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FONDO EUROPEO PER I RIFUGIATI 2008 – 2013
Convenzione 2010/FER/PROG-5021 Azione 1.1.B AP 2010
FORMAZIONE
PERSONALE SOCIO
SANITARIO
Identità e cultura
Per “identità” si intende: “il complesso dei dati caratteristici e fondamentali che
consentono l’individuazione o garantiscono l’autenticità” (G. Devoto e G. Oli, 1991).
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Noi non siamo mai identici.
Ma in continua trasformazione influenzati anche dall’ambiente che ci circonda.
Inoltre nel concetto di identità è importante l’immagine che gli altri ci riportano di noi
stessi.
(Laura Moretto, 2005)
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Il processo di cambiamento risulta essere piùintenso se il soggetto si trova improvvisamente
“circondato “ da una nuova cultura.
Il cambiamento è formato da crisi e superamento di crisi e il migrante si trova spesso ad affrontare momenti di crisi e stress da transculturazione.
(Laura Moretto, 2005)
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Spesso consideriamo il migrante come la stessa persona che era prima di partire.
Nella mente del migrante esiste una sequenzialità:
la partenza, il transito, l’arrivo e l’eventuale ritorno.
(Laura Moretto, 2005)
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E’ una paura irrazionale (capita quando non riusciamo a incasellare nelle nostre
categorie), nasce quando non vi è una piena consapevolezza del proprio sé, quando la persona non ha piena fiducia in ciò che
pensa e possiede una scarsa informazione sulla cultura altrui.
(Laura Moretto, 2005)
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Mazzetti (2003) ha identificato due processi che interessano i migranti:
Arroccamento ( la persona non accetta nulla di diverso dalla propria cultura)
Iperadattamento (la persona tende quasi a rinnegare le proprie radici per adattarsi
completamente alla nuova cultura.)
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Il migrante ha un progetto migratorio.
Il richiedente asilo non ha avuto il tempo per pensare ad un progetto migratorio poiché è dovuto fuggire dal suo paese,
l’unico progetto che ha è di salvarsi la vita. L’abbandono del suo paese di origine gli
genera sensi di colpa.
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Resilienza.Il termine resilienza deriva dal latino resalio,
iterativo di salio, che significa saltare, rimbalzare, per
estensione danzare. Il vocabolo è stato coniato in fisica dei materiali per indicare
“la resistenza a
una rottura dinamica determinabile con una prova d’urto” (Devoto & Oli, 1971).
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In psicologia viene usato per definirela capacità umana di affrontare, superare e
uscire rinforzati daesperienze negative (Grotberg, 1995). La
resilienza è, dunque, il processo con cui alcuni individui,
famiglie o gruppi, in situazioni di difficoltà, resistono a un evento negativo e mantengono il
propriosenso di padronanza, attivando adeguate
strategie di coping.
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I fattori protettivi sono: l’intelligenza, leabilità sociali, l’autostima, il locus of control, l’empatia, la speranza, i legami supportivi, lo
stilegenitoriale, la salute mentale dei propri
familiari, l’ampiezza e la qualità della rete sociale, i legami
con adulti significativi e i rapporti positivi con le istituzioni (Garmezy, 1993; Werner 1993;
Masten& Coatsworth, 1998)..
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Il soggetto ha un ruolo attivo nel modellare l’ambiente che lo circonda: seleziona e
struttura le esperienze,
che agiscono, a loro volta, nel senso di promuovere lo sviluppo del sé oppure di
inibirlo (Bandura, 1999).
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È importante sottolineare come culture differenti adottino di fronte alle
stesse avversità differenti strategie.
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Un altro aspetto che influenza le capacità di coping facilitandole o intralciandole sono le
congruenze-incongruenze tra le due culture.
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Allan Young inizia ad introdurre un’idea di shock psicologico che si traduce in traccia
mnestica irreversibile, in grado di interferire con il funzionamento psichico normale
dell’individuo.
Il trauma è qui spiegato in base a un processo di natura fisica che coinvolge prima di tutto il corpo che lascia segni
riconoscibili dal medico. (Vacchiano,1999)
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Successivamente a Young, Edwin Morris introduce una novità:
anche una causa espressamente psicologica, come per esempio la paura, può provocare
danni comparabili al trauma fisico.
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Nei primi anni ‘70 negli Stati Uniti si osserva un’ondata di sucidi, alcolismo,
tossicodipendenza, e condotta antisociale messi in atto dai veterani tornati dal
Vietnam.
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Dopo varie discussioni viene introdotto nel DSM III il “Post-Traumatic Stress Disorder”.
Il quadro clinico che presentava in genere il veterano comprendeva:
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•Intorpedimento emotivo (anestesia emotiva, perdita di interesse nelle cose)•Sintomi di intrusione (flashbacks riferiti agli eventi traumatici, incubi, immagini
disturbanti)•Tendenza all’evitamento (tentativi di
allontanare pensieri e immagini legate al trauma)
•Aumento della tensione complessiva (disturbi del sonno e dell’attenzione,
irritabilità)
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L’evento traumatico per il DSM III prevede due criteri importanti:
•deve essere “genericamente al di fuori dell’esperienza umana consueta”
•Deve evocare “sintomi significativi di malessere nella maggior parte delle
persone”.
Sono però criteri vaghi e indefiniti e non considerano l’individualità e la cultura.
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Horowitz ha contribuito con i suoi studi a far inserire nel DSM III il DPTS.
Esperimenti attraverso i test sulla memoria.
Test di Stroop evidenzia l’esistenza dei pensieri intrusivi.
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Horowitz : “il materiale non completamente elaborato, i ricordi legati al trauma
rimangono in forma attiva nella memoria. Le informazioni riguardo al trauma
interferiscono con le normali attività dei pazienti anche se questi cerano di evitarlo.”
Fondamentale è il bisogno di relazioni interpersonali nel momento del dolore (teoria dell’attaccamento, J. Bowlby).
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Sempre Horowitz descrive come l’elaborazione delle informazioni passi attraverso il bisogno psicologico di fare corrispondere le nuove informazioni coi
modelli interni precedenti.
Distingue momenti diversi rispetto all’evento traumatico:
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•Reazione di stordimento
•Sovraccarico informativo (i pensieri e le immagini del trauma non si conciliano con
gli schemi cognitivi precedenti)
•Periodo di oscillazione tra intrusività ed evitamento.
•Risoluzione positiva, risoluzione parziale o cronicizzazione del disturbo.
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La storia di Richard.
In Italia dal 2003, laurea in economia
Richiedente asilo proveniente dalla Repubblica del Congo.
Richard dice sempre di essere stanco, di non dormire la notte. La sua voce è flebile. Sembra
quasi che la sua voce debba recuperare la dignità di parola.(Vacchiano, 2005)
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“Nella memoria di Richard è fissato il momento stesso dell’opzione,
ossessivamente ripetuto nel tentativo di trovarvi un senso. L’ansia è quella di
allora, rievoca minuziosamente i dettagli cercando di capire dove avrebbe potuto agire diversamente per cambiare le cose, ma anche colpevolizzandosi di non aver
capito.” (Vacchiano, 2005)
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Come abbiamo già visto il “disturbo post traumatico da stress” ha
istituzionalizzato il fatto che il ricordare possa essere un “sintomo” di un disturbo
latente.
Nei rifugiati, nelle situazioni post belliche però il ricordare ha una funzione
importante, è cioè un tentativo di spiegare ciò che travalica le possibilità
interpretative offerte da schemi abituali.
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Ricordiamo come “l’effetto di terrore provoca una rottura del legame sociale di intensità tale da rendere le strategie culturali di gestione del
dolore e della sofferenza ampiamente inutilizzabili. Viene attaccata la coerenza come
se l’obbiettivo fosse la sua eliminazione in quanto soggetto di pratiche culturali…”
(Vacchaino).Vengono minate le regole di condotta ovvie e
naturali.L’annullamento morale quindi è una strategia
potente di fragilizzazione.
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L’effetto di questa aggressione ai contenitori sociali e culturali è devastante,
determinandosi, oltre alle più immediate conseguenze in termini di lutto e dolore
fisico, anche l’amplificarsi di condizioni di sofferenza sociale legate al degrado
ambientale, all’erosione della pertinenza simbolica dei valori, alla frammentazione ideologica: disoccupazione, alcolismo, e
tossicodipendenza, violenza domestica ed urbana, suicidio, malattie sessuo-trasmesse
e povertà generalizzata (Kleinman et al. 1997).
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I torturati vivono uno sradicamento intimo, muto e segreto. La tortura ha come scopo
quello di annientare la personalità della vittima, mettere a tacere una voce, una storia.
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Il piano terapeutico deve quindi permettere di ridare voce e fare
emergere tale senso di sradicamento attraverso il piano
della comunicazione, della narrazione e condivisione.
L’isolamento tipico dei primi periodi in un nuovo contesto viene spesso identificato col
PTSD o con una depressione reattiva a scapito di quelle determinanti dissonanti con il profilo standard della vittima, ma
attinenti con le priorità individuali (Beneduce, Taliani, 1999).
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Richard: “Ho un amico qui in Italia, ma non voglio vederlo. Non voglio…”
La persona in questo caso sceglie di isolarsi per proteggersi dal rischio di
essere identificata e localizzata. Da qui l’equivoco con la patologizzazione
dell’isolamento.
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Richard non sa come passare la giornata. Spesso si siede su una panchina e
aspetta.Non riesce a concentrarsi, quindi gli è
impossibile fare altro.Richard come molti richiedenti asilo vive
tra ricordi oppressivi e sospensione esistenziale prolungata.(ricordiamo che i tempi burocratici per le pratiche sono di
20 mesi)
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I richiedenti asilo vivono un senso di condizione di vuoto e di dipendenza indefinita dalle risorse pubbliche che
trascina soggetti in passato attivi e consapevoli verso un senso di
improduttività sociale e di malessere esistenziale (Vacchiano, 2005)
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Continuano purtroppo le violenze e le umiliazioni.
Richard in un colloquio confessa che pensava di trovare qui un luogo sicuro.
“Quando arrivi pensi che sei salvo, invece le umiliazioni non sono finite.”
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Spesso la figura del richiedente asilo èassociata ad uno stereotipo: quello di
trovarsi di fronte ad un soggetto debole e bisognoso dal quale ci si aspetta passività
e gratitudine (Vacchiano,2011).
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Autori come Mallkki, Fassin, Beneduce sottolineano come l’idea della
beneficienza umanitaria trasformi i diritti in concessioni, rendendo i soggetti beneficiari dipendenti dalle istituzioni.
Il punto è che però il diritto non èriconosciuto, ma concesso implicando così situazioni di potere e di possibili
sanzioni.
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Noi operatori stiamo andando verso una relazione col richiedente asilo
“paranoicizzata” caratterizzata da sospetto (vero o falso rifugiato?) e da
rappresentazioni predatorie (scarsità di risorse).
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Concludendo…
“Nella nostra società i diritti sono un bene scarso e in via di esaurimento, dall’altro lato però c’è la speranza di una società inclusiva,
capace di utilizzare l’occasione dell’accoglienza per ridare vita a un tessuto di solidarietà non caritatevole, in grado di
difendere l’altro perché parte di sé e perchégaranzia del proprio futuro.” (Vacchiano,
2011)
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