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1 Governance e Responsabilità sociale · Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance. Mutamenti in atto nelle scelte strategiche e nelle politiche delle aziende · Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia I Quaderni di Unipolis / on line 03

Governance e Responsabilità sociale

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Governance e Responsabilità sociale

· Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di

governance. Mutamenti in atto nelle scelte strategiche e nelle politiche delle aziende

· Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia

I Quaderni di Unipolis / on line

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Questa pubblicazione raccoglie le ricerche sul tema Governance e responsabilità sociale, promosse dalla Fondazione Unipolis in due successivi momenti, ma che hanno una loro unitarietà e coerenza di fondo. La più recente, sviluppata tra il 2011 e il 2012, ha avuto come argomento di indagine e riflessione i “Modelli e le esperienze CSR in relazione ai sistemi di governance. Mutamenti in atto nelle scelte strategiche e nelle politiche delle aziende”. Essa è stata realizzata in stretta collaborazione con il Dipartimento di Scienze Giuridiche “A. Cicu” dell’Università di Bologna, cui la Fondazione ha erogato un assegno di ricerca. Oltre all’esito del lavoro analitico svolto, vengono pubblicati gli interventi dei partecipanti al seminario di presentazione del 29 marzo 2012. La ricerca è stata effettuata sotto l’egida di un Comitato di indirizzo composto da: Giorgio Riccioni (coordinatore), Walter Dondi, Pierluigi Morara, Marisa Parmigiani, Elisabetta Righini, Lamberto Santini e Francesco Vella. La realizzazione è stata curata da Costanza Russo, ricercatrice del Dipartimento di Scienze Giuridiche “A. Cicu” dell’Università di Bologna. La seconda ricerca, svolta e presentata nel 2009, ha avuto come obiettivo l’”Analisi dei Codici Etici d’impresa in Italia” ed è stata realizzata direttamente dalla Fondazione, con la collaborazione di personalità ed esperti. Questa ricerca, con una serie di commenti e di contributo, era già stata oggetto di pubblicazione all’indomani della presentazione ma, essendo esaurita, si è ritenuto opportuno riproporla, anche in considerazione della sostanziale unitarietà dei temi sviluppati, che attengono al rapporto tra le modalità con le quali vengono affrontati i temi della responsabilità sociale d’impresa, sia in chiave etica e valoriale, che nelle politiche di sostenibilità, in relazione ai sistemi di governo delle aziende. Anche questa ricerca si è svolta avvalendosi di un Comitato di indirizzo composto da: Giorgio Riccioni (coordinatore), Maria Bettazzoni, Walter Dondi, Pierluigi Morara, Marisa Parmigiani, Elisabetta Righini, Lamberto Santini, Francesco Vella. La realizzazione è stata curata da Paola Lanzarini e Silvia Furfaro per conto della Fondazione Unipolis.

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Indice

Etica, responsabilità e regole. L’integrazione di sostenibilità e business di Pierluigi Stefanini e Walter Dondi…………………………………………………………………………………………………..........p.5 PRIMA PARTE Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance. Mutamenti in atto nelle scelte strategiche e nelle politiche delle aziende

1. Introduzione.............................................................................................................................................p.11 2. La ricerca 2.1 Obiettivi della ricerca……...............................................................................................................……p.12 2.2 Metodologia e campione....................................................................................................... .............p.13 2.3 I questionari........................................................................................................................................p.15 2.4 Limiti...................................................................................................................................................p.15 3. Analisi qualitativa: il settore finanziario e quello delle multiutility 3.1 La governance e il grado di strutturazione della funzione di CSR.......................................................p.16 3.2 L'integrazione della CSR nelle politiche aziendali...............................................................................p.17 3.3 La robustezza della funzione di CSR: budget e personale...................................................................p.18 3.4 Analisi multivariata............................................................................................................ .................p.19 4. Principali spunti emersi ......................................................................................... ..................................p.19

Il punto di vista degli esperti................................................................................................................ .......p.21 Il contesto europeo…………………………………………………………………………………………………………………………………p.26 Gli Interventi al seminario di presentazione Maurizio Chiarini...........................................................................................................................................p.30 Paolo Migliavacca.........................................................................................................................................p.32 Valter Serrentino............................................................................................................. ..............................p.32 Francesco Vella............................................................................................................... ..............................p.33 RIFLESSIONI CONCLUSIVE Perché investire su etica e responsabilità sociale di Giorgio Riccioni…………………………………………………………………………………………………………………………………….p.35

SECONDA PARTE Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia 1. Introduzione 1.1 Obiettivi della ricerca…….....................................................................................................................p.39 1.2 Limiti dello studio................................................................................................................................p.40 2. La Responsabilità Sociale d’Impresa tra autoregolamentazione e legislazione…………………………………...p.40 2.1 Il Codice Etico e il Comitato Etico ......................................................................................... .............p.42 2.2 Il decreto legislativo 231/2001 ............................................................................................. .............p.43 3. La ricerca: analisi quantitativa e qualitativa 3.1 L’analisi quantitativa 3.1.1 La metodologia….………….............................................................................................................p.47 3.1.2 L’analisi dei dati

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3.1.2.1 Profilo del campione di aziende selezionate…………….………………………………….…………....p.47 3.1.2.2 Caratteristiche generali del Codice Etico…………………….………..…………………………….….…..p.47 3.1.2.3 Gli Organismi garanti del Codice Etico…………………………..…………………….……..................p.49 3.1.2.4 Procedure di segnalazione e verifica a supporto dell’attuazione del Codice Etico…… .p.51

3.2 L’analisi qualitativa 3.2.1 La metodologia……………............................................................................................................p.52

3.2.2 L’analisi dei risultati 3.2.2.1 Il campione delle aziende e gli intervistati....................................................................p.52 3.2.2.2 Ruolo, funzione e impatto del Codice Etico .................................................................p.52 3.2.2.3 Approfondimenti sull’Organo garante del Codice Etico.…………..….…………………...........p.53 3.2.2.4 Il sistema di segnalazione, verifica e attuazione ……………….………….……………..……...…..p.54 3.2.2.5 I punti critici e le buone prassi…....................................................................................p.56

4. Alcuni modelli di governance della Responsabilità Sociale d’Impresa 4.1 Modello Classico.............................................................................................................................p.57 4.2 Modello 231....................................................................................................................................p.57 4.3 Modello CSR................................................................................................. ...................................p.59 4.4 Proposta di modello di governance CSR..........................................................................................p.63

5. Commenti 5.1 Sintesi del seminario interno………………………………………………………………………………………………………p.63 5.2 Il rapporto tra Codice Etico e Responsabilità Sociale d’Impresa di Marisa Parmigiani………….…....p.66 5.3 Il Codice Etico per una governance multi-Stakeholder della Responsabilità Sociale d’Impresa

di Lorenzo Sacconi…………………………………………………………………………………………………………………..…..p.69 5.4 I Codici Etici nel sistema normativo delle imprese di Mario Viviani................................................p.73

6. Riferimenti bibliografici................................................................................................. ...........................p.83

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Presentazione

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Etica, responsabilità e regole. L’integrazione di sostenibilità e business di Pierluigi Stefanini e Walter Dondi

In questa pubblicazione vengono raccolte le ricerche realizzate e promosse dalla Fondazione Unipolis tra il 2009 e il 2012 riguardanti il rapporto tra governance d’impresa e responsabilità sociale in Italia, nonché i contributi e le riflessioni che hanno accompagnato le loro presentazioni pubbliche.

La prima ha avuto come oggetto l’analisi dell’applicazione dei codici etici nelle aziende, la seconda – che ha visto il determinante contributo dell’Università di Bologna - in modo più specifico la relazione tra i modelli e le esperienze di CSR e i sistemi di governo delle imprese. Ancorché si discuta da tempo delle tematiche connesse alla responsabilità sociale e alla sostenibilità nelle aziende, risultano ancora scarsamente esplorate le questioni che riguardano il rapporto tra queste politiche e la governance d’impresa. Che è poi il cuore del sistema decisionale di un’azienda. Laddove, cioè, risiedono i più delicati aspetti della relazione tra la proprietà e il management. In particolare – anche se non esclusivamente - per le aziende e i gruppi quotati in borsa.

Si tratta di ricerche, di analisi, di interventi, che non hanno alcuna pretesa di completezza e tantomeno di esaustività. Tuttavia, si segnalano per essere innovative per argomenti, approccio e profondità. Anche per questo, riteniamo, hanno suscitato un indubbio interesse da parte di coloro che da più tempo e con continuità affrontano queste problematiche.

Il contesto nel quale queste due iniziative si collocano è peraltro contrassegnato dalla profondissima crisi che ha investito, a partire dall’estate del 2007 ed esplosa nel settembre dell’anno successivo con il fallimento della Lehman Brothers. In questi anni abbiamo così potuto misurare tutti i limiti, e diciamo pure anche i fallimenti, di un modello di sviluppo e di gestione dell’attività imprenditoriale come quello che ha dominato gli ultimi decenni e che è giunto a investire la stessa solidità degli stati.

Senza alcuna pretesa di compiere, in questa sede, una analisi anche solo in superficie della crisi, delle sue ragioni e delle sue conseguenze, non si può tuttavia prescindere dall’evidenziare come già nel corso degli ultimi anni fosse emerso con una certa chiarezza che il prevalere della finanza, dei meccanismi di leva del

Pierluigi Stefanini è Presidente del Gruppo Unipol e della Fondazione Unipolis. Walter Dondi è Responsabile Etico e CSR del Gruppo Unipol e Direttore della Fondazione Unipolis.

debito volti a massimizzare la redditività del capitale a breve e brevissimo termine − compresi i giganteschi bonus ai grandi manager che avevano sconvolto ogni parametro di riferimento ed esasperato le differenze retributive, portando la disuguaglianza sociale a livelli conosciuti forse solo in epoche antiche – avessero prodotto una vera e propria crisi etica. Così come gli scandali che dagli Usa al Regno Unito, dalla Francia all’Italia si sono susseguiti negli anni non erano, del resto, che la manifestazione più eclatante e vistosa di una malattia assai più profonda. Quella determinata da una progressiva deregolamentazione dei mercati, nella deprivazione di quei valori morali che pure hanno avuto tanta parte – sia pure con molteplici contraddizioni – nella costruzione del mercato e della concorrenza capitalistica. In ultima analisi, questa lunga fase, durata almeno un trentennio, è stata caratterizzata dal rovesciamento stesso delle finalità dell’economia moderna, così come del resto ce l’avevano insegnata i classici. Ci ha ricordato proprio di recente il Nobel Amartya Sen, citando Adam Smith, che i mercati non possono funzionare in maniera efficiente senza un sistema integrato di istituzioni esterne e valori estesi, in cui gli operatori possano avere fiducia gli uni negli altri. E ancora, la messa in guardia nei confronti di coloro che nella “ricerca spasmodica di rapidi profitti” rovinano la stabilità dell’economia. E come non citare i saggi e gli ultimi continuativi scritti di un giurista ed esperto di mercati come Guido Rossi che indica proprio nello stravolgimento delle relazioni tra finanza ed economia reale e nel prevalere di un “capitalismo predatorio” l’origine vera della crisi sistemica che stiamo attraversando. Peraltro, la stessa Enciclica papale “Caritas in Veritate” ci ha anch’essa offerto ulteriori elementi non solo di analisi, ma anche notevoli spunti volti a individuare i cambiamenti necessari a dare all’azione economica nuove finalità.

Il lavoro di ricerca realizzato e promosso dalla Fondazione, ha trovato negli avvenimenti degli ultimi anni nuove e più forti motivazioni. Proprio perché, se tra le ragioni che hanno determinato la crisi e la sua gravità c’è il processo di deregolamentazione dei mercati, allora è evidente che assume straordinaria rilevanza il tema delle regole. Di quelle che il potere pubblico è chiamato a definire o ridefinire per cercare di ridurre i rischi prodotti dall’attività economica e finanziaria sui cittadini e le persone, sia nei confronti degli stessi Stati. Ma anche di quelle regole che autonomamente le imprese possono darsi per corrispondere a obiettivi di maggiore trasparenza, responsabilità ed efficacia nei confronti dei propri Stakeholder di riferimento.

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Le dimensioni e la profondità della crisi, la sua natura di sistema rendono essenziale un ripensamento del modello di sviluppo su scala globale. In causa non c’è solo l’economia e la finanza, ma la società intera, il rapporto dell’uomo con la natura. In una parola, la possibilità stessa di rendere sostenibile nel futuro la vita dell’uomo sul nostro pianeta. Non è una valutazione banalmente “catastrofista”, come gli esegeti dell’ottimismo a prescindere vorrebbero far intendere. Essa fa riferimento alle assai solide e argomentate analisi provenienti dai più importanti istituti di ricerca internazionali e ormai fatte proprie dalle classi dirigenti più avvedute e consapevoli dei maggiori Paesi, non da ultimi gli Stati Uniti.

Può essere che – e già i primi segnali in questo senso si sono visti – ci sia chi ritenga che, passata la bufera, tutto possa riprendere più o meno come prima. Una tale idea delle ripresa sarebbe non solo miope, ma anche illusoria. Perché i nodi di fondo alla base della crisi esplosa così fragorosamente nell’estate del 2008 non possono esser sciolti riproponendo il vecchio modello di fare finanza, economia, impresa.

Se questo è dunque il contesto, è nostro compito – cioè di tutti coloro che hanno un’idea più lungimirante e umanamente ispirata dello sviluppo – lavorare affinché si operi un cambiamento nell’agire economico che riporti al centro delle sue finalità le persone e il loro benessere. La responsabilità sociale d’impresa è la cornice strategica dentro la quale questo lavoro può trovare un suo efficace svolgimento. Purché essa sia intesa, come viene ampiamente argomentato in tutti gli interventi che accompagnano queste ricerche − al di là delle differenti accentuazioni, le quali, peraltro, costituiscono un importante contributo di idee e di elaborazione – come modalità di fare impresa e di produrre valore economico e sociale per l’insieme dei portatori di interesse.

Le due ricerche che qui vengono presentate e analizzate, sia pure svolte con modalità e in tempi diversi, hanno entrambe al centro la questione di come le imprese scelgono di dotarsi di sistemi di autoregolazione e impegno in chiave di responsabilità etica e sociale. E di come essi diventano parte integrante di una strategia capace di accrescerne non solo il “profilo etico” e la “percezione” e l’“immagine” interne ed esterne, bensì la propria competitività sul mercato. In sostanza, alla base c’è l’idea che valori etici, responsabilità sociale, sostenibilità, non sono semplici “orpelli”, “marketing buonistico” da propagandare con accorte campagne di comunicazione, bensì leve fondamentali per rispondere in modo innovativo ai bisogni espressi sul mercato dai consumatori, ma più in generale per corrispondere alle esigenze di tutti coloro che hanno

rapporti diretti o indiretti con l’impresa: dagli azionisti ai lavoratori, dai clienti ai fornitori, dalla comunità alla pubblica amministrazione. E di come non sia così illusorio pensare di perseguire obiettivi di sviluppo e redditività dell’impresa in un rapporto equilibrato fra tutti i diversi interessi in campo.

Da questo punto di vista, le ricerche mettono in evidenza, insieme ai molti limiti e alla certamente ancora inadeguata acquisizione del valore della responsabilità sociale, come nel mondo imprenditoriale siano stati fatti significativi passi avanti. La stessa diffusione dei codici etici – se si fa riferimento alla prima delle indagini svolte - per quanto avvenuta in buona parte sulla spinta dell’applicazione della legge “231” (quella sulla responsabilità amministrativa degli enti), costituisce una base importante dalla quale partire per fare quel salto quantitativo e qualitativo che è certamente indispensabile se si vogliono perseguire gli obiettivi di cambiamenti cui si è accennato prima. Così come la ricerca più recente, quella sul rapporto tra sistemi di governance delle imprese e gestione delle politiche di responsabilità sociale, mette in rilievo la varietà delle scelte operate dalle aziende, nonchè le difficoltà ad assumere la sostenibilità come asse strategico delle imprese. E, ancor più, a costruire attorno ad esso percorsi coerenti e continuativi.

Le ricerche realizzate dalla Fondazione Unipolis ci consentono di compiere riflessioni a partire da dati di analisi – quantitativi e qualitativi – che prima non erano noti o scarsamente rilevanti. E quindi di entrare nel merito di come, concretamente, nel vivo dell’esperienza quotidiana le imprese affrontano il difficile cimento di rendere coerenti le enunciazioni valoriali e di principio con i comportamenti gestionali e operativi. Tema da non sottovalutare e da non affrontare con sufficienza. È ben vero, infatti, che troppo spesso, ancora, nelle imprese prevale un uso strumentale della responsabilità sociale e dei codici etici. E tuttavia, bisogna anche evitare di affrontare queste problematiche con un eccesso di costruzioni astratte, non in grado di misurarsi con la complessità dell’agire imprenditoriale e della gestione delle organizzazioni.

Proprio per questo, consideriamo queste ricerche e gli impegnativi saggi e interventi raccolti in questa pubblicazione un contributo importante non solo di analisi e riflessione, ma anche uno stimolo alle imprese affinché intraprendano la strada dell’impegno e/o del miglioramento della loro attività sui temi etici e della CSR. La questione, peraltro molto importante, del rapporto tra azione volontaria e norma di legge, può ricevere una prima significativa risposta dalla crescita della sensibilità e della cultura valoriale da parte degli imprenditori e dei manager.

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Presentazione

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Allo stesso tempo, appare altrettanto rilevante ed anzi essenziale che il necessario intervento pubblico per l’opportuna regolazione dei mercati – sia nei singoli stati che nella dimensione sovranazionale – non si trasformi in nuove forme di “statalismo burocratico” che sarebbero sicuramente nefaste. Servono regole chiare, trasparenti, efficaci, in grado di evitare i comportamenti speculativi, ma che allo stesso tempo diano spazio a una sana competizione nel mercato, fra una pluralità di soggetti e di forme imprenditoriali, in grado di rispondere agli obiettivi di sviluppo economico, sociale e civile.

Ed è proprio a partire dalla necessità di evitare di restare prigionieri di una falsa contrapposizione tra queste illusorie alternative – autoregolamentazione e controllo burocratico – che a un sistema di regole è indispensabile affiancare un’azione profonda e diffusa volta a far crescere una cultura dell’etica e della responsabilità che faccia perno sugli individui, sulle imprese, sulle organizzazioni, sulla politica e le istituzioni a tutti i livelli. Giova ripeterlo: non si vuole in alcun modo sottovalutare l’importanza di norme e leggi capaci di dare ordine, legittimità e rigore – sulla base di interessi collettivi e generali – all’attività economica. Da questo punto di vista, ad esempio, il nostro Paese è certamente carente. Così come, soprattutto, è carente dal punto di vista della strumentazione necessaria per rendere efficaci i controlli e le sanzioni. Tuttavia, non c’è dubbio che tra le conseguenze che il prevalere del modello iperliberista di crescita finanziaria e speculativa ha prodotto, c’è stata anche la diffusione di (dis)valori, fondati sull’egoismo individualistico, un consumismo fine a se stesso, l’indifferenza verso gli altri e il bene collettivo. Si tratta certamente di fenomeni culturali e sociali complessi. Accanto a processi positivi, come l’affermarsi di maggiore libertà, diritti e autodeterminazione individuale, si sono prodotti anche guasti profondi che hanno a che fare con il diffondersi di un certo egoismo di massa, l’indifferenza per il bene altrui e quello collettivo, l’inseguimento della libertà di “fare ciò che si vuole”.

Dunque, se questo è il quadro, è evidente che i problemi da affrontare non sono solo di natura prevalentemente economica o, per usare un linguaggio di altri tempi, strutturale. La questione di fondo appare, per tanti versi, più di natura culturale (sovrastrutturale, sempre per stare a quel linguaggio). Ha a che fare, cioè, con i paradigmi dello sviluppo e, quindi, con l’idea stessa di mondo nel quale l’uomo intende vivere e, soprattutto, lasciare in eredità alle generazioni future. Il che, alla fin fine, si riassume nella questione etica. E nella capacità di ridare “senso”, “significato” all’idea stessa di sviluppo, fondata su una concezione più ricca e allo stesso tempo più sobria e articolata di benessere, che abbia meno a che fare con

una dimensione quantitativa e più qualitativa dei beni di cui ricercare la disponibilità e il possesso.

I codici etici, per le imprese e le organizzazioni, costituiscono uno strumento molto importante proprio nella sfida rappresentata dalla costruzione di una nuovo cultura delle responsabilità. Perché perseguono principalmente l’obiettivo di far crescere la conoscenza e la consapevolezza delle regole e dei comportamenti virtuosi, un nuovo “senso civico”, rispetto ai diversi ambiti nei quali le persone sono chiamate ad operare. Nell’impresa questo significa soprattutto creare fiducia. Fiducia tra l’impresa e i propri portatori di interesse, fiducia tra gli stessi Stakeholder, come ben argomentano alcuni dei saggi che sono qui riportati.

Senza voler sottovalutare l’importanza che, all’interno dei codici etici, devono avere gli apparati sanzionatori e gli strumenti di controllo, che pure sono necessari per dare “effettività” al codice stesso, non c’è dubbio che l’accento vada posto sul ruolo – diciamo pure “educativo” – che tali strumenti devono avere in termini di promozione e diffusione della cultura etica e della responsabilità. È questo, infatti, che può, più di ogni altra cosa, contribuire a creare quel clima di fiducia, di rispetto e responsabilità fondamentale perché l’impresa possa svolgere la propria funzione nel mercato e possa competere sulla base non di “trucchi”, ma della propria capacità di corrispondere a reali bisogni sociali. Ecco perché è fondamentale che i valori e i codici etici costituiscano la base sui quali l’impresa deve fare leva per costruire e sviluppare le proprie strategie e la propria competitività sul mercato. Contribuendo così, essa stessa, a far crescere nel mercato e nella società, questa nuova cultura del fare economia.

Muoversi in questa direzione richiede che l’intera struttura dell’impresa, a partire dal sistema di governance – e qui riprendiamo ciò che è emerso in particolare nella seconda ricerca realizzata con l’Università di Bologna - sia pienamente coinvolta e permeata dalla cultura delle responsabilità etica e sociale. È prima di tutto responsabilità degli organi amministrativi e di governo garantire un indirizzo strategico e una coerente gestione dell’azienda che abbiano a costante riferimento una visione dei valori ispirati ad una sostenibilità di lungo periodo, in un’ottica di bilanciamento degli interessi dei diversi soggetti coinvolti, direttamente e indirettamente, nell’attività imprenditoriale. Da questo punto di vista, non è secondaria, come evidenziato nella ricerca e nei diversi interventi, la modalità di organizzazione del governo societario, ma anche come viene strutturato il rapporto all’interno dell’azienda tra le funzioni che hanno le responsabilità strategiche e di gestione e le funzioni che si occupano specificatamente di

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responsabilità sociale e sostenibilità. Si propone cioè con più forza la questione dell’integrazione tra CSR/Sostenibilità e business dell’impresa.

Se infatti negli ultimi tempi è andato intensificandosi un confronto circa l’obiettivo di dare vita al cosiddetto “bilancio integrato” per le imprese, cioè un bilancio che integri i dati contabili con quelli sociali e di sostenibilità, la questione – diciamo pure la sfida – che rimane aperta è quella di riuscire a coniugare con coerenza, valori proclamati con obiettivi economici e di sostenibilità, nell’ambito della quotidiana gestione dell’impresa. La questione va quindi ben oltre il sistema di rendicontazione per coinvolgere la cultura e la prassi aziendale.

C’è dunque materia per continuare a studiare e a ricercare. Ma soprattutto c’è materia per agire, per compiere nuove esperienze e per cercare di diffondere – anche attraverso azioni mirate – le buone pratiche. E ce ne sono, come emerge anche dalle ricerche qui presentate e dagli interventi pubblicati.

La nostra speranza e il nostro augurio è che i lavori qui illustrati – per i quali va il doveroso ringraziamento a quanti si sono impegnati – contribuiscano ad accrescere la conoscenza e l’attenzione su questi temi che costituiscono fattori rilevanti per l’innovazione e il cambiamento delle nostre società.

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PARTE PRIMA

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«Modelli ed esperienze di responsabilità sociale d’impresa in relazione ai sistemi di governance. Analisi settoriale, tipologica, economica e giuridica anche in relazione ai mutamenti in atto nelle scelte strategiche e nelle politiche delle aziende»

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Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance

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1.Introduzione E’ ormai lontano il tempo in cui si credeva che la responsabilità sociale delle imprese fosse unicamente quella di massimizzare i profitti (Friedman, 1970). Il progressivo affievolimento dei dogmi liberisti ha infatti ricondotto il dibattito circa il ruolo delle imprese dell’odierna società capitalistica nell’alveo di teorie di stampo “istituzionalista”. In tal senso, si sono inquadrate le imprese come istituzioni stabilmente radicate in un determinato contesto sociale, territoriale e culturale di riferimento e si e’ richiesta loro una maggiore partecipazione, anche in collaborazione con soggetti pubblici, al benessere della comunità in cui operano (Jaeger, 2000). Si e’ quindi riconosciuto valore non solo agli interessi degli azionisti ma anche a quelli di soggetti portatori di altre istanze nei confronti delle imprese, ovvero fornitori, lavoratori, consumatori, comunità locale, e cosi via. Questi sono comunemente indicati come Stakeholders o Corporate Constituencies a seconda dell’approccio preferito, e la ben nota Stakeholders’ theory, nelle sue più diverse sfumature, si occupa proprio di inglobare contenuti valoriali e morali nella gestione interna ed esterna dell’impresa, nonchè’, almeno in teoria, nell’adozione delle strategie imprenditoriali. L’accennata elaborazione si e’ poi via via estesa fino a considerare anche prospettive di “sviluppo sostenibile” delle società che includessero la possibilità di una “relazione cooperativa” (Libertini, 2006) tra impresa e ambiente. A loro volta questi macro filoni contengono al proprio interno più specifici focus con riferimento alla finanza etica, alla «corporate social performance», all’utilizzo della CSR come precisa strategia aziendale, alla c.d. green economy o technology, alla corporate compliance e cosi via . Analogamente, lo sviluppo sostenibile può essere riferito tanto a tematiche ambientali quanto a quelle sociali ed economiche. Dal canto loro, le aziende si sono dotate di strumenti il cui ottenimento e’ condizionato all’adozione effettiva di politiche responsabili: per esempio, certificazioni sociali (es. SA 8000, ISO 9001, ISO 14001, EMAS e, più di recente ISO 26000) strumenti di accountability (es. Bilancio Sociale, Bilancio di Sostenibilità), ricorso ad agenzie di rating sociale (es, VIGEO), e i marchi ecologici e sociali (ECOLABEL, FSC) e cosi via. Il riconoscimento di una funzione lato sensu “sociale” degli operatori economici e’ stato formalizzato anche a livello istituzionale. Per esempio, sin dal 2000 la Commissione Europea sulla scorta di diverse iniziative e Comunicazioni (Strategia di Lisbona 2000; Agenda sociale, 2000; Libro Verde 2001; Commissione, 2002; Commissione 2006; Commissione 2010) ha

dimostrato di considerare la CSR sia come un mezzo per favorire congiuntamente lo sviluppo e la coesione sociale sia come un elemento chiave per assicurare rapporti d’impiego duraturi e fiducia dei consumatori. Ed e’ in una di queste iniziative che può finalmente leggersi la definizione di Corporate Social Responsibiliy (CSR), intesa come «l’integrazione su base volontaria dei problemi sociali ed ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con altre parti». Da qui si evincono due caratteri principali della responsabilità in analisi: il primo e’ appunto la volontarietà alla base della decisione delle società di dotarsi di strumenti “etici”, e il secondo e’ che la CSR e’ rappresentata da quei comportamenti che ricomprendono ma vanno oltre gli obblighi legali e regolamentari in capo agli operatori economici. Obblighi che sono stati disciplinati solo in minima parte dal legislatore –che in successive occasioni ha anche agevolato la costituzione di imprese “sociali” tout court – i quali intervengono a dettare regole organizzative interne con riferimento alla responsabilità penale degli enti. Sotto altri aspetti inoltre il legislatore, sia a livello nazionale che regionale, incoraggia le imprese a dotarsi di strumenti di CSR prevedendo agevolazioni o riconoscimenti di diversa natura. Come anticipato, il contenuto della CSR e’ ampio e multiforme. Ben lungi dall’essere una vetrina filantropica delle imprese, dall’affidare loro compiti di immediata utilità sociale (come invece nel caso delle imprese sociali vere e proprie), ovvero dal tradursi in un esercizio di mera compliance normativa, la CSR implica che l’adesione a valori, codici e politiche sostenibili si rifletta in specifici obiettivi e comportamenti aziendali. Coerentemente a tale finalità, le imprese producono bilanci sociali o di sostenibilità, si dotano di codici etici, di carte di missione e valori, e di specifiche politiche sociali ed ambientali. L’autoregolamentazione diventa quindi lo strumento tramite il quale le imprese virtuose rendicontano alle diverse constituencies il perimetro e gli obiettivi del proprio agire e allo stesso tempo si autovincolano, predeterminando le ulteriori finalità da tenere a mente per il raggiungimento del proprio oggetto sociale. L’attitudine a dotarsi dei menzionati strumenti e’ diventata una consuetudine granitica da parte delle imprese “socialmente responsabili”. In estrema sintesi, in questi esse descrivono i propri valori di riferimento e come questi si traducano e influenzino le relazioni quotidiane con i lavoratori, clienti, fornitori e comunità civile. Inoltre, descrivono le performance

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sociali raggiunte, il grado di coinvolgimento e i rapporti con i vari Stakeholders. Ciononostante, questi rischiano di oscurare e di mettere in secondo piano l’altra metà del cielo dell’adozione di pratiche responsabili, ossia quella che riguarda l’introduzione efficace e vincolante di tematiche valoriali anche nelle scelte strategiche e di business delle imprese, quelle scelte cioè che più immediatamente riflettono gli obiettivi di profitto che la società intende raggiungere. Inoltre, la CSR ha anche una indubbia componente strategica-reputazionale. Questo rischia di deviare, o meglio di indirizzare, il focus delle imprese principalmente verso la rendicontazione al mercato, agli investitori e agli altri Stakeholders delle politiche adottate, rischiando quindi di mettere in secondo piano l’organizzazione interna della relativa funzione, che viene allocata in direzioni che istituzionalmente si occupano di ben altro. In assenza di dati empirici al riguardo, l’assunto di partenza di questo progetto e’ stato quello di verificare in che modo le imprese che adottano politiche e strumenti di CSR gestiscono al proprio interno la relativa funzione e in che misura quelle politiche influenzino le scelte gestionali c.d. di business as usual. Il lavoro si presenta come la ideale prosecuzione di un percorso di ricerca sulla CSR iniziato dalla Fondazione Unipolis e che ha visto nel 2009 la pubblicazione di un primo report relativo all’applicazione dei codici etici d’impresa in Italia. Il prosieguo e’ organizzato nel modo seguente: nella prima parte si descriveranno in maggior dettaglio gli obiettivi prefissati, la metodologia utilizzata e i limiti del lavoro, nella seconda parte si presenteranno i risultati e nell’ultima si traggono le conclusioni provvisorie.

2. La ricerca 2.1 Obiettivi della ricerca Il presente lavoro si propone di analizzare la CSR secondo una prospettiva relativamente poco investigata nell’ambito degli studi finora condotti in materia. L’idea di un progetto su governance e responsabilità sociale è nata inizialmente dalla volontà di capire se vi fosse un certo grado di coerenza tra quanto manifestato all’esterno da aziende virtuose e il modo in cui le stesse gestiscono al proprio interno la relativa funzione. L’assunto di partenza e’ stato quindi quello di considerare come acquisita l’esistenza di buone pratiche di rendicontazione esterna della CSR in capo alle società selezionate, mentre l’obiettivo finale voleva essere la verifica circa l’esistenza o meno al loro interno di una funzione di responsabilità sociale

ben definita e strutturata e di meccanismi interni tali da permettere un coinvolgimento effettivo del responsabile di CSR nelle scelte strategiche e di business delle imprese. Nel decidere le modalità concrete di attuazione della ricerca ci si è mossi sulla scorta di alcune premesse fondamentali. La prima era quella della necessità di tenere in conto le peculiarità del tessuto produttivo italiano. È ben noto infatti come il nostro territorio sia caratterizzato dalla presenza di imprese a spiccata vocazione regionale e con una proprietà concentrata di stampo prevalentemente familiare o cooperativo. La piccola dimensione però non è sempre sinonimo di brevità di vedute. Molte di queste imprese infatti pongono in essere comportamenti responsabili, in maniera certo “non convenzionale” ma pur sempre partecipativa e di supporto alle esigenze della comunità territoriale di riferimento. La ricerca voleva dunque fotografare anche questo spaccato di imprese. La seconda premessa era quella di scegliere i settori sulla base dell’impatto che l’adozione di comportamenti responsabili da parte dei relativi attori economici aveva sulla comunità. Per questo, seppur con i limiti endogeni che caratterizzano un procedimento di esclusione di taluni ambiti, ci si è concentrati su quelli che più direttamente influenzano i cittadini/consumatori, ovvero il settore industriale, finanziario e assicurativo, dei trasporti e delle multiutility, con mirata attenzione a quelle società a partecipazione pubblica. E’ parso coerente a tale assunto preferire le imprese business to consumers. La terza era il riconoscimento che, al fine di avere dei risultati che fossero il più possibile rappresentativi della nostra realtà di riferimento, l’attenzione doveva focalizzarsi solo su imprese nazionali, intendendosi come tali quelle la cui proprietà o impresa madre fosse italiana. Ma, il cuore della ricerca voleva essere rappresentato non solo da un’analisi di coerenza tra proclami esterni e attenzione concreta alla CSR ma anche dal come e se tale ultima attenzione influenzi le scelte gestionali e operative (c.d. di business) dell’impresa. Questo ulteriore obiettivo è nient’altro che il corollario logico del primo. Infatti, la funzione svolta dalla infrastruttura interna di elaborazione ed attuazione delle politiche di CSR dovrebbe contribuire in misura fondamentale alla performance etica, ossia alla integrazione nei processi decisionali e aziendali (a livello strategico e operativo) dei criteri etici, dei doveri fiduciari e di ESG assunti dall’impresa nei confronti degli Stakeholders. A tal fine, il problema è proprio di capire se, una volta soddisfatte le esigenze degli Stakeholders per il tramite di strumenti di rendicontazione esterna, la società sia

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quotidianamente “responsabile” e quindi integri concretamente obiettivi di CSR nelle proprie, e più remunerative, scelte strategiche. Da qui, la necessità di approfondire il livello dialettico tra le varie funzioni direzionali per valutare se effettivamente le strategie di business, i piani e le politiche aziendali attuate dalle imprese, siano supportate dalla interazione con il presidio di CSR. Riepilogando, il progetto si proponeva di:

· Analizzare empiricamente l’allocazione della funzione di responsabilità sociale all’interno della governance dell’impresa, ai fini della valutazione di coerenza tra rendicontazione esterna e gestione interna delle politiche di CSR.

· Investigare la dialettica endosocietaria tra presidio di CSR e funzione di business strategy, piani e politiche aziendali, al fine di analizzare il livello di integrazione e attuazione della visione etica tra gli obiettivi d’impresa;

· Stimolare una riflessione sulla coerenza e l’efficacia dei modelli attuati rispetto alle caratteristiche e finalità ultime delle imprese considerate;

· Elaborare proposte di policy.

2.2 Metodologia e campione Come anticipato, la selezione iniziale del campione e’ avvenuta sulla base dei seguenti criteri: 1) sussistenza di politiche di CSR in capo alle imprese; 2) distribuzione territoriale e tipologica omogenea; 3) nazionalità’ italiana; 4) appartenenza al settore industriale, del credito e assicurativo, sanitario, delle multiutility, dei trasporti e postale; 5) di categoria business to consumer. Le società di maggiori dimensioni, sono state selezionate sulla base dell’adesione alle associazioni di categoria più rappresentative (CSR Manager Network, Impronta Etica, Sodalitas, ...) mentre per quelle di minori dimensioni si sono considerati soprattutto network regionali come Anima Roma, SA Rete Toscana, i più recenti rapporti della provincia di Bologna e della Regione Emilia-Romagna nonchè i siti delle camere di commercio che avevano realizzato progetti in materia di RSI. Ricerche su internet e conoscenza diretta di casi virtuosi hanno integrato il procedimento di selezione. Il contatto con le aziende e’ avvenuto tramite due questionari, differenziati in base al grado di strutturazione dell’impresa. Nel complesso, sono state individuate e contattate 84 imprese, il cui campione era cosi distribuito: il 55% appartenente al settore industriale, il 15% a quello bancario/assicurativo, il 10% trasporti, l’8%

multiutility, il 6% a quello sanitario, il 5% ai distretti industriali e consorzi ed infine l’1% al settore postale (Tab. 1 Campione originario – distribuzione settori). La distribuzione giuridica del campione originario è strutturata come da Tab. 2: il 25% Consorzi/Distretti, il 21% Aziende sanitarie, il 17% Società Responsabilità Limitata e un altro 17% Società di Persone. Del totale delle imprese contattate ha risposto circa il 62%. Sul totale delle imprese contattate, la distribuzione settoriale dei rispondenti è stata dell’85% bancario/assicurativo e multiutility, il 56% quello industriale, il 44% settore dei trasporti, il 75% distretti e consorzi, 100% quello postale e 20% quello sanitario (Tab, 3 Campione originario – distribuzione settori).

Il dato del 62% include una qualsiasi manifestazione di volontà partecipativa. Se si affina invece l’analisi a quanti hanno risposto al questionario, esso si riduce fino ad arrivare al 42% se rapportato al totale del campione e al 56% se parametrato al totale dei rispondenti. l campione significativo, ovvero le imprese che hanno risposto al questionario, e’ cosi distribuito: 86% multiutility, 85% bancario/assicurativo, 33% trasporti, 33% industriale, 0% distretti/consorzi, 0% sanitario e postale (Tab. 6 campione significativo – distribuzione settori).

Se invece scorporiamo il dato con riferimento al tipo di questionario sottoposto, vediamo che ha risposto, nel caso delle imprese strutturate e in rapporto al totale delle imprese dello stesso settore: 86% multiutility, 85% bancario/assicurativo, 11% trasporti, 18% industriale, 0% distretti/consorzi, 0% sanitario e postale (Tab. 7 campione significativo questionario 1 imprese strutturate – distribuzione settori).

Se guardiamo alle imprese non strutturate, le rispondenti hanno rappresentato, sempre con riferimento al totale delle imprese facenti parte dello stesso settore, il 14% quello industriale e il 22% quello dei trasporti (Tab. 8 campione significativo questionario 2 (pmi) – distribuzione settori. Stante quindi la scarsa rappresentatività dei rispondenti nella maggior parte dei settori, si e’ deciso di limitare la successiva analisi interpretativa alle sole imprese strutturate appartenenti a quei settori in cui si e’ registrata l’adesione della quasi totalità degli ovvero il bancario/assicurativo e quello delle multiutility.

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2.3 I questionari

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Il questionario indirizzato alle imprese strutturate era composto da 43 domande a risposta chiusa e aperta, e mirava a conoscere tre distinti ambiti del governo della CSR. Il primo, la gestione interna. Si chiede ai rispondenti se esiste una autonoma funzione di CSR ovvero se sia allocata in un’altra direzione. Al fine di capire i rapporti di gerarchia e la relativa importanza associata alla funzione, si chiede da chi è nominato e a chi riporta il responsabile di CSR e quali siano le sue funzioni e attività. Per capire invece il grado di dialettica endosocietaria, si chiede se vi siano meccanismi stringenti con riferimento alle indicazioni date dal responsabile di CSR agli amministratori, se si quali, e se vi siano dei meccanismi strutturati di condivisione delle informazioni tra le diverse funzioni a cui ha accesso il responsabile di CSR. Al fine di valutare il grado di coinvolgimento anche informativo del top management dell’attività di responsabilità sociale, si chiede se esista una relazione finale su quanto svolto dal responsabile di CSR, se questa viene inclusa in quella più generale sul governo societario e, appunto, se vi sia una integrazione dei requisiti di CSR nelle scelte operative e di business. In caso affermativo, si pregano i rispondenti di fornire una descrizione analitica. Inoltre, sempre al fine di valutare il risalto interno che viene dato alla funzione, si chiede se sia possibile per il responsabile, e se si a chi e in che forma, segnalare eventuali incongruità delle scelte gestionali dalla politica di CSR, se esiste un organismo aziendale appositamente collegato alle politiche di CSR (come ad es. uno specifico comitato di sostenibilità) e quale sia la frequenza degli incontri del responsabile di CSR con quelli delle altre divisioni. Il secondo ambito che si è investigato è quello riguardante il peso, ovvero la robustezza vera e propria della funzione. E’ sembrato che i migliori indicatori in tal senso fossero il bilancio e il personale dedicato. Nel primo caso, si chiede se esista un apposito budget e se sì a quali attività è riservato. Al fine di valutare una eventuale maggiore attenzione e coinvolgimento in progetti di CSR nel corso degli anni, si chiede quale sia l’evoluzione dello stesso, se cioè sia aumentato, diminuito o sia rimasto stabile. Analoghe richieste vengono riferite al personale, proprio per capire quali siano le caratteristiche qualitative e quantitative dei soggetti a supporto dell’unità di CSR, la relativa evoluzione e se sono soggetti a programmi di formazione continua in materia. Da ultimo, per avere un’idea degli incentivi dei manager a porre in essere politiche effettive di responsabilità sociale, si chiede se costoro abbiano dei premi di produttività collegati ai risultati ottenuti.

Il terzo ambito è quello relativo agli strumenti di CSR adottati: lo scopo ultimo è quello di parametrare il livello di sviluppo delle attività alla qualità della gestione interna. Il questionario delle non strutturate si articolava in 29 domande a risposta chiusa e aperta. I principi ispiratori erano analoghi al primo. In questo caso però, ci si sofferma meno in dettaglio su ruolo e rapporti endosocietari del responsabile di R.S.I., anche perchè si tiene conto del fatto che lo stesso sistema di amministrazione e controllo della impresa non sia strutturato e si presume che la figura del responsabile coincida di per sè con una funzione di vertice (l’“imprenditore”). Piuttosto interessa sapere quali siano le attività che fanno capo a quest’ultimo, se questi si avvale di un supporto operativo, e se sì quali le caratteristiche, e quali siano gli strumenti di R.S.I. posti in essere. Particolare attenzione è dedicata ai rapporti con gli enti pubblici e con il territorio, ovvero con altre imprese: l’intento iniziale era quello di valutare se vi fossero forme di collaborazione per la realizzazione di progetti e iniziative nei confronti degli Stakeholders comuni. Da ultimo, ed in entrambi i casi, si chiede ai rispondenti di dare un giudizio dell’impatto sull’azienda delle politiche di responsabilità sociale e se la stessa sia esplicitamente un elemento di posizionamento strategico.

2.4 Limiti Al pari di qualsiasi studio empirico, vi sono alcuni limiti da tenere presente nel valutare la ricerca nel complesso e i risultati nel dettaglio. Primo fra tutti il fatto che nel corso del tempo lo studio ha dovuto ridimensionare le proprie ambizioni. Se inizialmente il numero di settori da considerare era ben più ampio, successivamente questo si è ristretto a due soli, ovvero il bancario/assicurativo e quello delle multiutility. Inoltre si e’ stati costretti a mettere da parte le cd. “non strutturate”. In realtà la scelta è stata dettata da ragioni di onestà intellettuale: il numero di rispondenti era relativamente esiguo per potersi dire effettivamente rappresentativo di un dato settore. Inoltre, gli stessi esiti erano troppo dispersi per essere aggregati in maniera omogenea. Un altro limite è rappresentato dall’oggetto l’analisi delle risposte. In alcuni casi queste erano completamente non pertinenti alla domanda, per cui si è dovuto in un certo senso interpretarle. Per esempio, alla domanda: “La società partecipa abitualmente ad iniziative/progetti di CSR a livello territoriale avviati da associazioni di rappresentanza o enti pubblici? Se sì, di che tipo?”, la risposta “Dal (...) ha preso avvio la

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sperimentazione della conciliazione paritetica in applicazione del protocollo (...) finalizzato a creare uno strumento per la risoluzione delle controversie (...)” è considerata come non pertinente e la si è interpretata nel senso che non vi sono progetti di collaborazione con la comunità di riferimento. In casi in cui forse era la domanda che poteva trarre in inganno, come per esempio nel caso di “C’è un organismo aziendale appositamente collegato alle politiche di CSR?” si è provveduto a contattare direttamente quelle società la cui risposta è sembrata vaga. In sintesi, seppur si sia cercato di ridurre al minimo tali problemi è inevitabile che vi siano alcune imprecisioni.

3. Analisi qualitativa: il settore finanziario e quello delle multiutility 3.1 La governance e il grado di strutturazione della funzione di CSR Si e’ detto che tra i primi obiettivi della ricerca vi era quello di analizzare la governance interna della funzione di CSR. Seppur i risultati di seguito presentati sono il frutto di una riflessione generale sulla prima e sull’ultima parte del questionario, vengono prese in specifica considerazione le risposte ad alcune domande, come per esempio se esista una funzione a se di CSR ovvero se faccia parte di un’altra direzione, da chi e’ nominato e a chi riporta il responsabile di CSR, se vi sia un ulteriore organismo societario collegato alla funzione e quali sono gli strumenti di CSR adottati. Per quanto riguarda il settore finanziario, tutte le rispondenti affermano di avere una specifica funzione di CSR, ma la stragrande maggioranza la alloca presso altra direzione. Non e’ poi possibile aggregare il dato relativo a quale sia la relativa direzione perche’ sono tutte diverse e variano da «area socio culturale», a «comunicazione e risorse umane» e «sviluppo e pianificazione strategica» ovvero si trovano in staff al presidente piuttosto che al direttore generale. Ciononostante, questo dato si rivela di grande importanza perche’ e’ sintomatico del fatto che a fronte di un’attenzione concreta verso la CSR, testimoniata anche dal numero e dal tipo di strumenti posti in essere da ciascuna e dalla presenza compatta e attiva sul territorio, non vi e’ una percezione condivisa su quale possa essere il locus naturalis per la funzione. Il che a sua volta potrebbe tradursi nella mancanza di una visione d’insieme e generalmente accettata nella comunità di riferimento, ovvero le società che fanno CSR in maniera strutturata, degli scopi e della vocazione istituzionale della Responsabilità Sociale.

Con riferimento alle attività del manager responsabile, in un quarto dei casi queste consistono nella facilitazione dei processi e nel monitoraggio degli andamenti e dei risultati. Nella maggioranza assoluta però queste includono il monitoraggio e la facilitazione ma vanno ben oltre. Il CSR manager e’ investito di una funzione propositiva e proattiva nell’ideazione, implementazione e successivo supporto di nuove attività. In un caso, l’intera unità supporta le Competence e Business lines nello sviluppo di nuovi piani d’azione. A conclusioni analoghe alle precedenti si giunge dall’analisi del settore delle multiutility. Anche in questo caso, la totalità delle imprese si e’ dotata di una specifica funzione, nella stragrande maggioranza dei casi allocata altrove. In sintesi, se sono tutte d’accordo sul “se” farlo, non lo sono su “come” vada gestita la responsabilità sociale dall’interno. Il dato relativo al potere di nomina del responsabile e al riferimento finale di quest’ultimo, che aveva anche lo scopo di chiarire quale fosse il grado di coinvolgimento apicale, si presenta in maniera abbastanza disomogenea. Infatti, nel settore bancario il responsabile e’ nominato di fatto dal top management, mentre solo in un terzo dei casi la nomina e’ frutto di processi decisionali interni all’azienda. Nella stragrande maggioranza dei casi poi, questi riporta all’amministratore delegato, alla direzione generale, ovvero al responsabile di quella di riferimento e in un solo caso riporta direttamente al Presidente. Nel settore delle multiutility invece la nomina e’ prevalentemente di competenza di specifiche direzioni, e il CSR manager riporta principalmente all’amministratore delegato e al responsabile della direzione di riferimento. Letti in maniera macroanalitica, questi dati possono essere interpretati nel senso che il responsabile di CSR tende a rispondere al top management, ovvero a organi aziendali di vertice, piuttosto che agli shareholders, ossia gli azionisti, identificabili con la figura del presidente. Circa le sue attività, in un solo caso queste si limitano a facilitare i processi e a monitorarne gli andamenti e risultati. Infatti tutti gli altri rispondenti affermano che il responsabile di CSR e’ investito non solo di quelle funzioni ma anche del ruolo di «pianificazione, controllo, reporting, comunicazione di sostenibilità e rapporti con gli Stakeholders», ovvero quello di «valorizzare gli aspetti di sostenibilità presenti in progetti implementati autonomamente da altre Funzioni; di interagire con Stakeholders esterni in merito agli aspetti di sostenibilità attuati in azienda (ad es. questionari analisti etici), o di «gestire le relazioni con le associazioni di rappresentanza degli

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interessi; promuovere la cultura d’azienda attraverso l’archivio storico; mantenere le relazioni con gli analisti di sostenibilità e i fondi etici».

3.2 L’integrazione della CSR nelle politiche aziendali L’altro obiettivo principale della ricerca era quello di valutare se le imprese, che abbiamo definito virtuose per indicare l’adozione di politiche responsabili, integrassero quei valori in modo sostanziale nelle proprie scelte di business. Per capirlo era essenziale non limitarsi a chiederlo esplicitamente ma investigare i possibili strumenti tramite i quali tale integrazione potesse realizzarsi. Pertanto, oltre a quelle domande che più direttamente indirizzano il problema, di particolare interesse sono anche quelle che ne rappresentano un prerequisito e un corollario necessario, ossia da un lato quelle relative alla dialettica endosocietaria dall’altro quelle circa l’esistenza di meccanismi stringenti relativi all’adozione delle segnalazioni dei CSR manager, e circa la possibilità di segnalare eventuali deviazioni delle scelte strategiche dalle politiche di CSR. Nel settore finanziario, i due terzi dei rispondenti ritengono la menzionata integrazione sussistente, mentre il dato circa la frequenza degli incontri tra il CSR manager e i responsabili di altre divisioni e’ piuttosto disperso e tende a polarizzarsi verso la risposta “periodicamente, a cadenza variabile”. Inoltre, la maggioranza assoluta delle imprese afferma di avere strumenti comuni e strutturati di condivisione delle informazioni, ma nella quasi totalità dei casi questi non vanno oltre le riunioni, le circolari, intranet e internet, strumenti a cui e’ abbastanza fisiologico che abbiano accesso tutte le divisioni. Si segnala però un caso, che sembra poter essere considerato una pratica eccellente, in cui «sono previsti almeno due incontri plenari all’anno con tutti i Referenti CSR, che hanno anche lo scopo di condividere informazioni e aggiornamenti; esiste sull’Intranet un Social Network dedicato allo scambio di informazioni tra unità CSR e referenti /strutture». In realtà, nel settore bancario si segnala un’altra pratica di eccellenza che vale la pena di essere menzionata e che riguarda le modalità di integrazione delle politiche di CSR. Infatti, se la maggior parte delle imprese del settore ritiene realizzata l’integrazione tramite scelte di negata concessione di credito verso certi settori (es. produzione di armi) ovvero nel controllo della catena di fornitura e nell’attenzione verso l’impatto ambientale, un rispondente va oltre e spiega di aver adottato «un particolare modello di gestione della CSR, che è trasversale e relazionale.

Ogni struttura nomina un “Referente per la CSR” che, coordinato dall’unità CSR, supporta la struttura di appartenenza nell’integrazione degli obiettivi di CSR all’interno delle attività della struttura stessa. Il modello è definito dalla parte attuativa del Codice Etico, che delinea e definisce le responsabilità aziendali, sia di attuazione sia di controllo. Naturalmente quando esistono policy specifiche (ambiente, settori controversi, finanziamento di progetti in ambito Equator Principles ecc.) queste sono applicate e controllate nell’ambito dei normali processi aziendali». Di fatto, ogni funzione ha un proprio “referente per la CSR” che si occupa specificamente di monitorare e di favorire sul campo l’integrazione in analisi. Questa può forse rappresentare una efficace modalità di attuazione di politiche di business responsabili. Nettamente orientata al “no” e’ poi la risposta alla domanda circa l’esistenza di meccanismi stringenti che sollecitino l’adozione delle indicazioni fornite dal responsabile di CSR. Le uniche due società che ne sono dotate spiegano che questi consistono in «attività di stimolo nei confronti delle altre direzioni e commitment apicale» ovvero sono collegati alla funzione istituzionale svolta dal “referente CSR” presente presso ciascuna unità. Da ultimo, circa la possibilità da parte del CSR manager di segnalare eventuali incongruità delle scelte gestionali dalla politica di CSR , la totalità dei rispondenti la ritiene sussistente. Questa e’ variamente indirizzata e attuata. Coerentemente a quanto emerso sopra, nel primo caso il destinatario delle segnalazioni e’ il top management e solo in uno il Presidente, mentre circa le modalità di segnalazione, nella maggior parte dei casi queste avvengono in maniera informale, seppure in poche eccezioni sono previste procedure particolari. Per esempio, può esservi la mediazione di un comitato per la sostenibilità il cui rappresentante a sua volta riporta ai responsabili a livello di gruppo delle direzioni maggiormente coinvolte, ovvero le segnalazioni possono essere incluse all’interno del rapporto sul monitoraggio del codice etico, oppure possono essere inoltrate per tramite di specifiche informative. Le multiutility invece non sono altrettanto granitiche nell’affermare l’integrazione di politiche di responsabilità sociale nelle scelte strategiche. Vi è però anche qui una buona pratica: una società si è dotata di un approccio «balanced scorecard», basato sul collegamento tra strategia e gestione quotidiana dell’azienda. Un approccio di questo tipo permette di «considerare il raggiungimento degli obiettivi strategici di sostenibilità sociale e ambientale come

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condizione per il conseguimento degli obiettivi economico finanziari nel medio-lungo periodo». Inoltre, le modalità tramite cui queste vengono realizzate sembrano essere piuttosto dichiarazioni di principio che espressione di impegno proattivo. Per esempio, si sostiene che le decisioni operative si fondano sui dettami del codice etico e che avvengono nel rispetto di principi di responsabilità sociale, ovvero che i codici valoriali del gruppo orientano, in modo vincolante, l’agire d’impresa e che vi sono sistemi di monitoraggio delle performance. In maniera forse più specifica si afferma che «specifici indicatori di sostenibilità vengono inclusi dall’unità Pianificazione Strategica, che si affianca all’unità CSR nel monitoraggio e nella rendicontazione della sostenibilità aziendale, all’interno della pianificazione strategica di gruppo». Circa il livello di dialettica endosocietaria, nella stragrande maggioranza dei casi gli incontri avvengono periodicamente, a cadenza variabile. Solo un terzo dei rispondenti invece si e’ dotato di sistemi di condivisione delle informazioni e, se alcuni non specificano in cosa consistano, uno di loro spiega che si tratta di riunioni «ad hoc su specifici temi, riunioni periodiche per la raccolta dei dati di sostenibilità con i referenti dei contenuti, riunioni operative su specifici progetti di sostenibilità». Coerentemente a quanto avviene nel settore finanziario, anche qui l’esistenza di meccanismi stringenti con riferimento alle indicazioni date dal CSR manager risultano quasi del tutto assenti e laddove presenti sembrano mancare del requisito della incisività. Circa la possibilità di segnalare eventuali incongruenze, la maggior parte dei rispondenti lo ritiene possibile, per mezzo di meccanismi più o meno strutturati. Infatti, le segnalazioni avvengono o per il tramite della funzione audit, o in maniera informale ai responsabili delle direzioni ovvero tramite «function reviews semestrali e l’identificazione annuale di aree di miglioramento, che permette di verificare eventuali incongruenze fra l’azione aziendale e il perseguimento di obiettivi di sostenibilità».

3.3. La robustezza della funzione di CSR: budget e personale Per quanto le imprese possano essere attente alla responsabilità sociale, se questa non viene dotata di una struttura, di budget e di personale, adeguata a supportarne le attività vi e’ il rischio che si trasformi nella “cenerentola” delle funzioni. In questo senso l’indagine su questi aspetti e’ funzionale a verificare il grado di concretezza del commitment societario nei confronti della CSR.

Infatti, il budget a cui si fa riferimento nella ricerca è quello specificamente dedicato alla predisposizione e gestione di strumenti di accountability, di certificazioni sociali, formazione e comunicazione della CSR, progetti dedicati agli Stakeholders e cosi via. La quasi totalità dei rispondenti del settore finanziario e’ dotata di autonomia di spesa mentre negli altri casi si fa riferimento a quello generale della relativa direzione. Inoltre, negli ultimi 5 anni il budget e’ stato aumentato nel 73% dei casi, mentre nel restante e’ rimasto costante. Anche il personale è aumentato nel corso dello stesso arco di tempo e per la stessa percentuale di imprese ma, contrariamente a quanto potesse attendersi, i due dati non sono positivamente correlati. Questo nel senso che il personale è aumentato indipendentemente dal budget dedicato. Se si assume che per aumento possa intendersi tanto l’attribuzione ex novo della gestione della CSR in capo ad un singolo soggetto quanto l’aumento marginale dello staff già esistente, il dato potrebbe essere indice dell’intenzione della società di strutturare in maniera organica la CSR ovvero del riconoscimento della necessità di dedicarvi un numero adeguato di risorse umane. In ogni caso, sia con riferimento al budget che al personale è possibile affermare che le società bancarie/assicurative hanno investito in CSR sempre di più negli ultimi anni. Quanto al tipo di personale, i rispondenti hanno tutti personale dedicato. Questo è composto per il 90% dei casi da soggetti assunti a tempo indeterminato e, seppur in minor percentuale, ha un inquadramento professionale composito. Quanto alle competenze, la maggioranza qualificata delle società bancarie/assicurative impiega soggetti con competenze specifiche ed una pregressa esperienza in azienda. Inoltre, nel 100% dei casi il personale è soggetto ad un percorso formativo, seppure in maniera diversa. Infatti se è un dato comune la partecipazione a convegni, worshop e seminari sul tema, in un solo caso vi è uno specifico aggiornamento interno all’azienda. Quasi del tutto analoghi i dati emersi dal settore delle multiutility. Anche qui la stragrande maggioranza di tali società ha aumentato il personale, tranne che in un caso in cui è diminuito, e il budget, tranne in un caso in cui è rimasto costante. Invece, al contrario del settore finanziario, tra le multiutility vi è un maggior numero di casi in cui le società non sono dotate di personale ad hoc. Il che, escludendo l’ipotesi che non ce l’abbiano affatto, lascia presumere che se ne occupano incidentalmente i dipendenti delle direzioni di riferimento. Al pari delle altre invece, anche qui la stragrande maggioranza del personale dedicato è dipendente a tempo indeterminato, inquadrato in modo composito e con

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competenze specifiche e una pregressa esperienza in azienda. Le società multiutility sono invece qualitativamente più attente alla formazione del personale. Questa è prevista nella totalità dei casi ma nella metà di questi alla tipica partecipazione a convegni e seminari si affianca la formazione continua interna, in un caso anche on line, e in un altro caso vi e’ la predisposizione di un piano di formazione specifico che tenga conto dei fabbisogni formativi.

3.4 Analisi multivariata Prima di trarre le conclusioni pare necessario rianalizzare lo spaccato settoriale tenendo conto dell’insieme di più variabili. Intanto si può provare a ricostruire la gestione complessiva della funzione. Per quanto riguarda il settore bancario/assicurativo sembrerebbe evincersi che il grado di strutturazione interna non sia sempre coerente con gli strumenti di responsabilità sociale adottati e quindi con la visione che si offre all’esterno. Infatti, tutte le società hanno posto in essere strumenti di CSR da almeno 10 anni, e hanno tutte almeno il bilancio sociale/di missione/ambientale/di sostenibilità, il codice etico/di condotta/carta dei valori, progetti di coinvolgimento attivo nella comunità e partnership. Nella stragrande maggioranza dei casi, si adottano anche certificazioni sociali, sistemi di rating ambientale e sociale e indici di sostenibilità. Ma, e in aggiunta a quanto già detto relativamente alla governance, solo la metà dei rispondenti ha un comitato collegato alla funzione e solo due prevedono anche la figura dell’Ethical Officer. Ai manager poi manca la leva delle remunerazione, perchè solo nel 27% dei casi sono previsti premi di produttività collegati alla CSR. Va poi ribadito che, tranne che in un caso, se si guarda all’organigramma dei rispondenti, le direzioni di riferimento si collocano tutte in linea con la direzione generale o l’amministratore delegato. Dall’altro lato però tutte le rispondenti ammettono che la CSR è un elemento di posizionamento strategico: il che lascia presumere che la stessa può avere un forte impatto reputazionale sulla società. Inoltre, se per circa un terzo delle imprese il fattore scatenante l’adozione di politiche responsabili è di matrice storico/istituzionale e per un ulteriore terzo consegue ad una riorganizzazione interna, per il restante si è trattato di una scelta conseguente ad un riposizionamento strategico, quindi a possibile vocazione reputazionale. Da ultimo, la circostanza che il 90% delle banche/assicurazioni considera medio l’impatto della CSR, sembra mostrare che fare CSR non è per loro particolarmente oneroso in termini di modifiche di processi e/o prodotti interni.

È interessante anche correlare i dati sul personale con quelli sul ricorso a consulenti esterni. La totalità delle società del settore vi fa ricorso, a dimostrazione che l’esperienza e la formazione delle proprie risorse interne non è sufficiente a dare alla funzione piena autonomia e a poter essere gestita completamente “in house”. Il settore delle Multiutility per certi versi fa storia a sè ma per altri ha dei punti di contatto con il bancario. Anche queste si occupano di CSR da molti anni, in media 9, e sono tutte dotate di bilancio sociale/di missione/ambientale/di sostenibilità, di codice etico/di condotta/carta dei valori, e di certificazioni sociali e ambientali, nonchè partecipano a progetti di coinvolgimento attivo nella comunità e partnership, ma la gestione interna della funzione è forse meglio strutturata rispetto al settore bancario. Oltre a quanto già analizzato, qui si dica che i due terzi delle imprese non ha un comitato collegato ma circa due terzi hanno l’Ethical Officer. Secondo il posizionamento nell’organigramma però, in un solo caso la funzione di CSR può dirsi riferibile “orizzontalmente” alla proprietà. Inoltre, nelle multiutility i manager hanno incentivi economici perchè, nell’ottantatre per cento dei casi, i premi di produttività sono collegati a performances di sostenibilità. Non è un caso quindi che i due terzi dei rispondenti ritenga la CSR un elemento di posizionamento strategico e la metà ritiene che abbia un impatto alto sull’azienda. Infatti, se da un lato le multiutility si sono da sempre differenziate per un impegno distintivo su tali temi, dall’altro la CSR potrebbe rappresentare piuttosto un vincolo anche regolamentare, che le obbliga ad organizzare la produzione secondo più rigidi standard. La metà di loro ha iniziato ad occuparsi di CSR a causa di una riorganizzazione interna, mentre la restante metà in minima parte a seguito di un riposizionamento strategico e il residuo lo fa per una combinazione di entrambi i motivi o per tradizione storica. Anche le multiutility fanno tutte ricorso a consulenti esterni. Anche per loro dunque può esservi un problema di professionalità del personale e capacità di gestione operativa della funzione.

4. Principali spunti emersi La presente ricerca offre alcuni interessanti spunti di riflessione. Il primo si ricollega direttamente ad un suo limite. Infatti, la scarsa partecipazione della maggioranza delle imprese intervistate -che come si diceva ha

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costretto a limitare il campo d’indagine – e’ sintomatica di un particolare approccio alla CSR. Questa infatti può essere intesa nel senso di adempimento meccanico di un dovere, sia esso di fonte legislativa o meno, oppure e’ meramente finalizzata a soddisfare le istanze degli Stakeholders o a non perdere possibili vantaggi competitivi. In questo modo però la CSR non diventa parte della cultura aziendale, non se ne apprezzano le potenzialità e viene interpretata come un vincolo oneroso e per il quale quindi non vale la pena spendere tempo e risorse, per quanto minime siano, per rispondere ad un questionario. E’ necessario quindi che le imprese acquisiscano la giusta consapevolezza di cosa sia veramente la CSR: a tal fine un ruolo importante può essere svolto dalle associazioni di categoria. Non è infatti un caso che la maggiore partecipazione si sia realizzata nei due settori analizzati: storicamente le associazioni a cui questi fanno capo, sono quelle che con più forza e lungimiranza hanno contribuito allo sviluppo di pratiche responsabili da parte dei loro associati. Il secondo riguarda la gestione interna della funzione. Come evidenziato nel corso dell’analisi, dalla mappatura della funzione di CSR si evince che, pur essendo le imprese virtuose e avendo nella stragrande maggioranza dei casi una funzione ad hoc munita di relativo personale e budget, non vi è una visione condivisa circa l’allocazione della funzione di CSR all’interno di specifiche direzioni. Infatti il dato circa l’appartenenza del presidio di ESG a direzioni generali (es. relazioni istituzionali, marketing e comunicazione, area socio culturale, risorse umane, ovvero in staff ad altri organi) è completamente disperso. Da qui si deduce come il riconoscimento di autonomia e di caratteri propri della CSR tali da poterla univocamente considerare come meritevole di una direzione a sè piuttosto che di esser parte di una specifica, non sia ancora giunto a completa maturazione. Proprio il grado di strutturazione della funzione cambia a seconda dei settori: in quello bancario si osserva la presenza di un ulteriore organismo collegato alle politiche di CSR, di solito in seno al cda, ma non vi è la figura dell’Ethical Officer, soggetto questo al contrario presente nella maggior parte delle multiutility laddove funge da unico supporto alla funzione non essendoci comitati ad hoc. Un altro possibile spunto di riflessione riguarda il referente del responsabile di CSR. Infatti sia nel settore finanziario che in quello delle multiutility questi riporta principalmente all’Amministratore delegato o al responsabile della direzione di riferimento e solo in rarissimi casi al

presidente. Da qui si inferisce che nelle dinamiche endosocietarie il CSR manager non rendiconta alla proprietà, che pure dovrebbe rappresentare un importante portatore di interessi capace di esercitare un potere di monitoring, bensì al management. Coerentemente però, il potere di nomina del responsabile nel settore bancario è nella maggioranza dei casi in capo al top management. Al contrario, nel settore delle multiutility è il frutto di processi e di decisioni interne all’azienda. Un altro dato degno di nota è che in entrambi i settori, nella totalità dei casi, si fa ricorso anche a soggetti esterni alla società, di solito consulenti e accademici. Come anticipato, questo lascia ritenere che le imprese non riconoscono le competenze del personale dedicato come sufficienti o mature per poter gestire totalmente al proprio interno tutte le fasi operative della funzione, nonostante dai questionari emerga che gli stessi sono soggetti a specifica formazione più o meno continua. Dalle risposte fornite, si evince anche come l’integrazione delle politiche di CSR nelle scelte strategiche e di business venga affermata nella maggioranza dei casi, ma non sia supportata dall’esistenza di meccanismi stringenti con riferimento all’adozione, da parte dei responsabili di unità operative, delle indicazioni date dal CSR manager. Inoltre, solo nel settore bancario sono presenti sistemi strutturati di condivisione delle informazioni che permettono al responsabile di CSR di essere al corrente delle scelte gestionali, cosi da poterne valutare la coerenza con politiche responsabili. Qui si intravede una pericolosa lacuna nell’affermazione della menzionata integrazione. L’assenza di meccanismi stringenti determina di fatto una mancanza di enforcement della segnalazione che rischia quindi di rimanere “sulla carta”. E’ necessario che le società si dotino di strumenti efficaci ad una concreta realizzazione delle indicazioni dei CSR manager. Inoltre, le stesse modalità di integrazione potrebbero essere più concrete. Infatti, nel corso dell’analisi dei questionari non si e’ voluto forzare l’interpretazione delle risposte perche’ si rischiava di cadere nell’arbitrarietà, ma va evidenziato che il modo in cui alcune società affermano di inglobare politiche valoriali nelle scelte di business rassomiglia più ad una dichiarazione di principio che ad un’attuazione sostanziale. Da ultimo, si riscontra una vistosa differenza tra settori nella valutazione della CSR come fattore di posizionamento strategico e in quella dell’impatto sull’azienda. In quello finanziario la totalità delle società ritiene che la CSR sia esplicitamente un elemento di

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posizionamento strategico e con un impatto medio sull’impresa. Al contrario, la maggioranza delle multiutility la considera si strategica ma ad alto impatto interno.

Il punto di vista degli esperti

Nel corso del mese di ottobre 2011 a Bologna e Milano la Fondazione ha organizzato due worshop durante i quali sono stati presentati e discussi preliminarmente i risultati dell’analisi condotta. Alle due iniziative hanno partecipato: Matteo Bartolomeo (Avanzi), Carlo Bassanini (SCS Consulting), Gianfranco Belcaro (Anima), Ruggero Bodo (Sodalitas), Marjorie Breyton (Impronta Etica), Francesco Peraro (Veneto Responsabile), Giovanvincenzo Santagada (KPMG), Alessandra Tanno (ABI).

Metodologia Al fine di integrare l’interpretazione degli esiti della ricerca con alcuni elementi qualitativi di scenario e di valutazione dello stato dell’arte sono stati svolti due worshop con esperti di CSR che interagissero direttamente con le imprese e quindi potessero fornire un quadro quanto più empirico della situazione. Il primo worshop ha coinvolto esponenti delle associazioni di scopo che riuniscono aziende impegnate in percorsi di CSR e che in tali associazioni portano il contributo delle loro esperienze, quindi sostanzialmente espressione di universi di “buone pratiche”. Al secondo hanno partecipato consulenti di settore che hanno maturato, in società di scopo o aree di scopo di società, esperienze di supporto ad imprese leader nella sostenibilità ma che al contempo si confrontano con un insieme di imprese più laterale rispetto ai processi. In termini tecnici nei worshop non si è fatta alcuna distinzione tra impegno per la sostenibilità e comportamento CSR dell’impresa, di conseguenza anche in questa nota i termini saranno usati in alternativa, volendo in ogni caso indicare “politiche”. Il che lascia presumere che per le imprese finanziarie la CSR sia strategica perchè ha un alto valore

reputazionale ma non incide in misura significativa sull’organizzazione interna e sulla gestione dei processi di business, mentre per le multiutility la CSR rappresenti piuttosto un vincolo, anche regolamentare, che le obbliga ad organizzare la produzione secondo più rigidi standard. attività, processi e prodotti dell’impresa sviluppati nel rispetto dei principi della responsabilità sociale d’impresa”. Sicuramente il secondo gruppo, a differenza del primo, si è maggiormente concentrato sulla sostenibilità. Ad entrambi i worshop è stato presentato e discusso il rapporto integrale della ricerca, cercando di verificare in particolare alcune tesi che erano emerse nel gruppo di lavoro interno alla Fondazione. Gli ambiti di riflessione sono stati quindi: la dimensione settoriale, il rapporto tra governance e CSR, l’allocazione e i compiti della funzione del CSR manager, il processo evolutivo degli ultimi dieci anni e i principali driver.

Principali risultati emersi In entrambi i gruppi si è riscontrata una sostanziale condivisione dei risultati emersi, sia in merito alle valutazioni sul campione che sulle attività censite. Si è concordato sul tipo di evoluzione avuta negli ultimi anni, che è stata più verticale che orizzontale: comportando una significativa evoluzione da parte di alcune imprese, ma al contempo una scarsa diffusione sulla platea complessiva delle imprese. Entrambi i gruppi, con accenti e sfumature differenti, hanno condiviso la significativa assenza di politiche pubbliche adeguate che fungessero da stimolo e di matura consapevolezza nei consigli d’amministrazione e più generalmente nella proprietà.

Le associazioni di promozione della CSR In generale non sono emersi punti di vista significativamente disomogenei tra i partecipanti, quanto piuttosto si sono evidenziati interessi e elementi d’attenzione diversificati ma mai conflittuali. Centrale nella discussione il rapporto tra CSR e governance.

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Storicizzazione del processo di diffusione della CSR A fronte dell’impegno europeo, a partire dal libro verde del 2001, in Italia lo sviluppo della CSR in questi ultimi anni non è sicuramente stato promosso da azioni pubbliche. I governi italiani sono stati disattenti e poco incisivi su questo tema; limitando non solo la diffusione della conoscenza del tema ma soprattutto la percezione dello stesso come priorità. Come afferma infatti Ruggero Bodo di Sodalitas “Non si riesce a dialogare in nessun modo con le Istituzioni italiane, mentre la Commissione Europea chiederà presto di dotarsi di un piano” . Questo si riscontra nella insufficiente diffusione di consapevolezza degli azionisti per un reale mainstreaming, dovuta in parte anche al ruolo passivo di Borsa Italiana, che a differenza di altre omologhe nei vari paesi, continua a ribadire la priorità della produzione di profitto per gli azionisti. “I più critici da convincere sono gli azionisti… secondo me dovrebbero essere previsti appositi interventi per coltivare una cultura della proprietà, nonché incentivarla” afferma Giorgio Riccioni della Fondazione Ivano Barberini. Infatti, come si esplicita meglio in seguito, è centrale in questo worshop la relazione tra CSR e governance, area d’indagine della ricerca. L’Europa, viceversa, ha sicuramente sviluppato una politica di promozione e sviluppo al riguardo, con l’integrazione di politiche economiche, sociali e del lavoro, ma nei fatti passano decenni prima che le direttive europee abbiano effetti sul contesto nazionale e, ancor meno incisive si dimostrano i libri bianchi e le comunicazioni. E’ opportuno specificare che la dimensione normativa non è ritenuta la sola né tantomeno la più efficace per rafforzare un processo di cambiamento culturale, che si basa anche su processi di incentivazione, promozione, testimonianza. In assoluto, nel mondo imprenditoriale non si è assistito ad una significativa escalation di interesse e di diffusione delle pratiche, quanto piuttosto allo sviluppo di buone pratiche distintive in soggetti che avevano già intrapreso un percorso al riguardo e che sempre di più stanno consolidando il loro approccio. In particolare Angela Tanno di ABI sottolinea come “ si possano riscontrare alcuni precursori che hanno attuato un effettivo ed efficace monitoraggio di policies e procedure in ottica CSR, ma che proprio per la loro natura di precursori non possono che essere in numero limitato”. Per esemplificare questo genere di evoluzione vengono citate buone pratiche di integrazione della formazione CSR nei corsi di aggiornamento e formazione ordinarie delle attività caratteristiche in alcune banche per formare alla gestione

responsabile gli operatori ordinari. Alle debolezze culturali e di contesto Ruggero Bodo aggiunge anche una carenza metodologica d’impostazione di processo: “Se non si danno delle metriche è difficile fissare degli obiettivi… se non si misura non si può gestire”, e ciò significa che non si può integrare.

Driver di diffusione In particolare se si valuta quali, oltre a quelli istituzionali, possono essere Stakeholder importanti per la diffusione di pratiche CSR in particolare presso la piccola e media impresa, un ruolo importante può essere assunto dalle associazioni di categoria, come dimostrano alcuni risultati, ma questo non può essere sufficiente. In particolare, perché spesso alla vita associativa partecipano i tecnici e non i decision maker. Sicuramente i clienti rappresentano il principale “stimolatore” di processi virtuosi, laddove possono modificare l’offerta promuovendo una domanda più consapevole. Ma perché svolgano efficacemente e consapevolmente il loro ruolo devono essere sensibilizzati e formati a dettare le regole del gioco. La contestuale situazione di crisi che stiamo vivendo non è stata elemento di per sè di stimolo all’adozione di nuovi modelli di business più orientati alla sostenibilità, ma ha sicuramente rafforzato, laddove l’impegno era presente, più le attività collegate al core business e quelle che portano risultati concreti, tagliando invece in modo significativo quelle aggiuntive e collaterali. “La crisi iniziata nel 2009 avrebbe potuto rappresentare una straordinaria opportunità per modificare il modello economico ed imprenditoriale rendendo la sostenibilità veramente un elemento di competitività dello sviluppo. Ma solo alcune imprese hanno saputo cogliere l’opportunità, le istituzioni, le associazioni di categoria e la comunità finanziarie sono rimaste ferme, perdendo un’occasione” rafforza Marjorie Breython di Impronta Etica.

Presenza, consolidamento e sviluppo della funzione di CSR La funzione di CSR ha incominciato a diffondersi negli ultimi anni, anche se non è cresciuto in modo significativo il numero di imprese che si sono impegnate in percorsi di CSR. Quelle che avevano già adottato un percorso però hanno affinato la funzione di CSR, nella maggior parte dei casi coinvolgendo manager interni a cui nel tempo è stata attribuita la funzione in modo esclusivo. Effettivamente i profili, i ruoli e il modello organizzativo sono molto variegati. In alcuni casi il frutto di specifiche scelte, in altri di casualità. Non si considera tale difformità come un disvalore, ma piuttosto il frutto di un percorso tailor

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made, come afferma Angela Tanno: “Se assumiamo che l’importanza è l’integrazione della CSR sul business, il “come viene fatto” passa in secondo piano nel senso che abbiamo esperienza di realtà con competenze dislocate in diverse strutture con solo dei presidi più o meno formalizzati, in cui le cose andavano bene”. Oggi mediamente le principali attività a carico dell’area sono:

La rendicontazione, perché senza misurazione non può essere gestito e migliorato alcun processo;

La formazione, che nel tempo si è andata integrando con la formazione tecnica/ manageriale ordinaria per facilitare i processi di integrazione della CSR nel business;

L’innovazione di prodotti/ processi, laddove a fronte della contrazione dei budget a disposizione, il CSR manager ha ridotto la predisposizione e gestione di progetti ad hoc, andando viceversa sempre più ad intervenire sulle attività ordinarie. Quest’ultimo aspetto è quello di maggiore differenziazione tra un CSR integrata al business e una più legata alla comunicazione e alla reputazione.

Integrazione CSR e Governance Se teoricamente è fondamentale la relazione diretta tra CSR e governance, e quindi il rapporto funzionale e/o organizzativo tra il CSR manager ed il Consiglio d’Amministrazione, ad oggi se ne riscontrano pochissimi casi. Il Consiglio d’Amministrazione, in quanto espressione della proprietà, dovrebbe essere il luogo di definizione di strategie ed indirizzo, ed il CSR manager fungere da facilitatore. Più delle volte invece l’area risponde ed è di pertinenza del management. Al riguardo i pareri dei partecipanti sono molto netti “Nel codice di disciplina del London Stock Exchange, su cui riponevamo molte speranze, si dice che compito del CdA è stabilire valori e standard. Bisognerebbe aggiungere nella ricerca quali siano le imprese che si sono dotate di un comitato. Questo è il punto, il comitato: è il CdA che deve dare il processo, altrimenti si tratta solo di un cambiamento cosmetico” afferma Ruggero Bodo; mentre Angela Tano ricorda come in molte banche si sia assistito allo smantellamento nel tempo del comitato dedicato per rendere il tema trasversale ai diversi comitati in essere. In sintesi però si condivide che il valore dell’integrazione consiste nella capacità di far arrivare certi temi al consiglio d’amministrazione, non quindi il “come” arrivano ma “se” arrivano.

Allocazione della funzione La funzione è variamente collocata nell’organigramma. Questo però piuttosto che un disvalore deve essere

percepito come un valore. Anche a questo proposito solo percorsi “tailor made” sono effettivamente emblema di integrazione della CSR nella cultura e nel modello organizzativo. Non esistono infatti modelli ideali, ciascun modello è frutto della storia e della cultura aziendale. Sottolinea però Francesco Peraro di Veneto Responsabile l’esigenza di considerare imprese che hanno nei fatti integrato la CSR e la governance quelle che, per usare una metafora, “in un industria che produce automobili allochino la CSR nel settore che decide se fare una BMW o una 500 e non nel reparto verniciatura”. L’importante è che possa incidere su modello di business e organizzazione, consigliabile è che sia posizionata nell’alta direzione, o, se in ambito gestionale, nel marketing strategico o nella pianificazione strategica. Il che spesso non è, in quanto tendono a prevalere allocazioni legate a funzioni diverse: personale, marketing e comunicazione. Nella pratica spesso la non corretta allocazione è il frutto dell’applicazione di modelli organizzativi standardizzati dalla direzione del personale che ancora non ha chiaro il ruolo della CSR “L’organizzazione della funzione di CSR nell’azienda è, come evidente, la più disparata. E questo è dovuto alla mancanza di una funzione di direzione che si occupi di strategia medio lungo termine nell’impresa allargata ai concetti di CSR” afferma infatti Gianfranco Belcaro di Anima.

Standardizzazione del modello Se si considera l’adozione di indirizzi CSR come un elemento di strategia competitiva, non si può pensare che vengano seguiti approcci standardizzati e riconducibili ad elementi unitari. La strategia infatti non può essere che un elemento distintivo dell’azienda, e, in quanto tale, assolutamente non definibile da schemi certificativi e standard. Anche se questo pone il problema della confrontabilità e del rapporto tra gli standard di CSR (dal Gbs al Gri) e le specificità settoriali e aziendali. Si condivide che per essere efficace però la CSR deve essere dove incide sul modello di governance e su quello di business, nelle politiche gestionali essenziali, in particolare intervenendo: 1. sulla pianificazione strategica, nell’individuazione degli obiettivi di medio lungo periodo all’azienda (il bilancio integrato deve rendicontare gli obiettivi dati); 2. sul marketing strategico, nella determinazione del prodotto; 3. sulle politiche del personale; 4. sulle politiche degli acquisti e valutazione e selezione dei fornitori.

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Le società di consulenza sulla CSR Il dibattito ha evidenziato approcci al tema tra loro diversi con focalizzazioni d’interesse molto differenziati, ma le conclusioni delle riflessioni sono state sostanzialmente condivise. Centrale nella discussione il rapporto tra CSR e strategia.

Storicizzazione del processo di diffusione della CSR La sostenibilità è di fatto un principio giovane che ha avuto, nell’ultimo periodo, alcune spinte esterne propositive per la diffusione in azienda, ma è, in ogni caso, ancora distante da una cultura di management diffusa. Si tratta di un concetto caratterizzato da una forte difformità, con accenti più o meno rivolti a tematiche ambientali piuttosto che sociali. Le aziende impegnate in percorsi di sostenibilità sono sostanzialmente le stesse negli ultimi cinque anni, la vera diffusione rispetto al passato si è avuta nel quinquennio precedente, ma a questo proposito non va sottovalutato proprio l’elemento novità concettuale che necessita di tempo per essere metabolizzato. La maggior diffusione di un approccio strutturato è avvenuto proprio nelle utilities e tra le banche, settori storicamente più attenti e che presentano politiche di CSR più diffuse. Questo è dovuto sia al fatto che si tratta di settori molto normati, sia perché operano in servizi con prodotti intangibili, dove l’impatto reputazionale sul mercato è particolarmente significativo, e “si agisce su elementi di scelta collegati alla percezione sulla reputazione di un’azienda” come afferma Carlo Bassanini di SCS.

Driver di diffusione ed empowerment della CSR Alcune associazioni di categoria hanno svolto un’attività continuativa ed importante per coinvolgere le loro associate a lavorare su questi temi, spesso però operando con e per gli addetti ai lavori, invece che sulle strutture gestionali di business. Oggi per stimolare le imprese ad adottare seriamente politiche di sostenibilità - se si condivide che tali politiche supportano lo sviluppo ed il benessere - integrandole nelle strategie, ci vorrebbe maggiore cogenza normativa. Situazione che al momento non si verifica vista la scarsa determinazione a perseguire tali obiettivi da parte degli enti normativi, soprattutto in Italia. Di conseguenza la spinta principale per la CSR è data sempre dal cliente. La soddisfazione del cliente è infatti l’obiettivo prioritario di ogni azienda che abbia obiettivi di medio periodo e storicamente le imprese più evolute sono state di solito quelle con un rapporto diretto e fiduciario con il cliente. Oggi però il rischio è

che ci sia uno spostamento tra le attese e i bisogni. Il vero motore, il vero stimolo è rappresentato dai bisogni, piuttosto che dalle attese. Infatti la crisi ha spostato l’accento dall’attesa (cosa mi aspetto dall’azienda) al bisogno (quali sono le mie necessità in questo specifico frangente). L’urgenza di rispondere al bisogno rischia di defocalizzare le aziende dall’investimento sulla propria identità, in una sorta di omologazione. Oggi quindi la CSR deve essere uno strumento per interpretare i bisogni del momento, non fornendo proposte omologate, ma in stretta sinergia con i processi di innovazione. Di conseguenza, solo se l’impegno della CSR sarà finalizzato a gestire e rispondere ai bisogni in modo innovativo, ci sarà maggiore consolidamento ed investimento al riguardo, in conformità ad un approccio che punta maggiormente al lungo periodo.“L’impresa deve infatti - afferma ancora Matteo Bartolomeo - ripensare come essere cittadina del territorio e rispondere ai bisogni primari, recuperando un concetto di responsabilità sociale d’impresa anni ’70, all’Olivetti.” Se si guardano gli azionisti come clienti delle azioni di un’impresa si può affermare che infatti la comunità finanziaria in passato ha spinto molto perché le imprese quotate si impegnassero per la responsabilità sociale facendone un obiettivo da discutere da parte del CSR manager con gli organi di governo, “laddove l’ingresso nel D.J.Sustainability Index certe volte è diventato addirittura l’obiettivo con cui misurarsi e parlare con il board e l’Amministratore delegato” afferma Matteo Bartolomeo di Avanzi. Ad oggi l’Italia però è talmente marginale nella finanza globale che tali stimoli sono venuti a cadere, o sono comunque poco significativi. Il timore per le future evoluzioni è che ci sia una tale conflittualità tra i bisogni, che l’agenda CSR rischi di esserne influenzata in modo significativo.

Presenza, consolidamento e sviluppo della funzione di CSR La funzione di CSR ha incominciato a diffondersi negli ultimi anni anche se non è cresciuto in modo significativo il numero di imprese che si sono impegnate in percorsi di CSR. Quelle che avevano già adottato un percorso però hanno affinato la funzione di CSR, pur senza sviluppi particolarmente significativi. Oggi di fatto il CSR manager può essere in primo luogo un facilitatore di processi, grazie ad un efficiente sistema di implementazione e controllo. In secondo luogo può intervenire nella relazione con il territorio, grazie all’integrazione tra strumenti tecnici e reti relazionali, rafforzando l’aspetto reputazionale i

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tali interventi. L’approccio tecnico infatti permette un maggior e migliore dialogo con il territorio. In termini evolutivi viceversa si iniziano a vedere, all’estero, degli sdoppiamenti nel presidio delle tematiche: il CSR manager è una funzione di sistema, con presidi operativi di CSR, che gestiscono gli strumenti di CSR ed i progetti tematici; a questo si aggiungono delle funzioni di progetto, con budget significativi e che interagiscono con maggior forza con le funzioni di business (soprattutto in aziende di largo consumo) accanto alla funzione CSR, funzioni del tipo strategy & Stakeholder. Più legate ai processi di innovazione che operano con una logica di progetto più che di sistema, a differenza dei primi. Si tratta di due funzioni e spesso di due profili tra loro molto diversi che vengono vissuti nell’impresa e producono risultati differenti, in una graduale affermazione, all’estero, della “CSR delle cose” rispetto alla “CSR degli strumenti”.

Rapporto tra CSR e Strategia Oggi la CSR non rappresenta in azienda un elemento strategico. Sebbene alcuni progetti potrebbero esserlo, di fatto l’impegno per la CSR non è strategico per i gruppi dirigenti italiani, raramente entra nelle riflessioni del consiglio d’amministrazione e/o della direzione e, ancor più raramente, in questi organi è allocato un presidio sul tema con responsabilità decisionali. Infatti si sono fatte scelte più tattiche che strategiche in questo periodo, mentre la CSR dovrebbe essere CSR delle cose, nell’attività quotidiana piuttosto che la CSR degli strumenti e delle attività ad hoc, spesso le imprese hanno investito molto nella formalizzazione e nella comunicazione, confidando nel valore

reputazionale della CSR piuttosto che considerarlo un driver di posizionamento. Di conseguenza se la CSR non è strategica difficilmente tale responsabilità può essere allocata in funzioni strategiche. Perché l’approccio possa essere effettivamente strategico è fondamentale l’integrazione nelle altre attività d’impresa. A tale scopo probabilmente bisognerebbe sperimentare un diverso punto di partenza: “Ad oggi – afferma Santagada di KPMG- è stata sempre adottata una strategia top down, bisognerebbe domandarsi se ribaltare la strategia in bottom up, coinvolgendo l’organizzazione può aiutare a renderla strategica” Allo stesso scopo può essere utile avviare relazioni di Stakeholder engagement serie e strutturate, con soggetti che possono aiutare a dare indicazioni strategiche per l’implementazione della sostenibilità in processi di innovazione.

Allocazione della funzione Di fatto oggi la funzione CSR è diversamente allocata nelle diverse aziende, e questo è sicuramente dovuto in parte anche alla citata “giovinezza del tema”. Se riteniamo che la sostenibilità debba essere integrata alla visione strategica, sicuramente allocare la funzione all’interno della direzione pianificazione e controllo strategico potrebbe aiutare il processo. D’altro canto, se si ritiene che la CSR debba essere espressione della proprietà, in quanto elemento costituente l’identità, allora tale funzione dovrebbe essere svincolata dalla gestione per essere più neutra. A questo proposito il gruppo non ha espresso una visione univoca, anzi è parso quasi critico verso la correlazione tra presenza della funzione CSR definita ed istituzionalità e grado di sostenibilità di un’impresa.

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Il contesto europeo

Premessa Le ricerche desk sull’esistenza di ricerche sui modelli di integrazione della RSI nelle aziende al livello europeo o nei paesi europei non hanno permesso di evidenziare numerosi rilevazioni su tale soggetto.

Il confronto tra i risultati dei questionari raccolti nell’ambito della ricerca della Fondazione Unipolis e i modelli di governance della CSR in altri paesi europei può prendere spunti da 4 ricerche svolte rispettivamente da CSR Europe

1, Adecco in Francia

2,

Foretica (NPO del CSR Europe) in Spagna3 e Econsense

(NPO del CSR Europe) in Germania. Occorre sottolineare la diversità dei campioni analizzati e delle metodologie utilizzate: - Francia: 57 aziende del SBF 120 (prime 120

società quotate per capitalizzazione) a cui è stato

somministrato un questionario tramite intervista

telefonica e di cui alcuni CSR manager hanno

partecipato ad un’intervista approfondita. La

raccolta dei dati è stata finalizzata a luglio 2009 e

una versione aggiornata dello studio è stata

pubblicata a settembre 2012.

- Spagna: 1032 interviste telefoniche svolte presso

rappresentati di Aziende spagnole,

rappresentative dei vari settori di attività, delle

varie aree geografiche e di varie dimensioni (sia

PMI che grandi imprese). La raccolta dei dati è

avvenuta a maggio e giugno 2010.

- CSR Europe: analisi di informazioni pubblicate da

10 aziende dei settori food ed energia aderenti a

CSR Europe4. L’analisi è stata realizzata nel 2011 e

è stata pubblicata nella primavera 2012.

- Econsense: 20 aziende membri di Econsense

hanno partecipato all’indagine. Provengono da

1 “A CSR Europe Issue Specific Report, CSR within companies”, CSR

Europe, bozza gennaio 2012 2 “2ème baromètre de la fonction développement durable dans les

entreprises du SBF 120”, Adecco Groupe, gennaio 2010 3 “Foretica Report, the evolution of social responsabilità among

Spanish Businesses”, 2011 4 DTEK, ENEL, Vattenfall, GDF Suez, Total, The Coca-Cola Company,

Coca-cola Entreprises, Groupe Danone, McCain Continental Europe, Nestle

settori molto diversi (ICT, Chimica-Farmacia,

Finanza, ecc) e dimostrano una forte

strutturazione della gestione della sostenibilità. La

ricerca non specifica la dimensione delle imprese

ma si presume che sono impresi di grande

dimensione.

Visto l’ampiezza più grande dei campioni delle ricerche francese e spagnola, l’analisi si focalizza principalmente su di esse. Tutte due le analisi vengono svolte periodicamente. L’analisi tedesca è stata svolta una volta sola e si tratta di un’analisi molto sintetica (slide powerpoint).

Risultati delle ricerche - Principali evidenze Nei casi francesi e spagnoli, quasi la metà delle aziende che hanno una funzione CSR hanno una funzione CSR specifica. I due report sottolineano la varietà dei modelli di governance della CSR. La ricerca tedesca effettuata su un campione ridotto (20 aziende) fa emergere una realtà molto strutturata anche se le funzioni CSR sono state create recentemente. Quando la funzione CSR fa parte di un’altra direzione, viene di solito aggregata alle direzioni comunicazione e qualità; Il ruolo fondamentale svolto dagli organi politici nella definizione della strategia di CSR: - Nei report francese e tedesco: 60 % dei CSR

manager intervistati riportano ad organi politici

(presidente o direttore generale);

- Nel report spagnolo: per quanto riguarda le

aziende che stipulano una politica di CSR, la

redazione del piano strategico sulla CSR viene

realizzata dal direttore generale (CEO) nel 44,5 %

dei casi e dal consiglio di amministrazione nel

25,4% dei casi.

Funzioni del CSR manager: i risultati delle tre indagini

sono molto diverse tra di loro. In Francia le principali

missioni del CSR manager sono il reporting, l’ideazione

e la raccolta di indicatori, e la diffusione interna degli

obiettivi di sostenibilità attraverso la formazione e la

sensibilizzazione dei dipendenti. L’elaborazione delle

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strategie di sostenibilità è invece l’ultima missione

citata dai CSR manager intervistati.

In Germania i principali compiti della funzione CSR

sono lo sviluppo della strategia CSR/di sostenibilità, il

dialogo con gli Stakeholder, la selezione di KPI per il

bilancio di sostenibilità / redazione del bilancio di

sostenibilità, il coordinamento delle attività di

sostenibilità. Si nota una forte attenzione al tema della

catena di fornitura (valutazione della sostenibilità dei

fornitori, sostegno all’applicazione della sostenibilità

all’interno della catena di fornitura).

In Spagna la formulazione di codici di condotta,

l’ideazione di indicatori per la balance scorecard, le

attività di reporting di sostenibilità e il controllo della

CSR nella catena di fornitura sono le attività meno

implementate.

Gestione della sostenibilità:

La ricerca tedesca evidenzia che 90 % delle aziende (18

aziende su 20) ha un “comitato direttivo o organismo

analogo” interno all’azienda che coordina le attività di

sostenibilità. Per metà del campione, tale comitato si

riunisce 3 o 4 volte all’anno. In alcune aziende ci sono

diversi gruppi di controllo che si incontrano con

frequenza variabile. 7 aziende (su 20) hanno anche un

comitato direttivo o organismo analogo composto da

Stakeholder esterni (università, ONG) che dà impulsi

sui temi inerenti alla sostenibilità.

Nessuna delle analisi approfondisce il tema

dell’integrazione dei requisiti di CSR nelle decisioni

operative e di business ne il tema dell’esistenza di

meccanismi stringenti con riferimento alle indicazioni

date dal responsabile CSR agli

amministratori/manager.

Robustezza della funzione CSR:

In media, la funzione CSR delle aziende francesi

intervistate impiega 5,5 persone. Nella ricerca

tedesca, 60 % delle aziende intervistate ha una

funzione CSR con uno staff di più di 10 persone

(un’azienda ha una funzione CSR con più di 50

persone). Impatto della crisi economica: Il report

francese evidenzia che la crisi economica si traduce

nel blocco delle assunzioni all’interno della funzione

CSR e in restrizioni budgetarie. In Spagna, la crisi

economica ha portato un terzo delle aziende

intervistate a interrompere le attività di sostenibilità

che svolgevano. Si tratta in particolare di piccole

imprese.

Per quanto riguarda le medie o grandi imprese, sul

33% di aziende che hanno fatto dei tagli nelle attività

di sostenibilità svolte, per l’80% di loro si tratta di una

riduzione parziale delle attività (mentre per l’altro 20%

si tratta di un abbandono completo delle attività

svolte).

Risultati delle ricerche - Dettaglio:

GOVERNANCE

Esistenza di una specifica funzione di CSR Nell’analisi francese, 78 % delle aziende del SBF 120

hanno una funzione CSR.

Nell’analisi tedesca, 85 % delle aziende intervistate

(ovvero 17 aziende su 20) hanno una funzione CSR. 55

% delle aziende hanno creato la divisione CSR

recentemente, ovvero dopo il 2008. Un’azienda sola

ha creato la funzione CSR prima dell’anno 2000.

Nell’analisi spagnola, il 5% delle aziende intervistate

(1032 imprese del campione) implementano la CSR

attraverso politiche e procedure strutturate.

Per quanto riguarda le aziende che hanno una

funzione CSR, le analisi sottolineano la diversità dei

modelli di governance della CSR. Il report francese

sottolinea che su un campione di 57 aziende, ci sono

32 diverse intestazioni per il responsabile per la CSR.

Funzione CSR specifica

Funzione CSR parte di un’altra direzione (con riferimento alla CSR o no)

Organi trasversali sulla CSR

Francia 44 % 42 % 14%

Spagna 45 % 17 % 26 % (creazione di comitati o gruppi di lavoro ad hoc)

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Se la funzione CSR fa parte di un’altra direzione, viene di solito aggregata alle seguenti direzioni:

Francia Comunicazione, marketing, gestione dei rischi, QHSE (qualità igiene sicurezza ed ambiente)

Spagna Comunicazione, risorse umane, qualità

1- A chi riporta il responsabile di CSR

L’analisi francese evidenzia che :

- 60 % dei CSR manager intervistati riportano ad

organi politici (presidente o direttore generale):

la percentuale è stabile in confronto alla ricerca

che era stata svolta nel 2007;

- 40 % riportano ad organi “funzionali” : 15% alla

direzione della comunicazione (in particolare le

imprese del CAC 40) 5, 23 % ad altre direzioni (in

particolare direzione acquisti, direzione qualità

sicurezza ed ambiente, direzione delle

operazioni, direzione dei rischi, ecc), 2 % alla

direzione delle risorse umane.

Il 75 % dei CSR manager intervistati sono presenti o sono rappresentati negli organi decisionali della loro azienda, in particolare:

- 12 % ha un accesso diretto agli organi

decisionali;

- 12 % sono membri degli organi decisionali;

5 Il CAC 40 è l'indice che rappresenta una misura basata sulla

capitalizzazione dei 40 valori più significativi tra le 100 maggiori capitalizzazioni di mercato della Borsa di Parigi.

- 46 % sono rappresentati negli organi decisionali

per via gerarchica.

L’analisi tedesca evidenzia dei risultati simili: - 45 % delle aziende hanno collocato la funzione

CSR presso gli organi politici (cda, ceo).

- Negli altri casi, la funzione CSR è collocata nella

divisione ambiente (25% delle aziende),

comunicazione, strategia.

60% dei CSR manager riportano agli organi politici (board, CEO); 25 % ad altri direzioni (Ambiente, Salute e Sicurezza, Comunicazione); 10 % ad un “Corporate Sustainability Board”. L’analisi spagnola non analizza gli organi a cui si riporta il CSR manager ma evidenzia che, per quanto riguarda le aziende che stipulano una politica di CSR, la redazione del piano strategico sulla CSR viene realizzata dal direttore generale (CEO) nel 44,5 % dei casi e dal consiglio di amministrazione nel 25,4% dei casi.

2- Funzioni del responsabile di CSR

La ricerca francese evidenzia che le principali missioni

citati dai CSR manager sono:

- Il reporting, l’ideazione e la raccolta di

indicatori;

- La diffusione interna degli obiettivi di

sostenibilità attraverso la formazione e la

sensibilizzazione dei dipendenti;

L’elaborazione della strategia di sostenibilità è invece l’ultima missione citata dai CSR manager intervistati. La ricerca tedesca ha delle evidenze molto diverse. Sottolinea che tutte le aziende del campione hanno come compito per la funzione CSR lo sviluppo della strategia CSR/di sostenibilità. Gli altri compiti principali della funzione CSR sono: - Dialogo con gli Stakeholder;

- Selezione di KPI per il Bilancio di Sostenibilità

Redazione del bilancio di sostenibilità;

- Coordinamento delle attività di sostenibilità;

- Valutazione della sostenibilità dei fornitori.

Quasi la metà del campione cita anche corporate citizenship e volontariato d’impresa (corporate volunteering). Tra le altre attività citate ci sono anche lo sviluppo di reti, sostegno all’applicazione della sostenibilità all’interno della catena di fornitura,

60%15%

2%

23%

Direzione generale

e Presidente

Direzione della

comunicazione

Direzione delle

risorse umane

Altre direzioni

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Modelli ed esperienze di CSR in relazione ai sistemi di governance

29

sostenibilità negli appalti, analisi/monitoraggio della sostenibilità, investimenti sostenibili. La ricerca spagnola che le attività di CSR più diffuse sono legate a temi quali salute e sicurezza sul luogo di lavoro, protezione ambientale ed efficienza energetica, conciliazione vita-lavoro e diversity management, ambiti che sono strettamente normati o che vengono percepiti come area di riduzione dei costi e di miglioramento della produttività. E’ invece interessante sottolineare che le tematiche trasversali come la formulazione di codici di condotta, l’ideazione di indicatori per la balance scorecard, le attività di reporting di sostenibilità e il controllo della CSR nella catena di fornitura sono le attività meno implementate. Nessuna delle analisi approfondisce il tema dell’integrazione dei requisiti di CSR nelle decisioni operative e di business nè il tema dell’esistenza di meccanismi stringenti con riferimento alle indicazioni date dal responsabile CSR agli amministratori/ manager. GESTIONE Il report francese sottolinea che le direzioni con cui i CSR manager interagiscono maggiormente sono le risorse umane, gli acquisti, la direzione qualità, igiene, sicurezza ed ambiente, il marketing e la comunicazione. Interazioni con la direzione amministrativa e finanziaria vengono raramente citate. La ricerca tedesca evidenzia che le altre direzioni che seguono anche tematiche legate alla sostenibilità sono: comunicazione; personale; società controllate o entità regionali dell’azienda; investor relations, acquisti, corporate development. Nessuna ricerca analizza la frequenza degli incontri del responsabile di CSR con quelli delle altre divisioni, l’esistenza di sistemi strutturati di condivisione delle informazioni tra le funzioni gestionali/operative e la funzione di staff di CSR, ne la possibilità per il CSR manager di segnalare eventuali incongruità delle scelte gestionali dalle politiche di CSR. Il report francese evidenzia che 85% dei rispondenti dispone di un network di riferenti per la sostenibilità all’interno dell’azienda. Il funzionamento di questi network e la frequenza degli incontri varia da un’azienda all’altra. Spesso tuttavia, tali referenti si candidano in modo volontario e tale responsabilità si aggiunge più o meno ufficialmente alla loro carica,

senza che ci sia una valorizzazione finanziaria ne una formazione specifica sui temi della sostenibilità. Esiste quindi un forte turn-over dei referenti. La ricerca tedesca evidenzia che 90 % delle aziende

(18 aziende su 20) ha un “comitato direttivo o

organismo analogo” interno all’azienda che coordina

le attività di sostenibilità. Per metà del campione, tale

comitato si riunisce 3 o 4 volte all’anno. In alcune

aziende ci sono diversi gruppi di controllo che si

incontrano con frequenza variabile. Le aree che sono

rappresentate in questi comitati direttivi sono:

- personale e comunicazione (per metà del campione),

- ambiente/sostenibilità,

- Membro del Consiglio, corporate development,

investor relations, marketing,

7 aziende (su 20) hanno anche un comitato direttivo o organismo analogo composto da Stakeholder esterni (università, ONG) che dà impulsi sui temi inerenti alla sostenibilità. ROBUSTEZZA L’analisi francese evidenzia che più del 50 % dei CSR manager che hanno risposto all’indagine lavorano nell’azienda da più di 10 anni. Per l’80% dei rispondenti, i due posti occupati in precedenza non erano legato al tema della sostenibilità. In media, la funzione CSR impiega 5,5 persone6. Ci sono tuttavia delle grandi differenze tra le aziende: - Il 17 % delle aziende ha uno staff di più di 10

persone che lavorano nella funzione CSR;

- Il 54 % delle aziende ha uno staff compreso tra

2 e 10 persone;

- Il 29 % delle aziende ha una funzione CSR con

una sola persona.

Quindi il 83% delle aziende ha una funzione CSR con uno staff di 10 persone o meno. L’assunzione di personale nella funzione CSR si effettua nella maggior parte dei casi al’interno dell’azienda. Molto spesso, si tratta di persone che non hanno competenze specifiche sulla sostenibilità nel momento in cui prendono il loro posto nella funzione CSR. C’è un turn-over molto basso del personale della funzione CSR. La crisi economica si traduce nel blocco delle assunzioni all’interno della funzione CSR e in restrizioni budgetarie.

6 Più precisamente, la funzione CSR dispone di 5,5 “equivalenti full-

time”.

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Governance e Responsabilità Sociale

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L’analisi tedesca evidenzia una robustezza forte della funzione CSR in termini di staff impiegato nella funzione: - 40 % delle aziende (8 aziende su 20) ha una

funzione CSR con uno staff compreso tra 1 e 10

persone (35% delle aziende ha una funzione

CSR con uno staff di meno di 5 persone);

- 45 % delle aziende ha una funzione CSR con

uno staff compreso tra 10 e 20 persone;

- 15 % delle aziende ( 3 aziende su 20) ha una

funzione CSR con uno staff di più di 20 persone

(tra cui un’azienda che ha una funzione CSR con

uno staff di più di 50 persone).

Seminario Governance d’impresa e Responsabilità Sociale Un rapporto in evoluzione tra scelte volontarie e nuove regole societarie Il 29 marzo 2012, nella Sala delle Armi della Facoltà di Giurisprudenza, si è svolto il seminario di presentazione della ricerca. Di seguito i principali interventi.

Maurizio Chiarini, Amministratore Delegato del Gruppo Hera e Presidente di Impronta Etica Negli ultimi dieci anni in Italia e da circa venti anni per i Paesi anglosassoni la cultura della sostenibilità, intesa in senso lato ambientale e sociale, si è ampiamente diffusa, basti osservare come sono mutate le scelte dei consumatori nell’acquisto di beni e servizi sempre più orientati ed attenenti alle componenti ambientali, etiche e sociali. Tra i Soci della CSR Europe emergono grandi marchi: Coca Cola e Toyota ad esempio. La Toyota in particolare è riuscita ad imporsi sul mercato grazie anche alle sue scelte strategico/sociali investendo da oltre dieci anni nel settore delle auto elettriche, questa è stata una scelta di successo che gli ha consentito di imporsi sul mercato e di diventare la più grande casa automobilistica al mondo. Questo è un sistema culturale. Se le imprese non si accorgono che la cultura aziendale è cambiata, significa che le

imprese non sono in grado di stare sul mercato. La sostenibilità oggi è un elemento strutturale del Quindi il 60 % delle aziende ha una funzione CSR con uno staff di più di 10 persone. In Spagna, la crisi economica ha portato un terzo delle aziende intervistate a interrompere le attività di sostenibilità che svolgevano. Si tratta in particolare di piccole imprese. Per quanto riguarda le medie o grandi imprese, sul 33% di aziende che hanno fatto dei tagli nelle attività di sostenibilità svolte, per l’80% di loro si tratta di una riduzione parziale delle attività (mentre per l’altro 20% si tratta di un abbandono completo delle attività svolte). business delle aziende di successo. Se le aziende non colgono questo messaggio, sarà il mercato stesso nei prossimi anni ad escluderle. C’è stato un cambiamento completo del concetto di CSR che è dietro a quello di business, cioè è mutata totalmente la visione futura di impresa. Mi piace citare sempre due articoli di Michael Porter, grande studioso teorico del vantaggio competitivo, che prima nel 2006 e poi nel 2011 scrisse: “il mega trend per le imprese del futuro è la sostenibilità e questo trend è simile alla rivoluzione che portò all’introduzione dell’informatica nelle imprese. Le imprese che si sono adeguate per tempo sono rimaste sul mercato, quelle che non si sono adeguate sono state espulse”. Il pensiero di Porter, da me condiviso, evidenzia il trend di cambiamento e la direzione in cui sta andando il mercato. Pensate alle aziende di prodotti alimentari: le scelte dei consumatori sono sempre più sostenibili e responsabili ed orientate verso i prodotti biologici certificati ed ai mercati a “km zero”. Ho riportato questo esempio perché mi preme sottolineare che se un’impresa, qualunque sia essa di beni o di servizi, non comprende il cambiamento fondamentale che per fortuna c’è stato in questi anni, rischia di perdere i propri clienti.

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La fotografia che è emersa da questa ricerca sinceramente mi hanno sorpreso, perché significa che le imprese sono ben lontane dall’aver capito che cosa sta succedendo. Se il sistema delle nostre imprese ritiene ancora che la CSR sia una componente di abbellimento dell’azienda, che viene dopo i processi produttivi, dopo il budget, dopo la pianificazione strategica e si limiti a prendere atto di quello che fa l’impresa e a farne una vetrina per l’esterno, siamo lontani dall’aver compreso il cambiamento culturale. I Paesi anglosassoni lo hanno già capito. La CSR deve essere considerata una componente totalmente integrata con il business, per qualsiasi tipologia di impresa. Qualunque azienda che oggi non abbia ancora incorporato al suo interno la CSR, non potrà affrontare il mercato nei prossimi anni. Porto ovviamente l’esempio del Gruppo HERA che, fortunatamente, da questo punto di vista ha anticipato un po’ i tempi. Come si fa ad evitare che la CSR sia una vetrina per l’esterno e non una componente strutturale della gestione dell’impresa? Seguendo alcune regole fondamentali:

La prima, evitare che il CSR manager sia un dipendente che provenga dalla comunicazione, perché fa presumere un’idea sbagliata di che cosa sia la CSR per quell’azienda (nel Gruppo HERA il CSR manager si è occupato di controllo di gestione, quindi è un uomo che ha gestito dall’interno il governo dell’impresa).

La seconda, deve essere una direzione come per la Finanza, il personale, il commerciale. In Hera, la Direzione CSR risponde all’Amministratore Delegato, colui cioè che ha le principali responsabilità gestionali dell’azienda.

La terza: gli strumenti del CSR Manager devono avere un ruolo strutturato con il business, affinché possano intervenire in maniera decisiva nella definizione delle politiche aziendali.

Nel Gruppo Hera i due momenti fondamentali di pianificazione, il piano industriale e il budget, sono costruiti dalla direzione pianificazione strategica e dalla direzione amministrazione finanza e controllo, assieme alla direzione Corporate Social Responsibility così che possa contribuire nella definizione degli obiettivi di lungo periodo. Nel Piano Industriale sono declinati non solo gli obiettivi economici, finanziari e industriali ma anche sociali ed ambientali. Anche il budget economico e finanziario si costruisce parallelamente al Bilancio di Sostenibilità, che non è uno strumento che prende atto di quello che è successo, ma anzi enuclea chiaramente che cosa si deve fare, identificando i principali obiettivi dell’azienda e li declina in progetti, azioni, indicatori ecc... L’Azienda approva contestualmente, in Consiglio

di Amministrazione e poi in Assemblea, i due documenti, Bilancio Consolidato e Bilancio di Sostenibilità. Il Gruppo ha inoltre deciso di introdurre un strumento molto innovativo nella definizione ed assegnazione di obiettivi a tutta la classe dirigente, mi riferisco sia ai quadri sia ai dirigenti: il Sistema Balanced Scorecard che è un sistema di controllo strategico che collega la strategia alla gestione traducendo la strategia in obiettivi e attività quotidiane. Il Sistema BSC costituisce il sistema incentivante del management del Gruppo. Gli obiettivi assegnati sono sintetizzati nella mappa strategica aggiornata tutti gli anni sulla base delle strategie declinate nel Piano industriale e coerentemente con il budget. Il Sistema introduce ed assegna a fianco degli obiettivi economico-finanziari e dello sviluppo commerciale, anche obiettivi ambientali e sociali. Sulla base della mappa strategica sono stati individuati, per l’anno 2011, 44 progetti prioritari che vengono monitorati trimestralmente in Comitato di Direzione. Nel 2011 gli obiettivi correlati alla qualità, ambiente e CSR sono pari a circa il 25%. I Progetti obiettivo vengono assegnati attraverso delle schede individuali ai quadri e ai dirigenti. Queste schede individuali andranno ad accostare ad obiettivi economico-finanziari anche quelli organizzativi, sociali, ambientali e di sviluppo. Questo strumento innovativo ha consentito di introdurre la sostenibilità nella gestione quotidiana. A fine anno il CSR manager supporta il vertice aziendale nella verifica del raggiungimento degli obiettivi assegnati ad inizio anno e si traduce poi nell’erogazione del premio di risultato alla classe dirigente. Questo processo ci ha consentito di sviluppare e promuovere la cultura della sostenibilità tradotta attraverso l’approccio multi-Stakeholder, adottando politiche aziendali finalizzate a soddisfare le esigenze dei diversi portatori di interesse, non più indirizzate solo per la creazione di valore per gli azionisti ma rivolti a tutti quei soggetti coinvolti nella gestione: i dipendenti dell’azienda, valutando le condizioni in cui essi svolgono la propria attività; i clienti e i fornitori, che sono quelle categorie di soggetti esterni con le quali l’azienda si interfaccia immediatamente; la comunità locale a cui vengono offerti i servizi dell’impresa, ecc…. Si traducono le aspettative di questi soggetti in obiettivi che verranno introdotti nella gestione quotidiana. La CSR è una componente strutturale del business e quindi ancor di più deve far parte degli obiettivi assegnati al gruppo dirigente, altrimenti credo che si rimarrà qualche passo indietro rispetto all’evoluzione del mercato. Pensiamo soltanto ai Paesi in via di sviluppo, oppure alla Russia, Cina, Brasile che si stanno approcciando all’impatto ambientale, alla sostenibilità, stanno

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sostenendo ingenti investimenti nello smaltimento rifiuti, nella raccolta differenziata, nell’emissione degli impianti industriali, stanno riconvertendo gran parte del loro potenziale economico adottando prassi e comportamenti orientati alla sostenibilità. Credo quindi che un’impresa eccellente, per essere considerata tale, debba cogliere questo messaggio.

Paolo Migliavacca, docente Università Bocconi e Amministratore Delegato Vita No Profit Nei circa 10 anni in cui ho svolto prevalentemente l’attività di ricerca e di didattica ho sempre cercato di supportare la dimensione strategica della responsabilità sociale di impresa, nella misura in cui questo strumento ha una sua razionalità dal punto di vista del DNA delle imprese, essendo in grado, secondo determinate prospettive e determinati strumenti di misurazione, di creare una positiva differenza tra le imprese. Mi sono confrontato con un notevole numero di studi, con centinaia di illustri ricercatori, principalmente di natura anglosassone, che hanno cercato di correlare la performance in tema di social compliance con le performance di natura finanziaria, andando a scontrarsi, molte volte, con risultati ambigui, dove la forzatura del dato molto spesso era la ragione per la quale questo legame in qualche modo emergeva. Partendo da questo, un altro punto che vorrei portare alla discussione problema sul tema della Corporate Social Responsability, è quello di considerare la compliance come un’attività isolata dal resto delle attività delle imprese e che genera di per sé un effetto benefico. Nella misura in cui la Corporate Social Responsability riguarda, influenza, modifica le linee strategiche e poi le linee esecutive delle relazioni dell’impresa rispetto al suo sistema di Stakeholder, allora è possibile ottenere risultati quantificabili, tangibili e intangibili, di segno positivo. Faccio qualche esempio: la Corporate Social Responsability ha mosso i primi passi nell’ambito del dipartimento risorse umane, in particolare negli Stati Uniti. Un effetto positivo dell’attitudine sul rapporto delle risorse umane è sicuramente, ad esempio, il bene stesso della risorsa umana, la soddisfazione delle persone rispetto all’opera prestata e con evidenti conseguenze positive sugli aspetti motivazionali. Questo può valere per tutte le altre categorie di Stakeholder, con i clienti ad esempio, un atteggiamento disponibile e di ascolto può determinare effetti positivi sulla fiducia, la reputazione, ma anche l’identificazione del cliente con l’azienda che gli presta il sostegno. Quindi, prima di tutto è importante non approcciare la Corporate Social Responsability come una scatola nera, ma viceversa

declinarla nei suoi aspetti operativi. Secondariamente chi si è mosso in anticipo lavorando sulla Corporate Social Responsability (ed è questo il caso dell’Italia), ha aperto volontariamente (o involontariamente) un laboratorio di azione, di innovazione che penso tornerà molto utile in un contesto in cui alcuni modelli o alcune esasperazioni di modelli di fare impresa stanno mostrando le corde. Vi segnalo un esempio interessante negli Stati Uniti: è partito da un anno e mezzo il movimento della cosiddetta Certified B corporation, una certificazione richiesta da aziende che stanno modificando di fatto il proprio statuto, incentrando la finalità d’impresa non più soltanto sulla produzione di profitto, ma anche sugli obiettivi di impatto positivo sulla società. Sono aziende anche di grandi dimensioni (per tutti il famoso marchio Patagonia). L’ultimo punto che mi preme evidenziare rispetto alla ricerca proposta si sostanzia in un auspicio. A Milano in questi giorni è presente Richard Sennet, famoso sociologo americano, autore di diversi libri, l’ultimo si chiama “Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione”7 ed è dedicato alla cooperazione, intesa come tessuto di relazioni personali. Un passaggio di questo libro è particolarmente interessante, quando Sennet ricorda la sua esperienza di orchestrale in gioventù, prima di diventare sociologo, e descrivendo la vita degli orchestrali dice: “Anche se conoscono perfettamente la propria parte, durante le prove devono imparare l’arte dell’ascolto, che manda l’ego in pezzi perché obbliga a rivolgersi verso l‘esterno”. Mi pare questo un ulteriore ingrediente fondamentale: non solo organizzazione e inserimento nella pianificazione operativa della corporate social responsability, ma anche ascolto, dialogo e apertura a forme di relazione innovative verso gli Stakeholder che circondano l’impresa. Questo dal mio punto di vista può generare nel tempo valore differenziale.

Valter Serrentino, Responsabile CRS – Staff CEO Intesa San Paolo Lo studio pone all’attenzione un tema particolarmente importante che traduco in una domanda: qual è il senso profondo della Corporate Social Responsibility in una fase di crisi (in particolare quella iniziata nel 2007), quando un modello, basato quasi esclusivamente sulla remunerazione del capitale, sulla creazione di valore per gli azionisti, sembra crollare? Potrebbe essere il momento in cui si propongono gli

7Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Richard

Sennet, Feltrinelli, 2012

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assi portanti della CSR per fare una piccola autocritica, per essere più utili alla società, per vedere le aziende più integrate nella società e per rispondere alle aspettative e alle domande degli Stakeholder. L’indagine presentata avrebbe dovuto essere realizzata nel 2006, oggi i risultati sono particolarmente deprimenti e avviliscono chi si occupa di CSR. Il lavoro di chi si occupa di CSR è estremamente importante, perché rappresenta una sorta di coscienza critica dell’azienda; un numero sempre più vasto di aziende accettano questa riflessione al loro interno. Ciò è un notevole passo in avanti. Però ritengo che questi passi forse sono ancora insufficienti per rispondere in maniera strutturale, alla crisi che stiamo vivendo. Una crisi che è anche culturale, è una crisi di modello, direi soprattutto occidentale, rispetto alla quale non intravediamo altri modelli più avanzati. Viviamo una situazione di instabilità, soprattutto nel pensiero. Se analizziamo questa ricerca e la confrontiamo con le pratiche dell’azienda in cui lavoro (Intesa Sanpaolo), potrei sentirmi orgoglioso. Nella nostra banca esiste una significativa integrazione delle tematiche CSR all’interno del business, come ufficio abbiamo partecipato all’elaborazione del piano di impresa, siamo in staff al Consigliere Delegato, rispondiamo al Consiglio di Sorveglianza, presentiamo periodiche relazioni al Comitato di Controllo. Lavoriamo con due cruscotti che ci permettono di controllare quanta distanza esiste tra le enunciazioni e il realizzato; i risultati sono portati a conoscenza degli organi di Governo della banca e degli azionisti. Gli Stakeholder engagement sono periodici e frequenti, confrontiamo quanto emerge dalla customer satisfaction con le nostre risultanze. Su questioni strategiche (per esempio, sulla policy ambientale) operiamo attraverso un sistema di gestione controllato direttamente dalla nostra struttura; esplicitiamo gli impegni e rendicontiamo le realizzazioni non solo con il bilancio sociale, ma anche attraverso pubblicazioni specializzate. Potremmo essere soddisfatti. Perché allora vedo il bicchiere ancora mezzo vuoto? Perché mi rendo conto, ci rendiamo conto, noi che lavoriamo in questo confine tra la società, la comunità e l’impresa, di quanto nel concreto in situazioni di crisi, le nostre attività possano essere marginali, oppure non sufficientemente incisive. Faccio due esempi. Il primo riguarda il ruolo di una banca nei confronti dei propri clienti. Si parla di credit crunch, cioè dell’insufficiente credito che le banche danno alla loro clientela in una fase di crisi economica. È un tema di responsabilità sociale? Normalmente non sembra rientrare fra le tematiche di responsabilità sociale, ma solo in quelle di business. Questa è un’insufficienza

culturale, non solo di strumenti. Responsabilità sociale – in questa visione riduttiva – spesso consiste nell’avvalorare un certo numero di indicatori, richiesti dagli analisti che si occupano di sostenibilità, limitati al microcredito (un’attività importante, ma che può diventare uno specchietto per le allodole). Il secondo esempio: in questo periodo la nostra banca è oggetto di una campagna sul tema del consumo del territorio. Noi siamo tra i principali finanziatori di opere infrastrutturali, in particolare in Lombardia, e alcune organizzazioni ci accusano di essere responsabili della “distruzione del territorio”. Siamo noi di CSR che dobbiamo rispondere a questa domanda o è la struttura di business, che deve porsi questi problemi? Noi riportiamo ovviamente queste tematiche all’interno, ma in che modo le ragioni del business riescono a comprendere le ragioni della comunità? Penso che questa ricerca sia stimolante, perché vuole stabilire qual è l’effettivo dialogo tra gli argomenti della CSR e quelli del business. La distanza che tuttora permane è causa di insoddisfazione, già espressa da altri relatori. Volendo mettere una ciliegina sulla torta del pessimismo, aggiungo che non mi sembra che nella situazione attuale, il governo italiano, l’Unione Europea o le grandi organizzazioni internazionali – nel concreto delle loro politiche – ritengano questi temi importanti, quindi rischiamo di perdere un’occasione. Cerchiamo di fare di tutto per non perderla, ma rischiamo davvero di perderla. A favore di chi? Non lo sappiamo. Contro di chi, invece, lo comprendiamo molto bene.

Francesco Vella, Università di Bologna La ricerca oggi presentata, svolta in collaborazione con l’Università di Bologna. analizza il “come” i sistemi di responsabilità sociale si integrano nelle strutture operative delle imprese, si lega a doppio filo ad un precedente lavoro del 2009, sempre della Fondazione Unipolis, dal titolo “Governance e responsabilità sociale. Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia”. La prima ricerca rivelava una certa asimmetria tra l’adozione di un sistema di responsabilità sociale e la sua concreta applicazione nelle realtà imprenditoriali (tipico il caso della diffusione dei codici etici e della scarsità di segnalazioni arrivate). La seconda, in un solco di continuità con i risultati raggiunti nel 2009, mette in risalto una scarsa permeabilità delle strutture e degli assetti organizzativi e di governance con quei principi di responsabilità sociale che si promuovono all’esterno.

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Un sistema valoriale, in altri termini, che mira a qualificare l’impresa sul mercato, ma che non sempre viene adeguatamente “declinato” nella organizzazione interna. La sensazione è quella di assetti di governance ancora immaturi per recepire a pieno le istanze della responsabilità sociale: non vi è dubbio, sarebbe sbagliato non riconoscerlo, che molti passi avanti sono stati fatti, ma la strada verso una piena coerenza con le migliori prassi in materia è ancora lunga. Esistono ancora problemi relativi alla creazione di adeguati flussi informativi, di strutture di controllo interno di verifica e monitoraggio circa l’applicazione delle regole di responsabilità sociale, dotate dei necessari presidi di autonomia, di un maggior enforcement delle norme di autoregolamentazione. Continuo ad essere convinto, infatti, che la responsabilità sociale debba essere il terreno di elezione per la self regulation e che da questo terreno debba rimanere fuori la norma imperativa e prescrittiva. Ma una regola, ancorchè adottata su base volontaria, è pur sempre una regola e chi la produce deve non solo farla propria, recependone i principi in essa espressi, ma dimostrare all’esterno la capacità di farla valere con adeguato apparato sanzionatorio in caso di violazione. E’ su questo che si regge il valore aggiunto della eticità di un’impresa. E per farla valere è necessario dotarsi di un supporto organizzativo interno che, analogamente a quanto avviene per gli altri sistemi normativi cui l’impresa aderisce, garantisca una seria ed efficiente “conformità” ai valori etici adottati.

La prospettiva, allora, è quella di iniziare una seria sperimentazione su questo terreno. A titolo di mero esempio, e senza nessuna pretesa di completezza, occorre immaginare che la funzione di responsabilità sociale rifletta un modulo organizzativo inserito a pieno titolo nella catena dei controlli interni. E quindi con una struttura di compliance che verifichi la filiera della produzione alla luce dei criteri individuati dalle carte etiche o dai codici di autodisciplina, una interlocuzione costante con gli organi di gestione e di sorveglianza, una articolazione di accountability e di rendicontazione verso soci e Stakeholder. Ed è evidente che queste competenze possono essere assolte solo in presenza di un adeguato grado di autonomia e indipendenza, ed anche di una reale capacità e volontà delle imprese nell’investire risorse in questo settore. Spesso nel passato l’etica ha rappresentato una sorta di “bella fotografia” nella quale le imprese cercavano di mettersi in posa per offrire un’immagine, peraltro meritoria, degli impegni da esse assunti sul terreno dell’impegno sociale; il futuro è, invece, rappresentato dalla definitiva acquisizione della responsabilità sociale come elemento caratterizzante del dna imprenditoriale e in grado di permeare con continuità l’organizzazione e l’attività produttiva. E’ una sfida che richiede ambizione e coraggio, ma sulla quale si misurerà quel capitale reputazionale oggi indispensabile per uscire dalle difficoltà che ci circondano.

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RIFLESSIONI CONCLUSIVE Perché investire su etica e responsabilità sociale di Giorgio Riccioni E’ opinione largamente condivisa che la soluzione della crisi che ha investito l’economia globale non possa prescindere da profondi cambiamenti della cultura economica e con essa della natura dell’impresa e dei modelli di governance. Vale comunque la pena sottolineare come, almeno fino a questo momento, non sia possibile osservare significativi cambiamenti nel comportamento delle imprese. Si notano, al contrario, pericolosi ritorni a prassi strategiche che sono state le cause principali della crisi. Etica di’impresa e responsabilità sociale sono i fattori, universalmente accettati, su cui fondare i processi di cambiamento e le due ricerche prodotte da Unipolis sono state ispirate da questo assunto. Ampliare il grado di conoscenza all’interno del vasto campo delle dinamiche evolutive della governance d’impresa è stato quindi scelto come obiettivo di lavoro calibrato sulla realtà imprenditoriale italiana. Condurre a termine queste ricerche ha presentato non poche difficoltà imputabili soprattutto alla reticenza, manifestata da molte delle imprese interpellate a fornire risposte esaurienti ai quesiti posti. E’ chiaro che una simile reticenza, in particolare sui temi della responsabilità sociale, deve essere messa in relazione alla parziale o assoluta mancanza di strumenti dedicati e di comportamenti conseguenti all’interno della struttura di gestione. La quasi totalità delle imprese interpellate ha invece adottato un codice etico. Una simile scelta, come è noto, non è il derivato di una cultura dell’etica radicata nell’impresa bensì, nella maggioranza dei casi, dalla gestione degli obblighi e delle opportunità ricomprese nella Legge 231. Sono infatti pochissime le imprese che si erano dotate di un codice etico prima dell’entrata in vigore di questa legge. Ciò ha finito per produrre una evidente discrasia fra i contenuti dei codici etici e la pratica gestione degli impegni assunti attraverso l’adozione degli stessi codici. La conseguenza più evidente è stata quella di rendere questi strumenti, inseriti spesso in modo solenne nel campo della governance, una semplice, seppur nobile, testimonianza. In definitiva il lavoro di analisi condotto dimostra ampiamente l’enorme ritardo con cui la cultura dell’etica e della responsabilità sociale trova una sua

coerente affermazione all’interno del sistema imprenditoriale italiano. Gli effetti devastanti della crisi economica stanno comunque producendo un positivo mutamento di sensibilità verso questa nuova cultura. Una sensibilità che appena sfiora l’impresa, ma che sta investendo con forza la società civile e le sue espressioni organizzate. Sempre di più infatti viene posto l’accento sui pericoli che un sistema economico senza regole rappresenta per gli equilibri sociali e per la stessa democrazia e quindi sulla necessità di una profonda trasformazione dei protagonisti dell’economia. Si sta facendo strada la coscienza che non sia più sufficiente il semplice rispetto delle leggi e del diritto societario, ma che l’esercizio dell’impresa non possa più prescindere da processi di autoregolamentazione fondati sull’etica dei comportamenti, sulla responsabilità sociale e sulla sostenibilità. Storicamente, infatti, il processo di produzione del valore si è evoluto in parallelo alle leggi che ne fissano regole e ne sanzionano le trasgressioni. Regole e sanzioni come strumenti di composizione dei conflitti fra le componenti che direttamente o indirettamente partecipano alla produzione e redistribuzione della ricchezza. E’ quindi lo stato che, attraverso le leggi, si è proposto come mediatore dei conflitti fissando i limiti all’interno dei quali la libertà d’impresa è in grado di esprimere la propria missione e le proprie strategie. Il mondo delle imprese è comunque sempre stato in grado di condizionare a proprio vantaggio le scelte della politica e solo in tempi recenti, complici i mutamenti intervenuti nella società civile e determinati da un più facile e diffuso accesso alla conoscenza ed alla informazione, ha posto in atto i primi timidi tentativi di autoregolamentazione dei processi di creazione della ricchezza. E’ prevedibile che, nel prossimo futuro, l’impresa sarà sempre più chiamata a rendere conto delle proprie scelte in questo campo; proprio perché nella società civile si va facendo più forte il convincimento che la produzione del valore non è il derivato esclusivo dell’azione d’impresa e che i fattori di produzione esterni all’impresa non possono essere remunerati solo con la fiscalità. L’impresa deve oggi confrontarsi non solo con il mercato, ma con un’opinione pubblica più attenta, più informata, più sensibile e sempre meno disponibile ad accettare meccanismi di sviluppo e di produzione del

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profitto avulsi da processi di promozione sociale o peggio, in grado di attivare fenomeni di distruzione di fattori non rinnovabili come il clima, l’ambiente, il paesaggio e così via. Prendere atto di questa realtà significa, per l’impresa, inserire, fra i propri riferimenti, nuovi protagonisti fra cui, in primo piano, la società civile e le sue espressioni organizzate. Una simile cultura non è a priori nemica del profitto, del mercato, della competizione, ma semplicemente ne regola la produzione e l’esercizio sulla base di principi generali che la società civile considera irrinunciabili. E l’obiettivo implicito nell’affermarsi di questa cultura è certamente quello di fare assumere definitivamente etica di impresa e responsabilità sociale al rango di veri e propri fattori della produzione. La creazione di un percorso che porti al radicamento di questa cultura, e contemporaneamente all’affermazione di una logica di mercato in cui la variabile reputazionale ed i contenuti dell’autoregolamentazione possono rappresentare una componente non secondaria del valore, richiamano il ruolo dello Stato, le istituzioni sovranazionali, delle organizzazioni imprenditoriali di rappresentanza. Il lavoro di ricerca condotto da Unipolis fornisce alcune importanti indicazioni sugli approfondimenti necessari per produrre proposte capaci di far evolvere una situazione che, in assenza di stimoli e di confronto, rischia la più completa immobilità.

Fra i temi da approfondire appaiono di particolare attualità: 1. la ricerca di modelli di riferimento in grado,

almeno, di attenuare la confusione esistente nelle filosofie ispiratrici, nei linguaggi, nelle strutture di gestione;

2. il rapporto con gli Stakeholders e quindi il ruolo pro-attivo degli strumenti dedicati;

3. l’evoluzione delle strutture di governance e quindi dell’autoregolamentazione.

Fondamentale in questo campo un mutamento di rotta nella qualità e quantità delle risorse dedicate, nella partecipazione attiva della proprietà, nella chiarezza della rendicontazione.

Ciò pone il problema di monitorare in maniera sistematica i cambiamenti che certamente interverranno in questo campo in parallelo all’evolversi di questa cultura all’interno dell’impresa. La costituzione di un osservatorio permanente sull’etica e sulla responsabilità sociale d’impresa potrebbe rappresentare un utile strumento per perseguire questo obiettivo.

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SECONDA PARTE

Governance

e Responsabilità sociale

“Analisi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia”

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1. Introduzione 1.1 Obiettivi della ricerca Per governance si intende l’insieme di regole, processi, relazioni e consuetudini che sottendono al sistema di gestione e controllo di un’organizzazione, sia questa parte del settore no-profit (associazione, fondazione, impresa o cooperativa sociale) o del settore profit (impresa privata, pubblica, quotata o non quotata, cooperativa). I sistemi di governance sono centrali per una buona, corretta e trasparente conduzione delle organizzazioni, specialmente in contesti sociali ed economici come quelli attuali dove esiste una spropositata influenza dei mercati finanziari, globalizzati e ad elevata interdipendenza, sull’economia reale, che rende sempre più complessa l’efficacia della corporate governance ossia il controllo, da parte dell’assetto proprietario, delle deleghe, delle responsabilità e dei ruoli attribuiti agli organi di amministrazione, la gestione e supervisione delle imprese affinché il cosiddetto “fiduciary duty”1 sia correttamente esercitato. Tali sistemi, tuttavia, pur rispondendo alle migliori indicazioni degli organismi di vigilanza, delle banche centrali o della giurisprudenza, corrono il rischio di rimanere meri meccanismi formali se non sono immersi in un contesto culturale che, pur avendo molto chiaro l’interesse della proprietà, qualsiasi essa sia, promuova il concetto di “Stakeholder company”. Si tratta del tentativo di allineare l’interesse della proprietà con quello degli altri Stakeholder (dipendenti e collaboratori, comunità o territorio, ambiente e società) poiché in questi casi si può instaurare un volano virtuoso tra interesse individuale e collettivo, tra creazione di valore economico e sociale. Contesto di riferimento Negli ultimi quindici anni, le imprese hanno cominciato a dotarsi, al fine di rispondere a una sempre maggior richiesta di responsabilità sociale, di uno strumento di auto-regolamentazione già utilizzato in alcuni paesi anglosassoni: il Codice Etico, documento che contiene i valori, le linee guida e i criteri di comportamento che devono orientare le relazioni verso e tra gli Stakeholder dell’impresa (management, dipendenti e collaboratori, clienti, fornitori).

1 Il dovere fiduciario è l’obbligo di agire nel miglior interesse di

coloro che hanno delegato alcuni dei loro poteri, ad un’altra controparte

Ad oggi, però, in Italia non si conoscono ancora gli effetti prodotti dall’introduzione di questo strumento di governance sulla gestione e sulla cultura d’impresa. Alcuni si stanno ancora chiedendo se il Codice Etico funzioni davvero o sia solo un “pezzo di carta” appeso alle bacheche o messo in un cassetto, senza alcun reale potere di intervento sull’applicazione dei principi scritti alla realtà dell’impresa. Obiettivo della ricerca Lo studio, al fine di sostenere una discussione molto attuale nel nostro paese che però – almeno fino ad ora – non si è basata su dati e ricerche empiriche, intende analizzare l’impatto che ha avuto l’introduzione dei Codici Etici in Italia e rispondere ai seguenti quesiti:

l’adozione di tali strumenti ha migliorato la gestione e i sistemi di verifica interna dell’impresa?

L’applicazione del Codice Etico promuove di fatto comportamenti virtuosi e penalizza atteggiamenti devianti all’interno dell’impresa?

L’introduzione dei Codici Etici ha favorito l’adozione di comportamenti socialmente più responsabili da parte dell’impresa in relazione agli Stakeholder interni ed esterni?

Dopo quindici anni di attività volta all’introduzione di strumenti di responsabilità sociale, è cambiata e come la cultura d’impresa?

Metodologia

La ricerca analizza i Codici Etici di imprese private e cooperative con sede sul territorio nazionale, focalizzandosi sui seguenti ambiti:

rapporto con il sistema di governance;

presenza del Comitato Etico, ruolo e funzioni, da chi viene nominato, a chi risponde e come è composto (numero dei membri, interni/esterni, esecutivi/non esecutivi);

sistema di attuazione, controllo e verifica del rispetto dei valori, principi, linee guida e criteri di comportamento definiti dal Codice Etico (responsabile, a chi risponde, modalità delle segnalazioni – firmate o anonime − quante segnalazioni sono inviate annualmente, gravità delle segnalazioni, da quali Stakeholder provengono le segnalazioni relative a quali interlocutori, a quante segnalazioni corrisponde un provvedimento, tipologia del provvedimento).

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La ricerca è stata sviluppata in una prima fase come analisi dei documenti disponibili sui siti web delle aziende e successivamente come interviste strutturate telefoniche o faccia-a-faccia con i referenti dei Codici Etici delle singole imprese.

1.2 Limiti dello studio La ricerca realizzata risente di alcuni limiti dovuti ai seguenti fattori: scarsità dei dati pubblici rintracciabili nei siti web delle imprese campione, o nei loro Bilanci di Sostenibilità, relativi ai documenti che compongono il Sistema di Governance della Responsabilità Sociale d’Impresa. Infatti, ogni impresa sembra aver adottato scelte diverse su quali documenti e informazioni rendere pubblici, causando difficoltà di raffronti omogenei sugli stessi dati per diverse aziende. Questo spiega le ragioni dell’utilizzo della dicitura “dato non disponibile”. In particolare, sono state riscontrate difficoltà a reperire i seguenti dati: 1. data di entrata in vigore e data di aggiornamento

del Codice Etico; 2. numero dei componenti dell’Organo/Figura

garante del Codice Etico, numero dei componenti interni ed esterni, organo che nomina tali componenti e a cui deve rispondere;

3. Stakeholder a cui viene data la possibilità di effettuare segnalazioni;

4. numero delle segnalazioni ricevute all’anno, modalità di invio delle segnalazioni, tipologie delle segnalazioni ritenute fondate, valutazione ed esito delle segnalazioni;

5. pur essendo consapevoli che il Codice Etico ed il Codice di Comportamento o Codice di Condotta non siano esattamente la stessa cosa − ove nel primo sono contenuti i principi etici di ispirazione della Responsabilità Sociale d’Impresa, nel secondo si definiscono le norme e i comportamenti da attuare per promuovere la correttezza negli affari − si è scelto di considerarli sinonimi per adeguarsi alla prassi prevalente;

6. difficoltà nell’identificare e reperire le persone da intervistare;

7. mancanza di informazioni ottenute dagli intervistati, i quali non erano a conoscenza o in possesso di tutti i dati necessari per rispondere esaustivamente all’intervista faccia-a-faccia o telefonica (per esempio dati relativi ai percorsi di informazione/formazione realizzati, al numero delle segnalazioni ricevute, ai criteri oggettivi e/o soggettivi di valutazione della segnalazione, alla possibilità di irrogare sanzioni);

8. l’intervista è stata realizzata con un componente dell’Organo/Figura garante del Codice Etico

(membro o Presidente del Comitato per il Controllo Interno, Responsabile Unità CSR, Responsabile Internal Audit, Legale Societario, Responsabile del Bilancio di Sostenibilità ecc.), ma per avere un quadro d’insieme più completo sarebbe stato necessario intervistare una molteplicità di figure dirigenziali quali il Direttore delle Risorse Umane, della Comunicazione Interna ed Esterna, l’Amministratore Delegato, ecc.

2. La Responsabilità Sociale d’Impresa tra autoregolamentazione e legislazione Nella conduzione della ricerca si è partiti dalla seguente definizione “La Responsabilità Sociale d’Impresa è il contributo delle imprese al raggiungimento dello sviluppo sostenibile” 2 e, pertanto, la sua importanza risiede nella consapevolezza che essa è uno strumento che rende l’impresa migliore e permette a chi la gestisce di fare al meglio il proprio lavoro – ossia produrre valore per se stesso e per la propria comunità (locale e globale). Ma come si discerne se un’impresa sta attuando una strategia di responsabilità sociale? È possibile delineare una serie di condizioni ed azioni la cui presenza evidenzia la volontà dell’impresa di perseguire un percorso di responsabilità sociale:

l’esistenza di una visione, di una missione e di valori d’impresa esplicitati;

un Codice Etico, integrato nelle valutazioni di performance dello staff e nel raggiungimento degli obiettivi a fine anno;

la definizione di cosa significhi responsabilità sociale per quella particolare azienda;

l’identificazione degli impatti più rilevanti dell’impresa (materiality principle)3 ;

la rendicontazione della propria performance ambientale, sociale ed economica tramite alcuni indici di tipo quantitativo e qualitativo identificati a livello internazionale, adattandoli alla propria dimensione e contesto;

la pubblicazione di un Bilancio Sociale o di Sostenibilità. Il percorso così caratterizzato, delineato nella seguente tabella, prevede un impegno da parte delle imprese che si inserisce anche nella pianificazione strategica aziendale e in concrete pratiche quotidiane che dirigenti e dipendenti sono chiamati a porre in essere nello svolgimento del proprio lavoro.

Il tracciato strutturato in questo modo richiede un impegno chiaro dell’azienda sia internamente sia esternamente. La dimensione interna concerne la capacità di integrare, gestire e misurare nel core business l’impatto ambientale, sociale ed economico

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delle proprie attività, mentre la dimensione esterna riguarda la facoltà di comunicare e rendere conto della propria visione, gestione aziendale e impatto sulla società, ai diversi portatori di interesse. La relazione tra etica, responsabilità sociale e legge “Il principio fondamentale dell’impresa deve diventare fare la cosa giusta perché è giusto, non perché paga. Se vogliamo preservare il meccanismo più efficace che la storia umana abbia conosciuto per la produzione di beni e servizi – l’economia di mercato e l’impresa di pubblica utilità a responsabilità limitata che ne è il suo strumento principale – allora tale sistema deve farsi portatore di principi. Il fallimento finanziario può distruggere alcune imprese. Il fallimento morale distruggerà il capitalismo.” Sir Geoffrey Chandler, ex-dirigente di Shell ed ex-rappresentante di Amnesty International Business Group “Io sostengo che un’impresa seria deve avere nei suoi progetti normali, nel suo dna, la responsabilità sociale. Non è altra cosa la responsabilità sociale rispetto al fare impresa. Non si cambia un’impresa cattiva che nel weekend fa una donazione o qualche atto di responsabilità sociale riconciliandosi col mondo. L’impresa, la buona impresa, quella che poi dura nel tempo, è costruita su valori che ruotano tutti intorno alla responsabilità sociale. Quando io sento dire che è qualcosa di altro o che persino l’attenzione alla sicurezza sul lavoro è frutto di progetti speciali, (mi è capitato di leggere anche questo!) debbo gridare che è un’idiozia. Dare attenzione a questi valori della responsabilità, della sicurezza, della comunità, non è avere il timbro di impresa socialmente responsabile. È il timbro di un’impresa seria.” Marco Vitale, consulente aziendale “L’etica è innanzitutto un filtro attraverso il quale passano il pensiero e l’agire umano che influenza anche l’agire d’impresa la quale non è solo un luogo economico ma anche sociale e politico poiché l’azienda esprime, nella sua organizzazione e nei suoi comportamenti una cultura valoriale...L’etica degli affari si pone come

forma di autoregolamentazione delle imprese alternativa rispetto al diritto, in quanto ispirata non soltanto alla lettera della legge (la legalità) bensì allo spirito più profondo di quest’ultima (la moralità).” Andrea Farinet in Corporate Responsibility

Come ben descritto dalle frasi riportate e dal grafico presentato2, l’etica non coincide necessariamente con i principi della Responsabilità Sociale d’Impresa. In realtà, non esiste una sola etica d’impresa ma una pluralità, poiché l’etica rimanda a principi morali diversi e in continua trasformazione che dipendono dal contesto socio-culturale e storico, ma anche individuale, a cui si fa riferimento. È innegabile, però, che negli ultimi quindici anni nella cultura d’impresa si sia affermata l’etica della responsabilità sociale proprio perché successivi e frequenti “fallimenti del mercato”, nonché scandali finanziari e aziendali, hanno riportato a un ruolo preminente la dimensione dei valori e della loro influenza sul comportamento umano, quale elemento essenziale per il buon funzionamento dell’impresa e di qualsiasi sistema sociale ed economico. A questo approccio etico alla Responsabilità Sociale d’Impresa, volontario ed autoimposto, che ha caratterizzato il suo primo sviluppo, nel tempo si sono affiancate opinioni e considerazioni provenienti soprattutto da organizzazioni no-profit ambientaliste o di rappresentanza della società civile che hanno proposto la codifica in legge della Responsabilità Sociale d’Impresa. Queste diverse tendenze evidenziano delle questioni di fondo che rimangono tuttora irrisolte:

le leggi non possono cambiare i valori, vale

2 Il grafico presentato si è ispirato a quello proposto dallo stesso

Andrea Farinet nell’articolo “Etica e mercato: alcune considerazioni”

pubblicato in Corporate Responsibility, 2008

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piuttosto il contrario e il sistema dei valori influenza il corpus legislativo. Considerando, perciò, che l’etica non si può normare ma copre ambiti che vanno oltre la legge, è bene pensare alla Responsabilità Sociale d’Impresa all’interno di principi etici o morali?

Nella storia umana gli approcci etici, una volta accettati da un numero cospicuo di cittadini, hanno influenzato la creazione di nuove leggi. È questo, forse, un periodo storico che potrebbe permettere alla Responsabilità Sociale d’Impresa di ispirare una nuova ondata normativa?

Il Codice Etico d’impresa, soprattutto per come si è evoluto nel contesto italiano, ha in sé queste contraddizioni. È considerato uno strumento di responsabilità sociale che rimanda a principi etico-morali e dal 2001 è altresì promosso all’interno di un decreto legislativo. Anche dalle prime analisi effettuate per questa ricerca, è risultato evidente che la maggior parte dei Codici Etici adottati dalle imprese italiane sono stati realizzati come strumenti di compliance del decreto legislativo 231. Tuttavia, far rientrare il Codice Etico, strumento di responsabilità sociale, all’interno di una legge nata per combattere i reati societari e la criminalità economica, rischia di avvalorare il concetto che in Italia la Responsabilità Sociale d’Impresa sia utilizzata per portare le imprese a rispettare le leggi più che ad adottare comportamenti virtuosi che vadano oltre le leggi stesse. È certo che un contesto permeato dall’etica e ispirato ai principi della Responsabilità Sociale d’Impresa dovrebbe proteggere dai comportamenti illeciti, permettendo un più agevole rispetto delle regole e una maggior fiducia. Ma è estremamente complesso valutare quando un’impresa stia effettivamente praticando la responsabilità sociale poiché non sembra essere sufficiente la presenza di un Codice Etico o di un Bilancio di Sostenibilità per garantirne l’effettiva realizzazione. Enron, Parmalat e altre imprese che hanno commesso dei reati, avevano adottato, anche se solo sulla carta, un Codice Etico.

2.1 Il Codice Etico e il Comitato Etico Il Codice Etico è uno strumento di autoregolamentazione attraverso cui un’impresa afferma e declina i Valori, i Principi e gli standard comportamentali che dovrebbero ispirare l’agire proprio e degli Stakeholder. Nella sua interpretazione più ampia dovrebbe rappresentare una “carta costituzionale” aziendale da cui discendono poi molteplici indicazioni che ispirano la gestione dell’impresa. “Esso consiste, pertanto, in una vera e propria dichiarazione etica, una sorta di ‘tavola della

legge’ avente ad oggetto il credo dell’impresa, i principi-guida, gli obiettivi di fondo, le aspirazioni sociali, i valori e le istanze culturali cui l’impresa intende aderire. Si tratta, in sostanza, di un documento che raccoglie organicamente norme di comportamento per i manager e i dipendenti ed orienta sugli atti da compiere nello svolgimento delle differenti funzioni in cui si estrinseca l’attività d’impresa”3.

In tale logica, i Codici non sostituiscono le pratiche di dialogo sociale e contrattazione collettiva, ma sono uno strumento del tutto volontario che si integra alla normativa vigente, andandovi oltre, e la cui valenza è correlata al livello di conoscenza e condivisione che ne accompagna la diffusione all’interno dell’azienda. In sintesi, il Codice Etico è uno strumento di:

governance e indirizzo culturale che permette di promuovere in maniera strutturata la Responsabilità Sociale d’Impresa;

gestione strategica che integra i principi dell’impresa con i comportamenti dei propri Stakeholder, traducendoli in criteri di comportamento e obiettivi da raggiungere per i collaboratori (identificabili anche attraverso la definizione di key performance indicator di impatto ambientale e sociale);

supporto alla gestione delle relazioni tra l’impresa e i suoi interlocutori principali in cui l’azienda esplicita responsabilità, impegni, diritti e doveri nei confronti degli Stakeholder interni ed esterni (soci/azionisti/proprietà, dirigenti, dipendenti, collaboratori, consulenti esterni, agenti/procuratori, clienti, fornitori, sindacati, settore no-profit, ambiente, finanziatori, comunità).

La struttura del Codice Etico si distingue in una prima parte in cui sono descritti i valori e i principi, a cui seguono delle linee guida che orientano i rapporti con i principali portatori di interesse e i meccanismi necessari ad attuare, monitorare e diffonderne il rispetto e la conformità del comportamento (sistema di segnalazioni). Interessante sottolineare che, soprattutto nei confronti dei fornitori, a seguito dell’adozione del Codice Etico, l’impresa può prevedere l’inserimento di clausole risolutive nei contratti di fornitura che facciano esplicito riferimento al rispetto dei principi e dei comportamenti declinati nel Codice stesso, pena la risoluzione del contratto. Questa opzione rappresenta una leva di diffusione della Responsabilità

3

A. Farinet, “Etica e mercato: alcune considerazioni”, in Corporate

Responsibility, 2008

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Sociale d’Impresa molto rilevante poiché inserisce criteri quali la riduzione dell’impatto ambientale e il rispetto di un livello minimo di qualità del lavoro (che può essere certificato attraverso la SA8000) 4 all’interno dei contratti di fornitura, attraverso specifiche clausole, le quali possono anche estendersi agli eventuali sub-fornitori, instaurando un circolo virtuoso che pervada tutta la catena di fornitura e sub-fornitura. Il Comitato Etico è un organo aziendale dotato di indipendenza ed autonomia, formato da componenti esterni e interni, nominato dal Consiglio di Amministrazione a cui risponde. Esso valorizza le iniziative di Responsabilità Sociale d’Impresa, garantisce il rispetto del Codice e ne promuove la conoscenza sia internamente sia esternamente all’azienda. Le funzioni principali svolte dal Comitato Etico sono:

monitorare e verificare l’Attuazione del Piano di Implementazione del Codice Etico, rendicontando tutte le attività realizzate in un Rapporto Annuale da sottoporre al Consiglio di Amministrazione;

diffondere i contenuti del Codice e promuoverlo allo staff attraverso il controllo e la valutazione del piano di comunicazione e formazione;

verificare il rispetto del Codice Etico, deliberando relativamente ai comportamenti che si discostano dagli standard definiti ed individuando misure adeguate nel caso siano accertati comportamenti non conformi, fatta esclusione per ogni forma di esercizio del potere disciplinare che viene riservato ai competenti organi aziendali;

predisporre delle revisione periodiche.

I limiti del modello di governance con Codice Etico e Comitato Etico Pare opportuno, a questo punto, sottolineare che il Codice Etico, pur promuovendo un sistema per indirizzare e diffondere certe tipologie di comportamenti ispirati alla Responsabilità Sociale d’Impresa, non è vincolante per la legislazione italiana sul lavoro. Questo significa che l’unico sistema di sanzioni applicabile è quello definito dal Codice Civile oppure dallo Statuto dei lavoratori e dal contratto collettivo nazionale, quindi, possono essere puniti solo i comportamenti ivi descritti, a meno di ricondurre

4 Social Accountability 8000 (SA8000) è uno standard internazionale

elaborato nel 1997 dall’ente americano Social Accounting International per controllare la qualità del lavoro in paesi, come quelli in via di sviluppo, ove non esiste una legislazione sulle condizioni di lavoro. L’obiettivo è scongiurare comportamenti delle imprese di eccessivo sfruttamento della mano d’opera, evitare il coinvolgimento di lavoro minorile e la non retribuzione degli straordinari, garantire un salario minimo, l’associazionismo sindacale, la disparità di trattamento uomo/donna o per razza, religione, ecc.

certe azioni alla violazione dell’obbligo di diligenza o fedeltà aziendale. Inoltre, anche il Comitato Etico, non essendo un organo incluso nella nostra legislazione o richiesto dagli organismi di controllo come Consob, Banca d’Italia o Borsa Italiana, non ha poteri diretti ma può agire solo attraverso il Consiglio di Amministrazione oppure per mezzo dei competenti organi aziendali nel caso in cui le segnalazioni richiedano l’esercizio del potere disciplinare. Il Comitato Etico è un organo de facto molto limitato nei suoi poteri diretti, ma con la propria presenza e relazione con gli altri organi può agire come promotore dei principi definiti nel Codice Etico e come agente “morale”.

2.2 Il decreto legislativo 231/2001 Il decreto 231 nasce a seguito della ratifica di alcuni trattati internazionali tra i quali:

Convenzione sulla tutela finanziaria delle Comunità Europee, firmata a Bruxelles il 26/07/1995;

Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione dei funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione Europea, firmata a Bruxelles il 26/05/1997;

Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, firmata a Parigi il 17/09/1997;

Legge di ratifica degli Atti internazionali n. 300 del 29/09/2000 (con la quale è stato delegato il Governo a disciplinare in materia di responsabilità amministrativa).

Il decreto si inserisce in una serie di riforme legislative che lo hanno preceduto e si sono susseguite, tutte tese a un maggior controllo delle attività d’impresa. Già nel 1998, il Testo Unico sull’intermediazione finanziaria (D.Lgs. 58/1998) aveva portato a termine una riforma in materia di controlli, rafforzando i requisiti d’indipendenza dei sindaci e imponendo alle società quotate la programmazione di un sistema di controllo interno. La riforma societaria del 2003 ha poi innovato la disciplina degli amministratori differenziando compiti e responsabilità degli amministratori con deleghe da quelli senza deleghe, ha imposto un controllo contabile anche per le società non quotate e inserito modelli di governo societario alternativi al sistema tradizionale in cui il controllo sulla gestione è affidato ad organi diversi dal Collegio Sindacale. Influente, infine, la legge sul risparmio (L. 262/2005) con cui sono stati rafforzati profili di indipendenza dei gestori e controllori ed è stata introdotta la nuova figura del dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili, nonché la normativa sul Codice di Autodisciplina delle Società

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Quotate (ultima modifica del 2006). L’obiettivo del decreto legislativo 231, attraverso l’introduzione di sistemi di monitoraggio dell’attività aziendale al fine di realizzare controlli preventivi sulla gestione, è quello di rendere responsabili gli enti degli illeciti (anche penali) che vengono commessi nel loro interesse o a loro vantaggio e sono resi possibili dalle carenze della struttura organizzativa e di controllo degli enti stessi. Da tenere presente che la disciplina sulla responsabilità amministrativa da reato è in costante ampliamento, tanto che nel corso degli anni le fattispecie di reato previste sono aumentate notevolmente, includendo anche casi molto eterogenei e non tutti collegabili direttamente e per tipicità all’attività d’impresa. La legge sulla responsabilità amministrativa degli enti ha una finalità preventivo-repressiva. Secondo il decreto, per la punibilità dell’ente, il reato deve essere commesso nell’esclusivo interesse dell’ente o a suo vantaggio5 da persone:

“che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso” (i così detti soggetti apicali);

“sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)” (soggetti sottoposti alla direzione o alla vigilanza dei soggetti apicali).

Il Modello Organizzativo e Gestionale (MOG) Il MOG è un sistema organico di elementi, azioni, strumenti e responsabilità i quali interagiscono al fine di assicurare che l’adempimento di una serie di procedure previste dal decreto 231/2001 consenta di escludere la responsabilità dell’ente. Una volta adottato (usualmente con delibera del Consiglio di Amministrazione), il MOG deve rispondere, tra le altre cose, alle seguenti esigenze (art. 6):

individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati;

prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire;

individuare modalità di gestione delle risorse

5 Giuridicamente, per “interesse” si intende la finalizzazione del

reato senza il conseguimento dell’utilità con un giudizio ex ante. Il

“vantaggio” fa riferimento alla concreta acquisizione di un’utilità

economica per l’ente e deve essere valutato con un giudizio ex post

(Corte di Cassazione 30 gennaio 2006).

finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;

prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli;

introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.

Gli elementi qualificanti del MOG disciplinati dalla legge stessa sono:

sistema di analisi del rischio: si realizza attraverso l’individuazione delle minacce e dei fattori di rischio, la valutazione ed attribuzione del livello di rischio, la classificazione delle attività aziendali in base al rischio potenziale;

piano di miglioramento: dalla mappatura del rischio si passa a individuare i piani di miglioramento del sistema di controllo interno (processi e procedure);

Organismo di Vigilanza (OdV): deve essere un organismo dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo;

sistema disciplinare: oltre al sistema disciplinare aziendale, si possono prevedere delle sanzioni specifiche per le violazioni del MOG;

flussi informativi verso l’OdV: l’Organismo di Vigilanza di tutte le società deve rendere conto all’organo di gestione.

Gli elementi qualificanti del MOG non indicati dalla legge ma dalle Linee Guida delle Associazione di categoria (Confindustria, Ania, ABI) sono i seguenti:

Codice Etico (o di Comportamento);

formazione del personale ed adeguata informazione: le modalità di comunicazione del modello devono essere tali da garantirne la piena pubblicità, al fine di assicurare che i destinatari siano a conoscenza sia delle procedure che devono seguire per adempiere correttamente alle proprio mansioni sia della possibilità di segnalare in caso di sospetta violazione del MOG;

adeguamento del Codice: il costante aumento delle ipotesi di reato pone il problema dell’aggiornamento dei modelli, compito affidato all’Organismo di Vigilanza.

L’Organismo di Vigilanza (OdV) L’Organismo di Vigilanza, disciplinato dall’art. 6 del decreto 231/2001, è dotato di poteri autonomi e ha il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei Modelli Organizzativi e Gestionali, nonché di curare il loro aggiornamento. Secondo il Tribunale di Milano (ordinanza del 2004), un OdV efficiente dovrebbe essere dotato di

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indipendenza, professionalità (con la presenza di almeno un esperto legale) ed autonomia(i componenti dovrebbero avere specifiche capacità professionali in tema di attività ispettive e di consulenza). Le Linee Guida di Confindustria specificano che requisiti ulteriori di professionalità sono previsti per i preposti alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, i quali dovrebbero cooperare con l’OdV per consentirgli di esercitare efficacemente le sue funzioni. Il decreto non fornisce alcuna indicazione in ordine alla composizione dell’Organo, perciò sono da considerare validi i primi orientamenti della dottrina, della giurisprudenza e delle associazioni di categoria, secondo cui l’OdV deve essere interno all’azienda (anche se possono far parte soggetti esterni), può avere una composizione collegiale (per le società di capitale, vista la delicata funzione, non dovrebbe coincidere con un organo sociale) e, secondo le Linee Guida di Confindustria, può coincidere con la funzione di Internal Audit. Il Tribunale di Roma (Ordinanza del 2003) ritiene che i membri dell’OdV non dovrebbero appartenere agli organi sociali poiché, se l’OdV dovesse partecipare alle scelte in ordine all’attività dell’ente, potrebbe esserne pregiudicata l’obiettività di giudizio al momento delle verifiche di azioni che avrebbe contribuito a rendere operative. Nelle società di piccole dimensioni, la legge prevede che i compiti dell’Organismo di Vigilanza possano essere svolti direttamente dall’organo dirigente (art. 6, comma 4). L’OdV deve essere libero di accedere a tutte le informazioni rilevanti per l’esercizio delle sue funzioni ed è l’organo in grado di recepire segnalazioni di malfunzionamenti del modello. È lo stesso MOG, del resto, che prevede lo scambio delle informazioni rilevanti per le rispettive funzione tra OdV, Internal Audit, preposti al controllo interno e revisore contabile. L’OdV avrà l’obbligo di riferire periodicamente al Consiglio d’Amministrazione e al Collegio Sindacale sull’attività svolta e, di volta in volta, in caso di violazioni delle procedure contenute nel modello. Le Linee Guida di Confindustria, in tal senso, suggeriscono di porre l’OdV in posizione gerarchica elevata, prevedendo il riporto solo ai vertici societari e non attribuendogli alcun compito operativo. Citando testualmente le Linee Guida di Confindustria: “La posizione dell’Odv nell’ambito dell’ente deve garantire l’autonomia dell’iniziativa di controllo da ogni forma d’interferenza e/o di condizionamento da parte di qualunque componente dell’ente (e in particolare dell’organo dirigente). Tali requisiti sembrano assicurati dall’inserimento dell’Organismo in

esame come unità di staff in una posizione gerarchica la più elevata possibile e prevedendo il ‘riporto’ al massimo Vertice operativo aziendale ovvero al Consiglio di Amministrazione nel suo complesso.” Sempre secondo Confindustria, al momento della formale adozione del Modello, l’Organo Dirigente dovrà disciplinare gli aspetti principali relativi al funzionamento dell’Organismo (es. modalità di nomina e revoca, durata in carica) e ai requisiti soggettivi dei suoi componenti, nonché dare comunicazione alla struttura dei compiti dell’Organismo e dei suoi poteri, prevedendo, in via eventuale, sanzioni nel caso in cui esso manchi di collaborazione. Anche i compiti e le competenze dell’OdV non sono dettagliati dal decreto, ma, tenuto pure conto delle Linee Guida di settore e della prassi, le sue attività possono essere così raggruppate:

verificare l’efficienza ed efficacia del MOG rispetto alla prevenzione e all’impedimento della commissione dei reati previsti dal D. Lgs. 231/2001;

controllare il rispetto delle procedure ed accertare gli eventuali scostamenti da esse;

effettuare periodici esami sul modello e proporre aggiornamenti;

segnalare agli organi dirigenti gli opportuni provvedimenti in caso di violazioni accertate dal modello;

informare periodicamente gli organi dirigenti e di controllo sul tema della legge 231.

Il Codice Etico, il D. Lgs.vo 231 e le Linee Guida delle associazioni di categoria L’analisi intendeva soffermarsi sull’applicazione dei Codici Etici d’impresa in Italia, al fine di approfondire la relazione tra governance e responsabilità sociale, intesa come una serie di azioni che vanno, per sua definizione, oltre la legge. A seguito di un primo esame dei Codici Etici esistenti, abbiamo rilevato che si era creata qualche confusione tra l’adozione di strumenti volontari di promozione di valori e principi etici di responsabilità sociale e strumenti proposti da una prima interpretazione del decreto legislativo 231, pertanto richiesti dalla legge. In realtà, come si vedrà dalla ricerca, la maggior parte dei Codici Etici sono stati introdotti come strumenti di compliance del decreto legislativo 231 e, dunque, non necessariamente con la volontà di promuovere una cultura della Responsabilità Sociale d’Impegna intesa come una serie di impegni che vanno oltre la legge. Il decreto legislativo 231 all’art. 3 fa riferimento all’adozione di un Codice di Comportamento con il quale si intende “un insieme di regole che definiscono

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le responsabilità ed i comportamenti per individui o organizzazioni (come per esempio i codici deontologici o i codici che garantiscono la correttezza nello svolgimento degli affari)”. Al contrario, nelle Linee Guida di Confindustria relative all’adeguamento al decreto legislativo 231, si propone l’adozione, come se fossero la stessa cosa, di un Codice Etico o di un Codice di Comportamento, promuovendo questo strumento come uno degli elementi qualificanti del Modello Organizzativo e Gestionale (MOG). Le Linee Guida di Confindustria affermano infatti che: “L’adozione di principi etici rilevanti ai fini della prevenzione dei reati ex D. Lgs. 231/2001 costituisce un elemento essenziale del sistema di controllo preventivo. Tali principi possono essere inseriti in un Codice Etico (o Codice di Comportamento).” Confindustria, inoltre, indica quello che potrebbe essere considerato un contenuto minimo del Codice in relazione alla prevenzione dei reati ex D. Lgs. 231/2001 così schematizzabile:

pieno rispetto delle leggi e dei regolamenti vigenti in tutti i paesi in cui l’impresa opera;

corretta registrazione, autorizzazione, verifica, legittimazione, congruità e coerenza di operazioni e transazioni;

dettagli in ordine ai rapporti con gli interlocutori dell’ente (pubblica amministrazione, pubblici dipendenti, interlocutori commerciali privati).

Anche nelle Linee Guida emanate da Ania risulta opportuno che l’ente sia dotato di Codice Etico (in ottemperanza a circolari dell’Isvap 366/D e 577/D) al fine di “promuovere all’interno delle imprese la correttezza operativa ed il rispetto dell’integrità e dei valori etici da parte di tutto il personale e di prevenire condotte devianti di cui l’impresa può essere chiamata a rispondere ai sensi del D. Lgs. 231/2001”. Queste interpretazioni rischiano, però, di creare confusione poiché all’interno del MOG il Codice (di Condotta o Etico) è rilevante non come strumento di responsabilità sociale tout court, ma in quanto influenza e determina delle procedure che si inseriscono all’interno del Modello e, perciò, saranno controllate dall’Organismo di Vigilanza con un approccio meramente legale e di controllo di conformità, anziché con un interesse etico o di responsabilità sociale che spetterebbe invece al Comitato Etico. Considerare il Codice di Condotta come un Codice Etico e, pertanto, equiparare uno strumento proposto per legge a uno che risponde unicamente a un processo di autoregolamentazione societaria, rischia di far coincidere la correttezza negli affari con la Responsabilità Sociale d’Impresa e di abbinare il rispetto della legge a un comportamento socialmente responsabile.

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3. La ricerca: analisi quantitativa e qualitativa

3.1 L’analisi quantitativa 3.1.1 La metodologia L’analisi quantitativa è stata realizzata selezionando un campione di 96 imprese che a settembre 2008 avevano adottato un proprio Codice Etico. Ai fini della ricerca, sono state analizzate tutte le informazioni di dominio pubblico accessibili dai siti internet delle suddette imprese e, in alcuni casi, tali informazioni sono state approfondite acquisendo ulteriori documenti richiesti per telefono. La ricerca dei dati su cui si basa l’analisi è stata effettuata tra i mesi di aprile e settembre 2008. Data la rilevanza della dimensione campionaria e il criterio di selezione sostanzialmente casuale delle imprese analizzate, la significatività dei risultati, dal punto di vista statistico, può essere ritenuta sufficientemente adeguata con errori campionari complessivamente inferiori al 10%. L’analisi condotta sui dati raccolti è stata suddivisa in quattro aree tematiche:

profilo del campione delle aziende selezionate;

caratteristiche generali dei Codici Etici analizzati (tipologia, anno di entrata in vigore ed eventuali aggiornamenti, analisi dei contenuti rispetto al D. Lgs. 231/2001);

analisi degli Organi garanti che si occupano della verifica e dell’applicazione del Codice Etico (classificazione, analisi delle tipologie di governance aziendale, profilo e ruolo dei componenti, nomina, compiti);

studio delle procedure di segnalazione e verifica a supporto dell’attuazione del Codice Etico (soggetti che possono segnalare, chi procede alla verifica delle segnalazioni pervenute, modalità e tipi di segnalazioni accettate).

3.1.2 L’analisi dei dati 3.1.2.1 Profilo del campione di aziende selezionate Il campione delle 96 aziende è stato individuato a partire da una ricerca dei soggetti che pubblicavano il proprio Codice Etico su internet. Partendo dal presupposto che ormai la quasi totalità delle imprese oltre una certa dimensione ha un proprio sito web, il procedimento di ricerca seguito potrebbe essere sostanzialmente paragonato alla selezione di un campione casuale di aziende tra la popolazione complessiva delle imprese che si sono dotate di un Codice Etico. Ciò garantisce, quindi, un sufficiente

livello di attendibilità dei risultati. Il profilo del campione è stato analizzato a posteriori sulla base di alcune caratteristiche generali: la forma giuridica, il settore di attività e la quotazione in borsa. Per quanto riguarda la forma giuridica, il campione è composto principalmente da società di capitale (83,3%) – tutte società per azioni – seguite da cooperative (10,4%), consorzi (2,1%) e organizzazioni registrate con altre forme giuridiche (4,2% associazioni e fondazioni).

Considerando invece i settori di attività, le aziende del campione risultano più numerose nei servizi (60,4%) rispetto a quelle di produzione (39,6%). In particolare, tra i settori dei servizi spiccano le banche/assicurazioni (17,7%), le società di servizi energetici e ambientali (14,6%) e le aziende del terziario (14,6%), mentre per l’industria si sottolinea l’incidenza dei settori della metalmeccanica (9,4%), dell’elettronica (7,3%) e delle costruzioni (7,3%). Il 59,4% delle aziende selezionate è quotata in borsa.

3.1.2.2 Caratteristiche generali del Codice Etico Nel corso dell’analisi, come già sottolineato nel paragrafo 1.3, sono stati considerati sia i Codici Etici sia i Codici di Comportamento adottati dalle imprese, assumendoli come equivalenti. Per circa un quarto dei Codici analizzati non si è riusciti ad ottenere l’anno di entrata in vigore del documento, mentre il 25% delle aziende ha adottato il Codice Etico solo negli ultimi 2 anni, il 43% negli ultimi 3-6 anni (dal 2002 al 2005) e appena il 6% delle imprese da 7 anni o più.

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Si evidenzia, inoltre, che di tutte le 96 aziende analizzate solo 17 segnalano esplicitamente un aggiornamento del Codice Etico (dal 2003 ad oggi). Si è poi proceduto ad analizzare i vari Codici Etici rispetto al D. Lgs. 231/2001, ossia si è voluto evidenziare quanti Codici Etici rispondevano de facto alla 231, facendone espressamente menzione, e quanti invece erano espressione di una strategia di

Responsabilità Sociale d’Impresa che andava ben oltre le richieste del decreto. Tra questi ultimi si è distinto tra i Codici che non facevano espressamente riferimento al decreto (presumibilmente perché redatti prima della sua approvazione o perché prevedevano un altro Codice che rispondesse solo ai dettami di legge) e quelli che lo menzionavano, avendo perciò scelto di adottare un Codice che rispondesse contemporaneamente alle richieste di legge e alle strategie di Responsabilità Sociale d’Impresa. I risultati indicano che:

il 21% dei Codici Etici analizzati presenta contenuti che vanno oltre a quanto previsto dalla 231, senza menzionarla;

il 47% dei Codici Etici riporta contenuti che vanno oltre, facendo però espliciti riferimenti alla 231 e/o al MOG;

il 28% dei Codici Etici rispondono a quanto previsto dal decreto;

il 4% dei Codici Etici non fa alcun riferimento al decreto né va oltre a quanto da esso previsto.

Focalizzando l’attenzione sul periodo di aggiornamento, è interessante osservare come i Codici Etici il cui ultimo rinnovo risale al 2001 o agli anni precedenti – ovvero prima dell’entrata in vigore della 231 – superino quanto previsto dal decreto nella maggioranza dei casi (67%), mentre dal 2002 i Codici Etici tendono quasi sempre a riferirsi in modo esplicito alla 231, anche quando contengono principi che vanno oltre quelli previsti dal decreto (40-50% dei casi). Un ulteriore aspetto da sottolineare riguarda l’analisi per macrosettore, la quale evidenzia come le aziende di servizi tendano ad adottare Codici Etici che vanno oltre a quanto previsto dal decreto, molto più spesso rispetto alle imprese di produzione che sono, invece, prevalentemente orientate al semplice adeguamento alla normativa.

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Per quanto riguarda l’analisi dei contenuti dei Codici Etici rispetto alla tipologia delle aziende, la quota di società di capitali i cui Codici Etici vanno oltre la 231 senza farvi riferimento esplicito è pari al 19,6% per le quotate e al 16,7% per le non quotate, dunque, decisamente inferiore rispetto al 30% riscontrato per le cooperative. Viceversa, tra le società di capitali è molto elevata l’incidenza dei Codici Etici che vanno oltre al decreto facendovi riferimento esplicito (48,2% per le quotate e 54,2% per le non quotate), laddove per le cooperative tale quota diminuisce al 30%. Infine, si evidenzia che la quota di imprese i cui Codici Etici rispondono semplicemente alla 231, senza andare oltre, risulta più elevata tra società di capitali quotate (30,4%) e cooperative (30%), mentre per le società di capitali non quotate diminuisce al 20,8%.

In sintesi, la proporzione di Codici Etici i cui contenuti vanno oltre a quanto previsto dal decreto legislativo 231/2001 risulta nel complesso prevalente per tutti i tipi di imprese, quello che distingue le società di capitali - soprattutto quelle quotate in borsa - dalle cooperative è la maggiore tendenza delle prime a fare in ogni caso esplicito riferimento al decreto. Nel confronto tra società quotate e non quotate emerge, inoltre, come tra le prime siano relativamente più diffusi i Codici Etici che rispondono semplicemente alla 231 (30,4%) rispetto alle seconde (20,8%).

3.1.2.3 Gli Organismi garanti del Codice Etico La ricerca ha evidenziato una grande varietà di Organi e Figure aziendali garanti del Codice Etico, ovvero preposte alla sua verifica e attuazione, sintomo di un contesto italiano in cui non esistono ancora modelli di riferimento prevalenti o condivisi. Il grafico proposto nella tabella 11 le diverse tipologie garanti del Codice Etico riscontrate nei 96 casi aziendali analizzati. A fronte dell’estrema frammentazione, si è ritenuto opportuno cercare di proporre un criterio di classificazione in base all’Organo a cui viene affidato il ruolo di Garante del Codice, che ha portato all’individuazione di 3 tipologie di modello di governance del Codice Etico:

Modello classico: l’incarico è affidato a un Organo che svolge già altre funzioni all’interno dell’impresa (es. Comitato per il Controllo Interno, Responsabili Business Unit, Amministratori, Auditing, Legali societari);

Modello 231: il compito è assegnato all’Organo proposto dalla legge (Organismo di Vigilanza o Compliance Officer);

Modello CSR (Corporate Social Responsibility)6: l’impresa pone particolare attenzione al tema della responsabilità sociale, tanto che a garanzia del Codice Etico è istituito un organo ad hoc (Comitato/Commissione Etica).

Analizzando le tipologie di governance degli Organi/Figure istituiti a garanzia dell’applicazione del Codice Etico (Tab. 12), si evidenzia come le società di capitali quotate tendano a istituire prevalentemente governance di tipo 231 (53,6% dei casi), mentre per le società di capitali non quotate e le cooperative aumentano in proporzione gli Organi con governance di tipo CSR, presenti rispettivamente nel 37,5% e nel 40% dei casi, anche se le governance 231 continuano comunque ad essere prevalenti. I dati mostrano, pertanto, come soprattutto le società di capitali quotate si siano allineate rispetto alle richieste

6 Nella presente ricerca, come da prassi, si utilizza il termine

Responsabilità Sociale d’Impresa per esteso mentre come acronimo

si preferisce utilizzare quello che fa riferimento al termine inglese

Corporate Social Responsibility (CSR).

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contenute nel decreto. Per quasi un terzo delle imprese selezionate non è stato possibile reperire il numero dei componenti dell’Organo garante. Nella maggioranza dei casi, comunque, il numero varia da 1 a 3 componenti (39%) e solo nell’11% dei casi è superiore alle 5 unità.

Un altro aspetto rilevante concerne il profilo dei componenti dell’Organo garante del Codice Etico. Le figure più diffuse sono i “responsabili di funzioni e/o business unit interne”, vale a dire soggetti il cui incarico di componente dell’Organo garante si va ad aggiungere ad altri ruoli operativi interni all’azienda.

Si tratta spesso dei responsabili della funzione di audit interna o dell’area risorse umane. La presenza di “esperti esterni” è quasi sempre circoscritta a professionisti in materie legali e/o societarie, seguiti da amministratori esterni e indipendenti. Più in generale, l’incidenza dei componenti interni negli Organi garanti del Codice Etico risulta fortemente predominante rispetto a quella degli esterni. Anche per quanto riguarda l’identificazione degli organismi societari che nominano l’Organo garante del Codice Etico e a cui esso deve rispondere, le informazioni desumibili dai Codice Etici non sempre sono esaustive. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’Organo garante è nominato dal Consiglio di Amministrazione (CdA) e ad esso solitamente risponde. Tra gli altri organi societari a cui l’Organo garante del Codice Etico può dover rendere conto – per esempio inviando la propria relazione d’attività – si segnala:

Organismo di Vigilanza;

Comitato per il Controllo Interno;

Organo di Controllo Gestionale;

Direzione Pianificazione e Controllo;

Comitato Esecutivo;

Assemblea dei Soci;

Collegio Sindacale;

Amministratore Delegato;

Collegio Revisori. Per la quasi totalità delle società analizzate, le funzioni e i poteri dell’Organo garante del Codice Etico sono: consultivi, ispettivi, di ricerca, di indagine e controllo. Quando coincide con l’Organismo di Vigilanza, l’Organo garante si adopera per soddisfare tutti i compiti previsti dal decreto.

3.1.2.4 Procedure di segnalazione e verifica a supporto dell’attuazione del Codice Etico L’esistenza di procedure aziendali in base a cui possano essere segnalati i casi di potenziale violazione del Codice Etico e che indichino come e

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da chi saranno verificate e gestite tali segnalazioni, costituisce un ambito di analisi importante al fine di poter discriminare tra Codici Etici la cui applicazione rappresenta un intervento sostanziale oppure un fatto di natura prevalentemente formale. Il primo aspetto analizzato riguarda l’identificazione degli Stakeholder7 che possono effettuare le segnalazioni di possibile violazione dei Codici Etici (Tab. 14). Sebbene anche su questo aspetto non siano state fornite indicazioni esplicite in circa un terzo dei Codici Etici analizzati, nella maggioranza dei casi (50%) tutti gli Stakeholder possono farlo. Si sono, inoltre, riscontrati casi meno frequenti in cui le procedure di segnalazione risultano espressamente rivolte a categorie specifiche di Stakeholder, per esempio il “personale” (7%), i “dipendenti, amministratori, sindaci, partner, fornitori e collaboratori” (6%). Nella maggioranza dei casi, i soggetti che ricevono le segnalazioni di possibile violazione del Codice Etico coincidono con gli stessi Organi garanti, a cui si aggiungono eventualmente anche i responsabili/referenti gerarchici o le funzioni di audit/controllo interno. Analizzando i canali tramite cui è possibile inviare le segnalazioni delle potenziali violazioni del Codice Etico (Tab. 15), nella maggior parte dei casi (55%) si riscontra che essi non vengono esplicitamente indicati. Nei casi in cui le modalità di invio delle segnalazioni di violazione siano state specificate nei Codici Etici, prevale la possibilità di segnalare sia in forma scritta sia tramite e-mail (36%), mentre per l’8% dei casi viene indicata solo la prima opzione. Va comunque sottolineato che, pure laddove sono accettate solo segnalazioni firmate, in genere viene specificato che i segnalanti verranno tutelati da possibili atti di ritorsione e/o discriminazione. Un altro aspetto correlato al precedente riguarda le tipologie di segnalazioni accettate. La casistica riscontrata prevede sia casi in cui è necessario che le segnalazioni di possibili violazioni debbano essere firmate (26%, di cui per il 9% è necessaria allegare un’adeguata documentazione) sia situazioni nelle quali sono consentite anche segnalazioni anonime (19%, di cui un 6% richiede un’adeguata documentazione).

7 Gli Stakeholder sono: soci/azionisti/proprietà, dirigenti,

dipendenti, collaboratori, consulenti esterni, agenti/procuratori,

clienti, fornitori, sindacati, settore non-profit, ambiente,

finanziatori, comunità.

In ultima analisi, i Bilanci Sociali o di Sostenibilità 2007 In cui è stata riscontrata qualche informazione in merito al numero di segnalazioni annue pervenute sono appena 12 (che corrisponde al 12,5% del campione), in 4 casi viene indicata la ricezione di almeno una segnalazione, mentre nei restanti 8 “nessuna segnalazione”. Del tutto trascurabili sono, infine, i casi (solamente 2) in cui vengono fornite ulteriori informazioni in merito al processo di valutazione delle segnalazioni arrivate durante l’anno e all’esito delle stesse, riportando il numero delle segnalazioni respinte, risolte o ancora in fase istruttoria.

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3.2 L’analisi qualitativa

3.2.1 La metodologia L’analisi qualitativa è stata svolta nei mesi da giugno a settembre 2008, realizzando 20 interviste faccia a faccia, telefoniche e via email con altrettanti componenti degli Organi garanti preposti alla verifica e all’applicazione dei Codici Etici nelle rispettive aziende, ovvero componenti di Organismi di Vigilanza, dei Comitati per il Controllo Interno, dei Comitati Etici o responsabili della Funzione di Internal Audit. La scelta del campione delle 20 aziende, selezionate dal gruppo delle 96 analizzate nella ricerca quantitativa, è avvenuta all’insegna di obiettivi di rappresentatività per settori di attività economica, contenuti del Codice Etico e tipologia di governance. I criteri utilizzati per effettuare la selezione delle 20 aziende hanno, dunque, permesso di poter garantire un buon grado di affidabilità dei risultati ottenuti rispetto ai vari aspetti indagati e hanno consentito, al contempo, di individuare alcuni casi emblematici di particolare interesse. Ogni intervista è stata realizzata seguendo uno schema comune, sottoponendo una serie di domande aperte che hanno garantito massima libertà d’espressione. Le interviste hanno consentito di approfondire e dettagliare meglio i vari argomenti considerati, anche alla luce delle carenze informative riscontrate effettuando le ricerche via internet e analizzando i Codici Etici aziendali. Il questionario è stato suddiviso in cinque sezioni tematiche:

informazioni aziendali (forma giuridica, numero di dipendenti, ruolo dell’intervistato, ecc.);

ruolo, funzione ed impatto del Codice Etico (motivazioni che hanno spinto l’azienda a dotarsi del Codice Etico, rapporti Codice Etico/MOG/231; percorsi di informazione e formazione relativi al Codice Etico, impatto del Codice Etico sulla governance);

approfondimenti sull’Organo garante;

sistema di segnalazione;

punti critici e buone prassi. 3.2.2 L’analisi dei risultati 3.2.2.1 Il campione delle aziende e gli intervistati Le 20 aziende coinvolte nell’analisi qualitativa sono 13 Società di Capitali, 6 Cooperative e 1 Consorzio. Si tratta di imprese che hanno tutte dimensioni rilevanti: la maggioranza (11) hanno più di 1.000 dipendenti. Gli intervistati ricoprono i ruoli definiti dalla seguente tabella:

3.2.2.2 Ruolo, funzione e impatto del Codice Etico Il primo importante aspetto analizzato durante le interviste riguarda le motivazioni che hanno spinto le aziende a dotarsi di un Codice Etico. I motivi dichiarati dagli intervistati presentano una certa variabilità che deriva dalle singole storie aziendali, tuttavia è stato possibile individuare alcune tipologie prevalenti:

in 10 casi il principale motivo che ha portato all’adozione del Codice Etico è riconducibile a una volontà di “cristallizzare valori e principi già esistenti”, “condividere valori e mission dell’azienda con collaboratori, clienti ed altri Stakeholder” oppure “si tratta di valori che sono sempre esistiti in azienda, ma che si è sentito l’esigenza di consolidare”;

in 5 casi la motivazione addotta è stata quella di

Tipologia e ruolo dei referenti aziendali intervistati

Totale

Referente dell’Organismo di Vigilanza 3

Responsabile dell’Audit interna

3

Responsabile dell’Audit interna ed Ethics Officer

2

Responsabile Legale societario

2

Presidente del Comitato Etico

2

Membro del Comitato Etico

1

Responsabile dell’Unità CSR e Coordinatore Ethics Officer

1

Responsabile Compliance

1

Esperto di Etica aziendale

1

Direttore delle Risorse Umane

1

Responsabile del Bilancio di Sostenibilità

1

Responsabile di Comunicazione e Corporate Identity

1

Vice Presidente

1

Totale aziende intervistate

20

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voler “adeguare l’organizzazione dell’azienda in seguito all’entrata in vigore del D. Lgs. 231/01” oppure “Il nostro codice etico ha rappresentato la prima fase per arrivare alla completa applicazione delle disposizioni del D. Lgs. 231/2001”.

Nel corso delle interviste si è voluto indagare su quali siano effettivamente i soggetti che le aziende considerano come propri Stakeholder di riferimento. In particolare si sottolinea come la maggior parte delle imprese tendano a riconoscere come propri Stakeholder soprattutto i portatori di interesse primari, ossia coloro che influenzano e/o sono influenzati direttamente dalla performance economica aziendale (dirigenti, dipendenti, soci/azionisti, collaboratori, fornitori e clienti), mentre è decisamente inferiore la quota di intervistati che hanno indicato anche gli Stakeholder secondari (o indiretti) come i sindacati, comunità, ambiente e settore no-profit. Per quanto riguarda, invece, le attività di informazione e formazione riferibili al Codice Etico, 15 aziende su 20 (75%) hanno dichiarato di avere già avviato un percorso specifico di comunicazione e formazione, mentre negli altri 5 casi (25%) non vi è ancora stata alcuna attività in questo senso. Tre intervistati hanno comunque dichiarato che tale attività è in fase di attuazione. In linea di massima si sono potuti osservare due diversi approcci: il primo in cui l’azienda punta molto sulla formazione ritenendola un doveroso investimento per promuovere la cultura della responsabilità sociale, il secondo nel quale il Codice Etico viene vissuto semplicemente come una “nota aziendale” sulla quale “non è opportuno perdere tempo e denaro”. La formazione si rivolge in genere a figure interne all’azienda come dirigenti, soci/azionisti/proprietari, dipendenti e collaboratori. Solo in un caso sono stati menzionati i sindacati e la comunità. Per i neoassunti è solitamente prevista la consegna del Codice Etico alla stipula del contratto (talvolta viene fatto anche firmare un documento per l’avvenuta consegna). Gli eventuali aggiornamenti/variazioni possono essere inseriti in opuscoli allegati alla busta paga o in alcuni casi spediti via posta. Qualche società fa sottoscrivere una dichiarazione d’accettazione delle clausole contrattuali che riguardano i principi in esso contenuti, specificando il dovere di segnalare ogni volta sia necessario (anche se tale sottoscrizione non libera l’azienda dalla responsabilità del fatto commesso da un proprio dipendente). L’azienda che investe molto sulla formazione di solito prepara corsi differenziati a seconda degli Stakeholder

a cui si riferisce e procede con processi a cascata. Nel complesso la valutazione dell’impatto del Codice Etico sulla governance è stata ritenuta “positiva” dalla maggioranza degli intervistati (14 imprese su 20), in 3 casi addirittura molto positiva. In particolare uno degli intervistati ha voluto sottolineare come l’impatto sia stato in effetti “estremamente positivo a livello direzionale, per i consulenti esterni ed i Sindaci interni. Per il resto pressoché nullo…..ha stimolato il confronto tra management, capi di II livello e manovalanza..i dipendenti si riconoscono nel Codice, strumento vissuto più come un’opportunità che un vincolo”. All’estremo opposto, non deve comunque passare inosservato come per quasi 1 azienda su 3 l’impatto del Codice Etico sia stato valutato “minimo” o “irrilevante” (2 casi). In specifico, coloro che hanno valutato l’impatto “irrilevante” hanno giustificato tale affermazione sostenendo che il Codice Etico ha in effetti cristallizzato valori/principi già esistenti e fatti propri dalla compagine aziendale, per cui il “documento non ha suscitato grande interesse e non ha cambiato la vita di nessuno” . Altri ritengono il Codice Etico niente più che uno strumento per risolvere i problemi tra dipendenti e dirigenti. Un intervistato ha chiarito che “dalle indagini di clima che si susseguono in azienda è emersa la necessità di coerenza tra quanto la classe dirigente enuncia e le azioni che vengono in concreto realizzate. È emersa la necessità di coinvolgere tutti dando spazio a forme di responsabilità individuali nonché il timore di ritorsioni a causa della segnalazione. In Italia non piacciono coloro che possono essere etichettati come ‘spioni’, per questo l’impatto del Codice nella governance è stato così poco importante”.

3.2.2.3 Approfondimenti sull’Organo garante del Codice Etico Attraverso le interviste realizzate si sono voluti approfondire alcuni argomenti per capire se le attività svolte dall’Organo garante del Codice Etico vengano in qualche modo documentate, e per valutare se esse abbiano in effetti qualche tipo di impatto sui vertici aziendali e l’organizzazione interna. In particolare, il seguente grafico illustra la quota di Organi garanti del Codice Etico che rendicontano le proprie attività elaborando una relazione annua, incrociando inoltre i risultati anche rispetto ai contenuti del Codice Etico e al tipo di governance dell’Organo stesso. Nel complesso, risulta che gli Organi garanti del Codice Etico rendicontano la propria attività in un documento formale in 3 casi su 4, tuttavia, si nota come la propensione a redigere la relazione di attività aumenta all’86% nei casi in cui la governance dell’Organo sia di

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tipo CSR. Viceversa, quando la governance dell’Organo è di tipo classico, l’elaborazione della relazione di attività si riduce al 50% dei casi. La relazione d’attività dell’Organo garante del Codice Etico viene inviata al Consiglio di Amministrazione, prevedendo eventualmente un invio congiunto anche ad altri Organi, per esempio, il Collegio Sindacale, il Comitato per il Controllo Interno, il Consiglio di Gestione, il Comitato Esecutivo e, in alcuni casi, anche i settori aziendali dove si sono verificate segnalazioni di violazione.

Per ciò che concerne il numero di volte in cui i membri dell’Organo garante del Codice Etico si riuniscono ogni anno, dalle interviste è emerso che in 8 casi su 20 non vengono superate le 5 riunioni annue, in 5 casi il numero di riunioni è maggiore (solo in 1 caso si riscontra una riunione ogni mese), mentre negli ultimi 7 casi le riunioni avvengono “al bisogno oppure quando c’è l’occasione”, dunque senza alcuna pianificazione. L’ultimo aspetto approfondito nel corso delle interviste riguarda l’impatto che ha avuto il Codice Etico sulla governance aziendale e/o sull’organizzazione interna. La maggior parte degli intervistati ritiene che l’adozione del Codice Etico non abbia avuto alcun impatto sostanziale, mentre per circa il 35% degli intervistati si è trattato di un impatto valutato positivamente. Approfondendo, è emersa un’interessante chiave di lettura: le aziende che hanno valutato positivamente l’impatto dell’Organo garante del Codice Etico sulla governance aziendale e/o sull’organizzazione interna, sono state soprattutto quelle che hanno adottato il Codice Etico per un esclusivo adeguamento alla 231 (67%) con una governance dell’Organo garante di tipo 231. Citando testualmente, il MOG ha “migliorato la definizione di compiti, funzioni e responsabilità e contribuito al riesame delle deleghe ed al rafforzamento dei punti di controllo nelle procedure operative”, nonché “facilitato i flussi informativi e la misurazione di quanta fiducia venga riposta nel sistema aziendale”.

3.2.2.4 Il sistema di segnalazione, verifica ed attuazione Nel corso dell’analisi qualitativa si è appurato che il processo di verifica delle segnalazioni viene gestito, in linea di massima, dall’Organo garante del Codice Etico, con l’eventuale supporto della funzione di audit/controllo interno nelle fasi preliminari di indagine. Ai massimi organi della governance aziendale (Consiglio D’Amministrazione, Amministratore Delegato, Presidente, Direttore Generale) spetta comunque l’ultima parola in merito agli eventuali provvedimenti proposti dall’Organo garante del Codice Etico. Con le interviste qualitative si sono voluti approfondire ulteriori aspetti che riguardano le procedure di segnalazione e verifica, analizzando in particolare i criteri in base ai quali le segnalazioni sono giudicate fondate, il numero e l’esito delle segnalazioni pervenute, nonché i punti critici riscontrati nel Codice Etico. Per quanto riguarda i criteri utilizzati per valutare la fondatezza delle segnalazioni di possibile violazione del Codice Etico, essi sono risultati non codificati. I criteri di valutazione più diffusi si basano in generale su “riscontri possibilmente oggettivi” . Alcuni degli intervistati hanno espresso pareri discordanti in merito all’effettiva opportunità di declinare formalmente i tipi di sanzioni da far corrispondere ai vari casi di violazione del Codice Etico, poiché “l’etica non può essere ingabbiata in una legge e la sanzione sarebbe inutile” e del resto il Codice Etico è “uno strumento culturale e propositivo che deve essere considerato uno stimolo per la promozione culturale” e che “non deve prevedere sanzioni, ma un approccio costruttivo teso a sanare i problemi attraverso interventi formativi”. In genere, tutte le segnalazioni pervenute vengono archiviate e conservate, così come il giudizio di fondatezza e le attività svolte nella fase istruttoria. Inoltre, solitamente non si pubblicano gli esiti delle eventuali sanzioni applicate. Solo un intervistato ha segnalato che l’impresa aveva scelto di pubblicare sul Bilancio di Sostenibilità alcune informazioni generiche riguardanti un caso di denuncia. Per ciò che concerne il numero di segnalazioni di possibili violazioni del Codice Etico ricevute nell’anno 2007, la metà degli intervistati ha dichiarato che la propria azienda non ha ricevuto alcuna segnalazione, in 5 casi su 20 aziende (25%) sono pervenute fino a 10 segnalazioni, mentre in altre 4 aziende (20%) sono giunte più di 10 segnalazioni. Considerando le 9 aziende alle quali è pervenuta almeno una segnalazione si evidenzia, in particolare, che 8 casi si riferiscono ad aziende il cui Codice Etico

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va oltre a quanto previsto dalla 231 e che tutte le 9 aziende hanno dichiarato di avere provveduto alla verifica di ogni segnalazione pervenuta. Per quanto riguarda l’esito della verifica delle segnalazioni e l’emanazione delle eventuali sanzioni per quelle ritenute fondate, 2 delle 9 aziende hanno ritenuto fondate tutte le segnalazioni verificate, altre 2 aziende solo il 90% delle segnalazioni, 3 meno del 50% e, infine, 2 aziende hanno valutato infondate tutte le segnalazioni pervenute. In definitiva, risultano 7 su 9 le aziende che, in seguito alle verifiche, hanno considerato fondata almeno una delle segnalazioni pervenute. In 1 caso tale fondatezza si è tramutata nell’applicazione di una sanzione di licenziamento, avvenuto prima dell’attesa della conclusione del giudizio penale. In effetti, le aziende che decidono di procedere direttamente al licenziamento sono pochissime e solo in casi del tutto estremi, preferendo quasi sempre far giungere all’interessato un più discreto “invito ad andarsene”. Questo atteggiamento aziendale “soft” viene in genere preferito proprio in virtù della consapevolezza di non poter andare oltre le sanzioni disciplinari previste dalla legge e dai Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro. Un solo intervistato ha richiamato alla memoria un caso grave in cui era stata ventilata l’ipotesi di emissione di una lettera di censura ed espulsione per un socio dell’azienda, ipotesi che non è stata poi portata a termine. La maggior parte delle aziende concordano che gli interventi sul personale si limitano al semplice richiamo verbale. Le interviste effettuate hanno posto in risalto due tipologie di imprese a cui si possono riportare tutte le altre. La prima tipologia risponde alla filosofia “è meglio lavare i panni sporchi in famiglia” in cui le violazioni gravi portano alla richiesta di dimissioni, senza effettuare alcuna denuncia, e pertanto reintroducono nella società e nel circuito lavorativo persone che hanno commesso atti gravi senza alcun azione che porti a discredito o punisca tali comportamenti. La seconda tipologia, estremamente rara e di cui abbiamo trovato un solo caso eccellente, denuncia il reato anche presso l’autorità giudiziaria e, senza attenderne l’esito, licenzia il collaboratore correndo il rischio di vedersi impugnare il licenziamento di fronte al giudice del lavoro.

3.2.2.5. I punti critici e le buone prassi Secondo uno degli intervistati il Codice Etico è un “documento che sta vivendo un momento involutivo” e se inizialmente si è sentita l’esigenza di realizzare un codice molto dettagliato che non rappresentasse “una semplice dichiarazione di principi” ma fosse

“sufficiente per avere un minimo impatto aziendale”, oggi l’aver un codice troppo circostanziato rischia di “ingessare l’azienda e di rendere troppo rigide le procedure”. Alcuni intervistati hanno sottolineato che gli Organi Garanti del Codice Etico dovrebbero essere composti da membri esterni per garantire de facto indipendenza e libertà nella valutazione delle segnalazioni. Altri hanno affermato che c’è poca chiarezza sui ruoli di tali Organi e su quali comportamenti adottare poiché “manca una relazione interna semestrale legata al rispetto dei principi etici ed un regolamento interno che dettagli compiti e poteri dell’Organo che si occupa di Responsabilità Sociale”. Ci sono anche responsabili dell’attuazione del Codice Etico che non credono più molto nel Codice stesso e affermano che è solamente uno tra i tanti strumenti di marketing di cui l’azienda fa uso per promuovere la propria immagine aziendale “il Codice Etico è una moda, una spinta massmediatica alla luce degli ultimi imbarazzanti scandali societari. La Responsabilità Sociale d’Impresa è una possibile risposta ad alcune campagne mediatiche che contengono comunque quel po’ di sostanza che porta ad un buon risultato”. L’ultima questione posta agli intervistati verteva sulla capacità del Codice Etico di essere considerato uno strumento adeguato alla promozione della responsabilità sociale. Moltissime risposte sono state affermative, anche se con qualche precisazione: “è importante dare l’esempio nei comportamenti da seguire, essere corretti e meritocratici, questa è la vera cultura della responsabilità sociale”; “è importante come viene usato perché spesso è strumentalizzato a livello di strategie di vendite”; “va attuato, non deve essere considerato solo un formale adeguamento ad una previsione, neppure obbligatoria, di legge, ma al contrario, quale importante e concreto strumento da utilizzare per diffondere tra gli Stakeholder una vera cultura etica, ispiratrice dell’operatività”; “solo se lo si considera un punto di partenza senza il quale nessuna cultura aziendale avrebbe avuto il suo inizio. E’ necessario tradurlo in uno strumento vero e serio, usato soprattutto da coloro che ricoprono posizioni apicali affinché ne facciano un esempio. Non deve essere semplicemente un mezzo di comunicazione. Sono i modelli di governance a creare la cultura della responsabilità sociale, il codice ne è solo il punto di partenza”; “solo se i soggetti che ricoprono posizioni apicali non lo vivono come un dovere burocratico da compiere e danno il buon esempio (un po’ come viene vissuto il Codice della strada: una sorta di documento burocratico che contiene solo una lista di divieti)”;

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“serve come serve la Costituzione italiana e funge da collante con tutte le certificazioni aziendali”. Coloro che hanno risposto “no”, hanno dichiarato che per l’azienda il Codice Etico è uno strumento “indifferente” e che si tratta di una “scocciatura. C’è poco di interessante nelle segnalazioni e la soluzione viene cercata mettendo le persone a confronto, valutando la situazione, risolvendola pacificamente con le parole e magari con qualche sgridata”. Molto interessante la conclusione di un intervistato: “La sfida di ogni azienda è quella di rendere libere le persone di esprimere un’opinione, di non ottemperare ad un ordine che non ritengono giusto o lecito o legittimo”. Il Codice Etico è senz’altro uno strumento di promozione della responsabilità sociale, è quasi ovvio: “… è un po’ come chiedere se la democrazia è un buon sistema di governo, è sicuramente il migliore che ci sia! Individuare il discrimine tra valore del Codice Etico e l’attività di controllo aziendale è una vittoria per ogni azienda”. Riassumiamo alcune buone prassi aziendali tratte dalle interviste effettuate:

affiancare al Codice Etico un documento che dettagli i comportamenti da applicare attraverso esempi concreti e semplici, al fine di contribuire a chiarire gli stili aziendali richiesti;

allegare copia del Codice Etico al contratto di assunzione e far firmare una ricevuta di consegna (che non ha valore legale ma psicologico per il neoassunto);

allegare le modifiche e gli aggiornamenti apportati al Codice alla busta paga;

istituire delle regole chiare di risposta alle segnalazioni. Per esempio, in alcune imprese si dichiara che l’Organo ricevente le segnalazioni dovrà dare comunicazione di ricezione della segnalazione al segnalante entro le prime 48 ore e del risultato della prima indagine sulla fondatezza della segnalazione entro un tempo determinato (30-60 giorni). Dopo un ulteriore periodo di tempo (60-90 giorni), l’Organo deve aver deciso se archiviare la segnalazione o se procedere;

pubblicare la dichiarazione di censura verso alcuni comportamenti ritenuti inadeguati, in forma anonima, all’interno dell’azienda;

istituire una help-line;

attribuire al Comitato Etico non solo il ruolo di valutare unicamente le segnalazioni “negative” di scostamento dai principi enunciati nel Codice Etico ma anche una funzione propositiva su azioni di responsabilità sociale che l’azienda può adottare.

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4. Alcuni modelli di governance della Responsabilità Sociale d’Impresa

Il presente capitolo ha l’obiettivo di evidenziare differenti modalità di applicazione di modelli di governance attraverso la presentazione di 11 schemi elaborati sulla base delle informazioni acquisite durante la ricerca.

4.1 Modello Classico Esempio 1 = Modello Classico

In questo schema, l’impresa ha adottato un Modello di governance classica in cui degli amministratori non esecutivi, membri del Consiglio di Amministrazione, compongono il Comitato per il Controllo Interno. Esso prende decisioni in materia di violazioni del Codice Etico di significativa rilevanza segnalate dal Responsabile della funzione audit, organo monocratico che fa le veci dell’Organismo di Vigilanza. L’Internal Audit si occupa della raccolta delle segnalazioni verificandone la fondatezza, dell’analisi e della valutazione dei processi di controllo dei rischi, della diffusione e conoscenza del Codice e, inoltre, propone al Comitato per il Controllo Interno le modifiche e le integrazioni da apportare al Codice Etico.

4.2 Modello 231 Esempio 2 = Modello 231 Semplice Il Modello 231 Semplice aderisce in toto alle Linee Guida sul decreto legislativo 231/2001 delle Associazioni di Categoria. Tre membri del Consiglio di Amministrazione formano il Comitato per il Controllo interno, di cui due sono indipendenti e quest’ultimo deve relazionare la sua attività al Collegio Sindacale. Il Modello Organizzativo e Gestionale comprende il Codice Etico, la cui applicazione e verifica è di competenza dell’Organismo di Vigilanza. L’OdV è nominato dal CdA, è composto da 2 membri (di cui 1 esterno con funzioni di Presidente e l’altro interno nel ruolo di Responsabile Funzione Internal Auditing), e risponde unicamente al Comitato per il Controllo interno.

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Esempio 3 = Modello 231 OdV centrico

Apparentemente più complesso è il Modello di governance 231 OdV centrico nel quale tutto ruota attorno all’organismo definito dal Decreto che, nominato dal CdA, deve rendere conto a una molteplicità di organi del proprio operato. L’OdV è composto da 5 membri (2 esterni e 3 interni - un legale, un direttore del personale e l’Internal Audit) ed è parte del Modello Organizzativo e Gestionale. Del suo operato deve rispondere al Collegio Sindacale composto da 7 Sindaci, al Presidente del CdA, all’Amministratore Delegato e al Comitato per il Controllo Interno (composto da 4 membri indipendenti non esecutivi) che, a sua volta, deve relazionare al Collegio Sindacale.

Esempio 4 = Modello 231 COMPLESSO

Il Modello di governance 231 Complesso presenta una fitta rete di relazioni tra il Modello Organizzativo e Gestionale e gli altri organi della governance. Il Comitato per il Controllo Interno, formato da 3 consiglieri del CdA indipendenti, riceve la relazione annuale del Responsabile del Controllo Interno sull’applicazione del Modello di Organizzazione e Gestione adottato dalla Società (che include anche il Codice Etico e di Condotta) e valuta l’opportunità di proporre al Consiglio eventuali aggiornamenti e/o modifiche al MOG, nonché alle sue modalità di applicazione. L’Organismo di Vigilanza svolge attività di controllo sul funzionamento e sull’osservanza del Modello di Organizzazione e Gestione adottato dalla Società. E’ composto da 3 membri: un Amministratore indipendente, il Responsabile della Direzione Affari Legali e Societari ed il Preposto al Controllo Interno. L’OdV è nominato dal Consiglio di Amministrazione (CdA) e a questo risponde. Un membro del Comitato per il Controllo Interno fa parte anche dell’Organismo di Vigilanza. Il Preposto al Controllo Interno riveste anche la qualifica di Responsabile di Internal Audit, è nominato dal CdA, risponde del suo operato all’Amministratore Delegato, al Comitato per il Controllo Interno ed al Collegio Sindacale.

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Esempio 5 = Modello 231+CSR NON INTEGRATO

Nell’impresa analizzata, il Modello di governance 231+CSR non integrato prevede la presenza di un Codice Etico che risponde alla 231, controllato dall’OdV, e un CdA che ha costituito un Comitato per la Responsabilità Sociale, composto da 5 membri di cui 2 indipendenti, che si occupa di promuovere la Responsabilità Sociale d’Impresa e della redazione del Bilancio Sociale, ma non ha nessun ruolo legato all’applicazione del Codice Etico 231. Il Comitato per il Controllo Interno, composto da 4 membri di cui 3 indipendenti, è legato da un componente all’Organismo di Vigilanza, formato a sua volta da 3 membri interni (Direttore Affari Legali Pianificazioni, il Responsabile Audit e il Presidente del Comitato per il Controllo Interno, membro non esecutivo dell’OdV). Il Presidente del Comitato per il Controllo interno (consigliere del CdA) è anche membro non esecutivo dell’Organismo di Vigilanza che viene nominato dal Consiglio di Amministrazione e deve rispondere del suo lavoro al Comitato per il Controllo Interno ed al Collegio Sindacale.

4.3 Modello CSR Esempio 6 = Modello CSR+231

Quest’ultimo grafico mostra il Modello di governance CSR+231 ove sono presenti: il Codice Etico, che contiene principi di Responsabilità Sociale d’Impresa e criteri di comportamento per evitare che si verifichino reati sanzionati dal decreto, inserito all’interno del Modello Organizzativo e Gestionale (MOG), il Comitato Etico e l’Organismo di Vigilanza. Mentre l’Organismo di Vigilanza si occupa di verificare l’efficacia ed il corretto funzionamento della 231, il Comitato Etico ha il compito di monitorare la diffusione e l’attuazione del Codice, nonché di ricevere le segnalazioni. Il CdA nomina sia l’OdV, composto da 3 soggetti indipendenti (di cui 1 esterno e 2 interni) sia il Comitato Etico, formato da 3 unità (di cui 2 indipendenti non esecutivi).

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Esempio 7 = Modello CSR

In questo modello, l’Assemblea dei Soci elegge il Controllo Contabile, il Collegio Sindacale, il Consiglio di Amministrazione e la Commissione Valori e Regole (formata da 9 membri di cui un Presidente esterno, 5 rappresentanti dei soci e 3 rappresentanti di interessi collettivi esterni). La Commissione Valori e Regole redige una relazione annuale sulla Responsabilità Etica e Sociale (inserita nel Bilancio di Sostenibilità), verifica la rispondenza dei comportamenti con i principi della Carta dei Valori e del Codice di Responsabilità Etica e Sociale, controlla l’attuazione della democrazia elettiva nei vari organi sociali e valuta l’impegno operativo delle cariche assunte da ciascun amministratore nel CdA. L’Organismo di Vigilanza invece è l’organo deputato al controllo del Modello Organizzativo e Gestionale adottato ai sensi del D. Lgs. 231/2001 ed è composto da 5 unità di cui 2 componenti con funzioni di controllo (già membri del Collegio sindacale e della Commissione Valori e Regole).

Esempio 8 = Modello CSR Costituzionale

Nell’impresa analizzata, il MOG contiene il Codice Etico, che corrisponde quasi ad una carta costituzionale, e la Commissione Etica – garante del Codice - coadiuvata dall’ausilio del Responsabile Etico, nominato da CdA ed esterno all’impresa. La Commissione Etica, formata da 5 membri esterni, relaziona al CdA (alle cui sedute è sempre invitata) e all’Assemblea dei Soci in merito all’applicazione dei principi etici nella gestione quotidiana dell’impresa. L’OdV, composto da 3 consiglieri di amministrazione, è l’organo deputato esclusivamente al controllo del MOG e si relaziona costantemente con la Commissione Etica sugli argomenti che vedono i due organi coinvolti.

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Esempio9 = Modello CSR+231+Corporate Governance

Nel Modello CSR+231+Corporate Governance sono presenti i seguenti organismi: Comitato di Corporate Governance; Comitato Rischi, avente in comune un membro con l’Organismo di Vigilanza; Comitato per il Controllo Interno, formato da 4 membri non esecutivi e indipendenti (tra i quali 3 consiglieri del CdA), il cui Presidente è membro del Comitato per il Controllo Interno. L’Organismo di Vigilanza, strumento del MOG, è composto da 4 membri: il Presidente (che è anche il Presidente del CdA), il Presidente del Comitato per il Controllo Interno, un membro del Comitato Rischi e un Responsabile Revisione Interna del Gruppo. Il Codice Etico è parte integrante del Codice di Corporate Governance ed è gestito dal Comitato Codice Etico, nominato dal CdA, e formato da 4 membri (risorse umane, revisione interna di gruppo, affari legali e societari, funzione compliance), avente le funzioni di esaminare le problematiche di applicazione del Codice, emanare le disposizioni di applicazione e proporne gli aggiornamenti. Il Comitato Codice Etico coopera con l’Organismo di Vigilanza e risponde direttamente al CdA.

Esempio 10 = Modello CSR Ethics Officer

Nell’ultimo Modello analizzato al Comitato per il Controllo interno, formato da tre amministratori non esecutivi del Consiglio d’Amministrazione, è stato attribuito il ruolo di OdV ai sensi della 231. Il Codice Etico non è parte integrante del Modello Organizzativo e Gestionale ma fa capo al Comitato Etico, (formato da 7 membri di cui 6 interni – tra i quali un consigliere del CdA – ed uno esterno che corrisponde al Presidente) e all’Ethics Officer. Quest’ultimo, nominato dal Comitato per il Controllo interno da cui gerarchicamente dipendente, relaziona al Comitato Etico e dipende funzionalmente dal Direttore Pianificazione, Controllo e Sistemi (che a sua volta risponde al CdA).

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4.4 Proposta di Modello di Governance CSR

A seguito di un’attenta analisi dei molteplici modelli di governance di Responsabilità Sociale d’Impresa sviluppati nelle aziende italiane, si pensa che un modello più coerente con i ruoli dei diversi organi e le diverse funzioni dei Codici Etici e di Condotta dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: dividere le funzioni e i significati sottesi al Codice Etico – strumento di responsabilità sociale - ed al Codice di Condotta – che invece ha come obiettivo quello di prevenire i reati; non sovrapporre una gestione etica di responsabilità sociale con un’azione di prevenzione e controllo degli illeciti definiti dalla 231; creare due organi con competenze distinte ma in relazione.

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5. Commenti

5.1 Sintesi del seminario interno svoltosi a febbraio 2009 Il 17 febbraio 2009 è stato organizzato presso la Fondazione Unipolis un workshop al fine di discutere i risultati evidenziati dalla ricerca con i seguenti partecipanti: Stefano Cavazza (SCS Consulting), Danilo Devigili (RGA), Walter Dondi (Fondazione Unipolis), Luigi Foffani (Università di Modena), Paola Lanzarini (Fondazione Unipolis), Marisa Parmigiani (Accda Coop), Giorgio Riccioni (Coop Adriatica), Elisabetta Righini (Università di Urbino), Lorenzo Sacconi (Università di Trento), Lamberto Santini (UIL), Pierluigi Stefanini (Fondazione Unipolis), Francesco Vella (Unipol Gruppo Finanziario), Mario Viviani (DTN Consulenza), Marco Zanchi (Unipol Merchant), Silvia Furfaro (Fondazione Unipolis). Di seguito i punti chiave emersi nella discussione. Rapporto tra 231 e Codice Etico All’interno della 231 si sta inserendo di tutto: il tema della sicurezza, è prevista entro metà del 2010 l’introduzione della materia ambientale, la salute, lo stress dei lavoratori. Tuttavia, poiché in Italia le questioni sono considerate rilevanti e ci si adegua solo se imposte dalla legge, il decreto 231 ha avuto in questo senso molto successo, soprattutto dopo la comparsa sui giornali di articoli che comunicavano le condanne per violazione della legge suddetta. Le prime due sentenze sono state efficaci nel convincere sempre più imprese ad adeguarsi alla 231 e introdurre anche il Codice Etico. Non sorprende il fatto che quest’ultimo non abbia sollevato grandi problemi e cambiamenti. Molte aziende, anche di notevoli dimensioni, inseriscono nei propri documenti il Codice Etico al fine di dare una parvenza più soft e illuminata al MOG e, dunque, alla 231. Nella ricerca, il decreto 231 emerge talvolta come un fattore di confusione che determina la sovrapposizione tra Codici Etici, Codici di Condotta e MOG. I suoi limiti fondamentali sono legati all’eccessiva ambizione laddove la legge ha una funzione sanzionatoria inevitabilmente confusa, e a volte sovrapposta, con un compito generale di promozione dell’orientamento culturale. La funzione sanzionatoria della 231 è in realtà chiara: si trattava di superare il vecchio principio societas delinquere non potest e introdurre una forma di responsabilità da reato delle persone giuridiche, in particolare delle imprese. L’Italia si allineava così, con un notevole ritardo e dopo una serie di impulsi europei, a una

tendenza internazionale già estremamente diffusa. Il legislatore avrebbe potuto limitarsi a questo aspetto sanzionatorio, come fatto in molti Paesi europei (in Francia, con il Codice Penale del 1994 è stata introdotta la responsabilità degli enti e non si è tentato di andare oltre, se non individuando una serie amplissima di reati per i quali possono rispondere le persone giuridiche), ma ha compiuto un passo ulteriore (gesto estremamente apprezzabile sotto certi profili): quello di individuare dei criteri di imputazione (penalisticamente parlando) di queste fattispecie di reato, stabilendo quando e sulla base di quali criteri le imprese rispondono dei comportamenti dei soggetti in posizione apicale o subordinata. Il legislatore ha voluto creare un’idea di colpevolezza dell’organizzazione, concetto nuovo di cui si era parlato solo in dottrina, seguendo il modello che veniva dagli Stati Uniti sebbene in termini differenti. Questo concetto di colpevolezza dell’organizzazione (stabilire quando a un’impresa può essere mosso un rimprovero perché si è tenuto un comportamento illecito) doveva presupporre una diffusione ampia dei Codici Etici e della cultura della Responsabilità Sociale d’Impresa che non c’era in Italia – infatti, la ricerca ha mostrato come solo il 6% delle imprese fosse dotato di Codici Etici prima dell’entrata in vigore del decreto 231 nel 2001. Quindi, il legislatore italiano ha dovuto assumere una funzione promozionale e di orientamento culturale, ritenuta da alcuni impropria. Tutto questo apparato formato da Modelli di Organizzazione, Codici di Comportamento e sistema sanzionatorio potrebbe essere visto, dunque, come una forma di promozione della Responsabilità Sociale d’Impresa, cosa che sta molto al di là dell’orizzonte di questa legge. Ciò rappresenta il limite genetico della 231: un sovraccarico di funzioni che non potevano essere assolte dalla legge. D’altro canto, il legislatore scontava da un lato l’obbligo di adeguarsi alle iniziative sovranazionali, dall’altro l’assenza di alcuni presupposti sul piano della cultura d’impresa che rendessero il contesto adeguato all’inserimento di un meccanismo sanzionatorio di questo tipo. La conseguenza è stata un sovraccarico di funzioni che ha determinato un’estrema complessità, una forte tendenza alla burocratizzazione di tutti questi organismi e la confusione già sottolineata tra i Codici di Comportamento, considerati elementi del Modello Organizzativo e Gestionale (MOG), e i Codici Etici.

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Un altro grave limite potenzialmente evitabile è l’assenza di un’idea chiara sull’ambito di applicazione della 231, ossia la questione dei reati presupposti. Inizialmente, la legge delega si riferiva coerentemente a fattispecie di criminalità d’impresa alle quali legava il meccanismo 231, inserendo solo i reati di corruzione e frode nelle pubbliche sovvenzioni come reati presupposti. Successivamente, invece, si è scoperchiato il vaso di pandora e sono arrivate le novelle legislative più disparate: dalla tratta di esseri umani ai reati societari, dalle mutilazioni genitali femminili agli abusi di mercato, ecc. Come giustamente sottolineato nella ricerca, l’eterogeneità dei reati rischia di addossare all’ente funzioni di controllo estranee a quelle tipiche legate al rischio d’impresa. Ciò costituisce un limite serio e grave al quale il legislatore dovrebbe porre rimedio con una ridefinizione organica e sistematica basata su criteri certi. Esiste un’interferenza a diversi livelli tra Codice di Comportamento e Codice Etico. I Codici di Comportamento della 231, elementi del MOG con funzione preventiva di una serie di reati, devono individuare dei comportamenti da prevenire precisi e tassativi (come corruzione e infedeltà patrimoniale). Rispetto a tutto questo, invece, i Codici Etici hanno una funzione di promozione culturale generale che può portare all’individuazione delle zone grigie e, quindi, la loro violazione non può essere confusa con l’illecito penale dal quale nasce eventualmente la responsabilità dell’impresa. Viceversa, i Codici di Comportamento devono avere la funzione più specifica e modesta di prevenzione di specifici comportamenti penalmente rilevanti. Il Codice Etico dovrebbe far parte degli strumenti che tendono ad aumentare l’efficacia e l’efficienza dell’impresa rispetto al raggiungimento di obiettivi economici e sociali. Sebbene la loro introduzione sia stata interessante in termini di sviluppo della cultura d’impresa, non si può affermare che abbia avuto un gran successo in termini di risultati raggiunti. I Codici Etici rappresentano dei momenti problematici nello sviluppo dell’impresa che avvengono in un contesto complicato. Nelle imprese più serie o convinte, il Codice Corporate Social Responsibility e il Codice 231 si innestano all’interno di un sistema normativo differenziato e complesso. È necessario partire dal presupposto che le imprese stanno vivendo molti vincoli dal punto di vista normativo, nel caso migliore essi diventano dei gravi oneri dal punto di vista organizzativo, e nel caso peggiore dei meccanismi di tipo burocratico. C’è un florilegio di regole normative

vissute positivamente solo dai soggetti che riescono a interpretarle, ma viste come un peso da molte organizzazioni. Si assuma che l’organizzazione abbia una serie di ambiti normati che costituiscono un complesso di regole e permettono il suo funzionamento (per esempio pari alla Costituzione Italiana). Quando essa si struttura, alcuni di questi ambiti normati hanno bisogno di approfondimenti di carattere specifico (per esempio sull’applicabilità di Codice Civile, Codice Penale, Diritto Societario, ecc.). All’interno di un’impresa, un Codice Etico dovrebbe sostanzialmente essere figlio di una specie di ripensamento generale di quella che abbiamo chiamato la base normativa. Esso dovrebbe essere quello che unifica i comportamenti e rende coerente le specificità che si sono prodotte, un elemento che, insieme ad altri strumenti, renda più unificata e coerente la base normativa formale e culturale che determina il buon funzionamento dell’organizzazione. L’auto-regolamentazione funziona? Oggi la maggior parte dei Codici rappresenta il fallimento dell’autoregolamentazione, vi è un plesso normativo che ha avuto scarsa efficacia, come mostrato nelle interviste della ricerca. Il plesso che si prefigura di intervenire prima che agisca la legge non ha funzionato bene e ciò significa che il contenuto di quelle norme non è corretto e c’è stato, quindi, un errore nella loro elaborazione. La riflessione iniziale deve vertere, dunque, su come modificare quelle norme intervenendo su 3 aspetti: 1. definizione delle sanzioni; 2. definizione della giurisdizione da applicare; 3. definizione di chi fa le indagini sull’applicazione di

queste sanzioni. Si tratta di questioni sulle quali è opportuno fare una ricerca approfondita, poiché comportano problematiche pratiche di non poco rilievo. Per esempio, giacché la violazione di principi etici comporta che la segnalazione debba essere qualificata e non anonima, si pone il problema di come agire nel caso ne arrivasse una non firmata. In ambito 231, è necessario prenderla in considerazione obbligatoriamente perché non può non essere analizzata se è rapportata a un evento sospetto. Ci sono una serie di problematiche molto specifiche al fine di identificare come le norme di autoregolamentazione etica possano permeare tutta l’attività dell’impresa. Altra questione è se sia necessario proporre interventi normativi superiori che facciano da collante oppure sia meglio lavorare sul terreno della volontarietà (considerato che in molte realtà non esiste neanche

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un accenno alla Responsabilità Sociale d’Impresa). In questa fase, sembra essere prevalente il secondo approccio. Ciò non toglie che, come dimostra la storia, quando crescono esperienze e realtà che spingono in certe direzioni, si forza anche l’assetto normativo. Un indirizzo su cui concentrare gli sforzi è legato alla realtà della crisi: o si torna a una logica statale oppure si costruiscono delle modalità che consentono di tutelare il bene comune attraverso un contratto sociale – il quale contempera esigenze e interessi dei diversi Stakeholder – a partire da una base volontaria e costruendo meccanismi di partecipazione non più limitati all’azienda singola. Per quanto concerne l’autoregolamentazione e il suo rapporto con la governance societaria, oggi l’ordinamento offre la possibilità, sfruttando l’autonomia statutaria, di muoversi sul terreno dell’autoregolamentazione. Esistono addirittura forme di autoregolamentazione sulle quali l’ordinamento stesso chiede una rendicontazione esterna (es. il Collegio Sindacale deve rendicontare sull’adesione dei Codici di Autoregolamentazione delle Società e originariamente esisteva anche una norma, in seguito eliminata, che imponeva alla Consob di controllare). Quindi, le imprese si danno una norma e di questa norma diventano responsabili: per esempio, se il CdA di un’impresa approvasse il proprio Bilancio Sociale o di Sostenibilità, e quest’ultimo al suo interno contenesse notizie false, gli amministratori risponderebbero delle informazioni che hanno divulgato. È necessario andare avanti sul terreno delle norme che valutano i criteri di revisione dei Bilanci Sociali. Anche in questo caso, bisogna elaborare nuove misure tecniche per farlo, ma come diceva Natalino Irti, “quando un soggetto privato si da una norma, come tale lo vincola e lo responsabilizza”. In altri termini, c’è il rischio di un intervento statale molto invasivo che può essere evitato solo se le imprese intervengono in modo pro-attivo sul piano dell’autoregolamentazione, conquistando terreno.

Infine, un altro tema interessante è quello del rapporto con la governance. La responsabilità verso l’azionista rimane quando ci si colloca sul mercato. Sicuramente nulla vieta che in seguito all’autoregolamentazione si acquisiscano responsabilità ulteriori e che quindi ci possa essere una forma di convivenza. Il vero pericolo attuale è che si ripresenti la confusione tra Stato regolatore e Stato proprietario, con tutti i rischi di conflitti di interesse notoriamente poco considerati in Italia. Quale governance per un’impresa responsabile

La situazione attuale di crisi, non di liquidità ma di equità, determina la necessità di ragionare su diversi

modelli di governance: 1. oligarchia manageriale, in cui non esiste un

controllo terzo poiché il Consiglio di Amministrazione è debole e parcellizzato e i manager de facto gestiscono;

2. controllo statale, poiché le imprese hanno ricevuto dei finanziamenti governativi, lo stato diventa il garante degli interessi di tutti gli Stakeholder;

3. esiste l’opportunità, in questo contesto, di proporre come terza via un modello di governance allargata agli Stakeholder, nel quale sia possibile esprimere una sana contrapposizione degli interessi. Dal punto di vista contrattualistico, infatti, si possono normare determinate questioni ma, alla fine, è necessario trovare la sintesi, all’interno dei modelli di gestione, tra gli interessi contrapposti di azionisti, rappresentanti dell’ambiente, ecc., attraverso forme di rappresentanza varie.

Forse, è giunto il momento storico per ripensare a un modello che incida sulle domande di fondo che il sistema capitalistico si porta dietro da duecento anni: equità, giustizia, creazione di un valore condiviso nel rispetto delle istanze di tutti i portatori di interesse. I numerosi fallimenti ai quali si assiste sono imputabili alla scarsa attenzione data all’etica in diverse esperienze aziendali. Soprattutto negli ultimi venti o trent’anni, con il prevalere dell’ideologia liberista, il concetto di impresa ha contemplato la realizzazione del profitto come scopo primario. Alla luce di ciò, è importante riconsiderare il rapporto sia tra etica e impresa sia tra etica ed economia. La sintesi tra valori e diritto si può trovare nella Costituzione Italiana. Il dibattito potrebbe determinare un ripensamento dell’art. 41 della Costituzione che recita “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana […]”. Questo secondo comma sintetizza il concetto di responsabilità sociale e da esso potrebbe partire una discussione feconda per integrare questa norma con nuove esigenze di ordine economico e sociale, una riflessione non più basata sulla contrapposizione tra Stato e mercato ma su nuove forme di democrazia. Tutto ciò potrebbe essere interessante sia a livello giuridico per interpretare le norme esistenti sia come spunto per un dibattito di più ampio raggio. Allineamento tra valori e comportamenti Non esistono molti metodi di misurazione delle performance legate ai sistemi di motivazione e incentivazione dei dipendenti che consentono alle comportamentali del Codice Etico e della governance di tradursi in comportamenti. Questo determina una

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caduta verticale dello strumento e un’ulteriore perdita di credibilità: si pensi ai sentimenti di un dipendente che si sente fare certi discorsi dal CdA per poi vedere i consiglieri comportarsi sempre allo stesso modo, senza attuare i comportamenti decantati e di cui si sono vantati. Ciò non aiuta certamente la competitività delle imprese e la sincerità forse paga di più, se non altro nella chiarezza delle intenzioni. Infatti, questa situazione di confusione rischia di creare una sorta di disillusione che non aiuta la competitività dell’impresa basata sul capitale umano. In questo modo, si spengono le passioni di milioni di persone (non sono solo le motivazioni economiche ma anche le passioni a muovere le persone), anziché stimolarle per trovare delle soluzioni creative in risposta a situazioni senza precedenti.

5.2 Il rapporto tra Codice Etico e Responsabilità Sociale d’Impresa di Marisa Parmigiani

L’adozione di un Codice Etico è, nella letteratura sulla Responsabilità Sociale d’Impresa, considerato uno degli elementi del percorso, di per sé condizione necessaria ma non sufficiente, allo sviluppo di politiche e processi socialmente responsabili. In particolare se ci si rifà ad alcuni modelli strutturati di declinazione di percorsi di Responsabilità Sociale d’Impresa (Q- Res, Sigma project) la declinazione dei valori e dei principi ai quali l’organizzazione si inspira e, soprattutto, la loro traduzione in comportamenti e norme verificabili rappresenta il punto di partenza per un processo di ripensamento della Missione aziendale e per il suo coerente funzionamento. Tali modelli attribuiscono una progressività definitoria e strumentale a quelli che potremmo chiamare gli “attrezzi” che vengono selezionati ed identificati a partire da un’ipotetica “cassetta” che raggruppa tutto ciò che ad oggi è stato definito per supportare, guidare e controllare il percorso di un’impresa verso la propria responsabilità sociale.

Marisa Parmigiani, Segretario generale di Impronta Etica

Per capire meglio cosa si intende è opportuno analizzare uno di questi sistemi e la funzione che in esso svolge il Codice Etico. È essenziale lavorare mediante un’azione di profondo respiro culturale ed etico, affinché persone di realtà diverse e con responsabilità differenti diventino progressivamente virtuose ed etiche nei comportamenti concreti, ispirandosi ai valori che sono alla base dell’attività economica e collettiva. Nel tempo, l’importante non è tanto avere sanzioni da erogare o meno, quanto rendere questi principi concreti nei comportamenti quotidiani delle persone (posta comunque la difficoltà di misurare questi fenomeni) e lavorare per una maggiore connessione tra regole e valori. Il “modello Q-res”8 è il frutto di un lavoro pluriennale di ricerca teorica e benchmarking sulle pratiche al quale hanno preso parte diversi soggetti coinvolti sin dall’inizio sui temi della responsabilità sociale d’impresa. L’elemento caratterizzante il Q-Res è l’approccio sistemico, basato sul ciclo di Damien (Plan-Do-Check-Act), che prevede da un lato la stesura delle linee guida, dall’altro la definizione, sulla base delle stesse, di una norma certificabile da parte terza. La prima suggestione è che nessuno strumento è da solo sufficiente a supportare la gestione responsabile dell’ impresa se la si vuole affrontare nel suo complesso. Le linee guida definiscono per l’impresa un percorso ideale, che prevede:

la definizione della Visione Etica;

l’adozione di un Codice Etico;

la formazione etica ai manager;

la costruzione di un sistema di rendicontazione (il Bilancio Sociale);

l’adozione di sistemi organizzativi di attuazione e controllo (Auditing, Ethical Officer);

la verifica e la certificazione esterna. Il Codice Etico è considerato il “luogo” dove si esplicita il contratto sociale con gli Stakeholder e vi si

8 Liuc Paper n. 95, Serie Etica, Diritto e Economia 5, Ottobre 2001

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bilanciano i diversi interessi, per questo si declina in norme etiche e standard di comportamento, ma soprattutto prevede la declinazione di apposite procedure che garantiscano “nel tempo e nello spazio” la conformità dei comportamenti. Per la sua implementazione si prevede figura apposita di controllo, e il Bilancio Sociale come strumento più complessivo di verifica dell’efficacia. La seconda suggestione è quindi quella che l’efficacia del Codice Etico non si misura con il numero di volte in cui è stato attivato per procedure sanzionatorie ma con il grado di miglioramento complessivo della performance dell’azienda: cioè verificando quanto i diversi Stakeholder sono stati trattati in modo equo, e di questo sono soddisfatti. Per concludere l’organo multiStakeholder, più laicamente noto come Commissione Etica, è in questo caso inteso come strumento di integrazione della responsabilità sociale nel processo di gestione dell’organizzazione in una logica di governance allargata. La riflessione in questo contributo vuole però ripensare le conclusioni proposte dal modello Q-res alla luce delle esperienze pratiche che si sono maturate e dei risultati della ricerca appena svolta. Per questo la riflessione sulla cogenza di un Codice Etico in un percorso di Responsabilità Sociale d’Impresa non può che partire dalla attribuzione di significato alla responsabilità sociale stessa. Si intende, in questa sede, un’impresa socialmente responsabile se lo è il modo in cui produce valore e non solo quello come lo ridistribuisce9. Si considera inoltre il tema della responsabilità appannaggio non solo delle grandi multinazionali (le “corporate” appunto) ma di tutte le organizzazioni, indipendentemente dalle loro dimensioni, dalla loro natura sociale e missione. Questo significa, da un lato, rifarsi all’analisi della catena del valore promossa da Porter e Kramer (2006)10, dall’altro recepire l’innovazione concettuale di Freeman11 che estende il campo di applicazione della Responsabilità Sociale d’Impresa enfatizzandone la componente di relazione con gli Stakeholder. Già la teoria di Porter12 degli anni ottanta, collocando l’impresa nell’ambiente, e non solo nel mercato, introduce aspetti caratterizzanti la Responsabilità

9 “Per una responsabilità sociale d’impresa che sia elemento

strutturale dello Sviluppo sostenibile”, Manifesto Impronta Etica, novembre 2003 10

M. Porter, M. Kramer, Strategy & Society: the link between

Competitive advantage and CSR, New York, 2006, 11

R.E. Freeman, S.R. Velamuri, A New Approach to CSR: Company Stakeholder Responsibility, 2005 12

M. Porter, Competitive Strategy, Free Press, New York, 1980

Sociale d’Impresa (Stakeholder, cultura, valori) nel processo di definizione della strategia d’impresa. Con l’articolo del 2006 Porter sviluppa e argomenta come:

oggi la strategia sociale di un’impresa sia la sua strategia competitiva, dal momento che solo la valutazione ed inclusione dei diversi impatti sociali ed ambientali nell’analisi della catena del valore permettono di valutarla correttamente;

oggi l’analisi del contesto competitivo debba, per essere efficace, includerne gli aspetti sociali in una logica di sostenibilità, non solo per l’analisi della domanda e della concorrenza, ma anche per quella degli input e delle imprese partner.

All’interno quindi di un quadro concettuale che fa della strategia sociale13 la strategia tout court per un’organizzazione in quanto elemento determinante della sua competitività, è evidente come la componente normativa del Codice Etico diventi sostanzialmente marginale. La norma e soprattutto il suo controllo dovrebbero essere superati dalla consapevolezza sull’opportunità dei comportamenti, dal momento, infatti, che essere socialmente responsabile viene interpretato come un’opportunità per un impresa. Un’opportunità connessa non tanto ad elementi commerciali, di difficile misurazione e di scarsa risultanza, quanto alla ricchezza di valori intangibili ad essa connessa, che rafforzano, consolidano e arricchiscono l’organizzazione in se e nel suo rapporto con gli Stakeholder. In particolare in merito a questi ultimi è interessante osservare la centralità di una buona relazione con loro per la competitività d’impresa secondo quanto sviluppato da Freemann, che infatti afferma “avere un ‘approccio per Stakeholder’ agli affari significa idealmente agire integrando il business, l’etica e considerazioni sociali. La Stakeholder theory riguarda la creazione di valore e lo scambio – è una teoria manageriale su come funzionano le aziende”. In questa logica, se il Codice Etico è il luogo del bilanciamento degli interessi tra gli Stakeholder, allora rispettare il proprio Codice Etico, reale o virtuale, diventa condizione essenziale di un’impresa per produrre valore nel medio periodo. In una dimensione evoluta quindi non ci dovrebbe essere nessun sistema di controllo, ma il Codice dovrebbe rappresentare l’elemento di consolidamento culturale per antonomasia. La centralità del Codice Etico per una buona gestione dell’impresa e per il suo concorso allo sviluppo sostenibile è quindi da ricollegarsi soprattutto alla sua

13

M. Porter, op. citata, 2006

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funzione educativa. Non a caso nell’indagine qualitativa della ricerca realizzata dalla Fondazione Unipolis emerge come in 10 casi su 20 il principale motivo che ha portato all’adozione del Codice Etico è sostanzialmente riconducibile ad una volontà di cristallizzare valori e principi già esistenti oppure di condividere valori e mission dell’azienda con collaboratori, clienti ed altri Stakeholder. In questo caso, quindi, il processo di costruzione del Codice determina la bontà del Codice stesso. Se infatti l’efficacia del Codice per la gestione sostenibile dell’impresa si misura nel grado di consapevolezza culturale che è riuscito a determinare, e quindi, negli indirizzi gestionali che è riuscito ad influenzare, allora bisogna meglio capire e valutare come questi stessi si inducono. Passando dalla teoria alla pratica, si registra in primo luogo che nella maggioranza delle “buone pratiche di RSI” l’ordine degli strumenti adottato dall’impresa non ha seguito la teoria: la definizione del Codice Etico non ha infatti rappresentato la fase fondante di un percorso, ma viceversa, è stata la manifestazione di un bisogno di consolidamento e diffusione di un percorso in essere, ed in alcuni casi, molto avanzato. Anche nei casi dove lo stesso era già presente l’organizzazione, una volta individuata una strategia RSI adeguata ed efficace, e averne sperimentato gli strumenti che meglio rispondevano alle esigenze specifiche, ha sentito il bisogno di ripensarlo. L’esigenza era quindi non di avere la carta costituzionale ma uno strumento che rendesse noti, intelligibili, e quindi diffondibili i principi, i valori, e i comportamenti, a cui l’organizzazione si ispira. Il Codice Etico quindi come strumento di creazione di linguaggi condivisi, di consolidamento di cultura aziendale. Niente di più lontano dal ruolo del MOG, che pure è solitamente presente nelle “buone pratiche” della CSR e che in Italia ha sicuramente concorso in modo significativo allo sviluppo dei codici etici. Infatti dalla ricerca quantitativa realizzata emerge come solo il 6% aveva adottato il codice prima del D. Lgs. 231 e contestualmente che dal 2002 in poi i contenuti dei Codici Etici tendono quasi sempre a riferirsi in modo esplicito al D. Lgs. 231/01 e/o ad essere parte integrante del MOG aziendale (70-80% dei casi). Perché invece l’adozione di un codice sia efficace per il consolidamento culturale due processi diventano essenziali:

il processo di costruzione del Codice;

il processo di diffusione. Il primo deve essere un processo maieutico, di estrapolazione dei valori dall’interno

dell’organizzazione, per produrre uno strumento utile a contaminare, che sia quindi rispondente alla realtà dell’azienda, ne colga gli aspetti critici, le aree di rischio, gli Stakeholder sensibili e deboli. Perché il processo sia di per se stesso strumento di diffusione, e perché il prodotto sia ritagliato sull’impresa, questo deve essere partecipato e trasversale. Un Codice Etico con contenuti dati, frutto di un percorso parallelo e non integrato nell’organizzazione, difficilmente sarà efficace. Un Codice Etico che non sia noto non sarà d’altro canto efficace neanche come deterrente normativo. Il processo di diffusione, la sensibilizzazione, la formazione etica declinata sul caso aziendale sono gli elementi più importanti di un percorso di “acculturamento” valoriale. Elemento confermato dall’indagine qualitativa nella quale 15 aziende su 20 (75%) hanno dichiarato di avere già avviato un percorso specifico di comunicazione e formazione, mentre negli altri 5 casi (25%) non vi è ancora stata alcuna attività in questo senso, di cui tre hanno comunque dichiarato che tale attività è in fase di attuazione. Per consolidare una cultura aziendale orientata ai valori bisogna però contestualmente declinare in modo chiaro tali valori ed incarnarli nell’esempio manageriale. I comportamenti delle figure apicali e le scelte strategiche, gestionali ed organizzative dell’impresa sono fondamentali per avvalorare e consolidare percorsi di formazione etica. Dentro l’organizzazione, ancor più di fuori, sono noti i processi di produzione del valore, per questo è fondamentale definire un Codice Etico solo quando già nei fatti si sono adottate strategie e comportamenti socialmente responsabili, per quanto questo possa essere contrario sia alla dottrina neo-contrattualista14 sia relazionale15. Essere socialmente responsabili non implica necessariamente, secondo questa interpretazione che parte dai processi e dalle procedure caratteristiche dell’organizzazione, dotarsi di un Codice Etico. Aziende di ridotte dimensioni o con un alto grado di partecipazione interna possono non aver mai bisogno di adottare un Codice Etico, così come quelle i cui riferimenti normativo-valoriali sono già dati ed ampiamente condivisi. Aziende multisito, multiprodotto e con catene di governo molto articolate, difficilmente potranno fare a meno di un Codice Etico per garantire che le intenzioni etiche si traducano in gestione sostenibile.

14

L. Sacconi, Etica degli affari. Individui, imprese e mercati nella

prospettiva dell’etica razionale, Il Saggiatore, Milano 1991 15

S. Zamagni, L’economia del bene comune, Roma, Città Nuova, 2007

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Altra cosa è l’adozione di un Codice all’interno di un MOG in conformità al D. Lgs 231. Quest’approccio si conferma di fatto, anche nell’analisi empirica, che dimostra lo sviluppo delle esperienze più significative tra le aziende di servizio, per il cui svolgimento dell’attività rapporto con il cliente, reputazione e fiducia sono elementi essenziali, e tra le cooperative, che fondano sull’appartenenza culturale e valoriale la loro identità. Emerge infatti nella ricerca quantitativa che le aziende di servizi tendono ad adottare Codici Etici che vanno oltre a quanto previsto dal D. Lgs. 231/01 molto più spesso rispetto alle imprese di produzione, le quali sono invece prevalentemente orientate al semplice adeguamento rispetto alla normativa (17% vs 45%) e che il 40% delle cooperative

5.3 Il Codice Etico per una governance multi-Stakeholder della Responsabilità Sociale d’Impresa di Lorenzo Sacconi La ricerca è interessante e mette in luce un concetto molto chiaro: la forte ambiguità nel modo con il quale viene utilizzato il Codice Etico nelle imprese, tra l’idea che sia la testa di un sistema di gestione per la responsabilità sociale e qualcosa invece che viene introdotto perché previsto da una norma giuridica per prevenire o comunque consentire di non incorrere in sanzioni amministrative a carico dell’impresa. Non ci dobbiamo stupire di questo, poiché esistono due modelli diversi e la ricerca li descrive chiaramente. Si poteva pensare che l’uno aiutasse l’altro, ma anche che l’uno potesse elidere l’altro. Secondo me sono vere entrambe le cose. C’è un problema di diversa estensione dei contenuti tra chi richiama quelli della 231 e chi ha un approccio più orientato a stabilire regole di comportamento nei confronti degli Stakeholder, e c’è anche una questione sulle forme organizzative di attuazione ove si riscontri eccedenza o non eccedenza rispetto ai contenuti definiti dalla legge 231. Trovo comunque che l’introduzione dell’idea della “governance CSR del Codice Etico“ sia anch’essa un po’ ambigua. Non è chiaro se si parla di un’impresa che ha una governance orientata alla CSR, di cui fa secondo un principio di CSR.

Lorenzo Sacconi insegna Politica economica all’Università di Trento

dove dirige la Laurea specialistica DEIRS - Decisioni Economiche

Impresa e Responsabilità Sociale e il LASER - Laboratorio di Ricerca

in Scelta Razionale, Etica e Responsabilità Sociale. È inoltre

direttore del centro interuniversitario EconomEtica, presso

l’Università Milano-Bicocca.

nel campione non fanno riferimento nel Codice alla 231 rispetto al 25% del totale del campione. Solo un’attenta analisi dei processi, delle relazioni con gli Stakeholder, delle azioni e dei progetti in essere aiuta l’organizzazione a scegliere e adottare gli strumenti, all’interno della cassetta degli attrezzi, più opportuni ed efficaci per la propria strategia sociale. D’altro canto, come per ogni strumento, se si decide di adottarlo, devono esserne chiare le motivazioni, le utilità, i vincoli per un funzionamento efficace e lo stesso deve essere periodicamente mantenuto, affinché rappresenti, nei fatti, il contratto vigente tra l’impresa e i suoi Stakeholder. Un’altra questione non chiara è cosa sia una governance CSR legata al Codice, perché voi identificate tale tipologia con le imprese che hanno un organo ad hoc dedicato al controllo dell’adempimento del codice. Ma mi domando: è questo un modello di governance CSR dell’impresa? Io ho qualche dubbio. Però è importante e chiaro il punto: volete distinguere quelle imprese in cui c’è un’attenzione specifica alla CSR da quelle in cui il tema del codice si mescola con l’attuazione della 231. Che ci sia questa confusione si poteva predire fin dal principio perché lo sviluppo significativo dei Codici Etici in Italia aveva cominciato ad esistere prima della 231, ma esattamente come negli Stati Uniti, quando è stato introdotta la legge su ispirazione delle Federal Sentencing Guidelines, molte più imprese si sono dotate di tale strumento. E questo ha prodotto una giuridicizzazione del Codice Etico ed una sua più ampia adozione seguendo lo slogan “per stare lontani dai guai”. È a questo punto che arrivano gli avvocati, adottando una logica del tutto diversa da chi si pone il problema del disegno del modello di governo d’impresa e della responsabilità sociale verso gli Stakeholder, preoccupandosi invece della responsabilità legale degli amministratori e dei danni a carico dell’azienda. Da un lato l’intervento degli avvocati dimostra che questi strumenti possono diventare essenziali per alcuni interessi vitali per l’impresa (portando il codice etico fuori dall’ambito della comunicazione ma più vicino al potere), dall’altra

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parte però crea ambiguità, poiché il Codice Etico dovrebbe essere ispirato dalla definizione di principi guida dell’impresa che influiscono sulla condotta strategica e che ne definiscono l’impegno verso gli Stakeholders. Non è detto che le due cose debbano essere in conflitto, è chiaro però che se l’idea del Codice Etico è quella di uno strumento per giustificarsi di fronte al tribunale, quest’ultimo sarà gestito in modo diverso da un Codice adottato per promuovere la CSR. Vorrei chiarire meglio il rapporto tra Codice etico e diritto, tra etica e governance: se non abbiamo un approccio al Codice Etico come parte di un sistema di gestione della responsabilità sociale, l’aggancio con la governance è del tutto strumentale ed occasionale. La questione essenziale è invece quella di promuovere un modello di governo dell’impresa esteso, nel senso che i doveri fiduciari si estendono nei confronti dei molteplici Stakeholder. Qual è la relazione con il diritto? E se questo tipo di governance può essere realizzata (come sostiene Denozza e molti giuristi) nel contesto di iure conditio o se implica un approccio di iure condendo, cioè se richiede una riforma. E probabilmente è così: se noi introduciamo dei Codici Etici che affermano l’estensione dei doveri delle imprese di capitale nei confronti degli Stakeholder e, ad esempio, un socio agisse con un’azione di responsabilità civile nei confronti di un manager perché gli ha offerto una remunerazione di capitale inadeguata a causa delle risorse dedicate a un piano di salvaguardia ambientale, chi avrebbe ragione? Forse l’azionista. Verosimilmente, in un contesto giuridico come l’attuale, noi perciò non abbiamo un supporto legale ad usare il Codice Etico in questa maniera mentre esiste un incentivo al suo utilizzo per prevenire i reati. Il Codice Etico dunque ha preso la strada che l’incentivo giuridico gli dava: la prevenzione dei reati piuttosto che una modalità di costruzione dell’insieme dei principi e delle norme fondamentali per orientare l’impresa nel senso di una gestione strategica e di un governo multiStakeholder. Esiste altrove una tendenza evolutiva della disciplina giuridica della corporate governance (ad esempio nella legislazione inglese oltre che a livello OCSE) che estende i doveri fiduciari degli amministratori delle società. Si tratta di norme generali che, introducendo questi doveri estesi, necessitano poi di una specifica forma di autodisciplina, per precisare quali doveri fiduciari verso gli Stakeholder e in che proporzione l’impresa intenda effettivamente assegnare ai suoi amministratori. Il Codice Etico potrebbe riempire questo spazio, divenendo norma fondamentale dell’organizzazione: in altri termini, data quella norma giuridica generale, noi specifichiamo i doveri fiduciari di chi governa l’impresa, e di questi essi devono rispondere (ad esempio, producendo, tra l’altro, un appropriato social report che si rivolge agli Stakeholder come coloro

che hanno il diritto di sapere come i doveri nei loro confronti sono stati adempiuti). Questo permetterebbe di agire contro quell’amministratore che non si attiene alle disposizioni del Codice, non rispettando dunque l’interpretazione che, a livello statutario o di assemblea dei soci, si è voluto dare a quella norma giuridica generalissima. La situazione che stiamo vivendo ora, e le recenti riforme del diritto societario italiano, invece, non hanno certo migliorato la situazione dal punto di vista della governance multiStakeholder in Italia. Tutta la nostra evoluzione va nella direzione dell’adozione dello shareholder value e della governance mono-Stakeholder (anche nel caso della sottolineatura della mutualità interna, con i soci, nel caso delle cooperative) e quindi tende a farsi ingoiare dal vortice nel quale è finita l’economia americana, focalizzando l’attenzione solo sul governo mono-Stakeholder basato sul valore per gli azionisti. In ogni caso, la differenza tra l’uso del Codice Etico per la legge 231 oppure per la CSR è quella che intercorre tra, in un caso, la creazione di un modello di governo esteso in cui l’impresa assume impegni di natura fiduciaria verso molteplici Stakeholder (e il codice etico specifica tali doveri fiduciari molteplici), e, nell’altro caso, garantire, con azioni preventive, la commissione di reati. Ovviamente il modello multiStakeholder e la CSR entrano nella sfera della discrezionalità manageriale, come conseguenza dell’incompletezza dei contratti, quindi una sfera tecnicamente oltre la verifica della conformità alla norma giuridica concreta. Se noi potessimo infatti garantire tutti gli interessi degli Stakeholder con norme giuridiche concrete, i due modelli coinciderebbero, ma non è così: noi abbiamo invece un ambito di discrezionalità manageriale non colmabile né con norme giuridiche concrete strettamente cogenti, né contrattualmente – e questo è l’ambito della discrezionalità e dell’autorità manageriale e imprenditoriale, associata all’esercizio del dritto residuale di controllo. Se avessimo contratti completi e norme complete non avremo nessun bisogno di CSR, ed invece abbiamo contratti incompleti e norme che non possono disciplinare ogni dettaglio e che rendono necessaria l’autorità manageriale. Ma siccome questa può dare adito ad abuso, non solo verso gli azionisti o i soci di minoranza, ma anche verso gli Stakeholder, si richiedono doveri fiduciari multi-Stakeholder per vincolarla, e di qui viene la necessità di principi generali e regole precauzionali di CSR che – a parte la norma generale di copertura che abbiamo detto - devono essere specificati da codici etici e sistemi formalizzati di gestione. Di qui ne discende anche che la struttura del Codice Etico dovrebbe prevedere la regolamentazione di questi rapporti, dei principi che li

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ispirano, del contratto sociale tra gli Stakeholder e della autorizzazione che gli Stakeholder danno all’impresa di agire influendo in vario modo sui loro investimenti e sulle loro aspettative di benessere. Ogni impresa può specificare il modello come desidera, ma occorre comunque una “visione” del rapporto tra l’impresa ed i suoi Stakeholder, che definisce l’equilibrio tra i vari interessi, occorre un’analisi di aree critiche, ove “area critica” non è una fattispecie di reati, ma i possibili comportamenti opportunistici sia che siano illegali o semplicemente non etici, e poi un insieme di regole di condotta che evidenziano che in quegli ambiti sono rispettati i principi sia con regole precauzionali sia con divieti di comportamenti tipici. Allora, se si ragiona così, è chiaro che si cerca di rendere riconoscibili delle condotte che vanno al di là delle azioni che violano la legge. Tipicamente, questo è anche funzionale alla prevenzione del reato, perché cattura l’area “grigia” di comportamenti che, se vengono previsti e prevenuti, escludono il compimento di reati. Quindi la mia tesi è che il rapporto tra queste due materie nella pratica sia un rapporto di inclusione. In altre parole, il modello “Codice Etico per la CSR” che parte da un’ispirazione culturale, che potrebbe avere sviluppi sul fronte giuridico che non sono solo relativi alla disciplina della 231, ma che potrebbero andare nel senso della riforma inglese, in realtà include operativamente come sottoinsieme il modello 231. Infatti, se abbiamo un insieme di principi dai quali discende l’identificazione di aree critiche come aree di comportamento opportunistico, e delle regole di condotta che evidenziano che non abbiamo agito opportunisticamente in quelle aree, stiamo anche prevenendo comportamenti in aree grigie, aree che vengono prima del reato o che sono quella parte dei comportamenti che possono provocare il reato, oppure che sono la parte visibile di un comportamento illecito, che rimane nascosto. Una disciplina del conflitto di interessi “potenziale” o “apparente” previene anche un conflitto di interessi più grave, che può sfociare nella corruzione, ed avere quindi rilevanza giuridica penale. Quindi ci sono una serie di norme preventive su comportamenti in “area grigia”, che possono anche essere funzionali a questo scopo. Perciò il contenuto del Codice Etico è più ampio, ed anche il linguaggio non può che essere diverso, perché tutta la parte di visione etica e di principi ha il linguaggio proprio dell’etica normativa, e non del codice di disciplina o del regolamento. Benché quando si definiscono le aree e poi si stabiliscono le regole di condotta e i protocolli di comportamento vi possa essere un linguaggio quasi-giuridico, tuttavia vi è una parte generale di visione e di principi che parlano più il linguaggio dell’etica normativa,

della filosofia politica o della filosofia morale, che peraltro soddisfano, o dovrebbero soddisfare, precisi requisiti di significato normativo condivisi in parte dal diritto (universalizzabilità, prescrittività, soverchianza, secondo Richard Hare). Un altro aspetto che distingue significativamente dal punto di vista dei contenuti le due prospettive, è l’inclinazione a considerare il codice 231 come un regolamento di disciplina delle persone che lavorano nell’impresa, cioè più come una disciplina di doveri dei dipendenti che di diritti degli Stakeholder (tra cui i collaboratori). Il fine è la protezione della proprietà, del patrimonio, dell’informazione, il che si ottiene imponendo ai dipendenti, agli amministratori e a tutto il personale aziendale degli specifici doveri di non violazione delle leggi. Un codice orientato verso la CSR viceversa, parte dagli impegni dell’impresa verso gli Stakeholder (comprese le persone che lavorano nell’impresa). Da considerare è che gli impegni verso gli Stakeholder è l’organizzazione aziendale stessa che li deve adempiere per prima. Ne discendono dunque dei doveri per i membri dell’organizzazione, e non sembra esserci differenza con il codice 231, ma non è così. È ben diverso un codice etico inteso come regolamento di disciplina rispetto ad un Codice Etico in cui queste stesse persone sono tra i fini del Codice stesso (è del tutto chiaro il riferimento a Kant del “regno dei fini”). Poiché le persone sono il “regno dei fini”, sono tra i fini del Codice Etico. Questa in realtà è una differenza di contenuto che si riflette anche su una differenza di struttura: avere un codice etico 231 significa avere un documento iniziale di richiamo generalissimo di carte dei diritti. Completamente diverso è un Codice Etico che comincia con una visione etica d’impresa che definisce qual è la visione di rapporti tra Codice Etico e Stakeholder, che definisce i principi dei rapporti di ciascuno Stakeholder in modo bilanciato, i principi di ordine generale, poi disciplina separatamente nel dettaglio i principi verso ciascun Stakeholder. Da questo discenderanno poi delle norme di comportamento che diverranno doveri per l’organizzazione, dai quali a sua volta discenderanno doveri per le persone e quindi saranno definiti, strato dopo strato, ai vari livelli. È una differenza significativa: la quota parte 231 del Codice Etico CSR è inclusa nel Codice Etico CSR e ciò non toglie che anche un codice CSR contenga una parte di disciplina dei doveri dei dipendenti, ma nei confronti degli Stakeholder. La raccomandazione che si dovrebbe dare è proprio questa: in nessun modo bisogna separare le due questioni, ma avere un approccio che renda il Codice 231 parte di un sistema di norme interne più ampio di cui questo è una componente. A questo punto è interessante riflettere su come debba essere un modello di “governance” basata sul Codice Etico coerente con l’idea di CSR. Ragionando in maniera

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ideale si potrebbe pensare ad un modello di governo dualistico riformato oppure ad un modello monista con dei consiglieri indipendenti, che anziché essere azionisti potrebbero essere selezionati in quanto particolarmente competenti nel rappresentare il punto di vista degli Stakeholder. La gestione del Codice Etico nell’approccio CSR sarebbe oggetto degli organi di governo dell’impresa. Se così ciò implicasse la rappresentanza di tutti i vari Stakeholder - è chiaro che il numero di casi effettivamente osservabili di questo tipo è vicina allo zero - ma potrebbe avvicinarsi ad una cooperativa sociale o a una cooperativa multiStakeholder. La mia esperienza di certe imprese cooperative è che, ad esempio, la commissione soci può essere composta per avere la rappresentanza oltre che dei territori, anche degli Stakeholder, e si tratta di un organismo ordinario della governance d’impresa. Una volta istituito questo organismo, è verosimile avere anche un Comitato ad hoc che sia di rappresentanza del management, assieme ad una rappresentanza più ampia degli Stakeholder con funzioni di valutazione dell’attuazione del Codice e di raccomandazione delle sanzioni ecc. In questo caso, io vedrei l’Organismo di Sorveglianza subordinato ad un Comitato Etico di questo organo più ampio. E quindi non penserei affatto ad un modello di governo in cui abbiamo da una parte il Consiglio con l’Organo di Sorveglianza e dall’altra un Comitato etico perché questo significa la separazione della materia etica dalla struttura di comando dell’impresa, che non incarna un modello di CSR. Non mi sentirei inoltre di escludere che questa idea di separare le due funzioni in realtà sia rifiutata per una ragionevole preoccupazione di non avere un sistema con due teste completamente separate, con da una parte l’etica nel senso di responsabilità sociale e dall’altra della prevenzione dei reati. Io credo che esista nel mondo dell’impresa gente che avverte l’esigenza di incastrare un elemento dentro l’altro, per non moltiplicare le responsabilità, i compiti, le autorità interne e può darsi che il fatto che a voi risulti piccola la componente di governance del Codice nell’approccio CSR possa anche riflettere una cosa ragionevole, cioè che le due cose non devono essere separate. Sodalitas, una delle organizzazioni che si occupano di CSR con sede a Milano, propone invece la creazione della Commissione Etica che abbia la funzione di organo consultivo che serve ad ottenere una rappresentanza degli Stakeholder all’interno dell’azienda e che valuta le violazioni del Codice Etico e rimanda per l’irrogazione delle sanzioni agli organi interni all’azienda. Quello di cui diffiderei di più nell’analisi sono quelle imprese che non ripensano al disegno organizzativo ma aggiungono un Comitato ad hoc, perché lo prevede la legge, senza variazioni sostanziali, solo per dimostrare al magistrato giudicante che si è fatto qualcosa. Di solito il

magistrato si rende conto che si tratta di specchietti per le allodole. Un ridisegno organizzativo che incorpora il modello CSR nelle strutture di governo ordinarie dell’impresa potrebbe essere l’approccio più serio. Allo stesso modo perciò io vedrei bene quelli che inseriscono nella struttura di governo ordinaria il Comitato etico piuttosto che considerarlo semplicemente un orpello. Molto interessante è la considerazione di quanti membri indipendenti di varia natura, non interni diciamo così alla struttura manageriale, sono coinvolti in questi organi. Questo potrebbe essere un successivo aspetto da analizzare. L’idea di base è quella della complementarità tra diritto e CSR. Non bisogna contrapporre il tema dell’intervento giuridico con il discorso della volontarietà dell’autoregolamentazione. Ma la complementarietà giusta non è dal lato del tema 231. Per sfruttare la complementarietà bisogna partire da norme abilitanti dal punto di vista del diritto societario che, attraverso una forma di autoregolamentazione, le imprese possono darsi ad esempio attraverso un Codice Etico nel senso CSR che abbia validità di norma interna. Quindi esiste il problema dell’estensione dei doveri fiduciari degli amministratori delle società quotate, che in Italia non c’è ancora, e che pertanto aprirebbe la strada a norme di autoregolamentazione che diventano cogenti. Un altro tema rilevante è come inserire la valutazione della CSR all’interno della valutazione d’impresa, temi a cavallo tra autodisciplina e qualcosa che deve avere uno spazio all’interno della disciplina giuridica del diritto societario. Io condivido la tesi per cui non dobbiamo riproporre modelli statalisti privi di ratio. È necessario uno strumento che definisca qual è l’equilibrio tra Stakeholder e la conseguente funzione obiettivo dell’impresa, altrimenti il manager non è accountable. Non ci può essere una discrezionalità assoluta, per questo è importante l’autodisciplina: uno ha il diritto di pretendere di essere giudicato alla luce di questo insieme di impegni e della loro misurabilità. Ecco che allora è importante la rendicontazione, perché rende misurabile l’osservanza degli impegni nei confronti degli Stakeholder rendendo accountable chi gestisce. È necessario inoltre capire se l’evoluzione della disciplina di cui si parla sia nel senso di una nuova specie di “controllo pubblico” o della creazione di una forma di autonomia privata. Cioè, si va nel senso di un contrattualismo allargato oppure si va nel senso di un potere pubblico che impone un interesse? Questo è un punto cruciale, perché si può profilare il pericolo di un interventismo discrezionale tipico del “Tremonti statalista” seconda maniera, oppure, una forma di autonomia dei soggetti privati, in una cornice giuridica che abilita una forma nuova di democrazia economica, che è esattamente l’opposto.

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5.4 I Codici Etici nei sistemi normativi delle imprese di Mario Viviani Questo scritto si basa su di una metafora. Correntemente, si parla di “corpus normativo” per intendere una raccolta vasta e coerente di testi giuridici; è molto evidente – legata alla parola ‘corpo’ - un’idea fisica, un’impressione di spazio occupato, di peso, di volume. Ragionerò dunque del sistema normativo di un’impresa proprio come se si trattasse di una costruzione fisica all’interno di un determinato spazio, provvista di massa e densità, dotata di un baricentro e di un equilibrio statico più o meno stabile. L’obiettivo è di trattare delle regole dell’organizzazione - e più in particolare di Codici Etici - mettendomi dalla parte di un ipotetico “progettista di sistemi normativi”, o di un “progettista dell’organizzazione”, oppure di un “responsabile della governance” considerando tutti questi termini equivalenti, o quanto meno assai attinenti16. Tra i molti strumenti normativi di più o meno recente introduzione i più significativi ed emblematici sono certo i Codice Etico, veri crocevia tra fattori giuridici, espressioni della cultura organizzativa, arnesi organizzativi-gestionali. Mi concentrerò sui Codici per la loro capacità di rappresentare l’attuale momento di evoluzione delle imprese, sedotte da forze opposte: da una progressiva sensibilità verso i fattori sociali (dunque da una maggiore elasticità, complessità e “morbidezza” delle intenzioni imprenditoriali), ma anche, a volte, da illusioni ordinative e ingegneristiche di antico richiamo tayloristico. Sosterrò che la parte migliore dei Codici (l’utile, il buono) non è tanto nella loro immediata capacità di regolare i comportamenti dei soggetti, quanto in ciò che essi inducono e sedimentano nelle loro coscienze. È proprio quando termina il loro uso “tecnico” che inizia a provarsi il loro valore: quando dall’obbligo imposto si passa a quello scelto, quando i soggetti rimangono soli a decidere, quando non possono rivolgersi a nessuno per risolvere i dilemmi piccoli o grandi. È allora che i

Mario Viviani è Amministratore delegato di DTN Consulenza.

16

Su chi sia il progettista, costruttore e manutentore del sistema

normativo si potrebbe ovviamente aprire un ricco dibattito. Nella

concezione che fa da sfondo a questo scritto non si allude tanto a

una figura professionale specifica, quanto al governo dell’impresa,

considerando che la sua funzione è sempre meno quella di compiere

direttamente le scelte operative gestionali, ma di produrre e

adattare il sistema valoriale, che a sua volta informa i

comportamenti dei partecipanti indirizzandoli verso gli scopi

condivisi (che sono la vera radice dello stesso sistema valoriale).

Codici possono avviare, sostenere, orientare la responsabilità individuale (e dunque quella sociale dell’impresa). I codici erano apparsi con una certa baldanza all’inizio degli anni ’90, ma erano poi scivolati nell’oblio, a differenza dei loro stretti parenti: i Bilanci Sociali. Recentemente si è visto un ritorno di fiamma. Il merito principale è di una legge, il D. Lgs 231 del 2001 “sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche”, che ne sollecita l’adozione. Si potrebbe però allora dubitare sulla buona fede delle imprese: che esse cioè adottino i Codici perché la legge li prevede, più per convenienza che per vero convincimento. A caval donato non si guarda in bocca, si potrebbe dire. Non stiamo a discettare sulle motivazioni, osserviamo i risultati: un bel numero di imprese si è dotato di regole che fortificano l’osservanza della legge, evitando così differenti tipi di illeciti, con i connessi rischi civili e penali. Tutto questo è certo un bene, ma non corrisponde sempre a un vero sviluppo della responsabilità sociale, né a uno sviluppo dell’efficienza. Si sa: le leggi possono essere rispettate in modo sostanziale e convinto, ma anche in modo formalistico, utilitaristico. Il fatto di rispettare la legge è una sicura premessa alla responsabilità sociale, ma è solo una premessa. Mi soffermerò così sull’esigenza che i Codici si integrino col sistema normativo più complessivo, formato da corpi diversi: leggi, contratti, regolamenti, disposizioni organizzative, tradizioni dell’impresa e del suo ambiente. Tenterò di ragionare sull’equilibrio dei sistemi normativi, che devono possedere un baricentro, un luogo dove si incrociano e si uniscono gli interessi imprenditoriali, le dinamiche sociali e i principi etici che informano i comportamenti. Questo ruolo di connettore - questa funzione baricentrica - è ciò che io credo debba caratterizzare i Codici Etici, che devono dunque essere sostanzialmente connessi con l’intera gamma delle pratiche che, giorno per giorno, configurano la specifica Responsabilità Sociale dell’Impresa. Ciò non significa certo che i codici “figli della 231” siano per forza solo una specie di assicurazione contro possibili rischi civili e penali, un modo un poco ipocrita dell’impresa - dei suoi dirigenti e amministratori – di “coprirsi le spalle”. È però certo che la pura esistenza del codice non garantisce che quell’impresa possieda e manifesti una responsabilità sociale, che è tessuta con ben altro filo. Né significa che il fatto di disporre di un Codice aumenti di per sé l’efficienza e la coerenza dei comportamenti manageriali.

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Definizioni Per “sistema normativo” intendo il complesso delle regole di condotta prescritte a una determinata comunità umana. Esso può essere costituito da regole formali, ove esista un apposito e legittimo potere a emanarle, oppure informali, ove invece non vi sia tale potere, ma le norme derivino dalle consuetudini o da patti originari la cui radice si è disciolta nella coscienza d’ognuno. Non è detto che la forza di una regola dipenda dalla sua veste formale, o dalla sua origine. Possono esistere regole tradizionali e non scritte assai più potenti di quelle emanate da un’autorità appositamente costituita. Quasi mai i sistemi normativi sono costituiti interamente da regole formali oppure – all’opposto – solo da consuetudini. Sono quasi sempre invece un mix di entrambi i tipi. Ogni comunità umana è dotata di regole che ne determinano il funzionamento e l’espressione. A seconda della natura e dei caratteri della comunità, il complesso di regole (il sistema normativo) varia notevolmente. Più la comunità è specializzata (indirizzata a perseguire uno scopo, o pochi scopi) più il corpo normativo è definito e specifico. Più una comunità è ampia e despecializzata, più il sistema normativo è vasto, plurimo, composto, segmentabile. Dato che le comunità umane sono sovente integrate ed interconnesse, succede che i sistemi normativi si integrino alla pari delle comunità a cui si riferiscono. Ciò avviene secondo un principio di massima per cui la comunità più ristretta e specialistica costituisce e specifica il suo quadro normativo all’interno di quello (più generale) della comunità più vasta cui appartiene. Così – per esempio – le norme che regolano la vita di un comune o di una provincia si formano all’interno di quelle più generali dello stato; oppure le norme che riguardano un’impresa – il suo statuto, i suoi regolamenti, le sue regole organizzative - si costituiscono nel rispetto della legge dello stato. Lo stesso vale per le regole informali: i vincoli culturali e sociali che formano la struttura normativa di una comunità producono sempre effetti anche sui suoi segmenti più specifici, all’interno di un’impresa – sempre per esempio – si dice “buon giorno” o “buona sera” come fatto di ordinaria cortesia allo stesso modo in cui ci si comporta tra vicini di casa. Per questi gruppi sociali vige la stessa regola di buona educazione, che infatti appartiene alla comunità più larga di cui entrambi fanno parte. Una cosa è certa: più aumenta la complessità sociale (cioè le manifestazioni particolari che si generano all’interno di una comunità e ne rappresentano il divenire) più il sistema normativo diviene complesso e articolato. Si possono indicare i vari e differenti aspetti che devono essere regolati all’interno di una comunità per permetterne il

funzionamento come ambiti normativi: si tratta degli aggregati di fenomeni che richiedono specifiche regole per i comportamenti da tenere in determinate occorrenze. Tra complessità sociale e ambiti normativi non c’è totale congruenza, anche se c’è inevitabile relazione: non è automatico che l’aumento di complessità comporti immediatamente la produzione – formale o meno – di regole specifiche; anzi, esiste sempre una parte del funzionamento sociale che non è ancora regolata, in quanto nuova, di frontiera. Tuttavia – dato che le società aperte ed evolutive tendono a divenire più complesse (il nuovo che si aggiunge è assai superiore al vecchio che si perde o che non serve più) – c’è una naturale attenzione a fornire di regole il nuovo che si presenta. Se fino a poco tempo fa – per esempio – Internet era una campo totalmente privo di regole, ora sempre più si tenta di definire delle norme per il suo funzionamento. Oltre a specifiche leggi degli stati, sta - per esempio - prendendo corpo quella che, con significativo neologismo, viene indicato come “netiquette”19, cioè regole di condotta non legalmente vincolanti, ma considerate dalla comunità specifica (la comunità del Web) come necessarie. In sostanza, a un certo grado di sviluppo di una comunità si producono basi normative di carattere generale. Ciò capita per sanzionare l’esistenza di una identità comune (o di una “nuova” identità comune) ed è necessario sottoscrivere un patto sociale che la definisca. Il caso classico è quello della promulgazione di una nuova costituzione in ambito statale, oppure quello della sottoscrizione di un patto di integrazione o federazione tra stati, oppure – in scala assai più ridotta – la costituzione di un’impresa o di un’associazione. Il carattere generale di queste basi normative ne garantisce (o facilita) la durata nel tempo: si tratta infatti di principi “fondanti”, cioè espressione e rappresentazione diretta di una determinata sensibilità sociale, o di una esigenza generale. Ho fino a ora adoperato queste categorie:

sistema normativo: l’intero complesso delle regole di condotta prescritte a una comunità;

base normativa: le norme fondanti, che definiscono l’identità e il funzionamento basale di una comunità (si tratta dunque del “nocciolo duro” del sistema normativo);

ambiti normativi: particolari gruppi di fenomeni sociali a cui corrisponde una specifica regolamentazione;

complessità sociale: l’insieme (incrementale) delle occorrenze, dei fenomeni che costituiscono la società, che si stratificano sopra quelle precedenti.

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Uno schema di riferimento È possibile descrivere graficamente questi primi spunti con il disegno n. 1: si tratta di un sistema cartesiano in cui crescenti livelli di complessità sociale sono messi in relazione con gli ambiti normativi. Questi ultimi – disposti sull’asse delle ascisse uno di seguito all’altro - toccheranno vari aspetti funzionali e relazionali. Essi si saranno costituiti gradualmente, man mano se ne è manifestata la necessità e in un determinato momento si saranno integrati tra di loro, costituendo la base normativa.

Per esempio, immaginiamo di trattare di una associazione sportiva, o di volontariato sociale. Prima i (futuri) membri si sono trovati d’accordo rispetto a uno o più obiettivi, ma questo è successo perché – ancor più a monte – condividevano una certa visione delle cose, un certo interesse e probabilmente un certo stile di relazione. Via via, i membri si sono riconosciuti reciprocamente sempre meglio, individuando con crescente precisione gli interessi comuni. Avranno infine deciso di sancire questo reciproco riconoscimento e - a un certo momento del loro interagire, a un dato livello della complessità delle loro relazioni (indicato con x sull’asse delle ordinate) - avranno deciso per la costituzione formale della loro associazione. Il patto – sotto forma, per esempio, di atto costitutivo e statuto – è la base normativa, che contiene e riassume i principali ambiti normativi necessari alla vita e al funzionamento di quell’associazione. Questo è certo un esempio piccolo, ma le cose non sono molto diverse nel caso si tratti della costituzione di uno stato, di una società commerciale, di un matrimonio. In tutti questi casi una decisione con inevitabili contenuti sociali prende in considerazione una pluralità di ambiti normativi e li sistema in un corpo unitario e

coerente, sufficiente a dar forma all’entità sociale, e dunque a determinare l’esistenza e le caratteristiche di quella comunità. Il punto x sull’asse delle ordinate indica, come si è detto, un certo livello di complessità sociale e il momento del riconoscimento di sé da parte della comunità, che ha portato alla definizione della base normativa. Essa è ora, necessariamente, “bassa e larga”, costituita cioè solamente da quei principi e regole che permettono ai soggetti di riconoscersi, di fissare un’identità collettiva, di assumersi reciprocamente degli obblighi. I diversi elementi che costituiscono la base normativa (gli ambiti normativi) saranno quelli strettamente necessari a rendere riconoscibile e funzionante la comunità, ma non potranno mai contenere tutte le possibilità – occorrenze, opportunità, difficoltà - che i soggetti incontreranno nello sviluppo della loro relazione. La base normativa avrà dunque presto la necessità di essere meglio articolata e specificata, soprattutto se la comunità che si è costituita manifesterà caratteri di forte evoluzione. Appariranno nuove esigenze, nuovi casi che la base normativa generale non aveva preso in considerazione. Le manifestazioni sociali si differenzieranno e a ciò dovranno corrispondere nuove e specifiche regole di relazione. La comunità cambierà nella sua dinamica e nel suo costrutto, ma non tanto da perdere la sua identità, manifestata ancora efficacemente dalla base normativa generale. Le specificazioni si poggeranno dunque sulla base normativa generale, ma solo su di una sua porzione ristretta, “specificamente” ristretta, mentre si addentreranno nella complessità sociale, corrispondendo a un determinato e più alto livello d’ordinata. Nel disegno n. 2, osserviamo tre differenti corpi normativi che si dipartono dalla medesima base di tipo generale. Mettiamo per esempio che si tratti del Codice della strada (ambito a), del Codice civile (ambito b) e della Legge per la tutela del risparmio (ambito c). Ciascuna di queste leggi, nel nostro Paese, poggia sui principi rappresentati dalla Costituzione, ma prende in considerazione solamente alcuni dei suoi argomenti, che sono però sviluppati con grande approfondimento e corrispondono - sull’asse delle ordinate - a determinati livelli di complessità sociale.

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Un altro esempio – rappresentabile con lo stesso disegno - potrebbe essere quello dell’esigenza, arrivati a un determinato livello di sviluppo delle città e di complessità urbana, di disporre di regole urbanistiche e di norme edilizie, oppure, in presenza di un certo sviluppo del mercato capitalistico, dell’industria e del mercato finanziario, di regolare le attività di borsa, assieme o in parallelo alle norme riguardanti la governance delle società commerciali, eccetera. Il disegno n. 2 denuncia però, per quanto implicitamente, almeno due problemi:

1. tra i differenti corpi normativi (figure che hanno come altezza un determinato grado di complessità sociale e per base uno specifico ambito normativo) si possono aprire spazi o “vuoti normativi”, cioè mancanza di regole nelle eventuali relazioni tra essi. Potrebbe dunque darsi che tra regole urbanistiche, norme edilizie e regolamenti di borsa – tanto per rimanere all’interno dell’ultimo esempio – vi siano vaghezze o addirittura contraddizioni. Così come potrebbero manifestare difficoltà di relazione tra Codice civile e Codice della strada;

2. più un ambito normativo è specifico e riferito a un’alta complessità sociale (più è alta e stretta la figura che rappresenta un determinato corpo normativo), più la sua stabilità e il suo equilibrio sono precari; c’è insomma il rischio che il determinato corpo normativo non sia adeguatamente integrato al sistema normativo generale (non sufficientemente “embedded”) e che si presenti dunque come un corpo relativamente estraneo alla coscienza giuridica – o semplicemente alla cultura – della comunità.

Questi due fenomeni – possibilità di vuoti normativi e precario equilibrio dei corpi specialistici, sinteticamente illustrati nel disegno n. 3 – producono i due fondamentali problemi dei sistemi normativi, tanto più evidenti quanto più la complessità sociale si incrementa: - quello della possibile incoerenza tra le parti specialistiche che li compongono; - quello della instabilità dei corpi specialistici, ovvero della difficoltà del sistema normativo complessivo a rappresentare efficacemente (“sistematicamente”) la natura e il funzionamento sociale, ovvero la complessità sociale.

Perché questi problemi non divengano esiziali, è fondamentale che il processo normativo sia concepito come una ragionevole stratificazione, con l’obiettivo dunque che le specificazioni normative siano fortemente integrate (“agganciate”) con la loro base e che il passaggio tra un livello normativo e l’altro avvenga con gradualità.

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Il sistema normativo dovrebbe insomma svilupparsi con una progressione di corpi fortemente connessi, con successive basi d’appoggio solide e vaste, in modo da garantire sempre stabilità e congiunzione, proprio come si allude nel disegno n. 4, dove si osserva una forma vagamente piramidale di progressive basi normative che seguono lo sviluppo della complessità sociale e che formano un’intelaiatura connettiva che mette in relazione tra loro e puntella i corpi normativi specialistici. È questo – a mio avviso – il compito da assegnare nelle imprese ai Codici Etici. Diviene fondamentale insomma che la base normativa generale sia periodicamente aggiornata e adeguata al livello crescente di complessità. Questo sviluppo non eliminerà mai l’esigenza di corpi specialistici di regole, ma farà in maniera che essi non si sviluppino in solitudine, isolati gli uni dagli altri, pericolosamente introdotti nella complessità pur poggiando su ristrettissime basi. I sistemi normativi delle imprese Possiamo ora passare da questi concetti generali a un ragionamento riguardante più direttamente le imprese. L’impresa ha preso vita all’interno di una determinata comunità e ne condivide la base normativa generale. Questa base normativa serve egregiamente le esigenze dell’impresa per l’avvio della sua vita, ma non è sufficiente per il suo sviluppo. Conviene esemplificare subito. Se trattiamo di una impresa di costruzioni (disegno n. 5) si avranno diverse componenti normative che si integrano e si specificano gradualmente. I livelli 1 e 2 costituiscono la base di tipo generale, nel nostro caso rappresentata dalla Costituzione e dal Codice civile (che definiscono in generale la legittimità dell’iniziativa economica, il ruolo e il costrutto dell’impresa, i caratteri della forma istituzionale “società”). Anche il blocco normativo superiore (nel disegno si allude alle norme sugli appalti, alle norme ambientali e a quelle riguardanti la sicurezza sul lavoro, ma ovviamente i corpi normativi che entrano nel gioco sono molti di più) è di tipo molto generale e di derivazione legislativa. A seconda del luogo in cui l’impresa svilupperà la sua attività entreranno poi nel gioco le leggi e i regolamenti locali, che avranno certamente significativi effetti sulla sua azione. Tutto ciò costituisce il più o meno solido e coerente piedestallo su cui si sviluppa poi l’attività normativa che si potrebbe definire “specifica e interna”. Queste norme specifiche e interne entrano direttamente nei particolari di “quella impresa”, o di quella categoria di imprese. Anche queste norme possono avere varia natura: ve ne saranno di formali e impegnative nei confronti dei terzi (lo statuto, i contratti), di formali ma valide

unicamente per i partecipanti (regolamenti, procedure, norme di condotta, disposizioni organizzative), infine di informali e frutto di consuetudine (si dice, in generale, la “cultura organizzativa”).

Il ragionamento è volutamente semplificato ma è sufficiente a descrivere le dinamiche fondamentali:

la base normativa è destinata ad articolarsi e differenziarsi nel tempo, arriverà però il momento in cui la stessa norma giuridica (e valida erga omnes) non sarà più sufficiente a indirizzare i comportamenti dell’impresa;

appariranno infatti delle specificità riguardanti proprio “quella” impresa a cui le regole generali non potranno più dare risposta, appariranno dei fenomeni complessi e particolari che dovranno essere interpretati e regolati solo da “quella” impresa;

a regolare questi sempre nuovi e specifici ambiti di relazione vi saranno prima i contratti – che hanno ancora un forte carattere di generalità – poi man mano appariranno regole ancor più particolari e minuziose che riguardano proprio “quella” impresa o – al suo interno – gruppi ancor più ristetti di soggetti.

Contratti, regole interne e ambiti discrezionali del management L’attività di diretta produzione normativa dell’impresa inizia con lo statuto e si sviluppa con i contratti. A differenza degli strati normativi inferiori (la base normativa) i contratti non sono regole generali (anche se spesso a esse si richiamano), ma impegnano specifici soggetti relativamente ad argomenti specifici. I contratti sono tuttavia equiparati alle leggi, non solo perché da esse derivano e sono tutelati, ma perché si tratta di patti che impegnano e coinvolgono una pluralità di interlocutori ed hanno dunque sanzione sociale, tutela di legge. Dai contratti “in su” si apre il vero e proprio capitolo

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dei sistemi normativi interni. I sistemi normativi interni possono essere costituiti da corpi assai variegati e di differente costrutto formale: assimilati ai contratti in alcuni casi, scritti, non scritti, facilmente modificabili, sostanzialmente rigidi, di matrice fortemente razionale, di derivazione più generalmente culturale, dovuti a una specifica tradizione organizzativa, mutuati dall’ambiente di riferimento, ecc. Si tratta però sempre di istituti (convenzioni, regolamenti, apparati semantici, procedure, liturgie, eccetera) che, nei fatti, strutturano e indirizzano i comportamenti verso esiti “ritenuti giusti”, in grado di mantenere l’orientamento degli avvenimenti verso gli scopi fondamentali dell’organizzazione.

Nel disegno n. 6 questi concetti sono simboleggiati molto semplicemente: sull’asse delle ordinate tra il punto 0 e il punto 0 si manifestano i tratti generali e basali del sistema normativo, costituito principalmente dalle leggi e dai contratti. La complessità sociale – che pure si eleva rispetto al fatidico (e sostanzialmente virtuale) punto 0 – è relativamente bassa, almeno se confrontata con le particolarità dell’organizzazione e con i suoi bisogni normativi. Dal punto 01 in avanti – dove inizia la normazione interna - si entra in ambiti più particolari e specifici, che devono essere affrontati in modo sempre più intensamente connesso con le particolarità dell’organizzazione. Dal punto 01 in avanti la base normativa si restringe, proprio perché ora si tratta squisitamente di “quella” impresa. Il complesso delle norme generali (il più delle volte formali) che occupano lo spazio tra 0 e 01 non può coprire tutte le esigenze normative delle imprese che – col passare del tempo e con la stratificazione delle loro esperienze – hanno l’esigenza di ulteriori e più mirati criteri per indirizzare il comportamento dei soggetti operanti nel suo seno. Questo concetto merita un minimo di approfondimento.

Uno degli effetti più evidenti dell’evoluzione tecnologica e sociale sul mondo delle imprese è l’aumento del potere discrezionale (e dunque della responsabilità) dei soggetti dell’organizzazione. Le moltissime informazioni disponibili, la rapidità di movimento, le reti della comunicazione, hanno di molto aumentato la gamma delle alternative disponibili per coloro che devono compiere le scelte. Sono parimenti aumentati i dubbi e i dilemmi conseguenti. A queste tendenze molto generali si aggiungono poi altri due fondamentali fattori:

l’economia dei servizi: come è noto, nei paesi più sviluppati le attività terziarie concorrono alla produzione globale di valore in modo preponderante. Si tratta di attività nelle quali – a differenza di ciò che avviene nell’industria tradizionale – il processo produttivo si realizza all’interno di una relazione (necessaria) tra fornitore e cliente. Ciò fa aumentare le possibili alternative, di pari passo con la personalizzazione del rapporto;

l’impresa piatta: l’esigenza per l’impresa di accorciare i tempi di adattamento rispetto alle mutazioni del mercato comporta una necessaria maggiore responsabilità e discrezionalità della front-line, che – in carenza di specifici presidi - potrebbe ridurre le coerenze nei comportamenti organizzativi dei soggetti dotati di discrezionalità, tutti parimenti autorizzati a compiere scelte autonome.

Tutto ciò comporta l’esigenza di garantire congruenza ai comportamenti organizzativi, in modo che le maggiori autonomie siano compensate da una più forte condivisione degli obiettivi finali e da un più riconoscibile stile unitario dell’impresa, soprattutto rappresentato dai comportamenti manageriali. Non si tratta di cosa facile, né perseguibile con i tradizionali strumenti organizzativi quali le procedure, le disposizioni, gli standard, sia perché gli strumenti tradizionali contrastano con il costante bisogno di accorciare i tempi, sia per ragioni ancora più connesse all’evoluzione delle imprese e alla modifica dei loro confini. Infatti, le attività standardizzabili – dunque normabili “una volta per tutte” – tendono a essere sempre più regolate con contratti d’esternalizzazione. Se una attività deve portare a un esito specifico è molto più conveniente realizzarla attraverso contratti che definiscano in modo certo l’output atteso. I processi standardizzabili non possono essere più considerati il vero e proprio cuore dell’impresa, che è costituito invece proprio dalla sua stessa variabilità, dalla sua indeterminatezza, dalla sua capacità di trattare creativamente e efficacemente proprio

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l’indeterminabile. Sono questi ambiti incerti che devono essere governati non tanto da procedure (l’indeterminabile per definizione non è sottoponibile a procedure), ma da un complesso di principi d’orientamento riferiti ai fini, all’etica, al patto sociale che presidia l’esistenza dell’organizzazione. Il cuore dell’organizzazione è dunque costituito dai suoi valori di riferimento e dalla sua capacità di trasferirli efficacemente nelle differenti fattispecie non predeterminabili. Il cuore dell’organizzazione è nella sua capacità di produrre configurazioni sempre nuove del suo core-business, legate tra di esse dal sistema valoriale e normativo, che dunque rappresenta il nucleo più forte della formula imprenditoriale. Il compito del manager è di costruire, nelle varie fattispecie con cui egli si dovrà misurare, delle configurazioni imprenditorialmente efficaci del nucleo valoriale e normativo che rappresenta la specificità dell’impresa. Rimangono dunque all’interno delle organizzazioni - rappresentandone il cuore - le attività e le competenze non fungibili, necessariamente connesse con amplissimi margini di discrezionalità. Tali “competenze non fungibili” - a loro volta e proprio perché tali - impongono sistemi di temperamento, ovvero di stabile richiamo alla missione condivisa, o alle intenzioni originarie. Tutti questi sono argomenti che costituiscono una parte delle ragioni d’esistenza dei Codici Etici, ma solo una parte. Contemporaneamente ai fenomeni appena accennati ne è infatti apparso un altro, pervasivo e incerto, ma destinato gradualmente a precisarsi e a crescere. Si tratta del grande processo-problema della responsabilità sociale, cioè dell’assunzione (o della scoperta) di “nuovi” obblighi per l’impresa, dovuti ai maggiori condizionamenti esterni, a loro volta prodotti dall’aumento della complessità sociale. Il manager e l’amministratore dell’impresa si trovano dunque di fronte a questi elementi che stanno rivoluzionando le sue competenze e responsabilità rispetto ad appena un paio di decenni fa:

sviluppo tecnologico: comunicazione, velocità, movimento, variabilità,

evoluzione verso l’economia terziaria;

modifiche nella forma delle imprese - appiattimento delle organizzazioni, aumento della responsabilità (e discrezionalità) delle posizioni di front-line;

esternalizzazione delle funzioni fungibili e gestibili attraverso contratti;

nascita e crescita della Rsi. Anche solo accennando a questi argomenti appare evidente che i sistemi di regole debbono adattatasi a queste novità, che però è pleonastico indicare solo come “novità”, perché in effetti si tratta di una vera e propria rivoluzione, un vero e proprio cambiamento di natura dell’impresa, e dunque del suo sistema normativo.

Ed è proprio a questo punto che ha iniziato a svilupparsi la pratica dei Codici Etici: apparentemente soltanto una nuova categoria di regolamenti, ma in effetti il sintomo, non sempre colto appieno, di questa rivoluzione in corso. Il ruolo dei Codici Etici nel sistema normativo La peculiarità dei Codici Etici rispetto agli altri tipi di regolamenti è la loro forte caratterizzazione etico-morale, il cui rilievo supera di gran lunga quello – pur esistente - di tipo funzionale o organizzativo. Qualunque sia il momento della loro apparizione, i Codici manifestano sempre una natura quasi costituzionale. Il loro costrutto (contenuti, linguaggio, ispirazione) richiama spesso la “base normativa generale” e la loro funzione ha rilevanti caratteri fondativi o ri-fondativi. I Codici infatti di solito rappresentano in modo sintetico e unitario il complesso di intenzioni, di riferimenti etici, di principi razionali che inquadrano l’esistenza dell’organizzazione e ne spiegano il senso. Come si è detto, spesso i Codici prendono vita dopo altri apparati di norme – regolamenti, procedure organizzative, standard di qualità – proprio perché tali apparati costituiti in tempi diversi possono manifestare una certa disomogeneità, oppure perché non sono più sufficienti a fornire gli indirizzi necessari alla maggior complessità. In questo caso i Codici servono come revisione e completamento del sistema normativo esistente, o come rilettura e coordinamento tra le sue varie parti. I codici rappresentano dunque contemporaneamente la parte estrema del sistema valoriale e la parte iniziale del sistema normativo più specifico dell’impresa (regolamenti, standard di servizio, manuali di qualità e organizzativi, protocolli ed altro). A questo allude il disegno n. 7. Infine, l’impresa viene normalmente concepita come un unico soggetto dotato di propria responsabilità, ma si tratta di una semplificazione. Dentro l’impresa ci sono infatti i soggetti umani ed è proprio a loro che i Codici si rivolgono. I Codici trattano sempre di comportamenti, costituendo la base valoriale in grado di orientare quelli non definibili a monte – dunque normabili - per la loro particolare natura, specificità, mutevolezza; per orientare dunque i comportamenti della nuova configurazione di quell’impresa “incerta”, a cui si è accennato al precedente paragrafo. Ecco la più importante funzione dei Codici: rendere sostenibile - per i soggetti che operano nell’impresa – la variabilità e l’indeterminatezza oggi così crescenti e pervasive. Questo ambito “non normabile” in modo preventivo è quello della responsabilità individuale.

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Codici Etici, responsabilità, fiducia In questo ultimo paragrafo tenterò di chiudere il cerchio dei rapporti tra Codici Etici, sistema normativo e responsabilità individuale, argomentando sul fatto che proprio lo sviluppo della responsabilità individuale è lo scopo elettivo dei Codici Etici. Come si è già detto, esistono fatalmente nelle imprese delle aree di relazione sociale non normate o non ancora normate. Questo spazio si espande costantemente per effetto della complessità crescente, come se i confini si allargassero man mano, toccando zone mai esplorate. Non è affatto detto che in questi spazi debba valere la discrezionalità assoluta, ove ognuno possa fare ciò che vuole. Esisterà sempre una parte delle relazioni sociali non ancora normata e dunque la questione diventa: è possibile rendere vivibile, ordinato, produttivo, “etico”, questo spazio nuovo e crescente, o ci dobbiamo rassegnare a poter regolare unicamente il campo conosciuto, già processato da valutazioni, analisi, patti e convenzioni? Dobbiamo richiuderci nel fortino munito della regola formale o possiamo pensare di poter inoltrarci nel terreno ancora sconosciuto con una bussola efficace? La mia risposta è – come si sarà già capito – ma certo che possiamo inoltrarci: un campo non ancora normato è certamente marcato dalla discrezionalità dei soggetti, ma ciò non significa che esso debba essere proprio privo di regole. Significa invece che è quella stessa discrezionalità che deve corrispondere a una regola. La parte non ancora normata (generata dalla complessità) deve essere affidata alla responsabilità dei soggetti e “civilizzata” dal carattere fiduciario delle relazioni sociali. Tale carattere fiduciario delle relazioni deve essere generato da basi normative generali, poi da ulteriori regolamentazioni specialistiche e infine da impegni liberamente assunti dai soggetti e nutriti da principi di interpretazione e comportamento rappresentati – ecco il punto – dai Codici Etici. In sostanza deve esistere una progressione di ruolo degli strumenti normativi:

alla base del sistema normativo devono esistere le

leggi, i contratti, i regolamenti. Essi rappresentano il livello minimo su cui si costruisce l’identità delle organizzazioni e su cui si sviluppano le loro fondamentali manifestazioni sociali, interne ed esterne;

un livello ulteriore di regolamentazione è costituito dai Codici Etici che rappresentano da un lato l’aggiornamento delle basi normative richiesto dalla complessità e dall’altro lato il puntello su cui si può sviluppare la responsabilità degli attori.

il terzo e ultimo livello di questo sistema è rappresentato proprio dalla responsabilità dei soggetti, che si nutre dei precedenti livelli. La responsabilità, in questa accezione, è anch’essa una modalità di normazione, soprattutto ove essa si manifesti in modo relazionale - cioè dialettico e negoziale - tra i soggetti, generando forme di relazione pattuite e ripetibili;

esiste infine un quarto livello, ed è quello che apparentemente potrebbe apparire privo di specifiche forme di regolazione, che è quello della fiducia. Si deve intendere la fiducia reciproca dei soggetti come un elemento di regolazione, dato che intendiamo la fiducia come “ragionevole attesa che gli attori facciano la propria parte”, ovvero come “affidamento di proprie risorse ad altri nella ragionevole attesa che esse saranno impiegate con maggior mutuo vantaggio”. Certo, il livello normativo della fiducia è difficilmente indicabile come vero e proprio “campo normato”, dato che non è definibile a priori, ma si manifesta unicamente alla prova dei fatti. Eppure è nell’esperienza di noi tutti l’aver constatato quanto la fiducia reciproca possa in diversi casi apparire come l’unica regola efficace a determinare una certa configurazione dei comportamenti sociali.

Il disegno n. 8 sintetizza il concetto: i differenti corpi normativi si sistemano progressivamente, inoltrandosi nella complessità sociale. Al vertice del sistema si collocano rispettivamente la responsabilità degli attori e le relazioni fiduciarie che ne sono il prodotto. L’esito progressivo del sistema normativo è così di costituire un ambiente sociale contrassegnato dalla fiducia (reciproca) degli attori. Si tratta dunque anche in questo caso di un ambito anch’esso normato, anche se non in modo formale: ciò che lo rende tale è la fiducia. Consideriamo ora i medesimi argomenti secondo criteri più analitici. I sistemi normativi possono derivare da due concezioni assai differenti, che – in via allusiva – chiamerò “a direzione discendente” e “a direzione ascendente”: 1. quelli “a direzione discendente” funzionano come

una grande coperta normativa, una struttura adeguatamente articolata che “ricopre” tutte le

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possibilità, i casi e le occorrenze, determinandone a priori le possibili configurazioni;

2. si tratterà invece di un sistema normativo “a direzione ascendente” quando il funzionamento è esattamente opposto e il sistema si interpreta come una base, una progressiva costruzione che “sostiene” le scelte, che si articola nei vari corpi normativi che affrontano fattispecie ed occorrenze, ma che soprattutto è in grado di manifestarsi nel vasto campo dell’imprevisto o del non definibile, che – in altre parole - funge da sostegno o piedestallo alla responsabilità individuale.

Il fatto che un sistema normativo sia a direzione ascendente o discendente non è immediatamente svelato dalla sua configurazione. Dunque non lo capiamo semplicemente osservando la sua immagine statica, di quali documenti è fatto, di quali tradizioni, di quali convenzioni, di quali supporti materiali. Lo capiamo solo osservandolo in funzione. I sistemi normativi “a direzione discendente” richiamano il classico comportamento burocratico: la norma deve trattare tutte le fattispecie e dunque tutte le possibilità in modo esaustivo. Tutto deve essere previsto e regolato e ciò che non è esplicitamente normato lo deve essere per assimilazione (dunque in via giurisprudenziale o dottrinaria), la qual cosa prevede la presenza di interpreti accreditati: giudici, esperti, specifiche magistrature. Si tratta di una concezione in fondo velleitaria, dato che è impossibile operare sempre per assimilazione, proprio perché la situazione sociale è in continuo cambiamento e si manifesta in forme non solo nuove, ma spesso non riferibili al paradigma precedente. L’esito probabile sarà dunque di rallentare l’evoluzione sociale, addirittura di contrastarla, proprio per la forzosa stabilità del paradigma di riferimento. L’altra modalità – quella “a direzione ascendente” – parte invece dall’assunto che i vari corpi normativi – formali o informali che siano – devono mirare a orientare, definire, sviluppare la responsabilità degli attori, non sostituendosi al loro discernimento, ma costituendone gli assunti principali. Il concetto da cui si muove questa impostazione normativa è che in una società in evoluzione deve esistere un costante aggiornamento delle basi normative. La base normativa deve corrispondere all’evoluzione sociale (se possibile anticiparla) e le trattazioni specifiche devono solamente esplicitare questa evoluzione, non essendo in grado – per la loro natura – di interpretarla compiutamente. Ecco dunque il ruolo dei Codici Etici nelle imprese: essi non hanno

solamente una funzione normativa diretta o specifica, anzi: il loro principale ruolo è di tipo generativo e basale, cioè di influsso – il maggiore possibile – sullo spazio discrezionale dei soggetti, proporzionalmente alla responsabilità di cui dispongono.

Ogni soggetto sociale, nella scelta dei comportamenti, tiene inevitabilmente conto di due aggregati di variabili: il sistema normativo e il contesto sociale, con la sua evoluzione. In altre parole deve collegare le norme esistenti ai casi sociali in cui è coinvolto. Se il grado di complessità sociale è basso il sistema normativo sarà ben in grado di fornire tutti gli indirizzi per i comportamenti dei soggetti, se il grado di complessità è alto il sistema non sarà in grado di regolare le manifestazioni dei livelli più avanzati di complessità. L’influsso della sua base normativa sarà gradualmente più debole man mano ci si sposterà in alto nel sistema cartesiano costituito dagli “ambiti normati” e dalla “complessità sociale”. Il sistema normativo delle imprese (e delle organizzazioni in genere) man mano ci si addentra nella complessità sociale è necessariamente meno definito. Appaiono allora corpi specialistici di norme che si addentrano come avanguardie nell’area inesplorata della complessità. Questi corpi possiedono una base d’appoggio ristretta e sono solitamente poco collegati tra di loro, con inevitabili vuoti normativi tra un corpo e l’altro, e a volte con rischi di sovrapposizioni e conflitti. A ciò si alludeva già nel disegno n. 3, dove i corpi normativi specialistici si alzavano come stalagmiti dalla base normativa comune all’interno dell’area non normata. Gli spazi vuoti tra un corpo e l’altro significano le molte possibilità di azioni, transazioni e scelte prive di regole specifiche. Ci si dovrà dunque affidare all’assimilazione o – assai più probabilmente – all’autonoma responsabilità dei soggetti. Nel disegno n. 3 le prospettive di stabilità dei corpi normativi che si dipartono dalla base comune appaiono quantomeno incerte. Il loro appoggio è ristretto, sostenendo un esile corpo che si inoltra nella complessità sociale.

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Risulta altrettanto evidente l’isolamento tra i corpi specialistici: tra un corpo e l’altro vi possono essere infatti dei rilevanti vuoti, con i rischi a cui si è già accennato. Un primo indirizzo generale per il progettista e il manutentore del sistema normativo è dunque quello di costruirlo e plasmarlo in modo che le sue successive espressioni (i successivi corpi che nasceranno e si svilupperanno nel tempo) siano il più possibile promananti in modo graduale dalla base normativa generale. Ciò significa che le normazioni progressive devono essere ben ancorate (“distese”) alla base generale, in modo che la costruzione normativa sia solida. A questo si alludeva anche nel disegno n. 8, in cui le successive forme normative si sviluppavano dalla base con una modalità “a piramide”. Ci si deve dunque domandare se la specifica regola, norma o dispositivo organizzativo siano veramente “ben saldi” sulla base di tipo generale, senza vuoti tra essi, senza sovrapposizioni contrastanti. Ovviamente questo criterio comporta anche la verifica se la base normativa sia adatta a sostenere le progressive costruzioni specialistiche. Come dire insomma che la produzione di norme sempre più introdotte nella complessità sociale dovrebbe sollecitare il senso critico relativamente al sistema normativo di cui si dispone. Per quanto l’azione del progettista e manutentore del sistema normativo sia efficace, esisteranno tuttavia degli inevitabili vuoti normativi, dovuti da un lato al

fatto che la norma non corrisponde mai appieno alla complessità sociale e dall’altro al fatto che trattando di fattispecie sempre più “fini”, i complessi normativi tendono ad assottigliarsi, in proporzione appunto al loro specialismo. Rimangono insomma delle aree necessariamente non normate, a cui si allude, nel disegno n. 8, con l’area tratteggiata. C’è dunque una inevitabile area della discrezionalità degli attori, in cui si deve esprimere la responsabilità dei soggetti. Un “vero” sistema normativo non dovrebbe dunque tendere illusoriamente a trattare tutte le fattispecie possibili di relazione tra soggetti, ma a produrre una più alta possibilità di congruenza tra corpi normativi diversi e dunque una maggiore possibilità di integrazione e sviluppo tra comportamenti di attori diversi. Chiameremo generalmente quest’area sociale, non specificamente normata, ma ispirata da sistemi normativi diversi, “fiducia” o “area della fiducia”. Si deve intendere con essa la presunzione generalizzata che i diversi attori - sulla base del sistema normativo generale, dei corpi normativi specifici e sulla base della rispettiva responsabilità istituzionale e individuale - si comporteranno in ogni contingenza secondo un criterio etico condiviso ed esplicito (ecco il codice) o che – in altri termini – “facciano in ogni occorrenza la propria parte”.

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