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Tj e complesse reazioni chimiche del- le cellule viventi sono regolate da migliaia di enzimi differenti, ciascuno dei quali catalizza una parti- colare reazione chimica. La cellula tut- tavia, non potrebbe funzionare se essa fosse semplicemente una piccola sacca contenente gli enzimi in soluzione. At- tualmente si sa che la gran maggio- ranza, e forse tutti gli enzimi cellulari, si trovano in un ambiente simile a un gel, o sono assorbiti su membrane che separano fasi distinte, o si trovano in aggregati allo stato solido, come sem- bra essere nei mitocondri e in altri or- ganelli cellulari. La distribuzione topo- grafica degli enzimi nella cellula deve essere estremamente precisa, altrimenti i differenti enzimi, i substrati su cui essi agiscono, le migliaia di prodotti di rea- zione, e le numerose sostanze inibenti reazioni specifiche, si mescolerebbero caoticamente. Fino a poco tempo fa, la maggior parte delle ricerche di la- boratorio sugli enzimi era stata condot- ta con estratti purificati in soluzione acquosa diluita, e perciò in condizioni lontane da quelle che esistono nelle cellule viventi. Attualmente si pensa che probabilmente solo pochi enzimi, i veri enzimi extracellulari, compiano la loro primaria funzione biologica in tali condizioni. In teoria si potrebbero stu- diare gli enzimi intracellulari nel loro ambiente naturale, ricombinando enzi- mi isolati con sostanze gel-simili, o con matrici simili all'ambiente con cui essi sono normalmente associati all'interno della cellula. I progressi in questa di- rezione tuttavia, sono ostacolati da mol- te difficoltà. L'assorbimento di enzimi isolati a matrici artificiali meccanicamente sta- bili, come polimeri idrofili, costituisce una pratica alternativa al metodo ap- pena indicato. Tali sistemi, non solo possono fornire utili modelli del com- portamento degli enzimi nel loro mez- zo naturale, ma anche possono agire da efficienti catalizzatori biologici, 'con molte applicazioni pratiche, anche in campo medico. Sono passati 74 anni da quando Edu- ard Buechner scopri, risultato eccezio- nale per quei tempi, che un estratto di lievito privo di cellule può fermentare lo zucchero ad alcool. Dall'epoca di Buechner in poi, si è visto che gli en- zimi, in seguito identificati come pro- teine, sono i biocatalizzatori responsa- bili delle innumerevoli reazioni che per- mettono la sopravvivenza e la riprodu- zione delle cellule viventi. Nel 1926 James B. Sumner portò avanti le ri- cerche con la cristallizzazione dell'en- zima ureasi, dimostrando con ciò che gli enzimi sono composti chimici ben individuati e perciò possono essere identificati e caratterizzati con precisio- ne. I successivi progressi furono cosí rapidi che nel 1964 gli enzimi ricono- sciuti dalla Commissione Internaziona- le per gli Enzimi raggiungevano il nu- mero di 900, e nel 1968 ne erano co- nosciuti circa 1300. Di circa 20 enzimi, è stata determi- nata la struttura tridimensionale, e un enzima, la ribonucleasi, è stato sinte- tizzato in laboratorio. Èdifficile dire se in passato i ricer- catori si siano interessati agli enzi- mi legati con la speranza di approfon- dire con tale metodo le conoscenze dei meccanismi cellulari, o perché attratti dalle possibili applicazioni pratiche. In ogni caso, questa nuova tecnologia del- le reazioni enzimatiche ha dato l'avvio, in appena cinque anni, a una notevole mole di ricerche. In uno dei primi lavori sugli enzimi legati a matrici, pub- blicato nel 1954, Nikolaus Grubhofer e Lotte Schleit dell'Istituto per la ricerca sui virus di Heidelberg, descrivono la fissazione della pepsina e di altri enzimi al poliamminostirene; essi sembrano in- teressati unicamente alle possibili appli- cazioni tecnologiche del loro nuovo me- todo. Da allora, in molti laboratori, molti ricercatori hanno messo a punto un gran numero di matrici artificiali, e di metodi per legare a queste gli enzimi. Validi contributi sono stati dati dall'é- quipe di Ephraim Katchalsky del Weiz- man Institute of Science, da Jerker Po- rath, Rolf Axen e collaboratori dell'Uni- versità di Upsala, e da un vasto gruppo di ricercatori guidati da Garth Kay e Malcom Lilly dell'University College di Londra. Tra le matrici che hanno avuto suc- cesso vi sono dei gel di destrano con le catene di polisaccaride legate da ponti trasversali (Sephadex), polimeri acrilici con legami trasversali (Biogel), poliam- minoacidi, cellulosa variamente trattata e perfino comuni filtri di carta e vetro. Sono tre i principali metodi per legare gli enzimi alle matrici: il legame chimi- co semplice (covalente), l'adsorbimento (che implica l'attrazione di cariche elet- triche opposte), e l'inclusione dell'enzi- ma in un gel i cui pori siano sufficiente- mente ampi da permettere il libero pas- saggio delle molecole che devono rea- gire (substrato) e del prodotto, ma suf- ficientemente piccoli da trattenere l'en- zima (si veda la figura in alto a pagi- na 67). Un metodo meno comune è quello di convertire le stesse molecole enzimatiche in una struttura insolubile, usando composti bifunzionali per legar- le tra di loro in grandi aggregati. C onsideriamo innanzitutto alcune ri- cerche nelle quali enzimi legati a matrici sono stati usati come modello per le reazioni enzimatiche che avven- gono nella cellula vivente. Una proprie- tà comunemente studiata caratterizzan- do un enzima, è la dipendenza della reazione enzimatica dal grado di acidità o di alcalinità dell'ambiente in cui av- viene la reazione. La valutazione del pH è a b itualmente eseguita con l'enzi- ma disciolto in una soluzione acquosa. Si può ora confrontare, a vari pH, l'attività di un enzima legato a una ma- trice, con l'attività di un enzima libero. Tali studi sui profili di attività enzima- tica pH -dipendente, sono stati sviluppa- ti in particolare da Leon Goldstein del gruppo di Katchalsky. Goldstein osser- va, per esempio, che quando l'enzima tripsina è attaccato a una matrice carica negativamente, la curva dell'attività in funzione del pH è chiaramente spostata verso la parte alcalina; l'enzima legato raggiunge il massimo di attività a un li- vello di alcalinità più alto dell'enzima non legato (si veda la figura in alto a pagina 68). Evidentemente i gruppi carichi nega- tivamente sul polimero matrice attrag- gono un sottile film di ioni idrogeno positivi, creando cosí per l'enzima lega- to, un microambiente che ha una mag- giore concentrazione idrogenionica (pH inferiore), rispetto alla concentrazione della soluzione circostante dove la mi- surazione del pH viene realmente effet- tuata. In altre parole, l'enzima legato, « preferisce » lavorare nello stesso am- biente debolmente alcalino. Ma quando l'enzima è legato a una matrice carica negativamente, il pH del macroambien- te della soluzione è più alcalino del mi- croambiente dell'enzima. Misurando la dipendenza della velo- cità di reazione dalla concentrazione del substrato, si ottiene un'ulteriore confer- ma dell'effetto del microambiente che circonda l'enzima. Per esempio, si può osservare l'effetto di una matrice la cui carica è opposta alla carica del substra- to. Si può prevedere che il microam- biente vicino alla matrice avrà una maggiore concentrazione di substrato della soluzione esterna, in analogia con gli ioni idrogeno dell'esempio preceden- te e ciò si riscontra effettivamente. L'enzima legato a una tale matrice la- vora efficientemente a quella che sem- bra essere una bassa concentrazione di substrato. (Gli enzimologi potrebbero dire che la costante apparente di Mi- chaelis, Km, è bassa). Tali studi evidenziano l'importanza del microambiente quando si consideri- no i processi enzimatici che realmente operano nelle cellule viventi. Per esem- pio, Israel H. Silman del Weizmann In- stitute e Arthur Karlin del Columbia University College of Physicians and Surgeons hanno osservato che il pH ot- timale per l'attività dell'acetilcolina e- sterasi nel suo stato naturale, cioè le- gata alla membrana, è differente dal- l'optimum di pH osservato nelle solu- zioni di enzima libero. Riferendosi ai risultati sopra menzionati, essi attribui- rono le loro inaspettate scoperte agli Sferula contenente un enzima legato vista al microscopio elettronico a un ingrandi. mento di 700 diametri. La matrice è costituita da un copolimero di acrilammide e di acido acrilico. A questo ingrandimento l'enzima, lattico-deidrogenasi, è invisibile. Il deposito corrugato sulla sfera è dovuto a uno strato di formazano, sostanza prodotta dall'azione della lattico-deidrogenasi sul lattato, il composto substrato. Questa microfo- tografia, è ripresa a un ingrandimento di 700 diametri. Ambedue le fotografie sono state eseguite dal collaboratore dell'autore Folke Larsson dell'Università di Lund. Enzimi legati a matrici artificiali Si è recentemente scoperta una tecnica di preparazione che imita la dispo- sizione degli enzimi nella cellula. Gli enzimi cosí ottenuti sono usati come biocatalizzatori nell'industria e offrono nuovi strumenti per la medicina di Klaus Mosbach 64 65

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e complesse reazioni chimiche del-le cellule viventi sono regolateda migliaia di enzimi differenti,

ciascuno dei quali catalizza una parti-colare reazione chimica. La cellula tut-tavia, non potrebbe funzionare se essafosse semplicemente una piccola saccacontenente gli enzimi in soluzione. At-tualmente si sa che la gran maggio-ranza, e forse tutti gli enzimi cellulari,si trovano in un ambiente simile a ungel, o sono assorbiti su membrane cheseparano fasi distinte, o si trovano inaggregati allo stato solido, come sem-bra essere nei mitocondri e in altri or-ganelli cellulari. La distribuzione topo-grafica degli enzimi nella cellula deveessere estremamente precisa, altrimentii differenti enzimi, i substrati su cui essiagiscono, le migliaia di prodotti di rea-zione, e le numerose sostanze inibentireazioni specifiche, si mescolerebberocaoticamente. Fino a poco tempo fa,la maggior parte delle ricerche di la-boratorio sugli enzimi era stata condot-ta con estratti purificati in soluzioneacquosa diluita, e perciò in condizionilontane da quelle che esistono nellecellule viventi. Attualmente si pensache probabilmente solo pochi enzimi, iveri enzimi extracellulari, compiano laloro primaria funzione biologica in talicondizioni. In teoria si potrebbero stu-diare gli enzimi intracellulari nel loroambiente naturale, ricombinando enzi-mi isolati con sostanze gel-simili, o conmatrici simili all'ambiente con cui essisono normalmente associati all'internodella cellula. I progressi in questa di-rezione tuttavia, sono ostacolati da mol-te difficoltà.

L'assorbimento di enzimi isolati amatrici artificiali meccanicamente sta-bili, come polimeri idrofili, costituisceuna pratica alternativa al metodo ap-pena indicato. Tali sistemi, non solopossono fornire utili modelli del com-portamento degli enzimi nel loro mez-

zo naturale, ma anche possono agireda efficienti catalizzatori biologici, 'conmolte applicazioni pratiche, anche incampo medico.

Sono passati 74 anni da quando Edu-ard Buechner scopri, risultato eccezio-nale per quei tempi, che un estratto dilievito privo di cellule può fermentarelo zucchero ad alcool. Dall'epoca diBuechner in poi, si è visto che gli en-zimi, in seguito identificati come pro-teine, sono i biocatalizzatori responsa-bili delle innumerevoli reazioni che per-mettono la sopravvivenza e la riprodu-zione delle cellule viventi. Nel 1926James B. Sumner portò avanti le ri-cerche con la cristallizzazione dell'en-zima ureasi, dimostrando con ciò chegli enzimi sono composti chimici benindividuati e perciò possono essereidentificati e caratterizzati con precisio-ne. I successivi progressi furono cosírapidi che nel 1964 gli enzimi ricono-sciuti dalla Commissione Internaziona-le per gli Enzimi raggiungevano il nu-mero di 900, e nel 1968 ne erano co-nosciuti circa 1300.

Di circa 20 enzimi, è stata determi-nata la struttura tridimensionale, e unenzima, la ribonucleasi, è stato sinte-tizzato in laboratorio.

Èdifficile dire se in passato i ricer-catori si siano interessati agli enzi-

mi legati con la speranza di approfon-dire con tale metodo le conoscenze deimeccanismi cellulari, o perché attrattidalle possibili applicazioni pratiche. Inogni caso, questa nuova tecnologia del-le reazioni enzimatiche ha dato l'avvio,in appena cinque anni, a una notevolemole di ricerche. In uno dei primilavori sugli enzimi legati a matrici, pub-blicato nel 1954, Nikolaus Grubhofer eLotte Schleit dell'Istituto per la ricercasui virus di Heidelberg, descrivono lafissazione della pepsina e di altri enzimial poliamminostirene; essi sembrano in-

teressati unicamente alle possibili appli-cazioni tecnologiche del loro nuovo me-todo. Da allora, in molti laboratori,molti ricercatori hanno messo a puntoun gran numero di matrici artificiali, edi metodi per legare a queste gli enzimi.Validi contributi sono stati dati dall'é-quipe di Ephraim Katchalsky del Weiz-man Institute of Science, da Jerker Po-rath, Rolf Axen e collaboratori dell'Uni-versità di Upsala, e da un vasto gruppodi ricercatori guidati da Garth Kay eMalcom Lilly dell'University College diLondra.

Tra le matrici che hanno avuto suc-cesso vi sono dei gel di destrano con lecatene di polisaccaride legate da pontitrasversali (Sephadex), polimeri acrilicicon legami trasversali (Biogel), poliam-minoacidi, cellulosa variamente trattatae perfino comuni filtri di carta e vetro.Sono tre i principali metodi per legaregli enzimi alle matrici: il legame chimi-co semplice (covalente), l'adsorbimento(che implica l'attrazione di cariche elet-triche opposte), e l'inclusione dell'enzi-ma in un gel i cui pori siano sufficiente-mente ampi da permettere il libero pas-saggio delle molecole che devono rea-gire (substrato) e del prodotto, ma suf-ficientemente piccoli da trattenere l'en-zima (si veda la figura in alto a pagi-na 67). Un metodo meno comune èquello di convertire le stesse molecoleenzimatiche in una struttura insolubile,usando composti bifunzionali per legar-le tra di loro in grandi aggregati.

Consideriamo innanzitutto alcune ri-cerche nelle quali enzimi legati a

matrici sono stati usati come modelloper le reazioni enzimatiche che avven-gono nella cellula vivente. Una proprie-tà comunemente studiata caratterizzan-do un enzima, è la dipendenza dellareazione enzimatica dal grado di aciditào di alcalinità dell'ambiente in cui av-viene la reazione. La valutazione del

pH è a bitualmente eseguita con l'enzi-ma disciolto in una soluzione acquosa.

Si può ora confrontare, a vari pH,l'attività di un enzima legato a una ma-trice, con l'attività di un enzima libero.Tali studi sui profili di attività enzima-tica pH-dipendente, sono stati sviluppa-ti in particolare da Leon Goldstein delgruppo di Katchalsky. Goldstein osser-va, per esempio, che quando l'enzimatripsina è attaccato a una matrice caricanegativamente, la curva dell'attività infunzione del pH è chiaramente spostataverso la parte alcalina; l'enzima legatoraggiunge il massimo di attività a un li-vello di alcalinità più alto dell'enzimanon legato (si veda la figura in alto apagina 68).

Evidentemente i gruppi carichi nega-tivamente sul polimero matrice attrag-gono un sottile film di ioni idrogenopositivi, creando cosí per l'enzima lega-to, un microambiente che ha una mag-giore concentrazione idrogenionica (pHinferiore), rispetto alla concentrazionedella soluzione circostante dove la mi-surazione del pH viene realmente effet-tuata. In altre parole, l'enzima legato,« preferisce » lavorare nello stesso am-biente debolmente alcalino. Ma quandol'enzima è legato a una matrice caricanegativamente, il pH del macroambien-te della soluzione è più alcalino del mi-croambiente dell'enzima.

Misurando la dipendenza della velo-cità di reazione dalla concentrazione delsubstrato, si ottiene un'ulteriore confer-ma dell'effetto del microambiente checirconda l'enzima. Per esempio, si puòosservare l'effetto di una matrice la cuicarica è opposta alla carica del substra-to. Si può prevedere che il microam-biente vicino alla matrice avrà unamaggiore concentrazione di substratodella soluzione esterna, in analogia congli ioni idrogeno dell'esempio preceden-te e ciò si riscontra effettivamente.L'enzima legato a una tale matrice la-vora efficientemente a quella che sem-bra essere una bassa concentrazione disubstrato. (Gli enzimologi potrebberodire che la costante apparente di Mi-chaelis, Km, è bassa).

Tali studi evidenziano l'importanzadel microambiente quando si consideri-no i processi enzimatici che realmenteoperano nelle cellule viventi. Per esem-pio, Israel H. Silman del Weizmann In-stitute e Arthur Karlin del ColumbiaUniversity College of Physicians andSurgeons hanno osservato che il pH ot-timale per l'attività dell'acetilcolina e-sterasi nel suo stato naturale, cioè le-gata alla membrana, è differente dal-l'optimum di pH osservato nelle solu-zioni di enzima libero. Riferendosi airisultati sopra menzionati, essi attribui-rono le loro inaspettate scoperte agli

Sferula contenente un enzima legato vista al microscopio elettronico a un ingrandi.mento di 700 diametri. La matrice è costituita da un copolimero di acrilammide edi acido acrilico. A questo ingrandimento l'enzima, lattico-deidrogenasi, è invisibile.

Il deposito corrugato sulla sfera è dovuto a uno strato di formazano, sostanza prodottadall'azione della lattico-deidrogenasi sul lattato, il composto substrato. Questa microfo-tografia, è ripresa a un ingrandimento di 700 diametri. Ambedue le fotografie sonostate eseguite dal collaboratore dell'autore Folke Larsson dell'Università di Lund.

Enzimi legati a matrici artificiali

Si è recentemente scoperta una tecnica di preparazione che imita la dispo-sizione degli enzimi nella cellula. Gli enzimi cosí ottenuti sono usati comebiocatalizzatori nell'industria e offrono nuovi strumenti per la medicina

di Klaus Mosbach

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Microfotografia di un miscuglio di sferule con o senza enzima legato. Le sfere scuresono costituite da copolimeri di acrilammide e di acido acrilico alle quali è statofissato l'enzima lattico-deidrogenasi a mezzo di una carbodiimmide. Le sfere chiaresono prive di enzima. Le sfere con l'enzima legato sono scure (in realtà blu) per lapresenza di formazano che forma un precipitato blu in presenza di blu di tetrazolio.

Se una soluzione di un enzima non legato, lattico-deidrogenasi, viene incubata con latta.to, si ottiene formazano uniformemente distribuito su tutta l'area della microfotogra-fia. L'ingrandimento di 70 diametri è due volte maggiore di quello della microfotogra-fia in alto. Ambedue sono state eseguite da E. Carlemalm dell'Università di Lund.

a

BROMURO DI CIANOGENO

2

POLIMERIZZAZIONE>

n

„. t

In questo schema sono illustrati alcuni metodi usati per legareenzimi a matrici o includerli in un gel. Per formare un legamechimico con un gel di destrano (Sephadex) (a), due ossidriliadiacenti (OH) del gel possono reagire con bromuro di cia-nogeno e poi combinarsi con l'amminogruppo (1111N-1 dell'en-

zima. In b l'enzima è legato al gruppo carbossilico (COOH) del-la matrice (un copolimero acrilico) dopo trattamento con di-cicloesilcarbodiimmide. In e l'enzima è rappresentato in solu.zione con molecole di un monomero (1) e dopo che i monomerisono stati polimerizzati a formare un gel di poliacrilammide (21.

CARBODIIMMIDE

O NH

— C—O — C + H2N

NH+

1+

•NH

—CONH—@b + C=0 + H

N H

O NIl Il

—C--OH + C + H+

N

a

Abitualmente si usano tre metodi per legare enzimi a matrici. L'enzima (E) può esserelegato alla matrice (M) con legami chimici (a). L'enzima può essere mantenuto al suoposto dall'attrazione di cariche elettriche opposte, fenomeno conosciuto come adsor-bimento (b), oppure l'enzima può essere incluso nella struttura di un gel (c) i cuipori siano sufficientemente ampi da permettere al substrato e al prodotto in cui essoviene trasformato, di entrare e uscire liberamente. Le regioni colorate dell'enzima rap-presentano i siti attivi, dove l'enzima compie la sua azione catalitica sul substrato.

effetti del pH locale nella membranacellulare.

Questi modelli di studio possono es-sere applicati anche nel campo di ricer-ca riguardante le reazioni responsabilidel metabolismo cellulare, per esempiola sequenza di tappe con le quali il glu-cosio è demolito ad anidride carboni-

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ca e acqua con liberazione di energia.La maggior parte delle centinaia di rea-zioni enzimatiche che avvengono entrola cellula, sono organizzate in sequen-ze, spesso cicliche, nelle quali il pro-dotto di una reazione serve come sub-strato per la successiva. Gli enzimi chepartecipano alla reazione devono essere

ordinati in una esatta sequenza all'in-terno della cellula o, perlomeno, devo-no essere raggruppati in determinatezone. Sorsero immediatamente due pro-blemi strettamente connessi: quale fos-se l'effetto del microambiente in talisistemi, e quanto la distanza tra singolienzimi in una sequenza, influisse sul-l'efficienza del sistema.

Nel tentativo di rispondere a questiinterrogativi il mio collega Bo Mattias-son e io, all'Università di Lund, abbia-mo recentemente legato due enzimi,esocinasi e glucosio-6-fosfato deidroge-nasi a una stessa matrice costituita dauna sferetta di un polimero (si veda lafigura in basso a pagina 68). Il pro-dotto della prima reazione enzimatica,glucosio-6-fosfato, serve come substra-to per il secondo enzima. Paragonandol'efficienza del sistema dei due enzimilegati a una stessa matrice all'efficien-za degli stessi due enzimi non legati,in soluzione omogenea, abbiamo rileva-to che, nello stadio iniziale, il sistemadei due enzimi legati era due volte piùefficiente degli enzimi in soluzione, eche in nessuno stadio il sistema erameno efficiente degli enzimi in soluzio-ne. La nostra interpretazione è che, acausa della vicinanza dei due enzimisulla matrice, il prodotto della primareazione, glucosio-6-fosfato, è disponi-bile in una maggiore concentrazioneper il secondo enzima. La vicinanzadei due enzimi non può essere però ilsolo fattore in gioco; quando si agitala sospensione delle particelle di ma-trice, esse sono circondate da una « pa-lizzata» di molecole di acqua (stratolimite) che impedisce la diffusione delprodotto della prima reazione nel mez-zo circostante. In tal modo la concen-trazione del substrato disponibile per laseconda reazione, è maggiore nel mi-croambiente della matrice, di quellache si potrebbe rilevare misurando laconcentrazione del substrato anche auna breve distanza da essa. Una logicaconclusione è che la velocità delle rea-zioni enzimatiche delle cellule viventinon è determinata dalla concentrazionedi tutto il substrato nella cellula, o an-che in una piccola regione di essa, madalla concentrazione del substrato nel-l'immediata vicinanza dell'enzima e daaltre condizioni del microambiente.

Passiamo ora dalla teoria a qualcheapplicazione pratica degli enzimi legatia una matrice. Un crescente numero diprocessi industriali dipende dalla atti-vità catalitica operata da enzimi natura-li. Paragonata con la normale catalisichimica, la biocatalisi ha il vantaggio dipermettere di eseguire la reazione incondizioni blande e di ottenere spessoun'alta specificità. Tuttavia l'uso indu-striale di biocatalizzatori è stato finora

limitato dall'alto costo degli enzimi stes-si e dalla difficoltà di separarli dal pro-dotto finale. Legando gli enzimi a unamatrice insolubile tali limitazioni posso-no essere superate. Una colonna riem-pita con enzimi legati a sferette di unamatrice solida può essere usata più vol-te, e il prodotto che si ottiene non ècontaminato dall'enzima. Un ulteriorevantaggio è che gli enzimi, in molti ca-si, risultano più stabili se legati a unamatrice.

Per illustrare questa nuova tecnolo-gia descriverò un progetto su cui Per--01°f Larsson e io abbiamo lavoratoper qualche tempo nel nostro labora-torio in collaborazione con la ditta far-maceutica CIBA. Il problema venneposto circa 20 anni fa, molto primache io cominciassi a occuparmene,quando si trovò che il cortisolo era unpotente farmaco nel trattamento del-l'artrite reumatoide. Il cortisolo appar-tiene alla famiglia degli ormoni steroi-dei prodotti dalla corteccia della ghian-dola surrenale. Nel procedimento ori-ginale di sintesi del farmaco era neces-sario aggiungere al materiale di parten-za, un atomo di ossigeno o un gruppo

te è stato scoperto che l'idrossilazionein posizione 11-beta per produrre cor-tisolo partendo dal Composto S, mate-riale a basso costo, può essere effettua-ta biologicamente in un'unica tappa,con l'aiuto dell'enzima idrossilasi chesi trova in alcuni funghi.

Quando si rimuovono due atomi diidrogeno dalla posizione 1-2 dell'anelloA del cortisolo, si ottiene il predniso-lone, sostanza dotata di proprietà tera-

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ossidrilico (OH) in una particolare po-sizione della molecola, denominata 11--beta; ciò è risultato essenziale per lasua attività fisiologica. L'introduzionecon i soliti metodi chimici di gruppifunzionali in posizioni specifiche dimolecole complesse come gli steroidi,richiede spesso un gran numero di pas-saggi intermedi con l'eventualità di in-desiderate reazioni collaterali e conuna resa finale scarsa. Più recentemen-

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CONCENTRAZIONE IDROGENIONICA (pH)

Quando la tripsina (E) è legata a una matrice carica negativamente si ha una variazio-ne nel profilo di attività. Come mostra lo schema in alto, la matrice alza la concen-trazione locale di ioni H a un livello superiore a quello della soluzione esterna doveil pH viene misurato. In tal modo (curve in basso) l'attività massima della tripsina le-gata si esplica in una soluzione apparentemente più alcalina della tripsina non legata.

NADP+

> NADPH+ H+

GLUCOSIO

ATPH K

> ADP

GLUCOSIO-6-FOSFATO

G-6-PDH 0\

GLUCONOLATTONE-6-FOSFATO

Due enzimi legati a una stessa matrice risultano due volte più efficaci nell'iniziare unareazione di un sistema in cui gli enzimi sono liberi in soluzione. Il primo enzima eso-cinasi (HK) converte il glucosio a glucosio-6-fosfato, consumando energia e un fosfatofornito dall'adenosin-trifosfato (ATP). Il secondo enzima, glucosio-6-fosfato deidrogenasi(G-6-PDH), trasforma il prodotto della prima reazione in un gluconolattone-6-fosfatocon l'intervento del coenzima nicotinammide-adenin-dinucleotide fosfato (NADP÷).

100

90

80

70

60

50

40

30

20

10

o4 6 7 8 9 10 11

TRIPSINA LIBERA

/TRIPSINA LEGATA

COMPOSTO S

1213

C

14

10 8A

3 5 7O W

CH2OH

C=0

--OH17D 16

15

000000000

000000

000000

000000

000000

0000 0 0

° 0o

a 11-5--IDROSSILASI

000000000

000000

000000

000000

000000

0000O 000o

A1-2DEIDROGENASI

v CH2OH

C=0PREDNISOLONE

HO

peutiche superiori a quelle del cortiso-lo nel curare l'artrite reumatoide. Sitrovò in seguito che si poteva condur-re tale reazione con un migliore rendi-mento, usando un altro biocatalizzato-re, una deidrogenasi di origine batte-rica. Nel processo originale la reazioneveniva condotta esponendo il substrato(cortisolo) all'azione di microorganismiintatti. Ne derivava il grosso problemadi separare il prodotto finale da unagrande massa di batteri. Il nostro con-tributo alla soluzione del problema fudi isolare l'enzima desiderato, una ste-roide deidrogenasi, e di includerlo inuna matrice consistente in un gel idro-filo. La reazione può ora essere con-dotta in una colonna riempita con l'en-zima incluso nella matrice; la velocitàdi flusso del substrato è regolata inmodo tale che tutto il cortisolo cheentra nella colonna sia trasformato inprednisolone.

Quando si abbia a che fare con en-zimi che sono o altamente instabili odifficili da isolare è anche possibileusare cellule intatte incluse in un gel.Questo procedimento è stato preferitoper l'idrossilazione del Composto S acortisolo, provocata da un batterio. Intale modo abbiamo ottenuto un proces-so continuo in due tappe per la con-versione biocatalitica. del Composto S acortisolo e del cortisolo a prednisolone(si veda la figura a fronte).

Si può supporre che quasi tutte lemolecole, compresi per esempio i com-plessi antibiotici, possano essere sinte-tizzate almeno in parte per passaggiodi un conveniente materiale di parten-za attraverso una serie di colonne enzi-matiche, ciascuna delle quali effettuauna singola trasformazione con rendi-mento elevato. Un esempio di ciò chepuò essere ottenuto con questo proce-dimento è stato dato recentemente daHarry D. Brown e collaboratori dellaColumbia P & S. Essi disposero ordina-tamente all'interno di una colonna iquattro differenti enzimi che partecipa-no alla demolizione naturale dello zuc-chero: esocinasi, fosfoglucoisomerasi,fosfofruttocinasi e aldolasi. Versando ilglucosio alla sommità della colonna es-so viene trasformato in quattro tappesuccessive nell'atteso prodotto finale: lagliceraldeide-3-fosfato.

Attualmente esistono in commerciodiversi enzimi incorporati in matrici ar-tificiali, la maggior parte dei quali ser-vono per la demolizione parziale di so-stanze proteiche. t giusto dire che latecnologia enzimatica ha ricevuto unaenorme spinta dall'introduzione di tec-niche per legare gli enzimi a svariatematrici. La nuova tecnologia delle rea-zioni enzimatiche potrà essere poten-ziata migliorando la stabilità degli en-

zimi legati a polimeri, sviluppando ul-teriormente metodi a basso costo perisolare su vasta scala gli enzimi da ma-teriali biologici, e proseguendo sulla viadella sintesi degli enzimi stessi su sca-la commerciale usando, per esempio, latecnica della sintesi in fase solida svi-luppata da R. B. Merrifield della Ro-ckefeller University, che si presta auna conduzione automatizzata.

Anche l'analisi biochimica offre note-voli possibilità di applicazione per

le tecniche basate sugli enzimi legati auna matrice. I metodi enzimatici sonosempre piú usati come strumenti anali-tici, soprattutto per le analisi biologiche.L'uso di sistemi enzimatici in fase soli-da mostra anche in questo caso i van-taggi che si riscontrano nelle applicazio-ni sopra descritte. Inoltre, l'interferenzadovuta a proteine presenti nella soluzio-ne da analizzare, cosa che spesso creaproblemi nell'usuale analisi enzimatica,può essere evitata quando l'enzima siatrattenuto in una matrice solida. Duestudi recenti indicano quel che si stafacendo in questo campo. Il primo ri-guarda un test molto sensibile per de-terminare la presenza di acqua ossi-genata (H20 2) in soluzione, messo apunto da Howard H. WeetaIl e Nor-man Weliky del Jet Propulsion Labo-ratory. In presenza dell'enzima perossi-dasi e di acqua ossigenata, si può ossi-dare una sostanza incolore che diventaimmediatamente blu. Per semplificarela procedura di analisi, l'enzima è le-gato alle fibre cellulosiche di strisce dicarta. L'analisi si effettua macchiandola striscia con la sostanza incolore econ una piccola dose di soluzione incui si suppone sia contenuta acqua os-sigenata. L'entità dell'ossidazione dipen-de dal contenuto di acqua ossigenatadel campione. L'intensità del colore for-nisce quindi una determinazione rapi-da e semiquantitativa dell'acqua ossige-nata fino a concentrazioni dell'ordinedi 0,03 microgrammi per millilitro.

Il secondo esempio è la messa a pun-to di elettrodi enzimatici fatta da StuartJ. Updike e John W. Hicks dell'Univer-sità del Wisconsin. L'elettrodo è coper-to semplicemente da un sottile velo diun polimero in cui si include l'enzima.In tal modo l'elettrodo rappresenta untrasduttore chimico in miniatura chefunziona combinando un processo elet-trochimico con l'attività di un enzimaimmobilizzato. George G. Guilbault eJoseph H. Montalvo della LouisianaState University hanno applicato questoelettrodo enzimatico per determinarel'urea nei fluidi biologici. Nel loro pro-cedimento l'enzima ureasi è incluso inuna membrana di poliacrilammide chericopre con uno strato spesso circa 0,1

mm un elettrodo sensibile agli ioni am-monio (NH4 ± ). In presenza di ureasi,urea e acqua reagiscono formando ioniammonio e ioni bicarbonato (HCO3-).La concentrazione degli ioni ammonioche si stabilisce alla superficie dell'elet-trodo permette una determinazione in-diretta dell'urea presente nel campionein esame (si veda la figura a sinistra apagina 70). Tale metodo è analogo aquello impiegato per la determinazionedella concentrazione di ioni idrogenocon un elettrodo di vetro. Gli elettrodienzimatici possono essere impiegatiininterrottamente per tre settimane, atemperatura ambiente, senza perdita diattività.

L'uso di enzimi legati a matrici forni-sce notevoli possibilità di ricerca

anche in campo medico. Sono cono-sciute piú di 120 anomalie e malattieche possono essere riferite a errori con-geniti del metabolismo. Un vasto nu-mero di queste è dovuto a deficienzeenzimatiche, in quanto alcuni enzimiche normalmente si trovano nell'orga-nismo sono difettosi o inattivi. Una del-le malattie di questo tipo meglio cono-sciuta è la fenilchetonuria, che porta alritardo mentale. Si pensa che la malat-tia sia causata dalla mancanza di unenzima che introduce un gruppo ossi-drili co nell'amminoacido fenil al anina,convertendolo quindi a tirosina. Attual-mente i bambini con tale malattia so-no sottoposti a una costosa dieta privadi fenilalanina.

Un risultato migliore si otterrebbe ri-fornendo il paziente dell'enzima man-cante. Le proteine estranee potrebberoperò produrre immediatamente unareazione immunologica avversa nel pa-ziente che le ricevesse, ma la reazionepotrebbe essere prevenuta includendol'enzima in un gel. Gli enzimi possonoessere inclusi in piccolissime sferettepolimeriche semipermeabili che per-mettono al substrato di diffondere al-l'interno e al prodotto di diffondere al-

Si possono ottenere steroidi attraverso duesemplici tappe utilizzando enzimi legati amatrici, mentre con i convenzionali proce-dimenti chimici sarebbero necessarie mol-te tappe con un basso rendimento. Il ma-teriale di partenza, conosciuto come Com-posto S, è un semplice steroide che sitrova in natura. Nella fase a l'enzima 11--beta idrossilasi legato a un gel inserisceun gruppo ossidrilico (OH) in posizione11 dell'anello C dello steroide. Il cortisoloprodotto è uno stretto parente del corti-sone. Nella fase b, l'enzima 11 deidroge-nasi, sempre legato a un gel, rimuove idue atomi di idrogeno dal cortisolo stabi-lendo un doppio legame (in colore) nel-l'anello A con formazione di prednisolone,più efficace del cortisone o del cortiso-lo nel trattamento dell'artrite reumatoide.

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ELETTRODODI VETRO

STRATODI GEL

CON UREAS

UREA

l'esterno. Le sferette possono essere in-trodotte direttamente nel circolo san-guigno del paziente, dove possono ri-manere attive per un tempo considere-vole, oppure possono essere poste inun contenitore collegato col sistema cir-colatorio. Tuttavia i problemi da risol-vere non sono semplici. Per esempio,i processi enzimatici come la conver-sione di fenilalanina a tirosina, spessorichiedono la partecipazione di coenzi-mi, che debbono essere legati all'enzi-ma. Recentemente noi siamo riusciti alegare un coenzima, la nicotinamideadenin-dinucleotide, a una matrice po-limerica in modo da mantenere la suaattività coenzimatica. Sono sicuro chequesto tipo di ricerca sta aprendo lavia più promettente per trattare le ma-lattie da deficienza enzimatica fino aquando l'ingegneria genetica, cioè la di-retta modificazione del patrimonio ge-netico dell'organismo, possa offrirci unasoluzione.

Enzimi legati a matrici sono stati uti-lizzati per la costruzione di un nuovotipo di rene artificiale che è stato pro-vato l'anno scorso, per la prima volta,su di un paziente con insufficienza re-nale. Come agente per eliminare le so-stanze tossiche disciolte nel sangue,

Thomas M. S. Chang della McGillUniversity ha impiegato microcapsulecostituite da piccolissime sfere di car-bone attivato rivestito da una sottilepellicola di collodio. Le microcapsulevenivano poste in una camera collega-ta col circolo sanguigno del paziente.Tale sistema rappresenta una valida al-ternativa al massiccio e costoso appa-recchio di dialisi normalmente impie-gato come rene artificiale. Poiché la ca-pacità del carbone di rimuovere sostan-ze tossiche è piuttosto aspecifica, laprossima tappa consisterà nel sostituirele palline di carbone con enzimi incap-sulati, selezionati per la loro capacitàdi rimuovere specifiche sostante tossi-che e di lasciare inalterate altre deter-minate sostanze presenti nel circolo san-guigno. Se per esempio si incapsulassel'enzima ureasi si potrebbe convertirel'urea in ioni ammonio e ioni bicarbo-nato (si veda la figura in basso a de-stra). Gli ioni ammonio piuttosto tossi-ci possono essere rimossi a loro voltacon una sostanza che assorbe l'ammo-niaca o con un secondo enzima, comela glutammico-deidrogenasi, che utiliz-za l'ammoniaca per formare compostiorganici azotati.

Le tecniche sopra riferite sono state

studiate con lo scopo di preparare «cel-lule artificiali » o importanti parti dicellule. L'anno scorso, per esempio,Grazia L. Sessa e Charles Weissmanndella New York University School ofMedicine hanno incorporato l'enzimalisozima in piccole sfere di fosfolipidi,producendo in tal modo un liposoma,un organello artificiale con alcune pro-prietà dell'organello chiamato lisosoma.

L'idea generale di legare materiali bio-logici a matrici solide ha avuto una

parte importante per lo sviluppo di unanuova tecnica di separazione cromato-grafica. Illustrerò tale tecnica con l'e-sempio seguente. Si sa che per la mag-gior parte degli enzimi esistono inibi-tori specifici che agiscono bloccando ilsito attivo dell'enzima. Generalmente ilcomplesso enzima-inibitore si forma fa-cilmente e facilmente si dissocia.

Nel corso di alcune ricerche Hansvon Fritz e collaboratori dell'Universi-tà di Monaco si trovarono a dover se-parare due inibitori enzimatici, presen-ti nel pancreas, aventi peso molecolaresimile. Uno non era specifico in quan-to inibiva sia l'alfa-chimotripsina sia latripsina, due enzimi che demoliscono leproteine; l'altro era specifico per la

La determinazione dell'urea nei fluidi corporei può essere com-piuta rivestendo un elettrodo di vetro con un sottile strato digel dello spessore di circa 0,1 mm al quale è fissato l'enzimaureasi. L'enzima catalizza la reazione tra l'urea e l'acqua performare ioni ammonio (NH 4 )+ e ioni bicarbonato (HCO 3 -). Lamisura della concentrazione dell'urea presente nel campione inesame è fornita dalla variazione del potenziale dell'elettrododovuta agli ioni ammonio che si sono formati all'interno del gel.

Con un nuovo tipo di rene artificiale costituito da un recipientecontenente microcapsule che racchiudono l'enzima ureasi, èpossibile rimuovere l'urea dai fluidi corporei. L'enzima è ingrado di convertire urea e acqua in ioni ammonio e ioni bi.carbonato. Le microcapsule possono inoltre contenere un pro.dotto per assorbire l'ammoniaca o un secondo enzima per rimuo•vere gli ioni ammonio. Nel corso di esperimenti clinici è statausata polvere di carbone come sostanza assorbente l'ammoniaca.

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o • •o • •

VARIAZIONE

v

DI pH

NUMERO DI FRAZIONI

Il metodo della cromatografia per affinità si serve di enzimi o di altri materiali biolo-gici legati a granuli polimerici per separare una o più sostanze da un miscuglio com-plesso. In questo esempio i polimeri trasportano un inibitore che forma un complessocon l'enzima alfa-chimotripsina. Nella fase I è stata versata nella colonna una soluzionecontenente una piccola quantità dell'enzima (in colore) insieme a altri enzimi (in ne-ro). Nella fase 2 l'alfa-chimotripsina è trattenuta sui grani mentre gli altri enzimi pas-sano liberamente. Il liquido raccolto contiene tutti gli enzimi tranne l'alfa-chimotripsina(curve in basso). Nella fase 3 questo enzima viene separato mediante una soluzione acida.

1 2 3• • • •• ••• •• • •.*

g

ENZIMI LEGATI A MATRICE ANTIGENI LEGATI A MATRICE

PURIFICAZIONE DI INIBITORI PURIFICAZIONE DI ANTICORPI

INIBITORI LEGATI A MATRICE

PURIFICAZIONE DI ENZIMI

Rappresentazione schematica delle varie applicazioni della cromatografia per affinità.In teoria si può estrarre qualunque sostanza da un miscuglio attaccando il giusto« aggancio » alla matrice adatta. Nel disegno un enzima, un antigene, un inibitoreenzimatico e un anticorpo isolano sostanze per le quali hanno un'affinità naturale.

ANTICORPI LEGATI A MATRICE

gAbC

PURIFICAZIONE DI ANTIGENI

tripsina. Per separare le due sostanze,gli studiosi di Monaco impiegarono unacolonna riempita con alfa-chimotripsi-na legata a una matrice; quando si fapassare attraverso la colonna una solu-zione contenente i due inibitori,bitore non specifico viene trattenuto,mentre quello specifico per la tripsinapassa oltre nella colonna. In seguitol'inibitore non specifico può essere elui-to dalla colonna con un agente disso-ciante il complesso enzima-inibitore. Sipuò facilmente osservare che con unprocedimento inverso sarebbe possibileriempire una colonna con un inibitorelegato a una matrice capace di separa-re un enzima specifico da un complessomiscuglio di enzimi. Questo risultatofu ottenuto per la prima volta nel 1953da Leonard S. Lerman dell'Universitàdi Chicago. Da allora questa tecnicacromatografica è stata ampiamente svi-luppata in molti laboratori, in partico-lare da Christian B. Anfinsen, PedroCuatrecasas e Meir Wilchek del Natio-nal Institute of Arthritis and MetabolicDiseases. In un interessante lavoro essihanno usato un inibitore legato per for-mare un complesso con l'alfa-chimo-tripsina e in tale modo separabile daun miscuglio. Tuttavia essi scoprironoche quando l'inibitore era attaccato di-rettamente alla matrice (un gel di poli-saccaride) esso non era attivo. Nel cor-so di esperienze successive essi osser-varono che l'inibitore avrebbe potutofunzionare se lo si fosse potuto distan-ziare mediante l'inserzione di una cor-ta catena di atomi di carbonio dellalunghezza di circa sette angstrom. Ap-parentemente ciò rende il sito attivodell'enzima, il cui diametro è all'incircadi 40 angstrom, più accessibile all'inibi-tore (si veda la figura in alto a sinistra).

La cromatografia per affinità si è di-mostrata utile anche nel campo del-l'immunologia, dove spesso è impor-tante separare un particolare tipo dianticorpo da un miscuglio estrema-mente complesso di queste molecolechiave del sistema immunologico (si ve-da l'articolo Struttura e funzione deglianticorpi, di Gerald M. Edelman, in« Le Scienze », n. 27, novembre, 1970).Ciò è stato ottenuto abbastanza sempli-cemente usando matrici che inglobanol'antigene corrispondente all'anticorpodesiderato; viceversa, anticorpi legati amatrici possono essere impiegati perisolare il loro antigene specifico (si ve-da la figura in basso a sinistra). In talemodo la cromatografia per affinità ag-giunge al grande numero dei differentimetodi di purificazione a disposizionedei biologi, un nuovo e sofisticato pro-cedimento che permette la separazionespecifica di molecole biologiche, in ba-se alla loro funzione.

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