GIANNI VENTURI. Cesare Pavese (Da Il Castoro n. 25)

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GIANNI VENTURI. CESARE PAVESE. da IL CASTORO N. 25, SETTEMBRE 1978. LA NUOVA ITALIA. Dunque devi sapere che io non scriver pi. Non scriver pi, ne sono quasi certo. Non ne ho pi la forza, e poi, non ho niente da dire. (Lettera a Mario Sturani, 8 aprile 1927). ... ti sei imbattuto in un piemontese, genus acre virum come dice da qualche par te l'aggiornatissimo Virgilio, padre di Dante, di Pavese, ecc., e vedrai cosa vu ol dire. (Lettera ad Antonio Chiuminatto, 5 aprile 1930). La sua tendenza fondamentale di dare ai suoi atti un significato che ne trascend a l'effettiva portata; di fare dei suoi giorni una galleria di momenti inconfond ibili e assoluti. Nasce di qua che, qualunque cosa dica o faccia, PAVESE si sdoppia e mentre pare prendere parte al dramma umano, altro intende nel suo intimo e gi si muove in una diversa atmosfera che traspare nelle azioni come intenzione simbolica. (Analisi di Pavese, datata 25 ottobre 1940, in una lettera indirizzata a Fernanda Pivano del 5 novembre 1940). Mi si consenta di parlare della mia opera come se fosse quella di un altro, e io un critico che non ha nulla da perdere. Dir dunque che quest'opera cominciata scontrosamente in pieno periodo ermetico e di prosa d'arte, quando il castello della chiusa civilt letteraria italiana resis teva ai venti gagliardi del mondo, non ha sinora rinunciato alla sua ambigua nat ura, all'ambizione cio di fondere in unit le due aspirazioni che vi si sono combat tute fin dall'inizio: sguardo aperto alla realt immediata, quotidiana "rugosa , e riserbo professionale, artigiano, umanistico--consuetudine coi classici come fo ssero contemporanei e coi contemporanei come fossero classici, la cultura insomm a intesa come mestiere. Della civilt umanistica quest'opera vuole (sia detto con tutta umilt) conservare i l distacco contemplativo e formale, il gusto delle strutture intellettualistiche , la lezione dantesca e baudelairiana di un mondo stilisticamente chiuso e in de finitiva simbolico. Della realt contemporanea rendere il ritmo, la passione, il sapore, con la stessa casuale immediatezza di un Cellini, di un Defoe, di un chiacchierone incontrato al caff... Quando Pavese comincia un racconto, una favola, un libro, non gli accade mai di avere in mente un ambiente socialmente determinato, un personaggio o dei persona ggi, una tesi. Quello che ha in mente quasi sempre un ritmo indistinto, un gioco di eventi che pi che altro, sono sensazioni e atmosfere. Il suo compito sta nell'afferrare e costruire questi eventi secondo un ritmo int ellettuale che li trasformi in simboli di una data realt. Ci gli riesce, beninteso, secondo il grado di concretezza, sensoriale, dialogica, umana, che porta nella sua elaborazione. Nasce di qua il fatto, non mai abbastanza notato, che Pavese non si cura di crea re dei personaggi. I personaggi sono per lui un mezzo, non un fine. I personaggi gli servono semplicemente a costruire delle favole intellettuali il cui tema il ritmo di ci che accade... Prima che italiane le sue letture sono classiche e poi sovente straniere. Pavese ritiene massimi narratori greci Erodoto e Platone (a proposito, egli non fa differenza tra teatro e narrativa), scrittori che mirano non tanto al persona ggio--come invece fanno Omero e Sfocle--quanto al ritmo degli eventi o alla costr uzione intellettualistico-simbolica della scena. Gli piace molto Shakespeare, ma non per la romantica ragione che questi crei per sonaggi indimenticabili, bens per una pi vera: il suo assurdo e meraviglioso lingu aggio tragico (e anche comico), le terribili frasi o tirate del quinto atto in c ui, per diversi che fossero i caratteri dei personaggi, tutti dicono sempre la s

tessa cosa. Gli piace, come narratore, Giovanni Battista Vico--narratore di un'avventura int ellettuale, descrittore ed evocatore rigoroso di un mondo-quello eroico dei prim i popoli--che ha sempre interessato Pavese e da anni gli ha fatto smettere ogni lettura amena per dedicarsi alle relazioni e ai documenti etnologici--testi in c ui egli ritrova quel senso di una realt simbolica e insieme fondata su saldissime istituzioni che, a suo parere, la fonte prima di ogni poesia degna di questo no me. Infine gli piace assai Hermann Melville, il cui Moby Dick ha tradotto, non sa co n quanta competenza, ma con molto trasporto, una ventina di anni fa e che ancora adesso gli serve da pungolo a concepire i suoi racconti non come descrizione ma come giudizi fantastici della realta. Questa lista di letture , s'intende, solamente indicativa. Ma a che scopo fare un facile sfoggio di nomi ? Resterebbero i viventi, gli ital iani viventi, ma a che scopo farsi degli amici interessati e dei nemici? Meglio evitare il trabocchetto e dichiarare--del resto, seccndo verit--che per Pavese il maggior narratore contemporaneo Thomas Mann e tra gli italiani, Vittorio De Sic a. (Intervista alla radio, 12 giugno 1950), Non parole. Un gesto. Non scriver pi. (18 agosto 1950). L'epistolario pavesiano, raccolto da Einaudi in due volumi, la testimonianza di Augusto Monti, di Lajolo e degli amici della confraternita , ma soprattutto la p aziente ricerca di Dominique Fernandez, hanno permesso di ricostruire il mondo a dolescente di Pavese, quel mondo che per Lajolo testimonierebbe della vocazione suicida dello scrittore, il vizio assurdo per il suo maestro, invece, avrebbe le caratteristiche tipiche della solitudine di un ragazzo introverso e per Fernand ez sarebbe la risultante dei traumi infantili--morte del padre, mondo femminile in cui stalo allevato, desiderio inconscio di autopunizione ecc. Qualunque sia l'interpretazione che si d a questi primi anni dell'apprendistato u nnano e poetico dello scrittore, non si pu negare che gi da ora si profila la stor ia di un destino in cui la tensione a vivere tragicamente la propria vita si ass ocia e si intreccia ad un disperato desiderio d'amore, a quell'apertura verso gl i altri che la sua stessa natura gl'impediva di raggiungere e d'attuare. Le lettere della giovinezza corrispondono agli ultimi tre anni di Liceo, dove il giovane Pavese ha per maestro un uomo di altissima tempra morale ed umana, quel l'Augusto Monti che esercit un'influenza eccezionale sulle giovani schiere di all ievi che formeranno ben presto il nucleo pi attivo della resistenza torinese. Tra il 1923 ed il 1926 Pavese partecipa dunque a quel rinnovamento delle coscien ze che non solo l'azione educatrice di Monti esercitava, ma che a Torino si conc retizzava nell opera di Gobetti e di Gramsci. Dapprima Pavese assai riluttante ad impegnarsi attivamente nella lotta politica: la testimonianza pi diretta della sua protesta contro i metodi e la prevaricazio ne fascista rappresentata da un gruppo di poesie politiche" contenute in Lavorar e stanca in cui si rintraccia, assai sintomaticamente, il fondersi del motivo pi propriamente politico ~ -- la repressione dei moti operai a Torino nel '22--con quello dell'infanzia e del ricordo. In qual modo possiamo gi renderci conto della fondamentale operazione che Pavese attua nel corso di tutta la sua predica: la riduzione degli avvenimenti esterni ad una problematica individuale e l'allargamento di quest'ultima a significazion e universale. Le lettere dell'adolescenza sono gi una risposta--sebbene ambigua-alla situazione umana e morale di Pavese: da una parte la risoluzione in letteratura di ci che p i lo turba sul piano esistenziale--il suicidio del l'amico Elico Baraldi, occasio ne di una poesia indirizzata all'amico Sturani; l'incapacit di esternare il suo a more alla compagna di classe, Olga, tema di meditazione sulla sua infelicit nelle lettere agli amici; la timidezza che lo rende incapace di ottenere un appuntame nto dalla ballerina Pucci, nucleo centrale della poesia inclusa in una lettera a llo Sturani del 1925--; dall'altra la volont confessata di una vita eroica, di un

far grande , di una tensione morale che rimarr la caratteristicha pi evidente del futuro scrittore. Dibattuto entro i lacci di una dissociazione tra l'orgogliosa affermazione di s e la constatazione amara di una sua inadattabilit alla vita, Pavese sceglie in d'or a la letteratura come schermo metaforico e metaforizzante della sua condizione e sistenziale: ecco come pu spiegarsi, al di l dei troppo crudi e crudeli agganci al la condizione unicamente vitale del Pavese uomo, ci che Fernandez chiama crise du sens de la ralit. Al di l, quindi, di una situazione assai complessa che le lettere testimoniano, n on credo sia indispensabile fare della crisi giovanile di Pavese il paradigma de ll'inevitabile destino di suicida dello scrittore: i componimenti giovaniIi sono la riprova--e il calco letterario--di un adolescente in conflitto con la realt, che cerca nella letteratura--e negli atteggiamenti letterari--la risoluzione dei suoi conflitti interiori: Io mi ho l'aria di un mendicante spiritualmente. A tutti vado descrivendo le mie miserie interiori, come gli accattoni van metten do in mostra la loro sordidezza. E per che cosa lo faccio? Per cercarne conforto? Per farmene vanto? Per caricarn e una pagina d'arte? Chi lo sa? Anche quest'incertezza parte, parte grandissima della mia miseria. (Lettere, 22 ottobre 1926). In queste righe adombrata una costante dello sviluppo poetico ed umano di Pavese , la necessit cio, di fare della propria infelicit individuale un tema che si allar ghi a rispecchiare la sofferenza umana, iI tentativo supremo di un agganciamento dell'io agli altri, l'archtipo delle dicotomie pavesiane--io-altri, soggettivo-o ggettivo, citt-campagna, carcere-evasione, adolescenza-maturit--dicotomie che cerc ano una sintesi, nei successivi momenti deIla poetica pavesiana o intravista nel la realt ~ delle cose e dei fatti oppure ricercata nel mito, l'ultima illusione d i ristabilire il circolo tra s e gli altri. L'opinione corrente e accettata da tutta la critica che la nascita del Pavese po eta vada rintracciata nella composizione de I mari del Sud, la poesia-programma che apre la raccolta di Lavorare stanca; ma quanto di costruito ci sia in questa nascita, apparve evidente dopo la conoscenza delle poesie giovanili dello scrit tore, nate librescamente sulla scia di tutta una cultura decadente e provinciale --D'Annunzio, i crepuscolari, e soprattutto i torinesi , Gozzano, la Guglielmine tti, Cena--oppure classicamente rivestite di moduli e modelli classici, da Leopa rdi ad una ineliminabile tradizione petrarchesca. I mari del Sud si presentano, invece, come superamento di tutto un bagaglio reto rico-classicheggiante e come cosciente opposizione alla volont lirico-individuale della poesia ermetica. Tuttavia un dubbio la critica non stata capace di risolvere, il dubbio che nasce dalla lettura del programma di poetica che Pavese scrisse nel 1934 per giustifi care la prima raccolta delle poesie e che assieme ad un altro saggio, A proposit o di certe poesie non ancora scritte del 1940, fu posto in appendice all'edizion e einaudiana di Lavorare stanca del 1943. Appare chiaro da una lettura attenta di questo testo che Pavese vuole costruirsi un'immagine della poesia in previsione del futuro; una specie di alibi letterar io che sempre alla radice di tutta la sua complessa personalit: da una parte il P avese lucido razionalizzatore d-1 suo mondo privato e di quello degli altri, dal l'altra la volont di rendere questa specie di chiarificazione in termini di cultu ra e di poesia. Ne Il mestiere di poeta, cos s'intitola il lavoro pavesiano del 1934, lo scrittor e affronta il problema della costruzione poetica affidata alla volont di una poes ia-racconto, di una poesia cio che sviluppasse un racconto entto l'ambito stesso della poesia e non in un canzoniere costruito dove lo scrittore non trova mai pa ssaggio fantastico e nemmeno, in fondo, concettuale . Questo gusto del racconto, questa volont di costruire una poesia, di per s rivelat ori di tutta una disposizione e riflessione raziocinante fatto poetico, vengono preparati da una parte dall'esercizio delle tr: zioni e dei saggi americani, dal l'altra dai precedenti esercizi poetici,-quali Pavese stato distolto proprio per

la loro letterariet--e le meditazioni sullo stile espresse in novellette mezzo d ialettali . I temi del Sud sarebbero dunque la scoperta di una dimensione nuova della poesia , dimensione che assume un valore di reazione ad un certo clima c rale ed indica la via risolutiva dell'aderenza immediata alie cose ed alla realt. Il ritmo in cui si disponeva il racconto della poesia era la mosa lassa di tredi ci versi che Pavese dice di avere scoperto per caso-decasillabo ad accentuazione ternaria, seguito da sei sillabe, che in seguito si riducono a tre--mugolando c erte tiritere con cui si dilettava nell'infanzia. In realt il verso pavesiano fatto per sostenere la misura narl ed al solito, la s pia della coscienziosa capacit critica di Pavese c sltruirsi un'immagine di s che fosse pi razionalizzata possibile, istintiva difesa ai mostri dell'animo. Il fatto che I mari del Sud sia un le poesie pi costruite da Pavese ci testimonia to da una scoperta d renzo Mondo, lo schema della poesia anteriore ad ogni stesu ra poetica: alfa) Salire in silenzio a vedere il faro (Siamo quasi in cima) beta) col cugino cos e cos~ (ghiacciaia, automobili, soldi) ( mi imbar~ domani ) gamma) (Mai parlare) E' stato l e l. Ha veduto inseguire b31ene / tra scl di sangue delta) Mari del Sud. Bellezza eps~lon) Langhe di notte (spirito) ZCfa) Domanda ( Tuo padre amava legg ere. Far soldi in famiglia. Pur non dcrli in medicine) eta) il faro della citt e del mondo sognati da bambini tcta) ~ morto. Li ha spesi in medicine. La vita dura. E smanLa. C' la presenza di un distico gi pavesiano: a Ha veduto inseguire ~ qlene / tra sch iume di sangue , passato integralmente nella stesura definitiva, salvo la sostit uzione di inseguire con fuggire, che testimonia l'improbabilit della pretesa casu alit del verso e quindi c'informa della volont pavesiana di costruirsi un'immagine nuova di poeta antitradizionale ed insofferente del clima letterario a lui cont emporaneo. Quanto di ingenuo ci fosse in questa fiducia pavesiana di un rinnovamento metric o-contenutistico ed in relazione poetico, della nostra tradizione letteraria app are chiaro dalle numerose suggestioni crepuscolari e dannunziane che possibile r intracciare all'interno de I mari del Sud, ed ancor prima, dall'adozione dell'el emento narrativo come possibilit di evasione dalla suggestione lirico-ermetica. La storia esterna di Lavorare stanca stata piuttosto laboriosa: per interessamen to di Massimo Mila e degli amici de La cultura , Pavese affida il manoscritto, d a cui sono state espunte sei poesie che non appariranno nella edizione einaudian a del 1943, bench aumentata e divisa in sezioni, al critico musicale che le porta a Firenze da Carocci, direttore di Solaria. Carocci chiede un parere a Vittorini che lo d favorevole, ma la pubblicazione del le poesie si protrarr per tutto il 1935, per gli indugi e le di~icolt tecniche in cui si muovevano le edizioni solariane. Solo nel 1936, quando Pavese sconta il confino a Brancaleone Calabro, il libro a rricchito di cinque poesie scritte al confino e senza alcune altre colpite dalla censura per il carattere scabroso dell'argomento--in totale quarantacinque--esc e tra l'assoluta indifferenza del pubblico e della critica. Il primo Lavorare slanca si apre con I mari del Sud dedicato ad Augusto Monti, la cui data di composizione non 1931, bens 1930, come le pazienti ricerche di Cal vino hanno dimostrato. L'influsso di Whitman, l'autore oggetto della s~la tesi di laurea, evidentissimo nella scelta degli argomenti e nell'andamento prosastico del verso, anche se Pa vese chiaramente rifiuta il verso libero whitmaniano, per il mugolio che diverr 1 ~ lassa pavesiana di tredici sillabe. L'autore di Leaves of Grass presente B n~n so!o nelle suc,gestioni legate ad un

ideale di letteratura-antiletter3lia, ma snche nella scelta dei temi, arricchiti dane contemporanee traduzioni e letture di Anderson, Lewis e Melville. Anche per Whitman la parola che per Pavese doveva essere chiara e distinta, musc olosa, oggettiva, essenziale , aveva la capacit di prendere il posto delle cose: Uno scrittore perfetto potrebbe trattare le parole s da farle cantare, ballare, b aciare... ~. La poesia un crogiuolo di situazioni tipicamente pavesiane: il rayporto adolesc enza-maturit, l'evasione, l'attaccamento alla propria terra, la figura dello scap pato di casa. Il cugino emigrato, dopo aver fatto fortuna in America, ritorna alle Langhe perc h le Langhe non si perdo~o . A lui che conosce il mondo rivolta l'ammirazione stupita del ragazzo che sogna m ondi nuovi e fantastica sull'evasione come felicita. Il cugino cos commenta la sua avventura: " Tu che abiti a Torino ... " / mi ha de tto ... ma hai ragione. La vita va vissuta / lontano dal paese: si profitta e si gode / e poi, quando si torna, come me a quarant'anni, / si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono " . C' qui il tema del ritorno alle origini, quel ritorno che in una disposizione nuo va chiude il ciclo pavesiano ne I a lur~a e i fal; ma, mentre nel romanzo--nella solitudine disperata del personaggio e dell'autore--il paese rifiuta chi ritorna , qui il cugino nelle Langhe ritrover il senso della vita, accettando il mondo de i suoi ricordi e della sua giovinezza. Ritrovare i motivi pi ricchi di sviluppo de I mari del Sud significa ripercorrere gran parte della poetica pavesiana: si pensi solo al tema dell'evasione nei mar i del Sud. Qui c' la suggestione di ~\~lelville, del Melville meno complesso, non ancora car icato da Pavese dei significati di destino e mito, l'evocatore dei grandi spazi marini, della libert intesa come fuga dal]a civilt. L'innovazione metrica de I mari del Sud implica ovviamente un procedimento stili stico che sia lontano quanto pi possibile dalle sugo~estioni liriche o musicali. Il verso ed il pericdo abbondano di costruzioni paratattiche che aiutano il form arsi di una disposizione lineare tale da sodlisfare l'esigenza di un verso lungo , prosastico e narrativo; lo stesso alternarsi dell'asindeto e del polisindeto c rea una zona di parlato che non verra dimenticata in tutto il libro, mentre l'us o del presente e della terza persona costruisce un ambiente di fondo, quasi scen ico, che rivela la fondamentale attitudine del poeta a porsi alla finestra per o sservare il mondo e le cose ritagliate da un angolo in cui possibile la contempl azione. Il motivo della finestra tra i pi comuni della poetica pavesiana: in fondo l'esse nziale atteggiamento dello scrittore di fronte alla vita nel quale dimostra la s ua impossii ita a coglierla direttamente. I mari del Sud dunque la scoperta dell'immediatezza, ma anclle l'esaurimento pre coce di essa. Onestamente Pavese riconosce l'insumcienza della tecnica della poesia-racconto n el momento stesso in cui sente di cedele all'oggetto e ad una cadenza naturalist ica; perci l'immagine abolita come tentazione lirico-soggettiva si accampa di nuo vo all'interno stesso della p~esia come racconto d'immagini: Avevo dunque scoperto il valore dell'immagine, e quest'imma~ine (ecco il pre~rni o della testardag~ine con cui avevo insistito sull'o"gettivit 3el racconto) non l a intendevo plU retoricamente come traslato, come decorazione pi o meno arbitrari a sovrapposta all'oggetti~it narrativa. (~?u~st imn1agine era, oscur~mente raccon to stesso. (Il mestiele di po~a, in Poesie edite e inedite, p. 199). La svolta di poetica appare in una poesia del 1933 ~a(~g?io I dove il lapporto p rimitivo d'immagini, il nucleo fondamentaie su cui corcresce tutta la trama di r apporti, dato dall'avvicinamento della fioura di un eremita al colore delle felc i bruciate. La meditazione di Pavese sulla metafora come struttura della poesia shakespearia na ed elisabettiana lo porta al convinci nento che non l'immagine deve essere il

centro della poesia, ma la trama d'immagini che diventano il racconto stesso de lla poesia: l'immagine come ritmo poetico. L'i-nmagine, tuttavia, in questa prima intuizione pavesiana, rimane allo stadio dell'analogia senza aver ]a forza di trasformarsi in metafora ed il racconto d i mmagini resta un semplice rapporto di similitudini senza la cap:lcit di ristruttu rarsi in un discorso logrico-fantastico. In altri termini, manca a Pavese la forza di ricostruire l'unit della poesia in u n centro sorrett~ cla a 10 ll~etafora, per cui le imrlal,ini rinangollo una serie riavvicinata di anaiogie. La rivendicazione della poesia come problema essenzialmente tecnico fa delle med itazioni critiche pavesiane su di essa un momento assai importante non solo al]' interno dclla sua opera, ma in relazione ad un clima culturale inlbevuto dell'es tetica crociana e del concetto di poesia come momento di conoscenza teoretica. Era chiaro che il gusto pavesiano per la tecnica , per il mestiere di poeta , ra ppresentava una precisa dichiarazione di anticrocianesimo- significava rivendica re alla tecnica il dominio della poesia, escludendo ogtu possibile suggestione d i poesia intesa come atto magico, come processo ineffabile. Il pericolo, semmai, che la priorit concessa al processo tecnico comportava, era quello di costruire delle poesie eminentemente intellettualistiche. Armanda Guiducci nel suo libro pavesiano rimprovera ad esempio a Pavese l'incapa cit di far del sayi1~g--il tono proverbiale con cui si chiude la poesia elisabett iana--ripreso da]lo scrittore, il nodo ]ogico-fantastico della pocsia, bcns il mo do con cui pu ricapitolare o gettar luce su tutto , che poi la spia del suo volon ta rismo poetico. Alla adorata immediatezza >~ si sostituisce dunque l'idea dell'arte come artific io, della cost~uzione tecnica che, bench legata allo sfruttamento dell'immagine a nalogica, vuole evitare il pericolo dell'al-bandono lirico, voluttuoso >~. Costringendosi alla volontaristica tecnica dell'immagine, lo scrittore fa propri o di questa tecnica, di questo mestiere, il concetto che lo salva --o lo potrebb e salvare--dal desiderio irrazionalis~ico di lasciarsi andare al voluttuoso inte so, vedremo, come selvaggio , come capacit di perdersi entro le spire clella prop ria angoscia individuale; ma il mestiere, la ragione, la poesia conne clliarezza entro cui Pavese versa tutta la sua altissima moralit ed umanit nulla pOSSOI10 co ntro lo scatenarsi di quel mondo oscuro, serbatoio di miti cbe egli voleva porta re a chiarezza e che paradossalmente uccidono e rendono inutile il mestiere per mezzo del quale erano stati esorcizzati. Se Paesaggio I poteva non sempre risolversi in una trama d~immagini~ che poi il risultato a cui Pavese voleva arrivare, per un eccesso di pittor~cit~z che inter rompe~-a il rscau di queste immagini in funzione narrativa, ~ con Gente spaesata che i rapporti collina-sesso, fiori-ragazze sono il racconto stesso: alla teclli ca della poesia-racconto si sostituisce quella dell'i magine-racconto. Dopo aver visto i binari entro cui si muove l'esperienza poetica di Lavorare sta nca, sar utile ripercorrere i temi della raccolta per darci ragione delle scelte di quei motivi che rappresenteranno ormai delle situazioni all'interno stesso de lla poetica pavesiana. L'edizione definitiva di Lavorare stanca quella pubblicata da Einaudi nel 1943; anch'essa sub una serie di vicissitudini dovute alla guerra, alla mancanza di car ta da stampa, all'attivit ancora saltuaria della casa editrice di cui Pavese era diventato l'anima organizzativa. Le poesie furono tutte scritte entro il 1940--sono settanta--divise in sei sezio ni: Antendti, Dopo, Cittd in campagna, Maternit, Legna verde, Paternit, accompagna te da un'eppendice A proposito di certe pc)esie non anco~a scritte. Nello scritto teorico Pavcse riprendendo il discorso de Il mestiere di poeta, ma con una maturit critica diversa, appuntava la sua attenzione sulla disposizione a gruppi che in un certo senso veniva acl af~ermare la volont di fare un poema, co strutturare le poesie in funzic,ne antitetica al primitivo piano di lavoro del p eriodo 1930-34. Per giustificare il passaggio, Pavese scrive che l'unit di un gruppo di poesie (i l poema) noll un astratto concetto da presupporsi alla stesura, ma una circolazi one organica di appigli e di significati che si viene via via concretamente dete

rminando e proprio nelle meditazioni diaristiche-il Secretum prof~ssionale scrit to in esilio che apre il Dia~io e le notazioni successive che laboriosamente acc onlpac7nano la stesura delle poesie ed il loro cliradarsi-- sta la chiave dello sviluppo di poc-tica di Pavese che, concludendo una ricerca cominciata come acle sione totale alla realt, approda all'evocazione lirico-musicale da cui voleva rif uggire: allora, il romanzo ed il racconto possono salvare il rapporto tra l'io s egreto dello scrittore e gli altri, mentre la poesia si conclude con l'abbandono a quel voluttuoso che il SUO voler essere ~li n~ostrava come l'~strinsecarsi de lla 12 sua debolezza esistenziale. In questa nuova disposizione ad una poesia che sia anche canzoniere ~, viene sup erato il motivo dell'immagine-racconto: non questa legat~ sempre ad una realt ogg ettiva, ma la narrazione di una realt simbolica deve essere alla base del singolo componimento e della sua ripartizione in gruppi simbolici. I1 processo di stilizzazione si awicina ormai al limite estremo di una poesia ch e per evitare il naturalismo si compiace di un prezioso intellettualismo in cui riversare la fondamentale disposizione lirica di Pavese. La poesia sar un giudizio a~ldato all~immagine: la donna quindi l'immagine attorn o alla quale si r~pportano le altre immagini, colline, albe, silenzi, chiarore e lucore; mai la situazione decisa, ma la nuance, non lo strepito, ma i silenzi: La collina notturna, nel cielo chiaro. / Vi si inquadra il tuo capo, che muove a ppena / e accompagna quel cielo. Sei come una nube / intravista fra i rami ... (Notturno, 1940). Per giungere a questo processo di astrazione, Pavese percorre una strada fatta d i successive tappe d'avvicinamento alla poesia come efEusione lirica. Concorrono alla risoluzione pavesiana non solo i motivi privati ed umani della s ua vita--il confino, l'abl7andono della clonna dalla voce rauca, il periodo di d isperazione senza conforto e le decisioni degli amici di partecipare sempre pi at tivamente al movimento resistenziale--, ma anche e soprattutto l'abbandono della poesia intesa come atto volontaristico per una idea nuova di essa, una poesia c io che abbia in s, nello sviluppo delle immagini, una carica simbolica tale da evo care una realta non pi naturalistica, ma mitica, ritmata da un tempo interiore. Il decennio di studi americani non passato infruttuosamente: Pavese accanto alla costruzione di un mito--l'America come luogo ide~le di libert, la terra in cui s i armonizza il concetto di regione e nazione, con l'armonico fondersi cli dialet to e lingua--apprende a ritmare, a cadenzare l'evcnto poetico secondo una misura che quella del destino individuale. Ecco la grande lezione degli americani: la riscoperta in essi del proprio mondo poetico ed umano. Dominique Fernandez ha tentato, assai finemente, di ragguppare i temi di Lavorare stanca, specie del primo, secondo uno schema che ci dia anche un'immagine di Pa vese filtrata nelle opere, un'immagine cio che metta 13 in luce le ragioni non so lo poetiche, ma anche psicanalitiche delle sue a dalle indicazioni stesSe di Pavesse ul a telmatica della raccolta assai di 14~ tapporto umano tra s e i propri lettori. Qual' dunque il risultato di un libro come Lauorare stanca? Pi che di risultati poetici raggiunti, Lavo~are il documento cli una crisi cultur ale e di una proposta che non solo intetessante per IO svi]uppo futuro di Pavese scrittore, ma anche si presenta come tentativo, origTinale e nuovo nel panorama della cultura italiana, di risolvere una SituaZJOne in CUi l'ermetismo stava sc lerotizzandosi in una stanca ripetizione di motivi. Non poi determinante che la proposta pavesiana si muova entro l'ambito del decad entismo, lo assai di pi che essa serva ad un rinnovamento cl~e non tarder a dare i suoi frutti anche al di l dell'esperienza p..vFsiatla stessa. Per questo mi sembra sintomatico che l'operazione poetica di Pavese non avesse n essuna risonanza nel momento della prima pubblicazione di Lal~orare ed invece as

sumesse tanta importanza nel ~3, in un mcn1ento in CUi il rinnovamento della poe .sia, l'ansia di nuovi contenuti e di un nuovo impegno portavano a maturazione l e intuizioni poetiche e critiche di cui Pavese era stato precursore, inoltre giu ngevano a maturazione i frutti della lezione americana, tanto vero clle non poss ibile separare l'esercizio po~ tico da quello di Pavese americanista e basterebb e pensare a certe situazioni che Pavese recupera non nella piatta imitazione di temi accolti dalla letteratura americana, bens nel ritrovare in una dimensione ar nericana i propri temi, le proprie situazioni. In Lavorare stanca a]clme figure e momenti sono gi pienamente pavesiani, hanno ci o quella particolare cadenza che poi la novit della scrttura di Pavese. Sono certe igure che passeranno di peso nei racconti e nei romanzi: il ragazzo in sofferenle e ribelle di Avventure, Civilt antica, Ulisse, Disciplina e di molti a ltri componimenti della raccolta, il Pale de Il nome, il Biscione di Notte di fe sta, l'Anguilla de La luna e i fal; cos certe situazioni, tra autohiograficlle e s imboliche ritornano in una nuova cisposizione com' quella del romanzo, sollecitat e e riprese all'interno di una poetica che si configura come una spirale che dil ata ed accoglie motivi g;a srerimentati nella poesia. Un esempio assai indicativo di questa operazione pu essere ~latt~noJ 1 una poesia scritta nel 1940 per Fernanda Pivano che accoglie e dispone in una situazione p oetica temi gi sviluppati nel Carcere che, a sua volta la risultante di una situa zione ben precisa quale l'universa1i~zazione (~ei motivo della solitudine come c arcere e destino del]e vicende biografiche dell'autore nel momento del confino e dell'abbandono della donna dalla voce rauca: La finestra socchiusa contiene un volto / sopra il campo del mare. I capelli vaghi / accompagnano il tenero ritmo del mare. // Non ci sono ricordi su questo viso. / Solo un'ombra fuggevole, come di nube. / L ombra umida e dolce come la sabbia / di una cavit intatta sotto il crepuscolo. / Non ci sono ricordi . Solo un sussurro / che la voce del mare fatta ricordo. // Nel crepuscolo l'acqua molle dell'alba / che s'imbeve di luce, rischiara il viso. / Ogni giorno un mir acolo senza tempo, / sotto il sole: una luce salsa l'impregna / e un sapore di f rutto marino vivo. // ~ron esiste ricordo su questo viso. / Non esiste parola ch e lo contenga / o accomuni alle cose passate. Ieri, / dalla breve finestra svanito come / svanir tra un istante, senza tristezz a / n parole u-nane, sul campo del mare (Mattino, in Poesie cit., p. 160). La poesia ormai su quella disposizione lirica che preannuncer l'ulteAore vicenda di La terra e la morte del 1945 e di Verr la morte e avr i tuo~ occhi del 1950, ma all'interno di cssa c' gi compreso tutto il cammino da I mari del Sud fino a ques to risultato. Si pensi alla struttura poetica come racconto d'irnmagini, si pensi soprattutto alla tecnica della ripresa-finestra, mare, ricordo, viso--la cui suggestiGne nas ce da una lunga Meditazione di Pavese prima sulla poesia di Omero, che per otten ere l'unit del poema ricorre a a certe formule liriche che ricreino il vocabolari o, trasformando un appellativo o frase in semplice parola , poi, sul signifcato d ella poesia del Novecento essenzialmente lirica, non tragica ma ~. In altre parole il ritmo stilistico esso stesso moralita anzi l'unica possibilit morale dell'autore. ~: questo ritmo clle diverr in seguito il pulsare degli event i scanditi nello stile, la misurabilit del destino. Solo il peccato d'origine rimane: Pavese non sapr razionalizzare il destino, ma c ogliendolo nella sua fissit e colorandolo di sensi religiosi ne rimarr ineluttabil mente imprigionato. Le s~esse considerazioni sul poema omerico~ dicemmo avanti, determinano una rifl essione accurata sulle possibilit poetiche della parola e dell~appellativo ritorn ante, riflessione clle si attua anche in certe poesie di carattere spe~imentale come ne La vecchia ubriaca in cui la parola ritornante sole ~ scandisce e defini sce il componimento: Piace pure alla vecchia distendersi al sole / (...) / Delle cose che bruciano non rimane che il sole / (...) / che anche il corpo era giova ne, pilJ rovente dc] sole / (...) / Pcr le vigne distese la vocc del so]e / (... ) / i,'erba ~iovane come la vunpa cIcl sc)]e / (...) (La vecchia ~Ibriaca, in Po esic cit., p. 1-17). La consideraziolle sullo stile, sul costruire in arte va di pari passc~ con 23 l a lenta costruzione di se stesso dopo O scacco umano ed amoroso ed in questa volo nt di un riscatto morale delle proprie debolezze sta il segno della validit~i del l'esperienza pavesiana ed in questa disposizione va letta una nota del Diario, p receduta s da lamenti e strazi indicibili, ma tanto pi valida quanto pi l'umanit del lo scrittore risente in un momento di crisi della necessit di ricostruire in arte come nella vita: Non ho ancora compreso qllale sia il tragico dell'esistenza, non ne sono ancora convinto. Eppure tanto chiaro: bisogna vincere l'abbandono voluttuoso, smettere di conside rare gli stati d'animo quali scopo a se stessi ... La lezione questa: costruire in arte e costruire nella vita, l)andire il voluttu oso dall'arte come dalla vita, essere tragicamente. (Diario cit., p. 43, 20 apri le 1936). Il binomio tragico-voluttuoso esemplifica l'intenzione di un vivere eticamente c onscio delle proprie responsabilit che si opponga, in arte come nella vita, all'i mpressionismo delle sensazioni, alla morbida cura di esse adoperate in s e per s. Il problema personale si allarga a metodo di vita --il famoso mestiere --in cui arte ed esistenza debbono avere un'ugual radice eroica e chiarificatrice: fare d elle poesie un poema unitario, creare uno stile che sia il mezzo di afferrare la realt, bandire dalla propria vita l'abbandono al voluttuoso sono momenti diversi di una stessa idea, quella cio di far della propria vita una presenza attiva nel momento storico in cui si vive, non subire gli eventi ma dominarli, non essere ragazzo ma adu]to: ripeness is all, insomma.

Di questo indissoluhile intreccio di ragioni morali e stilistiche il nodo rappre sentato dalle poesie dell'esilio in cui la costruzione da mezzo puramente ~ecnic o diventa regola di vita e viceversa il caso umano diventa regola di stile: Il c aso sembra volermi insegnare a trasformare la mia disgrazia in un deciso rivolgi mento di poesia , ma non solo la poesia--in un momer)to in cui essa diventa afte rglcw--bens anche il nuovo interesse per i racconti ed il romanzo. In Ser~iplicit, l'accentuazione dei terni della solitudine e del destino2- carcer e servono a porre in risalto il motivo biogral~co, ma non si deve dimenticare co ~e poi questo mGtivo diventi il nuceo cli racconti come Terra d'esilio o di roman zi come Il carcere, fino all'estren~o complicarsi del tema nella poetica clel mi to in cui carcere, destino, solitudine sono i momenti sia1bolici di un cvento im mutabile e mitico. Qui nc!la poesia l'immagine non pi nucleo poetico, ma ri ~roviamo in essa il tent ativo pavesiano di un ritmo pi rapido, l'ansia di non soggiacere all'abitudine pe r cui ritorna un ritmo dialettale in cui la ripetizione serve da scansione inter iore di un pensiero reso secondo l'asintatticit tipica di certe zone di parlato: -- conducimi tu (Ibid., p . 263). La bella estate, proponendosi come tema il passaggio dall'adolescenza alla matur it, era la risposta al motivo pi segreto di Lavorare: la solitudine ribadita anche nella raggiunta coscienza di s, nell'abbandono della felice giovinezza, il tempo della festa. La spiaggia approfondisce il tema della Bella estate ovvero la maturazione inter iore, entro uno studio non pi dell'uomo singolo, ma di una societ borghese e della sua corruzione. Le notazioni del Diario sull'adolescenza e sul suo significato, apparentano i te mi della Bella estate alla Spiaggia: Segno certo d'amore desiderare di conoscere , di rivivere, l'infanzia dell'altro ~ (p. 205), esattamente ci che far Clelia nei confronti di Doro suo marito o il narratore allorch rivive con Clelia l'infanzia di quest'ultima. Un'altra nota dello stesso anno sembra spiegare i tempi del romanzo, il ritorno alla terra, cio, e la vita di spiaggia: La vita pratica si svolge nel presente, l a contemplativa nel passato. Azione e memoria (p. 209). La spiaggia, scritta dal 6 novembre 1940 al 18 gennaio 1941, esce a puntate sull a rivista romana Lettere d'oggi nel '41. Raccolta in volume nello stesso anno, verr ristampata postuma da Einaudi solo nel 1956. ~ l'analisi di una societ, quella dell'alta borghesia, con la sua grazia mondana, con la sua gioia di vivere, con quell'apparente mancanza di problemi che nascon de invece la condanna pi profonda: la perdita di se stessi. Doro, l'amico dell'io narrante, ritorna a Torino in estate a trovare l'amico pro fessore. Quest'ultimo si accorge subito della strana irrequietezza 66 di Doro che, invitandolo al mare, gli propone, prima, un ritorno alle terre d ella sua infanzia e qui, nelle Langhe, Doro per un momento sembra ritrovare se s tesso ragazzo; ma solo per un attimo, poich il ritorno all'infanzia proibito.

Resta la spiaggia e la sua vita, fatta di giuochi e di relazioni sottili in cui i diversi personaggi si mescolano, si toccano, si lasciano in un gioco allusivo ed elusivo: Clelia che cerca se stessa nella solitudine, il giovane Berti che s' innamora di lei, Doro che sfoga nella pittura la sua irrequietezza e la sua delu sione della vita e la folla volgare ed ipocrita della spiaggia, di un mondo in f esta ma profondamente deluso. Alla fine l'azione non si scioglier in dramma: Clelia rimane incinta e ritrova se stessa nel figlio; Doro si riavviciner alla moglie; Berti, soffrendo, acquister l a maturit. La vita di spiaggia finita ed il professore ritorner solo in citt ed ai suoi studi . Pavese stesso avvalor la tesi che La spiaggia fosse un romanzo d'evasione, che no n partecipa alla costruzione del monolito >~ come gli altri romanzi, tesi che qu asi tutti i critici, escluso il generoso tentativo di Leone Piccioni, condiviser o. Certamente La spiaggia un romanzo minore, ma non per questo non possibile rintra cciare notivi interessanti anche in questo studio di societ. Piccioni propone per La spiaggia un avvicinamento--o meglio, una suggestione let teraria--ai romanzi di Fitzgerald e qualcosa di vero c' in questa indicazione, sp ecie per la descrizione della donna, per il fascino di un mondo apparentemente i rresponsabile alla ricerca, come gli eroi fitzgeraldiani, del divertimento e del la distrazione; ma tutto ci non pi di un'eco: al fondo rimane la sostanziale prese nza di tutto il mondo pavesiano e della sua geografia spirituale, solitudine, ad olescenza, maturit, ritorno alla terra, un susseguirsi di gesti apparentemente us uali, di ogni giorno, che dalla loro banalit sanno ritrarre sensi profondi, quasi il ritmo del]'accadere. La struttura del romanzo per totalmente fallita: tra l'avventura notturna di Doro nelle sue terre e la vita di spiaggia non c' qualcosa che colmi uno iato cos fast idioso; Pavese poi, non ha la sufficiente capacit di dipingere lo spirito di una societ a lui cos lontana, proprio perch non ha iroLua e la sua robusta moralit piemo ntese si scontra con un mondo che non capisce. Bisogna che questa societ sia analizzata nella sua componente drammatica, nel suo vizio di fondo perch possa essere credibile e assurta a paradigma di un modo sba gliato di credere nei valori della vita. Qui, il tentativo pavesiano rimane tentativo e basta. Semmai, l'aspetto pi interessante del romanzo rappresentato dalla figura di Cleli a, una delle poche donne della narrativa pavesiana che non si proietti in simbol o: Clelia po~ liedrica, bizzarra, elusiva, ma vera. Come le altre eroine pavesiane, la Cate di La casa in collina o la Clelia di Tra donne sole, ella si costruisce o tenta di costruirsi il suo destino ed in ci sta la sua positivit e la sua umanit. Di fronte a lei sta Doro, il marito che un uomo dall'animo di ragazzo, con i tre mori, le angosce di chi non ha ancora afferrato il senso della vita. Tutta l'avventura tra le colline una vana ricerca di Doro della sua giovinezza f elice, dei suoi sogni di ragazzo; ma il paese rifiuta l'eroe che discende agli i nferi per ricercare le madri ed in questo senso La spiaggia un preludio importan tissimo alla situazione de Il diavolo sulle colline, ma soprattutto de La luna e i fal. Con La spiaggia si chiude il decennio preparatorio dell'attivit pavesiana. Consumati nei romanzi, nelle poesie e nelle traduzioni i residui di una personal it in cerca di se stessa, Pavese ora pu affrontare il momento pi alto della sua poe tica: il mito e la sua teoria. Gli anni pi tristi della guerra sono, per Pavese, quelli in cui egli sistemer la g rande teoria del mito facendo appello ancora una volta alla contrapposizione tra citt e campagna che, sotto l'impulso degli studi etnologici, diventa ora antites i tra luogo mitico (la campagna) e luogo umano (la citt): Che dire se un giorno le cose naturali--fonti, boschi, vigne, campagna-saranno a ssorbite dalla citt e dileguate, e s~incontreranno in frasi antiche? Ci fa68 ~ann o l'e3:ctto dei theoi, delle ninfe, del sacro naturale che emerge in qualcht vers

o greco. Allora la semplice frase a c'era una fonte ~> ci commuover. (Diario cit., p. 308, 15 ottobre 1945). Il mitico si fonde dunque in Pavese con la campagna--e vedremo che proprio dall 'associazione mitico-rustico nascer il selvaggio --e trasforma l'universo pavesia no fatto di colline, alberi, campi di grano e vigne in luoghi unici dove un temp o avvenuto il prodigio che si ripete neJla storia e nella coscienza individuale. L'interesse di Pavese per il mondo mitico-religioso della campagna sollecitato d alle letture fondamentali di quegli autori che agiscono come presenze ineliminab ili nel suo pensiero estetico: Frazer, che legge nel 1933, gli colora di un sign ificato religioso le feste dei campi; Lvy-Bruhl, letto nel 1936, lo avverte che n el pensiero primitivo la similitudine con cui s'indicava il dio, era il dio stes so; Vico, la presenza pi importante, lo conferma nell'idea di un momento mitico d ell'umanit, ma soprattutto gli insegna che il primitivo ed il rustico si associan o nel selvaggio ; Mann, di cui legge Le storie di Giecobbe nel 1942, lo illumina sul rapporto tra mito e poesia e nel '45, sull'idea fondamentale del ritorno de gli eventi. Restano taciuti gli autori pi inquietanti: il Freud di Totem e tab da cui Pavese t raeva l'idea fondamentale di un rapporto strettissimo tra la psicologia del prof ondo ed il mito; Joyce, che gli insegna con Dedalus la capacit di un rinnovamento dello spirito che si cala nel subconscio per esorcizzare il male; Jwlg e la col oritura metafisica della sua teoria del mito; Eliade ed il tema dell'eterno rito rno; infine Kernyi, mutuato da Mann, in cui ritrova l'idea del mito come momento unico e la sua ripetibilit nel mitologema. Da questa selva di motivi, Pavese cerca di enucleare una teoria filosofica ed es istenziale le cui tappe fondamentali sono le pagine del Diario degli anni 1942-4 6, Feria d'agosto, Dialoghi con Leuc. Non sempre per il pensiero chiaro, poich Pavese non sempre ha la forza di tradurre in un discorso preciso le sue intuizioni: spesso egli s'invischia, se non in co ntraddizioni, almeno in ripensamenti che lo portano non a costruire un sistema f ilosofico, ma a creare una serie di temi poetici che raggiungono alti risultati artistici 69 nelle ptose di Feria e dei Diatoghi. Direi, perci, che la teoria de~ mito ser~e pi come suscitatrice di situazioni poet iche che come condotta di vita, anche se quest'ultima non mai disgiunta dalla ri cerca artistica. ~ vero solo in parre che il mondo ctonio, la consapevolezza del destino comc carcere, la significazione simbolica del]a realt diventino l'inevit abile vizio assurdo che lo porta al suicidio: c' nell'altissima coscienza della p oesia chiarificatrice ed ordinatrice che illumina il mondo del caos, la grandezz a dell'uomo chc tenta in ogni modo di ristabilire il circolo con gli altri, di f are della sua solitudine non il mezzo di smarrirsi nella selva dei miti, ma la p ossibilit di portare alla luce una ricchezza intatta d'umanit di cui partecipe non solo l'artista, ma ognuno di noi: Non dunque privilegio di chi fa della poesia questo tesoro di simboli~ che pure a far poesia sono indispensabili, ma bagaglio sovranamente umano, necessarlo a s erbare la coscienza di s e insomma a vivere. Il contadino o la donnetta non ci dicono gran cosa, ma anche essi parlano, e cio trasmettono e cre~no la rea!t3. Sotto la l~toia vige anche per loro una immobile eternit di segni che ~e noll li trav~glia coi suo ~ni~ma, li ~od(lis~a p~r, inc(.nsa~ (Jli, nell~ loro '~,'dlt3 i stiniiva. (Sta~o ~li gYa ~, in Le~t. am~ric. cit., pp. 310-ll). Il mito diventa eticit, quando, partendo da esso lo si distrugge volontariamente per ritrovare la coscienza di s e degli altri, spiegare il mito non signirica rif ugiarsi in esjo, poich la ricerca pavesiana non contemplazione elegiaca di un pas sato che sostanza e carne della nostra psiche, del nostro essere che cos e nient' altro che cos, non insomma il giuoco di un uomo pronto a rifugiarsi nella morte c ome ultima salvezza o ultimo fatale approdo. C' in Pavese, non il piacere d'inebriarsi nella discesa nel pozzo del passato, ma la necessit di crearsi, attraverso il mito, la possibilit di una vita di valori, poich necessario conoscere se stcssi, affondando negli archetipi del mito individ

uale--le coliine, l'infanzia, citt-campagna o le altre dacronie su cui si fonda ]a sua concezione della vita--ma non per perdercisi dentro, per vivere dolentement e o furiosamentc nel carcere 70 destmo, sibbene per issarli--chiarificarli--in un a ~oesia che si~ anche moralit, senso della vita e del suo farsl. Cos il mito divent~a non il labirinto deila coscicnza o la gran madre in cui almu llarc la propria esistenza o perdere i] senso delle pLoprie responsal~ilita, ma il tentativo pi alto, eroico e ambiz;oso c~ ccor~iarc un mondo dl va]ori con le a ng()sce dell'animo. La prima e pi compiuta esposizione delle tcorie sul mito appare in un saggio dal titolo assai significativo, Del milo, del simh~lo e ~l'altro, COIllposto tra il 1943 ed il 1944 e pubb]icato in Feria d'agosto assieme a Steto di gra~ia, La ado lescenza, Mal ~ esfiere, che defniscono e scavano i risultati a cui le note del D iario avevano dato una prima forma. Il mito e la sua sacralit sono legati al concetto dei luoghi unici : A un luogo, tra tutti, si d un significato assoluto, isolandolo nel mondo (Del milo, ecc., or a in Lett. amerie. cit., p. 299), su cui sorgeranno i sacrari o altri segni reli giosi. Anche per l'uomo, scrive Pavese, riprendendo il concetto da Vico, esistono luogh i unici che sono quelli dell'infanzia: in essi accaddero cose che li han fatti u nici e li trascclgono sul resto del mondo con questo suggcllo mitico . L'uomo dotato di una ricchezza spirituale straordinaria che egli non conosce se non quando il ricordo solleva a livello cosciente il luogo unico, sia esso vigl1 a, p;ato, albero e colline, che talc, cio mitico, in quanlo il ricordo assolutizz a la categoria a cui esso appartiene ed in tal modo una vigna diventa la vigna, caricandosi di una simbolicita cl1c l'inpronta del mito. Il mito, come dice I~ernyi, non che l'evento atemporale ed aspaziale la cui unici t coincide con l'attimo estatico, il momento assoluto, che simbolico in quanto la ripetizione dell'evento mitico avviene nel simbolo: la redazione poetica del mi to o il ricordo di esso avviene nella storia, mentre il mito fuori di essa. Il mito, sia esso di un popolo o di un uomo singolo, stabilisce una normativit de lla vita poich: tutte le vicende quotidiane acquistano scnso e valore in quanto n e sono la ripetizione o il ri~esso ~> (Ib., p. 301). Diventando simboliche, le azioni si caricano di un valore assoluto in quanto anc he il simbolo un oggetto, una qualit, un evento che un valore unico, assoluto str appa alla casualit naturalistica cd iso]a in lIlezzo alla re.llt (Ib., p. 301). Stabiliti i rapporti tra IllitO e simbolo, Pavese scrive che il n~ondo del- 71 l 'infanzia non pu essere il mondo dove si conoscono le cose, ma quello dove immemo rialmente il fanciullo accoglie le cose una prima volta, che solo il ricordo adu lto porter a conoscenza. La (Ib., p. 302). La seconda volta , sia essa interpretata come una specie di anamnesi platonica o sia invece desunta dal significato decadente del ricordo e delle sue possibilit, vuol dire ripetere ]a realt che ci colp nell'infanzia, senza che noi lo sapessimo , vuol dire vivere di simboli. Sempre, per quanto si torni indetro, vi una seconda volta che si perde nel tempo, fino ad uscirne, fino a confondersi con la prima , quando: Ci che in essa , : qui l'attimo equivale all'eterno, all'assoluto (Stato di grazia, in Lett. americ. ci t., p. 308). L'uscita dal tempo l'unicit del mito, ]o spazio ai confini con la coscienza, dove il mito na sede: a quel momento velato in favolosa intemporalit, quando ricevemm o l'impronta che doveva dominare il nostro avvenire secondo i modi appunto del m ito. Cos l'oscurit della " prima volta " sarebbe spiegata per l'analogia che offre con la natuta del mito preistorico: e "prima volta " sarebbe insomma, assolutamente ci che accade una volta per tutte (Ib., p. 310). Qui, pi chiaramente che altrove, anche nello stesso linguaggio, appare l'influsso

decisivo di Thomas Mann e di Kernyi. Pensiamo per un momento al concetto della prima volta e a quello dell'eterno pre sente, che sono tra i temi p a~asclnanti del Mann di Giuseppe e i suoi tratelli. Scrive lo scrittore tedesco nel Prologo al romanzo: Perch il passato , sem?re ancl1e se l'e~pressione del popolo suona: fu. Cos parla il mito, che soltanto la veste solenne del mistero, ma la veste solennc del misiero e la fesia che ritorna a date Gsse supera le temporali Aistanze e a ,~li occhi del popolo rende ~7resent; il l~assato e ii futuro. (Th. Mann, Il pozzo 72 de1 passato, l~lilano l')O, p. /5~. Questo concetto altro non che l'idea pavesiana del mito come eterno presente, l' attimo estatico, l'evento unico che si ricollega con l'altro tema che Pavese mut uer dalla cultura etnologica, del ritorno, della ripetizione degli eventi, tema c he prima ancora che in Mann e negli etnologi, lo scrittore ritrovava in Vico (cf r. Diario, 18 febbraio 1945), e che diverr, nei romanzi della maturit il Leitmotiv de lla festa, del ritorno dell'estate, dei ~al. Anche un grande etnologo e studioso delle religioni come Mircea Eliade, poteva s uggerirgli e confermargli il concetto del mito alle soglie del tempo e della cos cienza: Les mythes, l'assurent [l'uomo delle societ primitive] que tout ce qu'il fait, ou entreprend de faire, a t dj fait au dbut du temps, in illo tempore. Les mythes constituent donc la somme du savoir utile. Une existence individuelle devient, et se maintient, pleinement humaine, respons able et significative, dans la mesure o elle s'inspire de ce rservoir d'actes dj acc omplis et de penses dj formules. (M. Eliade, Mythologie de la mmoire et de l'oubli, N .R.F. , XI, 1963, 124, p. 607). La scoperta del mondo, tramite la seconda volta ~>, fa dell'infanzia il tempo mi tico in cui va scavato il tesoro dei nostri ricordi: poesia dare il nome alle co se, quelle cose che l'infanzia ha scoperto, con il tramite del segno culturale-libri, racconti, favole--e che il ricordo fa affiorare alla coscienza; il ricord o per, non , come ad esempio in Proust, il mezzo con cui si risale il passato, ma la possibilit di soffermarsi nel passato stesso. Funzione ultima della poesia quella di portare a chiarezza i miti senza togliere loro la carica simbolica: un grande compito, questo, che investe anche tutta un a zona morale; far poesia, non significa creare un serbatoio di miti, ma chiarif icarli, dando loro un nome. La tegola andersoniana della poesia che deve porre ordine l dove c' il caos, in qu esta nuova prospettiva, si colora di significati profondi: Fonte della poesia sempre un mistero, un'ispi~azione, una commossa perplessit dav ~nti a un irra~ionale--terra incognita--. Ma l'atto della poesia-se lecito distinguere qui, separare la fiarnma dalla mate ria di~ampante -- un'assoluta volont di veder chiaro, di ridurre a ragione, di sap ere. Il mito e il logo. (Po~3~a lib~irt, in Lett. a~eric. cit., p. 330). I! poeta non deve abbandonarsi mclralmente a credere che quel mistero che la poe sia chiarisce sia inesausto: esso si accende solo in s o al contatto con i mister i che altri poeti hanno chiaril'icato nlla loro poesia: C' un senso in CUI iI poe ta autentico non pu non essere il pi colto dei letterati contemporanei , pena la c aduta della poesia, il suo svilirsi in letteratura. La stessa solitudine, pena ed orgoglio d llo scrittore, diventa mezzo per crear poesia: Un poeta, i~ ~ua1?to fale, lavora e scopre in solitudine, si separa dal mondo, non conosce altro dovere che la sua lucida e furente volont di chiarezza, di demolizione del mito intravisto, di riduzione di ci ch'era unico e ineffahile alla normale misura un~ana (Ib., p. 332); in questo sforzo consiste l'importanza sociale ed etica del poeta: il suo compito nel rnondo quello di ridurre a chiar ezza per tutti un problema individuale, di far dello stile in cui il mito assurg

e a parola, la regola morale, l'essere delmlomo ed il suo fare. E chiaro clle in questa vo~ont~ espressa di bandire il voluttuoso dal!a vita com e dall':lrte, c' una preoccupazione di salvarsi dall'irrazionale. dal selvaggio, che Pavese credeva esscre alla radice di ogni atto, non solo poetico, ma anche u mano. A questa conclusione era portato dallo studio dcl Vico, un Vico interpretato da un cot anticrcciano, terrestre e rustico, filtrato dalle suggestioni freudiane, u n Vico che gl'insegnava cos'erd il rustico ed il selvaggio. Selvaggio >~ per Pavese la natura quando in essa appare il proibito, l'orrore: L a natura impassibile celebra un rito; l'uomo impassibi]e e commosso celebra i su oi riti pi spaventosi; tutto ci superstizioso soltanto se ci giunge come ingiusto, proibito dalla coscienza, selvaggio. Quindi selvaggio il superato della coscienza >~ (Diario cit., p. 294, 26 agosto 1944). Per rendere innocuo il male, cio il selvaggio, occorre che la poesia gli dia un n ome,--si pensi al dialogo La bel~a--lo chiarifichi. Ecco, dunque 74 che la can]l.agna cli Lavoiaie stanca e di Pa~si tuoi diventa il luogo in cui prende stanza il selvaggio, che l'incontro del rustico e ~lel primitivo. Da Vico Pavese mutuava l'idea che il selvaggio sempre legato alla terra, al mond o del rus. L'elemento ctonio che presente nella tradiziolle classica per Pavese legato alla rusticit, alla terra e alla campagna, perci il classicismo pavesiano rustico e de cadente assieme. La tua classicit: le Georgiche, D'Annunzio, la collina del Pino ; affermazione ch e esprime assai bene le componenti del classicismo pavesiano. Lo scrittore erede di una tradizione classicistico-decadente che insiste sul car attere torbi(lo, irrazionale dei modelli classici; in questo senso D'Annunzio er a presente in lui gi dalla prima giovinezza, tuttavia la classicit nello scrittore agisce anche nel senso della misura stilistica, della clliarezza ordinatrice ch e solo l'aggancio ad una tradizione secolare gli poteva garantire cd in questo s econdo aspetto, Virgilio agiva in profondit con la misura luminosa delle Georgich e; infine, c' in lui l'esigenza interiore di fare delle proprie esperienze mitich e ed infantili il centro di un mondo classican1ente atteggiato --basta pensare c ome l'Olimpo dei Dialoghi sia tanto simile ad una montagna piemontese--: Per me il coIle-montagna il Taigeto, scoperto a quindici anni in Catullo, l'Erimanto, i l Cillene, il Pellion, scoperti in Virgilio ecc., allora, mentre vedevo le colli ne di Reaglie e ricordavo quelle infiammate di S. Stefano, Moncucco, Carno, S. M aurizio, Luassuolo (Diario, p. 33~, 9 febbraio 1947). Inesorabilmente Pavese era portato dalla stessa concatenazione delle sue meditaz ioni a far del destino il segno della nobilt e miseria dell'uomo. Ognuno di noi non pu sfuggire al suo destino che gi fissato nel tempo, crede infat ti di scegliere, ma la sua scelta altro non che ripetizione, via determinata di un'esistenza della quale all'uomo non data la scelta; e~ pure, in questa dannazi one dell'uomo sta la sua superiorit, poich egli agisce come se lui stesso creasse il destino. Questo tema diventa il nucleo centrale dei Dia~oghi, configurandosi come opposiz ione tra gli dei che sanno il destino e sono felici e gli uomini che disperatame nte cercano di sfuggire alla sorte sof~rendo e morendo; tuttavia, nelL loro sof~e renza sta la supe- 75 riorit sugi dei perch gli uomini danno un senso morale aDa lo ro dann~zione ed infelicit. Se i Dialoghi con Leuc rappresentano l'attuazione della pc>etica del de~ stino in una forma che, vedremo, riassume tutte le suggestioni di questo momento, il tem a del carcere-destino, la convinzione di un'impossil~ilit di uscire da ci che stat o gi determinato--e si pensi al Carcere--agiva nella coscienza pavesiana come for za poetica. In un racconto inedito del 1941, La famiglia, che abbozza nelle sue linee fondamentali l'intreccio e la sit uazione de La casa i~ collina, ritroviamo chiarissimo il tema del carceredestino

, nella meditazione di Corradino, l'eroe senza qualit dcl racconto, il ragazzo-uo mo cl~e non pu accettare le proprie responsabilit, poich condizionato da una sorte che l'ha gi determinato nelle sue car;~ttetistiche rinunciatarie: Fino a ieri la mia disgrazia era clle non sapevo uscire da me stcsso, ~lal mio c ercl~io naturale. Se tutti capissero come ilO capito io -- stamattin~ piangevo dalla rabbia--che c os~ questa condanna all'identico, al predestinato, per cui nel bambino di sei ann i sono gi scolpiti tutti gli impulsi e la capacit di valore che avr l'uomo di trent a, pi DeSsuno oserebbe pensare al passato e inventerebbe un detersivo per lavare la memoria. Nella vita giornaliera uno crede di essere diverso, crede che l'esperienza lo ca mbi, si sente giulivo e pa~lrone di s, ma pensati clle venga una crisi, pensati c he gli diano uno scossone c la vita gli imponga Su deci(liti , e lui ~ar infallib ilmente come ha seml~re fatt~ in passato, scapper se vigliacco, resister se coragg ioso. (La famiglia, in Racconti cit., p. 294). Per Pavese l'uomo non mai padrone di s--chi lo , un dio--, ma anche nell'impossibi lit di creare il proprio destino, c' nell'uomo un eroismo che lo scrittore osserva con dolente piet, con una partecipazione umana che lo allontana dal clich abusato della sua scontrosit, della sua solitudine orgogliosa. Avvicinare gli altri un dovere e una esigenza che Pavese sente fortissimi, sia q uando crede di cogliere il rapporto con gli altri all'interno del partito comuni sta, sia quando nel mito rileva non la chiusura, ma 76 la parLecipazione del pro prio tesoro agli altri. Negli ultimi mesi di vita Pvese riassume, una vo~ta per tutte, i momenti della sua ricerca in due saggi: L~l poetica ~lel cle~ti~lo ed 11 mito. Nel primo saggio, lo scrittore arrischia l'ultima possibili~a di legare destino a mito: la vita umana altro non che destino che ripete simbolicamente i nostri m omenti unici dcll'infan:zia-- Una vita appare destino quando si rivela esemplare e fissata da sempre --, mentre la pnesia ha il compitodovcre di ridurre a parol e il mistero contenuto ncl destino. Il destino tenta di r;ssare fuori dal tcmpo, in gesti mitici, la vita, ma come c onciliare questa pretesa con la libert umana, con la stol-ia? Qui sta la grandezz a del poeta che ri~uce ogni sforzo creativo alla lotta tra la libcrt umana e la m itica fissit naturale. Le varie " poesie " saranno gradi vari di riduzione del comportamento umano a de stino (p. 343). Destino diventa ml ritmo, una cadcr.za di ritorni previsti nel gioco di una lil) ert tutta tesa : in altri termini, la realt poetica s'identifica, come dicemlllo a vanti, in stilc, in capacita di creare un ritmo che scandisca il destino umano. Accettando di Jung la scoperta del s come nucleo intimo della personalit da riscop rirsi risalendo gli strati della coscienza, Pavese indica nel punto del destino (o mito) il grumo di vita che ci fa essere individui. Il pericolo evidente e consta nel fondare l'esistenza nel l'atemporalit, fuori da lla storia; tuttavia la sempre presente volont di armonizzare mito e storia nella poesia chiarificatrice diversifica l'atteggiamento pavesiano da quello decadent e tout court. Non per niente, nel secondo saggio del 1950, Il mito, Pavese ritornava al Vico p er scoprire il rapporto tra fantasia e mondo preistorico: Quelli che il Vico chi ama universali fantastici sono-- noto--i miti e in essi i fanciulli, i primitivi, i poeti (tutti co!oro che non esercitano ancora o non del tutto il raziocinio, la umana filosofia ~) risolvono la realt, sia teoretica c'ne pratica )~ (Il mito cit., p. 346). La chiarezza di Vico poteva essere l'appiglio a non invischiarsi in quelle teori e mitiche che portavano fatalmente all'irrazionalit ed al misticismo: Abhandonars i alla contemplazione alla escavazione di quel momento si~!lifica uscire dal tem po, sfiorare un assoluto metaLisico, entrare in una77 ~fera di travaglio, di vag heggiamento di un germe che non perder la sua immobilit se non per diventare altra cosa--poesia consapevole, pensiero dispiegato, azione responsabile--insomma sto ria ~> (Tb., p. 348).

L'esigenza, la pretesa anzi di un compito morale affidato alla poesia quanto ma i tangibile ed in questa direzione, l'abbandonarsi al mito perde il carattere di (Ibidem, p. 401). L'aggancio con i Dialog~7i non potrebbe essere pi chiaro. Non quindi opposizione tra l'uno e l'altro libro, bens un rapporto che ben pi prof ondo del tema pi appariscente, ma generico, dell'impegno ritrovato come attivit po litica. Se in superficie i Dialoghi ed Il compagno sembravano riaprire la perenne autono mia pavesiana tra s e gli altri, in realt la poetica del mito agiva come il centro

coordinatore di due opere cos smaccatamente diverse. La deficienza stava nel fatto che nel Compagno, Pavese pensava ad un'incidenza, in una pi aperta adcsione politica, de~le ragioni sociali e di classe, dell'ideol ogia di partito sulla realt ultima del destino. Da qui lo stridore dei due piani, che esasperano il tono del romanzo gi di per s c ostruito in un dialogo che ci riporta ai modi di Paesi tuoi. Nel Compagno i personaggi parlano, fino a procurar fastidio o noia, in uno stile che mima il parlato hemingwayano, fatto di termini colti e di costruzioni diale ttali. Certamente qui Pavese pi scaltrito che in Paesi tuoi, tuttavia il risultato meno interessante poich, storicamente, la proposta di Paesi tuoi aveva un senso che al Compagno manca. Pavese non tradisce fino in fondo Ia sua prepotente individualit; ogni tanto la p agina si rawiva nella descrizione dei luminosi paesaggi in cui maestro: Poi veni mmo a pranzare e m'accorsi che in fondo a una strada era vuoto, sembrava il ciel o dietro una collina (p. 364). Gli undici capitoli ambientati a Roma e dedicati alla presa di coscienza di Pabl o, sono i plu deboli del romanzo. Il brusco passaggio che si opera nella coscienza del protagonista non sufficient emente motivato; c' un che di meccanico e di previsto in questa conversione, come se la nuova vita di Pablo, la 95 riscatta anche moralmente l'amore per Pablo. Fma1mente ne1 sole ancor tiePide Cuintbraccialetto d'oro al polso Sem che fossim o al mare. (Ibidem, p. 438). sulle c Il~M sembra, ad una primtt lltt~ra, la~l, con quella tranquillit che il segno di una disperazi one profonda, ormai pla Pi complesso il rapporto Momina-Rosetta che lascia scorge re un grovlgllo profondo di disperazione e ferocia. Momina la figura pi irritante e corrosiva che Pavese abbia mai costruito: c' in le i la forza brutale con cui lo scrittore ha affrontato i momenti pi tristi della s ua esistenza, ma c'e soprattutto la presenza sconfortante della vita intesa come gioco pericoloso a cui si partecipa e si sta a guardare. ~ Momina che coltiva l a voca2i0ne al suicidio di Rosetta per pura amoralit. Il suo cinismo l'indice della sua impietosa aridit: Momina che mi stava raccontan do ~luanto 103 forte la prendesse a volta il disgusto--non la nausea di questo o di quello, di una serata o di una stagione, ma lo schifo di vivere, di tutto e di tutti, del tempo che va cos presto eppure non passa mai >), (Ib., p. 318).

Pavese tuttavia non ha la forza di descrivere la grandezza del male. Momina ri. mane una piccola perversa creatura, senza l'alone di tragicit propria delle grand i peccatrici e per questo il suo personaggio cos squallido ed irritante. La sua ferocia vuotaggine, la sua cattiveria puntiglio e pettegolezzo. Come pu ferire Rosetta? Nel modo pi banale, dicendole che il suo gesto non era sta to elegante, ma goffo: Io capisco ammazzarsi... ci pensano tutti... ma farlo ben e, fallo che sia una cosa vera... Farlo senza polemica... Tu invece mi hai l'aria di una sartina abbandonata... (Ib., p. 327). La falsa sicurezza di Momina l'appiglio teso a Rosetta per accarezzare ed alla f ine attuare il suo senso della morte. Rosetta la proiezione dell'adolescente che si fa un modello dell'adulto,--in que sto caso Momina--; aveva pensato a tante cose, ai loro discorsi, al coraggio di Momina ch'era disgustata della vita pi di lei e diceva: " Per uccidermi aspetto l a bella stagione, non voglio esser sepolta con la pioggia " (Ib., p. 331), in un rapporto di negativit che esclude ogni possibilit di salvezza in quella societ e n el mondo. Rosetta il personaggio pi debole, ma il pi coerente proprio perch capisce che la sa lvezza sta nel suicidio, mentre le altre donne sole proseguono la loro vita intr ecciata d'ambiguit e di crudelt. Pavese d alla figura di Rosetta un tono d'altissima elegia, la riveste di una pie t consolatrice che riscatta il suo gesto rendendolo, se non accettabile, giustifi cato. In un mondo senza valori, l'unico modo di gridare la propria protesta silenziosa sparire dalla scena: Nel suo ambiente non si pu star soli, non si pu far da soli se non levandosi di mezzo . Certamente non questa la via da se~uire, ma Rosetta, un personaggio vinto , non pu cercare e trovare altra soluzione. Il romanzo ha un momento d'altissima poesia nella descrizione della morte di Ros etta. Al di l degli ovvi e facili accostamenti della morte della giovane a quella di Pa vese, ritroviamo l'eco e le cadenze di un libro che lo scrittore aveva molto ama to: Tre esistenze 10~ della Stein. Nel racconto di mezzo, Mela~ctha, l'accadere delle cose, l'oggettivit con cui que ste vengono narrate, nascondono il fremito lirico in uno stile rattenuto, creano una situazione che forse Pavese aveva ben presente. E la morte di Melanctha ha lo stesso stupore, la stessa apparente serenit con cui s'accetta l'accadere, che ritroveremo nella morte di Rosetta. A mezzanotte seppi il resto della storia. Pass Momina in albergo e mi disse che Rosetta era gi a casa, distesa sul letto. Non pareva nemmeno morta. Soltanto un gonfiore alle labbra come fosse imbronciata. Il curioso era stata l'idea di a~1ttare uno studio da pittore, farci portare una poltrona, niente altro, e morire cos davanti alla finestra che guardava Superga. ~n gatto l'aveva tradita--era nella stanza con lei, e il giorno dopo, miagoland o e graffiando la porta, s'era fatto aprire. (Ib., p. 381). Morire cos , il ritmo dell'accadere espresso da questa frase desolata che riassum e il significato di tutto il romanzo: la solitudine che non basta pi a se stessa e che neanche il dialogo con gli altri pu colmare. La capacit pavesiana di descrivere atmosfere d'ambiente in Tra donne sole fallisc e la prova poich l'ambientazione borghese del romanzo quanto mai astratta e a vol te sbagliata. Lo scrittore sembra lasciarsi prendere la mano dalla minuta descrizione d'intern i fastosi e di lusso, senza per coglierne l'essenza o la caratteristica: perci i s aloni, gli alberghi, le boutiques di lusso hanno qualcosa di provinciale e di fa lso, quasi quinte innaturali in cui si agitano i personaggi, mai descritti fisic amente, ma colti nella loro caratteristica interiore dal dialogo che la cosa pi b ella e riuscita del romanzo, la pi bella conversazione poetica che possa incontra rsi nella nostra narrativa d'oggi , come la defin Emilio Cecchi.

Con Ta casa i~ collina e La luna e i fal ci troviamo di fronte all'ultima, pi preg nante antinomia pavesiana: la storia ed il mito. Ho voluto accostare i due scritti maggiori perch in essi, senza pi indugi e ripens amenti, si rivelano le due radici pi profonde dell'arte pavesiana, una che a~ronta la 105 storia ed i suoi problemi senza pi ricorrere alla simbolicit del mito. l'a ltra che allontana la storia nel ricordo e la carica di significati profondi tra sformando la presenza delle cose in un assoluto fuori del tempo, dove ogni gesto , ogni personaggio allude ad una realt autre chiaramente e potentemente simbolica . ~i proprio nella duplice risposta che Pavese d alla sua presa di contatto col m ondo e con la realt interiore che va indicata la forza e l'importanza dello scrit tore e della sua opera. La soluzione mitica della visione delle cose e del mondo altrettanto valida dell a soluzione oggettiva, privata dai suoi schemi metaforici. L'impossibilit della scelta ed il dramma che ne scaturisce sono all'origine dell' esemplarit della scrittura di Pavese: il realismo lirico, l'oscillazione tra un'i mmediata adesione alle cose, che non signilSca per naturalismo, e la loro trasfig urazione nell'elegia e nel ricordo concludono l'arco della poetica riproponendo nei due romanzi maggiori tutto il percorso difficile e tormentato dell'arte pave siana. La casa in collina il capolavoro di Pavese e nello stesso tempo uno fra i pochi grandi romanzi che la Resistenza abbia ispirato. Tra ]a massa di testimonianze, cronache, trasGgur.-zioni elegiache che l'epopea del moto resistenziale ha prodotto, I a casa in colli~la si stacca nettamente pe r la capacit di mettere in luce non solo la grandezza del movimento, ma anche i t urbamenti, le angosce, il ~allimento di un uomo di fronte ad un compito che non sa n pu affrontare, se non stando a guardare. Il peccato di Pavese, la diretta consegucnza del suo stare alla rmestra, viene c onfessato nel romanzo con accenti straordinariamente umani, smantellando, alla f ine, le barriere tra il mondo e s clle il mito innalzava, non rifiutandosi alla s toria ma offrendosi ad essa rivestito della propria umanit e della coscienza di c i che si fa. Scritto tra il settembre del 1947 ed il febbraio del 1948, La casa in eollina ve nne pubblicata nel 1949 assieme ad Il carcere con il titolo complessivo di Prima che il gallo canti. Abbiamo gi accennato al tema comune che lega i due romanzi e che il titolo sottol inea. Essi partono da una premessa identica: la ricetca di s e della propria relazione con il mondo e con i gli altri; ma, mentrc nel Carcere il ricordo diventa l'alib i dell'impossibilit di uscire da una destino che ci sfugge e ci danna, La casa in collina affronta il mancato contatto con gli altri, l'impossibilit di partecipar e alla storia senza pi compromessi o giustil;cazioni. Il tema era gi stato affrontato in un racconto antecedente, La famiglia, senza pe r quell'ambientazione storica che rende La casa in collina un unicum irripetibile nella storia poetica pavesiana; Corrado, il protagonista, professore di scuola, vive un'esistenza solitaria nella Torino scolvolta dai bombardamenti degli ulti mi anni di guerra. Solo, senza un amico o una casa propria, passa le giornate tra l'insegnamento in citt e la sua stanza d'aiitto in una villa sulle colline che circondano Torino, b landito e circuito da una matura signorina dalle voglie represse. Fortuitamente Corrado incontra Cate che fu un tempo sua amante e tra i due s'ins taura un rapporto complesso perch Cate ha la sicurezza della donna e Corrado l'am mira con quel misto di tenerezza e d'invidia di chi non ha pi forza per parlare c on gli altri, di chi si fatto della guerra il rifugio precario della propria sol itudine. L'incontro e i discorsi con i partigiani scuotono l'indifferenza di Corrado ed i n questo mutamento l'aiuta l'afEetto per Dino, il ~;glio di Cate a cui il protag onista si sente legato e che sospetta sia il figlio nato dalla relazione di lui con Cate, ma senza che la donna voglia mai ammetterlo. Dopo l'armistizio la situazione precipita: Corrado si rifugia in un convento, pe rde i contatti con gli amici, con Cate e Dino, poi intraprende il lungo cammino

per ritornare al paese natale, tra gli orrori che la guerra semina e che gli scu otono la sua orgogliosa fiducia nella solitudine, anche se ormai tardi. Il ragazzo non pu pi diventare uomo. Corrado il testimone che pur rifuggendo dalla soluzione dei problemi, giudica pe r ci che lo circonda senza amhiguit, senza inutili eroismi e in lui l'impossibilit d ella salvezza dell'uomo che la conclusione a cui giunge, non viene trasposta fuo ri dal tempo, nell'intemporale momento mitico, ma nella storia. Non per nulla la categoria m! !e a cui appartiene il termine ragazzo si lega nel romanzo con i concetti di solitudine ed immaturit: M'accorgo adesso che in tutto quest'anno, e anche prima, anche ai tempi 107 dell e magre follie, dell'Anna Maria, di Gallo, di Cate, quand'eravamo giovani e la g uerra una nube lontana, mi accorgo che ho vissuto un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragaz~o che giocando a nascondersi entra dentro un cespu glio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscire mai pi. (La casa in collina, in Racconti, vol. Il, cit., pp. 129-30). La futile vacanza la constatazione di non aver capito a tempo i pro. blemi dei propri simili, cio dove stesse la ragione o il torto; qui non si tratta , come stato grossolanamente detto, della condanna dei valori della resistenza, ma anzi della pietas con cui Pavese osserva gli uomini, il mondo, le cose. Se lo scrittore descrive oggettivamente la crudelt dei bombardamenti e la caccia agli uomini divenuti bestie feroci se c' la testimonianza diretta dell'orrore del mondo, tuttavia questa lucida coscienza, questa constatazione di ci che , diventa altissima lezione morale proprio perch lo scrittore non si rifugia negli schemi consolatori clel mito, ma accetta eticamente il mondo anche nella sua miseria, i n altri termini, non rifiuta la storia. ~, finalmente, acconsentire al destino, non inteso come ineluttabilit ma calato nella storia e nell'azione. Il nuovo stoicismo pavesiano consiste nel prendere atto del non-valore delle cos e senza lasciarsi andare, ma accettando il prezzo che questa idea impone: l'acce ttazione della solitudine che pone il protagonista nella sua condizione di uomo senza qualit, di adulto dalla coscienza di ragazzo: Con la guerra divenne legittimo chiudersi in s, vivere alla giornata, non rimpian gere le occasioni perdute. Ma si direbbe che io la guerra l'attendessi da tempo, che ci contassi, una guerr a cos~ insolita e vasta che con poca fatica, si poteva accucciarsi e lasciarla i nfuriare sul cielo della citt, rincasando in collina. Adesso accadevano cose che il semplice vivere senza lagnarsi, senza quasi parlar ne, mi pareva un contegno. Quella specie di sordo rancore in cui s~era conchiusa la mia giovent trov con la g uerra una tana e un orizzonte. (I~., p. l0). L'unica possibilit;i che Corrado ha cli non eludere fino in fondo se stesso, que lla di accettare e di accettarsi; acccttare il ragazzo che in lui, ]a su108 peri orit cli Cate e dei compagni, ma accettare soprattutto la propria solitudine. Per vivere occorre a Corrado: Il coraggio di starsene soli come se gli altri non ci fossero e pensare soltanto alla cosa che fai ed in tal modo si accetta la st oria e gli altri (Ib., p. 53). L'estraneiL di Corrado a ci che accade--quell'accadere che il Leitmotiv segreto de l libro--alla l'ine viene scossa dalla presenza della morte, dalle conseguenze c he porta con s il rifiuto di partecipare al destino degli uomini: Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non paura, non la solita vilt. Ci si sente umiliati perch si capisce -- si tocca con gli occhi -- che al posto d el morto potremmo essere noi: non ci sarebbe di~erenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra una guerra civile: ogni caduto somiglia a clli resta, e g

liene chiede ragione. (Ib., p. 130). La casa in collina dunque il capolavoro di Pavese, un romanzo che per un momento sembra risolvere e dissipare le paure, le ansie di un uomo cos tormentato, nella limpiclit della pagina e nella sicurezza del taglio narrativo. Anche l'elemento mitico, che si avverte e compare nel rapporto del protagonista con Dino, nel tentativo di Corrado di penetrare la felice et dell'adolescenza, no n ha pi il potere catartico di risolvere il dramma, rimane come presenza poetica, come indicazione di certe zone dell'animo pi nostalgicamente rimpiante che perse guite per cercar di chiarirne il misterioso fondo. La presenza della collina non presenza del luogo unico ma rimpianto e sapore di giovinezza: Dietro ai coltivi e alle strade, dietro alle cose umane, sotto i pie di, l'antico indifferente cuore della terra covava nel buio, viveva in burroni, in radici, in cose occulte, in paure d'infanzia (Ib., p. ll), ed in questo rimpi anto, nell'ostinazione a restare ragazzo si consuma il dramma di Corrado e la su a pena-condanna. Scritto nel 1949 La lu~a e i fal esce nel 1950: Anguilla, il narratore, torna a] proprio paese delle Langhe, dopo aver viaggiato e fatto fortuna in America. La guerra appena finita: delle poche persone conosciute che rimangono, solo Nuto , il suonatore di clarino, l'amico che ha ragrgiunto la maturit, accoglie il redu ce e lo accompagna nelle peregrinazioni verso il 109 passato. Nella cascina in cui venne accolto, piccolo bastardo, da Padrino e Virgilia per aiutare nella dura fatica della campagna, ora vive Valino ed il giovane Cinto, u no storpio che si lega d'affetto ad Anguilla. Nel paese c' la vita di sempre, stravolta per sotto l'apparente immutabilit, dalla guerra e dagli ocll che essa ha portato con s. Invano il reduce ripercorre le strade della memoria: la cascina della Mora, le p adroncine Irene, Silvia e la piccola Santa. Tutto mutato e cambiato, anche il ricordo di Santa s'infrange allorch Nuto gli ra cconter della fine della ragazza, uccisa e bruciata dai partigiani perch spia dei tedeschi. La terra ha voluto il suo tributo di sangue e di morte. Al reduce non resta che accettare la sua estraneit al paese, partire e ria~ermare la propria solitudine. L'eterna dicotomia pavesiana si ripresenta con La luna e i fal in cui le stesse r agioni che stanno al fondo de La casa in collina--la gucrra~ la solitudine, s e g li altri--non servono pi a prendere coscienza della storia, ma per fissare il des tino umano in un mito privato ed universale che prende forma attraverso il ricor do ed il simbolo a cui assurgono le presenze familiari: il paese, la collina, le feste, i fal. Mai come in questo libro elegia e liricizzazione, ricordo e simbolo, tendono a r imandarci ad una realt autre, atemporale dove ogni cosa si fissa nella sua magica presenza e rimanda indietro, sempre pi gi nel pozzo del passato, il reduce che to rna per ritrovare le proprie radici. Il lungo lavoro di Pavese giunge qui alla meta: la campagna, i luoghi dell'infan zia, le presenze che lo hanno accompagnato trasformandosi in miti nella sua lung a ricerca di un dialogo aperto di s con se stesso e di s con gli altri, si conclud e e si placa trasformata in ricordo, nella triste elegia di un ritorno impossibi le. La l~na e i fal il libro pi autobiografico di Pavese, rna anche quello dove l'auto biografia viene fltrata e distanziata in una contemplazione serena, senza i sussu lti e gli strappi improvvisi dei romanzi precedenti La contemplazione del destin o, Ja mesta rinuncia a ritrovare se stesso vengono ritmati dai tre momenti in cu i il romanzo costruito: il ritorno e la ri 110 cerca; il ricordo e l'elegia; la me~ita~ione sul presente e sulla storia che trasforma e muta il passato. La trepida fiducia di Ai1guilla nelle possibilit del ritorno s'alimenta delle pre senze mitiche, unicl1e~ dei luogl~i a cui torna: la valle del Belbo, Canelli, 'a porta del mondo ~>, Gaminel]a ed il paese sono le voci che dal fondo dell'animo lo inducono al viaggio nel passato: Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carlli sono bu~ne e si equivalgono, ma per questo che uno si stanca e c erca di mettere radici, di farsi terra e paese, perch la sua carne valga e duri d

i pi che un comune giro di stagione (La l~na e i f~l, in Racco~ti, vol. Il, cit., p. 385). Si afEollano i fantasmi del passato: Padrino, la Virgilia, la cascina di Gaminel la. La narrazione procede su di un duplice piano: realt presente e ricordo che s'intr ecciano nella figura del protagonista, il quale, rivisitando i luoghi della sua infanzia, vorrebbe ritrovare la coscienza di s, la sua non-estraneit dal luogo che gli ha dato la primitiva conoscenza delle cose: a Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c' qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti ~> (Ib. , p. 387~. Ecco dunque che Pavese ricorre ancora una volta allo schema metaforico per allud ere a realt ben diverse e profonde, perci la stilizzazione, il ritmo stilistico, s ono il fatto pi grandioso e pi complesso del romanzo. L'intrecciarsi dei piani narrativi, il continuo uso della tecnica del l'1as~ bac k, la stessa scansione a nuclei interni, testimoniano di una perizia straordinar ia e di una padronanza assoluta dello stile che in questo romanzo diventa la pre senza pi tipica, quella tecnica del raccontare che Pavese voleva fosse l'unico pe rsonaggio del romanzo. Al motivo del ritorno si aggunge quello della duplicazione di un destino. Cinto ripete la vicenda di Anguilla e come quest'ultimo miticamente si accosta a l mondo per conoscerlo. L'incontro tra l'adulto ed il ragazzo, il grande tema poetico pavesiano, si ha n el luogo che ha fissato il destino di Anguilla e sta per fissare quello di Cinto : Era strano come tutto fosse cambiato eppure u~uale. Nemmeno una vite ~I rimasta delle vecc!lie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie 111 e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo -- eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe , tutto era sempre uguale, tutto aveva quell'odore, quel gusto, quel colore d'al lora. (Ib., p. 405). Ma anche Cinto non pu radicare al paese il reduce; la cliscesa alle Madri stata i nfruttuosa. Riprendere possesso delle cose vuol dire nominarle e l'evocazione riproporr in un 'aura atemporale la conoscenza, che si fa lirismo nella narrazione, del paesaggi o, delle persone, del mondo sotto la specie simbolica: Gaminella, la Mora, ed i suoi abitanti, la collina, la vigna, la terra e la stessa America, la mitica Ame rica della giovinezza di Pavese, che ritorna col suo carico intatto di fascino e d esotismo. L'America il mondo che finisce come finisce il paese delle Langhe: Anche l'Ameri ca finisce nel mare . Con una perfetta sensibilit del taglio narrativo, Pavese dispone la materia in mo do da creare un duplice piano: l'evocazione prepara il ricordo ed il ricordo rip orta al presente. La parte centrale del romanzo dai capitoli XIV al XXV narra il mondo della Mora e dell'adolescenza. Rievocati dal ricordo i personaggi della Mora ritornano come presenze inquietant i, un tempo amate ed ora non pi consolatorie. L'apertura del XIV capitolo tra le cose pi alte scritte da Pavese: Pareva un destino. Gerte volte mi chiedevo perch, di tanta gente viva, non restassimo adesso che io e Nuto, proprio noi. La voglia che un tempo avevo avuto in corpo (un mattino, in un bar di San Dievo, c'ero quasi ammattito) di sbucare per quello stradone, girare il cancello tra i

l pino e la volta dei tigli, ascoltare le voci, le risate, le galline, e dire Ec corr.i qui, sono tornato ~> davanti alle facce sbalordite di tutti,--dei servito ri, delle donne, del cane, del vecchio--e gli occhi biondi e gli occhi neri dell e figlie mi avrebbero riconosciuto dal terrazzo--questa voglia non me la sarei c avata pi. Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna--dormivo all'Angelo e discorrevo c ol Cavaliere--, ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconosce rmi, non c~erano pi. (Ib., p. 435). 112 Il mondo felice della Mora, la bellezza cli Silvia, Irene, non sono piu, il passato non ritorna ed il presente ribaclisce il destino dell'esule: la solitudi ne. Se in La casa in collina la guerra non era pi retrocessa a sfondo mitico, emblema dell'orrore del mondo, ne La luna e i fal, essa perde la sua storicit per farsi s imbolo di una tragedia umana. Il destino di Santa ribadisce questo carattere simbolico della vicenda e dei suo i momenti, come del resto quello di Valino, della sua pazzia, delle fiamme che a ppicca alla cascina, quasi tributo destinato e voluto dalla potenza dei fal. L'uccisione di Santa, narrata da Nuto,--il personaggio positivo, un Pablo che ha preso ben altra coscienza del mondo e della vita--, la sua attivit di spia corro tta, non sono dati realistici che possano illuminare una determinata situazione storica, ma ripetono il rituale mitico del sacrificio. Santa morir e verr bruciata perck la terra esige il sacrificio dei fal per ritornare feconda ed il libro si chiude con l'identificazione di questi motivi: Ci pens Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bast. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L'altr'anno c'era ancora, il segno, come il letto di fal. (Ibidem, La ricerca disperata della ripeness sembrerebbe concludersi con la negazione del la raggiunta maturit che n la storia n il mito possono conquistare. Il nuovo amore, Constance Dowling, torna in America ed il canto di Verr la morte e aur i tuoi occhi, dopo una momentanea felicit, fissa il destino nell'impossibili t di attingere la conoscenza non solo della persona amata, ma anche di se stesso. Verr ta morte e avr i ~uoi occhi, la raccolta del]e poesie scritte nel 1950, concl ude l'arco poetico pavesiano riproponendo una tematica che gi lo scrittore aveva sperimentato nei tardi componimenti di Lavorare stanca e nella b reve raccolta poetica di La terra e la morte nel 1945. L'argomento unico, ossessivo di queste poesie la donna, la liricizzazione di que sta ottenuta attraverso la metaforizzazione assoluta nei grancli temi >~ della p oetica pavesiana. La donna la terra: a terra rossa terra nera, / tu vieni dal mare ~>, tu sei come una terra >~, ~< una terra che attende / che non dice parola ~>,