,11; cf. 4,1. Esso richiede anche che ci si risvegli dal sonno, 12,12. Ma richiede soprattutto la perseveranza nella confessione, 4,14, che paradossalmente viene definita un «accostarsi al trono della grazia», 4,16. Si tratta della confessione di Gesù Cristo gran sacerdote e della speranza connessa. «Conserviamo indefettibile la confessione della speranza, poiché colui che ha promesso è fedele», 10,23.35 s. In altre parole dalla fede si richiede costanza e fedeltà per il breve tratto di tempo che ancora manca all'apparizione di Gesù Cristo. «Voi avete bisogno di costanza, perché, dopo aver compiuto la volontà di Dio, possiate beneficiare della promessa. Infatti ancora un poco, ben poco tempo, colui che viene arriverà e non tarderà», 10,36 ss.; cf. 12,1. «Noi desideriamo soltanto che ognuno di voi dimostri lo stesso zelo per il pieno dispiegarsi della speranza fino alla fine», 6,11. Noi cristiani siamo casa e compagni di Cristo soltanto se «conserviamo incrollabile fino alla fine la nostra confidenza iniziale», 3,6.14. Al riguardo è di aiuto considerare «l'apostolo e gran sacerdote della nostra professione di fede, Gesù che è stato fedele a colui che lo ha istituito», 3,1 s., «fissare i nostri occhi sul capo della nostra fede, che la conduce alla

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perfezione, Gesù che... ha patito la croce, di cui disprezzò la vergogna e si è assiso alla destra del trono di Dio», 12,2 s. Ma anche «la nuvola di testimoni», 12,1, la cui fede provata viene dif-fusamente presentata nel c. 11, la fede e la condotta dei propri capi, 13,7, come pure quelle dei credenti in generale, 6,12, nonché il comportamento della stessa comunità «nei primi giorni», nei quali ha sostenuto molte battaglie e molte sofferenze, 10,32 ss., possono essere di consolazione e di sprone affinché si perseveri fino alla fine. Ma che cosa caratterizza questo perseverare nella confessione? L'autore scende anche qui nei dettagli, naturalmente senza offrirci un'esposizione completa e ordinata: l'accettazione dell'educazione di Dio, 12,4 ss., il rifiuto del peccato e la lotta fino al sangue contro di esso, 12,1.4, continenza e castità, 13,4, rifiuto dell'avarizia confidando nell'aiuto di Dio, 13,5 ss., la santificazione, 12,14, la riconoscenza per il regno incrollabile che riceviamo e mediante la quale «rendiamo a Dio un culto gradito, con religione e timore», 12,28. Ma si ricordano anche l'amore fraterno, l'ospitalità, l'interessamento per i fratelli carcerati «come se foste prigionieri con essi, per coloro che sono maltrattati», 13,1 ss., la beneficienza e la cura della comunità, 13,16, il non dimenticarsi di frequentare le assemblee della comunità, 10,25, comune sacrificio di lode e la professione della fede, 13,15, il ricordarsi dei capi della comunità, 13,7, e l'obbedienza ad essi, 13,17 e la preghiera per essi, 13,18, ecc. Ma su tutto ciò spicca l'interessamento spirituale della comunità intera per i suoi membri. Il singolo non deve essere lasciato solo e la comunità non deve subire alcun danno interiore da parte dei singoli individui, 3,12 s.; 12,15 s.; cf. 4,1. In senso positivo e quasi in forma di sommario 10,24 afferma: «Facciamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci nella carità e nelle opere buone». Inoltre, alla fine dello scritto, si ribadisce il concetto che è Dio a rendere i cristiani, cui si rivolge la lettera, atti a compiere ogni bene. E non a caso compare anche qui l'immagine del «grande pastore delle pecore» e quindi della comunità in quanto gregge di Cristo, 13,20 s. Sintetizziamo. La figura concreta della Chiesa rimane sullo sfondo. Ma la comprensione della sua essenza può essere ottenuta chiaramente in connessione con il tema fondamentale cristologico. Essa è il popolo peregrinante di Dio, di cui Israele, la sua storia e le sue istituzioni non sono altro che delle copie, degli esempi, dei modelli anticipatori e umbratili. Questo popolo, dopo essere passato attraverso il battesimo, cammina nella speranza e nella pazienza verso il suo fine invisibile, la salvezza. Esso l'ha già incontrata nella fede. Proprio per tale ragione si tratta di non scostarsi da questo futuro ma di rimanervi fedeli in mezzo a tutte le tribolazioni e tentazioni. Soltanto così il nuovo patto della fine dei tempi, istituito da Dio mediante l'autoimmolazione salvifica e liberatrice di Gesù, del «Figlio» e del «gran sacerdote» celeste, viene realizzato con le sue promesse e la comunità si manifesta come la casa di Dio e di Cristo nell'esilio del mondo.