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1 I c.d. reati satelliti negli abusi edilizi Durante le indagini in tema di reati edilizi, accade di imbattersi nella consumazione necessaria o occasionale di ulteriori e diversi reati. Gli interessi economici coinvolti sono notevoli, mentre l’attività edificatoria è fortemente limitata da una serie di stringenti parametri legali. Per tale ragione il privato decide spesso di intervenire sulle determinazioni dell’amministrazione, allo scopo di essere autorizzato a realizzare più del consentito, o attraverso accordi illeciti o fornendo agli uffici tecnici una falsa rappresentazione della realtà così da ottenere un titolo abilitativo non altrimenti ottenibile. Vengono pertanto in rilievo una serie di fattispecie di reato, collegate ai reati edilizi in senso stretto, che trovano occasione in questi ultimi e che, per quanto possibile, saranno oggetto di questa relazione. 1 Reati contro la fede pubblica nella formazione del titolo abilitativo: permesso di costruire, d.i.a./s.c.i.a.: 1.1 Con riferimento all'iter di formazione del permesso di costruire, viene in rilievo in primo luogo la dichiarazione (meglio: relazione) del progettista abilitato di asseverazione della conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, fra l’altro, alle norme igienico-sanitarie.

I c.d. reati satelliti negli abusi edilizi · 1 I c.d. reati satelliti negli abusi edilizi Durante le indagini in tema di reati edilizi, accade di imbattersi nella consumazione

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Page 1: I c.d. reati satelliti negli abusi edilizi · 1 I c.d. reati satelliti negli abusi edilizi Durante le indagini in tema di reati edilizi, accade di imbattersi nella consumazione

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I c.d. reati satelliti negli abusi edilizi

Durante le indagini in tema di reati edilizi, accade di imbattersi nella consumazione

necessaria o occasionale di ulteriori e diversi reati. Gli interessi economici coinvolti sono

notevoli, mentre l’attività edificatoria è fortemente limitata da una serie di stringenti

parametri legali. Per tale ragione il privato decide spesso di intervenire sulle determinazioni

dell’amministrazione, allo scopo di essere autorizzato a realizzare più del consentito, o

attraverso accordi illeciti o fornendo agli uffici tecnici una falsa rappresentazione della

realtà così da ottenere un titolo abilitativo non altrimenti ottenibile.

Vengono pertanto in rilievo una serie di fattispecie di reato, collegate ai reati edilizi in senso

stretto, che trovano occasione in questi ultimi e che, per quanto possibile, saranno oggetto di

questa relazione.

1 Reati contro la fede pubblica nella formazione del titolo abilitativo: permesso di costruire, d.i.a./s.c.i.a.:

1.1 Con riferimento all'iter di formazione del permesso di costruire, viene in rilievo in primo

luogo la dichiarazione (meglio: relazione) del progettista abilitato di asseverazione della

conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti

edilizi vigenti, alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività

edilizia e, fra l’altro, alle norme igienico-sanitarie.

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La relazione di asseverazione è prevista dall'art. 20 comma 1° D.P.R. n. 380/01 a corredo

della domanda di rilascio del permesso di costruire. Entro sessanta giorni dalla

presentazione della domanda, il responsabile del procedimento cura l'istruttoria, acquisisce i

pareri necessari e, valutata la conformità del progetto alla normativa di settore, formula una

proposta di provvedimento, corredata da una relazione dettagliata, con la qualificazione

giuridica dell'intervento richiesto.

In proposito, l’art. 20 comma 9° D.P.R. n. 380/01 individua una autonoma fattispecie di

reato – sostanzialmente sovrapponibile alla norma generale dell’art. 481 c.p., seppure con

pena edittale notevolmente più alta – per colui (progettista o committente) che renda false

dichiarazioni, attestazioni o asseverazioni in ordine alla esistenza dei requisiti e presupposti

di cui al comma 1°. Si tratta di una ipotesi di responsabilità diretta del progettista che renda

false dichiarazioni, indipendentemente dall’atto finale in cui tali dichiarazioni confluiscano

e dalla eventuale falsità di esso.

Si pone tuttavia il problema ben più rilevante della responsabilità del progettista, il quale

rediga elaborati progettuali riportanti dati falsi o una relazione di asseverazione anch'essa

riportante informazioni false sulla sussistenza dei presupposti per il rilascio del titolo

abilitativo, in relazione alla falsità per induzione del permesso di costruire, che recepisca tali

false informazioni. In proposito si è sostenuto che la documentazione e la eventuale

relazione presentata dal tecnico progettista ai fini del rilascio del permesso di costruire non

avrebbe valore probante e fidefaciente assoluto ai fini della esatta riproduzione dello stato

dei luoghi. Tale documentazione invece costituirebbe solo un dato documentale che illustra

i termini tecnici e fattuali della richiesta di permesso, in ordine ai quali tuttavia il

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competente ufficio tecnico avrebbe ampio potere istruttorio con conseguente dovere di

verifica dell’esattezza dei calcoli del progettista e della conformità del progetto alla

normativa edilizia, di chiedere eventuali chiarimenti ed integrazioni alle parti richiedenti. Ne

conseguirebbe, secondo tale orientamento – invero risalente e ormai minoritario – che il

progettista non potrebbe rispondere della falsità dell’atto derivato, ma solo del reato

autonomo ex art. 481 c.p. (Cass. pen., sez. III, 24.1.2008, n. 9118). Contrariamente

all’indirizzo testé riassunto, prevale nella Suprema Corte la convinzione che risponderà di

falso ideologico per induzione (oltre che di concorso nel reato edilizio posto in essere dal

committente) il tecnico che, nel progetto, abbia dolosamente alterato la realtà dei fatti

inserendo dati non veritieri o omettendo di indicare elementi rilevanti, così da ottenere il

rilascio di un permesso di costruire, contenente dati falsi, che non sarebbe stato rilasciato

ove la rappresentazione dei dati fosse stata fedele. In altri termini quello che occorre, ed è

sufficiente, perché il privato o l’esercente un servizio di pubblica necessità, ai quali si

riconoscono poteri certificativi, rispondano pure della falsità dell’atto altrui derivato dal

proprio e che la immutatio veri cada sull’esistenza di un presupposto in assenza del quale il

provvedimento non avrebbe potuto essere adottato (Cass. pen. Sez. V, 7/12/2007, n. 3146).

Esemplificando, la indicazione di misure inesatte nel progetto, con riferimento alle

superfici, alla dimensione del lotto, alle distanze dagli edifici preesistenti, o anche lo

sviluppo artefatto, perché basato su calcoli o criteri tecnici scientemente inesatti, di misure

nel computo delle volumetrie assentibili, riguardano la esistenza di un presupposto

essenziale del permesso di costruire, in assenza del quale il provvedimento non avrebbe

potuto essere adottato.

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Ulteriore questione è quella della ammissibilità di una doppia incriminazione del progettista

(per falsa attestazione e per falsità dell’atto indotto ai sensi dell’art. 48, 480 c.p.); essa aveva

destato non poche perplessità, che devono ritenersi ormai definitivamente risolte grazie

all’intervento delle Sezioni Unite che, con la sentenza del 28/6/2007, n. 35488, Scelsi,

hanno ribadito – seppure con specifico riferimento al rapporto fra l’ipotesi dell’art. 483 c.p.

e quella dell’art. 48, 479 c.p. - che il delitto di falsa attestazione ben può concorrere, quando

la falsa dichiarazione del mentitore sia prevista di per sé come reato, con quello della falsità

per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto al quale l’attestazione

inerisca, sempreché la dichiarazione non veridica concerna fatti dei quali il certificato o

l’atto del p.u. è destinato a provare la verità e che la falsa indicazione cada sulla esistenza di

un presupposto essenziale dell’atto, in assenza del quale il provvedimento non avrebbe

potuto essere adottato. Circa la compatibilità tra responsabilità del privato per induzione in

errore del pubblico ufficiale e dovere di verifica e controllo da parte di quest’ultimo, il

richiamo al precedente art. 47 c.p. contenuto nello stesso art. 48 c.p. non lascia dubbi in

ordine alla possibilità che la responsabilità dolosa del mentitore, autore mediato, concorra

con una condotta colposa dell’ingannato, autore materiale del fatto reato (condotta della

quale ovviamente costui sarà chiamato a rispondere solo in caso di previsione di un reato

colposo). Ne consegue che l’autore della falsa attestazione che incida su un presupposto

essenziale per la emanazione del permesso di costruire andrà esente da responsabilità per

falso per induzione in errore nella sola ipotesi, di scuola, in cui il pubblico ufficiale sia

caduto in errore solamente per causa propria, mentre siffatta esclusione non opera nel caso

in cui “l’inganno del decipiens e la colpa del deceptus concorrano nel provocare la falsa

rappresentazione”.

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Da segnalare, infine, che il progettista che abbia indotto in errore il pubblico ufficiale nel

rilascio del permesso di costruire risponderà di falso per induzione in autorizzazione

amministrativa (artt. 48, 480 c.p.) e non di falso per induzione in atto pubblico (artt. 48, 479

c.p.). La Suprema Corte, a Sezioni Unite, ha infatti stabilito che il permesso di costruire non

abbia natura giuridica di atto pubblico, bensì di autorizzazione amministrativa. Tale

provvedimento, infatti, ha la funzione di rimuovere un limite di natura pubblicistica

all’esercizio di un diritto (lo ius aedificandi) preesistente in capo al privato destinatario

dell’atto e non di costituirne uno nuovo. Il diritto di edificare infatti inerisce alla proprietà,

ma deve essere esercitato in concreto nei limiti previsti dal regime della edificabilità dei

suoli; una volta accertato che sussistono le condizioni previste dall’ordinamento per il libero

esercizio di tale diritto, il rilascio del permesso di costruire è atto dovuto. Il provvedimento

inoltre è carente delle caratteristiche proprie della concessione amministrativa, in quanto è

atto dovuto, e non discrezionale, irrevocabile e trasmissibile con l’immobile al quale accede

(Cass. pen., Sez. Un., 20/11/1996, n. 673).

1.2 Passando all'esame dell'iter della dichiarazione di inizio attività (D.I.A.) e della

segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A.), viene in rilievo la questione della

natura giuridica della relazione di asseverazione prevista dall’art. 23 co. 1° D.P.R. n.

380/01, che il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo di legittimazione deve depositare

a corredo della denuncia di inizio attività. Tale relazione, redatta da un progettista abilitato,

riguarda la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati, il non

contrasto con quelli adottati, la conformità ai regolamenti edilizi vigenti, alle norme di

sicurezza e a quelle igienico-sanitarie. Il tema incide sulla configurabilità del falso previsto

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dall’art. 481 c.p., in caso di dichiarazioni non veritiere in essa contenute, e sulla qualità di

persona esercente un servizio di pubblica necessità attribuita espressamente dalla legge (art.

29 co. 3° D.P.R. n. 380/01) al progettista incaricato di redigere la relazione di asseverazione.

Le considerazioni che seguiranno con riferimento alla D.I.A. riguardano ovviamente anche

la S.C.I.A., di recente introduzione. L’art. 5 comma 2° lett. C) D.L. n. 70/2011, conv. con

modif.. nella L. n. 106/2011, ha infatti definitivamente esteso la applicabilità alla D.I.A in

materia edilizia della disciplina introdotta dal D.L. n. 78/2010 per la S.C.I.A., con la

esclusione dei soli casi in cui la D.I.A. sia alternativa o sostitutiva del permesso di costruire

e dei casi in cui sussistano vincoli, ambientali, paesaggistici o culturali. In tali casi la

S.C.I.A., pur applicabile, non sostituisce gli atti di autorizzazione o nulla osta, comunque

denominati, spettanti agli enti preposti alla tutela dei predetti vincoli. La segnalazione

certificata di inizio attività è anch'essa corredata dalle dichiarazioni sostitutive di

certificazioni e dell’atto di notorietà, per quanto riguarda stati e qualità personali dei

soggetti interessati, nonché dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati relative alla

sussistenza dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge o da atti amministrativi a

contenuto generale. Per quanto riguarda l’inizio dell’attività edificatoria, l’art. 19 della L. n.

241/90 (nel testo sostituito dal D.L. n. 78/2010) prevede che l’attività oggetto della

segnalazione possa essere iniziata dalla data della presentazione della segnalazione alla

amministrazione competente. In quest’ultima previsione risiede la principale differenza

rispetto alla D.I.A. previgente, nella quale i lavori potevano essere iniziati solo decorsi

trenta giorni dalla sua presentazione allo sportello unico del comune. Anche i poteri di

intervento della amministrazione sono drasticamente limitati, rispetto a quanto previsto per

la D.I.A., una volta decorsi 60 giorni dal ricevimento della segnalazione. Prima di tale

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termine, infatti, la Amministrazione può adottare motivati provvedimenti di divieto di

prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa; decorso tale

termine, alla Amministrazione è consentito invece intervenire solo in presenza del pericolo

di un danno per il patrimonio artistico, culturale, per l’ambiente, per la salute, per la

sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento della impossibilità

di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla

normativa vigente.

Si noti che l'art. 23 comma 6° D.P.R. n. 380/01 prevede, fra l'altro, che il dirigente o il

responsabile del competente ufficio comunale, in caso di falsa attestazione da parte del

professionista abilitato, informa l'autorità giudiziaria - con conseguente punibilità ex art.

361 c.p. del comportamento omissivo del pubblico ufficiale, il quale, apprendendo la notizia

del reato nell'esercizio delle sue funzioni, abbia l'obbligo di riferire all'Autorità Giudiziaria.

Scendendo più nel concreto, il progettista o tecnico abilitato che redige la relazione di

accompagnamento alla DIA/SCIA (relazione di asseverazione) deve effettuare diverse

operazioni:

- descrivere lo stato dei luoghi prima dell'intervento;

- illustrare i dati progettuali dell'intervento da realizzare;

- asseverare la conformità delle opere previste in progetto agli strumenti urbanistici

approvati, il non contrasto con quelli adottati, con il regolamento edilizio e con le norme di

sicurezza e quelle igienico-sanitarie;

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- rilasciare al termine dei lavori un certificato di collaudo circa la conformità dell’intervento

realizzato al progetto iniziale.

Parte della giurisprudenza, invero minoritaria, ha tentato la strada di distinguere, fra queste

diverse operazioni cui è chiamato il tecnico che redige la relazione di asseverazione, diversi

livelli di responsabilità penale in relazione al diverso grado di affidamento che

l'ordinamento ripone su ciascuno di tali aspetti. Ad esempio si è sostenuto che la parte

progettuale della descrizione delle opere da realizzare sarebbe ascrivibile ad una mera

intenzione del dichiarante, e non ad una realtà oggettiva, e che, come tale, sarebbe priva di

rilievo penale (Cass. pen. Sez. V, n. 7408/2010; 3 maggio 2005, n. 24562; sez. III, n.

27699/2010); si è anche affermato che la attestazione, da parte del tecnico abilitato, della

assenza di vincoli sull'area interessata sarebbe un mero giudizio espresso dal dichiarante,

come tale non necessariamente fondato su dati oggettivi e sicuri e, pertanto, priva di valore

certificativo e di rilievo penale ai sensi dell’art. 481 c.p. Inoltre, si è sostenuto che il

progetto redatto dal tecnico abilitato avrebbe natura di certificato solamente nella parte

(planimetrie, relazioni planimetriche) destinata a rappresentare l’esistente, assolvendo

solamente in detta parte la funzione di fornire alla P.A. una esatta informazione sullo stato

dei luoghi. In realtà, per principio consolidato (Cass. Sez. 5, 22.6.2000, Gamba ed altri; Sez.

5, 24.1.2007, n. 15773, Marigliano) anche un giudizio o una previsione possono essere

ideologicamente falsi, al pari di un enunciato in fatto, quando i parametri di valutazione cui

si riferiscono costituiscano misure obiettivamente verificabili, normativamente determinate

o tecnicamente accertabili, e quando tali giudizi provengano da soggetti cui la legge

riconosce una determinata competenza e perizia e ai quali, per tale ragione, ne riserva la

formulazione. In tali casi, fondandosi il giudizio o la previsione sulla postulazione di criteri

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predeterminati, esso si risolve nella rappresentazione della realtà analoga alla descrizione o

alla constatazione ed è nello stesso modo suscettibile di essere considerata una falsa

certificazione quando perviene a risultati artefatti perché basati su dati predeterminati, o

predeterminabili, falsati.

Più di recente la Suprema Corte (Cass. Pen. sez. III, 8 giugno 2011, n. 23072) ha attribuito,

con riferimento particolare alla parte progettuale della relazione di accompagnamento e alla

dichiarazione di conformità delle opere alla pianificazione comunale, ma, in generale, a tutta

la relazione di asseverazione redatta dal tecnico abilitato, particolare solennità, con ciò

riconoscendo ad essa un particolare affidamento da parte degli organi comunali preposti al

controllo, in ordine alla veridicità di tutto il suo contenuto. La principale caratteristica della

DIA, e a maggior ragione della SCIA di recente introduzione (la cui disciplina è oggi

applicabile e quindi sostituisce quella della DIA in edilizia), è quella della sostituzione del

tradizionale modello procedimentale in tema di autorizzazione pubblica con uno schema più

flessibile, in forza del quale l'esercizio delle attività private non è più soggetto alla

emanazione di un formale provvedimento di legittimazione, ma è direttamente comunicabile

alla P.A. ed espletabile, decorso un certo termine (per la DIA) o immediatamente (per la

SCIA), salvo l'esercizio del potere di controllo e di inibizione da parte della P.A. La

struttura della DIA/SCIA comporta una particolare assunzione di responsabilità, da parte del

tecnico abilitato, direttamente proporzionale al maggiore affidamento che l'ordinamento

ripone sulla relazione di asseverazione nel suo complesso. Per tale motivo, la relazione

assume valore sostitutivo del provvedimento amministrativo, e quindi certificativo, con le

ormai note conseguenze in tema di responsabilità penale ex art. 481 c.p.

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Va inoltre aggiunto che l’art. 19 co. 6° L. n. 241/90, di recente introduzione, contempla,

con riferimento alla S.C.I.A., una ulteriore ipotesi di reato: "ove il fatto non costituisca più

grave reato, chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni che corredano la

segnalazione di inizio attività, dichiara o attesta falsamente l'esistenza dei requisiti o dei

presupposti di cui al comma 1 è punito con la reclusione da uno a tre anni".

Si tratta del caso della falsità nelle dichiarazioni, attestazioni o asseverazioni che corredano

la segnalazione, o negli elaborati tecnici che accompagnano tali attestazioni, con riferimento

alla esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al co. 1°: la sanzione è la reclusione da 1

a 3 anni, salvo che il fatto costituisca più grave reato. La introduzione di questo nuovo

reato, speciale rispetto alla generale fattispecie dell’art. 481 c.p. (punita con pena più

contenuta - fino ad un anno di reclusione), tuttavia, ad esclusione di una maggiore forza

deterrente per il professionista privato che rediga la relazione di asseverazione, dovuta

all'aumento edittale delle pene, non sembra introdurre prospettive di novità da un punto di

vista strettamente investigativo e processuale, in quanto la previsione della pena massima

fino a 3 anni di reclusione non consente, come prima non consentiva la sanzione edittale

dell'art. 481 c.p., né il ricorso alle attività di intercettazione telefonica, né, circostanza ancor

più rilevante, la applicabilità delle misure cautelari interdittive previste dall'art. 290 c.p.p.

(divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali), per

le quali il limite edittale di pena rimane quello previsto dall'art. 287 c.p. (pena dell'ergastolo

o della reclusione superiore nel massimo a tre anni), con le intuibili ricadute in termini di

reale efficacia dell'attività investigativa.

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Deve tuttavia osservarsi, sempre sotto il profilo strettamente investigativo, che se è pur vero

che la esecuzione di opere edilizie in assenza di DIA/SCIA, se ontologicamente eseguibili

senza fare ricorso al p.d.c., integri una violazione di carattere meramente ammnistrativo, è

sicuramente utile, al fine di rendere più efficace l'azione del Pubblico Ministero, da un lato

disporre il sequestro probatorio delle opere, ove sussista il fumus che si tratti invece di opere

che necessitino di permesso di costruire o della c.d. super-dia, proprio allo scopo di

accertare quale sia la natura giuridica in concreto delle opere edilizie in corso

(eventualmente avvalendosi per la parte descrittiva di una consulenza tecnica o, se del caso,

di una relazione del locale Ufficio Tecnico), e, dall'altro, lato richiedere il sequestro

preventivo della relazione di asseverazione e di tutta la documentazione allegata alla

DIA/SCIA presentata dal privato all'U.T.: in proposito giova ricordare che il sequestro

preventivo è esperibile quando vi è pericolo che la libera disponibilità della cosa pertinente

al reato o del corpo del reato (nella specie della relazione di asseverazione, la cui falsità

integrerebbe il reato ex art. 481 c.p. o ex art. 19 co. 6° L. n. 241/90, a seconda dei casi)

possa protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati. Nel

caso di specie sussiste il pericolo che la falsità della relazione induca definitivamente in

errore l'Amministrazione competente che, a causa di tale falsa e subdola rappresentazione

dei luoghi e/o della normativa edilizia, non attivi i suoi poteri di controllo e verifica, come

purtroppo spesso accade, o lo faccia fuori termine, e così consenta il completamento delle

opere edilizie, con definitiva compromissione dell'interesse al corretto assetto del territorio.

Potrebbe apparire un approccio un pò troppo aggressivo, ma, utilizzato con ponderazione, e

soltanto in presenza di fumus del reato, potrebbe sortire positivi effetti sul piano

processuale.

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2 I delitti contro la p.a.: la giurisprudenza in tema di abuso di ufficio e omissione ex art. 328 c.p. in ambito edilizio.

2.1

In tema di abuso di ufficio occorre partire dalla definizione normativa del reato (rinviando

alla lettura dell’art. 323 c.p.) allo scopo di accertare se tale reato sia configurabile nel

rilascio di un permesso di costruire illegittimo.

Innanzitutto si è posto il problema se la inosservanza degli strumenti urbanistici vigenti

costituisca la violazione di legge o di regolamento integrante la condotta di abuso di

ufficio. In passato infatti si riteneva che tale inosservanza non rientrasse in nessuna delle

due categorie. Questa opzione ermeneutica è stata tuttavia ben presto superata, poiché si è

evidenziato che la inosservanza degli strumenti urbanistici costituisce in realtà violazione di

legge in quanto è la legge stessa (art. 12 comma 1° D.P.R. n. 380/01) a prevedere che il

permesso di costruire sia conforme alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei

regolamenti edilizi e della normativa di settore. Il mancato rispetto degli strumenti

urbanistici, in altre parole, integra la violazione della legge che ad essi rimanda. E’ stato

così ritenuto che la condotta di abuso di ufficio ricorresse non solo nella violazione del

piano regolatore generale, ma anche ad es. del piano di bacino (le cui norme integrano

quelle degli strumenti urbanistici), dei piani di recupero e di riqualificazione urbana (si veda

Cass. pen., Sez. VI, 13.10.2009, n. 46503).

Ci si è chiesti inoltre se la inosservanza del dovere di compiere una adeguata istruttoria per

accertare la sussistenza dei requisiti e presupposti necessari per il rilascio di un permesso di

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costruire costituisca violazione di norme interne o assuma anche rilevanza esterna in quanto

fase procedimentale necessaria, incidente sul contenuto del provvedimento finale di assenso.

Ha sostenuto la Corte in proposito che l'istruttoria amministrativa è imposta da una norma

generale sul procedimento amministrativo (art. 3 L. n. 241/90). Non si tratta quindi di

violazione di norme interne al procedimento, in quanto il procedimento amministrativo, in

particolare quello relativo al rilascio del permesso di costruire, è disciplinato da norme

generali e di settore che prevedono necessariamente una istruttoria prima della decisione

finale, assunta sulla base della corretta ponderazione di interessi pubblici e privati (Cass.

pen., Sez. VI, 14.6.2007, n. 37531).

Ben più complessa e rilevante è tuttavia la questione relativa alla sussistenza dell'elemento

soggettivo del reato di abuso di ufficio in ambito edilizio. Come noto, è necessaria la

intenzionalità di arrecare un ingiusto vantaggio patrimoniale o un ingiusto danno e

quindi la consapevolezza di violare la legge allo scopo precipuo di favorire o di danneggiare

taluno. E' stata quindi esclusa la configurabilità del reato allorquando il pubblico ufficiale

abbia perseguito finalità di interesse pubblico e, a tale scopo, abbia violato consapevolmente

la legge (caso di scuola è quello del sindaco che abbia rilasciato un p.d.c. in violazione della

normativa sul risanamento del centro storico, il quale assuma di averlo fatto per favorire il

recupero di abitanti all'interno del centro storico, a rischio di spopolamento e abbandono).

Tuttavia è stato anche ritenuto che il perseguimento del fine pubblico da parte dell'agente

non vale ad escludere il dolo intenzionale quando esso rappresenti un mero pretesto

dell’agire illecito. Particolarmente rilevante il caso affrontato da Cass. pen., Sez. III,

13.5.2011 n. 18895: "... il vantaggio o il danno per il privato può essere affiancato anche da

una finalità pubblica che rappresenti una mera occasione o pretesto per coprire la condotta

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illecita. La finalità pubblica non deve essere confusa con il fine politico dell'agente, con

l'esigenza di dimostrare la propria capacità di governo ai consociati, con la smania di

protagonismo, con la finalità propagandistica, con l'aspirazione ad aumentare il proprio

consenso elettorale, perché questi sono motivi egoistici che si pongono in antitesi con la

finalità altruistica e collettiva che deve connotare la finalità pubblica". Più in generale la

Cassazione ha affermato che la intenzionalità del dolo può desumersi da una serie di

elementi sintomatici del rapporto collusivo fra il privato e il funzionario pubblico, quali la

assenza di effettiva istruttoria nel rilascio del p.d.c., la estrema rapidità del procedimento

volto al rilascio del p.d.c., il macroscopico ed evidente contrasto del p.d.c. con la normativa

urbanistica vigente (Cass. pen., Sez. III, 12.1.2012, n. 649).

Quanto infine al vantaggio patrimoniale, altro elemento costituivo del reato ex art. 323

c.p., esso è stato ricondotto al complesso dei rapporti giuridici a carattere patrimoniale e

quindi non solo al caso in cui l'abuso sia volto a procurare beni materiali o altro, ma a

qualunque accrescimento della situazione giuridica soggettiva del beneficiario (quindi anche

all'ottenimento di un permesso di costruire, a prescindere dalla effettiva costruzione del

bene). In proposito è necessario ribadire che, perché il privato beneficiario del permesso di

costruire possa concorrere nel reato di abuso di ufficio commesso dal pubblico ufficiale che

lo abbia rilasciato, non è sufficiente la mera presentazione dell'istanza, ma è necessaria la

dimostrazione che questi abbia commesso una condotta causalmente rilevante nella

realizzazione della fattispecie, volta a determinare o istigare il pubblico ufficiale oppure ad

accordarsi con quest'ultimo (Cass. pen., Sez. VI, 14.6.2007, n. 3751). Analoghe

considerazioni devono farsi con riferimento al diverso caso del concorso del dirigente

dell’U.T., il quale abbia rilasciato un permesso di costruire illegittimo, nel reato edilizio

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commesso dal titolare del p.d.c. o dal committente o dal costruttore. Anche in questo caso la

giurisprudenza oggi prevalente ritiene di applicare gli ordinari criteri di attribuibilità del

concorso dell’extraneus nel reato proprio (contributo causale cosciente e volontario alla

commissione del reato edilizio da parte del titolare del p.d.c.), piuttosto che i criteri di

attribuzione della responsabilità per omesso impedimento dell'evento ex art. 40 cpv. c.p.

La doverosità dei compiti di vigilanza e di adozione dei provvedimenti sanzionatori nel caso

di abuso edilizio può comportare la responsabilità per abuso di ufficio in capo al dirigente

dell'U.T. che, pur consapevole della esistenza di una violazione edilizia, perché ad esempio

segnalatagli formalmente o informalmente dagli organi di p.g. o da un privato, ometta di

adottare i doverosi provvedimenti di sospensione dei lavori e di conseguente emissione

dell'ordine di demolizione. In tal caso la violazione di legge è evidente e risiede nella

inosservanza dei doveri di attivarsi previsti dall'art. 27 D.P.R. n. 380/01. Caso particolare è

invece quello della responsabilità per abuso di ufficio del Sindaco, il quale, pur non avendo

specifici doveri di intervento rilevanti ai sensi dell'art. 40 comma 2° c.p., rimane depositario

di un più generico dovere di controllo e direttiva nei confronti degli uffici tecnici ed

amministrativi del Comune, affinché siano efficacemente osservate le procedure in tema di

edilizia. Si veda in proposito Cass. Sez. Pen., Sez. VI, 28.1.2004 n.21085: risponderà anche

il Sindaco di abuso di ufficio, ove abbia intenzionalmente favorito gli interessi dei

proprietari, attivamente intralciando l'opera degli uffici tecnici e di polizia urbanistica del

Comune con l'adozione di provvedimenti amministrativi di carattere organizzativo volti ad

impedirne i doverosi ed urgenti adempimenti in materia edilizia.

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Un cenno particolare merita infine la recente pronuncia, prontamente diffusa sulle mailing

list specializzate, della Cass. pen., Sez. II, n.2245 del 20 gennaio 2014 (Cc. 11 dic. 2013)

Ric. Vitale, relativa alla realizzazione in Calabria di un imponente complesso edilizio

alberghiero. La pronuncia riveste interesse in quanto affronta il caso della contestazione dei

delitti di abuso di ufficio e di falsità in atto pubblico a carico del responsabile dell’U.T., fra i

quali viene ritenuto sussistente il concorso di reati - e non il fenomeno dell'assorbimento del

delitto di cui all’art 323 c.p. nel più grave delitto di falsità in atto pubblico - in ragione in

primo luogo del diverso ambito operativo dei beni giuridici protetti (il primo garantisce

l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, il secondo la genuinità

degli atti pubblici) e del fatto che la condotta di abuso di ufficio non si esaurisce in quella

del delitto di falso, non coincidendo con essa. Inoltre la pronuncia affronta anche il tema

della compatibilità della contestazione del reato di falsità ideologica in atto pubblico con

condotte consistenti nella formulazione di giudizi che siano espressione della c.d.

discrezionalità tecnica, laddove vi siano a monte previsioni normative recanti criteri di

valutazione che impongano verifiche di conformità del dato fattuale a parametri

predeterminati.

2.2

In tema di omissione penalmente rilevante, infine, la configurabilità del reato di cui all'art.

328 comma 2° c.p. richiede la presenza della doppia condizione della omessa attivazione

dei provvedimenti doverosi di cui all'art. 27 cit., nonostante il decorso del termine di trenta

giorni dalla richiesta e dalla messa in mora da parte del soggetto richiedente e, in aggiunta,

la mancata risposta all'interessato sulle ragioni del ritardo. Solo pertanto la richiesta del

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soggetto pubblico, successivamente sollecitata sotto forma di diffida, fa scattare in capo al

funzionario il dovere di intervenire sull'istanza o di rispondere per esporre le ragioni del

ritardo (espressamente previsto dall'art. 16 L. n. 86/90).

Non trova applicazione, invece, in materia di edilizia e urbanistica, la diversa fattispecie

dell’art. 328 comma 1° c.p. che, come noto, si perfeziona con la semplice omissione del

provvedimento doveroso, incidente su beni di valore primario, non ricorrendo nel caso di

specie quelle ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene e sanità

necessarie ai fini della configurabilità del reato.

3 La prosecuzione dei lavori in pendenza di sequestro: il reato di violazioni di sigilli (art. 349 c.p.); casistica.

Il reato di violazione di sigilli spesso accompagna le violazioni edilizie e urbanistiche, in

quanto si configura nei casi di prosecuzione dei lavori in un cantiere già sottoposto a

sequestro. Si tratta di una norma penale posta a garanzia del vincolo di immodificabilità

apposto sulla cosa soggetta a sequestro, nell’interesse della amministrazione della giustizia.

La funzione del sigillo è quella di garantire la percepibilità o conoscibilità erga omnes della

esistenza del vincolo sul bene sottoposto a sequestro, ma, nel caso in cui a commettere il

reato sia il custode giudiziario nominato nel verbale di sequestro, la apposizione materiale

del sigillo non ha effetti sulla configurabilità del reato.

La giurisprudenza sul punto è davvero nutrita, in quanto affronta una casistica ampia, della

quale occorre limitare l’attenzione alle sole questioni di particolare rilevanza.

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Innanzitutto non è necessaria la effettiva rottura dei sigilli, potendosi configurare il reato

mediante la esecuzione di opere distinte ma collegate con l'immobile in sequestro o nel caso

in cui i sigilli siano apposti solo su una parte delle opere sequestrate (Cass. Sez. Fer.

16.10.2008, n. 39050).

Il requisito della flagranza del reato commesso dal custode giudiziario (che consente

l'arresto facoltativo da parte della p.g.) va valutato non al momento della effettiva rottura del

sigillo, bensì al momento in cui il responsabile, introducendosi nel bene e facendone uso,

violi il vincolo di indisponibilità del bene stesso (Cass. pen., Sez. III, 6-9-2007, n. 34151).

Il reato non è escluso dalla omessa sottoscrizione del verbale di nomina da parte del custode

giudiziario, in quanto la custodia costituisce munus publicum obbligatorio, che prescinde

dalla accettazione del custode, il quale è comunque tenuto all'adempimento dei doveri

previsti ex art. 81 co. 3° disp. att. c.p.p. (Cass. pen., Sez. III, 10-7-2008. n. 28224).

Il custode può essere nominato senza particolari formalità e risponde di violazione di sigilli

in tutti i casi in cui non riesca a dimostrare la sussistenza del caso fortuito o della forza

maggiore . Egli, in quanto destinatario di una posizione di garanzia e gravato dall'obbligo

giuridico di attivarsi per impedire l'evento rilevante ex art. 40 co. 2° c.p., è obbligato ad

esercitare sulla cosa sottoposta a sequestro e sulla integrità dei relativi sigilli una custodia

attenta e continua. Non può sottrarsi a tale obbligo se non adducendo oggettive ragioni di

impedimento e, quindi chiedendo ed ottenendo di essere sostituito, ovvero, qualora non

abbia avuto il tempo e la possibilità di farlo, fornendo la prova del caso fortuito o della

forza maggiore che gli abbiano impedito di esercitare la dovuta vigilanza (Cass. pen., Sez.

III, 9.3.2011, n. 9280).

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L'elemento psicologico del reato è integrato anche dal c.d. dolo eventuale, non rilevando la

buona fede in capo all'agente, il quale, nei casi dubbi, ha l'onere di chiedere informazioni

all'autorità procedente o ad un legale (Cass. pen., Sez. III, 30.5.2008, n. 21918).

Nel caso di violazione dei sigilli su di un bene sottoposto a sequestro, la materiale nuova

apposizione dei sigilli non richiede un espresso provvedimento giudiziario, stante la

permanenza degli effetti del sequestro già disposto in origine (Cass. pen. Sez. III, 16-12-

2005, n. 45631); in caso di reiterazione della violazione dei sigilli da parte dello stesso

custode giudiziario, peraltro, occorre valutare la possibilità di richiedere la applicazione di

misure coercitive in quanto i limiti edittali di pena lo consentono.

In caso di concorso di persone nel reato di violazione dei sigilli commesso dal custode

giudiziario, la circostanza aggravante di cui al secondo comma (e il relativo trattamento

sanzionatorio) si estende ai concorrenti, con il solo temperamento che essi ne abbiano avuto

conoscenza, o la ignorino per errore derivante da colpa.

E’ configurabile la continuazione tra violazione dei sigilli e violazione edilizia (commessa

dolosamente) in quanto può ritenersi che il soggetto che ha deciso di realizzare una

costruzione edilizia abusiva, verosimilmente si sia prefigurato anche la possibilità di violare

eventuali sequestri, pur di proseguire e completare la costruzione abusiva (Cass. pen., Sez.

VI, 13.11.1992, n. 2996); la violazione più grave da prendere in considerazione ai fini del

calcolo della pena ai sensi dell’art. 81 cpv. c.p. è ovviamente quella prevista per il delitto di

cui all'art. 349 c.p.

Da un punto di vista strettamente investigativo è consigliabile, ai fini della prova della

reiterata violazione di sigilli ma anche del reato edilizio in generale, acquisire le

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riproduzioni aerofotogrammetriche effettuate periodicamente da ditte private per conto

delle amministrazioni comunali e regionali (o anche per conto del Ministero dell'Agricoltura

e quindi facilmente acquisibili dal Corpo Forestale dello Stato), ad esempio ai fini di

aggiornamento delle cartografie comunali e regionali. Tali riprese, effettuate dall'alto ma

molto precise grazie anche all'esistenza di programmi informatici che consentono addirittura

la visione tridimensionale della immagine, consegnano al Pubblico Ministero dettagliate

informazioni sia in ordine alla effettiva epoca di realizzazione delle opere sia in ordine alla

puntuale consistenza delle stesse e sono liberamente acquisibili in ogni momento come

documenti in dibattimento ai sensi dell'art. 234 c.p.p. E’ utile inoltre sollecitare la polizia

giudiziaria incaricata delle indagini (e comunque tenuta accertamento della notizia di reato

ai sensi dell'art. 55 c.p.p.) a vincere eventuali resistenze all'accesso sui luoghi, opposte dal

proprietario o da altre persone presenti in cantiere, ricorrendo alla perquisizione di urgenza,

esperibile come noto di iniziativa della p.g. in tutti i casi in cui si versi nella flagranza del

reato. E' necessario quindi che appaia dall'esterno del cantiere, o sulla base di elementi di

valutazione desumibili aliunde, che siano in corso lavori edilizi abusivi. In assenza di tali

condizioni, appare invece prudente contattare il p.m. di turno per attendere direttive, in

particolare eventuali decreti di perquisizione delegati.

4 La c.d. truffa edilizia (art. 640 comma 2° n. 2° c.p.).

Si tratta di una fattispecie di creazione giurisprudenziale oggetto di vivo dibattito. Le

vicende poste all'esame della giurisprudenza, soprattutto di merito, hanno riguardato il

rilascio di permesso di costruire fraudolentemente ottenuto mediante una falsa

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rappresentazione della realtà o mediante la esecuzione di un mutamento di destinazione

d'uso diverso da quello previsto nel provvedimento di assenso.

E’ il caso, ad esempio, di elaborati progettuali nei quali vengono alterate le distanze fra

edifici vicini o viene indicato il possesso di una superficie di lotto maggiore di quella reale,

perché, in caso contrario, i limiti previsti per l'indice di fabbricabilità fondiaria

determinerebbero il rigetto della istanza di rilascio di permesso di costruire, oppure ancora il

caso, molto frequente nella prassi, di domande di condono edilizio fondate su dichiarazioni

false in ordine alla data di ultimazione delle opere, sullo stato di consistenza delle opere

stesse (in realtà ben lungi dall'essere terminate), sulla inesistenza di vincoli paesaggistici su

di esse.

Le soluzioni interpretative appaiono non conformi e condizionate dalla obiezione di fondo

che non vi sarebbe possibilità di induzione in errore della P.A., in quanto il responsabile del

procedimento, appartenente all’Ufficio Tecnico, ha il potere, oltre che il dovere, di

verificare anche con sopralluoghi e richieste di chiarimenti e integrazioni di

documentazione, la conformità di quanto richiesto all'effettivo stato dei luoghi. Ma in

proposito occorre rilevare che la legge non prevede un obbligo specifico in capo al

responsabile dell'Ufficio Tecnico di recarsi in loco per verificare di persona quanto

richiesto, per cui può realmente accadere che egli sia in concreto indotto in errore dal

progettista che dolosamente alteri la progettazione. Nella pratica ci sono casi, come quello

della predisposizione della domanda di condono edilizio, in cui il privato si limita a

compilare un modello prestampato, indicando con una crocetta i requisiti di ammissibilità

della domanda (per esempio sulla inesistenza di vincoli sul bene).

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Ma in proposito giova richiamare un principio interpretativo generale che riguarda il reato

di truffa. La fattispecie di cui all'art. 640 c.p. non richiede per la sussistenza del reato una

particolare diligenza della persona offesa. Per aversi truffa, quanto meno sotto forma di

tentativo punibile, è sufficiente che la condotta del privato sia stata quanto meno idonea ad

indurre in errore la persona offesa e se la induzione in errore è concretamente avvenuta il

giudice non dovrà verificarne la astratta idoneità in quanto tale idoneità è in re ipsa.

Altra obiezione è quella connessa con la necessità di individuare un danno patrimoniale che

l'ente territoriale subisca in conseguenza della illecita condotta. Si è ritenuto che tale danno

patrimonialmente valutabile (e direttamente ascrivibile alla condotta truffaldina posta in

essere dal privato) non possa ravvisarsi nella lesione di interessi collettivi (quale quello

all'ordinato assetto urbanistico di cui il comune è portatore), mentre esso assume

concretezza nei casi in cui, attraverso il fraudolento conseguimento del permesso di

costruire, si venga a gravare l'ente di oneri di urbanizzazione diversi e maggiori rispetto a

quelli derivanti dal progetto assentito e quindi già posti a carico del richiedente, e ad

imporre all'ente un dispendio per l'attività di autotutela necessaria a rimuovere il

provvedimento oggettivamente illegittimo e gli effetti di esso (Cass. pen., Sez. II, 5.5.2011,

n. 20806; Cass., Sez. II, 19.6.2000, n. 7259), o che può essere rappresentato anche dal

dispendio dei mezzi per il ripristino dello stato dei luoghi o dall'apprestamento di opere di

urbanizzazione eventualmente resesi necessarie dal permanere della costruzione nonostante

la illegalità originaria.

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5 I reati in tema di conglomerato cementizio armato; profili problematici.

Raccogliendo la sollecitazione proveniente da un collega partecipante al corso, occorre

individuare in primo luogo quali siano in concreto le opere per le quali è richiesta la

denuncia dei lavori al competente ufficio comunale e l'inoltro all'ufficio tecnico regionale e,

conseguentemente, per quali opere è necessaria l'iniziativa penale in caso di inosservanza

dell'obbligo di denuncia. L'ambito applicativo della norma in esame riguarda tutte le opere

in conglomerato cementizio armato normale, precompresso (nel quale si imprime

artificialmente una sollecitazione addizionale tale da assicurare l'effetto statico voluto) e le

strutture metalliche, che assolvano ad una funzione statica. Parte della giurisprudenza ha

sostenuto che il riferimento normativo al "complesso di strutture" in conglomerato

cementizio contenuto nell'art. 53 lett. a) D.P.R. n. 380/01, comporta che un'opera, per essere

sottoposta alla disciplina in oggetto, debba risultare dal concorso di una pluralità di strutture

e che restino fuori da tale normativa le opere costituite da una struttura unica, come ad

esempio, il solaio di una stalla o l'architrave di una porta. L'ambito di applicazione della

normativa è comunque definito dalla Circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n.

11951/1974 ed è limitato alle c.d. opere di ingegneria civile; non quindi le opere di

ingegneria meccanica, navale, aerea per le parti che si riferiscono alle macchine ed organi di

macchine. A titolo esemplificativo, sono soggette alla normativa in esame e all'obbligo di

preventiva denuncia le opere edilizie ad uso industriale (fabbriche, capannoni, stabilimenti,

magazzini, depositi, tettoie, pensiline, ciminiere), le opere idrauliche, quali dighe, pontili,

ponti, acquedotti, impianti idroelettrici, le opere stradali, quali ponti e viadotti, sottovie,

gallerie artificiali, stazioni di servizio nelle quali siano realizzati manufatti edilizi, in

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particolare anche le strutture metalliche in conglomerato cementizio prefabbricato (quindi,

secondo parte della giurisprudenza i manufatti prefabbricati - Cass. pen., sez. IV, 12.6.2009,

n. 27450). E' inoltre irrilevante la natura dei lavori (ad es. che si tratti di interventi di

manutenzione ordinaria e straordinaria o di interventi di nuova costruzione), in quanto

l'applicabilità delle norme presuppone che si tratti solo di lavori che comportino l'utilizzo di

cemento armato e che assolvano ad una funzione statica.

Gli art. 64-71 D.P.R. n. 380/01 prevedono la responsabilità diretta del progettista, da

individuarsi in un tecnico abilitato iscritto al relativo albo (ingegnere o architetto), in

relazione alla progettazione esecutiva di opere in conglomerato cementizio armato o

precompresso o in struttura metallica, nonché la responsabilità del direttore dei lavori

(anch'egli tecnico abilitato iscritto ad apposito albo) e del costruttore in relazione alla

rispondenza dell'opera eseguita al progetto, all'osservanza delle prescrizioni di esecuzione

del progetto, alla qualità dei materiali utilizzati. L'inosservanza di tali disposizioni (e quindi

la redazione del progetto o la direzione lavori effettuata da soggetto non abilitato)

comportano la applicazione di una sanzione penale.

Poiché trattasi di reato proprio, il proprietario delle opere potrà rispondere di tali reati solo

nel caso in cui abbia assunto una delle suddette qualifiche cui la legge connette

espressamente responsabilità penali. Alla semplice qualità di proprietario non può

connettersi infatti un generale dovere di controllo, dalla cui violazione derivi una

responsabilità penale (Cass. pen, Sez. III, 15.1.2013, n. 8579).

Direttamente connessa con la suddetta previsione normativa è quella dei limiti alla

competenza del geometra nella progettazione e/o direzione dei lavori di opere in cemento

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armato e, pertanto, della conseguente responsabilità del geometra per esercizio abusivo

della professione (art. 348 c.p.): i continui riferimenti alle figure di tecnico qualificato

pongono il problema del se il geometra possa progettare opere in cemento armato.

L'orientamento ormai predominante consente al geometra solo la progettazione in cemento

armato di opere con destinazione agricola, di modesta entità, che non richiedano particolari

operazioni di calcolo e che, per la loro destinazione, non comportino pericolo per la loro

incolumità. In caso contrario risponderà del reato di cui all'art. 348 c.p.

Gli artt. 65-72-73 D.P.R. n. 380/01 prevedono in primo luogo che commette reato il

costruttore il quale, prima dell'inizio dei lavori, non presenti denuncia dei lavori al

competente sportello unico, che poi curerà la trasmissione all'ufficio tecnico regionale. La

denuncia dei lavori contiene una serie di informazioni relative alle caratteristiche e materiali

costruttivi dell'opera, fra cui il progetto dell'opera in triplice copia e una relazione

illustrativa. All'obbligo di denuncia sono soggette anche le varianti che si presentino nel

corso dei lavori. Lo sportello unico rilascia al costruttore l'attestazione dell'avvenuto

deposito della denuncia. A strutture ultimate, invece, il direttore dei lavori deposita presso

lo stesso sportello unico una relazione finale redatta in triplice copia sugli adempimenti

sopra descritti, contenente fra l'altro l'esito delle prove di carico effettuate. In caso di

inosservanza di tali obblighi, risponderanno penalmente, a seconda dei casi, il costruttore e

il direttore dei lavori.

Con particolare riferimento al reato di omesso deposito della denuncia, si discute se di

esso possa rispondere solo il costruttore, trattandosi di reato omissivo proprio, o anche il

direttore dei lavori, il quale ad esempio avendo l'obbligo di conservare presso il cantiere la

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denuncia e la relazione illustrativa con la copia dell'attestato di deposito, abbia altresì in

virtù di tale specifico obbligo un ulteriore onere di sollecitate il costruttore ad effettuare tale

adempimento. Sul punto la Cassazione ha invece escluso tale possibilità, evidenziando che

il direttore dei lavori non è titolare di una posizione di garanzia in tema di denuncia dei

lavori e di deposito presso lo sportello unico, in grado di far scattare in capo ad esso una

responsabilità ex art. 40 comma 2° c.p. Tale posizione di garanzia grava esclusivamente sul

costruttore; tutt'al più il committente o il direttore dei lavori potranno concorrere quali

extranei nel reato, proprio in forza dei principi generali del concorso ex art. 110 c.p., solo

qualora siano dimostrati il contributo morale o materiale alla causazione del reato da parte

del concorrente extraneus e la coscienza e volontà dello stesso di concorrere nel reato (cfr.

Cass. Sez. III, 19.4.2012, n. 15184).

Gli artt. 67-74 D.P.R. n.380/01 prevedono il collaudo statico dell'opera edilizia realizzata

in cemento armato e le sanzioni penali connesse alla sua omissione. In generale, infatti,

tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità

devono essere sottoposte a collaudo statico. Il certificato di collaudo statico deve essere

redatto da un ingegnere o da un architetto iscritto all'albo da almeno dieci anni, che non sia

già intervenuto nelle fasi di progettazione, direzione ed esecuzione delle opere (quindi deve

trattarsi di un soggetto terzo), il cui atto di nomina da parte del committente deve essere

allegato alla denuncia dei lavori da parte del direttore dei lavori prima dell'inizio dei lavori.

Tale certificato ha la funzione di verificare la conformità dell'opera al progetto, sotto il

profilo statico ovviamente, di dare atto della stabilità e sicurezza del manufatto, della

regolare destinazione all'uso previsto. Completata la struttura con la relativa copertura, il

direttore dei lavori ne dà comunicazione allo sportello unico e al collaudatore, il quale ha 60

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giorni di tempo per effettuare il collaudo, scaduti i quali risponde penalmente. Il

collaudatore che redigerà un collaudo statico falso risponderà del reato di falsità in

certificato ex art. 481 c.p.

L'art. 75 D.P.R.n. 380/01 prevede un divieto assoluto di utilizzazione delle costruzioni

prima del rilascio del certificato di collaudo. L'inosservanza di tale norma integra reato:

poiché la norma penale sanziona chiunque consenta la utilizzazione, il divieto deve

interpretarsi erga omnes. Quindi si pone nella pratica il caso in cui il committente delle

opere abbia alienato a terzi la costruzione in assenza del certificato di collaudo e prima del

suo rilascio. Secondo un orientamento giurisprudenziale, nel caso in cui il soggetto che

abbia posto in essere una causa dell'evento di un reato permanente sia impossibilitato

(appunto per la intervenuta alienazione) a far cessare la situazione antigiuridica, che

prosegue ad opera di terze persone, non risponde della condotta successiva posta in essere

da altri. Ma tale orientamento non convince, perché non è vero che, una volta occupato

l'immobile da altri, il committente non abbia più la possibilità di far cessare la condotta

antigiuridica. La consumazione del reato previsto dall'art. 75, come per tutti i reati

permanenti, cessa o con l'interruzione della illecita utilizzazione o con il rilascio del

certificato di collaudo, che potrà essere sempre richiesto dal committente e rilasciato. La

vendita dell'immobile non gli consentirà di ottenere la interruzione dell'uso dell'immobile,

ormai non più nella sua disponibilità, ma non gli precluderà di certo la possibilità di

chiedere ed ottenere il certificato di collaudo. Altro problema che si pone nella pratica è se il

terzo acquirente o altro soggetto che utilizzi l'immobile privo di certificato di collaudo possa

rispondere del predetto reato. Se si tiene conto del fine della norma, che è quello di tutelare

la incolumità di coloro che utilizzano l'immobile in maniera stabile o occasionale, o anche il

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semplice passante nei pressi dell'immobile, non può non ritenersi che il precetto della norma

ponga un divieto erga omnes di utilizzazione.

L'art. 68 D.P.R. n. 380/01 prevede infine un dovere di vigilanza del responsabile

dell'Ufficio Tecnico comunale, interessato dalle opere in conglomerato cementizio, sulla

osservanza degli adempimenti previsti dalla normativa sulla realizzazione di opere in

conglomerato cementizio armato (in particolare sulla effettuazione della denuncia al Genio

Civile, sulla conservazione nel cantiere della denuncia, dell'attestato di deposito, della

relazione illustrativa, del giornale dei lavori da parte del direttore dei lavori, sulla

corrispondenza fra le caratteristiche generali dell'opera in esecuzione e il progetto). In caso

di riscontrate irregolarità di rilievo penale, gli agenti comunali dovranno redigere verbale

che, a cura del dirigente o altro responsabile dell'U.T., andranno trasmessi all'Autorità

Giudiziaria quali notizie di reato.

Con riferimento all'accertamento di conformità, solo un cenno è necessario per ricordare

che, mentre il rilascio di permesso di costruire in sanatoria non estingue anche i reati

specifici in tema di opere in conglomerato cementizio armato (in considerazione della

oggettività giuridica diversa dei due reati), diversamente avviene in caso di condono

edilizio, istituto di carattere eccezionale e comunque limitato nel tempo (almeno così

dovrebbe essere), il cui effetto estintivo si spiega anche sui c.d. abusi tecnici, sia a causa

della maggiore assimilabilità delle due situazioni di illegalità, sia in forza di espressi

richiami alla normativa specifica contenuti nelle norme riguardanti il condono edilizio.

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6 La contestazione della frode in pubbliche forniture negli interventi lottizzatori abusivi: una prima applicazione concreta.

Un caso particolare - affrontato dalla Procura di Bari - è quello della applicazione del reato

di frode in pubbliche forniture negli interventi lottizzatori abusivi. La vicenda merita un

cenno perché si tratta di un indagine innovativa; non mi risultano infatti altri casi analoghi.

E' doveroso segnalare tuttavia che l'indagine non ha trovato riscontro nel giudizio, ma le

perplessità del giudicante non hanno riguardato la astratta configurabilità del reato di cui

all'art. 356 c.p. nella lottizzazione edilizia abusiva.

Sono stati rinviati a giudizio dalla Procura di Bari alcuni imprenditori e alcuni funzionari

pubblici per aver commesso frode nella esecuzione di una convenzione generale attuativa di

un accordo di programma (ex L. 179/92) relativo alla esecuzione del Programma di

Riqualificazione Urbana San Paolo-Lama Balice.

La finalità del P.Ri.U. era il recupero edilizio e funzionale di ambiti urbani degradati

attraverso opere pubbliche di urbanizzazione primaria e secondaria, la realizzazione di

interventi di edilizia non residenziale che contribuiscono al miglioramento della qualità

della vita, la realizzazione di interventi di edilizia residenziale che inneschino processi di

riqualificazione fisica dell'ambito considerato. In violazione di tale convenzione, che

prevedeva un espresso impegno a progettare e realizzare nei tempi previsti da apposito

cronoprogramma una serie di opere pubbliche (quali allacci, infrastrutture, collegamenti a

servizi, scuole comunali, parchi naturali attrezzati) e a non realizzare le opere private senza

che quelle pubbliche preordinate restassero inattuate, gli imputati avevano dolosamente

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invertito l'ordine delle priorità previste dal cronoprogramma trascurando le opere pubbliche

e portando celermente a compimento quelle private, ascrivendo peraltro in maniera capziosa

la mancata esecuzione e completamento delle prime ad alcuni sequestri posti in essere dalla

Procura, intervenuti in realtà ad oltre un anno di distanza dalla data prevista per l'inizio delle

opere pubbliche e in aree del tutto diverse.

Il contributo concorsuale ascritto ai funzionari imputati era quello di aver prontamente

rilasciato i p.d.c. relativi alle opere private, senza aver preventivamente rilasciato le

autorizzazioni per le opere pubbliche, omettendo anche di adempiere agli obblighi di

vigilanza sulla corretta esecuzione del cronoprogramma. Il Comune infatti aveva importanti

strumenti d'intervento per garantire la corretta osservanza del cronoprogramma e la effettiva

realizzazione delle opere pubbliche: poteva intervenire in danno dei privati utilizzando le

somme garantite con polizze fideiussorie in relazione alle opere di urbanizzazione primaria

e secondaria, poteva sospendere il rilascio dei permessi di costruire delle opere private,

annullare quelli già rilasciati, subordinare il rilascio del certificato di abitabilità alla verifica

delle urbanizzazioni interne a ciascun permesso di costruire.

In tal modo gli imputati avevano commesso frode nell'adempimento della convenzione

contrattuale attuativa del P.Ri.U., consegnando un'opera (o meglio una serie di opere)

sostanzialmente diversa da quella contrattualmente prevista e conseguendo ingenti profitti

derivanti dallo scomputo degli oneri di urbanizzazione, dal mancato o parziale versamento

dei costi di costruzione, dai proventi derivanti dalla realizzazione e vendita di edilizia

residenziale privata senza che a ciò corrispondesse la correlata spesa per la realizzazione

delle opere pubbliche preordinate.

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Le argomentazioni adoperate dal Gup - che ha assolto tutti gli imputati in sede di rito

abbreviato - riguardavano innanzitutto l'elemento psicologico del reato di frode in pubbliche

forniture e del concorso di tutti gli imputati nella perpetrazione del reato. Si tratta, come

noto, di reato doloso: è sufficiente il dolo generico costituito dalla consapevolezza di

effettuare una prestazione diversa per qualità e quantità da quella dovuta (Cass. pen., Sez.

Sez. VI, 26.8.2003, n. 34952). Tuttavia il reato oggetto del vaglio processuale riguardava

numerosi soggetti, che rivestivano qualifiche soggettive diverse, in particolare anche

funzioni pubblicistiche indipendenti l'una dall'altra, e, pertanto, era necessario dimostrare un

accordo illecito fra tutti gli imputati, o quanto meno un rafforzamento dell'altrui proposito

criminoso, uno stimolo o un maggiore senso di sicurezza nell'azione compiuta dall'esecutore

materiale del reato grazie al contributo morale dei concorrenti. Ma in entrambi i casi era

necessaria la prova che tali comportamenti, secondo la teoria generale del concorso di

persone nel reato, fossero finalisticamente collegati fra loro e che vi fosse la coscienza e

volontà di portare un contributo materiale o morale all'illecito perseguito da tutti gli altri

concorrenti.

E di tutto questo, ad avviso del giudicante, non vi era prova nel processo.

Altro fattore di disomogeneità fra le condotte contestate agli imputati era rappresentato,

secondo il giudicante, dalle cause del ritardo accumulatosi nella esecuzione delle opere

pubbliche. Molte di queste opere avevano infatti comportato l'intervento di diverse autorità

pubbliche, ciascuna chiamata a valutazioni autonome, per cui si è verificato uno slittamento

"a cascata" dei termini e della emissione dei provvedimenti necessari.

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Infine sono intervenuti decreti ministeriali che prorogavano il termine di durata dei

programmi di riqualificazione urbana e, conseguentemente, il termine di consegna delle

opere. Sotto questo versante, non poteva sostenersi – secondo il Gup - nel caso di specie che

vi sia stato un inadempimento a causa della consegna di una "cosa diversa" da quella

pattuita, perché detta valutazione potrebbe essere fatto solo alla scadenza del citato termine,

che, per le considerazioni innanzi dette, non era ancora scaduto. "Il delitto di frode in

pubbliche forniture - infatti - quando oggetto del contratto siano beni destinati alla P.A. (e

non contratti di fornitura con esecuzione periodica) si consuma nel momento e nel luogo

della sua fraudolenta esecuzione, da identificarsi in quello in cui avviene la consegna della

cosa" (Cass. pen., Sez. III, 9.6.2010, n. 22024).

In definitiva i soggetti attuatori erano ancora nei termini per la realizzazione del

cronoprogramma, avendo il soggetto titolare del bene-interesse tutelato dalla norma (cioè il

Ministero competente) ritenuto meritevole di "spostamento" il termine finale per la

realizzazione (e la conseguente verifica) di tutte le opere del P.Ri.U. Tale decisione,

ovviamente, non era sindacabile da parte dell'A.G. in termini di opportunità e discrezionalità

amministrativa.

Marco d'Agostino

Sostituto Procuratore della Repubblica

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