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Filomena - Rivista di Bilbolbul - N.2: Paola Villani, BeMyDelay, il reading, l'off

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Passeggiate guidate: Paola Villani e Marcella Riccardi aka BeMyDelay ci accompagnano in alcune mostre OFF( Guido Volpi, La Trama, Virginia Mori, Ana Juan). Maffucci discute della forma reading in musica, Mauro Nanfitò racconta perché e come gli interessano gli OFF

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Ci aggiriamo per le mostre off con due artiste non provenienti dal disegno in cerca di assonanze, spaesamenti e letture tangenziali: Paola Villani, fondatrice del gruppo teatrale pathosformel e Marcella Riccardi, titolare del progetto musicale solista BeMyDelay

Il pezzo mancante della collezione / Paola Villani

Treni, Guido Volpi, Modo InfoshopCon pathosformel abbiamo lavorato sul concetto di collezione. Di ogni collezione possiamo parlare solo alla fine, per dargli un senso. Qui mi colpisce l’idea del fronte treno a cui manca il resto: da un lato c’è una immagine antropomorfa, inevitabilmente associabile a una collezione di ritratti fatti di segni scherzosi e non drammatici. Eppure vedo il fronte, il punto di scontro, quindi la velocità e la violenza. Nella parte di mostra in libreria ci sono disegni “da soli” che sembrano più tristi. Se un pezzo della collezione si trova insieme ad altri è parte di un insieme, trova il suo senso con gli altri. Se è da solo resta sé stesso, come questi treni in libreria: maschere antropomorfe che ridono tristi in un angolo. Penso al lavoro di Evan Penny, ai suoi busti in silicone iperrealisti di proporzioni però sballate. Visi a volte esili e filiformi che pensiamo di vedere in prospettiva, ma da vicino ci si accorge che le proporzioni sono del tutto innaturali. Il suo è un iperrealismo abnorme, che provoca le vertigini: pensiamo di potere dare per certa e scontata la riproduzione del volto umano, invece non la riconosciamo più, anche grazie alla collezione. La collezione sembra portare con sé un vincolo assoluto. In realtà ogni pezzo ridefinisce ciò che guardi, il suo fascino è scoprire un nome nuovo da dare alla serie ogni volta che aggiungi un pezzo: il singolo concorre ma non definisce. In libreria si avverte questa atmosfera da periferia urbana, da stazione, perché i treni parlano più nella loro singolarità. Nel bar vedi invece l’insieme. Forse è il suo senso, anche nell’allestimento: nel bar c’è una massa di persone e voci, e così i treni devono “parlare” tutti insieme.

Incidi-me, La Trama, SerendipitàLe mostre collettive mi lasciano spaesata, non riesco a trovare i fili delle cose, un dialogo fra le opere. Sono portata a dover dire “bello o brutto”. Qui è interessante poter vedere gli originali e le stampe. La matrice ha uno splendore che la stampa a mio avviso non può raggiungere, è lo strumento che contiene la bellezza del disegno, è il procedimento alla quale viene sottoposta la realtà per avvicinarsi a ciò che si cerca. Mi affascinano i procedimenti che necessitano di una parte strumentale, non diretta, e che lasciano un margine di errore, di fuori controllo e incoerenza. Amo molto il lavoro di Toccafondo, per esempio. Il margine di scarto che lascia nelle sue opere, lo “scatto” tra un fotogramma e l’altro riporta a una dimensione di umanità assoluta. Le tecniche fotografiche oggi sembrerebbero potere dire: «vedo e posso tenere». Non mi interessa. L’iperrealismo è troppo corretto, cerca una giustezza che non riproduce nulla di veramente umano.

Pathosformel è un progetto di arti performative nato a Venezia nel 2004. Riconsidera la presenza umana e la sua immagine sulla scena. Paola Villani è artista teatrale, set designer e videoanimatrice: pathosformel.org, paolavillani.com

Visite guidate. Sguardi nell’Off

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Title: Quando suono ho sempre gli occhi chiusi / A Walk with BeMyDelay

The artist: BeMyDelay è il progetto solista di Marcella Riccardi (Blake/e /e/e, Franklin Delano, Massimo Volume), cantante e chitarrista. Il suo interesse per il blues arcaici e la musica avventurosa è il terreno per costruire una raccolta di canzoni che sa di blues speri-mentali, droni vocali, acustica pareidolia. La voce è usata come uno strumento, che segue i loop delle chitarre e i loro ritardi. myspace.com/bemydelay

Intro: Marcella è una musicista che vive in mezzo ai disegnatori bolognesi, e il suo ul-timo disco ToTheOtherSideΔ è illustrato da Andreco: «Ogni volta concepire l’artwork è una questione problematica. Sono circondata dai disegnatori, è vero, ed è un mondo che guardo con rispetto. Di Andreco mi piaceva la simbologia oscura e misteriosa.» La musica e il fumetto lavorano su due sensi diversi, udito e vista, ma hanno in comune la parola composizione: «Però ci sono vari modi di comporre. Uno più deciso nel quale si cerca di raggiungere una determinata idea e un altro più casuale dove le sensazioni si inseguono, e non si filtrano in modo cervellotico. È vero che ‘composizione’ è una parola che si usa anche per dire ‘disegno la musica’.»

Virginia Mori, Confezioni ParadisoSoundtrack suggested: Fursaxa

Questi disegni sono belli, però l’immaginario è un po’ giovanile, con l’inquietudine del-le turbe della crescita. Mi interessa di più la sua tecnica, l’uso certosino della bic nera. Quell’erba, quelle pareti, la ragazza che viene risucchiata dentro il grammofono... sono dei disegni notevoli. Guardare questa mostra per me è come ascoltare una band che fa troppo riferimento a un genere che è già stato fatto. Mi pone dei confini su un immagi-nario che è solo quello, gotico, alla Tim Burton. Preferisco le opere senza confini definiti.

Ana Juan, Pinacoteca NazionaleSoundtrack suggested: Grouper. Ma anche Father Murphy; musiche giocattolo con melodie per bambini ma inquietanti; Goblin (autori delle colonne sonore dei film di Dario Argento).

Ana Juan è il capo del gotico! Quello che che mi sembra che possa legare Virginia Mori e Ana Juan è una visione tragica della favola dell’infanzia. I disegni della Juan sono molto belli, mi piace molto il suo lavoro sulle sfumature e sui dettagli, ma ho ancora un pro-blema di immaginario. Quello che ci salva è la marionetta dell’ubriacone con la bottiglia nascosta, che scopri solo tirando la cordicina. È l’ironia che ci risolleva. Credo che una nota, così come un tratto, siano sorgenti di un percorso ma possano anche venire usate in modo diverso. Ana Juan mostra una chiarezza d’intenti, sapeva già che cosa voleva di-segnare, mentre io non ho mai idea di che cosa arriverò a fare quando comincio, i dettagli arrivano dopo. Non comincio mai una canzone pensando di fare un corvo. Ana Juan mi trascina in un mondo che non è solo quello di Snowhite, ma anche in Alice nel paese delle meraviglie, che ha molto a che fare con me: è il paradosso. È ciò che di inquietante che ti accade quando sei aperto e vai alla scoperta di mondi: ti ritrovi troppo piccolo in un mon-do troppo grosso e troppo grande in un un mondo piccolo.

Thanks to: Alice Milani and Silvia Rocchi, the followers.

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Un piccolo nodo, un quasi-tabù. Contesto: musica popolare di stampo anglosassone reiterata e riproposta in Italia. Canzone, indie rock. Le strade per la lingua sono molte ma ne primeggiano due: italiano e inglese. Italiano: (1) esprimi contenuti, e quasi automaticamente sbilanci la tensione dell’orecchio verso di essi; (2) non esprimi contenuti che non siano pronomi o avverbi (es.: Verdena), e fai sì che il suono prevalga, col risultato collaterale di generare giovani mostri. In inglese, chiaramente non hai le spalle larghe abbastanza per permetterti un lessico che sia insieme genuino, di cuore e di pancia (che è quanto ci interessa. Björk piace o schifa, ma è planetaria anche se non è statunitense) ed elaborato, a meno che tu non sia madrelingua o faccia il furbo con Wordreference (caso, questo, che non ci garba troppo contemplare). Kazu Makino dei Blonde Redhead, gruppo sistematicamente bastardo, disse una volta con candore apprezzabile che fosse stato per lei, cantante, non ci sarebbe stato bisogno di articolare suoni diversi da “la la la”. Si parla di canzonette, mica di trattatelli.La scintilla innesca il fuoco quando la mescola è sapientemente bilanciata. Rock indipendente e declamazione vanno di pari passo in felice connubio. Solo per restare in territori più o meno emiliano-marchigiani: i CCCP ne hanno anticipato le possibilità, gli Starfuckers/Sinistri in un certo senso lo hanno codificato, i Massimo Volume lo hanno perfezionato e portato a un grado di coerenza tuttora commovente, gli Offlaga Disco Pax l’hanno recuperato e rinverdito di tappeti electrici (e magari ora Max Collini “canticchia”, come da “Rolling Stone” di marzo), gli Uochi Toki tentano il salto e ci riescono, pur giocando di logorrea e accumulo: il singolo nuovo “Ecce robot” spiega la questione in meno di cinque minuti. Critici maliziosi si fanno avanti: non sarà imperizia canora o compositiva camuffata da buone qualità di scrittore? Enrico Veronese su “Blow Up” dice dei Piet Mondrian: bravi, ma se scrivevano racconti invece che canzoni forse era meglio.La forma-reading, luogo confinante con la forma-canzone, vorrebbe scardinare questa sudditanza della parola mettendola bella comoda di un’alcova di suoni (sovente zerbineschi). Ma qualora non suffragato da un portato di suono almeno equivalente, ciò risulta di per sé un po’ tristanzuolo. (Accetto gli sproloqui di Remo Remotti giusto perché è lui e perché si accompagna a un dj di musica house bello, muscoloso, di sessant’anni più giovane, e pare di essere a margine di un banchetto di Trimalcione, ma non per altri motivi.) La pompa dei poeti dei primi novecento registrati al reading di sé stessi (Montale, Quasimodo, Eliot, ...) è sopra le righe ma brucia di mistero: dispiace che quella sola-voce abbia ceduto il passo all’usanza delle letture musicate (i festival di poesia degli anni zero eccetera) sdoganando certo jazzettino etno-simbolista di cui non si sa che fare.Il motivo per cui non ho voglia di leggere un romanzo è perché nessuno ha voglia di leggerlo ad alta voce per me. Desidero delegare tutto all’udito, capire anche al buio

Sul leggere parole mescolando ciò con altri tipi di suoniin attesa di Clementi/Pilia/Sommacal/Canicola

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se mi va. (Ok, la questione degli audiolibri.) L’esercizio che uno si dovrebbe imporre al cospetto di una forma-reading, soprattutto qualora condotta da un artista che si presume lavorare prevalentemente con la ricerca di un suono  è semplice: queste parole che sto udendo e su cui per forza mi sto concentrando guadagnano in forza e qualità della penetrazione grazie ai suoni che le accompagnano? Potrebbero esse avere energia equivalente anche qualora private del contesto musicale circostante?

Lorenzo Maffucci

Off we goCome ogni anno, la lenta processione del BilBOlbul comincia a muovere i primi passi, e come ormai è consuetudine, a fare da apripista nei giorni che ne precedono l’apertura ufficiale sono le realtà emergenti che Bologna, storicamente e tradizionalmente florida da questo punto di vista, continua a produrre. Imbastire su due piedi una pagina di organica critica tecnica dell’intero circuito Off del Festival, sarebbe, con ogni probabilità, nient’altro che un tentativo pretenzioso di divulgazione culturale spicciola: troppe le mani, e troppe le teste che vi stanno dietro. Troppo diversi i luoghi, che per la maggior parte non nascono come locali espositivi e ai quali le opere in mostra, giocoforza, finiscono spesso per essere sacrificate. Soprattutto, troppa gente in troppo poco spazio; ma questa è indubbiamente la parte migliore. Perché il punto di forza dei quattro giorni che il BilBOlbul dedica agli spazi Off è il fenomeno sociale, sono le inaugurazioni degli esordienti, e tutto e quello che sta dietro alla loro organizzazione. Il tam-tam degli eventi, in gran parte autogestito al di fuori dei canali del festival. L’entusiasmo di creare qualcosa che non sfiguri (troppo) di fronte al circuito ufficiale. Le trovate espositive da due soldi, eppure efficaci. Le chiacchiere del dietro-le-quinte, con un bicchiere di bianco in mano. Un sacco di alcool buttato giù a stomaco vuoto, prima di trasferirsi in massa verso la successiva inaugurazione. Chiudere tutto e, a fine serata, ritrovarsi al bar a discutere di com’è andata. L’occasionale, a volte persino proficuo, scambio di battute con un ospite che si trova lì per partecipare al “vero” festival. Niente più che facezie, apparentemente, ma è proprio questo che rende Bologna un retroterra unico nella realtà delle autoproduzioni: se puoi passare la serata a bere insieme a un nuovo autore che fino ad allora non conoscevi, invece di scoprirlo mentre espone durante una fiera, allungarti rapidamente al di sopra del suo banchetto e tendergli una manciata di euro per poter riportare a casa uno dei suoi lavori, è più probabile che la cosa finisca per avere un seguito, e che possa gettare le basi di un’amicizia, di una futura collaborazione o, magari, di una durevole antipatia reciproca… la rivalità, del resto, è un’ottima motivatrice.E se durante il festival avremo spazio e tempo abbastanza per soffermarci su ogni lavoro e torneremo a guardare quelle mostre con più attenzione, schivando il libraio di turno per arrivare alle opere, forse non sarà per questo che negli ultimi giorni di Febbraio abbiamo “aspettato il BilBOlbul”.

Mauro Nanfitò