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http://www.fisicamente.net/ FISICA/ MENTE GEORGE BERKELEY Roberto Renzetti 0 - INTRODUZIONE Devo occuparmi di Berkeley anche se non è propriamente uno scienziato. Egli si occupa di scienza ma da un punto di vista filosofico ed è d'interesse soprattutto per alcune critiche che mosse, soprattutto, alla fisica di Newton che furono riprese successivamente da altri, filosofi e scienziati. Per molti aspetti Berkeley, del quale mi tratterò solo ciò che più direttamente riguarda la critica alla scienza ed anche alla conoscenza scientifica, riprende cose già sostenute sia da Descartes che da Locke. Per Locke la sostanza delle cose è inconoscibile, sono cioè inconoscibili la materia e lo spirito. Berkeley fa un passo avanti e nega addirittura l'esistenza della materia. Per Descartes e Locke noi percepiamo solo le idee ed il problema della conoscenza si pone nei termini delle idee che le cose producono in noi, anche se ciò non vuol dire conoscere la natura delle cose. Per Berkeley quelle cose che producono le idee non esistono perché per esistere occorre essere percepiti e http://www.fisicamente.net/ (1 of 42)23/02/2009 10.53.42

FISICA/ MENTE - - News 2 · FISICA/ MENTE GEORGE BERKELEY ... senso di cristianizzazione) dei selvaggi americani. ... 2 - IL DE MOTU E LA NATURA DELLE SCIENZE EMPIRICHE

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FISICA/MENTE

GEORGE BERKELEY

Roberto Renzetti

0 - INTRODUZIONE

Devo occuparmi di Berkeley anche se non è propriamente uno scienziato. Egli si occupa di scienza ma da un punto di vista filosofico ed è d'interesse soprattutto per alcune critiche che mosse, soprattutto, alla fisica di Newton che furono riprese successivamente da altri, filosofi e scienziati. Per molti aspetti Berkeley, del quale mi tratterò solo ciò che più direttamente riguarda la critica alla scienza ed anche alla conoscenza scientifica, riprende cose già sostenute sia da Descartes che da Locke. Per Locke la sostanza delle cose è inconoscibile, sono cioè inconoscibili la materia e lo spirito. Berkeley fa un passo avanti e nega addirittura l'esistenza della materia. Per Descartes e Locke noi percepiamo solo le idee ed il problema della conoscenza si pone nei termini delle idee che le cose producono in noi, anche se ciò non vuol dire conoscere la natura delle cose. Per Berkeley quelle cose che producono le idee non esistono perché per esistere occorre essere percepiti e

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noi percepiamo le idee non le cose. Anche il tatto e la vista forniscono idee alla nostra mente ma solo idee in quanto, nell'ipotesi assurda che esistesse materia dovremmo ammettere che la materia agisce sullo spirito, il che è impossibile.

Si tratta di problematiche tipicamente filosofiche che, come vedremo, saranno anche dell'empiriocriticista Mach. Non ho alcuna pretesa di entrare in modo utile dentro tali problematiche e non lo farò. Partirò invece dalla biografia di Berkeley e dalle critiche di maggiore interesse che egli svilupperà.

1 - VITA ED OPERE DI BERKELEY

George Berkeley nacque il 12 marzo 1685 a Kilcrene nella Contea di Kilkenny e crebbe nel castello di Dysart (vicino Thomastown) nell'Irlanda già devastata dalla guerra di religione tra i cattolici autoctoni sostenitori degli Stuart ed

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Rovine del Castello di Dysart

i protestanti anglicani invasori sostenitori della rivoluzione di Guglielmo III d'Orange. La sua famiglia era di origine inglese e quindi, come abbiamo visto per Boyle, egli si trova nella condizione di straniero della minoranza dominatrice e portatore di una diversa cultura. La cosa gli procurò disagio anche se, per tutta la sua vita, egli si proclamò irlandese. Fece i suoi studi prima a Kilkenny quindi, nel 1700, al Trinity College di Dublino, dove studiò matematica, lingue (latino, greco, francese ed ebraico), logica e filosofia (Locke e Malebranche), e si laureò nel 1704. Rimase ancora tre anni al Trinity per studiare per conto proprio fino a quando non ottenne nel 1707 il titolo di Junior Fellowship. Seguì poi legato al College fino al 1724 quando fu promosso arciprete. In questi anni aveva lasciato spesso l'Irlanda proprio per quel senso di disagio che provava alternando lunghi viaggi (tra il 1713 ed il 1720) e soggiorni a Londra (tra il 1713 ed il 1720). Le mete dei suoi viaggi, fatti come cappellano di famiglie nobili, furono la Francia e l'Italia (abbiamo un suo quaderno di appunti pubblicati postumi nel 1871 con il titolo di The Philosophical

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Commentaries, che raccontano anche questo viaggio). Nel 1709 fu ordinato diacono, nel 1710 prete anglicano, nel 1724 fu promosso arciprete di Derry (fino al 1734, anche se non dimorò quasi mai a Derry) e successivamente, nel 1734, vescovo di Cloyne.

Il vescovo Berkeley

La sua prima opera, An Essay toward a New Theory of Vision, è del 1709

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ed è già un manifesto del suo credo filosofico, l'immaterialismo (non esiste il mondo percepito in sé ma solo la sua percezione, esse est percipi). E' una sorta di trattato di psicologia sperimentale e filosofia in cui si discute di come percepiamo, con la vista, la distanza, le dimensioni e la posizione degli oggetti. Altre sue opere che svilupparono la sua filosofia sono: A Treatise Concerning the Principles of Human Knowledge (1710), opera principale di Berkeley che contiene l'esposizione

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completa del suo pensiero; Three Dialogues between Hylas and Philonous (1713); esposizione divulgativa del suo pensiero in cui Philonus (amante della mente) disquisisce con Hylas (materia) vincendo su tutti i fronti; De motu (1721), in cui Berkeley fornisce in modo dettagliato il suo punto di vista sulle scienze della natura; Alciphron: or the Minute Philosopher (1732) una difesa del cristianesimo dal libero pensiero; The Analist (1734), in cui, rivolgendosi ad un matematico infedele (forse Halley) ed ai matematici stranieri (Leibniz), discute su alcune questioni che sorgono negli infinitesimi dell'analisi matematica. Intanto, nel 1721 Berkeley, era tornato a Dublino dove ebbe il titolo di Dottore in Teologia, Da qui passò subito in Gran Bretagna per dedicarsi ad un suo progetto che era in accordo con analoghi progetti del tempo: la civilizzazione (nel senso di cristianizzazione) dei selvaggi americani. Aveva progettato di costruire un College alle Bermude che servisse allo scopo e ottenne promesse di sostegno da Lord Percival al quale aveva scritto nel 1723. Altre promesse arrivarono da privati, la Camera dei Comuni stanziò allo scopo 20 mila sterline ed il Re Giorgio I si disse disposto a sostenere

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l'impresa.

Il vescovo Berkeley

Attese che qualche promessa avesse esito positivo e nel 1728, deluso ed arrabbiato, dopo essersi sposato, partì ugualmente per l'America. E si fermò a Newport, in Rhode Island attendendo una data (il 1731) che gli era stata fatta per ricevere i fondi. Qui comprò una fattoria e si costruì una dimora, Whitehall (che, restaurata, ancora esiste). Di questo periodo è l'Alcifrone, opera che oggi non ha particolare interesse. Passata la data attesa, regalò i libri che aveva portato con sé allo Yale College di New Haven (dove aveva conosciuto Samuel Johnson), e resosi conto di non avere ulteriori speranze, tornò a Londra dove si trattenne per

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Whitehall, Newport (Rhode Island, USA)

un poco di tempo prima di sistemarsi definitivamente in Irlanda come vescovo di Cloyne, carica che mantenne fino alla sua morte nel 1753.

2 - IL DE MOTU E LA NATURA DELLE SCIENZE EMPIRICHE

Occorre iniziare con il dire che Berkeley, che lo aveva studiato a fondo, stimava profondamente Newton, contrariamente a tutti gli altri scienziati che considerava insignificanti ed esperti in nullerie, e continuamente ha modo di esaltarlo come risulta dai suoi appunti pubblicati postumi. Leggiamo qui che Berkeley dice di aver lavorato moltissimo per studiare Newton, per comprendere le opere di questo grande autore e per cogliere la logica dei suoi principi ... di modo che se non lo capisco non è colpa ma disgrazia mia. Ed ancora: Newton è un filosofo di una nazione vicina ammirato da tutti ... un matematico straordinario, naturalista profondo, persona di grande capacità ed erudizione.

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Sembra di poter dire che Berkeley avesse un sincero interesse per la scienza sperimentale. Nelle stesse note pubblicate postume si può leggere: Raccomandare ed accettare sommamente la filosofia sperimentale. Ed egli studiò i Principia di Newton e forse anche l'Ottica. Il primo di questi testi era, soprattutto all'epoca, estremamente complesso e pochi potevano davvero dire di averlo capito. Da come Berkeley lo discute sembra proprio che quel testo fu da lui capito ed egli ebbe modo di sostenere che le scoperte sperimentali di Newton erano veri e validi contributi alla conoscenza umana.

Questa premessa è utile per capire che Berkeley non assunse la posizione di chi discute i risultati della ricerca scientifica ma di chi si sforza per dimostrare che tali risultati potevano e dovevano essere interpretati d'accordo con la sua filosofia e cioè indipendentemente dall'assunzione di un mondo materiale indipendente. E' qui evidente, come del resto abbiamo visto discutendo di Newton, che le critiche di Berkeley si appuntano proprio su quella parte non fisica ma metafisica di Newton: il suo postulare spazi, tempi e movimenti assoluti.

Berkeley si muove nel suo A Treatise Concerning the Principles of Human Knowledge (in seguito: Treatise) con una posizione scettica verso la possibilità della scienza di conoscere il mondo proprio perché vi è un giudizio a priori su di esso che riguarda la sua realtà (0). Secondo il suo punto di vista il mondo fisico è accessibile ai sensi e quindi non vi sono dubbi sulla sua esistenza; ma se il mondo dovesse essere di una materia impercettibile ed inimmaginabile, differente dall'idea che abbiamo di materia, allora si che vi sarebbero motivi per dubitare della sua esistenza. E fin qui quanto sostenuto dal nostro è una riproposizione di quanto sosteneva Locke anche se è un ragionamento un poco debole in quanto non è che poco più dell'affermare che le nostre idee semplici devono discendere da una qualche causa. E Locke giustifica la sua posizione con il ragionamento seguente. La vera essenza degli oggetti fisici che si studiano è la disposizione e l'organizzazione degli atomi che li costituiscono ma, poiché

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non abbiamo occhi che possano arrivare fin lì, non vi è alcuna possibilità di conoscere attraverso le scienze fisiche. Non sto qui a discutere questi semplicismi di Locke (gli atomi a cui si riferisce nel suo tempo sono semplici parti della fantasia che non hanno riscontri sperimentali in alcun luogo della scienza fisica e tantomeno chimica; l'intero ragionamento è quindi una obiezione non già alle scienze della natura ma ad un discorso tutto interno alla speculazione filosofica) ma tento invece di capire come Berkeley vada oltre. Per il nostro il mondo fisico non è inaccessibile alla nostra conoscenza come lo era per Locke. Esso è invece accessibile e quindi si tratta di definire i contorni di questa accessibilità. Nel Treatise dice Berkeley:

Tutte le nostre idee ... sono evidentemente inattive ... di modo che un'idea ... non può produrre nessuna alterazione su un'altra idea ... Giacché le idee nel loro insieme ed ognuna delle parti che le compongono esistono solo nella mente, segue che in esse non vi è nulla se non ciò che è percepito; chiunque presti attenzione a queste idee, siano dei sensi o della riflessione, non percepirà in esse alcuna potenza o attività ... di conseguenza dobbiamo concludere che l'estensione, la forma ed il movimento non possono essere la causa delle nostre sensazioni ... Ciò che percepiamo è una continua successione di idee.

E poiché le idee non si generano le une con le altre(1), devono essere provocate dall'unico agente causale che conosciamo, lo spirito.

Scopo della scienza non è allora né investigare una natura che va al di là delle nostre idee né scoprire relazioni casuali, sia tra materia e materia, sia tra materia ed idee, sia tra idee. Lo scienziato ha il compito che Berkeley gli assegna nel Treatise:

Se consideriamo la differenza esistente tra i filosofi naturali e gli altri uomini rispetto alla loro conoscenza dei fenomeni, scopriremo che consiste,

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non in una conoscenza più esatta della causa efficiente che li produce - essa non può essere infatti altro che la volontà di uno spirito - ma solo una comprensione più ampia, mediante la quale, nelle opere della natura, si scoprono analogie, armonie, concordanze e si spiegano gli effetti particolari o si riducono a regole generali.

Quindi, metafisicamente, lo scienziato non fa altro che investigare l'opera di Dio per scoprire i suoi disegni. Ma poi, analiticamente e praticamente, lo scienziato scopre delle regolarità nella successione delle idee e nel fare ciò non fa una cosa diversa da quello che fa ciascuno uomo che apprende dall'esperienza, solo che fa ciò in modo più sistematico (una definizione di scienza empirica appunto che consisterebbe nella descrizione ingenua dei fatti). Inoltre lo scienziato empirico unifica fenomeni apparentemente diversi, come fece Newton mettendo insieme la spiegazione della mela che cade, delle maree prodotte dalla Luna, dei pianeti orbitanti, fenomeni cioè già noti ma solo (sic) organizzati in un'unica legge, la gravitazione universale. In definitiva la spiegazione scientifica, per Berkeley, non consiste nel fornire una causa efficiente (essa è Dio) o una mera descrizione dei fenomeni ma nella riduzione a regole generali dei fenomeni medesimi.

Il De Motu(2) specifica meglio questa posizione entrando in dettagli tratti dai Principia di Newton. Avverto che queste posizioni furono poco considerate ai tempi di Berkeley (troppo grande era l'astro di Newton per poter obiettare qualcosa) ma riprese dai positivisti e dagli empiriocriticisti come Mach.

La meccanica dei Principia viene discussa da Berkeley con l'armamentario filosofico al quale ho accennato. In meccanica si utilizzano spesso termini come spazio, tempo, massa, forza, attrazione, gravità, ... che senso hanno tali parole per Berkeley ? Sono idee o definizioni associabili ad una qualche entità non specificata ? Ha senso utilizzarle visto il suo immaterialismo(3) ? Leggiamo cosa scrive Berkeley:

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Forza, gravità, attrazione e altre parole simili sono utili per calcolare e ragionare sopra il movimento ed i corpi in movimento; ma non per comprendere la semplice natura del movimento o per designare altre qualità differenti. [...]

Per comprendere la vera natura del movimento sarebbe di grande aiuto distinguere, in primo luogo, tra i modelli matematici e la natura delle cose; in secondo luogo, guardarsi dalle astrazioni; in terzo luogo, considerare che il movimento è qualcosa di sensibile, o almeno immaginabile; e, in ultimo luogo, contentarsi delle misure relative. Se faremo tutte queste cose, non solo manterremo integri i celebrati teoremi della meccanica, per mezzo dei quali si rivelano i segreti della natura ed il sistema del mondo risulta sottomesso al calcolo umano, ma libereremo anche lo studio del movimento da incontrollabili pedanterie, sottigliezze ed idee astratte. [...]

Tutte le forze attribuite ai corpi sono ipotesi matematiche e non forze di attrazione che risiedono nei pianeti e nel Sole. Inoltre le entità matematiche non possiedono un'essenza certa nel mondo della natura, ma dipendono dalle concezioni di colui che le definisce, di modo che lo stesso fenomeno può spiegarsi in varie maniere. [...]

I principi della meccanica e le leggi universali del movimento che così felicemente furono scoperte nel secolo passato, confermate ed applicate con l'aiuto della geometria, hanno introdotto una notevole chiarezza nella scienza. Ma i principi metafisici e le vere cause efficienti del moto e l'esistenza dei corpi e delle loro proprietà, in alcun modo sono parte della meccanica o della scienza sperimentale.

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E' questo il modo con cui Berkeley coniuga la sua analisi della scienza tra positivismo e teismo. Ed anche sulla critica dell'esistenza reale delle ipotesi matematiche, Berkeley afferma che il problema neppure si pone. Fa l'esempio dei sistemi tolemaico e copernicano e dice che affinando meglio il primo si può tranquillamente arrivare al secondo; con ciò che senso ha dire quale dei due è vero ?

Ma la critica più importante ai Principia di Newton è quella relativa ai fondamenti medesimi dell'intera meccanica newtoniana ed in particolare allo spazio e tempo assoluti definiti da Newton in modo diverso da spazio e tempo relativi.

Si può capire ogni discorso che ci dica che una persona sta ferma o si sta muovendo rispetto ad un dato oggetto (noi quando siamo fermi rispetto alla Terra, risultiamo in moto intorno al Sole); cosa sia invece lo spazio ed il tempo assoluti, per di più con lo spazio ereticamente definito da Newton come sensorium dei, è un vero mistero.

Berkeley affronta il problema della dinamica newtoniana nel Treatise, alle questioni 97-99, 101-102, 106-117. Seguiamolo nelle sue argomentazioni. Berkeley inizia a ricordare le cose che afferma Newton ed in particolare il fatto che spazio, tempo, luogo e movimento, siano essi assoluti o relativi, hanno una esistenza indipendente dalla loro comprensione e devono essere concepite solo in relazione alle cose sensibili (sui significati di tali concetti rimando a quanto ho detto su Newton). Qui Berkeley è deciso nel sostenere che non può esistere il moto se non è relativo. Infatti per concepire il moto è necessario disporre almeno di due corpi le cui distanze o posizioni relative subiscano variazione. Se esistesse infatti un solo corpo non sarebbe possibile alcun moto. Il moto di un corpo per Berkeley è quindi solo in relazione ad un qualcosa che deve essere considerato fisso e, di conseguenza, non vi è alcuna differenza tra il preteso moto relativo e quello assoluto. E si inserisce qui la polemica con la secchia di Newton. Per Berkeley, infatti, perché si possa parlare di corpo in moto sono necessarie due condizioni: il suo cambiamento di posizione rispetto ad un altro e l'esistenza di una forza

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impressa. E nel caso della secchia i due requisiti non sono realizzati. Per Berkeley, quindi, non vi è alcuna necessità di spazio assoluto; per le esigenze della fisica basta uno spazio relativo determinato dal cielo delle stelle fisse. Ma seguiamo l'intero insieme dei suoi ragionamenti. Egli, dopo aver detto cosa pensa di un tempo assoluto,

98 - Per conto mio, tutte le volte che tento di formare un'idea semplice del tempo astratto dalla successione di idee nella mia mente, di un tempo che scorrerebbe uniformemente ed al quale parteciperebbero tutti gli esseri, mi perdo e mi involgo in difficoltà inestricabili. Io non ho nessuna nozione di esso. [...]

dice:

106 - [...] Nella questione della gravitazione o attrazione reciproca, siccome essa appare in molti casi, alcuni sono proclivi a dirla senz'altro universale, e ad affermare che l'attrarre e l'essere attratto da ogni altro corpo è una qualità essenziale, inerente a qualsivoglia corpo. E' invece evidente che le stelle fisse non hanno nessuna tendenza di questo genere le une verso le altre, e la gravitazione è tanto lontana dall'essere essenziale ai corpi che in certi casi sembra manifestarsi un principio decisamente contrario: come nel crescere perpendicolare delle piante e nell'elasticità dell'aria.

e, dopo averci ricordato che tutto ciò dipende solo dalla volontà dello spirito governatore, Berkeley prosegue:

112 - Ma nonostante [l'ammissione del moto assoluto di Newton] devo confessare che non mi sembra che ci possa essere altro moto che quello relativo: cosicché per concepire il movimento devono venir concepiti almeno due corpi che variano di distanza o posizione l'uno rispetto

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all'altro. Quindi se non esistesse altro che un corpo, esso non potrebbe venir mosso. Questo mi sembra evidentissimo perché l'idea che ho di movimento coinvolge necessariamente una relazione.

114 - [...] Ma gli scienziati che hanno maggiore estensione di pensiero e idea più giusta del sistema delle cose, scoprono che anche la terra stessa è in movimento, e quindi, per poter fissare le loro nozioni, sembra che essi considerino finito il mondo corporeo e che le pareti o l'involucro estremo e immobile di esso siano il luogo per mezzo del quale essi misurano i movimenti reali. Se esploriamo a fondo le nostre concezioni, credo che troveremo che ogni moto assoluto di cui possiamo formarci un'idea, non è in fondo altro che un moto relativo definito in questo modo. Infatti, come ho già detto, un movimento assoluto che escluda ogni relazione esterna è incomprensibile; e se non mi sbaglio, si troverà che con questa specie di moto relativo si accordano tutte le proprietà, le cause e gli effetti che vengono attribuiti al moto assoluto, come si è ricordato sopra. Quanto a ciò che si dice della forza centrifuga, che essa non appartenga affatto ai moti circolari relativi, io non vedo come questo consegua dall'esperimento che si porta in campo per dimostrarlo [quello della secchia]. L'acqua nel vaso, al momento in cui si dice che abbia il massimo moto circolare e relativo, non ha, penso, nessun movimento, come è evidente dal paragrafo precedente. 115 - Infatti per dire che un corpo «è in movimento», si richiede in primo luogo che esso cambi la sua distanza o posizione rispetto a qualche altro corpo; in secondo luogo che ad esso venga impressa una forza che produce questo cambiamento. Se manca l'una o l'altra di queste

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condizioni, non credo che si possa dire che un corpo è in movimento senza offendere il senso comune e la proprietà del linguaggio. Ammetto bensì che ci è possibile pensare che si muova un corpo che vediamo cambiar di distanza da qualche altro anche se ad esso non viene impressa una forza (in questo senso può esistere un moto apparente): ma in questo caso ciò avviene perché noi immaginiamo che la forza che produce il cambiamento di distanza sia impressa a quel corpo che pensiamo si muova. Questo prova, è vero, che noi possiamo ritenere erroneamente che è in movimento una cosa che non si muove: ma non dimostra affatto che, secondo la comune concezione di «movimento », un corpo si muova soltanto perché cambia di distanza da un altro: infatti, appena veniamo disingannati e scopriamo che la forza motrice non era comunicata a esso, non riteniamo più che esso venga mosso. E così pure, supponendo che esista soltanto un corpo e che le parti di esso conservino fra di loro una posizione data, c'è qualcuno che pensa che esso si possa muovere in tutte le direzioni anche senza cambiare di distanza o di posizione rispetto a un altro corpo. Questo non lo negheremo, se essi intendono soltanto dire che questo corpo unico può avere una forza impressa capace di produrre certi movimenti di intensità determinata dalla mera creazione di altri corpi. Ma ciò che non posso comprendere, lo riconosco, è che in un solo corpo possa darsi un moto attuale, diverso dalla forza impressa o potenza capace di produrre cambio di luogo, nel caso in cui esistessero altri corpi per mezzo dei quali si potesse definire la situazione. 116 - Da quanto esposto segue che la dottrina filosofica che riguarda il movimento non implica l'esistenza di uno spazio assoluto, separato da quello che percepiscono i sensi e che si relaziona

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con i corpi; il quale non può esistere fuori della mente [...].

E raffinando la nostra analisi, forse arriviamo a provare che non possiamo formarci un'idea dello spazio puro prescindendo da ogni corpo: ciò, bisogna riconoscerlo, sembra impossibile, perché è un'idea estremamente astratta.

Non senza aver individuato nelle forze (ed in tal senso anche la gravità), che in Newton sono cause reali di movimenti, delle qualità occulte. Le forze non sono infatti elle grandezze osservabili e debbono quindi essere considerate solo come qualcosa di strumentale. La scienza diventa quindi utile per fare previsioni ma non ci dice nulla sulla realtà delle cose. Ma, sorprendentemente e nonostante tutto ciò, non si può non riconoscere che la teoria di Newton porta a risultati corretti. E per comprendere come sia possibile,

è della massima importanza ... distinguere fra le ipotesi matematiche e la natura delle cose ... Se osserviamo questa distinzione, tutti i noti teoremi della filosofia meccanica, che ... consentono di sottoporre il sistema del mondo ai calcoli dell'uomo, possono essere conservati; e, nello stesso tempo, lo studio del moto sarà affrancato da un gran numero di banalità e sottigliezze inutili, e da idee astratte.

Ed a tal proposito si può concludere, con Popper, che

quei principi della teoria newtoniana che «sono stati dimostrati mediante esperimenti» - le leggi del moto Che descrivono semplicemente le regolarità osservabili nel movimento dei corpi - sono veri. Ma la parte della teoria che comporta i concetti sopra criticati - spazio assoluto, moto assoluto, forza, attrazione, gravità - non è vera, trattandosi di «ipotesi matematiche». Come tali, comunque, esse non dovrebbero venire respinte, se

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funzionano bene (come nel caso della forza, della attrazione, della gravità). Lo spazio assoluto e il moto assoluto, invece, devono essere respinti, perché non funzionano (saranno sostituiti dal sistema delle stelle fisse, e dal moto relativo a detto sistema). «"Forza", "gravità", "attrazione", e termini come questi sono utili ai fini del ragionamento e per il calcolo dei moti e dei corpi in movimento; essi tuttavia non ci aiutano a comprendere la semplice natura del moto stesso, né servono a designare altrettante qualità distinte ... Quanto all'attrazione, è chiaro che non fu introdotta da Newton come reale qualità fisica, ma unicamente come ipotesi matematica».

3 - IL THE ANALIST, OVVERO: IL RUOLO DELLA MATEMATICA

Berkeley intervenne sui due fronti allora aperti nella matematica, quella tradizionale e quella che si apriva proprio con Newton (le flussioni) e con Leibniz (il calcolo infinitesimale). Egli affermò che vi erano errori logici in ambedue le matematiche ed addirittura, nel Treatise, arrivò a proporre versioni completamente differenti dell'aritmetica ed algebra da un lato e della geometria dall'altro. Successivamente lasciò in pace la geometria ma mantenne ferme le sue posizioni su aritmetica ed algebra. La posizione di Berkeley potrebbe oggi essere chiamata formalista. Poiché egli sosteneva che le parole sono idee, la domanda è relativa a cosa denotano, ad esempio i nomi dei numeri, visto che non esistono idee di numeri. Anche qui le cose hanno un senso solo perché le applicazioni funzionano ma i teoremi aritmetici non hanno assolutamente senso. A partire dalla questione 108 del Treatise, Berkeley dice:

118 - Facciamo ora qualche ricerca sull'altro

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grande ramo della scienza speculativa, cioè sulle matematiche. Queste, per quanto siano celebrate per la loro chiarezza e per una certezza di dimostrazione che è difficile trovare altrove, non si possono tuttavia considerare affatto libere da sbagli se nei loro principi si nascondesse qualche segreto errore che i maestri di questa scienza hanno in comune col resto dell'umanità. Benché i matematici deducano i loro teoremi partendo dalla massima evidenza, tuttavia i loro primi principi sono limitati dalla considerazione delle quantità; ed essi non ascendono fino allo studio di quelle massime trascendentali che influiscono su tutte le scienze particolari, ogni parte delle quali, comprese le matematiche, partecipa quindi degli errori impliciti in esse. Non neghiamo che siano veri i principi stabiliti dai matematici e che sia chiaro e incontestabile il loro metodo nel trar deduzioni da quei principi; ma riteniamo che possano esserci certe massime erronee più estese che non sia l'oggetto delle matematiche le quali perciò non vengono espressamente menzionate benché vengano tacitamente supposte in tutto il processo di questa scienza, e riteniamo che i cattivi effetti di questi errori nascosti e non esaminati si diffondano per tutti i rami delle matematiche. Per dirlo chiaramente, sospettiamo che i matematici siano implicati non meno profondamente degli altri uomini negli errori che sorgono dalla dottrina delle idee generali astratte e dall'esistenza di oggetti fuori della mente. 119 - Si è pensato che l'aritmetica abbia per suo oggetto idee astratte di numero e si suppone che sia compito non trascurabile della conoscenza speculativa comprendere le proprietà e i mutui rapporti dei numeri. L'opinione che la natura dei numeri in astratto sia pura ed intellettuale, ha fatto sì che essi venissero tenuti in stima da quei filosofi che hanno preteso a una straordinaria

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finezza ed elevatezza di pensiero. Questa opinione ha dato valore alle speculazioni numeriche più insignificanti, che non hanno nessuna utilità pratica ma servono soltanto per divertimento, ed ha quindi infettato le menti di certuni tanto che essi hanno pensato che nei numeri siano nascosti potenti misteri, e hanno tentato la spiegazione delle cose naturali per mezzo di essi. Ma se investighiamo accuratamente il nostro pensiero e consideriamo quanto si è premesso, arriveremo forse ad avere una bassa opinione di questi alti voli e astrazioni, e considereremo tutte le ricerche sui numeri solo come difficiles nugae, in quanto non servono alla pratica e non fanno progredire il benessere della vita.

120 - [...] Il numero si definisce come una collezione di unità; e non esistendo l'unità o l'uno in astratto, dobbiamo concludere che non esiste il numero in astratto, che possa essere rappresentato da cifre o da nomi.

Di conseguenza le teorie aritmetiche, se si esplicitano in cifre e numeri e prescindono da ogni uso pratico ... sono carenti di oggetto.

Vediamo quindi che la scienza dei numeri viene interamente subordinata al pratico e quanto vuota e triviale risulta se la si prende come materia di mera speculazione.

Date queste premesse è inutile perder tempo nello studiare teoremi e problemi aritmetici di nessun valore pratico. Ed è anche inutile studiare una geometria interamente fondata su idee astratte:

123 - Dai numeri passiamo a parlare dell'estensione che è oggetto della geometria. La divisibilità infinita della estensione finita, benché non sia espressamente affermata né come assioma

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né come teorema negli elementi di quella scienza, tuttavia in tutto lo sviluppo di essa vien sempre supposta, e si pensa che abbia una connessione così inseparabile ed essenziale con i principi e le dimostrazioni della geometria che i matematici non la mettono mai in dubbio né la discutono affatto. Questa idea, mentre è l'origine di tutti quei divertenti paradossi geometrici che contrastano direttamente col buon senso comune e non sono ammessi che con riluttanza da una mente non ancora viziata dal l'erudizione, è anche la principale cagione di tutta quella sottigliezza affettata ed estrema che rende così estremamente difficile e tedioso lo studio delle matematiche. [...]

Insomma ciò che discute Berkeley è che ogni estensione particolare e finita che possa essere oggetto di un nostro pensiero è un'idea che esiste solo nella nostra mente ma se non si è in grado di percepire ogni parte delle innumerevoli che compongono tale estensione, essa non le contiene più. Dice Berkeley:

124 - [...] Se per estensione finita si intende qualcosa di diverso da un'idea finita, dichiaro francamente che non so di cosa si tratta ... Ma se le parole estensione, parti, divisibile, e simili, si prendono in un senso intelligibile, cioè come idee, allora risulta manifesta contraddizione dire che una quantità o estensione finita si compone di un numero infinito di parti [...].

E' dunque chiaro il cammino di Berkeley che ci riporta indietro di oltre 2000 anni, addirittura a Zenone. In definitiva egli mette in discussione entità geometriche finite costituite da una infinità di elementi e ciò lo fa per la linea, per la superficie e per ogni altra entità geometrica. Questa critica, comunque, sarà ripresa relativamente al calcolo infinitesimale ma verrà abbandonata nella geometria. Già un cenno a tale calcolo lo troviamo nel Treatise (questioni 130-132). Qui Berkeley dice che alcuni matematici recentemente non solo dicono che una

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linea è composta da molte parti ma addirittura che ognuna di queste parti è composta a sua volta da infinite parti. ognuna delle quali sarebbe un infinitesimo. Ma non vi sono solo infinitesimi ma infinitesimi di infinitesimi senza che questa serie si chiuda mai. Continuare su questa strada, inventando grandezze che siano minori del minimum sensibile, significa buttare a terra l'edificio della matematica e particolarmente della geometria. Gli autori di queste assurdità non hanno fatto altro che costruire castelli in aria. Ma, in definitiva, anche se alcune delle più complesse e sottili speculazioni matematica venissero meno, non vedo ciò quale pregiudizio possa recare al genere umano. Anzi, Berkeley dice di più e cioè che sarebbe meglio che gli uomini di talento dedicassero le loro energie a cose più reali e ad applicazioni più immediate per migliorare la vita degli uomini, invece di perdersi dietro delle sciocchezze.

Tralasciando ogni giudizio che non potrebbe che essere che molto pesante, c'è solo da aggiungere che forse in quest'epoca (1710) egli non si sentiva ancora pronto ad una discussione approfondita del calcolo infinitesimale, discussione che farà solo con The Analist (1734) che ha come titolo completo: The Analyst; or a Disscourse Addressed to an Infidel Mathematician wherein is examined whether the Objeet, Principles and Inferences of the Modern Analysis are more distinetly conceived, or more evidently deduced, than Religious Mysteries.

Già il titolo è molto significativo perché ci dice che il principale interesse di Berkeley era dimostrare che i matematici pensatori liberi, come il famoso astronomo Halley, che si burlava delle assurdità della teologia cristiana, erano colpevoli di errori logici di tale gravità che la teologia diventava chiarissima al confronto con la matematica. L'interesse secondario, mediante il quale avrebbe dato una mano al primo, era dimostrare che l'analisi matematica era carente dal punto di vista logico. Ma per conseguire questo scopo secondario, dovette confrontarsi non solo con gli atei come Halley, ma anche con teisti come Newton e Leibniz. Per comprendere il cammino delle obiezioni logiche di Berkeley

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all'analisi, seguendo Ursom, farò un esempio più semplice di quelli fatti da lui ed utilizzerò il simbolismo odierno. Lo scopo è realizzare una differenziazione di una grandezza algebrica.

Partiamo dall'equazione:

(1) y = x2

che ci fornisce y quando sia nota la x. Sia dx un piccolo incremento di xche produce un piccolo incremento dy in y e consideriamo l'equazione ottenuta sommando ai due membri della (1) i relativi incrementi:

(2) y + dy = (x + dx)2

Sviluppando si ha:

(3) y + dy = x2 + 2x.dx + (dx)2

Poiché sappiamo che y = x2, come risulta dalla (1), avremo:

(4) dy = 2x.dx + (dx)2

Dividiamo i due membri di questa uguaglianza per dx ed otteniamo:

(5) dy/dx = 2x + dx

ed a questo punto diciamo che

(6) il valore limite a cui tende il rapporto dy/dx quando dx tende a zero è 2x.

La relazione (6) si usa scrivere:

(7) dy/dx = 2x

Ciò significa che mano a mano che il valore di dx si avvicina a zero, il valore del rapporto dy/dx tende ad un limite che non è zero, perché sia dy che dx tendono a zero.

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Ora, se un matematico dell'epoca di Berkeley avesse dovuto sviluppare la differenziazione che ho qui fatto, avrebbe dapprima supposto che dx non solo è piccolo ma infinitamente piccolo. Qui Berkeley protestava e non accettava che si parlasse di grandezze infinitamente piccole (gli infinitesimi). Ma questa non era la sua maggiore critica. Riprendiamo la (5):

(5) dy/dx = 2x + dx

a partire da questa espressione il matematico dell'epoca di Berkeley diceva che poiché dx era infinitamente piccolo poteva essere trascurato e, eliminandolo, scriveva:

(6)* dy/dx = 2x

E qui Berkeley si indignava. Se dx poteva essere eliminato doveva essere nullo ma dividere dy per una grandezza nulla (arrivando addirittura a dividere una grandezza nulla dy per un'altra grandezza nulla dx) non avrebbe mai potuto dare una grandezza finita come 2x. Berkeley afferma che la dottrina della Trinità era molto più comprensibile di questa assurdità. Egli sottolineava come dx non potesse essere contemporaneamente diverso da zero (nel momento della semplificazione) e uguale a zero (nel momento in cui veniva trascurato) e non accettava l'introduzione nella matematica, regno del rigore logico, di questi infinitesimi, che lui chiamava ghosts.

Questo è assolutamente inconcepibile. Eppure vi sono alcuni i quali mentre esprimono disappunto all'enunciazione di qualsiasi mistero, per quanto li concerne non fanno alcuna difficoltà, capaci di scolare un moscerino e di inghiottire un cammello [...] E che cosa sono queste flussioni? Le velocità di incrementi evanescenti. E che cosa sono questi incrementi evanescenti? Essi non sono quantità finite, non sono infinitesimi, non sono niente. E allora non dobbiamo forse chiamarli gli spettri di quantità morte?

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E come mai, nonostante queste assurdità, tutto funziona ? Berkeley risponde che è puramente casuale, trattandosi di una compensazione di errori che porta a risultati esatti arrivando se non alla scienza, almeno alla verità. Non v'è dubbio che le critiche di Berkeley fossero corrette. Alcuni matematici cialtroni le ripresero acriticamente non essendo in grado di capire né l'origine del problema né la critica ad esso. Matematici seri, anche seguaci di Newton (come Mc Laurin), capirono il senso delle obiezioni ed iniziarono la strada del rigore che piano piano si affermò anche nell'analisi fino ai lavori di Lagrange, di Cauchy e di molti altri.

4 - CONCLUDENDO

Come credo si sia capito, i contributi originali di Berkeley alla scienza sono quasi nulli visto che la sua principale preoccupazione consisteva nell'affermare lo spirito come ente guida per la materia(4). Sono invece d'interesse le sue richieste di rigore sia in fisica, gli oggetti misteriosi di spazi e tempi assoluti, che in matematica, questi infinitesimi utilizzati in modo difforme nelle semplificazioni. Come fece notare Popper alcune delle cose di Berkeley furono riprese da Mach a cavallo tra l'Ottocento ed il Novecento e, probabilmente, da Einstein. La scienza vive di creazione e critica. Senza questa parte sarebbe metafisica che offre delle verità non discutibili. La scienza ha probabilmente dei tempi per accettare le critiche ma, alla fine, le critiche emergono con tutta la loro forza ed importanza. Berkeley è uno degli esempi più importanti della storia della scienza di critico che individua i punti deboli di differenti teorie. Il suo fine, in gran parte, era probabilmente altro, quello della difesa intransigente del suo credo religioso. Ma, altro privilegio della scienza è il saper cogliere l'essenza dei problemi e non i retroscena, spesso miserabili.

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NOTE

(0) Riporto di seguito un brano del A Treatise Concerning the Principles of Human Knowledge nel quale si pone la questione dell'immaterialismo.

Introduzione 1. Dato che la filosofia non è altro se non lo studio della saggezza e della verità, dovremmo ragionevolmente aspettarci che appunto quelli che hanno speso in esso più tempo e più fatiche, godessero di uno spirito più calmo e più sereno degli altri, avessero conoscenze più chiare ed evidenti, e fossero meno turbati da dubbi e da difficoltà. Ed invece vediamo per lo più quieta ed a suo agio la gran massa ignorante dell'umanità, che batte la strada maestra del buon senso comune e si guida secondo i dettami della natura. Ad essa nulla di familiare appare inspiegabile o difficile da comprendere, non si lamenta mai che le sue sensazioni non siano certe e non corre nessun pericolo di diventare scettica. Al contrario, appena abbandoniamo il senso e l'istinto per lasciarci guidare dal lume d'un principio superiore a quelli, per ragionare e meditare sulla intima essenza delle cose, subito mille e mille dubbi sorgono nella nostra mente, proprio su quelle cose che prima ci sembrava di comprendere perfettamente. Si manifestano alla nostra mente pregiudizi ed errori dei sensi da tutte le parti e mentre tentiamo di correggerli con la ragione, ci troviamo condotti senza accorgercene a strani paradossi e difficoltà e inconseguenze, che si moltiplicano e ci soffocano a mano a mano che procediamo nella speculazione: finché, dopo esserci sperduti per mille intricati sentieri, ci ritroviamo proprio al punto donde eravamo partiti, ovvero, peggio ancora, ci abbandoniamo a un desolato scetticismo.

2. Si ritiene che questo sia dovuto all'oscurità delle cose in sé stesse, ovvero alla debolezza e alla imperfezione congenite del nostro intelletto. Si dice che le facoltà che noi possediamo sono poche, ed anche queste ci vengono date dalla natura per agevolare e conservare la vita, non per penetrare nell'essenza intima, nella costituzione stessa delle cose. Inoltre, la mente dell'uomo è finita, e

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non c'è dunque da meravigliarsi se quando si occupa di cose che partecipano dell'infinità, incorra in assurdità e in contraddizioni; né potrà mai liberarsi da esse, poiché l'infinito, per sua natura, non può venir compreso da ciò ch'è finito.

3. Però, siamo forse troppo indulgenti verso noi stessi nell'attribuire la colpa originaria di tutto questo alle nostre facoltà piuttosto che al cattivo uso che facciamo di esse. È ben difficile supporre che ragionando correttamente in base a principi veri si debba giungere a conseguenze insostenibili ovvero dubbie. Dobbiamo invece pensare che Dio abbia agito verso gli uomini con più bontà che non avrebbe avuta se davvero avesse ispirato loro il desiderio ardente di una conoscenza che avesse poi messa del tutto fuori della loro portata. Questo non sarebbe in armonia con la misericordia abituale della Divina Provvidenza, che di solito elargisce alle creature mezzi che, rettamente usati, possono soddisfare qualunque desiderio che Essa abbia ispirato loro. Tutto considerato, sono incline a pensare che le difficoltà che hanno finora gingillato i filosofi e preclusa la via al sapere, siano dovute proprio a noi stessi, se non tutte, almeno in massima parte. Siamo stati noi stessi a sollevare un polverone e poi ci lamentiamo perché non riusciamo più a vederci.

4. Il mio scopo consiste quindi nel cercar di scoprire quali siano quei principi che hanno portato, nelle diverse scuole filosofiche, tutti quei dubbi e quelle incertezze, tutte quelle assurdità e quelle contraddizioni, facendo sì che anche i più saggi tra gli uomini ritenessero che non ci fosse rimedio alla nostra ignoranza e che essa derivasse da incapacità e limitatezza congenite delle nostre facoltà. E senza dubbio è un lavoro che merita gli si dedichi ogni fatica, quello di indagare rigorosamente sui principi della conoscenza umana, vagliandoli ed esaminandoli da tutti i lati: soprattutto perché v'è ragione di sospettare che gli impedimenti e le difficoltà che fermano e imbarazzano la mente quando essa cerchi la verità, non sgorgano da oscurità o complicazioni negli oggetti ai quali essa si applica ovvero da difetti naturali dell'intelletto, ma piuttosto da falsi principi sui quali ci si è fondati mentre si sarebbe potuto evitarli."

Parte Prima 1. È evidente per chiunque esamini gli

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oggetti della conoscenza umana, che questi sono: o idee impresse ai sensi nel momento attuale; o idee percepite prestando attenzione alle emozioni e agli atti della mente; o infine idee formate con l'aiuto della memoria e dell'immaginazione, riunendo, dividendo o anche soltanto rappresentando le idee originariamente ricevute nei [due] modi precedenti. Dalla vista ottengo le idee della luce e dei colori, con i loro vari gradi e le loro differenze. Col tatto percepisco il duro ed il soffice, il caldo e il freddo, o il movimento e la resistenza, ecc., e tutto questo in grado maggiore o minore. L'odorato mi fornisce gli odori; il gusto mi dà i sapori; l'udito trasmette alla mente i suoni in tutta la loro varietà di tono e di combinazioni. E poiché si vede che alcune di queste sensazioni si presentano insieme, vengono contrassegnate con un solo nome, e quindi considerate una cosa sola. Così, avendo osservato, per esempio, che si accompagna un certo colore con un certo sapore, un certo odore, una certa forma, una certa consistenza, tutte queste sensazioni sono considerate come una cosa sola e distinta dalle altre, indicata col nome di "mela"; mentre altre collezioni di idee costituiscono una pietra, un albero, un libro e simili cose sensibili che, essendo piacevoli o spiacevoli, eccitano in noi i sentimenti d'amore, di odio, di gioia, d'ira, ecc.

2. Ma oltre a questa infinita varietà d'idee, o di oggetti della conoscenza, v'è poi qualcosa che conosce o percepisce quelle idee, ed esercita su di esse diversi atti come il volere, l'immaginare, il ricordare, ecc. Questo essere che percepisce ed agisce è ciò che chiamo "mente", "spirito", "anima", "io". Con queste parole io non indico nessuna mia idea, ma una cosa interamente diversa da tutte le mie idee, e nella quale esse esistono, ossia dalla quale esse vengono percepite: il che significa la stessa cosa perché l'esistenza di una idea consiste nel venir percepita.

3. Tutti riconosceranno che né i nostri pensieri né i nostri sentimenti né le idee formate dall'immaginazione possono esistere senza la mente. Ma per me non è meno evidente che le varie sensazioni ossia le idee impresse ai sensi, per quanto fuse e combinate insieme (cioè, quali che siano gli oggetti composti da esse), non possono esistere altro che in una mente che le percepisce. Credo che chiunque possa accertarsi di questo per via intuitiva,

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se pensa a ciò che significa la parola "esistere" quando vien applicata ad oggetti sensibili. Dico che la tavola su cui scrivo esiste, cioè che la vedo e la tocco; e se fossi fuori del mio studio direi che esiste intendendo dire che potrei percepirla se fossi nel mio studio, ovvero che c'è qualche altro spirito che attualmente la percepisce. C'era un odore, cioè era sentito, c'era un suono, cioè era udito; c'era un colore o una forma, e cioè era percepita con la vista o col tatto: ecco tutto quello che posso intendere con espressioni di questo genere. Poiché pe me è del tutto incomprensibile ciò che si dice dell'esistenza assoluta di cose che non pensano, e senza nessun riferimento al fatto che vengono percepite. L'esse delle cose è un percipi, e non è possibile che esse possano avere una qualunque esistenza fuori dalle menti o dalle cose pensanti che le percepiscono.

4. È infatti stranamente diffusa l'opinione che le case, le montagne, i fiumi, insomma tutte le cose sensibili abbiano un'esistenza, reale o naturale, distinta dal fatto di venir percepite dall'intelletto. Ma per quanto sia grande la certezza e il consenso con i quali si è finora accettato questo principio, tuttavia chiunque si senta di metterlo in dubbio, troverà (se non sbaglio) che esso implica una contraddizione evidente. Infatti, che cosa sono, ditemi, gli oggetti sopra indicati se non cose che percepiamo con il senso? E che cosa possiamo percepire oltre alle nostre proprie idee o sensazioni? E non è senz'altro contraddittorio che una qualunque di queste, o una qualunque combinazione di esse, possa esistere senza essere percepita?

5. Se esaminiamo accuratamente questo principio, vedremo forse che dipende in fondo dalle idee astratte. Vi può essere infatti uno sforzo d'astrazione più elegante di quello che riesce a distinguere l'esistenza di oggetti sensibili dal fatto che essi sono percepiti, sì da pensare che essi non vengano percepiti? Che cosa sono la luce e i colori, il caldo e il freddo, l'estensione e le forme, in una parola tutto ciò che vediamo e tocchiamo, se non tante sensazioni, nozioni, idee od impressioni del senso? Ed è possibile separare, anche solo mentalmente, una qualunque di esse dalla percezione? Per conto mio, troverei altrettanto difficile separare una cosa da sé stessa. Posso infatti dividere nei miei pensieri, ossia concepir separate l'una dall'altra, certe cose che non ho

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forse mai percepite con il senso divise in tal modo. Così immagino il busto di un uomo senza le gambe, così concepisco il profumo di una rosa senza pensare anche alla rosa. Non negherò che sia possibile astrarre fino a questo punto: se pure si può correttamente chiamare "astrazione" un atto che si limita esclusivamente a concepire separatamente certi oggetti che possono realmente esister separati ovvero esser effettivamente percepiti separatamente. Ma il mio potere di concezione o di immaginazione non va più in là della possibilità reale di esistenza o percezione; quindi, poiché mi è impossibile vedere o toccare qualcosa se non sento attualmente quella cosa, mi è anche impossibile concepire nei miei pensieri una cosa od oggetto sensibile distinto dalla sensazione o percezione di esso. In realtà, oggetto e percezione di esso sono la stessa identica cosa, e non possono dunque venir astratti l'uno dall'altro.

6. Certe verità sono così immediate, così ovvie per la mente che basta aprir gli occhi per vederle. Tra queste credo sia anche l'importante verità che tutto l'ordine dei cieli e tutte le cose che riempiono la terra, che insomma tutti quei corpi che formano l'enorme impalcatura dell'universo non hanno alcuna sussistenza senza una mente, e che il loro esse consiste nel venir percepiti o conosciuti. E di conseguenza, finché non vengono percepiti attualmente da me, ossia non esistono nella mia mente nè in quella di qualunque altro spirito creato, non esistono affatto, o altrimenti sussistono nella mente di qualche Eterno Spirito: poiché sarebbe assolutamente incomprensibile, e porterebbe a tutte le assurdità dell'astrazione, l'attribuire a qualunque parte dell'universo un'esistenza indipendente da ogni spirito. Per dare a questo l'evidenza luminosa di verità assiomatica, sembra sufficiente che io cerchi di provocare la riflessione del lettore così che egli consideri spassionatamente il significato [delle parole che adopera] e rivolga direttamente a questo problema il suo pensiero, liberato e sbarazzato da ogni impaccio di parole e da ogni prevenzione in favore di errori comunemente accettati.

7. Da ciò che si è detto risulta evidente che non esiste altra sostanza fuorché lo "spirito", ossia ciò che percepisce. Ma per meglio dimostrare questo, si osservi che le qualità sensibili sono il colore, la forma, il movimento, l'odore, il sapore, ecc., cioè le idee percepite

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col senso. Ora, è evidente la contraddizione di un'idea che esista in un essere che non percepisce, poiché aver un'idea è lo stesso che percepire; dunque ciò in cui esistono colore, forma, ecc. deve percepirli. È quindi evidente che non può esistere una sostanza che non pensi, un substratum di quelle idee.

8. Ma, direte, anche se le idee stesse non esistono fuori della mente, possono tuttavia esserci cose simili a esse che esistano fuori della mente in una sostanza che non pensa e delle quali le idee siano copie o similitudini. Rispondo che un'idea non può esser simile ad altro che a un'idea, un colore od una forma non può esser simile ad altro che ad un altro colore e ad un'altra forma. Basta che guardiamo un po' dentro al nostro pensiero per vedere che ci è impossibile concepire una somiglianza che non sia somiglianza fra le nostre idee. Di nuovo, io domando se quei supposti originali ossia quelle cose esterne, delle quali le nostre idee sarebbero ritratti o rappresentazioni, siano esse stesse percepibili o meno. Se sono percepibili, sono idee: e ho causa vinta. Se dite che non lo sono, mi appello al primo venuto perché dica se è buon senso affermare che un colore è simile a qualcosa d'invisibile, che il duro ed il soffice sono simili a qualcosa che non si può toccare, e così per il resto."

Traduzione di Mario Manlio Rossi riveduta da Paolo Francesco Mugnai (Bari, Laterza, 1987).

(1) Questo passaggio non è condivisibile. Il ragionamento nella fase concreta, prima di raggiungere la facoltà astrattiva lega idee a cose. Ma conseguita la fase del pensiero astratto, idee producono idee.

(2) Fino al 1953 il De Motu era considerata un'opera minore di Berkeley. Fu Popper che in quell'anno crisse un articolo, Note su Berkeley quale precursore di Mach e Einstein, pubblicato nel suo Congetture e confutazioni portandolo all'attenzione degli studiosi ed alla notorietà. Nell'articolo di Popper si sostiene che nel De motu è stata avanzata una teoria che sarà fatta propria anche da Einstein. Non riporto tale articolo (che invece si può trovare nel testo citato, pagg 287-301)ma uno scritto di Popper in cui si discute dell'attualità di Berkeley nella fisica teorica:

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Berkeley, gli scienziati e i filosofi Che cosa è l'“oggetto” della fisica galileiana e newtoniana se non l'idea generale astratta che Berkeley rifiuta con tanta decisione? Il tempo lo spazio l'estensione non hanno alcuna realtà; le leggi della fisica non mettono in relazione tra loro enti reali specifici e determinati; possono al massimo essere utili a spiegare i rapporti fra gli enti che sono oggetto delle sensazioni ma non descrivono assolutamente nulla: sono ipotesi e strumenti. K. R. Popper, Tre punti di vista a proposito della conoscenza umana [1956] La Chiesa [ai tempi di Copernico e di Galileo] non aveva nessuna intenzione di prendere in considerazione la verità di un Nuovo Sistema del Mondo che sembrava contraddire un passo del Vecchio Testamento. Ma questa non era la sua ragione principale: una ragione piú profonda fu formulata chiaramente dal vescovo Berkeley circa cent'anni dopo nella sua critica a Newton. Ai tempi di Berkeley il sistema copernicano del mondo si era sviluppato confluendo nella teoria della gravitazione di Newton e in quest'ultima Berkeley vedeva una seria competitrice della religione. Berkeley era convinto che se l'interpretazione dei “liberi pensatori” era corretta la nuova scienza avrebbe messo capo a un declino della fede religiosa e dell'autorità della religione; egli infatti vedeva nel successo della nuova scienza una prova della capacità dell'intelletto umano di scoprire senza l'aiuto della rivelazione divina i segreti del nostro mondo la realtà nascosta dietro l'apparenza. Ciò secondo Berkeley equivaleva a interpretare erroneamente la nuova scienza. Egli analizzò la teoria di Newton con un atteggiamento assolutamente privo di pregiudizi e con grande acume filosofico e uno sguardo critico alle concezioni di Newton lo convinse che la sua teoria non poteva essere null'altro che un'“ipotesi matematica” cioè uno strumento conveniente per il calcolo o la predizione dei fenomeni o apparenze che in nessun modo poteva essere considerata una descrizione di alcunché di reale. I fisici quasi non si accorsero delle critiche di Berkeley ma le raccolsero i filosofi scettici e religiosi. Cosí l'arma

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diventò un boomerang. Nelle mani di Hume si trasformò in una minaccia per ogni credenza: per ogni conoscenza umana o rivelata. Nelle mani di Kant che credeva fermamente in Dio e nella verità della scienza newtoniana si trasformò nella dottrina che la conoscenza teoretica di Dio è impossibile e che la scienza newtoniana deve pagare il riconoscimento della sua pretesa alla verità con la rinuncia alla pretesa di aver scoperto il mondo reale che sta dietro il mondo dell'apparenza; è una scienza vera della natura ma la natura non è altro che il mondo dei puri fenomeni: il mondo come appare alla nostra mente che l'assimila. Piú tardi certi pragmatisti basarono tutta quanta la loro filosofia sul punto di vista che l'idea di una conoscenza pura è un errore che non può esserci conoscenza in nessun altro senso se non in quello di conoscenza strumentale; che la conoscenza è potere e che la verità è utilità. Tranne poche brillanti eccezioni i fisici si mantennero al di sopra di tutte queste dispute filosofiche che rimasero del tutto inconcludenti. Fedeli alla tradizione inaugurata da Galileo si votarono alla ricerca della verità come Galileo l'aveva intesa. O almeno vi si dedicarono fino a pochissimo tempo fa. Tutto ciò è ora storia passata. Oggi la concezione della scienza fisica fondata da Osiander, dal cardinale Bellarmino e dal vescovo Berkeley ha vinto la sua battaglia senza sparare un solo altro colpo. Senza dibattere ulteriormente il problema filosofico senza produrre nessun nuovo argomento il punto di vista strumentalistico (cosí lo chiamerò) è diventato un dogma indiscusso. Ora può essere a ragione chiamato il “punto di vista ufficiale” della teoria fisica - da quando è stato accettato dalla maggior parte dei nostri principali teorici della fisica (esclusi però Einstein e Schrödinger). Ed è diventato una parte dell'insegnamento corrente della fisica. (K. R. Popper - Filosofia e scienza - Einaudi, Torino 1969, pagg. 13-15)

(3) Riporto due brani, uno dal Dialogo I e l'altro dal Dialogo III, tratti da G. Berkeley, Three Dialogues between Hylas and Philonous (1713), in cui si introduce il problema e si discutono i vantaggi dell’immaterialismo sia in campo teologico sia in

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campo fisico e matematico:

Dialogo I

PHILONOUS: - Buongiorno, Hylas. Non mi aspettavo di vederti fuori di casa così presto.

HYLAS: - È davvero una cosa insolita, ma la mia mente era così presa da un argomento del quale stavo discorrendo la notte scorsa che, vedendo che non riuscivo ad addormentarmi, mi son deciso ad alzarmi ed a fare un giretto nel giardino.

PHILONOUS: - Una bella cosa: così hai potuto vedere quali piaceri innocenti e gradevoli tu perda tutte le altre mattine. Non c'è momento del giorno che sia più piacevole di questo e stagione più deliziosa dell'anno. Questo cielo purpureo, questi canti liberi ma dolci degli uccelli, i bocci fragranti sugli alberi e sui fiori, il tepore del sole nascente, tutto questo e mille altre bellezze indicibili della natura ispirano estasi segrete all'anima. Anche le facoltà di essa, che in questo momento del giorno sono fresche e vivaci, sono adatte a quelle meditazioni alle quali ci porta naturalmente la solitudine di un giardino e la tranquillità del mattino. Ma temo di interrompere le tue meditazioni: mi sembrava che tu fossi tutto preso da qualche riflessione.

HYLAS: - Lo ero davvero, e ti sarei grato se mi permettessi di proseguire con le stesse riflessioni. Non vorrei per questo privarmi della tua compagnia perché i miei pensieri scorrono sempre più facilmente quando converso con un amico che non quando sono solo, e vorrei che mi permettessi di farti partecipe delle mie riflessioni.

PHILONOUS: - Ben volentieri; te lo avrei chiesto io stesso se tu non mi avessi prevenuto.

HYLAS: - Stavo pensando allo strano destino di quelli che, in tutte le epoche, per darsi l'aria di essere diversi dal volgo o per qualche incomprensibile stortura del loro pensiero, hanno preteso di non credere assolutamente a nulla ovvero di credere alle cose più stravaganti che si possano immaginare. Non sarebbe un gran danno, se i

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loro paradossi e il loro scetticismo non portassero a conseguenze dannose per tutta l'umanità. È proprio qui che sta il male: che quando gli altri, che hanno meno tempo da perdere, vedono che chi ha spesa tutta la vita nella ricerca della conoscenza, si proclama ignorante di tutto ovvero sostiene nozioni che sono in contrasto con princìpi evidenti, accettati da tutti, potranno esser tentati a dubitare di verità importantissime, che fino ad allora avevano ritenute sacre e indiscutibili.

PHILONOUS: - Sono proprio d'accordo con te su questa insana tendenza di alcuni filosofi a dubbi ostentati e a concezioni fantastiche di altri. Anzi sono ormai arrivato a un punto tale da aver abbandonato molte di quelle nozioni sublimi che avevo appreso nelle loro scuole per ritornare alle opinioni del volgo. E ti posso assicurare onestamente che essendo così ritornato dalle nozioni metafisiche ai semplici dettami della natura e del senso comune, trovo che il mio intelletto si è illuminato inusitatamente, tanto che oggi comprendo facilmente molte cose che prima d'ora erano per me un mistero e un enigma.

HYLAS: - Mi fa piacere sentire che non eran vere le storie che avevo udite su di te.

PHILONOUS: - Guarda un poco! O che cosa si diceva?

HYLAS: - Nelle conversazioni della scorsa notte si raccontava che tu sostenessi l'opinione più stravagante che sia mai entrata nella mente di un uomo, e cioè che non esista nel mondo qualcosa come la sostanza materiale.

PHILONOUS: - Sono sul serio persuaso che non esista nulla di simile a ciò che i filosofi chiamano sostanza materiale, ma se mi si mostrasse che c'è qualcosa di assurdo e di scettico in questa idea, avrei tanta buona ragione di rinunciare ad essa, come ho ora, mi sembra, per respingere l'opinione contraria.

HYLAS: - Ma come? Ci può essere qualcosa di tanto fantastico, di tanto contrario al senso comune, ci può essere una maggiore manifestazione di scetticismo, come il credere che non vi sia qualcosa come la materia?

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PHILONOUS: - Andiamo adagio, caro Hylas. Che diresti se fosse provato che tu, che sostieni che c'è, sei proprio in virtù di questa opinione molto più scettico di me e sostieni più paradossi, più opinioni ripugnanti al senso comune di me che non credo a tale cosa?

HYLAS: - Ti sarebbe più facile persuadermi che una parte è maggiore del tutto, piuttosto che per non cadere nell'assurdo e nello scetticismo io sia obbligarto a rinunciare alla mia opinione su questo.

PHILONOUS: - E va bene. Sei disposto ad ammettere per vera quella opinione che, esaminata accuratamente, si accordi meglio col senso comune e sia più lontana dallo scetticismo?

HYLAS: - Certamente. Dato che vuoi porre in discussione le cose più evidenti in Natura, sono pronto ad ascoltare, almeno questa volta, quello che hai da dire.

PHILONOUS: - E allora, Hylas: che cosa intendi per scettico?

HYLAS: - Intendo quello che tutti intendono: uno che dubita di tutto.

PHILONOUS: - Allora, uno che non ha dubbi su una certa questione, riguardo a questa questione non può essere considerato scettico.

HYLAS: - Sono d'accordo.

PHILONOUS: - Forse che dubitare consiste nel far propria la tesi affermativa o quella negativa di una questione?

HYLAS: - No, non significa decidere per l'una o per l'altra, chiunque capisca l'inglese, sa bene che dubitare significa restare in sospeso fra le due.

PHILONOUS: - Allora, non si può dire che uno che neghi qualcosa, resti in dubbio più di quanto non vi resti colui che l'afferma con la stessa decisione.

HYLAS: - Questo è vero.

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PHILONOUS: - Quindi, se lo nega, non si deve per questo ritenerlo scettico più dell'altro.

HYLAS: - È giusto.

PHILONOUS: - Ed allora, come avviene che tu mi tacci di essere uno scettico perché nego quello che tu affermi, cioè la esistenza della materia? Infatti, per quanto tu possa dire, io sono perentorio nella mia negazione così come tu lo sei nella tua affermazione.

HYLAS: - Un momento, Philonous. La mia definizione di uno scettico non era forse esatta, ma non si dovrebbe insistere su ogni piccolo sbaglio che uno può commettere nel corso d'una discussione. Ho detto, è vero, che scettico è uno che dubita di tutto, ma avrei dovuto aggiungere che è scettico anche uno che nega la realtà e la verità delle cose.

PHILONOUS: - Ma di quali cose? Intendi parlare dei princìpi e dei teoremi delle scienze? Ma questi, lo sai bene, sono nozioni universali intellettuali e quindi sono indipendenti dalla materia. Quindi negare l'esistenza della materia non implica che si neghino quelle nozioni.

HYLAS: - Hai ragione. Ma non ci sono altre cose? Come definisci tu chi diffida dei propri sensi, chi nega l'esistenza reale delle cose sensibili, o pretende di non saper nulla di esse? Non basta questo per dirlo scettico?

PHILONOUS: - Vuoi allora che esaminiamo chi sia, di noi due, quello che nega la realtà delle cose sensibili, o che professa la più grande ignoranza di esse? Infatti, se ho capito bene quel che volevi dire, è lui che dovrà venir considerato come più scettico dell'altro.

HYLAS: - È proprio questo che vorrei facessimo.

Traduzione di Mario Manlio Rossi riveduta da Paolo Francesco Mugnai (Bari, Laterza, 1987).

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Dialogo III

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PHILONOUS - Quando uno inclina, senza sapere perché, verso uno dei partiti della questione, credete voi possa esser altro che l’effetto del pregiudizio, che non manca mai di accompagnare i concetti vecchi e radicati? E difatti a questo riguardo io non posso negare che la credenza nella materia si avvantaggia di molto sull’opinione contraria presso gli uomini di educazione dotta.

HYLAS - Confesso che sembra essere come dite voi.

PHILONOUS - Come contrappeso a questo peso del pregiudizio, gettiamo sul piatto i grandi vantaggi che sorgono dalla credenza dell’immaterialismo, sia riguardo alla religione sia riguardo all’umano sapere. L’esistenza di un Dio e l’incorruttibilità dell’anima, questi grandi articoli della religione, non sono essi provati con la più chiara e più immediata evidenza? Quando dico l’esistenza di un Dio, io non intendo una oscura causa generale delle cose della quale non abbiamo nessuna concezione, ma Dio nel senso stretto e proprio della parola. Un essere la cui spiritualità, onnipresenza, provvidenza, onniscienza, infinita potenza e bontà, sono così cospicue come l’esistenza delle cose sensibili, di cui (nonostante le fallaci pretese e gli affettati scrupoli degli scettici) non c’è più ragione di dubitare che del nostro stesso essere. Poi, in relazione alle scienze umane: nella filosofia naturale, in quali complicazioni, in quali oscurità, in quali contraddizioni ha menato gli uomini la credenza nella materia! Per non dir niente delle innumerevoli dispute sulla sua estensione, continuità, omogeneità, gravità, divisibilità, etc., non pretendono di spiegare tutte le cose con corpi operanti su corpi, secondo le leggi del moto? Eppure, sono essi capaci di comprendere come un corpo ne muova un altro? Anzi, ammettendo che non ci sia nessuna difficoltà a conciliare la nozione di un essere inerte con una causa; o a concepire come un accidente possa passare da un corpo ad un altro; pur con tutti i loro pensieri sforzati e le loro supposizioni stravaganti, sono stati essi capaci di ottenere la produzione meccanica di un corpo animale o vegetale? Possono essi, con le leggi del moto, spiegare le ragioni dei suoni, sapori, odori, o colori, o del corso regolare delle cose? Hanno essi spiegato con i princípi fisici l’attitudine e l’invenzione anche delle parti meno

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considerevoli dell’Universo? Invece, lasciando da parte la materia e le cause corporee, e ammettendo solo l’efficienza di una mente perfettissima, non sono tutti gli effetti di Natura facili e intelligibili? Se i fenomeni non sono niente altro che idee, Dio è uno spirito, ma la materia è un essere inintelligente e non percipiente. Se i fenomeni dimostrano un potere illimitato della loro causa, Dio è attivo e onnipotente, ma la materia è una massa inerte. Se l’ordine, la regolarità e l’utilità dei fenomeni non saranno mai ammirati abbastanza, Dio è infinitamente saggio e provvidente, ma la materia è destituita di ogni invenzione e disegno. Questi certamente sono grandi vantaggi in fisica. Per non menzionare che la concezione di una Deità lontana dispone naturalmente gli uomini a una negligenza nelle loro azioni morali, nelle quali sarebbero piú cauti nel caso che Lo pensassero immediatamente presente, e agente su le loro menti senza la interposizione della materia o di cause seconde non pensanti. Poi in metafisica: quali difficoltà su l’entità in astratto, le forme sostanziali, le nature plastiche, la sostanza e l’accidente, il principio di individuazione, la possibilità che la materia pensi, l’origine delle idee, la maniera in cui due sostanze indipendenti, tanto differenti come lo spirito e la materia, operino reciprocamente l’uno sull’altro? A quali difficoltà, dico, e infinite disquisizioni su questi e innumerevoli altri punti simili, noi sfuggiamo supponendo solo spiriti e idee? Perfino le matematiche, se togliamo via l’esistenza assoluta delle cose estese, diventano assai piú chiare e facili: ché i paradossi più urtanti e le speculazioni piú intricate di codeste scienze dipendono dalla divisibilità infinita di una estensione finita, la quale divisibilità infinita dipende da quella supposizione.

(Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1968, vol. XIII, pagg. 743-744).

(4) Sono di grande interesse alcune considerazioni che su questo tema, relativamente proprio a Berkeley, fa Bertrand Russel:

Rimane da chiedersi se si possa attribuire qualche

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significato alle parole «spirito» e «materia». Tutti sanno che «spirito» è ciò di cui un idealista dice che esiste esso solo e nient'altro, e che «materia» è ciò di cui un materialista pensa la stessa cosa. Il lettore sa anche (spero) che gli idealisti sono virtuosi e i materialisti sono malvagi. Ma forse vi può essere qualcosa di più da dire. La mia definizione di «materia» può sembrare inadeguata: la definirei come ciò che soddisfa le equazioni della fisica. Può essere che niente soddisfi queste equazioni; in tal caso o la fisica o il concetto di «materia» sono sbagliati. Se respingiamo la sostanza, la «materia» dovrà essere una costruzione logica. Se possa o non possa esserci una interpretazione della realtà basata su dei fenomeni (che in parte possono essere dedotti) è una questione difficile, ma nient'affatto insolubile. Quanto allo «spirito», una volta respinta la sostanza, spirito può essere un gruppo o un edificio di fenomeni. L'aggruppamento deve essere effettuato per mezzo di qualche relazione che sia caratteristica di quel tipo di fenomeni che vogliamo chiamare «spirituali». Possiamo prendere la memoria come caso tipico. Sarebbe forse troppo semplicistico, ma potremmo definire un fenomeno spirituale come un fenomeno che ricorda o è ricordato. Allora lo «spirito» a cui appartiene un dato fenomeno. spirituale è il gruppo di fenomeni legato al fenomeno in questione, in un modo o nell'altro, dalla memoria. Si sarà visto che, secondo le definizioni precedenti, uno spirito o un pezzo di materia sono entrambi un gruppo di fenomeni. Non c'è motivo per cui ogni fenomeno debba appartenere ad uno o all'altro tipo, e non c'è motivo per cui qualche fenomeno non debba appartenere ad entrambi i tipi; quindi qualche fenomeno può non essere né

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spirituale né materiale, ed altri fenomeni possono essere entrambe le cose. Quanto a questo, solo particolari considerazioni empiriche possono decidere.

BIBLIOGRAFIA

1 - J. O. Ursom - Berkeley - Oxford University Press, 1982.

2 - K. R. Popper - Congetture e confutazioni - il Mulino, 1972

3 - B. Russel - Storia della filosofia occidentale - Longanesi 1967

4 - G.Berkeley - A Treatise concerning the Principles of Human Knowlwdge - Oxford University Press Academ, 1998

5 - E. Bellone (a cura di) - Le leggi del movimento da Hume a Laplace - Loescher 1979

6 - P. Casini - Filosofia e fisica da Newton a Kant - Loescher 1978

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