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Displacement in the former Soviet region 185 La dissoluzione, nel dicembre 1991, dell’Unione sovietica provocò massicci movi- menti di popolazione nei paesi che costituirono successivamente la Comunità di stati indipendenti (Csi). Rivalità interetniche e conflitti irrisolti vennero alla superficie e trovarono piena estrinsecazione, con tragiche conseguenze. Il sorgere di nuove frontiere nazionali fece sì che milioni di russi e di abitanti di altre origini etniche si trovassero fuori della loro "patria". Molti cercarono di rimpatriare e sorsero complessi problemi di cittadinanza. Alcuni popoli deportati negli anni ’40 poterono finalmente tornare nella loro terra d’origine, mentre si verificavano nuovi afflussi di rifugiati e richiedenti asilo provenienti da regioni ancora più lontane. Si è cal- colato che, nel corso del decennio, si siano messe in movimento fino a un massimo di nove milioni di persone, principalmente a seguito degli sconvolgimenti politici, dando luogo al maggior movimento di popolazione nella regione dopo il 1945 1 . Nella prima metà del decennio, centinaia di migliaia di persone furono strappate alle loro case dai conflitti interni e a sfondo separatista del Caucaso meridionale: il con- flitto fra l’Armenia e l’Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, e i conflitti nei territori autonomi georgiani dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud. Nello stesso periodo, la guer- ra civile nel Tagikistan costrinse centinaia di migliaia di abitanti ad abbandonare le loro case. Anche il Caucaso settentrionale divenne teatro di esodi forzati su vasta scala. Nel 1992, decine di migliaia di ingusci furono espulsi dall’Ossezia del nord verso la vicina Inguscezia. In seguito, un esodo forzato di vaste proporzioni fu registrato in Cecenia e nelle aree circostanti, una prima volta nel 1994-95, e una seconda a partire dal set- tembre 1999. Per di più, durante tutto il decennio un gran numero di abitanti, soprattutto di etnia russa, che si trovavano fuori della Federazione russa, si ritrovarono "stranieri" in varie regioni dell’ex Unione sovietica, e le abbandonarono per altre in cui si ritenevano più al sicuro o pensavano di avere migliori prospettive di vita. Apparvero sempre più evidenti le complesse interrelazioni fra gli esodi forzati e le migrazioni di massa. Per chiarire tali fenomeni, nel 1996 l’Unhcr organizzò una grande conferenza internazionale d’intesa con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce). Le tre istituzioni collaborarono strettamente con i paesi della Csi per individ- uare i problemi di esodo forzato, per fissare una terminologia univoca e per mettere a punto una strategia comune. Oltre a termini di uso corrente come "rifugiati" e "sfol- lati", furono create nuove categorie per definire i vari movimenti di persone specifici della regione: fra di esse, i "popoli ex deportati", le "persone in fase di rimpatrio" e le "persone in fase di trasferimento involontario". Nell’elaborazione di programmi per la regione, in particolare nel territorio della Federazione russa – membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu –, 8 Gli esodi forzati nell’area ex sovietica

Gli esodi forzati nell’area ex sovietica - unhcr.org · Displacement in the former Soviet region 185 La dissoluzione, nel dicembre 1991, dell’Unione sovietica provocò massicci

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Displacement in the former Soviet region

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La dissoluzione, nel dicembre 1991, dell’Unione sovietica provocò massicci movi-menti di popolazione nei paesi che costituirono successivamente la Comunità di statiindipendenti (Csi). Rivalità interetniche e conflitti irrisolti vennero alla superficie etrovarono piena estrinsecazione, con tragiche conseguenze.

Il sorgere di nuove frontiere nazionali fece sì che milioni di russi e di abitanti di altreorigini etniche si trovassero fuori della loro "patria". Molti cercarono di rimpatriare esorsero complessi problemi di cittadinanza. Alcuni popoli deportati negli anni ’40poterono finalmente tornare nella loro terra d’origine, mentre si verificavano nuoviafflussi di rifugiati e richiedenti asilo provenienti da regioni ancora più lontane. Si è cal-colato che, nel corso del decennio, si siano messe in movimento fino a un massimo dinove milioni di persone, principalmente a seguito degli sconvolgimenti politici, dandoluogo al maggior movimento di popolazione nella regione dopo il 1945 1.

Nella prima metà del decennio, centinaia di migliaia di persone furono strappatealle loro case dai conflitti interni e a sfondo separatista del Caucaso meridionale: il con-flitto fra l’Armenia e l’Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, e i conflitti nei territoriautonomi georgiani dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud. Nello stesso periodo, la guer-ra civile nel Tagikistan costrinse centinaia di migliaia di abitanti ad abbandonare le lorocase. Anche il Caucaso settentrionale divenne teatro di esodi forzati su vasta scala. Nel1992, decine di migliaia di ingusci furono espulsi dall’Ossezia del nord verso la vicinaInguscezia. In seguito, un esodo forzato di vaste proporzioni fu registrato in Cecenia enelle aree circostanti, una prima volta nel 1994-95, e una seconda a partire dal set-tembre 1999. Per di più, durante tutto il decennio un gran numero di abitanti,soprattutto di etnia russa, che si trovavano fuori della Federazione russa, si ritrovarono"stranieri" in varie regioni dell’ex Unione sovietica, e le abbandonarono per altre in cuisi ritenevano più al sicuro o pensavano di avere migliori prospettive di vita.

Apparvero sempre più evidenti le complesse interrelazioni fra gli esodi forzati e lemigrazioni di massa. Per chiarire tali fenomeni, nel 1996 l’Unhcr organizzò unagrande conferenza internazionale d’intesa con l’Organizzazione internazionale per lemigrazioni (Oim) e l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa(Osce). Le tre istituzioni collaborarono strettamente con i paesi della Csi per individ-uare i problemi di esodo forzato, per fissare una terminologia univoca e per metterea punto una strategia comune. Oltre a termini di uso corrente come "rifugiati" e "sfol-lati", furono create nuove categorie per definire i vari movimenti di persone specificidella regione: fra di esse, i "popoli ex deportati", le "persone in fase di rimpatrio" e le"persone in fase di trasferimento involontario".

Nell’elaborazione di programmi per la regione, in particolare nel territorio dellaFederazione russa – membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu –,

8Gli esodi forzatinell’area ex sovietica

l’Unhcr dovette fronteggiare molti problemi, in un clima altamente politicizzato,anche perché l’Unione sovietica era stata, in passato, largamente ostile all’Unhcr. Nelpresente capitolo si descrive il modo in cui l’Unhcr è riuscito a stabilire una presenzanell’area ed a formulare una strategia globale, comprendente attività volte a rafforzarela capacità di accoglienza dei rifugiati, contribuendo così alla prevenzione di ulterioriesodi forzati.

L’eredità sovieticaAll’inizio degli anni ’20, l’Unione sovietica era succeduta all’impero, etnicamenteeterogeneo, degli zar. Fu il massiccio esodo di rifugiati dell’ex Impero russo chespinse, nel 1921, la Società delle Nazioni a nominare Fridtjof Nansen AltoCommissario per affrontare quell’enorme problema di esodi di popolazione. Missionicome quelle effettuate dai rappresentanti di Nansen nel 1923, per rendersi conto dellasituazione dei rimpatriati nella Russia meridionale, non si sarebbero ripetute nellaregione fino agli ultimi giorni di esistenza dell’Unione sovietica.

L’Unione sovietica cercava di plasmare gli individui, i popoli e la società con-formemente all’ideologia onnicomprensiva del comunismo. I trasferimenti e lemescolanze di popolazioni – volontari o involontari che fossero – divennero unmezzo corrente per realizzare un’utopia. Decine di milioni di persone furono cosìstrappate alle loro case, ed a ciò si aggiunsero più tardi i massicci esodi provocati dallaseconda guerra mondiale. I trasferimenti forzati di intere nazioni, ordinati da Stalinnegli anni ’30 e ’40, costituirono esempi caratteristici di "pulizia etnica" molto primache l’espressione fosse coniata 2. I suoi successori continuarono a incoraggiare i movi-menti di popolazione, in nome di obiettivi politici ed economici.

Allorché, nella seconda metà degli anni ’80, a livello politico il regime cominciògradualmente ad allentare i freni, emersero quelle tensioni e aspirazioni etniche enazionaliste che erano state represse e in larga misura occultate sotto il dominio sovi-etico. Il disfacimento politico del sistema fu quindi accompagnato da una"demiscelazione etnica" e da rivendicazioni di sovranità sui territori contesi 3.

Una delle prime indicazioni del declinante controllo di Mosca fu lo scoppio,agli inizi del 1988, del conflitto armeno-azerbaigiano per il controllo delNagorno-Karabakh, un territorio situato in Azerbaigian ma a maggioranza arme-na, che chiedeva l’unificazione con l’Armenia. La fuga degli armenidell’Azerbaigian, e il movimento opposto, produssero le prime ondate dibezhentsi (il termine generico che in russo designa sia i rifugiati che gli sfollati),come li chiamavano i media e l’opinione pubblica sovietica 4. Nel giugno 1989 siregistrò un’altra ondata di violenze interetniche nella parte uzbeca della principalelinea di frattura dell’Asia centrale, la valle di Fergana, dove la popolazionecostrinse alla fuga decine di migliaia di turchi mesketi. Questi cosiddetti "immi-granti" erano stati deportati in massa, nell’era staliniana, dalla Georgiameridionale e costretti a stabilirsi nell’Asia centrale 5.

Quei drammatici esempi di scontri ed espulsioni di matrice etnica alimentaronoil timore, all’interno come all’esterno dell’Unione sovietica, che il suo scioglimento

I RIFUGIATI NEL MONDO

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potesse scatenare ancora maggiori violenze e spargimenti di sangue, generando esodimassicci di rifugiati, sfollati e migranti. I risultati dell’ultimo censimento sovietico,condotto nel 1989, parvero certamente confermare quei pericoli, rivelando l’enormenumero di abitanti che rischiavano di esser considerati stranieri, in caso di nascita distati indipendenti. A seconda della definizione di "patria" impiegata, da 54 a 65 mil-ioni di persone (grosso modo un quinto della popolazione complessiva sovietica di285 milioni di abitanti) vivevano al di fuori delle rispettive unità amministrativenazionali. Di queste, circa 25,3 milioni erano russi i quali, in quanto appartenenti allanazione predominante che rappresentava all’incirca la metà della popolazione soviet-ica, erano abituati a sentirsi a casa loro in qualunque parte dell’Unione 6.

Gli esodi forzati nell’area ex-sovietica

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Polacchi/ebrei (1940–41) 380.000

Tedeschi del Volga (Set. 1941) 366.000

Ceceni (Feb. 1944) 362.000

Mesketi (Nov. 1944) 200.000

Tatari di Crimea (Mag 1944) 183.000

Coreani (1937) 172.000

Ingusci (Feb. 1944) 134.000

Calmucchi (Dec. 1943) 92.000

Karachai (Nov. 1943) 68.000

Polacchi (1936) 60.000

Finlandesi (regione di San Pietroburgo, 1942) 45.000

Balkari (Apr. 1944) 37.000

Moldavi (1949) 36.000

Greci del mar Nero (1949) 36.000

Altri tedeschi sovietici (1941–52) 843.000

Altri gruppi della Crimea (1944) 45.000

Altri gruppi del mar Nero (1949) 22.000

Altri gruppi del Caucaso (1943–44) 8.000

Totale 3.089.000

Fonte: Unhcr (Sezione informazione), Commonwealth of Independent States conference on refugees and migrants, 30–31 May 1996.Nota: Tutte le statistiche sulle deportazioni, salvo per i mesketi, sono state fornite da A. Blum, dell’Istituto nazionale di studi demografici di Parigi.I dettagli storici sono stati forniti dallo stesso Blum, o ricavati da: Les peuples déportés de l’Union soviétique, di J.-J. Marie. Non sono inclusi itrasferimenti di popolazione (per un totale di vari milioni di persone) legati alla collettivizzazione e ai campi di lavoro del gulag, e non al “regimespeciale dei coloni”. Altre deportazioni su larga scala ebbero luogo dagli stati baltici, dalla Moldavia e dell’Ucraina, fra il 1994 e il 1953.

Le deportazioni in massa sovietiche degli anni ‘40 Fig. 8.1

La necessità di una presenza dell’Unhcr nella regione

All’inizio degli anni ’90, il persistente declino economico e la rinascita dei nazionalis-mi nell’Unione sovietica provocarono il diffuso timore che una "onda di piena" dimigranti sovietici potesse trasferirsi in Occidente. Nell’Europa occidentale, il regimedell’asilo subiva già forti pressioni. Nell’Europa centrale, uscita solo da poco tempodalla sfera d’influenza sovietica, si era appena cominciato ad istituire un regime da asilo.L’Unhcr, che vi stava gradualmente stabilendo una propria presenza, vide la chiaranecessità di potenziare quei meccanismi embrionali di protezione dei rifugiati, consol-idando in tal modo, nel suo insieme, l’edificio europeo in fase d’ampliamento.

Da molti anni l’Unione sovietica vedeva con sospetto l’Unhcr, considerando l’or-ganizzazione uno strumento della guerra fredda. Tuttavia, nella seconda metà deglianni ’80, con la politica della perestroika (ristrutturazione) e della glasnost (apertura)attuata da Mikhail Gorbaciov, l’atteggiamento sovietico nei confronti dell’organiz-zazione cominciò a mutare. Di fronte a problemi quali la risoluzione dei conflitti inCambogia ed Afghanistan, che comportavano, in entrambi i casi, il rientro di un grannumero di rifugiati, i dirigenti sovietici riconobbero sempre più l’utilità della collab-orazione con l’Unhcr.

Non furono solo, però, esigenze di politica estera che spinsero l’Urss a svilupparela cooperazione con l’Alto Commissariato. Un altro fattore decisivo fu rappresentatodai nuovi problemi legati agli esodi forzati interni. Dopo decenni di irreggimen-tazione onnipresente all’interno e di controlli rigorosi sui contatti esterni, l’Unionesovietica non era in grado di far fronte né ai massicci esodi generati dai conflitti etni-ci sul suo territorio, né all’apparizione nella stessa Mosca di un crescente numero dirichiedenti asilo stranieri.

Quando affrontarono tali problemi sul piano pratico, le autorità sovietiche siresero conto della necessità d’integrare il paese nel sistema internazionale di pro-tezione dei rifugiati, e cominciarono a rivolgersi all’Unhcr per ottenerne assistenza econsulenza. Nel settembre 1990, l’Unione sovietica inviò una delegazione di osserva-tori alla riunione annuale del Comitato esecutivo dell’organizzazione a Ginevra. Ladelegazione informò l’Alto Commissario, Thorvald Stoltenberg, dell’intenzione delgoverno sovietico di aderire alla Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati e dell’elab-orazione in corso di una nuova normativa per gestire le migrazioni e far fronte a "unnumero stimato di 600mila sfollati" 7.

In un primo momento, l’Unhcr esitò ad intervenire nell’Unione sovietica. L’entitàe la complessità dei problemi di esodo erano enormi, e gli sradicati erano ufficial-mente degli sfollati, che non sembravano necessariamente rientrare nel mandatodell’organizzazione. Oltre a ciò, l’Unhcr subiva limitazioni finanziarie. Il rapido ritmodi cambiamento nell’Urss, tuttavia, spinse l’organizzazione a rivedere la propriaposizione. Nel 1991, dei contatti bilaterali sempre più intensi sfociarono nelle primemissioni dell’Unhcr nell’Unione sovietica, che permisero di raggiungere un’intesainformale sull’opportunità di una sua presenza continuativa nel paese. Un documen-to interno di strategia sull’"Urss in disintegrazione", redatto nel settembre 1991,consigliava che, "data l’eccezionale dimensione storica del cambiamento, l’AltoCommissariato avrebbe dovuto essere pragmatico anziché formalistico e – nel suo set-tore – prevenire anziché reagire" 8.

I RIFUGIATI NEL MONDO

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Riquadro 8.1 L’apolidia e la cittadinanza contestata

Dopo la disintegrazione dell’Unionesovietica, della Jugoslavia e dellaCecoslovacchia, milioni di personehanno dovuto confermare la propriacittadinanza o acquisirne una nuova.Un ex cecoslovacco è poi divenuto cecoo slovacco? Un donna nata a Belgrado,cresciuta a Sarajevo, sposata con unuomo originario di Zagabria e residentea Lubiana, è cittadina jugoslava,bosniaca, croata o slovena? I nuovistati nati dallo smembramento di queipaesi hanno fissato propri criteri inmateria di nazionalità. In alcuni casi,coloro che non vi rispondevano sonodivenuti apolidi; in altri, non hannopotuto acquisire la cittadinanza delpaese in cui vivevano.I problemi del genere non sono affattolimitati all’Europa, né l’apolidia derivasoltanto dallo scioglimento di stati. Avolte può derivare da carenze normativee procedurali in materia di matrimonioe di registrazione delle nasciteall’anagrafe. In altri casi, una politicadiscriminatoria nei confronti diminoranze o di determinati gruppi oindividui può condurre all’apolidia.Talora i governi emanano leggi sullacittadinanza che hanno l’effetto diemarginare interi settori della società.In molti casi, gli individui che hannoun problema di apolidia o dicittadinanza non definita non hannouno status giuridico ben determinato eincontrano quindi difficoltà persposarsi, mandare i figli a scuola,lavorare, viaggiare o acquisire beni. Ilrisultato è che l’apolidia è spesso causadi esodi di popolazione.Non è possibile elencare tutti casi diapolidia esistenti nel mondo, perché lacittadinanza o nazionalità non definitaè perlopiù contestata. Tutti i paesi nesono toccati in una certa misura,perché tutti hanno leggi perdeterminare chi è cittadino e chi no, enon sempre applicano criteriarmonizzati.I mutamenti politici avvenuti in Europanegli anni ’90 hanno fornito una chiaradimostrazione dei problemi che possonoinsorgere in caso di conflitti riguardantila nazionalità. Quando gli stati balticihanno riacquistato l’indipendenza, leloro leggi in materia hanno esclusocentinaia di migliaia di abitanti diorigine russa, che vi vivevano dadecenni. Quando i tatari della Crimeasono ritornati in gran numero inUcraina, da dove le loro famiglie eranostate deportate da Stalin negli anni ’40,

alcuni sono arrivati dopo il termineultimo per l’acquisizione automaticadella cittadinanza, incontrandodifficoltà per trovare lavoro e alloggio.La violenta disgregazione dellaJugoslavia ha costretto all’esodo oltrequattro milioni di persone; moltiregistri anagrafici, necessari peraccertare la cittadinanza, sono andatidistrutti, creando una serie di problemi.Quando la Cecoslovacchia si è scissa indue stati, a molti che vivevano inquella che era divenuta la Repubblicaceca è stata attribuita la cittadinanzaslovacca, facendone degli stranieri nelluogo di residenza abituale.In Asia, i bihari (dei musulmani nonbengalesi che si erano trasferiti, allafine degli anni ’40, dall’India all’alloraPakistan orientale) si consideravanocittadini pakistani e rifiutarono lanazionalità del Bangladesh quando ilpaese, nel 1971, divenne indipendente.Da allora, il governo del Pakistan èstato riluttante a "rimpatriarli", e oltre200mila di loro vivono ancora in campiprofughi nel Bangladesh. Nel Myanmar,la legislazione restrittiva sullanazionalità continua a impedire a moltiresidenti, come ad esempio i rohingya,di essere considerati cittadini. NelBhutan, la normativa adottata neglianni ’80 ha avuto l’effettivo diescludere dalla nazionalità del paesemolti abitanti di origine nepalese, circa100mila dei quali vivono tuttora incampi profughi nel Nepal.In Africa, circa 75mila abitanti furonoespulsi dalla Mauritania, nel 1989-90, aseguito di scontri interetnici. Sebbenemolti di loro siano poi rimpatriati, nerimangono circa 30mila nel Senegal, lecui domande di cittadinanza sonorespinte dalle autorità mauritane. NelloZaire, in base a una normativa del1981, migliaia di abitanti di etniabanyarwanda hanno perso, de iure, lacittadinanza. In Etiopia, a seguito dellaguerra con l’Eritrea scoppiata nel 1998,le autorità hanno espulso verso questopaese 68mila abitanti, perché avevanola nazionalità di uno stato nemico.Benché entrambi i paesi abbianorilasciato loro dei documenti, a finedicembre 1999 nessuno dei due volevaammetterli come propri cittadini.Nel Medio Oriente, oltre 120mila curdiche avevano vissuto per tutta la lorovita nel nordest della Siria non hannopotuto ottenerne la cittadinanza. NelKuwait, circa 250mila abitanti di etniabidoon vivono da molto tempo come

Gli esodi forzati nell’area ex-sovietica

una minoranza prima di un’effettivanazionalità. Molti sono stati espulsi dalKuwait durante la crisi del Golfo, nel1991, e vivono ora in Iraq e in altripaesi della regione. Infine, sebbene ipalestinesi non possano essereconsiderati apolidi, visto cheformalmente uno stato palestineseesiste dall’approvazione della risoluzione81 (1947) dell’Assemblea generaledell’Onu, circa tre milioni di loro nonhanno finora potuto far ritorno alle lorocase, e il loro status giuridico è oggettodi costante controversia col governoisraeliano.Esiste un legame fra apolidia epotenziali esodi di rifugiati, machiaramente non ogni apolide è unrifugiato. L’Unhcr incoraggia i paesi asottoscrivere e ad applicare laConvenzione del 1954 sullo status diapolide e quella del 1961 sulla riduzionedell’apolidia, due strumenti checostituiscono la cornice giuridica perevitare e ridurre i casi di apolidia erisolvere i conflitti fra stati.Nel 1995, il Comitato esecutivodell’Unhcr e, successivamente,l’Assemblea generale dell’Onu hannochiesto all’organizzazione di avvalersidella propria competenza per affrontareil problema dell’apolidia. Da allora, essaè stata sempre più attiva nelpromuovere la prevenzione e lariduzione dell’apolidia, attraverso ladiffusione di informazioni e laformazione di funzionari statali, comepure incoraggiando la collaborazione fraaltre organizzazioni che si occupano ditemi affini. L’Unhcr incoraggia i paesi amettere in piedi strutture nazionaliaffinché gli apolidi possano avere unapropria rappresentanza e ha, se delcaso, collaborato con gli stati perinstaurare procedure per l’acquisizioneda parte loro della cittadinanza. Negliultimi anni, alcuni paesi hanno fattonotevoli passi avanti per risolvere iproblemi derivanti dall’apolidia e dallacittadinanza contestata, che però sonostati finora affrontati caso per caso.Continuano a verificarsi casi di perditadella cittadinanza per inavvertenza,come pure di discriminazioni cheportano alla perdita della cittadinanza eall’espulsione, che sono spesso la causaprofonda di flussi di rifugiati. Si trattaora di creare, a livello internazionale,una cornice armonizzata per individuarei problemi dell’apolidia e dare loro unasoluzione sistematica.

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Il concetto di protezione preventiva

Nel settembre 1991, il nuovo Alto Commissario, Sadako Ogata, approvò in linea diprincipio l’apertura di un ufficio regionale a Mosca. Il mese successivo, l’Unhcr orga-nizzò una prima attività di formazione nella capitale russa, sul tema della preparazionealle emergenze. Basandosi sull’esperienza acquisita in Europa centrale, l’organiz-zazione si sforzò di attuare una politica mirante a rafforzare la propria capacitàoperativa, per poter svolgere un ruolo preventivo e di preallarme 9.

Agli inizi di dicembre, l’Unhcr inviò una missione nella regione per "decidere...[su una propria] presenza stabile nell’Urss". Quei funzionari finirono con l’assistereallo scioglimento dell’Unione sovietica e alla nascita, l’8 dicembre 1991, dellaComunità di stati indipendenti (Csi). Le conclusioni di quella storica missione con-tribuirono a delineare la metodologia applicata dall’Unhcr nei confronti della regionepost-sovietica, sottolineando che "l’approccio classico, consistente nel reagire agliavvenimenti a posteriori e con le misure tradizionali previste dal mandato, esclusiva-mente nel paese d’asilo, si rivelerebbe probabilmente inadeguato". Ispirandosi agliinsegnamenti "dell’attuale esperienza dell’Unhcr in situazioni di conflitto etnico,come quelle dello Sri Lanka e della Jugoslavia", la missione raccomandava "un ruoloprincipalmente di protezione e prevenzione, ponendo l’accento sul preallarme e su

I RIFUGIATI NEL MONDO

190

0 200 400

Chilometri

ARMENIATURKMENISTAN

GEORGIA

TURCHIA

REP. DIMOLDAVIA

REP.POPOLARECINESE

KIRGHIZISTAN

TAGIKISTAN

UCRAINA

ROMANIA

REP. ISLAMICA D’IRANAFGHANISTANIRAQ

LETTONIA

LITUANIA

ESTONIA

UZBEKISTAN

BIELORUSSIA

FEDERAZIONE RUSSA

BULGARIA

KAZAKISTAN

FINLANDIA

Confine di statoLEGGENDA

Mar Mediterraneo

Mar Nero MarCaspio

Comunità di stati indipendentiCIPRO

REP.ARABA

DI SIRIA

GRECIA

AZERBAIGIAN

Lagodi

Aral

La Comunità di stati indipendenti e i paesi limitrofi, 1999 Cartina 8.1

misure pragmatiche volte a ridurre la spinta all’esodo delle popolazioni colpite".Raccomandava, inoltre, la creazione di una "presenza continuativa" nella Transcaucasia(qui di seguito denominata "Caucaso meridionale") e in Asia centrale 10.

Nei primi mesi del 1992, l’Unhcr inviò missioni conoscitive nella maggior partedei paesi di recente indipendenza dell’Europa orientale, del Caucaso meridionale edell’Asia centrale, instaurando così legami diretti con i nuovi governi. In marzo, l’AltoCommissario convocò una riunione per la messa a punto di una strategia dell’Unhcrper la regione post-sovietica: in essa fu riconosciuta la necessità di misure più sistem-atiche in materia di consulenza giuridica e supporto, al fine di potenziare la capacitàdei governi e delle organizzazioni non governative di fronteggiare i problemi legatiall’esodo forzato e fu approvato, inoltre, il concetto globale di "protezione preventi-va". Nel contesto della Csi, ciò comportava le seguenti funzioni: creare una presenza,svolgere iniziative di monitoraggio e preallarme, sensibilizzare ai principi umanitariinternazionali, realizzare attività formative, come pure attività d’informazione delpubblico sulla tutela dei diritti umani, con particolare riguardo alle minoranze e agliesuli 11.

La ricerca di nuovi partner

La strategia così definita riconosceva ciò che era palese sin dall’inizio dell’interventodell’Unhcr nella regione, vale a dire la necessità di una stretta cooperazione con le altreistituzioni e agenzie competenti del sistema dell’Onu, come anche con l’Oim 12.Durante quel periodo iniziale, l’Unhcr collaborò con la Croce rossa russa e Medicisenza frontiere, fornendo assistenza ai richiedenti asilo a Mosca. Inviò sul terreno mis-sioni esplorative congiunte con il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef) eil Programma alimentare mondiale (Pam), e divulgò la documentazione disponibilepresso il Centro dell’Onu per i diritti umani.

Divenne chiaro, tuttavia, che per affrontare il fenomeno dei rifugiati e, più in gen-erale, delle migrazioni forzate nella Csi e in Europa centrale, l’Unhcr doveva purecreare delle forme di partnership con altri importanti organismi internazionali inter-essati a tali questioni, fra cui, in particolare, il Consiglio d’Europa e la Conferenza sullasicurezza e la cooperazione in Europa (Csce), poi divenuta l’Organizzazione per lasicurezza e la cooperazione in Europa (Osce).

In occasione di una "Conferenza sulla dimensione umana" organizzata a Mosca nelsettembre 1991, l’Alto Commissario mise in rilievo la complementarità di interessi fral’Unhcr e la Csce, e propose di mettere all’ordine del giorno di quest’ultima il prob-lema delle popolazioni costrette all’esodo forzato, sollecitando un dialogo più direttofra i paesi membri della Csce e l’Unhcr 13. Questa e successive iniziative si rivelaronoefficaci, e contribuirono a richiamare l’attenzione sui problemi dei rifugiati e dellemigrazioni. In effetti, in un’ulteriore riunione della Csce svoltasi a Helsinki nel giug-no 1992, 10 stati, fra cui due paesi membri della Csi – la Federazione russa e ilKirghizistan –, presentarono un progetto di risoluzione in cui si esprimeva la preoc-cupazione per "l’aggravamento del problema dei rifugiati e degli sfollati". Vi sidichiarava, inoltre, che "l’esodo forzato è spesso il risultato di violazioni degli impeg-ni assunti nel quadro della ‘dimensione umana’ della Csce... ed è quindi di diretto e

Gli esodi forzati nell’area ex-sovietica

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legittimo interesse per tutti gli stati partecipanti, non appartenendo esclusivamenteagli affari interni dello stato interessato" 14.

Nel quadro delle attività della Csce, fu riconosciuto all’Unhcr un ruolo importantedi intervento diretto o di fiancheggiamento. La partecipazione dell’AltoCommissariato a una missione guidata dalla Csce nel Nagorno-Karabakh, nel marzo1992, costituì la prima esperienza pratica di collaborazione della Csce con le NazioniUnite, in generale, e con l’Unhcr, in particolare 15.

Quando, in seguito, l’Unhcr cominciò ad operare nel Caucaso meridionale,sarebbe stato coinvolto in misura sempre maggiore nelle più vaste iniziative di pacedelle Nazioni Unite o dell’Osce, fra cui le consultazioni nell’ambito del "Gruppo diMinsk" dell’Osce sul Nagorno-Karabakh, i negoziati sotto l’egida dell’Onu fra laGeorgia e l’Abkhazia, nonché il processo di riconciliazione, guidato dall’Osce, per laGeorgia e l’Ossezia del sud. Anche nel Tagikistan l’Unhcr collaborò strettamente conl’Osce all’organizzazione del rimpatrio.

I conflitti nel Caucaso meridionale e nel Tagikistan

La vertenza fra l’Armenia e l’Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh, che si era inaspri-ta alla fine degli anni ’80, fu solo una delle molte che si aggravarono fino a diventareguerre subito dopo lo scioglimento dell’Unione sovietica, avvenuta nel dicembre1991. In Georgia, il confronto armato iniziato nel 1989, con l’Ossezia del sud chechiedeva l’indipendenza, peggiorò finché, nel maggio 1992, fu conclusa una precariatregua. Nel giro di poche settimane, un nuovo conflitto scoppiò nel paese, questa voltanel territorio autonomo dell’Abkhazia. In Moldavia, all’inizio del 1992 si registraronobrevi ma violenti combattimenti tra le forze governative e quelle dell’autoproclamata"Repubblica del Transdniestr". In Asia centrale, nel maggio 1992 una sanguinosa guer-ra civile divampò nel Tagikistan.

Nella seconda metà del 1992, il numero delle persone strappate alle loro case da taliconflitti aumentò in misura drammatica. La necessità di aiuti umanitari d’emergenza eraormai largamente riconosciuta, e l’Unhcr accantonò molte delle sue precedenti riserverelativamente a un intervento sul terreno. Adesso la difficoltà, nelle parole di un rappre-sentante dell’organizzazione nella regione, era "di superare la stanchezza da compassionedei donatori". In agosto, in un documento programmatico si sosteneva che "anche se inquesto momento è probabilmente ossessionata dalla Jugoslavia, la comunità inter-nazionale non può, riflettendoci, ignorare ulteriormente la situazione della Transcaucasia"16. In seguito l’Unhcr svolse un ruolo chiave, d’intesa con il Dipartimento Onu degli affariumanitari (divenuto più tardi Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari), peravviare un programma di aiuti umanitari internazionali.

Il conflitto fra l’Armenia e l’Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh

Ancor prima dello scioglimento dell’Unione sovietica, i combattimenti per ilNagorno-Karabakh avevano costretto all’esodo circa 300mila armeni e 350mila azer-baigiani. Sia la dichiarazione d’indipendenza dell’Armenia, nell’ottobre 1991, sia lo

I RIFUGIATI NEL MONDO

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scioglimento dell’Unione sovietica, meno di due mesi dopo, causarono un inaspri-mento degli scontri e ulteriori esodi di popolazione. Nell’agosto 1993, le forze delNagorno-Karabakh e quelle armene controllavano circa un quinto del territoriodell’Azerbaigian, e avevano creato due "corridoi" per collegare la regione contesaall’Armenia.

In tale contesto di persistente violenza, l’Unhcr era riluttante ad avviare da soloun’operazione umanitaria su vasta scala. Decise, invece, di mobilitare e collaudare lapropria capacità di risposta alle emergenze, di recente creazione. Fu così che, il 3dicembre 1992, le squadre di pronto intervento dell’organizzazione arrivarono nellecapitali dell’Armenia e dell’Azerbaigian,Yerevan e Baku.

Fino a quando, nel maggio 1994, fu finalmente conclusa una tregua, oltre mezzomilione di azeri erano stati espulsi con la forza da vaste zone dell’Azerbaigian, adopera di forze armene del Karabakh. Se è vero che da allora il cessate il fuoco è rimas-to in piedi, una soluzione politica è risultata irraggiungibile, e la maggioranza degliabitanti costretti all’esodo sono tuttora ostaggi di un conflitto congelato. Malgrado lasituazione di stallo politico, l’Unhcr ha operato in stretta collaborazione con la Bancamondiale, il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) ed alcune Ong, assis-tendo il governo dell’Azerbaigian per il ripristino e la ricostruzione delle zone in cuile popolazioni esuli hanno potuto rientrare in condizioni di sicurezza.

Gli esodi forzati nell’area ex-sovietica

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Questa vedova d’origine armena, sfollata a seguito del conflitto fra l’Armenia e l’Azerbaigian, vive da oltre dieci anniin un serbatoio per il gas fuori uso. (UNHCR/A. HOLLMANN/1999)

I RIFUGIATI NEL MONDO

Le organizzazioni non governative

L’espressione "organizzazione nongovernativa" (Ong) si applica a unavasta gamma di enti senza scopo dilucro e comprende, in particolare, leorganizzazioni umanitarie e quelle ditutela e di vigilanza sul rispetto deidiritti umani. Sin dalla sua istituzione,l’Unhcr lavora con un gran numero diOng: internazionali, che operano inmolti paesi diversi, nazionali, attivesolo nel proprio paese, più alcunegrandi famiglie di Ong decentrate, comeCare International, World VisionInternational, Oxfam, e l’Alleanza Savethe Children.Tali organizzazioni sono impegnate inmolteplici attività, fra cui gli aiutiumanitari, lo sviluppo a lungo termine,come pure la tutela e la vigilanza suidiritti umani. L’Alto Commissario SadakoOgata ha definito le Ong "unimportante fattore di democratizzazionenel contesto internazionale delleNazioni Unite" i. Il sempre maggiorericonoscimento internazionale del loroimportante contributo è illustratoanche dal fatto che il premio Nobel perla pace 1999 è andato a Medici senzaFrontiere, una Ong.E’ difficile reperire precise statistiche, alivello mondiale, sul numero delle Ong esulle risorse incanalate per loro tramite.Alcuni osservatori ritengono che glistanziamenti totali convogliati in tuttoil mondo attraverso le Ong superino gli8,5 miliardi di dollari l’anno ii.Soprattutto nelle emergenze, laproporzione dei fondi destinatiall’assistenza internazionale allosviluppo che passa attraverso le Ong èenormemente aumentata da 15 anni aquesta parte.L’Unhcr collabora strettamente con leOng sin dalla propria creazione. Di fatto,il suo Statuto prevede espressamenteche l’organizzazione presti assistenza airifugiati tramite enti sia privati chepubblici Nei primi tempi, anche a causadel limitato bilancio di cui disponeva,l’Unhcr svolse soprattutto un ruolo dicoordinamento e supervisione, e già inquel periodo le Ong divennero deipartner importanti. All’epoca degliimponenti esodi di rifugiati degli anni’60 in Africa, l’Unhcr e le Ongsviluppato un rapporto di lavoro nuovoe più dinamico, in particolare attraversoil Consiglio internazionale delle agenzievolontarie (Icva), una federazione diOng fondata nel 1962, che tuttorasvolge un ruolo importante.

Negli anni ’70, cominciò a crescere ilnumero delle Ong, che divennero iprincipali partner operativi dell’Unhcr,in tutti gli aspetti della sua attività.Alla fine degli anni ’70, ad esempio, aKhao-I-Dang, un campo di rifugiaticambogiani in Thailandia, operavano 37Ong diverse. Per tutti gli anni ’80, leOng continuarono a proliferare, nelcorso delle massicce crisi di rifugiati inatto nel Corno d’Africa, in Asia e inCentroamerica. Alla fine degli anni ’80,più di un centinaio di Onginternazionali era all’opera nei campi enegli insediamenti di rifugiati afghaniin Pakistan.Sono, però, gli anni ’90 che hannovisto il maggior aumento del numerodelle Ong, delle loro dimensioni,capacità operative e risorse finanziarie.Nel 1994, si calcolava che fossero allavoro oltre 100 Ong nei campi diprofughi ruandesi dell’allora Zaire, 150in Mozambico, 170 in Ruanda, e circa250 in Bosnia-Erzegovina. Nel 1999, lacrisi del Kosovo ha ancora posto inrisalto il numero e la diversità delleOng che beneficiano di finanziamentipubblici e privati.È soprattutto ai governi, piuttosto cheai donatori individuali, che si deve ilrecente aumento dei finanziamenti alleOng. Nel 1970, i contributi del settorepubblico rappresentavano appena il1,5% del loro bilancio. A metà deglianni ’90, la proporzione era salita al40% e continuava a crescere iii. Questoincremento dei finanziamentigovernativi e di agenzie dell’Onu hacondotto alcuni osservatori a chiedersise un certo numero di taliorganizzazioni possono veramentecontinuare a definirsi non governative.In molti loro progetti, le Ong agisconoessenzialmente con un rapporto disubfornitura per conto dei governi odelle Nazioni Unite. In molti casi,comunque, le Ong criticanoapertamente sia i governi che leistituzioni dell’Onu.Sempre più spesso i governi finanzianodelle Ong nazionali, aggirando il ruolodi intermediarie tradizionalmente svoltoda quelle internazionali. Molte Ongnazionali sono piccole; alcune hannosolo una dimensione locale, con unpersonale limitato, e operanounicamente in una piccola città o in unvillaggio. Di recente, si è registrata unavera proliferazione di taliorganizzazioni: nel 1999, ad esempio,

nel solo Afghanistan ne erano attiveoltre 200.L’Unhcr ha stabilito rapporti dicollaborazione sempre più stretti con leOng nazionali. Durante la crisibosniaca, oltre il 90% degli aiutiumanitari da esso forniti eranodistribuiti da organizzazioni nazionaliquali Merhamet, la Caritas e le sedinazionali della Croce Rossa. Nel 1999hanno collaborato con l’Unhcr ben 395Ong nazionali – il triplo rispetto acinque anni prima – e, nello stessoanno, hanno realizzato quasi il 20% deiprogetti dell’Alto Commissariato. Essesvolgono un ruolo importante nelrafforzamento della società civile, eimmancabilmente rimangono a lungosul posto dopo la partenza delleorganizzazioni umanitarieinternazionali.A partire dal 1994, la collaborazione ele consultazioni fra l’Unhcr e le Ong sisono estese, attraverso un processobattezzato "Partnership in azione"(Partnership in Action – PARinAC). Nellamaggioranza dei paesi in cui operano,l’Unhcr e le Ong organizzanoregolarmente riunioni che favorisconola creazione di strutture dicollaborazione e consentono alle Ong dipartecipare alla messa a punto e allapianificazione delle strategie dell’Unhcr.Il processo PARinAC si è dimostratoparticolarmente utile nelle emergenzedi rifugiati improvvise e di vasteproporzioni.L’importanza delle Ong per l’Unhcr èillustrata dal fatto che, nel 1999,l’organizzazione ha convogliato 295milioni di dollari attraverso 544 partneroperativi. Circa la metà dei programmidell’Alto Commissariato è oggi attuatada Ong internazionali, 34 delle qualihanno ricevuto, nel 1999, oltre 2milioni di dollari ciascuna.La "Carta umanitaria" e le "Normeminime per l’intervento nellecatastrofi", che vanno insieme sotto ladenominazione di "Progetto Sphere",mirano ad accrescere l’efficacia degliaiuti e l’affidabilità delle agenzie.Questa cornice per l’azione umanitaria,lanciata nel 1997 e fondata sia su deiprincipi che sulla pratica, è il risultatodegli sforzi congiunti di oltre 200organismi: le Ong, il Movimentointernazionale della Croce Rossa e dellaMezzaluna Rossa, istituzioniaccademiche, le Nazioni Unite (inclusol’Unhcr), come pure enti governativi.

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Riquadro 8.2

I conflitti nei territori georgiani dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud

In Georgia, le popolazioni dei territori autonomi dell’Ossezia del sud e dell’Abkhaziaavevano cominciato, sin dal 1989, a premere per la secessione. Gli abitanti originaridell’Ossezia, la cui parte settentrionale fa attualmente parte della Federazione russa,rappresentavano nel 1979 i due terzi degli abitanti della regione. Essi auspicavano unamaggiore autonomia e l’unificazione con l’Ossezia del nord, ed erano detestati daigeorgiani per le loro posizioni tradizionalmente filo-russe. Gli abkhazi, un popolo ingran parte musulmano, aveva goduto negli anni ’20 di una virtuale sovranità, all’in-terno della Georgia. Sotto Stalin, però, nella zona furono insediati dei georgiani e, nel1989, gli abkhazi costituivano solo il 18% della popolazione, mentre i georgiani nerappresentavano quasi la metà.

Nel 1989 scoppiarono scontri nell’Ossezia del sud, fra gli abitanti osseti e quelligeorgiani. Malgrado la presenza delle truppe, prima sovietiche, poi georgiane, unatregua fu conclusa solo nel maggio 1992. A quel momento, circa 50mila osseti eranofuggiti attraversando la frontiera dell’Ossezia del nord, facente parte della Federazionerussa, mentre all’incirca 23mila georgiani erano stati cacciati dall’Ossezia del sud, e sierano rifugiati in altre regioni della Georgia.

In questo stesso paese, appena finito un conflitto, ne cominciò un altro.A metà del1992, scoppiarono combattimenti in Abkhazia, quando la repubblica proclamò la pro-pria indipendenza e 2mila militari georgiani furono inviati per ristabilire l’ordine. Nelcorso dei successivi 18 mesi, il conflitto provocò l’esodo e l’espulsione dall’Abkhaziadi qualcosa come 250mila georgiani.

Nel luglio 1993, fu concluso un cessate il fuoco e, il mese dopo, il Consiglio disicurezza dell’Onu decise di dislocare in Georgia, con un personale limitato, unaMissione d’osservazione (Unomig), che fu la prima del genere nell’ex Unione soviet-ica. In un primo tempo, la tregua si dimostrò precaria ma, in dicembre, i negoziatisotto l’egida delle Nazioni Unite si tradussero in un protocollo d’accordo fra le dueparti, e l’Unomig fu rafforzata con la dislocazione di Caschi blu. Quando la situazionecominciò a stabilizzarsi, l’Unhcr, che nel giugno 1993 aveva aperto un ufficio nellacapitale georgiana, Tiblisi, partecipò attivamente con i georgiani, gli abkhazi e laFederazione russa ai negoziati per un accordo quadripartito sul ritorno volontario deirifugiati e sfollati. Nell’aprile 1994, fu firmato a Mosca un accordo che prevedeva l’in-vio di una Forza di pace della Csi composta da 2.500 uomini, in maggioranza russi, eassegnava all’Unhcr il compito della supervisione sull’operazione rientro.

Sebbene non esente da difetti, l’accordo quadripartito parve un tentativo audacema credibile per invertire quella che di fatto era stata l’espulsione di un’intera popo-lazione per motivi etnici. L’applicazione dell’accordo, però, fu successivamenteostacolata dall’insistenza degli abkhazi perché fosse risolto, prima del rimpatrio, ilproblema dello status politico dell’Abkhazia. L’Unhcr fu quindi costretto a sospendereil proprio programma di rientro.

Benché continuassero dei colloqui indiretti fra le parti in causa, sotto l’egida dell’Onu,come anche altri negoziati, la situazione nel suo complesso rimase esplosiva. Decine dimigliaia di georgiani che avevano abbandonato le loro case ritornarono spontaneamente neldistretto di Gali, vicino alla Georgia vera e propria, malgrado i rischi, fra cui quello delle

Gli esodi forzati nell’area ex-sovietica

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mine. La mancanza di garanzie di sicurezza, in una regione non controllata dal governo, feceesitare l’Unhcr a incoraggiare o facilitare il rimpatrio volontario nell’Abkhazia. Per contro,negoziò sia con gli abkhazi che con i georgiani per cercare di portare soccorso ai profughirientrati nella zona di Gali, come pure alle vittime del conflitto in altre parti dell’Abkhazia esoprattutto nel capoluogo della regione, Sukhumi. In seguito, l’Unhcr fornì a quanti eranotornati spontaneamente nella zona di Gali materiali da costruzione, sementi e nafta per con-tribuire alla ricostruzione, e distribuì analoghi aiuti anche in altre parti dell’Abkhazia.

Nel maggio 1998, nel distretto di Gali scoppiarono nuovi combattimenti fra i par-tigiani georgiani e la milizia abkhaza, segnando una grave battuta d’arresto negli sforzidi pace a livello nazionale e internazionale. Di conseguenza, circa 40mila dei 50milaabitanti che erano già rientrati dovettero riprendere la via dell’esilio, e molte delle casee delle scuole riattate dall’Unhcr furono saccheggiate e incendiate.

Più fruttuosi furono gli sforzi per una soluzione pacifica del conflitto fra laGeorgia e l’Ossezia del sud. La situazione di stallo, che sussisteva a livello politico dalmaggio 1992, fu spezzata nel febbraio 1997, in una riunione a Vladikavkaz,nell’Ossezia del nord. Una commissione mista di controllo, sotto l’egida dell’Osce,adottò tre importanti decisioni, fra cui una sul rimpatrio volontario dei rifugiati edegli sfollati. L’Unhcr stabilì una propria presenza a Tskhinvali, nell’Ossezia del sud, elanciò un modesto programma di aiuti, fornendo principalmente materiali dacostruzione agli esuli ritornati, le cui case erano state distrutte o danneggiate duranteil conflitto. La collaborazione fra l’Unhcr e l’Osce per la risoluzione del conflitto fraGeorgia e Ossezia fu estesa, nel 1998, al Consiglio d’Europa, in uno sforzo comuneper mettere in grado le autorità georgiane di istituire un apparato giudiziario e nor-mativo atto a facilitare la restituzione dei beni alle vittime del conflitto.

La guerra civile nel Tagikistan

Nel Tagikistan la guerra civile scoppiò nel maggio 1992, meno di sei mesi dopo losmembramento dell’Unione sovietica. Il conflitto riguardava questioni politiche,etniche o di clan e, in minore misura, ideologiche. I gruppi uzbechi, khojandi ekulyabi, che avevano tradizionalmente detenuto il potere politico ed economicodurante l’era sovietica, erano contestati da gruppi emarginati delle altre regioni (garme pamiri) con un programma anticomunista, filo-islamico e nazionalista. Le trupperusse, rimaste nel paese dopo la disgregazione dell’Unione sovietica, aiutarono il gov-erno a tenere sotto controllo gli scontri e ad impedire alle forze ribelli di entrare nelpaese attraverso la frontiera meridionale. Nel giro di pochi mesi, i combattimenti ave-vano spinto circa 600mila abitanti ad abbandonare le loro case. Fra di essi, circa60mila tagichi fuggirono verso sud, in Afghanistan, mentre altri abitanti, di etniarussa, uzbeca e tagica cercarono scampo in altri paesi della Csi e anche più lontano.

Mentre si cercava una strategia integrata dell’Onu per il conflitto del Tagikistan,l’Unhcr fornì aiuti d’emergenza ai rifugiati tagichi nel nord dell’Afghanistan. Poi, nelgennaio 1993, una squadra dell’organizzazione arrivò nella capitale tagica, Dushanbe.Nello stesso mese, fu dislocata una modesta Missione d’osservazione delle Nazioni Unitenel Tagikistan (Unmot), istituita dal Consiglio di sicurezza. Nei mesi successivi, il per-sonale dell’Unhcr si trovò ad operare in un contesto quanto mai instabile. Durante

I RIFUGIATI NEL MONDO

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questo periodo, condusse difficili negoziati, alla fine coronati da successo, con i signoridella guerra responsabili delle espulsioni, per ottenere la fiducia di tutte le parti interes-sate e creare le premesse necessarie per il ritorno dei rifugiati e degli sfollati.

Di fatto, la guerra civile finì all’inizio del 1993, anche se in seguito continuò una certaattività dei ribelli per destabilizzare il paese.A partire dall’aprile 1993, l’Unhcr, in collab-orazione con altre agenzie dell’Onu e con alcune Ong, e con l’appoggio del governo delTagikistan, contribuì a organizzare il rimpatrio dei rifugiati e il ritorno degli sfollati.A talfine, l’Unhcr predispose una vasta presenza sul terreno per vigilare sui ritorni e fornireprotezione. A quanti tornarono a casa, l’organizzazione, insieme con i propri partner,fornì assistenza per ricostruire le case distrutte e le infrastrutture essenziali.

A metà del 1995, la maggioranza degli sfollati come anche circa 40mila rifugiatierano ormai rientrati, ed erano state ricostruite poco meno di 19mila abitazioni difortuna. L’Unhcr passò le consegne all’Osce per le attività di monitoraggio. Quindi, nelgiugno 1997, un nuovo accordo di pace concluso sotto gli auspici dell’Onu a Moscaha consentito ulteriori rimpatri. Nei due anni successivi, sono rientrati altri 17milatagichi, e l’Unhcr ha anche realizzato programmi per la creazione di piccole attivitàeconomiche, l’agricoltura e la scuola, in modo da facilitare il reinserimento dei rim-patriati nel sud del paese. Da allora, il Tagikistan ha registrato nuovi sporadicicombattimenti, che hanno prodotto ulteriori esodi interni. Sebbene l’opposizione siaentrata a far parte del governo, la situazione politica rimane tesa.

Gli esodi forzati nell’area ex-sovietica

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Lezione all’aperto per questi piccoli rifugiati, ora rientrati nella provincia di Khatlon, nel Tagikistan, dato che lascuola è andata distrutta durante la guerra. (UNHCR/A. HOLLMANN/1995)

Le nuove sfide nei paesi della Csi

Negli anni che seguirono lo scioglimento dell’Unione sovietica, i nuovi stati indipen-denti si trovarono davanti alla necessità di istituire adeguate procedure giuridiche eamministrative per fronteggiare i complessi problemi dei rifugiati e delle migrazioni.Fra il 1992 e il 1993, la maggior parte dei paesi della Csi introdussero una normativatemporanea sui rifugiati oppure emanarono leggi in materia. Nel febbraio 1993, laFederazione russa e l’Azerbaigian furono i primi di tali paesi ad aderire allaConvenzione Onu del 1951 sui rifugiati e al Protocollo del 1967, seguiti poco dopo,lo stesso anno, dall’Armenia e dal Tagikistan.

Apparve sempre più chiaramente, tuttavia, che gli stati membri della Csi si preoc-cupavano soprattutto delle proprie popolazioni sfollate ed erano riluttanti adassumersi la responsabilità di affrontare il fenomeno dei rifugiati nel suo insieme.L’Unhcr incontrò notevoli difficoltà per fare riconoscere l’istituto, universalmenteaccettato, dell’asilo, che comporta l’instaurazione di procedure eque ed affidabili perla determinazione dello status di rifugiato, e l’accettazione di una definizione uni-forme del termine stesso.

Nel 1991-92, l’Unhcr e le Ong sue partner dovettero affrontare il dilemma di comerispondere alle necessità dei richiedenti asilo bloccati nell’aeroporto di Mosca, e di circa10mila richiedenti asilo non provenienti da paesi della Csi, in maggioranza afghani,somali, iracheni ed etiopi, che si trovavano perlopiù nella capitale stessa. Nel gennaio1993, il Delegato dell’Unhcr a Mosca riferiva che: "i rifugiati o richiedenti asilo nonsono benvenuti; per le autorità russe, sono in transito e aiutarli qui creerebbe un fattoredi attrazione" 17.Aggiungeva che la Russia non aveva neppure i mezzi finanziari per assis-tere i propri sfollati, dato che il bilancio per il 1992 del Servizio federale dellemigrazioni era di tre milioni di dollari, per un milione di profughi. Gli altri paesi dellaCsi dovevano far fronte a problemi analoghi. L’Unhcr cominciò, pertanto, a fornire assis-tenza ai rifugiati e richiedenti asilo più vulnerabili, catalogò le necessità degli afghanibloccati in Russia, e varò delle attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica.

Un’ulteriore complicazione era rappresentata dalla confusione terminologica econcettuale che regnava in alcuni paesi della Csi. In particolare, la Russia ed altri paesiavevano introdotto nella loro legislazione l’espressione "migrante forzato", per des-ignare i russi e gli altri abitanti di lingua russa che rimpatriavano dalle repubbliche exsovietiche, ora indipendenti.Tale normativa rendeva confusa la definizione di rifugia-to riconosciuta a livello internazionale, e accentuava la distinzione tra rifugiatiprovenienti dall’interno e dall’esterno della Csi, che si traduceva in molti casi in dis-criminazioni ai danni di questi ultimi 18.

I “migranti forzati” in Russia e gli altri movimenti di popolazione

Per la Russia, il principale problema in materia di gestione delle migrazioni eraquindi il massiccio afflusso di russi e russofoni, molti dei quali si sentivano sper-duti e discriminati nei nuovi stati indipendenti, particolarmente in Asia centrale enei paesi baltici. Tutto il problema divenne altamente politicizzato: con milioni di

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cittadini che rimpatriavano, si faceva leva sull’orgoglio nazionale, mentre la pro-tezione dei diritti dei russi nel "vicino estero" occupava un posto di rilievo nellapolitica estera della Russia.

Di fatto, un movimento di "rimpatrio" dalle repubbliche dell’Asia centrale si eraverificato nell’ultimo decennio del dominio sovietico, ma ora l’entità numerica e ilrilievo politico di questi flussi erano bruscamente aumentati. Fra il 1992 e il 1996,qualcosa come tre milioni di persone immigrarono in Russia, anche se appena un mil-ione fu registrato dalle autorità. Si trattava del maggior movimento di popolazionenell’area della Csi, nell’era post-sovietica.

La Russia definì "migranti forzati" i cittadini o aspiranti cittadini russi che arrivavanodalle repubbliche ex sovietiche. Altri paesi della Csi replicarono che tale definizionecomportava un giudizio politico, e sostenevano che quella che era in corso era una sortadi "rilocalizzazione" post-imperiale, che non colpiva solo i russi. Al contrario, argo-mentavano che molti di coloro che ora si trasferivano ritornavano alla loro patriaancestrale volontariamente, per motivi culturali, sociali o economici. Per accrescere laconfusione, l’espressione "migrante forzato" era applicata anche agli sfollati.

A parte quello, i paesi della Csi dovevano pure far fronte ad altri problemi di esodoe migrazione su larga scala. Ad esempio c’era il trasferimento dei tatari di Crimea,deportati negli anni ’40 e cui era stato impedito il ritorno in patria fino al crollodell’Unione sovietica. C’era poi il flusso di rimpatriati delle varie etnie verso gli stati

Gli esodi forzati nell’area ex-sovietica

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I “migranti forzati” registrati nella Federazionerussa, secondo il precedente domicilio,1993-98* (Totale = 978.000)

0

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*Si calcola che il numero totale dei “migranti forzati”, registrati o no, giunti nella Federazione russa neglianno ‘90 sia superiore ai 3 milioni.Fonte: Servizio migrazioni della Federazione russa.

Fig. 8.2

di cui queste erano originarie, come gli abitanti di etnia kazaca che ritornavano nelKazakistan dalla Mongolia, dal Tagikistan e dall’Afghanistan. C’era anche il reinsedia-mento provocato da catastrofi ecologiche e, con sempre maggior frequenza, c’era unflusso in direzione dell’Occidente di migranti clandestini che utilizzavano i paesi dellaCsi come un corridoio di transito verso l’Europa occidentale. Oltre a ciò, nell’ambitodella Csi, milioni di persone cercavano un’occupazione in altri paesi. Questemigrazioni per lavoro, soprattutto dai paesi colpiti dalla guerra, non erano general-mente regolamentate.

Per affrontare tali problemi, i paesi della Csi collaboravano su base sia bilateraleche subregionale, come pure nell’ambito della Csi. Già nell’ottobre 1992, 10 statimembri firmarono a Bishkek, nel Kirghizistan, un accordo sui popoli ex deportati 19.Un anno dopo, nove paesi della Csi firmavano un altro accordo, sull’assistenza ai rifu-giati e ai migranti forzati. Esso conteneva definizioni di rifugiato e di "migranteforzato" più estensive rispetto alla Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati, compren-dendo anche quanti erano fuggiti da un conflitto; era rifugiato chi non aveva lacittadinanza del paese d’asilo, a differenza del "migrante forzato" 20.

Questi ed altri accordi analoghi della Csi di tale periodo sembravano iniziativevalide, ma in pratica rimasero sulla carta, non solo per la mancanza di risorsefinanziarie, ma anche – fatto più importante – per le persistenti tensioni all’internodella Csi fra i paesi come la Russia, favorevole a una maggiore integrazione, e quellicome l’Ucraina, l’Azerbaigian, la Moldavia e la Georgia, contrari alla trasformazionedella Csi in una struttura sopranazionale. Sempre più, quindi, fu riconosciuta la neces-sità di una cornice neutrale, entro la quale i paesi della Csi potessero affrontare iproblemi dell’esodo e delle migrazioni.

La conferenza sulla Csi

Al fine di richiamare l’attenzione internazionale sul problema dei "migranti forzati",le autorità russe si rivolsero all’Assemblea generale dell’Onu. Nel dicembre 1993,questa approvò una risoluzione, proposta dalla Federazione russa, per la convocazionedi una conferenza delle Nazioni Unite sui "problemi dei rifugiati, rimpatriati, sfollatie migranti" 21. Due mesi dopo, il ministro degli Esteri russo, Andrei Kozyrev, chiede-va ufficialmente all’Alto Commissario di organizzare la conferenza 22.

In un primo momento, l’Unhcr reagì cautamente, ben consapevole della sensibil-ità politica della proposta e delle implicazioni finanziarie e operative. Nel contempo,però, si rese sempre più conto delle limitazioni di un approccio frammentario aglienormi problemi della regione e del fatto che, per un’azione efficace e appropriata,non si poteva, in quel contesto non tradizionale, basarsi esclusivamente su una strate-gia centrata sull’asilo. L’Unhcr decise di conciliare le iniziative della Csi con le propriemutate concezioni strategiche, e di incoraggiare l’idea di una visione multilaterale eglobale dei problemi della regione. Così facendo, l’organizzazione faceva tesoro del-l’esperienza acquisita, oltre un decennio prima, con il processo Cirefca nelCentroamerica.

Nel corso di discussioni svoltesi a Mosca nel maggio 1994, la Federazione russaaccettò l’impostazione generale proposta dall’Unhcr. Furono allora invitati a parteci-

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pare i paesi della Csi, come pure altri paesi e organismi interessati. L’Unhcr, l’Oim el’Osce, rappresentata dal proprio Ufficio per le istituzioni democratiche e i dirittiumani, accettarono di organizzare congiuntamente quella ambiziosa iniziativa multi-laterale. Nel dicembre 1994, l’Assemblea generale dell’Onu ribadiva con una nuovarisoluzione il suo appoggio all’iniziativa 23.

Gli intensi lavori preparatori durarono quasi due anni e consolidarono l’accordo peraffrontare i problemi dell’esodo, sia attuali che potenziali, attraverso la cooperazione e ildialogo a livello internazionale. In una serie di riunioni subregionali, gli stati membridella Csi furono invitati a individuare più chiaramente i rispettivi problemi e bisogni.Nel maggio 1995, una prima riunione di esperti raggiunse un accordo per discutere nelcorso della conferenza di un gran numero di popolazioni costrette all’esodo 24.

Infine, il 30-31 maggio 1996, la conferenza sulla Csi si riunì a Ginevra. La denom-inazione completa era "Conferenza regionale per affrontare i problemi di rifugiati,sfollati, altre forme di esodo involontario, e rimpatriati nei paesi della Comunità di statiindipendenti e negli stati limitrofi interessati". Nella ricerca di una strategia peraffrontare i problemi umanitari e per rafforzare la stabilità regionale, la conferenza avevauna dimensione politica, che integrava i problemi degli esodi e delle migrazioni con itemi della sicurezza. Rappresentava quindi il massimo che la comunità internazionalepotesse fare per affrontare direttamente, seppure sotto l’egida umanitaria, alcuni deiproblemi più acuti derivanti dallo scioglimento dell’Unione sovietica.

I partecipanti esaminarono i movimenti di popolazione in corso nella regione,elaborando definizioni più chiare delle varie categorie interessate: rifugiati, sfollati,persone in fase di rimpatrio, popoli ex deportati, come pure migranti ecologici, perlavoro e in transito. Invece dell’espressione "migrante forzato", fu ideata l’espressionepiù neutrale "persone in fase di trasferimento involontario" 25. Il chiarimento dellequestioni terminologiche rappresentò sia il punto di partenza, sia il maggior risultatodella conferenza. La precisa individuazione dei vari tipi di movimenti in atto contribuìa spoliticizzare i problemi. La conferenza adottò un "Programma d’azione" che sta-biliva, in base a principi consensuali, una strategia globale e integrata per affrontare iproblemi delle migrazioni e degli esodi. Così facendo, cercava di prevenire l’insorgeredi situazioni suscettibili di originare ulteriori esodi involontari 26.

Il seguito dato alla conferenza sulla Csi

Il processo culminato nella conferenza sulla Csi contribuì a far rientrare i paesi inter-essati nell’alveo delle norme e delle prassi internazionali relative ai rifugiati e allepopolazioni esuli, e a richiamare l’attenzione dei donatori sulla regione. In seguito, ilProgramma d’azione diede l’avvio all’adozione di nuove normative in quasi tutti icampi, fra cui i diritti umani e la normativa sui rifugiati.

La conferenza aiutò l’Unhcr a focalizzare meglio e a potenziare le proprie attivitànella regione, consentendo all’organizzazione di estendere la sua azione a un maggiornumero di popolazioni esuli. Da allora, l’Unhcr ha aperto uffici in tutti i paesi membridella Csi, collaborando strettamente con i governi per elaborare e attuare delle norma-tive in materia di asilo e cittadinanza che si conformano ai principi internazionali. InAsia centrale, l’Unhcr ha contribuito alla creazione a Bishkek di un Centro per la ges-

Gli esodi forzati nell’area ex-sovietica

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tione delle migrazioni, che svolge attività di formazione e ricerca e consente un dialogoa livello interregionale, sui problemi dei rifugiati e delle migrazioni nell’area. Più in gen-erale, l’Alto Commissariato ha organizzato corsi di formazione riguardanti non solo ildiritto dei rifugiati, ma anche i diritti umani, le attività umanitarie, il diritto dellemigrazioni e degli stranieri, nonché la preparazione alle emergenze.

Insieme con i propri partner, l’Unhcr ha promosso attivamente il riconoscimentodel ruolo delle Ong nella società civile e la creazione di una cornice normativa chedefinisca il loro status giuridico. D’altro canto, il Consiglio d’Europa ha gradualmenteassunto il ruolo di capofila per l’elaborazione di un tale quadro normativo sulle Ong.Attraverso un apposito fondo istituito nel 1997, l’Unhcr ha da parte sua erogato pic-coli contributi alle Ong nazionali, per permettere loro di affrontare meglio i problemidelle migrazioni e dei rifugiati.

Nell’ambito del seguito dato alla conferenza sulla Csi, l’Unhcr e i suoi partner, piùparticolarmente l’Alto Commissario dell’Osce sulle minoranze nazionali e il Consigliod’Europa, si sono sforzati di affrontare i problemi cruciali, politicamente assai delicati,dell’apolidia [cfr. riquadro 8.1] e dei permessi di soggiorno (propiska), una prassidell’epoca sovietica, che limitano la libertà di circolazione e di scelta del domicilio.Sebbene alcuni paesi della Csi abbiano formalmente abolito tale sistema, in praticanella maggioranza dei casi è stato perpetuato tacitamente o sotto un altro nome.

I popoli ex deportati

Fra i popoli deportati da Stalin negli anni ’40, ai tatari di Crimea, ai mesketi e aitedeschi del Volga non era stato consentito di rimpatriare in grossi contingenti fino allafine degli anni ’80, quando nell’Unione sovietica cominciarono ad allentarsi i con-trolli. I tedeschi del Volga furono autorizzati ad emigrare nella Repubblica federale diGermania, in base alle disposizioni della Costituzione tedesca: circa 850mila di loro visi trasferirono quindi fra il 1992 e il 1999, mentre nello stesso periodo solo alcunemigliaia tornarono nella regione del Volga.

Nel caso dei tatari di Crimea, circa 250mila di loro rientrarono nella loro patria,che fa parte dell’Ucraina, fra il 1988 e il 1999. Si ritiene che un numero analogo siarimasto al di fuori di tale regione, principalmente nell’Uzbekistan. Il rientro dei tatariin Crimea ha provocato tensioni con gli altri abitanti della penisola, tensioni aggravatedalle difficoltà economiche che colpiscono l’intera popolazione. Inoltre, i tatari rim-patriati hanno incontrato problemi per ottenere la cittadinanza ucraina e difficoltà pertrovare un’abitazione, il che li ha costretti a ricorrere ad alloggi di fortuna.

Nel 1997, il governo ucraino ha chiesto l’aiuto della comunità internazionale peril reinserimento dei tatari. Nel contempo, la mediazione dell’Unhcr e dell’AltoCommissario dell’Osce per le minoranze nazionali ha consentito ai governidell’Ucraina e dell’Uzbekistan di concludere un accordo che facilita l’acquisizionedella cittadinanza ucraina da parte dei tatari rimpatriati. L’Unhcr ha condotto, inoltre,una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica in Ucraina, sul problemadei tatari. Alla fine del 1999, il problema dell’apolidia fra gli ex deportati, tornati inCrimea, era in larga misura risolto.

Più complesso è stato il problema dei mesketi. Questo gruppo eterogeneo di etniaturca, originario del sudovest della Georgia, aveva acquisito una chiara identità

I RIFUGIATI NEL MONDO

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nazionale solo dopo la deportazione, avvenuta negli anni ’40. A differenza degli altrigruppi, non fu mai accusato di collaborazionismo con l’invasore nazista. L’importanzastrategica della regione, vicina alla frontiera turca, dalla quale erano stati deportatiaveva, però, condotto le autorità sovietiche ad impedire il loro rimpatrio. Alla finedegli anni ’80, le violenze interetniche nella regione in cui si erano stabiliti (la valledi Fergana, fra l’Uzbekistan e il Kirghizistan) costrinse circa 90mila di loro alla fuga,per oltre la metà in Azerbaigian. Da allora, i mesketi hanno continuato ad incontrareproblemi di status giuridico, cittadinanza e integrazione in vari paesi della Csi.

Nel settembre 1998, tutte le parti in causa sono state riunite per la prima volta perdelle consultazioni informali. La riunione, svoltasi all’Aja, era organizzata dall’AltoCommissario dell’Osce per le minoranze nazionali, d’intesa con l’Unhcr e con il pro-gramma di ricerca "migrazioni forzate" dell’Open Society Institute 27. In seguito sonostati interessati pure altri organismi, fra cui il Consiglio d’Europa, che ha fatto delgraduale rimpatrio volontario dei mesketi in Georgia una delle condizioni per l’ade-sione del paese all’organizzazione, avvenuta nell’aprile 1999.

I conflitti nel Caucaso settentrionaleI primi scontri interetnici sul territorio della Federazione russa ebbero luogo nel Caucasosettentrionale, nell’ottobre-novembre 1992, meno di un anno dopo la disintegrazionedell’Unione sovietica. Le tensioni di lunga data fra gli ingusci, un popolo ex deportato, e gliosseti del nord, esplosero violentemente, obbligando 40-50mila ingusci ad abbandonare ildistretto conteso di Prigorodny, nell’Ossezia del nord, cercando rifugio nella vicinaRepubblica autonoma dell’Inguscezia. Nell’ottobre 1994, le autorità russe chieseroall’Unhcr di indagare sulla situazione della regione.Tuttavia, poco dopo la partenza di unamissione conoscitiva, nella vicina Cecenia scoppiò un conflitto militare di vaste proporzioni.

La guerra in CeceniaLa Cecenia aveva proclamato la propria indipendenza nel novembre 1991, col risulta-to che circa 150mila abitanti di altre etnie andarono via, soprattutto verso altre regionidella Federazione russa. I primi scontri scoppiarono alla fine del 1993, quando glioppositori del governo ribelle lanciarono la prima di una serie di offensive senza esito.Nel dicembre 1994, le forze russe intervennero direttamente contro la repubblicasecessionista, modificando drasticamente la situazione politica e della sicurezza nellaregione. I bombardamenti aerei e i tiri d’artiglieria distrussero vasti quartieri dellacapitale, Grozny, e i villaggi circostanti, costringendo oltre 250mila abitanti, su unapopolazione totale della Cecenia di 700mila, ad abbandonare le loro case. I profughicercarono riparo in Inguscezia, Daghestan e Ossezia del nord, come anche in altreregioni della stessa Cecenia.

Il governo russo chiese all’Unhcr di fornire aiuti umanitari agli esuli alla fine deldicembre 1994, non molto tempo dopo l’entrata delle truppe russe. Con l’accordo delSegretario generale dell’Onu perché prestasse soccorso a quel nuovo enorme numerodi sfollati, l’Unhcr avviò la sua prima operazione d’emergenza nella Federazione russa.L’assistenza nella regione del Caucaso settentrionale fu fornita in collaborazione con il

Gli esodi forzati nell’area ex-sovietica

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ministero russo delle Emergenze, il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr),altre agenzie dell’Onu e le Ong. In larga misura grazie all’operazione, furono con-tenute le tensioni sociali ed etniche derivanti dal massiccio afflusso di profughi,prevenendo una possibile destabilizzazione dell’Inguscezia e del Daghestan, comepure la diffusione del conflitto militare al di là delle frontiere della Cecenia.

Nell’agosto 1996 fu finalmente conclusa una tregua: prevedeva il ritiro delletruppe russe, ma non risolveva la questione dello status giuridico della Cecenia. Nei12 mesi successivi, molti esuli fecero ritorno alle loro case, permettendo un gradualeridimensionamento dell’operazione d’emergenza interistituzionale dell’Onu nellaregione. Il problema del rimpatrio degli sfollati nel distretto di Prigorodny fu, però,ancora una volta al centro dell’attenzione 28.

La situazione in Cecenia rimase esplosiva. I rapimenti e le uccisioni erano all’ordinedel giorno. Nel dicembre 1996, furono brutalmente assassinati sei funzionari del Cicr,mentre dormivano nell’ospedale in cui lavoravano. Nell’Ossezia del nord, VincentCochetel, responsabile dell’ufficio distaccato dell’Unhcr a Vladikavkaz, fu rapito nel

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0 50 100

Chilometri

NAKHICHEVAN(Azerb.)

GEORGIA

TURCHIA

REP. ISLAMICA D’IRAN

FEDERAZIONE RUSSA

Daghestan

Ossezia del nord

Inguscezia

Cecenia

Ossezia del sud

Abkhazia

Adjaria

Confine dell’ex provinciaautonoma delNagorno-Karabakh

BAKU

TBILISI

YEREVAN

Mar Caspio

Mar Nero

LEGGENDA

Confine di stato

Confine amministrativo

Capitale di stato

Movimento di rifugiati/sfollati

ARMENIA AZERBAIGIAN

Principali esodi di popolazione nella regione del Caucaso, anni ‘90 Cartina 8.2

Gli esodi forzati nell’area ex-sovietica

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gennaio 1998, portato in Cecenia e liberato soltanto 11 mesi dopo. I rischi per lasicurezza degli operatori umanitari spinsero l’Unhcr, nei primi mesi del 1999, atrasferire il proprio personale da Vladikavkaz a Stavropol, 300 chilometri a nordovest.

Il persistere della tensione nella regione obbligò l’Alto Commissariato a rinuncia-re ai piani per incoraggiare il ritorno. Nel 1997, l’organizzazione fornì aiuti ad oltre90mila esuli ceceni che vivevano nelle repubbliche russe vicine e in Georgia. Inoltre,fu prestata assistenza, attraversando la frontiera, agli sfollati rimasti in Cecenia e furonoassistite più di 35mila persone costrette all’esodo nel distretto di Prigorodny,nell’Ossezia del nord, che vivevano ancora in Inguscezia. Nell’Ossezia del nord,l’Unhcr cominciò ad organizzare il rimpatrio di 29mila rifugiati registrati versol’Ossezia del sud e altre regioni della Georgia.

Le ostilità armate scoppiarono nuovamente in Cecenia nella seconda metà del1999. In un primo tempo, i combattimenti nel vicino Daghestan fra gruppi armaticeceni e forze russe costrinsero alla fuga circa 30mila abitanti. Poi, in ottobre, scop-piò una nuova guerra fra le truppe russe e le forze della repubblica secessionista.Ancora una volta, oltre 200mila persone cercarono scampo nelle repubbliche vicine,in particolare nell’Inguscezia, e varie migliaia attraversarono la frontiera della Georgia.L’Unhcr ed altre organizzazioni umanitarie fornirono viveri e generi di prima neces-

In Cecenia, i superstiti piangono i morti, dopo un bombardamento aereo che ha distrutto le loro case. (UNHCR/K. GAUGLER/1978)

Riquadro 8.3 Gli attacchi armati controil personale umanitario

Che il personale umanitario corrapericoli, non è una novità. Nel luglio1964, François Preziosi, funzionariodell’Unhcr che lavorava nei campi diprofughi ruandesi nell’alloraRepubblica del Congo, cosìdescriveva in uno dei suoi rapportialla Sede di Ginevra alcuni di queipericoli: "Se do l’impressione dicorrere rischi, andando spesso sullalinea del fronte, non è per puracuriosità, ma per potere, quando itempi saranno maturi, intervenire ecercare d’impedire qualunque azioneinconsulta contro i rifugiati, sia sulterreno che nei centri direinsediamento. Per poter far questo,devo diventare una faccia conosciutaper gli ufficiali e i soldati, e quindiandare a trovarli spesso" iv. Seisettimane dopo, il 18 agosto 1964,Preziosi e un funzionariodell’Organizzazione internazionale delLavoro venivano uccisi nel campoprofughi di Mwamba, nella regionedel Kivu, nell’est del Congo, mentrecercavano di proteggere i rifugiatiruandesi.In tutto il mondo, il personaleumanitario si trova regolarmente alavorare in situazioni in cui rischiala vita. Sino alla fine della guerrafredda, tuttavia, l’Unhcr e lamaggioranza delle altreorganizzazioni umanitarie evitavanoin genere di operare in zona diguerra. Solo il Comitatointernazionale della Croce Rossa(Cicr) e un pugno di organizzazioninon governative (Ong), come Medicisenza frontiere, operavanoregolarmente in pieno conflitto.

Il pericolo è aumentatoPer tutti gli anni ’90, leorganizzazioni umanitarie –compreso l’Unhcr – sono divenutesempre più attive in situazioni di

conflitto armato, e in conseguenza èaumentato il numero degli operatoriumanitari feriti o uccisi nellosvolgimento del loro dovere. Inmolti casi, gli operatori umanitarisono vittime delle mine o sonominacciati da attacchi indiscriminaticontro i civili. Durante la guerradella Bosnia-Erzegovina, peresempio, oltre 40 di loro,appartenenti a diverseorganizzazioni, sono stati uccisi emolti altri feriti da tiri di artiglieriao da attacchi di cecchini,particolarmente a Sarajevo, doveall’inizio del 1994 la città eramartellata dall’artiglieria, con unamedia di 1.200 tiri al giorno v.All’epoca, per la prima volta nellasua storia, l’Unhcr adoperòregolarmente veicoli blindati e ilpersonale fu dotato di giubbottiantiproiettile.Per evitare di essere attaccate, leorganizzazioni umanitarie cheoperano in situazioni di guerracercano di distinguersi utilizzandoautomezzi bianchi, chiaramentecontrassegnati con bandiere edemblemi, ma in molti casi ciò nonbasta a proteggerle. In zone dove laviolenza è cieca e la criminalitàimperante, dove i signori dellaguerra e i comandanti locali devonorendere conto solo a se stessi, dovei posti di blocco sono affidati asoldati ubriachi o a ragazzi cheimbracciano armi più grandi di loro,nessuno può considerarsi al sicuro.Al contrario, le organizzazioniumanitarie, dotate di automezzifuoristrada di un bianco abbagliante,che inalberano antenne radio e altreattrezzature sofisticate e costose,rappresentano spesso un obiettivo dipredilezione vi.Il personale umanitario, tuttavia,non è esposto soltanto alla

criminalità e alla violenzainconsulta. La presenza delleorganizzazioni umanitarie è spessomal vista da una o più delle parti inconflitto, e il risentimento puòtramutarsi in una minaccia di untipo particolare. Le operazioni disoccorso durante un conflittoarmato sono spesso viste daibelligeranti come un ostacolo alraggiungimento dei loro obiettivimilitari, politici o strategici. Ilpersonale umanitario può esseresospettato di trasmettereinformazioni segrete o riservate, opuò diventare scomodo testimone dicrimini che le parti in conflittopreferirebbero occultare. A volte, ibelligeranti cercano di eliminare oscoraggiare testimoni reali opotenziali di violazioni dei dirittiumani o di altre violazioni dellanormativa internazionale, creandoper gli operatori umanitari un climad’insicurezza. Inoltre, leorganizzazioni che intervengono suentrambi i lati della linea del frontepossono anche essere mal visteperché forniscono aiuti al "nemico".In molti casi, gli operatori umanitariassunti in loco sono esposti a rischiancora maggiori rispetto alpersonale internazionale, soprattuttoa causa dei loro legami locali,religiosi o etnici.

Gli attacchi sono direttiGli attacchi contro il personaleumanitario sono ormai di unasconcertante banalità. Nel febbraio1993, Reinout Wanrooy, unfunzionario dell’Unhcr che lavorava inAfghanistan, percorreva la strada daPeshawar a Jalalabad a bordo di dueveicoli delle Nazioni Unite, con duecolleghi dell’Onu e due autistiafghani. Quando erano ormai vicinialla loro destinazione, sono stati

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superati da tre uomini armati nonidentificati, a bordo di unfuoristrada, che si sono messi asparare contro i due automezzi,chiaramente segnalati comeappartenenti all’Onu. Dopo averlicostretti a fermarsi, gli aggressorisono saltati fuori del loroautomezzo, aprendo il fuoco abruciapelo sulle loro vittime. Treuomini sono morti sul colpo, mentreuno degli autisti afghani, ferito amorte, è deceduto poi in ospedale.Dal canto suo, Wanrooy è riuscito afuggire, saltando fuori del mezzo ecorrendo più veloce che poteva,schivando una scarica di pallottole.Molti altri operatori umanitari,appartenenti a diverseorganizzazioni, hanno perso la vitain situazioni analoghe. Almeno 23dipendenti della Croce Rossa sonostati uccisi, a partire dal 1996, nellasola regione africana dei GrandiLaghi. Nel dicembre di quell’anno, hadestato particolare allarme il brutaleassassinio di sei funzionari del Cicrin Cecenia, in maggioranza medici einfermieri, mentre dormivano nellostesso ospedale in cui lavoravano. InBurundi, nello stesso anno, tredipendenti del Cicr sono statitrucidati in un’altra agghiaccianteaggressione premeditata. Altre decinedi operatori umanitari hanno perso lavita: in aggressioni dirette contro diloro, o trovandosi in mezzo al fuocoincrociato di armi di piccolo calibro oa tiri indiscriminati d’artiglieria; abordo di aerei abbattuti, o saltandosu una mina. Molti altri sono statiferiti o hanno sofferto, e continuanoa soffrire, per le conseguenze deitraumi subìti.Con sempre maggiore frequenza, glioperatori umanitari sono anchecatturati come ostaggi. Uno di loro èstato Vincent Cochetel, capo

dell’Ufficio dell’Unhcr a Vladikavkaz,nella Federazione russa, che curava lasupervisione di un programma di aiutiin favore di decine di migliaia disfollati, a seguito dei conflitti inCecenia, Ossezia e Inguscezia. Nelgennaio 1998, mentre apriva la portadel suo appartamento al settimopiano, tre individui armati emascherati lo hanno costretto adinginocchiarsi sul pavimento,puntandogli una pistola sulla nuca. Per317 giorni è rimasto prigioniero inCecenia, in condizioni allucinanti:rinchiuso nel bagagliaio di un’auto pertre giorni, picchiato sistematicamente,ammanettato in scantinati esottoposto a finte esecuzioni, prima diessere finalmente rilasciato.Fra il 1° gennaio 1992 e il 31dicembre 1999, 184 dipendentiespatriati e locali dell’Onu hannoperduto la vita nell’espletamento delloro incarico, perlopiù nel corso dioperazioni umanitarie. Nello stessoperiodo, si sono verificati oltre 60incidenti durante i quali deicollaboratori dell’Onu sono statipresi in ostaggio; in più della metàdei casi, si trattava di personaleumanitario. Dall’inizio degli anni ’60,15 dipendenti dell’Unhcr sono statiuccisi nel corso di aggressioniarmate, deliberate e premeditate, inalcuni casi con uno sparo alla testa,a bruciapelo. Considerando anche lemorti e i ferimenti del personaledelle Ong, queste macabrestatistiche aumentano notevolmente.

Le misure di sicurezzaPrima del conflitto nell’exJugoslavia, l’Unhcr impiegavasoltanto un funzionario, a tempoparziale, per dare consigli inmateria di sicurezza del personale.Nel 1992, l’organizzazione hainstaurato un sistema

completamente nuovo, conl’assunzione di consulentispecializzati, la formazione deifunzionari, nonché un migliorecoordinamento in seno alle NazioniUnite e con le Ong. Alla fine deldecennio, l’Unhcr impiegava ormai21 consulenti per la sicurezza sulterreno, in 15 paesi diversi, inAfrica, Asia ed Europa. Questiesperti assistono e consigliano ilpersonale, seguono la situazionelocale nel campo della sicurezza,mantengono i collegamenti con leautorità nazionali competenti, lealtre agenzie dell’Onu, le Ong e leambasciate, e impartiscono unaformazione sul posto, per aiutare aridurre i rischi e a reagire alleminacce e alle aggressioni.In regioni come il nord dell’Iraq, laSomalia, i Balcani, Timor est e laLiberia, sono dislocate forze di pacedell’Onu o altre forze militariinternazionali o regionali, peraccrescere la sicurezza del personaleumanitario e facilitare l’assistenzaalle popolazioni vulnerabili. Imilitari scortano i convogli chetrasportano gli aiuti, bonificano lezone minate, ripristinano strade eponti e gestiscono aeroporti. Inmolti altri paesi, però, i governisono meno pronti a impegnaretruppe o altre risorse per migliorarela sicurezza del personaleumanitario. In alcune delle regionipiù pericolose del mondo, lontanodall’attenzione dei mediainternazionali, molti operatoriumanitari inermi continuano il lorolavoro senza particolare protezione,rischiando la vita per proteggere eassistere il prossimo.

Gli esodi forzati nell’area ex-sovietica

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I RIFUGIATI NEL MONDO

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sità agli esuli, molti dei quali alloggiati in campi profughi, cercando di garantire laprotezione dei loro diritti umani fondamentali.

La seconda crisi in Cecenia divenne altamente politicizzata a livello internazionale.In nessun paese occidentale si discuteva il diritto della Federazione russa di effettuarequella che, secondo il governo, era una campagna antiterroristica condotta sul proprioterritorio. Molti paesi, tuttavia, criticarono i mezzi impiegati dai militari russi e l’usosproporzionato della forza contro la popolazione civile.

Le sfide futureLo scioglimento dell’Unione sovietica liberò nella regione tutta una serie di antago-nismi interetnici latenti e di aspirazioni nazionalistiche e secessionistiche. Molti deiconflitti scoppiati fra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 rimangonoirrisolti, e migliaia di persone sono ancora sfollate. Molte di loro non hanno potutoritornare alle loro case in condizioni di sicurezza, né integrarsi in modo soddisfacentenelle zone in cui hanno cercato rifugio.Alcune frontiere sono tuttora contestate, il checomplica il processo di consolidamento degli stati. I processi di pace a un punto mortonel Caucaso meridionale e le perduranti situazioni né di guerra né di pace hannocreato ulteriori angosce e incertezze nelle popolazioni. Nel Tagikistan, sebbene sia statoraggiunto un accordo, la pace rimane fragile, ed esistono tensioni anche in altreregioni dell’Asia centrale. In Cecenia i combattimenti continuano e buona parte delleinfrastrutture e delle abitazioni sono distrutte. La capitale, Grozny, è divenuta teatro didistruzioni a un livello che non si era più visto in Europa dopo la seconda guerramondiale. Migliaia di abitanti sono tuttora esuli in Cecenia, in Inguscezia e Daghestane il loro futuro rimane incerto.

Rifugiati e sfollati nella Comunitàdi stati indipendenti, 1999

0

200

300

400

500

600M

iglia

ia

100

Federazionerussa

Armenia Azerbaigian Georgia Kazakistan Kirghizistan Tagikistan Turkmenistan Altri

Rifugiati Sfollati

Fig. 8.3

Gli esodi forzati nell’area ex-sovietica

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Nell’ultimo decennio, molti paesi della Csi hanno compiuto notevoli progressinell’elaborazione di normative sulle migrazioni e sui rifugiati, e la maggior parte diloro hanno ormai aderito alla Convenzione Onu del 1951 sui rifugiati. La concretaattuazione dei principi della protezione dei rifugiati rimane, però, problematica enella regione il regime dell’asilo è ancora embrionale e frammentario. Il ricorso gen-eralizzato al concetto di "paese terzo sicuro" e l’esistenza di accordi di riammissione,senza garanzie adeguate per la protezione dei rifugiati, perpetuano gravi lacune nelnascente sistema dell’asilo regionale, e più in generale in quello internazionale.

Per molti cittadini dei paesi della Csi, la stessa idea di dare asilo a rifugiati prove-nienti da fuori della Csi è tuttora difficile da digerire. In un clima di acute tensionisocioeconomiche, si diffonde, anziché attenuarsi, la xenofobia. Nell’opinione pubbli-ca, è anche cresciuta la diffidenza fra popoli slavi e caucasici all’interno della Csi,esasperata dalla guerra in Cecenia e dall’oscuro timore di minacce terroristiche. A taleriguardo, le Ong possono svolgere una funzione cruciale per promuovere la tolleran-za e far recedere la xenofobia, come anche per contribuire a ripristinare la fiducia frale varie comunità che si risollevano dopo un conflitto. Il settore delle Ong è statonotevolmente incentivato dal processo della conferenza sulla Csi, ma rimane ancoramolto da fare per creare un ambiente in cui le Ong possano agire efficacemente.

Oltre ai molti problemi che devono fronteggiare all’interno della regione ex soviet-ica, i paesi della Csi hanno l’impressione che, nell’Unione europea, i sistemi sempre piùvasti e restrittivi dell’asilo e dei controlli alle frontiere attribuiscano loro il ruolo di unabarriera contro le migrazioni illegali verso l’Occidente. I governi della Csi sostengonoche gli stati dell’Europa occidentale e centrale dovrebbero avere una visione organica delproblema, estesa a tutto il continente, e che dovrebbero aiutarli sia nella creazione di sis-temi dell’asilo equi e funzionali, sia nella lotta alle migrazioni clandestine e di transito,che costituiscono altresì una grave preoccupazione per la regione.