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PROF.SSA LETIZIA CARRUBBA P P S S I I C C O O P P E E D D A A G G O O G G I I A A

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PROF.SSA LETIZIA CARRUBBA

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Sommario

INTRODUZIONE .................................................................................................. 6

I LEZIONE I PROCESSI DI APPRENDIMENTO E LA MOTIVAZIONE ............................................................................................................................... 10

1.1 Cosa vuol dire apprendere ............................................................................. 10

1.2 Visioni e concezioni di apprendimento: spunti di riflessione per l'insegnante ............................................................................................................................... 13

1.2.1 Finestra di approfondimento: ........................................................................ 16

1.3 L'apprendimento per condizionamento: il principio associazionista ............. 26

1.4 L'approccio cognitivista: Acquisizione ed elaborazione delle conoscenze ... 30

1.4.1 Caratteristiche dell'apprendimento in psicologia cognitiva ........................ 36

1.4.2 La social cognition ...................................................................................... 38

1.5 Come si apprende: il contributo del Costruttivismo ...................................... 42

1.5.1 Il socio-costruttivismo ................................................................................ 48

1.6 Come si apprende: il contributo dell'approccio socio-culturale..................... 50

1.7 Prospettive recenti: dall'apprendimento significativo di Ausubel alle mappe concettuali di Novak. ............................................................................................. 56

1.7.1 Finestra di approfondimento ....................................................................... 60

La teoria dell'apprendimento di Ausubel ............................................................... 60

1.8 La motivazione all'apprendimento ................................................................. 66

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1.8.1 La motivazione come variabile complessa: dal comportamentismo al cognitivismo ........................................................................................................... 67

1.8.2 Le dimensioni del concetto di motivazione ad apprendere ......................... 69

1.8.3 Motivazione estrinseca ed intrinseca .......................................................... 70

1.8.4 La motivazione di competenza ................................................................... 73

1.8.5 La motivazione di effectance ...................................................................... 74

1.8.6 La teoria dell'autodeterminazione ............................................................... 77

1.8.7 La teoria dell'attribuzione ........................................................................... 81

1.8.8 Stili motivazionali ....................................................................................... 85

II LEZIONE COME SI INSEGNA E COME SI APPRENDE ...................... 90

2.1 Da ―una‖ a ―più‖ intelligenze: implicazioni psicopedagogiche ..................... 90

2.1.1 Finestra di approfondimento: ...................................................................... 96

Concezioni di senso comune sull‘intelligenza ....................................................... 96

2.2 La teoria triarchica di Sternberg .................................................................... 99

2.3 La teoria delle intelligenze multiple di Gardner .......................................... 104

2.4 La teoria modulare di Fodor ........................................................................ 108

2.5 Come si apprende: gli stili cognitivi ............................................................ 109

2. 6 Gli stili cognitivi in prospettiva evolutiva .................................................. 125

2.7 Gli stili di apprendimento: una finestra di osservazione per l'insegnante ... 128

2.8 Valutare gli stili: una proposta di integrazione ............................................ 135

2.9 La metacognizione: da quello che pensi a come lo pensi ............................ 136

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2.9.1 Finestra di approfondimento ....................................................................... 137

Tappe nello sviluppo della competenza metacognitiva ....................................... 137

2.9.2 Finestra di approfondimento ....................................................................... 138

Lavoro scolastico e metacognizione .................................................................... 138

2.10 Indagine metacognitiva: Indicatori per la costruzione di percorsi ............. 151

2. 11 Studiare che fatica! Metacognizione e metodo di studio .......................... 165

2.11.1 Difficoltà di studio .................................................................................. 169

III LEZIONE COMPETENZE, CREATIVITÀ E INTEGRAZIONE: IMPLICAZIONI PSICOPEDAGOGICHE .................................................... 172

3.1 Tante vie per imparare: le competenze trasversali ....................................... 172

3.1.1 Imparare insieme: la dimensione relazionale dell'apprendimento ............ 180

3.1.2 Imparare sempre: la dimensione creativa dell'apprendimento .................. 185

3.2 Creatività e resilienza ................................................................................... 189

3.3 Intervento psicopedagogico: racconto di un'esperienza con i bambini dell'Abruzzo ......................................................................................................... 193

3.4 Immigrazione e resilienza ............................................................................ 202

3.4.1 Favorire l'integrazione del bambino straniero a scuola ............................ 205

IV LEZIONE LA RELAZIONE INSEGNANTI-GENITORI: DIMENSIONI RELAZIONALI NEL CONTESTO SCOLASTICO ..................................... 210

4.1 Le relazioni genitori-insegnanti: modelli interpretativi ............................... 210

4.2 Insegnanti..si diventa ................................................................................... 226

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4.2.1 L'insegnante riflessivo .............................................................................. 231

4.3 Guardiamoci...e partiamo! Gli stili degli insegnanti .................................... 240

4.4 Genitori a scuola: Aspettative familiari e successo scolastico .................... 244

4.5 Insegnamento e relazione di aiuto a scuola ................................................. 250

4.5.1 Il Coaching: la funzione di ―guida‖ .......................................................... 252

4.5.2 L'Holding: la funzione del ―contenimento affettivo‖ ............................... 256

4.5.3 Il Counseling: la funzione di ―ascolto‖ ..................................................... 259

BIBLIOGRAFIA ............................................................................................... 264

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Introduzione

Lo scopo di questa dispensa di psicopedagogia è quello di condurre il

lettore sia ad ampliare le proprie conoscenze, in particolare teoriche, sia

condurlo a riflettere sulle dinamiche che entrano in gioco nel rapporto

insegnamento-apprendimento. L'intento è anche quello di stimolare la riflessione

e di incoraggiare il docente a cercare attivamente piste di intervento e proposte

operative che, supportate dalla letteratura di riferimento, possano aiutarlo ad

acquisire maggiore consapevolezza riguardo l'importante compito educativo e

formativo che è chiamato a compiere.

La dispensa ruota intorno a quattro nuclei tematici, interconnessi tra loro,

che sinteticamente potremmo presentare come segue: apprendimento,

insegnamento, integrazione e relazione. Essendo principalmente rivolta ad

insegnanti ed educatori non potevamo non partire dalle concezioni di

apprendimento per poi giungere alla relazione insegnamento-apprendimento.

L'insegnante gioca un ruolo importantissimo non solo in quanto facilitatore e co-

costruttore di conoscenze insieme all'alunno, ma perchè capace di coniugare le

dimensioni cognitive (che indubbiamente chiama in causa dall'apprendimento)

con tutti gli aspetti legati alla sfera emotivo - affettivo e relazionale.

Stare bene insieme a scuola potrebbe anche voler dire imparare in maniera

diversa, prendere atto delle cosiddette competenze trasversali, dedicare maggiore

attenzione al pensiero creativo e considerare dimensioni importanti, quali ad

esempio: la capacità di assumere e comprendere prospettive diverse dalle proprie

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e sviluppare flessibilità cognitiva.

La dimensione relazionale, sostiene e chiude il ―cerchio‖: Winnicott

sosteneva che ―il bambino non esiste‖, nel senso che non si dà alcun bambino se

non in relazione con altri esseri umani e con un ambiente che sia accogliente.

L'adulto significativo di riferimento, cioè l'insegnante è investito del compito di

prendersi cura degli alunni dal punto di vista della crescita cognitiva, ma anche

socio-affettiva. L'insegnante non è meno importante dell'alunno e per lavorare

bene, deve sentirsi accettato e riconosciuto, per cui l'aspetto relazionale è da

proteggere e coltivare sia nei rapporti con i colleghi che con i genitori. La

relazione sostiene lo sviluppo e, come avremo modo di vedere, la collaborazione

scuola-famiglia si è rivelata una delle possibili risposte per promuovere il

benessere cognitivo e affettivo di bambini e ragazzi.

La dispensa si articola in quattro capitoli.

Nel primo capitolo vengono inquadrati alcuni temi psicopedagogici

relativi ai processi cognitivi implicati nell'apprendimento e vengono descritte le

principali teorie della motivazione ad apprendere e le relazioni tra motivazione,

aspetti strategici e di prestazione.

Le differenze individuali, trattate nel secondo capitolo, appaiono sempre

più un fattore fondamentale e di cui tenere presente nel programmare e imposta-

re l'insegnamento e lo studio. Dai risultati present in letteratura emerge l'impor-

tanza per l'insegnante di acquisire la consapevolezza che vi sono modi diversi di

procedere, cioè diversi stili cognitivi e che che questi non si identificano mai con

le abilità. Importante per l'insegnante è anche riuscire a riconoscere i propri stili,

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in modo da variare sia il proprio modo di insegnare, sia l'atteggiamento nei con-

fronti degli argomenti da insegnare, sviluppando così nei propri studenti flessibi-

lità cognitiva. E' importante anche sottolineare come, nonostante si abbia spesso

la tendenza a vedere le cose in modo unidimensionale, le persone non sono ca-

ratterizzate da un singolo stile o da un singolo modo di procedere, ma piuttosto

da un profilo di stili cognitivi che in parte variano a seconda dei compiti e delle

situazioni.

Nel terzo capitolo, partendo dall'idea che la scuola non sia l'unico luogo in

cui si apprende, ma che oltre agli insegnamenti formali vi sono anche quelli in-

formali che si arricchiscono di emozioni, esperienze e vissuti, abbiamo ―aperto

le porte‖ alle competenze trasversali. Particolare attenzione è stata dedicata alla

dimensione creativa, vista sia nella sua specificità, sia come trama costitutiva di

tutti i processi che portano l'individuo a superare eventuali traumi mediante un

processo di ripresa attraverso attività espressive-simboliche e creative. Il costrut-

to di resilienza viene, inoltre, utilizzato nel corso del capitolo come chiave inter-

pretativa per meglio comprendere le difficoltà e i traumi a cui va incontro il

bambino ed il ragazzo immigrato, in particolare con l'ingresso a scuola.

Nel quarto ed ultimo capitolo si affronta l'importanza dell'incontro scuola-

famiglia e l'esigenza di costruire uno spazio di condivisione di intenti su cui la-

vorare, nel rispetto delle reciproche competenze, al fine di realizzare una colla-

borazione proficua che permetta la crescita e il successo formativo dei bambini e

dei ragazzi. Il capitolo si conclude con alcuni riferimenti alla relazione di cura

implicata nell'insegnamento.

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La dispensa è arricchita da strumenti complementari: finestre con appro-

fondimenti tematici, ricchi riferimenti bibliografici e note esplicative. Tali con-

tributi intendono fornire chiarimenti, facilitare l'approfondimento e attivare una

riflessione sulla possibile messa in pratica delle tematiche trattate.

Concludiamo questa introduzione con alcune immagini di Lévi-Strauss

con l'augurio che possano ispirare tutti noi nella pratica professionale:

―L'uomo non è come un personaggio che sale una scala, che aggiunge con

ogni suo movimento un nuovo gradino a tutti quelli già conquistati, ma come un

giocatore di dadi che ogniqualvolta li getta, li vede spargersi sul tappeto, dando

luogo via via a combinazioni diverse. O alla maniera del cavallo degli scacchi,

che ha sempre a sua disposizione svariate progressioni, ma mai nello stesso sen-

so‖ (Levi-Strauss C. Razze e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino,

1967). Rimanendo nella metafora degli scacchi, si tratta allora di sostenere e

orientare i nostri studenti non solo a compiere le mosse rettilinee della torre e

dell'alfiere, ma anche le più imprevedibili mosse del cavallo, orientandole verso

obiettivi positivi.

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I Lezione I PROCESSI DI APPRENDIMENTO E LA MOTI-

VAZIONE

1.1 Cosa vuol dire apprendere

Che cosa intendiamo con il termine apprendimento? Quando siamo certi di

avere imparato qualcosa? Tutti noi fin da piccoli siamo immersi in contesti di

sviluppo (famiglia, scuola) e senza neanche rendercene conto impariamo

moltissime cose. Alcune delle quali sono frutto di un'istruzione di tipo formale,

altre invece le acquisiamo semplicemente perchè fin dalla nascita siamo in

interazione continua con gli altri.

Il miglioramento degli apprendimenti è l'obiettivo storico dell'istruzione

scolastica e studiare ―il modo migliore‖ di imparare, il che cosa si debba

imparare (la selezione di conoscenze canoniche), le strategie e i processi mentali

attivati così come le rappresentazioni che i discenti hanno dell'attività mentale

richiesta, sono indubbiamente elementi rilevanti sia per la pratica educativa, sia

per l'impostazione dei processi di insegnamento – apprendimento. Storicamente,

per migliorare gli apprendimenti la pedagogia si è servita dei contributi teorici e

applicativi provenienti dalla psicologia, primariamente cognitiva, fino a

sviluppare conoscenze teoriche e applicative tali da costituire un ambito

disciplinare specifico, ponte tra la pedagogia e la psicologia, qual è appunto la

psicopedagogia.

Apprendere, come vedremo, è un processo molto complesso che chiama in

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causa diverse abilità, come ad esempio la memoria, la percezione, l'attenzione, il

linguaggio fino ad arrivare alle abilità sociali.

Per quanto riguarda l'apprendimento, la psicopedagogia studia le

dimensioni psicologiche coinvolte nei processi educativi, in particolare nei

processi di insegnamento e di apprendimento. Si avvale principalmente dei

contributi di studio della psicologia dell‘educazione e della psicologia

dell‘istruzione che coprono sostanzialmente lo stesso settore di indagine perché

la maggior parte della ricerca svolta finora si è focalizzata sull‘apprendimento

nei contesti di istruzione.

L‘apprendimento viene generalmente definito come un cambiamento che

si manifesta in un individuo per effetto dell‘esperienza. Il cambiamento può

riguardare il comportamento o la conoscenza e può avvenire in modo incidentale

o in modo intenzionale. L‘apprendimento nel contesto scolastico dovrebbe

avvenire intenzionalmente e non come nella vita quotidiana dove si apprende

senza progettazione, organizzazione e sforzo. Le principali teorie psicologiche

che si sono occupate di apprendimento hanno caratterizzato la storia della

psicologia dell‘educazione. Queste teorie si sono occupate di apprendimento

come cambiamento nel comportamento o cambiamento nella conoscenza,

esaminando nel primo caso le relazioni tra stimolo ambientale e risposte

dell‘individuo direttamente osservabili; nel secondo caso le attività mentali non

direttamente osservabili quali pensare, ragionare o risolvere problemi.

Esistono, quindi, vari modi per descrivere un apprendimento. Ci si può

soffermare solo sui cambiamenti a carico del comportamento osservabile,

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oppure possiamo andare oltre e chiederci quali siano i processi che sia pure non

direttamente osservabili, rendono possibile un apprendimento.

Prima di affrontare da un punto di vista teorico i principali contributi di

studio che si sono avvicendati nel tentativo di spiegare le dinamiche

insegnamento-apprendimento, cercheremo di fare emergere attraverso alcune

esercitazioni le concezioni implicite che tutti noi abbiamo riguardo il processo di

apprendimento.

Dopo aver riflettuto sul modo di intendere l'apprendimento affronteremo lo

studio delle principali teorie a partire dal modello teorico comportamentista.

Tale modello assume che la mente, i suoi contenuti e i suoi processi siano simili

ad una scatola nera (cioè non possano essere indagati) mentre ciò che possiamo

analizzare sono gli elementi osservabili, cioè il nostro comportamento prima e

dopo l'avvenuto apprendimento.

Sposteremo poi la nostra attenzione sui meccanismi e i processi che si

desume abbiano luogo nella nostra mente nel corso dell'apprendimento.

Vedremo, quindi, alcune teorie accomunate dall'assunto di base per cui ciò che

avviene nel corso dell'apprendimento può essere considerato una modifica a

livello della rappresentazione delle conoscenze.

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1.2 Visioni e concezioni di apprendimento: spunti di riflessione per

l'insegnante

Definire cosa sia l'apprendimento potrebbe essere arduo anche per un

insegnante, considerato, non a torto, ―l'addetto ai lavori‖. Ognuno di noi

interpellato sul quesito darebbe sicuramente una definizione più o meno ampia e

completa, magari ancorandosi ad una teoria di riferimento o ricorrendo ad una

definizione da manuale. Altri ancora potrebbero rifarsi alla propria esperienza

personale e professionale o intendere per apprendimento soltanto gli

insegnamenti formali. Negli anni passati sono stati condotti alcuni studi che

hanno portato ad identificare alcune principali concezioni che le persone

svilupperebbero in relazione all'apprendimento. La differenziazione proposta da

Marton risulta per noi interessante. Lo studioso divide tra visioni superficiali e

profonde. Nella visione superficiale ritroviamo le tre seguenti immagini di

apprendimento: accrescimento delle proprie conoscenze, memorizzazione e

capacità di riproduzione delle informazioni. Da queste visioni deriva

un'immagine di apprendimento di tipo riproduttivo o possiamo dire pragmatico-

funzionale (cioè apprendere mi serve per saper fare, saper utilizzare, portare a

termine un'attività, ecc.). Mentre nella visione profonda, troviamo immagini (e

quindi definizioni di apprendimento) che intendono l'apprendimento come

applicazione, come comprensione e come capacità di vedere le cose da un

diverso punto di vista. Queste ultime visioni sono dette trasformative perchè

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sottolineano l'importanza di cogliere il significato delle cose di rielaborarlo e

valutarlo. Potremmo anche considerare queste diverse immagini da un punto di

vista evolutivo, infatti il bambino passa da una visione superficiale in cui, per

esempio, impara a memoria o impara solo ciò che gli serve nell'immediato, per

passare poi nel corso dello sviluppo ad una visione più ampia in cui si studia e

apprende anche per il gusto di farlo, in cui si riconosce il valore della

problematicità, del confronto, la possibile coesistenza di prospettive differenti e

l'apporto del ragionamento e della discussione.

E' importante ricordare che la visione che ognuno di noi ha è collegata al

sistema culturale di riferimento, quindi ai valori e alle attese che l'individuo

percepisce nel proprio contesto di apprendimento. L'imparare però non è solo

una questione di attività cognitiva (ora più superficiale ed ora più profonda) ma

mette in moto aspetti emotivo-affettivi, relazionali e personali e quindi l'idea che

ognuno di noi ha risente delle nostre esperienze, dei nostri vissuti e dei nostri

valori. Per poter cogliere questo insieme sfumato di connotazioni possiamo

ricorrere ad una serie di espedienti che consentono di risalire in maniera

assolutamente non invasiva (ma anzi divertente) a quella che è la nostra

rappresentazione implicita dell'apprendimento e dell'imparare. Ad esempio la

prima esercitazione proposta riguarda la scelta di alcuni verbi cosiddetti mentali

(cioè che fanno riferimento al lavoro della mente, come ad esempio il verbo

apprendere) con l'obiettivo di comprendere ciò che spontaneamente associamo

ad una certa funzione mentale. Questo ci può servire per comprendere quanto gli

insegnanti che lavorano in equipe o nello stesso istituto hanno un'immagine

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condivisa di apprendimento. Più chiaramente quando gli attori del percorso di

apprendimento (insegnanti e studenti) si trovano d'accordo nel ritenere che in un

certo caso imparare vuol dire acquisire informazioni (memorizzare), in altri

cogliere il senso (capire), altre volte ancora cogliere delle inferenze a partire dai

dati forniti (rielaborare) diventa più semplice predisporre gli apprendimenti.

Cogliere le differenze ci consente di adottare atteggiamenti e strategie

diversificate secondo il significato dell'imparare che è in questione. Questo

significa da un lato rendere più trasparenti le finalità delle azioni di

insegnamento e dall'altro lato aiutare e abituare i nostri studenti a studiare e ad

imparare con maggiore consapevolezza.

Le ricerche indicano che già a 7 anni i bambini hanno un'immagine precisa

di apprendimento a scuola, immagine che talvolta differisce da quella che si

costruiscono gli insegnanti. Per esempio gli insegnanti tendono a ricostruire gli

eventi sviluppatisi durante una lezione nella sequenza in cui questi ultimi si sono

verificati o in base agli obiettivi che si intendeva perseguire, mentre i bambini

ricordano le situazioni di lavoro scolastico accompagnati da alti livelli di

attivazione, quelli che li vedono direttamente coinvolti (lavori di gruppo,

simulazioni), quelli in cui sono stati utilizzati stimoli visivi o evocativi. Altre

discrepanze emergono circa le strategie di insegnamento che si ritengono pù

efficaci. Riportiamo un elenco di procedure che i bambini, ma non gli

insegnanti, ritengono utili: ascoltare storie raccontate dall'insegnante, lavorare in

gruppo, fare esperienze di role playing, ricorrere a materiali collegati la mondo

infantile (personaggi di cartoni animati). Nel complesso ritengono più efficaci

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strategie che li coinvolgono (storie personali, immagini, ecc.) che li interpellano

attivamente come co-costruttori del processo di apprendimento. Immagini e

storie sono strategie che forniscono la ―cornice di lavoro‖ o lo ―sfondo‖ per la

ricostruzione delle informazioni e che aiutano a collegare queste ultime

all'esperienza personale in modo da renderle significative. In conclusione, i

bambini costruiscono un loro senso dell'attività scolastica, senso che è

parzialmente indipendente dall'azione e dalla direzione impressa dall'insegnante.

Le discussioni, i disegni, i racconti possono aiutare, se focalizzati

sull'oggetto ―apprendimento‖ a portare ad espressione quei significati inespressi

che si sviluppano attorno a ciò che la scuola, e la vita, propongono come

importante obiettivo (Antonietti, 1998).

1.2.1 Finestra di approfondimento:

Definire l'apprendimento (strumenti per insegnanti e studenti)

Nella finestra di approfondimento vengono presentate alcune esercitazioni/alcuni

strumenti che consentono di comprendere meglio la propria concezione di apprendimento.

Strumento 11

Definisco

1 Le esercitazioni riportate sono state ideate da A.Antonietti e collaboratori e pubblicate in Antonietti A. (1998), Psicologia dell'apprendimento. Processi, strategie e ambienti cognitivi, La Scuola Brescia.

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Istruzioni: Ci sono molti verbi che possono essere considerati come sinonimi di ―ap-

prendere‖ o di ―imparare‖. Qui sotto ne trovi un elenco.

Scegli i 7 verbi che meglio si avvicinano all‘idea che hai dell‘apprendimento.

ACCORGERSI; ACQUISIRE; ASSIMILARE; ATTIVARSI; CAMBIARE; CER-

CARE; COGLIERE; COLLEGARE; CRESCERE; INTERAGIRE; INTERIORIZZARE;

INVENTARE; MEMORIZZARE; OSSERVARE; PERSONALIZZARE; RECEPIRE;

RIELABORARE: RINNOVARSI; SCOPRIRE; SPERIMENTARE; TRASFORMARE

I 21 verbi sono di tre tipi:

Tipo A Tipo B Tipo C

acquisire attivarsi accorgersi assimilare cercare cambiare

cogliere collegare crescere

interiorizzare interagire personalizzare

memorizzare inventare rielaborare

osservare scoprire rinnovarsi

recepire sperimentare trasformare

Dopo aver scelto i verbi, conta il numero di verbi di tipo A, B o C.

Se i verbi di tipo A sono 7, 6, 5 oppure se i verbi di tipo A sono 4 e gli altri verbi sono 2 di

uno dei restanti tipi e 1 dell‘altro restante tipo: restituzione A;

Se i verbi di tipo B sono 7, 6, 5 oppure se i verbi di tipo B sono 4 e gli altri verbi sono 2 di

uno dei restanti tipi e 1 dell‘altro restante tipo: restituzione B;

Se i verbi di tipo C sono 7, 6, 5 oppure se i verbi di tipo C sono 4 e gli altri verbi sono 2 di

uno dei restanti tipi e 1 dell‘altro restante tipo: restituzione C;

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Se i verbi di tipo A sono 4 e quelli B 3 o viceversa oppure se i verbi A sono 3 e quelli B so-

no 3: restituzione AB;

Se i verbi di tipo A sono 4 e quelli C 3 o viceversa oppure se i verbi A sono 3 e quelli C so-

no 3: restituzione AC;

Se i verbi di tipo B sono 4 e quelli C 3 o viceversa oppure se i verbi B sono 3 e quelli C so-

no 3: restituzione BC;

Se la scelta dei verbi A, B e C fa registrare le frequenze 3-2-2, 2-2-3, 2-3-2: restituzione

ABC.

Restituzione A

La tua immagine mentale dell‘apprendimento è prevalentemente centrata sul proces-

so del ricevere, dell‘immagazzinare, dell‘accumulare, del ―portare dentro‖ di te.

Tieni presente che quando si tratta di imparare qualcosa di nuovo, oltre a momenti in

cui si tratta di compiere queste operazioni, vi sono momenti in cui l‘apprendimento avviene

in altri modi, più attivi, che richiedono partecipazione e rielaborazione.

Restituzione B

La tua immagine mentale dell‘apprendimento è prevalentemente centrata sul ―fare‖,

sulla ricerca, sull‘esperienza diretta. Ci sono situazioni in cui questo è l‘atteggiamento ri-

chiesto. Non dimenticare che però in altri casi sei invece chiamato ad ascoltare, a riflettere, a

rielaborare.

Restituzione C

La tua immagine mentale dell‘apprendimento è prevalentemente centrata

sull‘esigenza di comprendere, riflettere e di mettere in collegamento ciò che ti è proposto

con il tuo modo di essere. Tieni presente che per raggiungere questi obiettivi sono anche ne-

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cessari momenti di ricezione, di memorizzazione e momenti di partecipazione attiva in espe-

rienze pratiche.

Restituzione AB

La tua immagine mentale dell‘apprendimento è centrata su due modalità: 1) ricevere,

immagazzinare, accumulare, ―portare dentro‖ di te; 2) ―fare‖, ricercare, compiere esperien-

ze dirette.

Cerca di individuare quali sono le situazioni in cui è richiesta la prima modalità di

apprendimento e quali per cui è più pertinente la seconda. Non dimenticare però che in certi

momenti ti è richiesta riflessione e rielaborazione personale.

Restituzione AC

La tua immagine mentale dell‘apprendimento è centrata su due modi: 1) ricevere,

immagazzinare, accumulare, ―portare dentro‖ di te; 2) comprendere, riflettere, mettere in

collegamento ciò che ti è proposto con il tuo modo di essere. Cerca di individuare quali sono

le situazioni in cui è richiesta la prima modalità e quella per cui è più pertinente la seconda.

Tieni presente che per raggiungere certi obiettivi sono anche necessari momenti di parteci-

pazione attiva in esperienze pratiche.

Restituzione BC

La tua immagine mentale dell‘apprendimento è centrata su due modi: 1) ―fare‖, ricer-

care, esperire direttamente; 2) comprendere, riflettere, mettere in collegamento ciò che ti è

proposto con la tua persona. Cerca di individuare quali sono le situazioni in cui è richiesto il

primo tipo di approccio e quelle per cui è più pertinente il secondo. Non dimenticare però

che in certi casi sei chiamato a recepire, ascoltare ed a memorizzare.

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Restituzione ABC

La tua immagine mentale dell‘apprendimento tiene conto di vari aspetti: quelli recet-

tivi (l‘apprendimento come ascolto e memorizzazione), quelli attivi (l‘apprendimento come

esplorazione ed esperienza diretta) e quelli riflessivi (l‘apprendimento come rielaborazione

personale). Cerca di individuare quali sono le situazioni in cui è pertinente ciascuno di que-

sti tre modelli.

Presentazione di strumenti per i contesti educativi

Negli strumenti presentati viene chiesto di leggere con attenzione la storia e comple-

tare il racconto. I racconti prodotti possono aiutarci a individuare gli impliciti e le credenze

che possediamo riguardo lo studio, la fatica, il tempo da dedicare, l'utilità ecc. I racconti

possono essere messi a confronto tra docenti oppure l'esercitazione può essere proposta al-

la classe e le diverse versioni raccolte possono essere raggruppate per categorie in modo

da cogliere le visioni e le rappresentazioni legate allo studio presenti nel gruppo classe.

Strumento 2

Gli eschimesi

Al suono della campanella tutti i piccoli eschimesi sono al loro banco nel grande

igloo al centro del villaggio. Sono tutti eccitati e attenti perché il maestro inizierà un argo-

mento molto interessante e importante: come si costruisce una canoa. I piccoli eschimesi

sono impazienti e nei loro occhi si legge che stanno già immaginandosi di essere in estate a

girare tra gli iceberg con la loro piccola canoa che si sono costruiti a scuola. Ma ci vorrà un

po' di tempo per riuscire a costruire una bella canoa in cui non entri acqua e che non si rove-

sci al primo colpo ricevuto da una foca dispettosa.

―Costruiamo la canoa! Costruiamo la canoa!‖ gridano subito i bambini appena il

maestro entra nell‘igloo.

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―Calma, calma!‖ -li frena il maestro- ―Capisco il vostro entusiasmo. Vi prometto che

arriveremo a costruire la canoa. Però bisognerà che voi studiate ...‖

―Studiare? Che cosa vuol dire ‗studiare‘?‖ -chiedono stupiti i bambini. E‘ infatti la

prima volta che i piccoli eschimesi sentono il loro maestro parlare di ―studiare‖.

Tra di loro c‘è fortunatamente Erica che li può aiutare a capire. Erica è infatti una

bambina italiana che adesso si trova tra gli eschimesi perché da alcuni mesi i suoi genitori,

che sono degli scienziati, si sono trasferiti al Polo Nord per fare delle ricerche. Prima di an-

dare con i suoi genitori tra gli eschimesi Erica ha frequentato da noi per alcuni anni la scuola

e quindi sa che cosa vuol dire ―studiare‖.

Se tu fossi stato/a Erica, che cosa avresti detto ai piccoli eschimesi per far capire lo-

ro che cosa vuol dire “studiare”? Come potresti spiegare a uno che non lo sa che cosa si-

gnifica “studiare”?

Erica ha cercato di spiegare con parole sue agli eschimesi che cosa vuol dire ―studia-

re‖ ma dagli occhi dei suoi piccoli compagni capisce di non essere stata troppo chiara. Prova

allora, per farsi capire meglio, a descrivere quello che fa una persona quando studia.

Come descriveresti tu lo studio? Che cosa fai tu quando studi? Dove e quando si stu-

dia?

―Ma è una cosa bella o brutta studiare?‖ -domanda Squitter, il più piccolo della classe

degli eschimesi.

―Ehm, come dire... Vediamo...‖ Erica non sa bene che cosa rispondere

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Come ti senti quando studi? Che cosa provi quando studi? Che sensazioni ti fa venire

in mente lo studio? Che cosa ti piace e che cosa non ti piace dello studio?

Gli eschimesi sembrano soddisfatti per quello che Erica ha raccontato circa la sua

esperienza con lo studio.

―Beh, adesso abbiamo le idee più chiare‖ -dicono- ―Ma quello che non abbiamo an-

cora capìto è perché si studia‖.

Erica prova a spiegare anche questo.

Se tu fossi stato/a Erica, avresti detto che studiare serve per...

Prova a fare degli esempi di casi in cui è stato utile aver studiato e casi in cui non è

stato utile.

Da quello che Erica ha raccontato loro, gli eschimesi si sono fatti l‘idea che studiare

sia una cosa piuttosto difficile e perciò interrogano la bambina italiana anche su questo pun-

to.

Che cosa c’è di difficile nello studio (che cosa è difficile fare, quando si fa fatica, si

incontrano ostacoli o si sbaglia, ecc.)? Quali sono i motivi (perché è difficile, perché si fa

fatica)?

―Ma cos‘è che può far diventare lo studio più facile?‖ chiede allora Ronfy, il più pi-

gro della classe.

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Che cosa si può fare per far diventare lo studio più facile? Come si potrebbe aiutare

un bambino che non riesce o ha poca voglia di studiare? Che cosa si puç fare per studiare

meglio?

―Ma c‘è allora chi è più bravo e chi meno bravo a studiare‖ -conclude Balanzon, il

primo della classe.

Chi è bravo a studiare? Che cosa bisogna essere capaci di fare per riuscire bene?

Secondo te, in che cosa è bravo uno che studia bene? Una persona che studia molto, che

cosa sa fare soprattutto bene? Perché certe capacità sono importanti per studiare bene?

―E uno che non studia o sa studiare bene può migliorare?‖ chiede timidamente Last.

Si può imparare a studiare? Come si fa? Come si imparano, potenziano, esercitano

le capacità di studio?

―Abbiamo un‘ultima domanda da farti, Erica. Come farà il maestro a sapere se ab-

biamo studiato o no?‖

Erica, che la sa lunga anche su questo, dà agli eschimesi tutte le informazioni del ca-

so

Come si può capire se uno ha studiato o se ha studiato bene o male?

Dopo tutte le spiegazioni ricevute da Erica i piccoli eschimesi hanno capito ciò che li

attende per poter imparare a costruire canoe. La cosa sembra adesso un po‘ meno immedia-

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ta, ma ne vale comunque la pena, se studiare è necessario per poter guizzare la prossima

estate tra il pack (ma voi avete studiato che cos‘è il pack?) con la propria canoa.

Strumento 3

Cos'è la scuola?

Un gruppo di ragazzi sta dirigendosi verso un grande edificio. Con lo zainetto in

spalla da cui spunta la copertina di qualche libro, camminano in fretta. Al gruppetto si

affianca un tizio dall‘aria stralunata, che si capisce subito non essere dell‘ambiente, il quale

chiede: ―Ma dove andate così di corsa?‖

Un ragazzo risponde sbrigativo: ―A scuola‖.

"A scuola?‖ il tizio pare non aver inteso.

―Sì, a scuola‖ ripete il ragazzo, sempre camminando di fretta.

―A scuola? Ma a fare che?‖ la domanda del tizio pare proprio impertinente.

―Si va a scuola per imparare‖ è la risposta spazientita.

―Ma che cosa vuol dire imparare?‖ quel tizio sembra proprio che non sappia che

cos‘è la scuola.

1- Se tu fossi stato nel gruppo di quei ragazzi, che cosa avresti risposto? Che cosa

vuol dire “imparare”? Come potresti spiegare a uno che non lo sa che cosa significa

“imparare”?

…………………………………………………………………………………………………

………........................................................................................................................................

....................................................................................................................................................

―Ma a che cosa serve imparare?‖ domanda ancora il tizio, sempre inseguendo il

gruppetto dei ragazzi.

―Ehm, come dire ... Vediamo ...‖ A questo punto qualche altro ragazzo vuole

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intervenire.

2- Se tu fossi stato nel gruppo avresti detto che imparare serve per ...

…………………………………………………………………………………………………

………........................................................................................................................................

………………………………………………………………………………………………....

Da quello che i ragazzi hanno detto, il tizio si è fatto l‘idea che imparare sia una cosa

piuttosto difficile e perciò continua a interrogare i malcapitati anche su questo punto: "Che

cosa si può fare perché imparare diventi più facile?‖

3- Tu che cosa avresti risposto?

…………………………………………………………………………………………………

………........................................................................................................................................

....................................................................................................................................................

―Ma c‘è allora chi è più bravo e chi meno bravo a imparare‖ conclude il tizio.

4- Chi è bravo a imparare? Che cosa bisogna essere capaci di fare per riuscire bene

a imparare? Che capacità sono importanti per imparare bene?

…………………………………………………………………………………………………

………........................................................................................................................................

…………………………………………………………………………………………………

……….......................................................................................................................

―Un‘ultima domanda‖ il gruppetto è arrivato ormai alla porta dell‘edificio ―Come si

fa a sapere se uno ha imparato?‖

5- Come si può capire se uno ha imparato?

…………………………………………………………………………………………………

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……...........................................................................................................................

…………………………………………………………………………………………………

………........................................................................................................................

―Senta, non abbiamo più tempo per risponderle. Se proprio vuol sapere tutte queste

cose, venga qui dentro con noi"

1.3 L'apprendimento per condizionamento: il principio associazioni-

sta

Le teorie classiche sull'apprendimento si sono sviluppate prevalentemente

in ambito comportamentista. Il comportamentismo (o behaviorismo) è la teoria

psicologica egemone in campo sperimentale negli stati Uniti dagli anni Venti fi-

no agli anni Cinquanta-Sessanta. Tra i principali esponenti ricordiamo J.B. Wa-

tson, E.L. Thorndike e B.F. Skinner. Il comportamentismo nasce ufficialmente

nel 1913, con la pubblicazione del saggio di Watson Psychology as the behavio-

rist views it.

La tesi fondamentale del behaviorismo afferma che oggetto della psicolo-

gia è, deve essere, il solo comportamento osservabile. Questa definizione

dell‘oggetto della disciplina rappresenta una radicale rottura rispetto alla tradi-

zionale visione della psicologia come studio della ―psiche‖, termine greco che

indica l‘anima, la mente, la coscienza. In questo senso, il behaviorismo si oppo-

ne radicalmente al metodo dell‘introspezione, sostenuto da Wundt e dai suoi se-

guaci, che viene considerato completamente fallace.

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Dietro a questa definizione, vi è un‘opzione teorica e metodologica molto

precisa, ossia il tentativo di costruire la psicologia come disciplina scientifica se-

condo il modello delle scienze naturali. Il behaviorismo ha infatti riferimenti fi-

losofici molto precisi nell‘epistemologia neopositivista che proponeva un model-

lo di scienza basato sul confronto con dati empirici intersoggettivamente verifi-

cabili e misurabili.

La trasposizione in psicologia di questi assunti determina l‘esclusione del-

la sfera psichica (ossia della coscienza, del pensiero, delle credenze personali,

delle intenzioni, delle emozioni, ecc.) dall‘ambito della scienza. Il mondo psi-

chico, che rappresenta il campo privato e soggettivo per antonomasia, non è su-

scettibile di indagine scientifica. Il campo di indagine del behaviorismo si limita

quindi al comportamento osservabile.

La mente umana è considerata dal comportamentismo come una scatola

nera (black box), in quanto i suoi processi e contenuti non sono empiricamente

osservabili. Per contro, molti studi sono dedicati alla psicologia animale, attra-

verso i quali si mettono in luce i meccanismi dell‘apprendimento. Si definisce

apprendimento ogni modificazione relativamente stabile del comportamento di

un organismo in seguito ad un‘esperienza.

Il modello esplicativo fondamentale del comportamentismo, che spiega i

meccanismi dell‘apprendimento, è il modello Stimolo (S)-Risposta (R), basato su

uno schema causa-effetto. Lo stimolo riguarda l‘impatto che l‘ambiente ha

sull‘individuo, mentre la risposta è la reazione dell‘individuo all‘ambiente. Un

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determinato stimolo (per esempio una certa condizione ambientale) causa in un

certo organismo una determinata risposta (il comportamento osservabile).

Il principale meccanismo attraverso il quale si realizza l‘apprendimento è,

secondo i comportamentismi, il condizionamento. Per condizionamento si inten-

de lo stabilirsi di una connessione fra due tipi di stimoli, dei quali l‘uno adeguato

a provocare una risposta (stimolo incondizionato) e l‘altro inadeguato (stimolo

condizionato); quando la connessione si stabilisce, lo stimolo inadeguato diviene

capace di provocare da solo la risposta stessa. Si distinguono diverse forme di

condizionamento; le principali sono il condizionamento classico ed il condizio-

namento operante.

Il condizionamento classico, studiato dal fisiologo russo Pavlov (1849-

1936) nei suoi famosi esperimenti sui cani, consiste nella presentazione congiun-

ta di uno stimolo artificiale (il suono di un campanello) e di uno stimolo naturale

(il cibo), atto a provocare una certa risposta fisiologica nel cane (la salivazione).

Dopo un certo numero di presentazioni associate, il solo stimolo artificiale (il

suono del campanello) diviene sufficiente per provocare nel cane la risposta (sa-

livazione), detta per questo condizionata, che normalmente si verifica solo nel

caso della presentazione dello stimolo naturale (il cibo). Un meccanismo fonda-

mentale su cui si basa il condizionamento è il rinforzo. Il rinforzo consiste nella

presentazione di stimoli che costituiscono delle ricompense (per esempio un cibo

molto buono) o delle punizioni (per esempio una scarica elettrica), atte a provo-

care la risposta desiderata.

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Mentre nel condizionamento classico la risposta segue alla presentazione

dello stimolo, nel condizionamento operante, studiato da Skinner nei suoi espe-

rimenti sui topi, quest'ordine è invertito. La risposta precede infatti lo stimolo,

che è fornito dallo sperimentatore solo in un secondo tempo, come rinforzo volto

a fissare la risposta stessa. Così Skinner pone i suoi topi in una gabbia-labirinto,

lasciandoli liberi di cercarsi il cibo attraverso tutti i tentativi possibili. Uno solo

di questi è però efficace per l'ottenimento del cibo (rinforzo positivo) e solo

quando l'animale emette la risposta adeguata avviene l'erogazione della ricom-

pensa. Il meccanismo di apprendimento di una certa risposta è basato sulla con-

nessione di essa con una ricompensa.

Attraverso i meccanismi (concettualmente analoghi a quelli del condizio-

namento, anche se più complessi) di apprendimento e rinforzo, il behaviorismo

ritiene di poter spiegare fenomeni umani complessi, quali l'aggressività, lo svi-

luppo linguistico, la socializzazione. Da questo punto di vista, esso tende ad ac-

creditare una concezione dell'uomo come totalmente passivo e plasmabile da

parte dell'ambiente, attraverso la manipolazione di stimoli opportuni. Scrive Wa-

tson (1914): ―Datemi una dozzina di bambini normali, ben fatti, ed un ambiente

opportuno per allevarli e vi garantisco di prenderne qualcuno a caso e di farlo

diventare un qualsiasi tipo di specialista io voglia selezionare, indipendentemen-

te dalle sue attitudini, simpatie, inclinazioni, capacità, vocazioni‖.

Il modello behaviorista appare oggi del tutto insoddisfacente, benché, a

onor del vero, un comportamentismo radicale sia rintracciabile solo in Watson.

Autori come Hebb e Tolman elaborano un modello in cui tra stimolo e risposta

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compare la mediazione dell'organismo, aprendo la strada per il superamento del

radicale antimentalismo watsoniano.

L'inadeguatezza del modello comportamentista a rendere ragione dei fe-

nomeni più specificamente umani (per esempio, cognizioni, volizioni, ragiona-

mento ecc.) porta alla nascita e allo sviluppo del cognitivismo.

1.4 L'approccio cognitivista: Acquisizione ed elaborazione delle co-

noscenze

L‘approccio cognitivista, si è affermato nell‘ambito della psicologia

sperimentale statunitense e inglese degli anni 50 ed ha rappresentato, in

particolare dagli anni '70, la prospettiva dominante sulla cognizione, sullo

sviluppo e sull‘apprendimento anche nell‘ambito della psicologia

dell‘educazione.

Il cognitivismo2 studia i processi di elaborazione dell’informazione, come

2 Con il termine cognitivismo si indica una linea di ricerca della psicologia che nasce negli Stati Uniti in-torno agli anni Sessanta, la cui data ufficiale d'inizio è convenzionalmente fissata nel 1967, anno della pub-blicazione del libro di Neisser Cognitive Psychology (tr. it. 1976). La psicologia cognitivista si configura come una psicologia mentalistica, contrapponendosi al compor-tamentismo ed alla visione della mente come scatola nera. Alcuni autori considerano il cognitivismo una di-retta filiazione del comportamentismo, che negli anni Cinquanta deteneva ancora il predominio della psico-logia sperimentale americana: secondo tale interpretazione i primi cognitivisti erano dei comportamentisti appartenenti ad una nuova fase. In effetti, autori come Hebb e Tolman avevano elaborato e introdotto, nel modello behaviorista di spiegazione del comportamento, concetti - come quelli di ―variabili intervenienti‖ e di ―mappe cognitive‖ - che si interponevano tra lo stimolo e la risposta, anticipando tematiche tipiche del cognitivismo. Tuttavia col tempo si sono evidenziate profonde differenze tra i due orientamenti; il cogniti-vismo va progressivamente contrapponendosi in modo sempre più netto al comportamentismo, di cui mette in luce incongruenze e limiti, criticandone l'incapacità di spiegare il comportamento umano al di fuori dal laboratorio e configurandosi essenzialmente come un suo superamento.

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ad esempio la trasformazione, la riduzione, l' immagazzinamento e il recupero

che soggiacciono all‘esecuzione di attività cognitive complesse, quali il

comprendere, il ricordare, il ragionare, il risolvere problemi (gran parte del

lavoro scolastico).

Di seguito vedremo quattro assunti fondamentali comuni alle teorie e ai

modelli dell‘approccio cognitivista.

1. L’attività mentale consiste nella processazione dell’informazione: le

Il cognitivismo propone infatti un modello di organismo opposto a quello comportamentista, ponendo al centro dello studio psicologico non più il comportamento ma la mente, considerata come un sistema orga-nizzato di strutture e processi che elaborano i dati provenienti dall'esterno. L'uomo viene concepito non più come un'entità passiva ma come un soggetto attivo, guidato dalla sua attività mentale. La nozione compor-tamentista di ―stimolo‖ viene sostituita da quella di ―informazione‖; il modello stimolo-risposta viene rim-piazzato da sofisticati modelli basati sull'organizzazione gerarchica dei processi mentali. L'analisi si focalizza sulle modalità con le quali l'uomo raccoglie informazioni dal mondo circostante, attribuisce ad esse significato, le elabora e conseguentemente interagisce con esso. Secondo una celebre de-finizione di Neisser (1967), ―la psicologia cognitiva si occupa di tutti quei processi per mezzo dei quali l'in-put sensoriale viene trasformato, ridotto, elaborato, immagazzinato, recuperato e infine utilizzato‖. Nella costruzione di modelli del funzionamento mentale dell'individuo, il cognitivismo si rifà in modo cospicuo alla cibernetica e alla teoria dell'informazione, basandosi sull'analogia tra l'uomo, visto come ela-boratore attivo e trasformatore di informazioni, ed il computer; non vengono tuttavia disdegnati contributi provenienti da varie discipline quali ad esempio linguistica, antropologia, filosofia e neuroscienze, che con-figurano il cognitivismo come un orientamento interdisciplinare ed eclettico. Poca attenzione viene invece attribuita, almeno inizialmente, allo studio dei fattori affettivi ed emozionali nonché a quelli storico-culturali: pur riconoscendo la loro importanza, si ritiene che il prendere in considerazione tali elementi co-stituisca una complicazione eccessiva per la ricerca scientifica (Gardner, 1985). Oggetto privilegiato di ricerca divengono la percezione, la memoria, l'attenzione, il linguaggio, l'ap-prendimento, temi tradizionali di studio della psicologia, interpretati però facendo riferimento ai processi mentali sottostanti. Questi vengono concettualizzati in modelli dettagliati che ne descrivono le sequenze ti-piche. Nella costruzione di tali modelli, i cognitivisti si avvalgono di simulazioni tratte dall'intelligenza arti-ficiale e dal funzionamento dei programmi computerizzati; un tipico esempio di un simile approccio è rap-presentato dal paradigma dello Human Information Processing (H.I.P.). Ciò ha talora condotto gli studiosi di questo orientamento a indagare soprattutto i micro-processi (me-moria a breve e a lungo termine, riconoscimento di stimoli visivi, ecc.), utilizzando situazioni di laboratorio a volte semplici e parcellizzate (cfr. Reed, 1989). Tuttavia, in anni recenti, sono emerse linee di ricerca che, motivate dalla necessità di effettuare studi dotati di maggiore validità ecologica, si dedicano all'analisi dei macro-processi (per esempio problem-solving di problemi mal definiti), ossia all'elaborazione di situazioni complesse e significative simili a quelle della vita reale. Così i metodi utilizzati dalla psicologia cognitivista sono molteplici: si va da situazioni di laboratorio con controllo rigoroso di variabili specifiche, come la misurazione dei tempi di reazione, ad approcci di tipo più globale, come l'analisi dei protocolli in cui il soggetto sperimentale illustra verbalmente allo sperimen-tatore ciò che sta facendo e ciò che pensa mentre è impegnato in un compito (thinking-aloud).

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teorie si interessano non tanto degli stadi, ma dei modi in cui il

bambino rappresenta e trasforma l‘informazione, i limiti di attenzione

e di memoria che influenzano la rappresentazione e la trasformazione

dell‘informazione.

2. Enfasi sui meccanismi di cambiamento: sono intesi come quei processi

mentali che migliorano l‘abilità di processazione dell‘informazione nel

bambino.

3. Conoscenza come processo di automodificazione continua: l‘uso da

parte del bambino di varie strategie in mondi familiari, quali

l‘aritmetica, la lettura, dire l‘ora, aumenta la conoscenza che il

bambino ha delle strategie e delle condizioni e dei limiti della loro

applicazione.

4. Uso della task analysis : consiste nell‘analisi minuziosa di ciò che il

compito richiede dal punto di vista cognitivo e fornisce il criterio per

valutare esattamente le difficoltà di processazione. Il modo di

rappresentare e processare l‘informazione dipende dal tipo di compito

che l‘individuo deve eseguire. E‘, quindi, uno strumento metodologico

fondamentale per la comprensione del pensiero infantile.

Questo approccio fornisce scarsa attenzione ai modi in cui le abilità

vengono acquisite, cioè all‘apprendimento, ma si è focalizza sull‘analisi della

prestazione in abilità cognitive già acquisite. Ad esempio cosa accade quanto si

ricorda di un brano di prosa, quali strategie si adottano nella soluzione di un

problema, o nell‘organizzazione della stesura di un testo scritto.

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Nel cognitivismo il funzionamento della mente umana è rappresentato

mediante la metafora del computer, ovvero in termini dei processi di

elaborazione dell‘informazione mediante i quali le macchine pensano.

Il confronto tra pensiero umano e artificiale ha permesso di fare ipotesi sul

funzionamento cognitivo dell'uomo, privilegiando l‘analisi delle strutture che

regolano la processazione dell‘informazione (memoria a breve termine MBT,

memoria a lungo termine MLT, processi di controllo). Per tale motivo è stata

condotta molta ricerca sulla memoria, a svantaggio dell‘apprendimento.

Il modello dei magazzini di memoria Atkinson e Shiffrin

L‘individuo riceve le informazioni dal mondo esterno attraverso gli organi

di senso, ciascuno collegato con un registro sensoriale (visivo, uditivo) dove

l‘informazione viene conservata per un intervallo brevissimo (poche frazioni di

secondo) e viene riconosciuta, cioè confrontata con la conoscenza depositata nel

magazzino di memoria a lungo termine. Per esempio un segno viene

riconosciuto come una lettera dell‘alfabeto e inserito nel magazzino di memoria

a breve termine, dove l‘informazione, trasformata tramite il riconoscimento,

viene conservata per qualche decina di secondi.

La memoria a breve termine è il luogo in cui vengono depositate

temporaneamente le informazioni su cui si sta mentalmente lavorando. Ha una

capienza limitata, ovvero in media 7 unità e ha una limitazione temporale,

ovvero le informazioni possono permanere solo per qualche decina di secondi e

poi decadono. Infine l‘informazione passa nella memoria a lungo termine che è

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permanente e a capacità illimitata. Qui l‘informazione viene depositata e

conservata in base a tipi differenti di conoscenza (dichiarativa, procedurale) e

può essere recuperata attraverso un processo di ricerca.

Questo sistema di processazione dell‘informazione comprende delle

componenti strutturali o di architettura, ovvero i magazzini e aspetti relativi ai

processi e al controllo dei processi stessi .

Tra i diversi autori, ricordiamo il contributo di Anderson (studioso di

scienze cognitive) che ha elaborato una teoria della cognizione complessa,

secondo il quale l‘apprendimento sarebbe riconducibile a un unico insieme di

processi che coinvolgono due forme di conoscenza distinte: la conoscenza

dichiarativa e conoscenza procedurale.

Conoscenza dichiarativa: riguarda il sapere cosa. Ci consente di avere

conoscenze di eventi, nomi, significati, fatti. E‘ una conoscenza di informazioni

statica, che nel modello viene rappresentata da una rete semantica i cui nodi,

costituiti da asserzioni o proposizioni, rappresentano gli elementi conoscitivi,

come per esempio i concetti, che sono collegati tra loro mediante relazioni.

La conoscenza dichiarativa è stata ulteriormente suddivisa in memoria

episodica e memoria semantica (Tulving).

La memoria episodica immagazzina informazioni su episodi ed eventi che

hanno una collocazione temporale, consentendo di ricordare che si ha un

appuntamento tra qualche ora, ecc. Un evento che entra nella memoria

episodica, viene archiviato insieme alle informazioni su ciò che si è verificato

prima, nello stesso momento e dopo.

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La memoria semantica, invece, è necessaria per usare il linguaggio,

comprende le conoscenze sulle parole e sui simboli verbali, sui significati, sui

referenti e le loro relazioni. Ciò che viene archiviato nella memoria semantica è

accompagnato dalla sua referenza cognitiva, ovvero una quantità di informazioni

che viene organizzata in un‘unica informazione riferita a una classe precisa.

Le due memorie sono distinte proprio dall‘organizzazione delle

informazioni, in quanto nella memoria episodica le informazioni vengono

aggregate in base alla vicinanza temporale, mentre nella memoria semantica le

informazioni vengono aggregate in base all‘appartenenza categoriale o alla

somiglianza sintattica e per questo motivo durano nel tempo.

Conoscenza procedurale: riguarda il come fare, cioè il modo con cui

eseguire attività semplici, complesse o di natura intellettuale.

Non tutte le conoscenze procedurali immagazzinate nella memoria sono

accessibili, cioè non sempre siamo in grado di spiegare il procedimento seguito

per svolgere un‘operazione. La conoscenza procedurale viene rappresentata da

un insieme di produzioni, ovvero regole di azione, che vengono messe in atto so-

lo se si verificano certe condizioni.

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1.4.1 Caratteristiche dell'apprendimento in psicologia cognitiva

Secondo il modello cognitivista l'apprendimento viene inteso come un

processo costruttivo, per cui apprendere non è mai un semplice immagazzinare

l‘informazione, ma significa connettere la nuova informazione ad

un‘informazione già presente nella memoria a lungo termine.

Nel cognitivismo, analizzare il funzionamento cognitivo comporta la pos-

sibilità di aiutare un alunno ad acquisire nuove strategie, comporta un apprendi-

mento di contenuti e di un funzionamento sul piano cognitivo ad un livello più

evoluto.

La conoscenza viene costruita e tale costruzione è influenzata dal modo in

cui la conoscenza precedente è strutturata. Gli schemi, gli script, e i frames si ri-

feriscono a forme di rappresentazione della conoscenza nella memoria

dell‘uomo e del computer.

Possiamo definire lo schema:

1) Una struttura di dati per rappresentare i concetti generici

immagazzinati nella memoria.

2) Un pacchetto organizzato di conoscenze che serve a rappresentare

unità singole di conoscenze riunite insieme.

3) Un insieme di concetti e di associazioni tra concetti che definisce

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un concetto più complesso e frequentemente incontrato.

Per esempio lo schema di ―faccia‖ comprende alcuni concetti (occhio, na-

so) e le relazioni tra questi (posizione, simmetria). Lo schema presenta delle va-

riabili, che assumono diversi valori nelle diverse situazioni in cui lo schema vie-

ne esemplificato, infatti lo schema non specifica il colore degli occhi o la lun-

ghezza del naso, ma solo la presenza di questi elementi.

Gli schemi sono ricavati dal presentarsi ripetuto di situazioni o esempi del

concetto che lo schema rappresenta e possono essere organizzati in schemi più

semplici o sottoschemi. Hanno la funzione di guidare l‘organizzazione

dell‘informazione in arrivo, per dare un senso a ciò che percepiamo e appren-

diamo. Se l‘informazione è incompleta gli elementi che mancano possono essere

inferiti per difetto attraverso lo schema.

Comprendere significa verificare uno schema, cioè far comprendere i dati

di una situazione ogni volta che quella situazione può essere interpretata come

esempio dello schema rappresentato.

Il rapporto tra schema e apprendimento: il modello di Rumelhart e

Norman

Rumelhart e Norman (1978) hanno proposto un modo di categorizzare

l'apprendimento che in parte richiama quanto fin qui detto. L'apprendimento

viene suddiviso in tre processi principali: accrescimento (accretion); creazione

(structuring) e aggiustamento (tuning).

Con il termine accrescimento, gli studiosi fanno riferimento al fatto che

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apprendere significa aggiungere nuove informazioni a schemi o rappresentazioni

già esistenti. Gli studiosi hanno osservato come gli studenti con difficoltà di

apprendimento manchino proprio della capacità di integrare le nuove

conoscenze negli schemi preesistenti. E', quindi, importante quando si insegnano

nuovi concetti fare in modo che gli alunni li colleghino a conoscenze o concetti

che già possiedono.

Apprendere significa anche creare nuovi schemi per rappresentare le cono-

scenze quando uno schema preesistente è inadeguato o insufficiente. Infine

nell'aggiustamento si ha il progressivo adattamento di uno schema conseguente

all‘applicazione ripetuta dello schema; uno schema già esistente viene modifica-

to in modo da adattarsi sempre meglio alle situazioni a cui si applica.

I tre processi considerati non sono modalità alternative, ma tutte e tre par-

tecipano all‘aumento e alla modificazione della conoscenza. Questo modello sot-

tolinea la continuità di ciò che viene acquisito con ciò che è nuovo: ogni acquisi-

zione si innesta in strutture di conoscenza già organizzate.

1.4.2 La social cognition

Sempre all'interno dell'approccio cognitivista troviamo il paradigma di ri-

cerca definito come ―approccio statunitense alla social cognition”.

La social cognition americana tende, infatti, a non riconoscere la specifici-

tà degli stimoli sociali rispetto a quelli provenienti dal mondo fisico: ―sociali‖

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sono i contenuti della conoscenza sociale, ma i processi sottostanti sono i mede-

simi studiati dalla psicologia generale cognitiva (percezione, memoria, ecc.).

Questa prospettiva si dedica alla ricerca di invarianti cognitive del pensie-

ro individuale che, nonostante siano applicate a contenuti sociali, sono conside-

rate indipendenti dal contesto sociale.

In base a tali presupposti viene elaborato un modello che considera l'uomo

come uno scienziato ingenuo (per le somiglianze nel comportamento e nel ra-

gionamento con le procedure dello scienziato professionista) e come un econo-

mizzatore di risorse cognitive, il cui modo di ordinare la realtà sociale è finaliz-

zato principalmente a semplificarla, sacrificando l'accuratezza a favore dell'effi-

cienza. Gli aspetti emotivi e sociali sono visti in questa prospettiva come ―errori

logici‖, ossia come elementi disturbanti nella costruzione della conoscenza so-

ciale.

Tra i contenuti fondamentali della social cognition, vi sono le teorie impli-

cite di personalità ed i processi di attribuzione. Essendo uno scienziato ingenuo e

un economizzatore di risorse cognitive, l'individuo seleziona le informazioni,

elaborando solo quelle che gli appaiono salienti, e cade perciò inevitabilmente in

alcuni errori. I più tipici sono:

1. la chiusura dell’informazione: l'individuo coglie soprattutto le infor-

mazioni che confermano i suoi punti di vista e trascura le altre;

2. la produzione della conferma comportamentale: l'individuo stimola

negli altri comportamenti consoni alle proprie aspettative;

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3. la personalizzazione (o errore fondamentale): l'individuo tende ad in-

terpretare gli atti degli altri più in termini disposizionali (ossia attribui-

bili a tratti stabili di personalità) che situazionali (ossia riconducibili a

fattori legati al contesto e alla situazione specifica).

In conclusione, la psicologia sociale cognitiva (approccio americano alla

social cognition) si caratterizza per un'impronta marcatamente individualista e

per una scarsa attenzione ai contesti sociali in cui si forma la conoscenza del

mondo sociale. L'approccio europeo alla social cognition, affermatosi in Europa

alla fine degli anni Sessanta, grazie ad autori quali Tajfel, Turner, Doise, Mo-

scovici, Palmonari, si pone come un indirizzo di ricerca autonomo ed alternativo

rispetto all'analogo filone statunitense di cui critica alcuni presupposti considera-

ti svianti. In particolare:

- l'adozione di una prospettiva individualistica secondo la quale il

comportamento sociale viene spiegato in termini intraindividuali

(cognitivi e, perciò, pre-sociali);

- la concezione astorica della società, come semplice aggregato

omogeneo di individui indifferenziati.

Ad essi, l'approccio socio-cognitivo (o psico-sociale) di stampo europeo

contrappone invece una concezione interazionista del soggetto, secondo cui l'in-

terazione sociale influenza e struttura l'azione individuale, ed un concetto di so-

ciale come organizzato: la società è considerata come articolata in gruppi, legati

da complessi vincoli e gerarchie.

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Il comportamento individuale deve essere quindi necessariamente interpre-

tato facendo riferimento al gruppo sociale di cui l'individuo stesso è membro. Il

riconoscimento della natura organizzata del sociale implica inoltre il tentativo di

costruire delle situazioni sperimentali che tengano conto dei comportamenti e

delle credenze che i soggetti, in base alla posizione che occupano nel sociale,

portano in sede sperimentale (Doise, 1980).

Il modello di uomo che viene proposto è quello di attore della vita quoti-

diana: l'individuo è considerato quale membro di gruppi e particolare attenzione

viene dedicata alle determinanti sociali che guidano i processi conoscitivi e al

contesto sociale nel quale nascono le strutture cognitive.

I processi di ordinamento della realtà presentano, secondo la psicologia

sociale europea, consistenti e sistematiche differenze in rapporto alla collocazio-

ne degli individui all‘interno dei diversi contesti interattivi (Ugazio, 1988).

―Sociali‖ non sono soltanto i contenuti, ma anche l‘origine e la condivisio-

ne delle conoscenze sociali.

L‘attenzione degli autori europei si focalizza in modo particolare sul pro-

cesso di categorizzazione sociale (Tajfel, 1981) e sulle rappresentazioni sociali

(Farr e Moscovici, 1984). L‘approccio europeo alla social cognition pone quindi

al centro del proprio studio un individuo in costante interazione sociale; partico-

lare attenzione viene dedicata alla articolazione tra i processi cognitivi e quelli

sociali (Polmonari, 1989). Le due prospettive si configurano comunque non co-

me antitetiche, ma come complementari. Alla base di esse vi è un grande inte-

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resse in comune: lo studio e l‘analisi dei meccanismi e dei processi attraverso i

quali l‘individuo percepisce se stesso, gli altri individui, la realtà.

Inoltre, su un piano epistemologico, entrambi gli orientamenti considera-

no, seppur a diverso titolo, la realtà secondo una prospettiva di tipo costruttivi-

sta, che implica la concezione di un soggetto attivo e di una realtà non oggetti-

vamente data ma connessa all‘osservatore.

1.5 Come si apprende: il contributo del Costruttivismo

Un'altra parte del cognitivismo abbraccia una visione ―costruttivista‖

dell'uomo e, quindi, anche dell'apprendimento. Secondo il costruttivismo la

realtà non può essere considerata come un qualcosa di oggettivo, indipendente

dal soggetto che la sperimenta, perchè è il soggetto stesso che crea, costruisce,

inventa quello che crede esista. Non siamo dotati esclusivamente di capacità

reattive (classificare e organizzare le informazioni in arrivo) ma anche di abilità

anticipatorie e attive.

In linea generale, il termine ―costruttivismo‖ si riferisce alla posizione fi-

losofica secondo la quale la realtà conosciuta non è pre-data alla conoscenza, ma

viene in qualche modo costruita (o ri-costruita) dal soggetto conoscente. In altri

termini, per questa prospettiva, ciò che si definisce ―realtà‖ (ancorché essa venga

concepita come esistente a prescindere dal soggetto conoscente) non è qualcosa

di univocamente e oggettivamente dato. Al contrario, ciò che si conosce è ricor-

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sivamente connesso al soggetto conoscente: nessuna conoscenza può pertanto

considerarsi ―oggettiva‖.

a. A livello filosofico generale, l'origine della posizione costruttivista è

da rintracciarsi nella ―rivoluzione copernicana‖ di Kant. Come è noto,

Kant sostiene che il soggetto conoscente non è in grado di conoscere

direttamente la realtà come è in se stessa, ma soltanto una rappresen-

tazione soggettiva di essa, che egli definisce ―fenomeno‖ (letteralmen-

te ―ciò che appare‖). Un fenomeno è la sintesi dell'incontro tra la real-

tà stessa e le strutture conoscitive dell'uomo. Queste ultime sono dette

―a priori‖, in quanto precedono e rendono possibile l'esperienza. È

l'uomo, secondo Kant, a costruire veramente il mondo in quanto og-

getto di esperienza e ad attribuire un ordine razionale all'informe dato

sensibile, rendendo possibile la conoscenza scientifica. Sotto questo

profilo, il costruttivismo si oppone alla concezione passiva e ricettiva

della conoscenza sensibile, condivisa da buona parte del pensiero mo-

derno e, in particolar modo, dall'empirismo. Il costruttivismo sottoli-

nea il ruolo attivo del soggetto conoscente, categorizzatore e ordinato-

re della realtà conosciuta.

b. Sul piano della epistemologia, la prospettiva costruttivista si oppone al

neopositivismo. Come è noto, il neopositivismo proponeva il riferi-

mento ai fatti empirici ed alla osservazione di essi, quale criterio ulti-

mo di verità.

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La posizione costruttivista sostiene invece che non esiste un'osservazione

neutra, che possa prescindere da presupposti teorici. A questo proposito, Popper,

uno dei maggiori esponenti dell'epistemologia contemporanea, sostiene che, se

non ci fossero aspettative e ipotesi determinate dalle teorie, lo scienziato non sa-

prebbe cosa osservare e come mettere a punto i suoi esperimenti scientifici.

All‘induttivismo e al principio di verificazione, Popper (1959) contrappone il

criterio della falsificabilità, secondo il quale ciò che demarca il confine tra

scienza e non scienza è la possibilità, propria delle teorie scientifiche, di essere

falsificate e rigettate.

―All'inizio del secolo l'epistemologia si vuole definire come scientifica

proprio sulla base di una strategia di neutralizzazione del soggetto. Ma sono stati

proprio gli sviluppi interni, e tecnici, delle scienze a cui l'epistemologia si ispira-

va per definire scientificamente il proprio metodo a delineare l'inevitabilità del

riferimento al soggetto, dell'integrazione dell'osservatore nelle loro descrizioni‖

(Ceruti, 1986, p. 99).

―... una stessa ―cosa‖ è in realtà un vero ―fascio di oggetti‖, addirittura un

fascio potenzialmente infinito di oggetti, perché, a seconda dei ―punti di vista‖

da cui la si vuol considerare, essa diviene effettivamente oggetto di una scienza

diversa, e i punti di vista sono moltiplicabili all'infinito. (...) ...è proprio il ―punto

di vista‖ che costruisce l'oggetto di una scienza, nel senso che è l'assumere un

punto di vista piuttosto che un altro, sulle ―cose‖, a collocarci all'interno di que-

sta piuttosto che di quest‘altra scienza‖ (Agazzi, 1976, p. 11).

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I due brani riportati mostrano chiaramente l'influenza esercitata dal co-

struttivismo sulla filosofia della scienza contemporanea.

c. Per quanto concerne la psicologia, il ruolo attivo del soggetto nella co-

noscenza e nella rappresentazione della realtà viene prepotentemente

alla ribalta con il cognitivismo che si contrappone al comportamenti-

smo.

Tuttavia due antesignani della posizione costruttivista in psicologia elabo-

rano le loro teorie molto prima della comparsa del cognitivismo: Jean Piaget e

George A. Kelly.

Piaget , psicologo svizzero autore di numerose opere e fondatore di una

scuola di pensiero e di ricerca molto feconda, si interessa prevalentemente a temi

di psicologia evolutiva e in particolare allo sviluppo della conoscenza, elaboran-

do una teoria nota con il nome di ―epistemologia genetica‖ (Piaget, 1971). Alla

base del progetto dell'epistemologia genetica piagetiana sta l'idea che il fenome-

no della conoscenza possa essere definito come una sorta di ricostruzione della

realtà a partire dalle operazioni concrete del bambino fino alle operazioni menta-

li astratte dell'adulto; in altre parole, le operazioni mentali vengono da Piaget

concepite come forme di costruzione (o ricostruzione) dell‘immagine della real-

tà. È opportuno ricordare, a tal proposito, che il programma piagetiano (teso fra

l'altro a dimostrare che spazio e tempo sono categorie del soggetto) è di deriva-

zione kantiana.

Kelly elabora la prima proposta costruttivista nell'ambito della psicologia cli-

nica e della personalità. La sua opera principale (Kelly, 1955) viene pubblicata in

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piena epoca behaviorista e ciò determina l'isolamento scientifico e culturale dell'au-

tore, il cui pensiero è stato riscoperto solo di recente.

Punto di partenza della teoria di Kelly, piuttosto complessa, è la metafora

(ripresa in seguito dal cognitivismo) dell'uomo come scienziato, il cui scopo è

quello di predire e controllare gli eventi, ossia di attribuire ad essi un significato.

In questa prospettiva, l'uomo crea un sistema organizzato di costrutti bipolari

(per esempio bello-brutto, dipendente-autonomo, intelligente-ottuso, ecc.), attra-

verso i quali osserva la realtà nel tentativo di interpretarla. I costrutti sono cioè

delle griglie che consentono al soggetto conoscente di dare significato alla realtà,

rendendola prevedibile.

Non esiste un unico modo di costruire il mondo, dal momento che l‘uomo

può formarsi rappresentazioni alternative della realtà; ciascuno ha cioè la propria

visione della realtà (i costrutti sono detti per questo ―personale‖), che può altresì

mutare nel corso del tempo man mano che viene posta a confronto con gli even-

ti. Questo concetto è denominato da Kelly ―constructive alternativism‖.

Sul piano clinico la teoria di Kelly consiste essenzialmente nella possibili-

tà da parte del paziente di rielaborare, attraverso la relazione terapeutica, il pro-

prio sistema di costrutti divenuto disfunzionale, sperimentando costruzioni alter-

native a quella che ha creato un disturbo.

In psicologia, il costruttivismo (da Piaget e Kelly fino ai più recenti orien-

tamenti del cognitivismo statunitense) si è tradizionalmente associato ad una

concezione individualista: l‘interesse per il ruolo attivo del soggetto conoscente

e per le sue strutture cognitive ha portato l‘attenzione sull‘individuo, considerato

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avulso dal suo contesto sociale. A tal proposito alcuno autori, che in linea gene-

rale si riconoscono nell‘orientamento teorico della psicologia sociale europea,

criticano questa posizione, soprattutto per quanto concerne la conoscenza del

mondo sociale (―social cognition‖), tacciandola di ―costruttivismo in solitudine‖

(Carugati, 1988).

Al costruttivismo individualista si oppone polemicamente il ―costruttivi-

smo sociale‖, secondo cui la costruzione della conoscenza non è opera di singoli

individui, ma è un prodotto sociale. L‘origine della conoscenza deve essere cioè

ricondotta ai processi interattivi che avvengono tra persone e gruppi e al ruolo

svolto dalla comunicazione nella creazione di definizioni condivise della realtà.

Gergen (1985), che denomina la sua posizione social constructionism, cri-

tica il costruttivismo tradizionale, rappresentato emblematicamente dal cogniti-

vismo. Esso si fonda su di un dualismo tra rappresentazione (soggettiva) e realtà

(esterna) che, portato alle estreme conseguenze, sfocia in una sorta di solipsismo

(ossia nella posizione secondo cui il soggetto conoscente, prigioniero delle pro-

prie rappresentazioni, non è in grado di cogliere alcuna realtà esterna a sé). Il co-

struzionismo sociale di Gergen si basa invece su una ―epistemologia sociale‖,

che, anziché porre il luogo della costruzione della conoscenza nella mente degli

individui singoli, lo individua in pratiche sociali di tipo conversazionali.

L‘attività costruttiva e le strutture cognitive del soggetto conoscente non

vengono quindi considerate dal costruttivismo sociale in quanto ―universali‖, os-

sia come entità neutre legate alla essenza più profonda della mente (Palmonari,

1987) e perciò uguali in tutti gli individui appartenenti alla specie umana. Al

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contrario, la tesi di fondo di questo orientamento e della psicologia sociale euro-

pea è che i processi di ordinamento della realtà, essendo concepiti come dipen-

denti dall‘interazione sociale, presentino consistenti e sistematiche variazioni in

rapporto alla collocazione sociale degli individui e la contesto interattivo in cui

vengono formulati (Ugazio, 1988).

I referenti filosofici del costruttivismo sociale (o per dirla con Gergen,

―costruzionismo sociale‖) si trovano nel pragmatismo di Dewey e di Mead,

nell‘opera dell‘ultimo Wittgenstein (1953), in quella di Bateson (1972) e di Ber-

ger e Luckmann (1966).

In conclusione è possibile sostenere che, se da un lato il costruttivismo in-

dividualista può portare, come si è già detto, a una sorta di solipsismo, dall‘altro,

il ritenere la conoscenza individuale un esclusivo prodotto di pratiche sociali

(come sembrano affermare i sostenitori più radicali del costruzionismo sociale)

può sfociare in una forma di determinismo sociologico che rischia di non ricono-

scere il ruolo attivo dell‘individuo nella costruzione della conoscenza.

1.5.1 Il socio-costruttivismo

Come abbiamo visto la psicopedagogia, influenzata inizialmente dalla

prima psicologia dell‘educazione, studiava le modalità individuali di acquisizio-

ne della conoscenza e della metaconoscenza, le componenti individuali, motiva-

zionali e le differenze individuali nell‘acquisizione della conoscenza. Questo

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percorso non considerava il polo culturale e delle dinamiche sociali coinvolte

nell‘apprendimento.

Le ricerche condotte in ambito educativo avevano quindi deluso per l'a-

strattezza degli studi in laboratorio, percepiti in netto contrasto con la complessi-

tà dell‘apprendimento in classe, a cui, quindi, si adattano male le generalizzazio-

ni basate su ricerche condotte in contesti troppo differenti. Vengono per cui in-

dividuate le caratteristiche specifiche dell‘apprendimento scolastico e sorge un

nuovo interesse per l‘istruzione, anche in funzione del rinnovamento dei currico-

la scolastici.

Si afferma quindi quella che viene definita dagli studiosi la seconda psico-

logia dell‘educazione che riconosce il postulato del sociale (presente agli inizi

del ventesimo secolo), secondo il quale la mente, il pensiero e lo sviluppo uma-

no hanno origine nelle condizioni storiche e sociali in cui gli individui vivono

(Wundt).

Secondo questa prospettiva, definita sociocostruttivista, le interazioni so-

ciali sono all‘origine della costruzione di abilità individuali e il possesso di abili-

tà individuali di una certa complessità permette all‘individuo di partecipare ad

interazioni sociali più complesse che consentono a loro volta di costruire abilità

di complessità via via superiore. Vi è quindi una sorta di spirale di causalità che

collega il funzionamento a livello sociale e il funzionamento a livello individua-

le.

Questa prospettiva ha avviato negli anni ‗70 un programma di ricerca che

prende le mosse dal postulato sociale con l‘obiettivo di studiare nei dettagli le

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dinamiche con cui gli individui costruiscono i propri strumenti cognitivi grazie a

interazioni sociali e come la cultura influenzi la costruzione di questi strumenti

anche quando gli individui operano da soli.

La psicologia sociale ci suggerisce che le dinamiche fra soggetti impegna-

ti nella soluzione di un compito possono produrre risultati molto diversi dal pun-

to di vista della prestazione finale e del progresso individuale che ciascun part-

ner ne può trarre. Imitazione, conflitto, cooperazione e competizione sono no-

zioni utili a comprendere tale prospettiva.

1.6 Come si apprende: il contributo dell'approccio socio-culturale

Secondo Bruner la realtà si crea, non si trova. La nostra cultura è il primo e

più complesso prodotto della quotidiana costruzione della realtà: è questo il

principio del costruttivismo socio-culturale.

Nell‘approccio socioculturale troviamo il concetto di apprendistato cogni-

tivo: l‘apprendistato cognitivo presenta due differenze rispetto all‘apprendistato

tradizionale nei contesti professionali: in primo luogo il suo obiettivo è trasmet-

tere abilità cognitive e metacognitive attraverso l‘esecuzione di compiti e la riso-

luzione di problemi, mentre l‘apprendistato tradizionale si riferisce

all‘acquisizione di comportamenti concreti e di abilità manuali legate alla produ-

zione di oggetti. Collegata al concetto di apprendistato vi è l‘idea che la cono-

scenza è situata nei contesti in cui la elaboriamo e non può essere appresa se

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staccata artificiosamente da essi; la conoscenza è, quindi, distribuita tra le perso-

ne e negli strumenti che esse utilizzano nello svolgimento delle attività.

Il tema dell‘apprendimento, attraverso l‘interazione fra soggetti il cui livel-

lo di sviluppo o di conoscenze non è paritario, è stato ripreso nel 1989 e ha dato

vita al paradigma dell‘apprendistato cognitivo con Brown e Campione. Richia-

mandosi all‘elaborazione teorica vygotskiana propongono la costruzione di un

ambiente di apprendimento denominato community of learners (COL) che si ba-

sa sulla metafora dell‘apprendistato cognitivo. La classe, partendo da problemi

―reali‖, mette in atto dei processi di elaborazione volti a costruire soluzioni, in

modo che ogni studente possa divenire un esperto. I principi base di una COL

sono: le comunità pratiche, in cui ogni membro della comunità, svolgendo atti-

vità di ricerca, e divenendo quindi un esperto, può fungere da insegnante nei

confronti dei propri compagni; la struttura dialogica, infatti, le Col si configura-

no come comunità in cui gli spazi di discussione di gruppo hanno la funzione di

favorire le decisioni sul percorso di conoscenza da intraprendere, in modo tale

che gli obiettivi di apprendimento siano consapevoli per tutti e quindi intenzio-

nali. Tali spazi hanno, inoltre, la funzione di condividere la conoscenza elaborata

individualmente o per piccoli gruppi, consentendo così l‘approvazione delle idee

altrui, legittimando le differenze individuali, assunte come risorsa da mettere in

gioco nella comunità, infatti ognuno può trovare un ruolo e uno spazio di parte-

cipazione per contribuire alla conoscenza comune. Nelle COL le attività mirano

ad affrontare problemi reali di conoscenza riferiti ai loro contesti, e la valutazio-

ne della conoscenza sviluppata viene realizzata secondo criteri trasparenti a tutti

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i partecipanti. L‘attività in una COL prevede momenti di riflessione sull‘attività

svolta, orientati a prendere consapevolezza dell‘efficacia delle strategie utilizzate

e a introdurre quindi delle modifiche per ottimizzarle. In una classe costruita se-

condo la prospettiva della COL, tra gli attori-partner, oltre agli studenti e agli in-

segnanti, si prevede la possibilità di coinvolgere degli esperti esterni alla scuola,

scelti sulla base dei problemi su cui il gruppo-classe sta lavorando. Gli studenti

sono chiamati a svolgere attività molto differenziate tra loro: analizzare fonti di-

verse, fare esperimenti, produrre materiali utilizzando diversi media, spiegare e

commentare i propri lavori a fare da consulenti e supervisori del lavoro altrui, in-

teragendo con compagni e adulti di pari o diverso livello di competenza. Gli stu-

denti entrano nel ruolo di ricercatori, in quanto non sono solo utenti di cono-

scenze già esistenti ma sono chiamati a produrne essi stessi. Un elemento fon-

damentale in questo processo è la dimensione collaborativa: agli studenti è ri-

chiesto di cooperare con gli altri a vari livelli, nel proprio gruppo di lavoro, con

altri gruppi, con l‘insegnante e con altre comunità scolastiche e non, grazie an-

che all‘uso del computer che permette di collaborare a distanza.

Gli insegnanti hanno un ruolo strategico: organizzare l‘attività della classe,

favorire l‘individuazione degli oggetti di indagine e mantenere il lavoro sugli ar-

gomenti e sugli obiettivi individuati; essi forniscono le istruzioni per avviare le

nuove attività, hanno un‘iniziale funzione di modeling (si offrono come modello

per esemplificare lo svolgimento dell‘attività) e supervisionano lo svolgimento

delle attività fornendo eventuali ulteriori istruzioni. Gli insegnanti hanno il com-

pito di facilitare lo svolgimento dei compiti attraverso azioni di scaffolding (for-

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nendo agli studenti supporto nel mettere a punto le proprie strategie di ricerca,

senza sostituirsi ad essi, ma anzi aiutandoli a organizzare le proprie idee e ren-

dendoli progressivamente più autonomi).

Un metodo utilizzato in questo approccio è il jigsaw, modello pensato per

la prima volta da Aronson nel 1978, è una modalità di apprendimento cooperati-

vo. Gli studenti possono fare una ricerca collaborativa e successivamente condi-

videre con gli altri la competenza acquisita. La tecnica jigsaw3 prevede che agli

studenti vengano assegnate parti (diverse, non consequenziali) di un argomento

da apprendere, che verranno insegnate agli altri in un secondo momento attra-

verso il reciprocal teaching guidato. Gli studenti sono parzialmente responsabili

della progettazione del loro curricolo perché al momento opportuno dovranno

guidare (fare da leader) il seminario di apprendimento del loro sotto-argomento

attraverso l'insegnamento reciproco. In questo modo la scelta del leader non è

3

Per ulteriori approfondimenti si veda: Piergiuseppe Ellerani, Jigasaw in 10 passi, in www.ipbz.it/ImagesUpload/Area/11/Jigsaw.doc

1. Dividi gli studenti in gruppi di 4 – 5 persone. Il gruppo dovrebbe essere eterogeneo per genere, razza, etnia, e abilità. 2. Scegli uno studente per gruppo come responsabile. Inizialmente questa persona dovrebbe essere l‘alunno più maturo del gruppo. 3. Dividi la lezione del giorno in 4 – 5 segmenti. 4. Assegna ad ogni alunno una parte da imparare e assicurati che ogni studente abbia accesso solo alle sue informazioni. 5. Dai il tempo agli studenti di leggere almeno due volte la loro porzione di studio per familiarizzare con essa, senza il bisogno di memorizzarla. 6. Forma "gruppi esperti" temporanei unendo tra loro alunni che abbiano la stessa parte. Dà agli esperti tempo per discutere dei punti essenziali del loro paragrafo e per ripetere la presentazione che faranno al gruppo; 7. Fa tornare gli esperti al loro gruppo casa. 8. Chiedi ad ognuno di presentare la propria parte nel gruppo. Incoraggia gli altri a fare domande di chiarificazione 9. Gira tra i gruppi osservando i processi. Se sorgono dei problemi (per es. qualche membro domina sugli altri) intervieni in modo appropriato. Può essere anche opportuno lasciare che il "responsabile" di gruppo si occupi di ciò. I responsabili possono essere aiutati a gestire sussurrando un suggerimento su come intervenire finche non padroneggiano da soli la situazione.

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casuale, ma fondata sulla competenza. In ogni gruppo di apprendimento, ciascun

ragazzo è esperto (leader) di qualche parte del materiale, lo insegna agli altri e

prepara le domande per il test che tutti dovranno eseguire al termine dell'unità.

Nelle ricerche condotte dalla Brown per analizzare i cambiamenti fondamentali

introdotti in classe attraverso questo modello, vengono sottolineati alcuni aspetti

rilevanti:

- il cambiamento del ruolo degli studenti da una posizione di passiva

ricezione di informazioni all‘assunzione di una molteplicità di ruoli di

costruzione attiva di conoscenza;

- una visione della conoscenza non come qualcosa di statico o che si

recepisce passivamente, ma che si costruisce attraverso l‘interazione,

valutando criticamente le informazioni;

- la capacità degli studenti di adottare strategie diverse davanti a fonti

differenti;

- una didattica da parte degli insegnanti meno orientata alla trasmissione

di informazioni e maggiormente centrata sulla ―scoperta guidata‖, con

un‘acquisizione attiva della conoscenza;

- l‘uso del computer non solo come fonte di informazioni, ma soprattutto

come ambiente di collaborazione;

- metodi di valutazione non più centrati sulla memorizzazione di fatti e

su test ma sull‘apprendimento per scoperta, sull‘esecuzione di compiti,

la formulazione di progetti e la realizzazione di prodotti.

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L‘apprendimento quindi non si esaurisce in ambito scolastico, ma è un

processo di cambiamento, come tale riguarda qualsiasi attività umana e non è

specifico unicamente della scuola. Assume quindi una particolare rilevanza il

concetto di contesto, cioè del quadro culturale entro cui ha luogo un particolare

evento interattivo e che offre risorse per la sua realizzazione e la sua interpreta-

zione. L‘attività conoscitiva umana è inestricabilmente integrata all‘interno di at-

tività che si svolgono nel mondo sociale: è sempre un‘attività contestualizzata o,

per meglio dire, ―situata‖. Viene meno quindi la tradizionale prospettiva che ve-

deva l‘apprendimento come un processo di decontestualizzazione: si tratta piut-

tosto di una ri-contestualizzazione, di una articolata transizione a diversi contesti

di vita e di conoscenza.

Cambia anche la professionalità del docente che diventa sempre più simile

a quella del ricercatore. La classe si trasforma in un laboratorio all'interno del

quale dare vita a una reale scienza dell'educazione. Si tratta quindi di una profes-

sionalità estesa, la cui caratteristica principale riguarda la disponibilità ad una

verifica sistematica del proprio lavoro, attivando reti di confronto sia con altri

docenti (infatti si parla di comunità di insegnanti), sia con studiosi. L'obiettivo

ultimo è di riqualificare gli insegnanti come produttori di cultura e gestori delle

risorse umane.

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1.7 Prospettive recenti: dall'apprendimento significativo di Ausubel

alle mappe concettuali di Novak.

I più recenti studi sul campo dell‘apprendimento indicano che la qualità

dell‘apprendimento è maggiore nella misura in cui durante il processo viene

consentito allo studente di esplicitare a se stesso le abilità di cui dispone e di po-

tenziarle, nonché di esercitarle e divenire consapevole delle strategie metacogni-

tive che può utilizzare per apprendere.

Già la riflessione teorica di Bruner sullo sviluppo cognitivo e

sull‘educazione appare caratterizzata dal tentativo di integrare l‘approccio di

Piaget, basato sulle strutture cognitive che si sviluppano per stadi, con quello so-

cioculturale di Vygotskij.

Bruner ipotizza l‘esistenza nella nostra cultura di tre diversi sistemi (o mo-

dalità) di rappresentazione della conoscenza, che corrispondono ad altrettante

modalità di pensiero e di apprendimento della nostra mente:

il sistema attivo di rappresentazione, in cui la conoscenza è organizzata

in sequenze di azioni, costruite mediante l‘esplorazione. Si impara a

fare qualcosa attraverso la sperimentazione pratica di un‘attività;

il sistema iconico di rappresentazione, in cui la conoscenza è presenta-

ta attraverso immagini.

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Ne deriva un secondo tipo di apprendimento legato all‘osservazione del fa-

re: vi sono delle abilità che si apprendono ―vedendo fare‖, osservando e imitan-

do l‘azione che l‘altro compie;

il sistema simbolico di rappresentazione, in cui la conoscenza è presen-

tata mediante simboli (la scrittura, le formule matematiche).

Questa suddivisione per certi versi ricalca la successione degli stadi della

teoria di Piaget (fase senso-motoria, rappresentativa e operatorio-formale). Uti-

lizzando il sistema attivo di rappresentazione il bambino identifica un oggetto

soprattutto per l‘uso che ne fa, costruendosi una rappresentazione motoria

dell‘esperienza; questo livello di sviluppo cognitivo può essere avvicinato al pe-

riodo senso-motorio piagetiano in cui il ―pensiero‖ consiste in schemi di azione

interiorizzati, cioè sequenze di movimenti che il bambino può compiere su og-

getti per ottenere un certo risultato. Ricorrendo al sistema di rappresentazione

iconico il bambino di costruisce una rappresentazione degli oggetti mediante

l‘uso dell‘immaginazione e per questo aspetto tale sistema può essere accostato

al periodo dell‘intelligenza rappresentativa di Piaget, in cui le azioni mentali del

bambino sono all‘inizio fortemente legate alle immagini. Nel terzo sistema,

quello simbolico, l‘esperienza può essere rappresentata e comunicata attraverso

insiemi di simboli verbali, matematici che costituiscono veri e propri linguaggi e

che caratterizzano la cultura della nostra società. Quest‘ultimo sistema dunque si

configura come più complesso rispetto a tutti gli altri e può essere accostato per

certi versi al periodo delle operazioni formali della sequenza piagetiana. Bruner

non ripropone, a differenza di Piaget, una relazione necessariamente gerarchica

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fra le tre forme di pensiero; egli ipotizza che tali forme possano essere compre-

senti nei diversi momenti della vita del bambino e dell‘adulto. Bruner inoltre, at-

tribuisce un ruolo importante alla cultura per quanto riguarda lo sviluppo di tali

modalità di conoscenza da parte dell‘individuo. In primo luogo la cultura favori-

sce il passaggio da un sistema di conoscenza all‘altro grazie alle possibilità di in-

terazione sociale con adulti e coetanei. Infine, ricollegandosi al concetto di me-

diazione di Vygotskij, Bruner definisce gli strumenti degli ―amplificatori‖ cultu-

rali del sistema sensoriale e motorio dell‘individuo; essi vengono utilizzati come

delle protesi che aumentano il potere di azione dell‘uomo sulla realtà. Il proces-

so di crescita dell‘individuo prevede l‘interiorizzazione dei modi di agire, di

immaginare e di usare i simboli che esistono nella sua cultura, veicolati da stru-

menti che rappresentano degli amplificatori dei suoi poteri.

Le diverse discipline non sono quindi un insieme di informazioni che gli

insegnanti devono trasmettere e gli studenti memorizzare, ma linguaggi per leg-

gere le realtà, strumenti per agire su di essa e idee fondamentali che ne costitui-

scono il nucleo centrale e sono nello stesso tempo abbastanza semplici da poter

essere apprese anche dagli studenti più giovani, se presentate ed esemplificate

secondo adeguate modalità.

L‘insegnante che utilizza la riflessione bruneriana parte quindi dal presup-

posto che di ogni capacità o conoscenza esiste un‘adeguata versione che può es-

sere impartita a qualsiasi età, per quanto iniziale e preparatoria questa versione

possa essere. L‘insegnamento di una disciplina, inoltre, non è inteso nel senso di

trasmettere delle informazioni ma di portare lo studente a pensare per proprio

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conto attraverso le categorie di quella disciplina. Lo studente quindi partecipa al

processo di produzione del sapere proprio di ciascuna disciplina. Bruner intro-

duce quattro criteri fondamentali per costruire ambienti in cui l‘apprendimento

sia significativo:

la capacità di azione , agency: il soggetto che intraprende un percorso

di conoscenza assume il controllo della propria attività mentale;

la riflessione: per apprendere occorre dare un senso personale a quello

che si impara, per cui l‘apprendimento deve essere riferito a contesti

reali;

la collaborazione: le risorse del percorso conoscitivo vanno condivise

fra tutti i membri impegnati nell‘insegnamento e nell‘apprendimento;

la cultura: la conoscenza viene costruita, negoziata, sistematizzata in

un prodotto comune, uno stile di vita e di pensiero che diviene

condiviso.

Per comprendere meglio il pensiero di Bruner riprendiamo quanto da lui

scritto:

―La conoscenza di una persona non ha sede esclusivamente nella sua men-

te, in forma solistica, bensì anche negli appunti che prende e consulta sui notes,

nei libri con brani sottolineati che sono negli scaffali, nei manuali che ha impa-

rato a consultare, nelle fonti di informazioni che caricate nel computer, negli

amici che si possono rintracciare per richiedere un riferimento o

un’informazione, e così via quasi all’infinito [… ] Giungere a conoscere qualco-

sa in questo senso è un’azione sia situata sia distribuita. Trascurare questa na-

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tura situazionale e distribuita della conoscenza e del conoscere, significa perde-

re di vista non soltanto la natura culturale della conoscenza, ma anche la natura

culturale del processo di acquisizione della conoscenza" Bruner, 1992 trad.it).

A partire dalle riflessioni bruneriane, due pensatori come Novak e Ausu-

bel, sono stati in grado di creare un atteggiamento nuovo rispetto al come si ap-

prende, i primi a parlare di apprendimento significativo versus apprendimento

meccanico, a sperimentare e a riportare i loro risultati in riviste scientifiche, con

l‘obiettivo di costruire una nuova teoria dell‘educazione.

1.7.1 Finestra di approfondimento

La teoria dell'apprendimento di Ausubel

All'incirca negli anni '60, troviamo la teoria dell‘apprendimento per assimilazione

proposta da Ausubel, studioso americano contemporaneo dei processi cognitivi.

Il suo contributo di studio si sviluppa principalmente negli Stati Uniti e successiva-

mente in ambito internazionale con concetti particolarmente importanti sull‘apprendimento

nel campo dell‘educazione.

Lo studioso presenta per la prima volta la sua teoria dell‘apprendimento significativo

nel 1962 con il titolo ―A Subsumption theory of meaningful learning and retention‖.

Ausubel distingue nell‘apprendimento due direzioni:

a) all‘interno: il modo e il processo con cui l‘uomo arriva ad afferrare e incor-

porare la nuova conoscenza nella sua mente, dove sono già presenti concetti

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e generalizzazioni. In questo senso l‘apprendimento può essere o meccanico

o significativo.

b) all‘esterno: la via e lo strumento di come si forma la nuova conoscenza o

abilità o comportamento. In questa direzione l‘apprendimento può avvenire

per ricezione o per scoperta.

Lo studioso tratteggia i seguenti quattro diversi tipi di apprendimenti che negli anni

hanno portato gli insegnanti ad interrogarsi sulle possibili modalità didattiche che potevano

favorire o meno gli apprendimenti:

Significativo per scoperta

Significativo per ricezione

Meccanico per scoperta

Meccanico per ricezione

Apprendimento significativo

Col termine significativo si intende l‘aspetto di relazione che il nuovo apprendimento

acquista quando viene incorporato nella struttura psichica del soggetto, cioè nella matrice

cognitiva, costituita dalle rappresentazioni interne, concetti, principi, regole, procedimenti,

capacità intellettuali oltre agli atteggiamenti e agli stati emotivi formando una rete di gene-

ralizzazione.

Il nuovo materiale si integra nella struttura psichica producendo diversi effetti:

- trasformazione, acquisendo una sua forma nella struttura mentale;

- modificazione della struttura mentale;

- ricordo e utilizzazione, che vengono facilitati dalla rete delle relazioni.

Apprendimento meccanico

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Si verifica quando il nuovo apprendimento viene incorporato in maniera isolata, sen-

za relazioni con la struttura conoscitiva e con gli altri concetti posseduti.

Il ricordo è condizionato alla memorizzazione e la sua utilizzazione è limitata, pro-

prio perché manca l‘integrazione in uno schema concatenato ed elaborato di relazioni.

Non si tratta di apprendimento mnemonico, perché esiste sempre un‘associazione

all‘interno del mondo psichico.

Apprendimento per scoperta

Il soggetto arriva a conoscere un contenuto o una verità in maniera autonoma, senza

che un altro soggetto glielo abbia comunicato e ci arriva con le sue capacità e il suo compor-

tamento interiore e non per trasmissione da parte di altri.

E‘ gratificante per l‘individuo, dà fiducia e stimola a continuare la ricerca.

Può avvenire in modo occasionale o essere facilitato intenzionalmente con stimoli of-

ferti in maniera espositiva o per ricezione.

Apprendimento per ricezione

Si verifica quando le conoscenze vengono incorporate in forma già strutturata per tra-

smissione culturale o per comunicazione verbale.

E‘ caratterizzato da mancanza di autonomia del soggetto nel conoscere un concetto,

nel cogliere gli elementi essenziali di un evento, nella formulazione di giudizi. Il soggetto

può avere però la capacità di rielaborare e integrare il nuovo materiale conoscitivo.

Non va confuso con l‘apprendimento meccanico, perché il soggetto deve essere mo-

tivato e devono essere costruiti i prerequisiti per l‘apprendimento.

Tale concezione non implica che l‘apprendimento debba essere realizzato in modo

autonomo; l‘apprendimento per ricezione e la lezione espositiva restano validi quando sol-

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lecitano la partecipazione degli alunni e stimolano i loro processi nella direzione di un ap-

prendimento significativo per scoperta.

Strategie per favorire l'apprendimento

Alla luce delle teorie di Ausubel, consideriamo il seguente elenco:

a) Ciò che viene proposto deve essere potenzialmente significativo, cioè deve esse-

re tale da poter essere acquisito all‘interno delle conoscenze dell‘allievo.

b) L‘alunno deve possedere idee o concetti fondamentali perno su cui realizzare la

connessione tra la nuova conoscenza e quella già esistente.

c) Lo studente deve avere voglia di mettere in relazione il contenuto con la sua

struttura conoscitiva in modo sostanziale. (motivazione).

Per favorire questo tipo di apprendimento bisogna realizzare un‘atmosfera che:

- incoraggi ad essere attivi

- favorisca la natura personale dell‘apprendimento

- riconosca il diritto all‘errore

- tolleri l‘imperfezione

- incoraggi l‘apertura di spirito e la fiducia in sé

- dia l‘impressione di essere rispettati e accettati

- faciliti la scoperta

- ponga l‘accento sull‘auto-valutazione in cooperazione

- permetta il confronto delle idee.

Secondo gli autori l‘apprendimento significativo si verifica ogni volta che

un individuo decide di mettere in relazione consapevolmente nuove informazio-

ni con quelle che già possiede. Ausubel sostiene che più delle capacità mnemo-

niche, altrettanto importanti, è bene che lo studente si alleni ad affinare la capa-

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cità di rielaborare, manipolare e rianalizzare attraverso un suo sistema di signifi-

cato e valore l‘ informazione appresa. Il nostro cervello assimila e categorizza in

modo preciso e chiaro una moltitudine di informazioni al secondo, ma per farlo

lavorare efficacemente è indispensabile proporre le informazioni nuove istruen-

dolo su dove metterle, in quale cassetto della memoria, perché solo in questo

modo la persona sarà poi in grado di recuperare quell‘informazione al momento

giusto.

L‘apprendimento significativo oltre ad essere più affidabile in termini di

ricordo, decade molto più lentamente e mai definitivamente come quello prodot-

to dall‘apprendimento mnemonico, è indispensabile per districarsi all‘ interno

della miriade di informazioni di cui quotidianamente disponiamo. Oggi infatti il

proliferare di notizie e di fonti delinea gravi problemi di sovraccarico e le perso-

ne, spinte dai nuovi media, ad essere elastiche e flessibili, sono sottoposte a nuo-

ve richieste di crescita individuale: l‘apprendimento significativo può fornire gli

strumenti adeguati per affrontare queste problematiche.

“L’apprendimento significativo si verifica quando chi apprende decide di

mettere in relazione delle nuove informazioni con quelle che già possiede”. (Au-

subel)

L‘apprendimento significativo avviene soltanto se esistono conoscenze

pregresse relative all‘ambito di interesse e se chi sta apprendendo decide di inve-

stire energie per creare conoscenza, mettere in relazione, associare.

L‘apprendimento significativo quindi non è miracolistico ma necessita di impor-

tanti sforzi e di una spinta motivazionale che funga da catalizzatore. Per queste

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caratteristiche l‘apprendimento significativo comporta uno sforzo maggiore,

perché maggiore sarà la qualità dell‘informazione memorizzata. Durante

l‘apprendimento significativo i concetti più rilevanti, cioè quelli che vengono ri-

chiamati molte volte e più spesso utilizzati, tendono a perfezionarsi sulla base

dei nuovi concetti assimilati che producono sostanziali modifiche qualitative, e

quantitative. L‘immagine che viene in mente è un inestricabile rete di collega-

menti dove dalle idee centrali (nodi) si diramano concetti secondari collegati.

Stiamo parlando della teoria delle mappe concettuali di Joseph Novak.

―Le conoscenze che abbiamo appreso in maniera approfondita integrando

azioni, sentimenti e pensieri, sono quelle che sappiamo padroneggiare meglio.

E‘ questa la conoscenza che si controlla e con la quale si sente una sensazione di

padronanza e potere. Considerate un campo in cui avete studiato soprattutto in

modo meccanico. All‘opposto questa sarà una conoscenza che avrete in gran

parte dimenticato, che vi sembra abbia poche relazioni con l‘esperienza del pre-

sente. Purtroppo la maggior parte delle persone a scuola ha sempre studiato in

modo meccanico e questo mancato sviluppo delle proprie capacità ha reso la

maggior parte della gente timorosa di apprendere in uno o più ambiti, come le

scienze, la storia, la matematica, la musica o lo sport‖ (Novak).

Lo sviluppo della teoria di Ausubel compiuta da Novak sostiene che le

persone non siano affatto dei recipienti vuoti, da riempire con informazioni, ma

propone concetti nuovi, generativi di conoscenza che emergono appunto con un

buon utilizzo delle mappe concettuali, per condurre la persona alla totale auto-

nomia e alla creazione di nuovi contenuti e significati.

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"Molto presto abbiamo scoperto che le mappe concettuali potevano essere

usate per rappresentare la conoscenza in qualsiasi età ed in qualunque dominio

della conoscenza, dalle scienze, alla storia, alla letteratura e alla danza. Inoltre,

gli insegnanti che preparavano mappe concettuali per pianificare la propria le-

zione guadagnavano in confidenza e capacità nel guidare l'apprendimento, e gli

studenti che preparavano le proprie mappe concettuali non solo miglioravano la

loro comprensione della materia, ma scoprivano anche che imparavano come

imparare" (Novak).

1.8 La motivazione all'apprendimento

Si può definire la motivazione come un modello organizzato di tre funzio-

ni psicologiche che servono a dirigere, attivare e regolare l‘attività rivolta a un

obiettivo.

Le funzioni psicologiche sono: gli obiettivi personali, i processi emoziona-

li e le convinzioni dell‘individuo sulla propria capacità di agire (agency) per

raggiungere un determinato obiettivo.

L‘individuo motivato è tale in quanto tende a un obiettivo, cioè si rappre-

senta un risultato da conseguire o da evitare. Gli obiettivi possono essere perse-

guiti per se stessi o come mezzo per raggiungere altri obiettivi. L‘individuo ha

poi un sistema del sé, che consiste in una conoscenza dei propri mezzi e limiti e

una stima di sé.

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Nella scelta degli obiettivi e nel loro perseguimento la persona tiene conto

di se stesso, della propria capacità di azione e di controllo e nel fare questo svol-

gono un ruolo importante le esperienze precedenti di successo e insuccesso nel

perseguimento di obiettivi analoghi.

Il risultato del comportamento motivato (il raggiungimento o meno

dell‘obiettivo) ha conseguenze sia sul piano cognitivo che sul piano affettivo.

Dal punto di vista cognitivo, l‘individuo cerca di spiegare/giustificare le

ragioni del successo e soprattutto dell‘insuccesso. Per quanto riguarda, invece, il

piano affettivo, le conseguenze affettive concludono l‘esperienza e anticipano

quella successiva, creando nell‘individuo un atteggiamento favorevole o sfavo-

revole nei confronti del compito.

1.8.1 La motivazione come variabile complessa: dal comportamenti-

smo al cognitivismo

L‘approccio comportamentista centrava lo studio della motivazione sui

concetti di bisogno e di rinforzo. In particolare questo approccio connetteva mo-

tivazione e apprendimento: la motivazione, come nel caso del bisogno di cibo,

spinge l‘organismo alla ricerca della sua soddisfazione, cioè a raggiungere

l‘equilibrio omeostatico che la privazione di cibo ha causato.

La soddisfazione, quindi, costituisce il rinforzo che consolida, ovvero rin-

forza la risposta dell‘organismo, cioè il comportamento che ha immediatamente

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preceduto l‘evento rinforzante (per esempio la pressione della leva che fa fuoriu-

scire il cibo). In questo modo la risposta viene appresa.

Hull (studioso degli anni '40) sostiene che l‘organismo agisce per ridurre i

bisogni, alcuni dei quali sono importanti per la sopravvivenza, come la fame, la

sete, l‘evitamento del dolore. I bisogni determinano le pulsioni, stimoli che sor-

gono da uno stato di bisogno con la funzione generale di attivare il comporta-

mento.

La concezione comportamentista all‘istruzione recupera il concetto di rin-

forzo, Skinner, ad esempio, ritiene che si possano modellare nell‘allievo com-

portamenti motivati tramite il rinforzo, cioè mediate uno stimolo che rafforza

una risposta dell‘organismo, indipendentemente dal bisogno.

Con il cognitivismo si ha il declino del comportamentismo e il concetto di

bisogno viene messo in crisi alla fine degli anni ‘50 da alcuni studiosi che ipo-

tizzano l‘esistenza di bisogni primari, che non sono legati all‘equilibrio omeosta-

tico. Per cui anche l‘importanza del rinforzo viene ridimensionata.

Nella prospettiva cognitivista l‘individuo con le sue esperienze precedenti,

convinzioni e aspettative interpreta il risultato delle proprie azioni e lo attribui-

sce a una causa: questa attribuzione influenza l‘atteggiamento dell‘individuo nei

confronti di un analogo compito futuro.

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1.8.2 Le dimensioni del concetto di motivazione ad apprendere

Con l'espressione motivazione ad apprendere, intendiamo sottolineare il

ruolo attivo dell‘individuo: la motivazione sorge quando l‘individuo si pone de-

gli obiettivi, si rappresenta risultati che vuole raggiungere o evitare.

La motivazione può essere definita come l‘attivazione e la direzione del

comportamento; la motivazione viene intesa come spinta, però non solo nella

componente energetica, ma anche come tensione dell‘individuo verso un obietti-

vo per lui o lei saliente.

La motivazione non è dovuta a una temporanea carenza dell‘individuo, ma

è l‘individuo che costruisce la propria motivazione, perché agisce intenzional-

mente nel proprio ambiente, valuta le proprie capacità prima e durante l‘azione e

usa i mezzi di cui dispone per raggiungere l‘obiettivo.

Il termine direzione evidenzia il carattere orientativo verso un obiettivo del

comportamento, nonché il fatto che la direzione viene conservata e corretta

dall‘individuo. Essere motivato significa attivarsi per un obiettivo per il quale si

mettono in atto delle strategie. Gli individui cercano di capire se stessi e il loro

ambiente e agiscono sulla base di ciò che hanno compreso e imparato. Questa

dimensione del Sé aveva perso importanza con il comportamentismo, ma è ritor-

nata con il cognitivismo: senso di efficacia, autopercezione di competenza, con-

cetto di sé, sono usati per esprimere significati molto simili. Importante è il rap-

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porto tra prestazione dell‘individuo e idea che egli si fa della propria competen-

za: l‘una influenza l‘altra.

Le aspettative di un individuo nelle situazioni in cui gli viene chiesto di

riuscire sono influenzate dal grado in cui si considera competente e dalle sue

percezioni della difficoltà del compito. Queste percezioni da un lato predicono il

suo rendimento, dall‘altro sono influenzate dalle percezioni che l‘individuo ha

degli atteggiamenti e aspettative di altre persone nei propri confronti.

Al momento motivazionale, segue l'autoregolazione, cioè la gestione delle

fasi dell‘apprendimento, il controllo dei risultati, la modifica del contesto di stu-

dio. ll cosiddetto bravo studente è colui che pianifica, organizza, controlla e va-

luta il proprio comportamento rivolto a uno scopo, ad esempio il superamento di

una prova di esame.

1.8.3 Motivazione estrinseca ed intrinseca

Le categorie di motivi che attivano il comportamento rivolto ad un risulta-

to si distinguono in: motivi intrinseci e motivi estrinseci.

La motivazione intrinseca è una tendenza innata a esplorare e padroneg-

giare il proprio mondo interno e esterno, tendenza che si manifesta come curiosi-

tà e interesse; questo comportamento trova gratificazione in se stesso e si esplica

nelle condizioni in cui l‘individuo si può sentire e autonomo e padrone di sé.

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La motivazione estrinseca riguarda l‘attività che l‘individuo compie per ot-

tenere vantaggi, evitare conseguenze sgradevoli, avere riconoscimenti o confor-

marsi a modelli di comportamento imposti dall‘ambiente sociale.

Mentre la motivazione intrinseca riguarda attività in se gratificanti, esegui-

te per l‘interesse e o la sfida che stimolano, la motivazione estrinseca tende al

conseguimento di obiettivi, ricompense e valori esterni all‘attività stessa.

Alla motivazione intrinseca si collega l'interesse. Questo sorge quando

l‘individuo incontra attività o oggetti che si presentano come nuovi, piacevoli o

stimolanti, in un contesto che permette il soddisfacimento dei bisogni psicologici

di base. Gli oggetti interessanti sfidano l‘individuo e rappresentano qualcosa di

relativamente nuovo, stimolando il bisogno di competenza dell‘individuo.

Attività nuove e sfidanti stimolano un interesse che può essere momenta-

neo o duraturo, in quanto disposizione individuale, ma è comunque sempre spe-

cifico, ovvero relativo a un settore, mentre la motivazione intrinseca è generale,

cioè è un atteggiamento rivolto all‘acquisizione di competenza.

In letteratura ritroviamo diverse teorie che si sono occupate di indagare gli

aspetti caratterizzanti della motivazione estrinseca.

Ricordiamo la teoria di Berlyne poggia sul concetto di pulsione e di curio-

sità. La pulsione all‘esplorazione serve a mantenere un livello di attivazione ot-

timale per l‘organismo. Mentre la curiosità verrebbe attivata quando l‘individuo

incontra caratteristiche strane o inconsuete nell‘ambiente.

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Altri autori, invece, hanno individuato la spinta fondamentale

all‘esplorazione nella noia o sazietà degli stimoli, che spinge l‘individuo a cerca-

re qualcosa di nuovo.

Per Berlyne l‘individuo tende a raggiungere e mantenere un livello ottima-

le di attivazione dell‘organismo che dipende all‘intensità delle stimolazioni am-

bientali. Le condizioni ottimali per l‘esplorazione dipendono sia dallo stato

dell‘organismo sia dalle caratteristiche degli stimoli esterni. Le caratteristiche di

sorpresa, novità, complessità, incongruenza producono nell‘individuo incertezza

e conflitto e attivano uno stato motivazionale di curiosità. La curiosità provoca

un‘attività esploratoria rivolta al superamento dell‘incertezza o del conflitto at-

traverso la ricerca di nuove informazioni. L‘intensità della stimolazione deve

essere media: se è troppo bassa o se è troppo forte ciò può determinare un effetto

inibitorio.

La curiosità può essere percettiva (dare all‘organismo informazioni percet-

tive) oppure epistemica, cioè fornire conoscenza. La curiosità è attivata dal con-

flitto concettuale e determina il comportamento epistemico, che si suddivide in:

- osservazione, come metodo di studio dei fenomeni;

- consultazione di fonti di informazione;

- pensiero orientato, come il processo di soluzione di un problema.

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1.8.4 La motivazione di competenza

Negli stessi anni White propone una spiegazione alternativa del compor-

tamento esplorativo: i comportamenti di curiosità, esplorazione, manipolazione e

gioco, rilevabili negli animali e nei bambini piccoli sembrano rispondere al bi-

sogno di padroneggiare l‘ambiente.

White ipotizza una motivazione di effectance (produrre effetti) o compe-

tenza che dà luogo a comportamenti mediante cui l‘individuo acquisisce padro-

nanza o controllo sull‘ambiente.

La motivazione è concepita come un bisogno intrinseco sempre presente

nell‘individuo, messo in sottordine solo quando insorgono pulsioni più forti,

conseguenti all‘interruzione dell‘equilibrio omeostatico. Questa padronanza ri-

guarda l‘interazione giocosa con l‘ambiente, che si realizza con l‘esplorazione e

la sperimentazione libera da bisogni omeostatici.

La gratificazione che deriva è una forma di soddisfazione intrinseca ai

comportamenti stessi e si manifesta come senso di competenza che ha un gran-

dissimo significato per lo sviluppo dell‘individuo e per il suo adattamento

all‘ambiente. Il bambino costruisce la sua esperienza attraverso due tipi di ap-

prendimento: quelli più ristretti e specifici, con il soddisfacimento di pulsioni

primarie urgenti e quelli che avvengono nei periodi di tranquillità omeostatici,

durante i quali il bambino agisce nell‘ambiente senza ansia e senza il rischio di

fallimento.

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1.8.5 La motivazione di effectance

Harter, successivamente propone un‘ulteriore formulazione della motiva-

zione di competenza, individuando gli elementi che la compongono e che posso-

no modificarsi con lo sviluppo.

Harter considera il rapporto tra motivazione di competenza e succes-

so/insuccesso che accompagna l‘esperienza dell‘individuo nel tentativo di pa-

droneggiare l‘ambiente, aspetto che riguarda il rapporto tra aspetti intrinseci ed

estrinseci della motivazione e il ruolo degli adulti nel favorire o inibire la moti-

vazione.

La percezione di competenza si sviluppa dall‘interpretazione data ai propri

episodi di successo e di insuccesso, dal tipo di sostegno sociale (facilitante o ini-

bente i tentativi di indipendenza e padronanza) e dall‘esito dei propri tentativi di

padronanza.

Secondo Harter la motivazione di competenza produce nei soggetti una

forte tensione che li spinge a tentativi di padronanza in diverse aree di attività,

fra cui l‘area cognitiva (apprendimento), l‘area fisica (attività sportiva e di gio-

co) e l‘area sociale (rapporto con gli altri).

Quando i tentativi di padronanza sono seguiti da rinforzi positivi (soprat-

tutto in età evolutiva ed in bambini piccoli), i bambini interiorizzano un vero e

proprio sistema di autogratificazione che rinforza i tentativi di padronanza e

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consente di affrontare le diverse situazioni come una sfida per mettersi alla pro-

va e sentirsi competenti.

Le emozioni positive che derivano dall‘esercizio delle proprie abilità rin-

forzano la motivazione intrinseca, che si manifesta in nuovi tentativi di padro-

nanza.

Quando, invece, i bambini sono disapprovati nei loro tentativi di padro-

nanza, sviluppano più facilmente la tendenza a porsi obiettivi di prestazione mi-

ranti ad ottenere approvazione per le proprie abilità.

La motivazione di competenza diminuisce, mentre aumenta la preoccupa-

zione legata alla possibilità di dimostrarsi incapaci, che, a sua volta, riduce la

propensione alla padronanza, impedendo lo sviluppo delle proprie competenze e

aumentando i vissuti negativi come, ad esempio, l‘ansia.

Nel campo dell‘educazione, e soprattutto a scuola, Harter sottolinea

l‘importanza del concetto di sfida ottimale, secondo cui tanto più una persona è

motivata ad apprendere, tanto più il compito rappresenta una sfida ottimale, cioè

è un ‘attività stimolante,quindi un po‘ più difficile rispetto ai compiti normal-

mente affrontati, ma non troppo problematico da demotivare il tentativo di pa-

dronanza per la paura dell‘insuccesso.

Alla base della motivazione intrinseca ci sono sia componenti cognitive

che emotivo-motivazionali: affinché uno studente abbia voglia di imparare, l'ap-

prendimento deve sia aumentare la sua competenza, che incrementare una sensa-

zione piacevole di padronanza e autostima.

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Il modello di sviluppo proposto da Harter può essere presentato in forma

di diagramma diviso in due parti, corrispondenti agli effetti che il successo e

l‘insuccesso hanno sulla motivazione di effectance.

La motivazione di effectance produce dei tentativi di padronanza in diver-

se aree di attività che possono avere risultati positivi o negativi.

Nel primo caso il bambino viene rinforzato positivamente e ciò è impor-

tante soprattutto nei primi anni di vita. Il bambino interiorizza un sistema di au-

togratificazione che gli consente di rinforzare da solo i propri tentativi di padro-

nanza e i relativi risultati e il sistema di obiettivi di padronanza degli agenti di

socializzazione che lo premiano o lo puniscono, cioè i genitori e gli insegnanti.

Con il procedere del processo di interiorizzazione diminuisce la dipenden-

za dal rinforzo sociale esterno e cresce la motivazione di effectance per effetto:

- della percezione della propria competenza e del proprio controllo

sull‘ambiente che il bambino acquisisce attraverso rinforzi positivi;

- della soddisfazione intrinseca che consegue al successo raggiunto in

compiti di un livello ottimale di difficoltà.

La motivazione diminuisce se i tentativi del bambino vengono frustrati o

puniti e se vengono rinforzati i comportamenti di dipendenza dagli adulti.

Il modello postula che la storia personale di rinforzi abbia implicazioni

non solo per il complessivo orientamento motivazionale, ma anche per la perce-

zione della propria competenza.

I rinforzi positivi e l‘interiorizzazione degli obiettivi di padronanza me-

diano a loro volta un senso di competenza e di capacità di controllo negli speci-

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fici settori di padronanza rinforzati. Questa percezione della propria competenza

influenza il senso di soddisfazione intrinseca del bambino e accresce la sua mo-

tivazione a intraprendere successivi comportamenti di padronanza.

Inversamente, il bambino che ha avuto una storia di insuccessi e di disap-

provazione, che comporta un orientamento motivazionale estrinseco, sviluppa un

senso di scarsa competenza e la percezione che agenti esterni controllano ciò che

gli accade.

1.8.6 La teoria dell'autodeterminazione

Questa teoria proposta da Deci e Ryan affronta il problema della fonte di

energia del comportamento umano diversamente dalle altre che si sono focaliz-

zate sugli obiettivi del comportamento motivato. Questa teoria postula tre biso-

gni innati: di competenza, di legame affettivo con gli altri, di autonomia.

L‘individuo è tanto più motivato quanto più il contesto sociale in cui si trova gli

dà l‘opportunità di soddisfare questi bisogni fondamentali.

Altro aspetto della teoria è la distinzione tra regolazione intenzionale au-

todeterminata e regolazione controllata.

Le azioni intenzionali sono autodeterminate quando sono completamente

volontarie e l‘individuo trova in esse una conferma del proprio senso del sé.

Le azioni sono controllate quando l‘individuo è dominato dalla volontà al-

trui o da una qualche forza o pulsione interna.

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Quando il comportamento è autodeterminato, l‘individuo sente di avere il

controllo degli eventi; quando è controllato percepisce la causalità come esterna

a se stesso. Entrambi i comportamenti sono intenzionali, ma sono diversi i pro-

cessi che li regolano: il primo è un comportamento intrinsecamente motivato,

perché l‘autodeterminazione è la soddisfazione del bisogno di autonomia.

Nella scuola l‘allievo autodeterminato sa controllare il proprio comporta-

mento e sottrarsi o resistere alle pressioni esterne, mentre l‘allievo controllato

dipende dalla regolazione esercitata dall‘insegnante e dalla famiglia.

I teorici dell‘autodeterminazione attraverso il concetto di interiorizzazione

tendono a stabilire un continuum tra motivazione estrinseca e motivazione in-

trinseca.

Interiorizzazione è un processo con cui un individuo acquisisce credenze,

atteggiamenti o comportamenti dall‘esterno e progressivamente trasforma questa

regolazione esterna in valori o stili di regolazione personale o interna.

I processi di interiorizzazione sono fondamentali nell‘esperienza scolastica

che spesso è estrinsecamente motivata.

Ryan e Connell distinguono alcuni fondamentali tipi di autoregolazione

che possono essere disposti lungo un continuum di crescente interiorizzazione.

Regolazione esterna: l‘allievo è motivato a eseguire o inibire un certo

comportamento da contingenze esterne, come la promessa di un premio o la mi-

naccia di un castigo. Gli allievi regolati dall‘esterno sono valutati come poco in-

dipendenti e bisognosi di attenzione e stimolazione costante; essi percepiscono

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l‘ambiente classe come coercitivo e se stessi come poco autonomi e con scarsa

possibilità di controllo sui risultati scolastici.

Questo stile di regolazione esterna è associato con atteggiamenti di difesa

verso l‘insuccesso e con una percezione del proprio valore generalmente bassa.

Regolazione introiettata: rappresenta un forma di autocontrollo, perché la

persona agisce non per premi e punizioni esterne, ma per avere una buona con-

cezione di sé e per evitare ansia e sensi di colpa.

Questo stile di regolazione è correlato con la percezione delle proprie ca-

pacità di controllo dei risultati scolastici, ma non con la percezione della propria

autonomia. L‘introiezione sembra rappresentare una forma di regolazione inte-

riorizzata in cui la stima di sé è variabile e l‘allievo è spesso ansioso perché si

sente responsabile del buon esito delle sue prestazioni scolastiche.

Regolazione per identificazione: l‘allievo attribuisce valore

all‘apprendimento e se ne assume la responsabilità; agisce non per pressioni

esterne (premi e punizioni) o interne (stima di sé e senso di colpa), ma perché

vuole capire o imparare, o perché ritiene che apprendere sia importante.

I ragazzi che mostrano questo stile si percepiscono come autonomi, sono

percepiti così anche da genitori e insegnanti e loro percepiscono gli adulti come

presenze di aiuto e non di controllo. Vi è una forte correlazione positiva tra rego-

lazione per identificazione e motivazione intrinseca.

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Entrambi questi orientamenti motivazionali sono autodeterminati;

l‘identificazione è la forma di regolazione più vicina alla motivazione intrinse-

ca, anche se non coincide, perché un comportamento intrinsecamente motivato

viene eseguito per il piacere di farlo, mentre un comportamento di identificazio-

ne è sempre strumentale al raggiungimento di un obiettivo (ad esempio sapere di

più rispetto ad una conoscenza).

In questa prospettiva l‘accento è posto sulle condizioni dell‘ambiente in-

terpersonale che influenzano i processi di interiorizzazione e quindi

l‘orientamento motivazionale.

Le condizioni sono tre:

- Grado di autonomia concesso al bambino: un controllo eccessivo

rende precaria la capacità del bambino di autoregolarsi.

- Dare al bambino una struttura, cioè portarlo a conoscenza del

significato delle regole che deve apprendere e delle conseguenze

del non apprenderle.

- Il contesto in cui il bambino impara a essere autonomo deve

rispondere alle esigenze affettive dell‘allievo, cioè il bambino deve

sentirsi parte insieme alle persone che contano nella sua vita.

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1.8.7 La teoria dell'attribuzione

Le attribuzioni possono essere definite come le percezioni che gli individui

hanno circa le cause degli eventi che accadono a se stessi (autoattribuzioni) e

agli altri (eteroattribuzioni).

Il processo attributivo consiste nel considerare un risultato proprio o altrui

e poi, sulla base delle informazioni possedute, delle esperienze passate e di altri

fattori individuali e motivazionali, attribuire quel risultato ad una o più cause

particolari, ad esempio all'impegno, all'abilità personale, alla facilità del compi-

to. Le attribuzioni possono essere considerate come il risultato di decisioni che

l'individuo mette in atto, in genere in modo spontaneo per capire chi o che cosa è

responsabile degli eventi che accadono.

La positività delle emozioni associate all‘apprendimento e le modalità ef-

ficaci di gestirlo sono strettamente dipendenti dal modo in cui lo studente tende

a giustificare ciò che gli succede, sia che si tratti di situazioni di successo o di

insuccesso.

La teoria più rappresentativa è quella di Weiner e risale agli anni Settanta.

Lo studioso propone una teoria secondo cui tanto più si conoscono le teorie im-

plicite (di senso comune) che le persone utilizzano per decidere ed agire, tanto

più se ne possono predire i comportamenti e le reazioni emotive. In genere, le

reazioni cognitive ed emotive al successo e all'insuccesso – ovvero le attribuzio-

ni - permettono di predire il comportamento in situazioni di apprendimento.

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Secondo Weiner le attribuzioni possono essere distinte in base alle tre di-

mensioni seguenti:

1. Locus of control: il carattere interno (abilità, sforzo, umore) o esterno

(fortuna, difficoltà del compito) alla persona;

2. Stabilità o costanza: le cause possono essere tendenzialmente stabili

nel tempo e nelle diverse situazioni. Ad esempio, l'abilità è stabile,

mentre non lo sono l'umore, lo sforzo e la fortuna;

3. Controllabilità:si distinguono cause più (lo sforzo) o meno (fortuna e

in certa misura l ‘abilità) controllabili dal soggetto.

Abramson, Seligman e Teasdale (1978) propongono un‘ulteriore dimen-

sione: ovvero le attribuzioni possono essere globali (generalità a più situazioni) e

specifiche (specificità di una certa situazione).

Dalla combinazione di questi parametri Weiner propone una tipologia di

attribuzioni, fra cui le più frequentemente utilizzate da ciascuno di noi per spie-

gare l‘esito ottenuto in una situazione o compito, sono: sforzo, abilità, fortuna e

facilità del compito.

L'attribuzione del risultato all'una o all'altra di tali cause influenza le nostre

aspettative rispetto i futuri risultati nel compito.

In particolare sembra che soprattutto la dimensione ―locus of control‖

(causa interna o esterna alla persona) sia implicata nella motivazione ad appren-

dere, influenzando le reazioni affettive al successo o all'insuccesso delle persone.

Weiner ritiene che ogni causa può essere collocata in un punto particolare

rispetto alle tre dimensioni viste sopra: interno/esterno, stabilità/instabilità

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(quanto è passeggera o duratura) e controllabilità (in che misura la causa è sotto

il controllo di qualcuno).

Queste tre dimensioni si incrociano formando otto possibili permutazioni

di cause.

Quando la causa cade sull‘asse interno/esterno, essa produce un effetto

sull‘autostima: attribuire il successo agli sforzi personali accresce il proprio sen-

so di orgoglio.

Dove la causa è posta sulla dimensione della stabilità/instabilità, essa in-

fluenza le aspettative di cambiamento. In tal modo, imputare l‘insuccesso alle

proprie capacità innate non favorisce alcuna aspettativa di miglioramento.

Lo sforzo è una causa interna instabile e controllabile; l‘impegno è instabi-

le perché deve essere rinnovato e permette di gestire l‘insuccesso perché si as-

sume la responsabilità. Questa causa è la più funzionale al ciclo del benessere di

apprendimento perché nel caso di successo rinforza l‘apprendimento; nel caso

di insuccesso non si cade in depressione.

La tabella seguente illustra le otto possibili attribuzioni che si ottengono

incrociando le dimensioni di analisi locus of control, controllabilità e stabilità.

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Caratteristiche dell'attribuzione Locus of control Stabilità Controllabilità Attribuzione

Interno stabile Controllabile incontrollabile

Tenacia Abilità

Interno instabile Controllabile incontrollabile

Impegno Tono dell'umore

Esterno stabile Controllabile incontrollabile

Pregiudizio Facilità del compi-to

Esterno instabile Controllabile incontrollabile

Aiuto Fortuna

La teoria di Weiner pone l'accento sugli aspetti cognitivi e, in particolare,

sulle interpretazioni date ai precedenti successi e insuccessi. La tendenza al suc-

cesso si caratterizza per l'attribuzione del successo a una combinazione di abilità

e impegno, mentre l'attribuzione all'insuccesso alla mancanza di impegno. La

motivazione all'impegno, secondo questa teoria, non deriverebbe dalle emozioni

anticipate, ma dai normali processi di riflessione sulle cause dei propri successi e

insuccessi. Gli aspetti emotivi sono presenti, ma non sono visti come causa, ma

come conseguenza, quindi un fallimento potrà determinare vergogna se attribui-

to alla mancanza di abilità, ma non se attribuito a fattori casuali imprevisti.

Nella tabella seguente vediamo come la tendenza al successo è accompa-

gnata all'impegno e alle buone capacità personali, mentre l'insuccesso viene ri-

condotto ad un impegno non sufficiente o a elementi non prevedibili. La motiva-

zione a evitare il fallimento porta la persona ad attribuire il successo a fattori

esterni non controllabili (fortuna, aiuto, ecc.), a sovrastimare i fallimenti e a non

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sapere riconoscere le situazioni di successo, spesso interpretate come casuali o

legate alla situazione contingente e non alle proprie abilità.

Componente

motivazionale

prevalente

Attribuzione del

successo

Attribuzione

dell'insuccesso Autovalutazione

Tendenza al

successo

Sforzo, buona abi-

lità personale

Sforzo insufficien-

te, sfortuna

Bilancio positivo

di succes-

so/insuccesso

Motivazione a

evitare il fallimen-

to

Fortuna, compito

facile

Mancanza di ca-

pacità personali

Bilancio negativo

di succes-

so/insuccesso

1.8.8 Stili motivazionali

Dopo aver passato in rassegna i principali contributi teorici riguardo la

motivazione all'apprendimento, nella parte conclusiva di questo capitolo

esamineremo le caratteristiche adattive di alcuni stili motivazionali. Come

vedremo, ogni stile ha caratteristiche proprie che lo rendono motivante o

demotivante e, quindi, più o meno funzionale all'apprendimento.

Per quanto riguarda gli stili di motivazione innanzitutto possiamo pensare

a due dimensioni imprescindibili: il senso di controllo personale sulla propria

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prestazione e la possibilità di soddisfare i propri bisogni, quali l'autodetermina-

zione, la competenza e la curiosità.

Il primo stile che consideriamo è quello dell'autoregolazione. Uno studen-

te autoregolato è partecipe, attivo, flessibile nell'uso di diverse strategie di ap-

prendimento ed esercita un buon controllo metacognitivo. E' uno studente che

utilizza strategie di studio profonde, modifica il proprio atteggiamento di fronte

al compito, la fine di mantenere la motivazione nonostante le distrazioni. Ha un

alto livello di autoefficacia ed una motivazione di tipo intrinseco. Le strategie,

generalmente utilizzate da uno studente autoregolato, mirano ad una compren-

sione profonda del materiale da apprendere e sono per esempio: elaborare, para-

frasare, riassumere, prendere appunti, fare domande. L'utilizzo di strategie attive

consente di ridurre al minimo le distrazioni, di mantenere un'attenzione focaliz-

zata e di incrementare la percezione di controllo personale. La motivazione ad

apprendere risulta accresciuta sia per l'effetto dell'insieme di atteggiamenti as-

sunti durante l'esecuzione del compito, sia quale conseguenza dei positivi risul-

tati di apprendimento ottenuti.

Il tipo di studente descritto è sinceramente alquanto raro e spesso come in-

segnanti ci troviamo a dover fronteggiare stili di demotivazione. A tal proposito

consideriamo l'interessante modello proposto da Eronen, Nurmi e Salmela-Aro

(1998) il quale comprende sia stili di motivazione che di demotivazione. Per

quanto riguarda gli stili di demotivazione, per un insegnante è importante cono-

scerli e cercare di capire perchè si formano in uno studente e come si mantengo-

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no. Altro elemento da non dimenticare è che gli stili pur essendo abbastanza sta-

bili, di fatto non sono rigidi per cui possono mutare.

La classificazione riportata di seguito consente di individuare le possibilità

di passaggio dall'uno all'altro stile e di conseguenza, le modalità attraverso cui

incrementare la motivazione ad apprendere a partire da un processo circolare

sottostante meno funzionale fino a renderlo più funzionale (De Beni, Moè,

2000).

Eronen e coll. Individuano quattro stili che si differenziano per le capacità

di pianificazione, le emozioni positive o negative provate in situazioni di ap-

prendimento, l'entusiasmo nell'iniziare il compito e la presenza di comportamen-

ti distraenti.

Stile ottimistico: prevalenza di emozioni positive, buone capacità organiz-

zative, concentrazione focalizzata sulle modalità, sulle strategie più efficaci per

affrontare il compito, piuttosto che sui risultati o sui giudizi che possono deriva-

re dalla prestazione ottenuta.

Stile difensivo-pessimistico: buone capacità di pianificazione, ma presenza

di emozioni negative o miste. Si tende ad avere aspettative di riuscita negative e

ad evitare il fallimento. La paura dell'insuccesso costituisce la motivazione che

predispone ad affrontare con tenacia, organizzazione e strategicità e, in genere,

anche con successo le diverse situazioni di apprendimento.

Stile self-handicapping: presenza di comportamenti irrilevanti per il com-

pito, poca pianificazione e concentrazione, emozioni negative. Questo insieme di

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emozioni, motivazioni e strategie poco efficaci si ripercuote sulle prestazioni che

spesso risultano non essere adeguate.

Stile impulsivo: assomiglia al precedente per ciò che concerne la poca pia-

nificazione e strategicità, mentre differisce per l''aspetto emotivo e l'assenza di

comportamenti irrilevanti. Chi rientra in questo stile tende a provare un buon en-

tusiasmo iniziale perchè sostenuto da emozioni positive, ma successivamente è

poco perseverante e si concentra poco a causa del venir meno della spinta moti-

vazionale.

Gli stili ottimistico e difensivo-permissivo si caratterizzano per livelli di

successo simili, ma differiscono per la componente emotiva. Lo stile difensivo è

accompagnato da ansia, timore e insoddisfazione per risultati anche di per sé

buoni, mentre l'ottimistico si distingue per la soddisfazione, l'orgoglio, il senso

di sfida e la padronanza.

Rispetto alla funzionalità, il primo è funzionale a mantenere un buon livel-

lo emotivo e un adeguato senso di soddisfazione; il secondo nel consentire buo-

ne prestazioni ed elevati livelli di strategicità ed organizzazione; il terzo nel pre-

servare l'immagine di competenza ed il quarto nel sostenere l'inizio delle varie

attività e quindi l'entusiasmo per i compiti.

Per quanto riguarda la demotivazione o l'insuccesso scolastico non vi sono

in letteratura ricette facilmente asportabili ed utilizzabili. Entrano in gioco e si

influenzano reciprocamente moltissime variabili alcune riconducibili allo stu-

dente (temperamento, convinzioni, vissuti, storia familiare, ecc.), altre al conte-

sto di crescita del soggetto altre ancora all'insegnante che a sua volta si porta die-

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tro un bagaglio di competenza ma anche convinzioni, preconcezioni, aspettative

e vissuti. Ci auguriamo che la ricerca futura si occupi non solo dello studio dello

stato attuale delle cose, ma trovi il sistema per apportarvi miglioramenti. Ciò

concretamente potrebbe avvenire attraverso l'individuazione di modalità di in-

tervento in grado di migliorare le motivazioni esistenti o cambiare le convinzio-

ni, gli stili di demotivazione poco funzionali all'apprendimento in modo da iden-

tificare agenti di socializzazione e interventi efficaci per stimolare positivamente

la motivazione ad apprendere.

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II Lezione Come si insegna e come si apprende

2.1 Da “una” a “più” intelligenze: implicazioni psicopedagogiche

Uno dei principali settori applicativi della psicopedagogia si occupa di in-

dagare ciò che si sviluppa e accade ―sul campo‖, nei luoghi cioè in cui inevita-

bilmente si produce e gestisce l'apprendimento. La scuola e la classe, in partico-

lare, rappresentano un oggetto di indagine privilegiato e anche se attualmente

vanno per la maggiore le teorie di tipo contestualistico che puntano l'attenzione

sui contesti di apprendimento e sottolineano il ruolo ineliminabile e inestricabile

del sociale, rimane ugualmente importante l'attenzione al singolo studente.

Ogni insegnante osservando i suoi allievi al lavoro, rileva differenze nelle

modalità di apprendere, oltre che livelli diversi di abilità.

Possiamo dire che il bravo studente, cioè colui che ottiene risultati miglio-

ri, sia lo studente più intelligente? Quali sono le abilità che concorrono a definire

un'azione, una prestazione o un comportamento come ―intelligente‖? E per finire

chi è il bravo studente? Rispondere a tutti questi quesiti, non è semplice come si

potrebbe pensare. L'esercitazione4 sotto riportata ci consente di metterci alla

prova, i valori ottenuti possono poi essere confrontati con quelli dei colleghi.

Vedrete che difficilmente vi sarà un'omogeneità nelle risposte, l'obiettivo è quel-

4 L'esercitazione è tratta da Antonietti A., Psicologia dell'apprendimento. Processi, strategie e ambienti cognitivi, La Scuola, Brescia, 1998, pag. 29.

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lo di confrontarsi e misurarsi rispetto a concetti che come insegnanti non pos-

siamo e non dobbiamo mai dare per scontati.

Esercitazione: L'immagine del bravo studente

Lo scopo del questionario è di rilevare l'immagine del bravo studente che si ha. Il tuo

compito è quello di rappresentarti mentalmente quello che ritieni essere il modello caratte-

ristico di “bravo studente”. Qui sotto è riportato un elenco di caratteristiche: valuta in che

misura ciascuna di esse contribuisce a determinare il modello di bravo studente che ti sei

rappresentato. Esprimi la tua valutazione assegnando un punteggio compreso tra 1 e 5, se-

condo la seguente scala: 1=pochissimo, 2=poco, 3=mediamente, 4=molto, 5=moltissimo.

Capacità di analisi 1 2 3 4 5 Capacità di pianificare 1 2 3 4 5 Capacità critica 1 2 3 4 5 Capacità di selezionare 1 2 3 4 5 Espressione orale chiara 1 2 3 4 5 Capacità di pensiero astratto 1 2 3 4 5 Rapidità di apprendimento 1 2 3 4 5 Capacità di approfondimento 1 2 3 4 5 Capacità di sintesi 1 2 3 4 5 Sistematicità, metodicità 1 2 3 4 5 Intuizione 1 2 3 4 5 Capacità di trarre conclusioni 1 2 3 4 5 Consequenzialità logica 1 2 3 4 5 Creatività 1 2 3 4 5 Espressione scritta chiara 1 2 3 4 5 Memoria 1 2 3 4 5 Ricchezza di vocabolario 1 2 3 4 5

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Capacità di assimilazione 1 2 3 4 5 Elasticità mentale 1 2 3 4 5 Rapidità di ragionamento 1 2 3 4 5 Capacità di fare confronti 1 2 3 4 5 Capacità di pensiero concreto 1 2 3 4 5 Abilità grafiche 1 2 3 4 5 Capacità di valutare 1 2 3 4 5 Capacità di affrontare la novità 1 2 3 4 5 Fluidità verbale 1 2 3 4 5 Capacità di fare associazioni 1 2 3 4 5 Precisione 1 2 3 4 5 Sensibilità estetica 1 2 3 4 5 Visione globale delle situazioni 1 2 3 4 5 Capacità di schematizzare 1 2 3 4 5 Capacità di pensare per esempi 1 2 3 4 5 Visualizzazione mentale 1 2 3 4 5 Capacità di generalizzare 1 2 3 4 5 Capacità di affrontare la complessità 1 2 3 4 5 Capacità di fare previsioni 1 2 3 4 5 Fantasia 1 2 3 4 5 Capacità di conversare 1 2 3 4 5 Apertura mentale 1 2 3 4 5 Immaginazione 1 2 3 4 5

Lo studio delle differenze individuali nell'apprendimento accompagna da

molti anni l'indagine psicopedagogica e, in particolare, affiancata dai contributi

della psicologia ha indagato aspetti diversi: emotivo, affettivi, relazionali, cogni-

tivi e i tratti di personalità che ormai sappiamo influenzare le modalità di ap-

prendere. Passando in rassegna la letteratura si scorge il tentativo di concentrare

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l'attenzione più verso caratteristiche che differenziano gli individui piuttosto che

sui tratti comuni. In particolare ciò che ha attirato l'attenzione riguarda il rilevare

come talvolta persone con medesime abilità cognitive ottengano risultati com-

pletamente diversi. La prova più immediata dell'esistenza di differenze qualitati-

ve nei processi cognitivi, sottolinea Antonietti, si ottiene osservando che indivi-

dui, sostanzialmente simili per capacità cognitive affrontano i compiti in modo

diverso. Taluni si soffermano sui dettagli, altri colgono l'insieme o i rapporti

spaziali anche per ciò che concerne il ragionamento, vengono messi in atto di-

verse modalità: sistematiche, visualizzanti, legati alla formazione di ipotesi, ecc.

Per cui a partire da studi che consideravano l'intelligenza come un'unica

abilità generale, si è passati nel corso di circa 30 anni alla messa a punto di di-

verse teorie che hanno enfatizzato, come vedremo nel corso del capitolo, questo

o quell'altro aspetto.

A livello storico proviamo, quindi, a ripercorrere la strada compiuta dai

pedagogisti e dagli psicologi del secolo scorso che hanno tentato di fornire agli

insegnanti spunti e applicazioni da implementare sul campo.

Fino alla fine del XIX secolo, la parola intelligenza è stata comunemente

usata dalle persone per descrivere le proprie o altrui capacità mentali. Nel mon-

do occidentale venivano definiti intelligenti gli individui svelti o che sapevano

parlare bene o che erano perspicaci in campo scientifico o più semplicemente

saggi. In altre culture potevano essere indicati con termini traducibili con la pa-

rola intelligente individui ubbidienti, o che si comportavano bene, tranquilli, op-

pure con poteri magici. Nella maggior parte di tutti questi casi la parola intelli-

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gente ha avuto un uso positivo, e questo ci aiuta a capire l'imprecisione del suo

impiego e della sua individuazione,

―…basti pensare al fatto che sono stati definiti intelligenti quasi tutti i

presidenti americani, anche se uno su due non ha avuto di sicuro quella prero-

gativa.” (Gardner)

Alla fine del XIX secolo, Alfred Binet , su richiesta di alcuni ministri

francesi, creò il primo test sull'intelligenza . Si pensò a quel punto di essere riu-

sciti a misurare l'intelligenza di un individuo, analizzando le sue prestazioni at-

traverso una serie di prove eterogenee, che spaziavano dalla comprensione sen-

soriale alla conoscenza linguistica. Usati dapprima in campo clinico sugli alunni

"a rischio" della scuola elementare di Parigi, i test dell'intelligenza divennero

presto norma e furono utilizzati in modo diffuso con i bambini della borghesia

californiana, soprattutto grazie agli sforzi di Lewis Terman dell'Università di

Stanford.

Verso il 1920/1930, i test dell'intelligenza (e il QI, il quoziente d'intelli-

genza) erano già stabilmente entrati nel costume non solo della società america-

na, ma anche di molte altre parti del mondo.

Nonostante i diversi tentativi compiuti in ambito psicometrico, un proble-

ma che ha caratterizzato la storia della psicologia riguarda la possibilità di misu-

rare il costrutto di intelligenza che non si presenta unitario. Oltre a Binet, ricor-

diamo anche il contributo di Spearman che, come vedremo, si collega ad una

concezione unitaria di intelligenza. La teoria monofattoriale proposta comporta

anche la diffusione del concetto di QI (quoziente intellettivo). Il QI consiste in

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un punteggio che riassume la prestazione di un individuo in una serie di test de-

stinati a valutare diversi aspetti dell‘intelligenza, che però assume nella sua sin-

teticità il carattere unitario di misura dell‘intelligenza globale. Spearman indivi-

dua un fattore g o generale, presente in misura diversa a seconda delle caratte-

ristiche degli individui, in ogni abilità. Il fattore g è analogo a un‘energia o for-

za trasferibile da una operazione mentale ad un‘altra e caratterizza, in particola-

re, i processi di ragionamento in cui si fanno inferenze e analogie, si colgono re-

lazioni, si risolvono sillogismi e così via.

Se in questa prima fase l'intelligenza fu concepita come un'unica entità,

rappresentabile da un singolo numero, ben presto si cominciò a discutere se

quell'entità potesse essere legittimamente scomposta in varie componenti. Ricer-

catori come Thurstone e Guilford sostennero che l'intelligenza poteva essere più

propriamente definita come una serie di fattori abbastanza indipendenti fra loro.

All'incirca negli anni 30, quindi, con la messa in crisi della concezione

unitaria dell‘intelligenza. Thurstone individua dei fattori di gruppo, ovvero le

abilità generali non riconducibili a un fattore unico, chiamate abilità primarie.

Inizia un nuovo approccio che sostituisce all‘idea di intelligenza come abilità

unitaria quella di insieme articolato di abilità che giungerà alla frammentazione

estrema con i 120 fattori di Guilford, o in psicologia cognitivista con l‘analisi dei

molteplici processi di cui consiste il comportamento intelligente.

La teoria di Thurstone delle capacità mentali primarie rappresenta una po-

sizione intermedia tra il fattore g di Spearman e le 120 componenti di Guilford.

L‘intelligenza nella teoria dei Thurstone consiste di sette capacità primarie:

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comprensione verbale: stimata mediante test di vocabolario;

fluidità verbale: misurata dalla velocità con cui un individuo riesce

a trovare parole che cominciano con una data lettera;

capacità numerica: misurata mediante problemi di ragionamento

aritmetico;

capacità di visualizzazione spaziale: riflessa dalla capacità di

eseguire compiti del tipo del confronto di configurazioni;

memoria: verifica mediante test di rievocazione;

ragionamento: misurato mediante la prestazione su problemi di

analogia;

velocità percettiva: misurata dalla velocità di esecuzione di compiti

come quello di cancellare tutte le t presenti in una stringa di lettere;

2.1.1 Finestra di approfondimento:

Concezioni di senso comune sull’intelligenza

Il concetto di intelligenza in rapporto all‘apprendimento e all‘istruzione ha subito del-

le modificazioni. La ricerca ha confutato le concezioni di senso comune più diffuse

sull‘intelligenza che indichiamo di seguito:

1. L’intelligenza è un’abilità cognitiva monolitica: Esempio di questa concezione in

ambito psicologico è la teoria del fattore g di Sperman. In ambito educativo si è visto

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che l‘abilità intellettiva dipende da un insieme di varie abilità-componenti e vari ap-

procci hanno documentato come l‘intelligenza possa essere concepita nei termini di

una molteplicità di abilità.

2. L’intelligenza è un’abilità cognitiva generale: Un tempo si riteneva che

l‘intelligenza fosse trasferibile e applicabile in un‘ampia varietà di compiti e situa-

zioni. Per esempio la capacità di pianificazione potrebbe essere trasferita dalla pro-

duzione del testo scritto alla soluzione di problemi. La visione attuale sostiene che le

abilità intellettive siano dominio-specifiche, ovvero si impara a pensare in maniera

differente mentre si apprendono i contenuti delle varie discipline scolastiche (studi

sull‘apprendimento disciplinare). Per esempio la produzione del testo comporta

l‘apprendimento di una serie di procedure di pianificazione apparentemente simili a

quelle della soluzione di problemi matematici, ma in realtà pianificare un testo ar-

gomentativo è un‘operazione cognitiva alquanto differente dalla pianificazione uti-

lizzata in ambito matematico.

3. L’intelligenza è un’abilità cognitiva innata: Secondo questa visione l‘intelligenza sa-

rebbe determinata dal patrimonio genetico. La visione alternativa sostenuta dalla ri-

cerca psicopedagogica sostiene che le abilità possono essere insegnate (in termini di

strategie, attivazione di processi cognitivi, ecc) e ciò comporta un miglioramento nel-

le prestazioni scolastiche. Allora il successo scolastico non è determinato solamente

dall‘intelligenza innata.

4. L’intelligenza è un’abilità cognitiva statica: L‘intelligenza sarebbe un prodotto misu-

rabile attraverso le riposte che gli individui danno ai problemi.

Attualmente la ricerca educativa ritiene che si possa meglio rilevare l‘abilità di un in-

dividuo mediante un accertamento dinamico, che permette di valutare il processo sottostante

alla manifestazione dell‘attività mentale. Esiste una discrepanza tra prestazione e potenziale

di apprendimento. Ciò introduce una visione dell‘intelligenza intesa come capacità di ap-

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prendimento (Brown e Campione), in quanto una teoria dell‘intelligenza non deve solo

rendere conto delle abilità richieste per fornire una buona prestazione ai test, ma anche spe-

cificare le modalità con cui gli individui si differenziano tra loro. Allora le potenzialità di

apprendimento che sono continuamente modificabili possono essere valutate misurando le

abilità in un settore specifico e poi valutando una situazione di apprendimento per stimare la

quantità minima di aiuto necessaria per raggiungere il criterio stabilito (zona di sviluppo

prossimale).

Successivamente, la ricerca si concentra sui processi cognitivi che possono

spiegare le differenze di prestazione tra gli individui. Si passa, quindi, da una

concezione astratta di intelligenza ad un'intelligenza costituita da componenti di

elaborazione dell'informazione. Gli studiosi si concentrano sull'esecuzione di

compiti considerati rappresentativi dell'essere intelligenti (soluzione di problemi

matematici, ragionamento analogico, lettura e comprensione, ecc.) e sulle moda-

lità attraverso cui le abilità mentali coinvolte nell'apprendimento possono essere

modificate con l'istruzione. Si verifica così un proliferare di studi sulle analogie

tra funzionamento umano e computer (Human Information Processing). La men-

te umana viene intesa come un sistema di elaborazione delle informazioni e si

presuppone un'analogia tra il modo in cui le persone pensano e il modo in cui i

software per computer eseguono operazioni per risolvere i problemi. All'interno

di questo ambito di studio vengono considerati fattori importanti per l'intelligen-

za la velocità e la precisione dell'elaborazione dell'informazione.

In anni recenti, un certo numero di ricercatori, soprattutto grazie alle sco-

perte fatte nel campo dell'intelligenza artificiale, della psicologia dello sviluppo

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e della neurologia, hanno avanzato l'idea che la mente consista di parecchi mo-

duli indipendenti o intelligenze.

Si è pervenuti alla conclusione che esistono prove convincenti dell'esisten-

za di varie competenze intellettive umane relativamente autonome, relativamente

indipendenti l'una dall'altra, che possono essere plasmate e combinate da indivi-

dui e culture in una varietà di modi adattivi (Cadamuro, 2004).

Da queste considerazioni è, pertanto, scaturito un nuovo filone di studio e

di ricerca che considera l'intelligenza un costrutto complesso e in interazione

continua con l'ambiente. Questi approcci, definiti integrativi (cioè che mirano ad

integrare i diversi aspetti dell'intelligenza) sono attribuibili principalmente a

Sternberg e Gardner.

2.2 La teoria triarchica di Sternberg

La gente comune, interrogata da Sternberg sul concetto di intelligenza, ha

descritto tre tipi generali di capacità: la capacità di risolvere i problemi; la capa-

cità verbale e la competenza sociale.

La capacità di risolvere i problemi include la capacità di ragionare logi-

camente, di cogliere connessioni tra idee, di afferrare i vari aspetti di un proble-

ma e di avere un atteggiamento elastico.

La capacità verbale, invece, include abilità come quella di parlare in modo

chiaro e ordinato, di essere una persona ben informata di un dato settore, di aver

letto molto e di possedere un ampio vocabolario.

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Con l'espressione competenza sociale Sternberg intende definire la capaci-

tà di accettare gli altri per quello che sono, l'essere disposti ad ammettere i propri

errori, l'avere una coscienza sociale ed essere sensibili ai bisogni degli altri. Gli

esperti considerano come terzo tipo di capacità, l’intelligenza pratica, cioè la

capacità di afferrare l‘essenziale delle situazioni, sapere come raggiungere gli

scopi, aver interesse per il mondo nella sua varietà.

A partire da queste prime rilevazioni andiamo ora ad approfondire gli

aspetti caratterizzanti della teoria proposta dal nostro autore. Innanzi tutto dob-

biamo dire che attualmente Sternberg è uno dei massimi studiosi di intelligenza.

Egli la intende come l'abilità della mente di regolare e coordinare i processi di

ordine inferiore, in modo da aumentare la possibilità di risolvere i problemi.

Lo studioso individua tre aspetti interagenti nella costituzione

dell‘intelligenza:

L' abilità di elaborazione dell‘informazione, interno all‘individuo, che

guida il comportamento intelligente = teoria componenziale.

L' applicazione nei contesti reali, aspetto pratico dell‘intelligenza che

consente di acquisire conoscenza negli ambienti in cui le strategie di

successo non vengono esplicitamente insegnate o verbalizzate = teoria

contestuale.

L' abilità di riferirsi alle proprie esperienze per risolvere nuovi

problemi e rendere automatiche le procedure in tempi brevi = teoria

esperienziale.

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L'intelligenza componenziale riguarda il mondo interno dell‘individuo e

specifica i meccanismi cognitivi ovvero i componenti che soggiacciono alla pre-

stazione intelligente. I componenti vengono distinti in tre tipi: metacomponenti,

componenti di prestazione e componenti di acquisizione di conoscenza. Questi

interagiscono tra loro e si separano solo per ragioni espositive.

I metacomponenti sono processi esecutivi usati nella pianificazione, esecu-

zione e valutazione di un compito. Per esempio consentono all'individuo di :

riconoscere che esiste un problema e definirne la natura;

scegliere i componenti di prestazione da combinare e la strategia

per combinarli;

scegliere le modalità di rappresentazione mentale

dell‘informazione;

decidere come usare le risorse mentali;

monitorare e valutare la soluzione.

Sono come i registi che dicono agli attori (i componenti di prestazione e di

acquisizione di conoscenze), come recitare; a loro volta gli attori danno un feed-

back su come vanno le cose in palcoscenico.

I componenti di prestazione sono processi di ordine subordinato che ese-

guono le istruzioni dei metacomponenti. I metacomponenti sono pochi mentre i

componenti sono numerosi in relazione alla esperienza dell‘individuo e al tipo di

compito. Esempi sono quelli che caratterizzano il pensiero analogico, cioè lo

stabilire relazioni di somiglianza tra oggetti e situazioni diverse.

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I componenti di acquisizione della conoscenza riguardano i processi con

cui si imparano cose nuove e si basano soprattutto sugli studi e sulla compren-

sione verbale. I componenti fondamentali per il funzionamento cognitivo sono

tre:

codificazione selettiva: distinguere l‘informazione rilevante da

quella irrilevante;

combinazione selettiva: organizzare in un insieme integrato le

informazioni rilevate dalla codificazione;

confronto selettivo: mettere in relazione le informazioni ottenute

con le conoscenze preesistenti.

L' intelligenza contestuale riguarda i contesti in cui opera l‘intelligenza,

cioè le modalità con cui si attua l‘adattamento dell‘individuo all‘ambiente. Il

comportamento intelligente è rivolto a tre obiettivi: l‘individuo cerca di adattarsi

all‘ambiente esterno, cioè modifica se stesso; poi l‘individuo modifica

l‘ambiente per adattarlo a se stesso. Infine è possibile scegliere un nuovo am-

biente.

L'intelligenza esperienziale specifica i momenti in cui compiti e situazioni

presenti nell‘esperienza dell‘individuo richiedono maggiormente l‘utilizzo di in-

telligenza.

La teoria di Sternberg propone una visione dell‘intelligenza fondata sui

processi cognitivi e inserita in una prospettiva di relativismo culturale.

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La sotto-teoria componenziale è universalista perchè i componenti sono gli

stessi in tutte le culture, però la sotto-teoria contestuale è relativista rispetto agli

individui e ai contesti perchè le funzioni di un adattamento all‘ambiente non so-

no culturalmente neutrali; anche la teoria esperienziale è relativista per

l‘esperienza dell‘individuo.

Oltre agli aspetti sopra evidenziati, Sternberg è molto noto soprattutto per

la messa a punto, nel 1994, di una teoria sul pensiero intelligente, la cosiddetta

teoria triarchica.

Il pensiero umano si fonderebbe su tre tipi di intelligenze fondamentali:

quella analitica, quella pratica e quella creativa. Il pensiero analitico si distin-

gue per la capacità di scomporre, confrontare, esaminare, scendere nei dettagli,

giudicare, valutare, chiedersi e spiegarsi il perché, spiegare le cause. L'intelli-

genza pratica si esplicita nell'abilità di usare strumenti, di saper organizzare, at-

tuare progetti concreti, dimostrare come si fa. La dimensione creativa dell'intel-

ligenza umana è chiaramente caratterizzata dall'intuizione, dalla immaginazio-

ne, dalla scoperta, dall'abilità a produrre il nuovo, dal saper ipotizzare, saper

immaginare e saper inventare.

All'interno di questa teoria non si definisce pertanto una persona intelli-

gente soltanto se eccelle in tutte le abilità considerate, ma si considerano intelli-

genti coloro che scoprono come trarre il massimo vantaggio dalle proprie forze

in modo da compensare o rimediare ai cosiddetti ―punti deboli‖ (Cadamuro,

2004).

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2.3 La teoria delle intelligenze multiple di Gardner

Gardner definisce l‘intelligenza come la capacità di risolvere problemi o di

creare prodotti che sono apprezzati in uno o più contesti culturali. I prodotti pos-

sono essere un dipinto, un brano musicale, l‘esecuzione di un esperimento, un

lavoro teatrale, la gestione di un‘azienda.

Gli esseri umani si sono evoluti in modo da processare sette tipi di infor-

mazione, ciascuno legato a un particolare contesto ambientale, arrivando a pos-

sedere almeno sette separate forme di intelligenza, che sono le seguenti:

Intelligenza logico matematica: calcolo, soluzione di problemi, dimostra-

zioni matematiche, pensiero scientifico; capacità di trattare modelli logici e nu-

merici e di manipolare lunghe catene di ragionamento. Le persone con questa in-

telligenza comprendono il mondo attraverso un'intuizione delle azioni che si

possono compiere sugli oggetti, le relazioni tra queste azioni, le affermazioni e

le ipotesi che si possono fare su queste azioni. Un individuo con una Intelligen-

za Logico-matematica sviluppata comprende le relazioni tra le affermazioni e le

ipotesi come un progresso dalla sfera senso-motoria a quella della pura astrazio-

ne . Questo tipo di Intelligenza si riferisce anche al pensiero scientifico che si

basa sulla comparazione, contrasto e sintesi.

Intelligenza linguistica: abilità implicate nella produzione e comprensione

del linguaggio e sensibilità alle diverse funzioni linguistiche. Le persone con

questa intelligenza hanno grande abilità con il linguaggio, sensibilità al signifi-

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cato delle parole, all'ordine delle parole, al suono, al ritmo e alle inflessioni delle

parole e manifestano una particolare sensibilità alle differenti funzioni del lin-

guaggio. La manifestazione dell'intelligenza linguistica avviene in persone come

giornalisti, romanzieri, commediografi o poeti che manipolano la sintassi ed il

significato delle parole. Tutti hanno un qualche grado di intelligenza linguistico-

verbale in accordo con la propria cultura.

Intelligenza musicale: produzione, esecuzione e fruizione della musica.

Questo tipo di Intelligenza riguarda il riconoscimento di modelli tonali, inclu-

dendo vari suoni ambientali ed una sensibilità al ritmo e al suono. Le persone

con questa intelligenza sono in grado di ascoltare continuamente suoni e ritmi

nella loro testa. Essi cercano di ripetere questi modelli in più ampi schemi musi-

cali, dando loro una forma. I musicisti e i compositori spesso comprendono il

mondo attraverso questo tipo di Intelligenza.

Intelligenza spaziale: capacità di percepire le relazioni spaziali e di rappre-

sentarle ed elaborarle mentalmente. Questo tipo di Intelligenza implica la capaci-

tà di comprendere, percepire, interiorizzare e trasformare lo spazio. Un architet-

to, un ingegnere, uno scultore, un coreografo, un navigatore possiedono un alto

livello di questa intelligenza. Anche i pittori e gli artisti figurativi, che rappre-

sentano forme, linee, contrasti, figure e colori usano questo tipo di intelligenza

quando creano. Le persone con questo tipo di intelligenza spesso amano gli

scacchi, i puzzle, la fotografia e dipingere.

Intelligenza corporea: capacità di controllare i movimenti del corpo e di

maneggiare gli oggetti con perizia. Questo tipo di Intelligenza riguarda il movi-

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mento fisico, la conoscenza del corpo e il modo in cui esso opera. Le persone

che hanno un'alta intelligenza corporea posseggono una acuta padronanza sui

movimenti del loro corpo (ballerini, nuotatori) o sono capaci di manipolare gli

oggetti con finezza (strumentisti, chirurghi). L'intelligenza corporea implica la

capacità di comprendere il mondo attraverso il corpo, di esprimere idee e senti-

menti e comunicare con gli altri attraverso il corpo. Possiamo vedere alte mani-

festazioni di questa intelligenza negli atleti, ballerini, mimi ed attori ed anche in

quelle persone che lavorano con le mani come chirurghi, scultori, carpentieri ed

operai.

Intelligenza interpersonale: capacità di rispondere appropriatamente agli

umori, bisogni e sentimenti degli altri. Questa Intelligenza è la capacità di osser-

vare e fare distinzioni sugli altri, in modo particolare sui loro stati d'animo e

temperamenti, intenzioni e motivazioni. Essa consiste nella capacità di com-

prendere, percepire e discriminare le personalità e i comportamenti degli altri.

Intelligenza intrapersonale: conoscenza di se stessi, delle proprie risorse e

debolezze. Questa intelligenza è definita da un profondo e sviluppato senso del

proprio Sé. Essa consiste nella capacità di conoscere il Sé, di comprendere il

proprio mondo interiore. Le parole importanti per una persona con un alto livello

di questa intelligenza sono: immaginazione, originalità, disciplina, rispetto di sé,

motivazione, ispirazione e temperamento. Queste persone possono rimandare la

propria gratificazione e riescono bene a disciplinare se stesse. Questa intelligen-

za è essenziale per gli artisti, i filosofi, gli psicologi e i pensatori.

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A queste sette intelligenze, Gardner ne ha successivamente aggiunta un'ot-

tava, che ha chiamato intelligenza naturalistica, riferita alla capacità di ricono-

scere e trattare piante, animali e altre parti dell'ambiente naturale.

Gardner ha ipotizzato anche una nona intelligenza, l'intelligenza esisten-

ziale che concerne la capacità di saper riflettere sulle tematiche fondamentali

della nostra esistenza e la propensione al ragionamento astratto per categorie

concettuali universali.

Questa teoria ipotizza intelligenze diverse e implica particolari forme di

processazione. L‘intelligenza linguistica ha processori fonologici e grammatica-

li, quella musicale ha processori ritmici. Le differenze individuali riguardano

l‘efficienza dei processi e le modalità di accesso ai diversi sistemi simbolici.

Le intelligenze sono indipendenti le une dalle altre: tutti gli individui nor-

mali possiedono le sette intelligenze, con risorse e debolezze specifiche dell‘uno

o l‘altro dominio, ma non sono connesse tra loro.

Lo sviluppo di un bambino in un dominio non consente previsioni sullo

sviluppo negli altri settori. Però le intelligenze interagiscono; la soluzione di un

problema matematico espresso verbalmente richiede competenze linguistiche e

logico matematiche; l‘esecuzione di un balletto richiede intelligenza corporea

ma anche musicale.

La teoria di Gardner, da un punto di vista psicopedagogico, si differenzia

nettamente dalle altre perché non si focalizza sulle capacità che assicurano il

successo scolastico, e non si basa su test psicometrici.

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2.4 La teoria modulare di Fodor

La maggior parte delle teorie ha considerato l'intelligenza, sia singola che

multipla, solo come entità o potenziale biologico, che esiste nella testa (e nel

cervello) e che può essere misurata indipendentemente dal contesto. La teoria

delle intelligenze multiple ha preso in considerazione i diversi modi del dispie-

garsi dell'intelligenza nelle varie culture, però nella sua prima formulazione ha

risentito di un'impostazione centrata sul solo individuo. La maggior parte degli

studiosi ha raggiunto ora la consapevolezza che l'intelligenza non può essere va-

lutata con precisione se viene considerata in modo separato dagli specifici conte-

sti nel quale un individuo vive, lavora o gioca, e in modo indipendente rispetto

alle opportunità e ai valori che quei contesti offrono.

La teoria della mente di Fodor si muove all'interno dell'orizzonte funziona-

lista, ossia di quella concezione che assimila la mente a un elaboratore elettroni-

co. L'aspetto più originale della proposta di Fodor consiste nell'architettura che

starebbe alla base del funzionamento della mente. L'analisi degli input viene as-

segnata a strutture verticali (moduli) che hanno il compito di mediare tra l'output

degli organi sensoriali/percettivi e i sistemi centrali deputati alle elaborazioni più

complesse. Il processo di trasformazione degli input in rappresentazioni implica

una teoria computazionale della mente e quindi una realizzazione dei processi

cognitivi caratterizzata da una elaborazione di tipo sequenziale. Tale paradigma

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si contrappone nettamente al modello connessionista che si basa invece su una

elaborazione parallela e distribuita.

I moduli sono determinati geneticamente: ciascuno di essi si occupa di un

dominio specifico ed è collocato in una regione determinata del cervello.

Caratteristica fondamentale che contraddistingue un sistema modulare è

che esso risulta computazionalmente autonomo, cioè non scambia informazioni

né con le strutture centrali, né con gli altri moduli, ma segue strategie di calcolo

prefissate e non modificabili. In tal modo, i sistemi di output sono in grado di

operare rapidamente: essi, infatti, oltre ad utilizzare percorsi obbligati, non han-

no bisogno di impiegare tempo nella valutazione delle diverse opzioni possibili.

Fodor non ritiene che il modello modulare sia applicabile alla mente nella

sua globalità; anzi, egli in più occasioni cerca di sottolineare come la modularità

sia ipotizzabile soprattutto per i sistemi periferici, quelli che hanno il compito di

elaborare l'informazione in modo da renderla accessibile ai sistemi centrali. I si-

stemi centrali, per le loro caratteristiche di complessità e di necessario inter-

scambio reciproco di informazioni, non sarebbero pertanto compatibili con

un'organizzazione strutturata per moduli.

2.5 Come si apprende: gli stili cognitivi

Una posizione differente, rispetto a quelle sopra considerate, viene invece

sostenuta da quei ricercatori che sono più attenti alle differenze nei modi in cui

le persone pensano e apprendono. Rispetto ad esempio a come i bambini ap-

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prendono a scuola, non si focalizzano sui risultati, ma sulle preferenze eviden-

ziate dai bambini nella scelta di determinate procedure rispetto ad altre in diver-

se attività didattiche. Queste diverse preferenze, che divengono modalità diffe-

renti di apprendere, non sarebbero il segno di una maggiore o minore intelligen-

za, ma di diversi stili di pensiero.

La prova più immediata dell‘esistenza di differenze qualitative nei processi

cognitivi la si rileva osservando come persone, sostanzialmente di simili capaci-

tà intellettive generali, affrontino determinati compiti in maniera diversa.

A livello percettivo, alcune persone osservano maggiormente certi ele-

menti dell‘ambiente: ad esempio si soffermano sulle cose, altri sulle persone, sui

dettagli, sull‘insieme, sui colori ecc.

A livello di ragionamento vengono utilizzati svariati modi di procedere più

o meno sistematici, globali, visualizzanti, legati alla formulazione di ipotesi o

all‘utilizzo del pensiero ad alta voce.

In letteratura psicologica parliamo di stili cognitivi, stili di apprendimento,

approcci all'apprendimento, strategie di apprendimento e metacognizione.

Stile cognitivo è un‘espressione più agile e flessibile che tiene conto del

fatto che la propensione ad affrontare i compiti cognitivi coerentemente con un

certo stile; ciò non esclude che il soggetto possa compiere vari processi anche

con lo stile opposto (Antonietti, 1998)

La definizione stile cognitivo è stata utilizzata tutte le volte in cui si sono

raggruppati i soggetti in ―tipi‖ distinti non tanto per il possesso di maggiori o

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minori abilità, ma per modalità diverse nell‘affrontare determinati compiti co-

gnitivi.

Secondo Antonietti lo stile cognitivo è una modalità di elaborazione

dell‘informazione che si manifesta talora in compiti e in settori diversi del com-

portamento, ovvero la tendenza generale del soggetto ad adottare strategie di un

certo tipo in maniera molto più frequente di altre.

In ambito educativo lo stile cognitivo è stato differenziato dal concetto di

―abilità‖. Possiamo considerare le abilità ciò che permette a un individuo di ese-

guire certi processi mentali.

L‘analisi delle differenze negli stili cognitivi ha spostato l‘attenzione dalla

quantità della abilità alla sua qualità.

Quali sono le differenze tra abilità e stili?

Le abilità riguardano il contesto e il livello di cognizione (quanto?) mentre

gli stili riguardano la modalità (come?).

L‘abilità rinvia alla misurazione in termini di accuratezza e concretezza

delle risposte (se pensiamo in termini di livello procediamo in verticale: da B

dobbiamo arrivare ad A) mentre lo stile implica l‘individuazione di modalità

dominanti di risposta (immaginiamo due poli opposti e lungo un continuum an-

diamo a rilevare quanto la persona propende per l'uno o l'altro polo).

L‘abilità è unipolare, gli stili sono bipolari, cioè si postulano due poli op-

posti (globale/analitico; visuale/verbale) e si misura lungo una sorta di contin-

num la propensione di un individuo verso l'una o l'altra modalità.

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Le abilità hanno un valore in assoluto, mentre gli stili hanno un valore in

relazione alla natura di un compito cognitivo. Le abilità sono specifiche di un

settore, gli stili sono pervasivi. Le abilità facilitano l‘esecuzione di un compito in

un‘area specifica, gli stili hanno funzioni di organizzazione e controllo del fun-

zionamento cognitivo.

Gli stili sono modalità di funzionamento mentale relativamente stabili e

"trasversali" ai vari domini di attività psichica, sono correlati con la personalità e

riflettono il modo in cui chi apprende elabora l‘informazione (Antonietti, 1998;

Antonietti, Cantoia, 2000)

Gli attributi fondamentali degli stili sono la costanza e la stabilità. Il bam-

bino apprende con delle costanze, delle regolarità, degli aspetti di stabilità che

dovrebbero essere "trasversali" alle varie aree disciplinari, che evidenziano il

modo generale con cui il bambino apprende in tutti i domini.

Qual è il rapporto tra stile cognitivo e strategie?

La predisposizione ad attivare per un determinato genere di compiti che la

persona è chiamata a svolgere, particolari classi di strategie è denominata ap-

proccio o orientamento all'apprendimento.

Quando matura la tendenza a impiegare il medesimo genere di strategie,

(indipendentemente dalle caratteristiche del compito, del materiale, nei vari con-

testi in cui l'individuo si trova a operare) l‘individuo sviluppa un particolare sti-

le. Vi è, quindi. uno stretto legame tra stile cognitivo e strategia cognitiva. Pos-

siamo dire di essere in presenza di uno stile cognitivo tutte le volte in cui si evi-

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denzia una tendenza costante e stabile nel tempo ad usare una determinata classe

di strategie.

La nozione di strategia cognitiva si riferisce alla serie di procedure che un

individuo adotta per sua iniziativa di fronte ad un certo compito cognitivo e che

non deve adottare necessariamente.

Messik definisce lo stile come strategia usata coerentemente in una classe

di compiti, dove per strategia si intende un piano di azioni composto da tattiche

o mosse organizzate.

Lo stile cognitivo come modalità di funzionamento cognitivo (pensiero,

memoria, percezione) riflette regolarità nella processazione dell‘informazione e

si sviluppa intorno a orientamenti sottostanti alla personalità.

Messik individua otto variabili che rappresentano stili cognitivi:

ampiezza della categorizzazione: preferenza per l‘assegnazione di

oggetti e eventi a categorie ampie o ristrette.

complessità cognitiva: differenze nella tendenza a concettualizzare le

esperienze e gli eventi in modo più o meno articolato e

multidimensionale.

dipendenza/indipendenza dal campo: grado con cui la percezione o

comprensione dell‘informazione è influenzata dal campo percettivo o

dal contesto in cui l‘informazione è collocata.

livellamento/acutizzazione: i soggetti livellatori tendono a rendere

uguali nel ricordo oggetti e eventi simili ma non identici; gli aguzzatori

tendono ad accentuare le diversità.

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esame generale/messa a fuoco: riguarda le differenze nell‘estensione e

intensità dell‘attenzione.

convergenza/divergenza: tendenza dell‘individuo a cercare soluzioni

corrette e convenzionali ai problemi, rispetto alla preferenza per

soluzioni molteplici e non convenzionali.

automatizzazione: abilità ad eseguire semplici compiti

automaticamente; non è una dimensione bipolare.

riflessività/impulsività: tendenza dei bambini a inibire le risposte

immediate e a riflettere sull‘accuratezza di una risposta piuttosto che

rispondere impulsivamente.

In seguito anche alle prime rilevazioni effettuate da Messik, che come ab-

biamo visto cerca di identificare alcune differenze rilevabili tra gli individui, in

proposte più recenti relative agli stili di pensiero, sono stati individuati due op-

posti tipi di approccio che si possono assumere quando ci si trova di fronte ad

una situazione nuova. Si può cercare di riportare tali situazioni ad altre più fami-

liari, in modo da poter applicare strategie consolidate, oppure viverle come sfide

che spingono verso il cambiamento.

A questo riguardo si possono ricordare due stili cognitivi, per certi aspetti

simili.

Il primo è lo stile adattatore-innovatore teorizzato da Kirton.

Gli adattatori sono coloro che hanno come principale obiettivo l'efficienza

e di fronte alla novità procedono cautamente, esaminando un aspetto per volta e

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attenendosi all'applicazione di regole e principi dati, senza metterli in discussio-

ne.

Gli innovatori, al contrario apprezzano le possibilità di trasformazione che

la novità implica e sono disposti ad avventurarsi, senza le rassicurazioni che

provengono dalle abitudini, in territori ignoti.

Il secondo stile in questione è quello assimilatore-esploratore, (Kaufmann,

Martinsen), basato sui concetti piagetiani di assimilazione e accomodamento.

Assimilatore è colui che applica schemi mentali tradizionali a situazioni

nuove, in questo modo perseguendo il massimo di parsimonia cognitiva

Esploratore è colui che trasforma invece i propri schemi mentali per adat-

tarli alle novità che incontra.

Poi ritroviamo uno stile molto interessante definito stile di pensiero sini-

stro e pensiero destro (Torrance), chiamato così a causa della classica differen-

ziazione emisferica.

Il pensiero sinistro collegato alle competenze ritenute peculiari dell'emi-

sfero cerebrale sinistro sarebbe proprio dei bambini legati ai modi tradizionali e

routinari di affrontare le situazioni, portati all'uso della logica e del codice verba-

le, tendenti a seguire procedure analitiche.

Il pensiero destro sarebbe, invece, tipico dei bambini che sviluppano pro-

spettive originali per affrontare le situazioni, elaborano molte idee contempora-

neamente, fanno affidamento all'intuizione, alle emozioni, e alle sensazioni em-

patiche, tendono a ragionare in termini visivi, preferiscono l'azione alla riflessio-

ne, manifestano predilezioni per l'espressività di tipo artistico.

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Lo stile di pensiero destro/sinistro - molto simile soprattutto per ciò che

concerne la preferenza verso il codice visivo vs codice verbale - viene anche

chiamato stile cognitivo visualizzatore/verbalizzatore. E' forse lo stile maggior-

mente indagato ed utilizzato dagli insegnanti. A questo proposito, nella finestra

di approfondimento che segue, presentiamo un questionario che può essere uti-

lizzato dai docenti e dagli studenti e che consente di rilevare e soprattutto riflet-

tere sul modo in cui tendiamo a rappresentarci le conoscenze.

Strumento 1

Questionario per la rilevazione dello stile cognitivo5

1. Dovendo memorizzare un numero telefonico:

a) mi raffiguro nella mente le sue cifre,

b) ripeto mentalmente le sue cifre.

2. Dovendo utilizzare o mettere in funzione un oggetto o, uno

strumento:

a) preferisco avere a disposizione la descrizione scritta delle opera-

zioni da, compiere,

5 Il questionario riportato, originariamente era costituito da 70 item e comprendeva anche una possibilità di risposta intermedia, successivamente eliminata perchè troppo spesso scelta dagli individui che così facendo evitavano di posizionarsi e quindi di scegliere nell'uno o nell'altro ca-so risposte di tipo visuale o verbale. La versione qui riportata è composta da 35 item ed è stata messa a punto e pubblicata da Antonietti (1998).

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b) preferisco avere a disposizione una sequenza di illustrazioni che

spieghi le operazioni da compiere.

3. Quando devo andare in un luogo che non so dove si trovi e chiedo

informazioni a un passante:

a) mi creo nelle mente, in base alle indicazioni fornitemi dal passante,

l'immagine della strada che devo percorrere,

b) memorizzo le indicazioni verbali che il passante mi dà.

4. Quando studio:

a) cerco di rappresentare graficamente quanto ho letto facendo degli

schemi sul libro o sul quaderno,

b) riassumo - sul libro o sul quaderno - con parole o frasi quanto ho

letto.

5. Non mi ricordo dove ho posato un oggetto:

a) elenco mentalmente le azioni che ho compiuto in precedenza o i

luoghi m cui sono stato al fine di individuare il possibile posto in

cui ora l'oggetto,

b) visualizzo mentalmente le azioni che ho compiuto in precedenza o

i luoghi in cui sono stato al fine di individuare il possibile posto in

cui ora l'oggetto.

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6. Quando lascio vagare liberamente la mi a mente:

a) mi capita di compiere fantasie ad occhi aperti in cui mi rappresento

visivamente situazioni future o immaginarie,

b) mi capita di compiere mentalmente dei discorsi su situazioni futu-

re.

7. Quando devo recarmi con i mezzi di trasporto in un luogo noto:

a) faccio mentalmente l'elenco dei mezzi che prenderò e delle relative

fermate,

b) mi creo nella mente l'immagine dell'itinerario da compiere e il per-

corso che compirò con i vari mezzi.

8. Quando studio un fenomeno fisico, un fatto storico o un ambiente

geografico:

a) cerco di crearmi nella mente un'immagine della situazione che è

descritta nel testo,

b) cerco di fissare nella mente le espressioni verbali relative alla si-

tuazione che è descritta nel testo.

9. Quando leggo un racconto:

a) immagino visivamente la situazione e i personaggi descritti,

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b) seguo attentamente la sola descrizione verbale della situazione e

dei personaggi.

10. Quando mi descrivono un fenomeno o un fatto

a) gradisco che mi presentino illustrazioni o grafici o una simulazione

visiva (per esempio un filmato ecc.),

b) gradisco che me lo presentino esclusivamente in termini verbali, a

voce o per iscritto.

11. Quando prendo appunti:

a) registro per esteso i contenuti scrivendo frasi complete,

b) uso freccette, sottolineature, grafici ecc.

12. Quando devo disegnare un oggetto:

a) ripeto mentalmente le sue caratteristiche,

b) immagino l'oggetto come in una fotografia.

13. Mi piace risolvere giochi enigmistici:

a) di tipo verbale, come le parole crociate, gli anagrammi, i critto-

grammi ecc.,

b) di tipo visivo, come i confronti tra immagini, la ricerca di particola-

ri nascosti, i labirinti ecc.

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14. Quando qualcuno mi racconta qualcosa:

a) mi si imprimono in mente le immagini visive di quanto mi si sta ri-

ferendo,

b) mi si imprimono in mente le parole con cui viene descritto quanto

mi si sta riferendo.

15. Quando devo memorizzare qualcosa:

a) cerco di costruire rime, filastrocche, sequenze di parole ecc.,

b) cerco di formare immagini o associazioni di immagini.

16. Quando devo eseguire delle operazioni aritmetiche a mente:

a) mi immagino visivamente i numeri come se fossero scritti davanti

a me,

b) ragiono in termini astratti.

17. Prima di addormentarmi mi capita:

a) di ripetere verbalmente fatti della giornata,

b) di rievocare visivamente fatti della giornata

18. Quando ascolto o leggo parole particolari:

a) mi vengono in mente parole associate a quella parola,

b) mi vengono in mente immagini che si riferiscono a quella parola.

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19. Trovo la soluzione di un problema:

a) usando formule matematiche, principi logici, concetti astratti, ecc.,

b) usando disegni, schemi, figure, ecc.

20. Dopo aver ascoltato la descrizione relativa a una persona che non

conosco:

a) ricordo l'immagine che mi sono fatta del suo aspetto,

b) ricordo le espressioni verbali che ne hanno descritto l'aspetto.

21. Quando richiamo dei contenuti memorizzati:

a) mi tornano alla mente le parole esatte con cui essi erano riportati

nel testo,

b) vedo nella mia mente il punto esatto della pagina dove erano ripor-

tati.

22. Quando studio i libri scolastici:

a) sottolineo i testi con colori diversi,

b) scrivo sui margini delle pagine parole o frasi che riassumono il

contenuto del testo.

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23. Quando voglio crearmi un'idea di un periodo storico o di un am-

biente geografico:

a) preferisco prendere in considerazione documenti illustrativi (dipin-

ti, stampe, cartine ecc.),

b) preferisco prendere in considerazione documenti letterari.

24. Quando studio un libro:

a) faccio attenzione alle eventuali figure, quali diagrammi, schemi

ecc.,

b) mi concentro sul testo scritto.

25. Quando devo predisporre un itinerario da percorrere (per una gi-

ta, una vacanza ecc.) cerco di memorizzare:

a) la relativa cartina o mappa,

b) la sequenza dei luoghi da cui passare.

26. Quando devo valutare il tempo necessario per raggiungere un luogo:

a) visualizzo mentalmente il percorso che dovrò compiere e immagi-

no di seguirlo,

b) richiamo alla mente esperienze precedenti e relativi tempi di per-

correnza (per esempio «Il tal giorno sono partito alle 10 e sono ar-

rivato alle 10.30, ma c'era poco traffico ecc.»).

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27. Quando devo spiegare a una persona il percorso. da seguire prefe-

risco:

a) fare una dettagliata descrizione a voce,

b) fare degli schizzi o degli schemi.

28. Quando devo incontrare una persona che non conosco:

a) richiamo alla mente i discorsi che ho sentito fare al riguardo,

b) visualizzo nella mia mente il suo possibile aspetto.

29. Quando devo risolvere un problema:

a) faccio molta attenzione ai significati precisi delle parole,

b) faccio disegnini, schizzi, schemi ecc.

30. Nello scegliere il luogo dove fare una gita o trascorrere una vacan-

za:

a) faccio attenzione alle illustrazioni dei luogo e cerco di immaginar-

melo visivamente,

b) faccio attenzione a quanto mi è stato detto o a quanto ho letto al ri-

guardo.

31. Quando devo capire perché un apparecchio non funziona più:

a) cerco di immaginarmi il suo meccanismo interno per individuare la

possibile ragione del guasto,

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b) cerco di richiamare alla mente le nozioni che mi possono aiutare

per ripararlo.

32. Quando devo stabilire se un mobile o un oggetto è di dimensioni

tali da poter essere collocato in una certa posizione:

a) valuto "ad occhio" immaginandomi l'oggetto nel luogo destinato-

gli,

b) procedo utilizzando il metro.

33. Dovendo spiegare a una persona il funzionamento di un apparec-

chio:

a) preferisco descriverlo con chiarezza a voce,

b) preferisco fare degli schizzi.

34. Dovendo valutare quale di due gruppi di elementi è più numeroso

(per esempio, in quale coda c'è più gente):

a) faccio un confronto "ad occhio" tra le due situazioni,

b) conto gli elementi.

35. Se devo programmare una serie di azioni da compiere (per esem-

pio, gli acquisiti al supermercato):

a) le elenco mentalmente,

b) le visualizzo mentalmente.

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Punteggio: Sono considerate risposte visuali (o visive) le seguenti:1A –

2B – 3A – 4A – 5B – 6A – 7B – 8A – 9A – 10A – 11B – 12B – 13 B – 14 A –

15 A – 16 A - 17 B – 18 B – 19 B – 20 A – 21 B – 22 A – 23 A – 24 A – 25 A –

26 A – 27 B – 28 B – 29 B- 30 A – 31 A – 32 A – 33 B – 34 A – 35 B. Le altre

sono ovviamente risposte di tipo verbali.

Per identificare la tendenza del soggetto è necessario contare su 35 item

quanti item visuali e quanti item verbali vengono scelti. Se i punteggi ottenuti

sono molto simili (ad esempio 17 visuali e 18 verbali) si viene considerati ―inte-

grati‖. Questo significa che non è emersa una tendenza, ma che si utilizzano le

strategie che fanno riferimento ad entrambi i poli considerati.

2. 6 Gli stili cognitivi in prospettiva evolutiva

Lo stile cognitivo è legato allo sviluppo cognitivo del bambino e in alcuni

casi la tendenza verso uno stile piuttosto che un altro può cambiare con l‘età .

Iniziamo con l'analizzare uno stile forse poco noto in letteratura, ma molto

utilizzato dagli insegnanti (nido, scuola dell'infanzia e scuola primaria). Si tratta

dello stile cognitivo visuale/tattile.

Alcuni individui preferiscono elaborare l'informazione attraverso manipo-

lazioni visive e spaziali, mentre altri, specialmente i bambini più piccoli, impa-

rano maggiormente attraverso l'interazione tattile (per esempio toccando o te-

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nendo in mano). Tra gli adulti, lo stile percettivo maggiormente dominante è

quello visuale.

L'importanza della percezione tattile cambia con l'età; sono stati riscontrati

effetti evolutivi, il che significa che crescendo gli individui tendono a diventare

più visuali e lo stile percettivo tattile diviene meno importante.

Altro stile che può dipendere dall‘età è lo stile livellatore/puntualizzatore.

Questo stile descrive come gli individui percepiscono e memorizzano le

informazioni.

Nella rievocazione di una storia i livellatori tendono a condensare gli ele-

menti e a semplificare, poiché integrano l‘informazione più prontamente in me-

moria.

I puntualizzatori tendono a mantenere chiaramente le differenze tra i vari

elementi e i dettagli di una storia vengono conservati all‘interno della struttura

originaria.

Durante lo sviluppo gli individui tendono a cambiare dallo stile livellatore

al puntualizzatore.

Lo stile impulsivo/riflessivo definisce un continuum molto presente nei

bambini.

Questo stile misura la tendenza della persona a inibire le risposte iniziali e

a riflettere sull‘accuratezza della risposta piuttosto che la tendenza a rispondere

impulsivamente. Questa tendenza emerge soprattutto quando il compito contiene

delle incertezze. Gli impulsivi rispondono velocemente e commettono più errori,

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mentre i riflessivi hanno tempi di risposta più lunghi e commettono pochi errori

di performance.

Le differenze tra bambini impulsivi e bambini riflessivi sembra essere

connessa alle differenze legate alla preoccupazione rispetto all‘errore. Per evita-

re l‘errore, i riflessivi prendono più tempo per considerare le soluzioni alternati-

ve. Confrontati con i riflessivi, gli impulsivi sono considerati più ansiosi e caren-

ti di fiducia in loro stessi.

Queste caratteristiche potrebbero dipendere dallo stress indotto

dall‘incertezza e dall‘ambiguità della situazione. I bambini impulsivi sono ansio-

si perché hanno paura di essere giudicati incompetenti se la loro risposta è lenta.

Lo stile visualizzatore/verbalizzatore descrive la preferenza individuale

nell‘elaborare le informazioni in modo visivo piuttosto che verbale.

Alcuni individui preferiscono elaborare le informazioni attraverso la vista,

usando grafici, diagrammi o illustrazioni; mentre altri preferiscono le parole, at-

traverso la lettura o l‘ascolto.

I visualizzatori tendono a pensare più concretamente usando

l‘immaginazione e personalizzando l‘informazione.

Quando apprendono, preferiscono grafici, diagrammi, disegni aggiunti al

materiale testuale di base.

I verbalizzatori preferiscono elaborare l‘informazione attraverso le parole,

con la lettura o l‘ascolto. Sono più oggettivi rispetto all‘informazione che stanno

apprendendo.

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Molti studenti possono ugualmente usare informazioni verbali o visuali per

apprendere.

2.7 Gli stili di apprendimento: una finestra di osservazione per l'in-

segnante

Con l'espressione stile di apprendimento gli studiosi intendono riferirsi alla

tendenza di uno studente a preferire un certo modo di apprendere e di studiare.

E' possibile identificare diverse tipologie di comportamenti che le persone met-

tono in atto quando sono coinvolte in situazioni di apprendimento. Vi sono ad

esempio studenti cauti e prudenti che non corrono rischi e prediligono indicazio-

ni chiare e metodologie didattiche sequenziali. Altri studenti recepiscono con fa-

cilità informazioni riferite a oggetti concreti, come fatti e dati, altri si trovano a

propri agio con concetti astratti, ecc. Gli stili di apprendimento, a differenza de-

gli stili cognitivi che sono trasversali ai vari domini dell'attività cognitiva, sono

stati indagati prevalentemente in situazioni di apprendimento, all'interno delle

classi e con studenti impegnati nello svolgimento delle attività, nella risoluzione

di un problema o nella pianificazione di un compito.

Iniziamo con lo stile di apprendimento proposto da Pask e denominato sti-

le di apprendimento "basato sulla comprensione" e "basato sulle operazioni“.

Questo stile, come abbiamo detto. Si riferisce all‘apprendimento scolastico

e chiama in causa due classi di strategie di apprendimento: olistiche e seriali

(Pask).

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Lo stile basato sulla comprensione (olistico) consiste nel collegamento di

varie idee all'interno di una unica struttura concettuale di riferimento.

L‘individuo sa stabilire rapporti, compiere generalizzazioni, individuare le fonti

da cui provengono le informazioni. Ha come obiettivo quello di giungere ad una

assimilazione personale delle esperienze, ragione per cui mostra una predilezio-

ne per gli esempi concreti e collega i contenuti che incontra alle proprie creden-

ze.

Lo stile basato sulle operazioni (seriale) consiste nell'impiego di appro-

priate procedure e prove per verificare le idee, ma in questo l'individuo viene a

possedere un insieme disarticolato di competenze operative e di schemi mentali

che non sa coordinare in strutture organiche.

L'apprendimento dà quindi luogo all'assimilazione di concetti frammentari.

La distinzione tra le due tipologie è questione di grado, essendo entrambe richie-

ste da qualunque forma di apprendimento. Uno studente sarà olista o seriale a

seconda di quale delle due classi di strategie tende a usare maggiormente.

Pask prevede l'esistenza di un terza tipologia denominata versatile: i versa-

tili sanno passare da una strategia seriale a una olistica o viceversa secondo le si-

tuazioni di apprendimento in cui si trovano.

In letteratura ritroviamo poi la distinzione tra stile di apprendimento su-

perficiale e profondo (Entwistle).

Anche questo stile si basa sulla contrapposizione tra comprensione perso-

nale e assimilazione riproduttiva.

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I discenti superficiali sono quelli che sulla base della paura di fallire ten-

dono a una acquisizione meccanica dei contenuti basata sulla semplice memo-

rizzazione e cercando di compiere il minimo sforzo.

I discenti profondi mirano a cogliere il massimo significato nei contenuti

da apprendere nutrendo per essi un personale interesse e cercando di coglierne le

idee-chiave e i principi.

Anche in questo caso esisterebbe un orientamento intermedio, denominato

strategico, che risulta dalla combinazione di elementi superficiali e profondi.

Gli studenti strategici sono quelli che, motivati al successo scolastico, san-

no cogliere le attese e i criteri di valutazione degli insegnanti e sulla base di que-

sti indici scelgono le strategie di apprendimento più adeguate distribuendo ocu-

latamente l'impegno.

Solo l'apprendimento profondo rispecchia un processo naturale.

L‘apprendimento superficiale e quello strategico sono artefatti creati dalla scuola

attraverso il sistema di valutazione che viene in genere adottato e che spinge a

impiegare strategie che non rispondono al reale bisogno di conoscenza dell'indi-

viduo, ma solo al raggiungimento di certificazioni istituzionali (voto, promozio-

ne).

Ricordiamo inoltre il modello di Kolb. L'autore nel 1974 propone un mo-

dello che si pone l'obiettivo di illustrare il processo che sta alla base dell'appren-

dimento. Questa teoria pone l'accento sul ruolo fondamentale che gioca l'espe-

rienza nel processo di apprendimento, integra il pragmatismo filosofico di

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Dewey, la psicologia sociale di Lewin e l'epistemologia genetica sullo sviluppo

cognitivo di Piaget.

Kolb individua due assi per classificare il modo in cui gli individui affron-

tano le situazioni e usano la propria esperienza.

Il primo asse si riferisce alla preferenza per l'osservazione riflessiva (guar-

dare) o per la sperimentazione attiva (fare).

Il secondo asse alla preferenza per l'esperienza concreta (sentire) o per la

concettualizzazione astratta (pensare).

Per Kolb il processo di apprendimento ha un andamento circolare in cui

tutte le quattro citate caratterizzazioni entrano in gioco. Esso prende avvio dall'e-

sperienza concreta su cui vengono compiute le osservazioni riflessive, che con-

ducono il discente a concettualizzazioni astratte; queste ultime vengono poi mes-

se alla prova attraverso la sperimentazione attiva, per verificare se si adattano a

nuove situazioni. In questo modo attraverso ulteriori esperienze attive, il proces-

so ricomincia.

Dalla combinazione dei due assi proposti da Kolb scaturiscono quattro ca-

tegorie di discenti:

gli accomodatori: amano essere coinvolti in nuove esperienze, e sono

disposti a rischiare, tendono a portare a compimento i progetti,

risolvono i problemi con procedure per prove ed errori di tipo intuitivo,

si adattano rapidamente a situazioni mutevoli, sanno trattare con le

persone, da cui dipendono per ottenere le informazioni;

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i divergenti: sono dotati di abilità immaginative e capaci di produrre

molte e diversificate idee, con vasti interessi culturali, sensibili alla

dimensione dei sentimenti e dei valori;

i convergenti: riescono bene nei test tradizionali di intelligenza, nella

soluzione di problemi, nella presa di decisione, nella applicazione

pratica delle idee e controllano l'espressione delle proprie emozioni,

preferiscono avere a che fare con problemi tecnici piuttosto che con le

persone;

gli assimilatori: tendono all'elaborazione teorica e particolarmente abili

nel compiere generalizzazioni a partire da casi particolari.

Meno noto in ambito educativo, rispetto al modello di Kolb, il modello di

Gregorc descrive i modelli preferenziali nell‘apprendimento. Questo si realizza

grazie alla percezione e alla procedura di elaborazione delle informazioni in en-

trata.

La preferenza percettiva si riferisce all‘acquisizione delle informazioni che

può avvenire in modo astratto o concreto (o combinato).

La percezione concreta si riferisce all‘abilità di elaborare gli aspetti fisici

dell‘informazione attraverso i sensi.

La percezione astratta si riferisce all‘abilità di elaborare le informazioni at-

traverso il ragionamento e l‘intuizione, spesso non visibili ai nostri sensi fisici.

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La preferenza nella procedura di elaborazione delle informazioni si riferi-

sce al modo con cui la persona ordina, dà priorità e usa l‘informazione, che può

avvenire in modo sequenziale o casuale (o combinato).

Uno stile sequenziale utilizza uno schema lineare, organizzato passo per

passo.

Uno stile casuale coinvolge l‘organizzazione dei dati in un formato com-

binato che collega le informazioni in differenti modi.

I modelli di percezione e di procedura di elaborazione delle informazioni

si combinano in quattro modalità di base:

concreto sequenziale

astratto sequenziale

concreto casuale

concreto sequenziale.

Queste modalità aiutano la persona a correlarsi con il mondo. L‘individuo

può elaborare le informazioni in ognuno di questi quattro modi, però vi è una

predisposizione per l'uno o per l'altro. Queste predisposizioni offrono punti di

vista psicologici, modelli di pensiero , organizzazioni della mente , valori e modi

di espressione del Sé .

Il concreto sequenziale: preferisce ricercare le informazioni attraverso

esperienze personali e le elabora in modo logico e sequenziale.

I cinque sensi sono molto sviluppati e usati frequentemente. Utilizza pro-

cessi di pensiero del tipo ―se-allora‖. Apprezza la logica, è ben organizzato e ri-

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cerca la perfezione. Ricerca inoltre l‘autorità e una guida nell‘ambiente di ap-

prendimento. Spesso ha memoria fotografica.

Il concreto casuale: fa esperienza attraverso le idee e i concetti e apprende

per prove ed errori. Gli piace esplorare un ambiente ricco di stimoli. Nelle espe-

rienze di soluzione di problemi non strutturate, raccoglie le informazioni velo-

cemente e ha ampie intuizioni nel tentativo di trovare una idea che unifichi e

metta in relazione i concetti con il mondo reale. Ciò può portarlo a saltare a con-

clusioni veloci. Si muove facilmente dai fatti alla teoria. Non ama l‘intervento

dell‘autorità.

L'astratto sequenziale: è portato nell‘area della codifica dei simboli verba-

li, scritti e delle immagini. Raccoglie e organizza una gran quantità di immagini

mentali concettuali, e confronta le informazioni lette, ascoltate o viste in forma

grafica o pittorica. Preferisce presentazioni razionali e sequenziali e si basa su

teorie, elaborando costruzioni mentali. L‘informazione deve essere ben organiz-

zata e significativa. Sintetizza le idee e produce nuovi concetti pervenendo a

nuove conclusioni. Deferisce all‘autorità e sopporta poco le distrazioni.

L'astratto casuale: è caratterizzato da una profonda consapevolezza del

comportamento umano e dall‘abilità di valutare e interpretare l‘atmosfera e gli

umori. Globalizza l‘esperienza di apprendimento e apprende meglio in una at-

mosfera non strutturata che conduce alla discussione di gruppo, ad attività mul-

tisensoriali, e in ambienti affollati. Percepisce e assorbe informazioni global-

mente e valuta attraverso le esperienze personali ed emotive.

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Vede le relazioni tra le persone, idee, posti e cose. E‘ riflessivo e ha biso-

gno di tempo per elaborare i dati prima di rispondere.

2.8 Valutare gli stili: una proposta di integrazione

E‘ importante per un insegnante conoscere e valutare gli stili. Antonietti

identifica almeno per tre motivi: diagnostici, formativi e orientativi.

Aspetti diagnostici: individuare il modo di apprendimento di un alunno

può permettere di comprendere meglio se le difficoltà che egli manifesta sono a

carico principalmente delle abilità o invece degli stili.

Un bambino può evidenziare problemi nel percorso scolastico non perché

non possiede le adeguate competenze, ma perché è poco incline a sfruttarle.

Valenze orientative: la conoscenza dei modi di apprendimento degli alunni

può permettere all'insegnante di adeguare la propria metodologia didattica agli

stili dei soggetti cui si rivolge.

Gli apprendimenti più profondi e duraturi si hanno quanto vi è corrispon-

denza tra stile del discente e modalità di insegnamento del docente (Pask).

Ripercussioni di ordine formativo: promuovere nel bambino la consapevo-

lezza dei propri stili costituisce un contributo alla maturazione dell'autocono-

scenza. La conoscenza del proprio stile di pensiero è parte della più generale

competenza metacognitiva.

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Si tratta, quindi, di mettere in luce limiti e punti di forza, affinché l‘alunno

sia consapevole sia delle proprie potenzialità, sia dei rischi cui va incontro quan-

do fa affidamento alle proprie preferenze di elaborazione cognitiva.

I vari stili hanno un valore funzionale che varia secondo i contesti e gli

obiettivi: uno stile non è in assoluto preferibile all'altro, dato che quelli che sono

i vantaggi offerti da una modalità di apprendimento possono diventare dei limiti

in un'altra situazione. La finalità della scuola non è quella di incentivare esaspe-

ratamente le attitudini dei discenti e quindi evitare l'ipertrofia nel bambino di una

polarità dello stile apprenditivo e l'atrofia della polarità opposta.

Si deve dotare l'alunno di più risorse in modo che egli sappia sfruttarle di-

versamente secondo le situazioni , individuando di volta in volta la modalità di

apprendimento più pertinente e sapendo spostarsi flessibilmente da un tipo di

strategia all'altra, essendo riconosciuto che tale mobilità cognitiva è il segno di-

stintivo della capacità di apprendere .

2.9 La metacognizione: da quello che pensi a come lo pensi

La metacognizione rappresenta un concetto piuttosto recente sviluppato

all‘interno della psicologia che si occupa dei processi cognitivi e

dell‘apprendimento. Seppur il concetto sia complesso sul piano teorico e speri-

mentale, ha però una forte valenza operativa nel campo delle difficoltà di ap-

prendimento e nell‘ambito scolastico, dove l‘attuazione di interventi di tipo me-

tacognitivo ha comportato miglioramenti visibili sul piano pratico.

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Anche in assenza di difficoltà, l‘approccio metacognitivo permette un ap-

prendimento più profondo e generalizzabile (Antonietti).

2.9.1 Finestra di approfondimento

Tappe nello sviluppo della competenza metacognitiva

1. Il primo passo richiesto perché si possa iniziare a parlare di metacognizione è

ovviamente dato dalla separazione tra mondo fisico esterno e mondo mentale

interno.

2. Acquisita questa distinzione, si tratta poi per il bambino di riconoscere in sé e

attribuire agli altri precisi stati mentali (teorie della mente), distinguendo le varie

funzioni psichiche coinvolte.

3. Infine, si arriva ad attribuire a cause mentali le conseguenze di certi comportamenti.

Con il crescere dell‘età i bambini sono maggiormente in grado di individuare dentro

la mente i motivi di certe difficoltà cognitive e le possibilità per trovarvi rimedio. Per

esempio, per quanto riguarda la disattenzione, si passa dall‘attribuirne la causa alla

presenza di stimoli esterni disturbanti al riconoscimento della propria mancanza di

interesse o di concentrazione.

Con l‘avanzare dell‘età i bambini non soltanto tendono a ‗localizzare‘ maggiormente

nella mente le dinamiche di certi fenomeni, ma ampliano anche la propria conoscenza del

funzionamento psichico, venendo a conoscenza di una gamma di strategie mentali più vasta,

riuscendo a discriminare più finemente le varie strategie e a riconoscerne le peculiarità, mi-

gliorando la capacità di predire i risultati delle proprie operazioni intellettive.

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2.9.2 Finestra di approfondimento

Lavoro scolastico e metacognizione

In relazione alle difficoltà che si incontrano nel lavoro scolastico, in una certa area

disciplinare, si possono registrare gradi crescenti di consapevolezza metacognitiva:

Livello non-metacognitivo in cui gli alunni non sanno indicare alcuna ragione delle

proprie difficoltà (la tal disciplina è difficile perché si sbaglia sempre)

Pre-consapevolezza in cui si ha almeno la descrizione di comportamenti collegabili

alle difficoltà(la tal disciplina è difficile perché bisogna prendere appunti velocemente)

Prima consapevolezza metacognitiva (la tal materia è difficile perché bisogna

apprendere dei contenuti che non si comprendono subito)

Si ha una consapevolezza più analitica quando lo studente è in grado di far riferimen-

to alla mente individuando i motivi causanti di certi processi:

motivazione esterna: ―la tal disciplina è difficile perché il testo è scritto con un

linguaggio ostico‖

motivazione interna: ‖la tal disciplina è difficile perché bisogna ricordarsi molte

informazioni ed io ho poca memoria‖

I tre livelli della metacognizione

Come vedremo nel corso del capitolo il costrutto teorico di metacognizione è molto

complesso, ma ha delle ricadute molto importanti in ambito psicopedagogico perchè rende

gli allievi più consapevoli riguardo l'attività della mente e la possibilità di migliorare e

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potenziare i propri processi di pensiero. Per renderlo facilmente più comprensibile,

riportiamo lo schema dei tre livelli metacognitivi ripreso anche da autori molto importanti

come ad esempio Ianes e Cornoldi.

Iniziamo dal livello 1 che si riferisce all'insieme delle conoscenze sul

funzionamento cognitivo in generale

L‘insegnante fornisce all‘alunno informazioni generali sui vari processi cognitivi, sui

meccanismi che li rendono possibili, sui limiti che condizionano le prestazioni mentali, ecc.

Ad esempio si informa l‘alunno sulle caratteristiche della memoria, le varie strategie di ela-

borazione e immagazzinamento delle informazioni, i vari tipi di memoria, le strategie di cui

dispone l‘essere umano per migliorare le sue prestazioni mnestiche.

Lo stesso input teorico può essere fornito per altri aspetti della vita mentale: la per-

cezione, l‘attenzione, i vari tipi di apprendimento, le emozioni, lo sviluppo delle abilità logi-

che e di ragionamento, le abilità di studio, ecc.

All‘interno di queste conoscenze teoriche generali distinguiamo 3 aspetti:

- il funzionamento in generale;

- i limiti del processo stesso (con le variabilità interindividuale);

- la possibilità di influenzare attivamente lo svolgimento del processo cognitivo (at-

traverso esperienze che lo possono far crescere in estensione e complessità oppure con stra-

tegie di autoregolazione e di aumento dell‘efficacia del processo stesso).

Livello 2: Autoconsapevolezza del proprio funzionamento cognitivo

Ci riferiamo all‘introspezione, all‘ autoanalisi, all‘autoconsapevolezza di ―cosa e co-

me sto pensando valutando, ricordando, ecc.‖ Dalle conoscenze teoriche generali si passa a

quelle più strettamente individuali, si cerca cioè di conoscere il funzionamento dei propri

processi cognitivi e comportamentali, rendendosi conto dei rispettivi punti di forza e di

debolezza.

Livello 3: Uso generalizzato di strategie di autoregolazione cognitiva

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Nel processo di controllo o autoregolazione è utile individuare, anche a scopo opera-

tivo o didattico, alcune operazioni fondamentali. Autoregolare un proprio processo cogniti-

vo significa:

- fissarsi un chiaro obiettivo di funzionalità ottimale del processo stesso, anche in

termini di risultati che deve produrre, oltre che rispetto al come dovrebbe svol-

gersi;

- darsi delle istruzioni e dei suggerimenti per svolgere concretamente le operazioni

tipiche del processo stesso (per esempio scrivere su un foglio una sequenza da ri-

cordare);

- osservare l‘andamento del processo stesso;

- confrontare questi dati con gli obiettivi e gli standard che si erano fissati;

- valutare il proprio operato ed eventualmente operare correzioni e modifiche alle

strategie in corso.

Le strategie possono essere definite come delle procedure potenzialmente consapevo-

li e controllabili e aventi scopi specifici, quali l‘apprendimento.

Secondo Schneider e Pressley (1997) le strategie sono dei processi o sequenze di pro-

cessi che, se messe appropriatamente in relazione al compito, facilitano la prestazione. Ele-

menti importanti sono quindi lo scopo cognitivo l‘elemento di consapevolezza che implica

la possibilità di scelta e di controllo.

Un buon funzionamento metacognitivo consente di trarre il massimo dall‘uso flessi-

bile, articolato e attivo delle diverse strategie. Inoltre, permette di organizzare e adeguare le

strategie alle caratteristiche personali, del compito e della specifica situazione.

Un buon livello metacognitivo, inoltre, influenza positivamente la motivazione ad

apprendere, in quanto chi sa organizzare le varie strategie e applicarle adeguatamente sente

di avere il controllo della situazione e questo stimola motivazioni quali

l‘autodeterminazione e un senso positivo di autoefficacia.

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Negli ultimi anni si sono succedute diverse definizioni di metacognizione

che evidenziano il cambiamento di ottica che ha coinvolto il concetto di appren-

dimento stesso. L‘apprendimento considerato come processo cognitivo in atto,

diviene atto di cognizione riferito a se stesso, con tutte le implicazioni teoriche

ed operative che ne conseguono.

Il concetto di metacognizione ha assunto diverse connotazioni. Ad esem-

pio Brown et al. ritengono che il concetto di ―metacognizione‖ possa assumere

due significati differenti: metaconoscenza e meccanismi di controllo.

La metaconoscenza si riferisce alla conoscenza che un soggetto ha del

proprio funzionamento cognitivo e di quello altrui e al modo con cui divenirne

consapevole e tenerne conto.

Nella mente è presente un primo livello, la cognizione, costituita da conte-

nuti e da processi cognitivi, come le rappresentazioni e le operazioni psichiche

che l‘individuo utilizza per svolgere funzioni quali memorizzare, immaginare,

dedurre, prendere decisioni, e così via.

Vi è poi un ulteriore livello di attività psichica, rappresentato dalla meta-

conoscenza che si riferisce alla consapevolezza e alla conoscenza che si ha di

quanto avviene nella mente. Questo primo significato relativo alla metacogni-

zione è quindi costituito dalla metaconoscenza, ossia dall‘insieme di credenze,

opinioni e convinzioni che una persona elabora sul funzionamento della mente

(per esempio che cosa vuol dire ricordare qualcosa, leggere un brano, stare atten-

ti e così via).

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I processi di controllo si riferiscono al secondo significato di metacogni-

zione, introdotto più recentemente, ovvero quei meccanismi di controllo del fun-

zionamento cognitivo, i quali permettono di guidare e regolare l‘apprendimento

nelle situazioni di risoluzione dei problemi.

I processi di controllo costituiscono l‘aspetto più attivo della metacogni-

zione, che si riferisce alla possibilità di controllare i propri processi di pensiero.

La maggior parte dei meccanismi psichici si attivano in modo automatico,

però ci sono anche meccanismi che possono essere pilotati.

Il soggetto può stabilire se, quando e come dare avvio a una certa strategia,

adattarla alla situazione in cui si trova, modificarla o sostituirla se si rivela in-

soddisfacente e verificarne l‘efficacia.

Conoscenza metacognitiva e processi di controllo sono divenuti due acce-

zioni complementari, in quanto la conoscenza metacognitiva implica

l‘attuazione dei processi di controllo.

Gli autori possono focalizzarsi o sul primo significato, cioè sulla metaco-

noscenza, o sui processi di controllo, ritenendo questi una conseguenza evidente

di un cambiamento a livello di conoscenza metacognitiva e considerando così i

due termini inscindibili.

Analizziamo ora il contributo di Cornoldi che rappresenta in ambito italia-

no forse il più fecondo e noto autore riguardo gli studi di metacognizione.

Secondo Cornoldi la metaconoscenza si riferisce alle idee che un indivi-

duo ha sviluppato sul funzionamento mentale, che includono impressioni, intui-

zioni, nozioni, sentimenti, autopercezioni. L‘attivazione di una determinata stra-

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tegia piuttosto che di un‘altra, a parità di compito e di contesto, può essere dovu-

ta alle caratteristiche della persona, alla valutazione che fornisce del compito e

alla stima del modo che ritiene più idoneo per affrontare quel compito in un de-

terminato contesto.

In funzione della conoscenza metacognitiva vengono attivate le strategie.

Quindi ―valutazione‖ e ―stima‖ sono aspetti della conoscenza metacogniti-

va del soggetto.

Per quanto riguarda la sua struttura, la metaconoscenza è costituita da uni-

tà di informazioni particolari relative a sensazioni, vissuti, esperienze metaco-

gnitive , anche fuggevoli e semicoscienti. E‘ ancorata alla conoscenza del mon-

do: per esempio il soggetto sa che in un determinato contesto ci si comporta in

un certo modo.

Cornoldi, inoltre, usa l'espressione ―atteggiamento metacognitivo‖, per

sottolineare come questo nucleo basilare di conoscenza metacognitiva sia qual-

cosa di più di un semplice insieme di conoscenze, poiché l‘aspetto conoscitivo è

legato strettamente con quello emotivo e ha conseguenze estremamente forti sul

comportamento di un individuo. L‘atteggiamento metacognitivo è considerabile

come un nucleo critico di una generale abilità metacognitiva, che ha un rap-

porto con l‘intelligenza ma non si identifica con essa e include la somma delle

conoscenze metacognitive che un soggetto possiede.

Per Cornoldi i meccanismi di controllo costituiscono l‘ingrediente essen-

ziale del funzionamento psicologico e hanno una valenza adattiva positiva. Rap-

presentano quei meccanismi che il soggetto utilizza per poter iniziare, dirigere e

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guidare la propria attività di conoscenza. Gli esseri viventi hanno bisogno di

controlli sofisticati e continui per fare fronte alle situazioni nuove ed ad esiti

comportamentali che possono variare in ogni momento.

La strategia può essere costituita solo da processi esecutivi, che sono stra-

tegici poiché vengono adottati in alternativa ad altri, mentre i processi di control-

lo non sono unicamente di tipo esecutivo, ma avviano e supervisionano le strate-

gie stesse.

Metaconoscenza e processi di controllo: consapevolezza e automatismo

Nell‘ambito della psicologia cognitiva l‘interesse si è progressivamente

spostato dalla ricerca finalizzata a verificare l‘efficacia di determinate strategie

stabilite e pianificate dallo sperimentatore, allo studio del modo in cui i soggetti

stabiliscono e pianificano l‘attività cognitiva richiesta per svolgere un dato com-

pito sperimentale.

Brown ha sottolineato il ruolo dell‘attività di controllo relativa ai processi

cognitivi:

rendersi conto dell‘esistenza di un problema;

essere in grado di predire la propria prestazione;

pianificare l‘attività cognitiva conoscendo l‘efficacia delle azioni

programmate;

registrare e guidare l‘attività cognitiva in relazione all‘obiettivo

posto.

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Affinché si attui il processo di controllo, non è necessario che tutto il

contenuto della metaconoscenza sia consapevole; infatti un controllo a livello

consapevole costituirebbe un grosso impedimento per l‘attività cognitiva.

Si può ritenere che anche la metaconoscenza abbia dei contenuti che si

trovano ad un livello non consapevole e che solo una parte di questi sia consa-

pevole nel momento in cui vi è necessità . I processi tramite i quali opera il con-

trollo cognitivo possono essere inconsapevoli quanto i processi cognitivi di base.

Un comportamento controllato può costituire la ripetizione di un compor-

tamento che in passato è stato più volte consapevolmente controllato, ed essendo

risultato funzionale tende a essere ripetuto.

I processi di controllo possono arrivare a un notevole livello di automatiz-

zazione, o comunque essere eseguiti molto rapidamente e senza l‘intervento del-

la coscienza.

Alcuni processi di controllo precedono l‘attività cognitiva o si attuano du-

rante pause critiche; altri invece accompagnano e regolano l‘effettuazione dei

processi cognitivi (regolazione e autoregolazione).

Alcuni processi di controllo precedenti l‘esecuzione del compito sono i se-

guenti:

riconoscimento del fatto che esiste un problema;

comprensione del problema;

capacità di metterlo in relazione con altri compiti simili già svolti;

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recupero dalla memoria a breve termine di informazioni e di abilità

pertinenti e loro integrazione;

generazione di possibili modalità alternative per la soluzione dei

problemi e loro esame;

scelta di un piano strategico e nella sua implementazione, inibizione

delle strategie che non sono state adottate.

Tutti questi processi di controllo possono essere ricondotti alla voce ―pia-

nificazione‖.

La metaconoscenza emerge attraverso tecniche di colloquio in cui si chie-

de al soggetto la giustificazione o spiegazione verbale di una prestazione cogni-

tiva. I processi di regolazione delle attività cognitive non sono stabili come la

metaconoscenza, ma hanno luogo quando i sottoprocessi che essi controllano

sono abbastanza familiari.

Per cui mentre la metaconoscenza può essere verbalizzata anche da un

bambino, i processi di regolazione avvengono ad un livello di non consapevo-

lezza (cioè si sono automatizzati) e sono più difficili da esternalizzare e verba-

lizzare.

Metaconoscenza e sviluppo cognitivo

Il rapporto tra metaconoscenza e prestazioni cognitive è stato studiato so-

prattutto nel campo della memoria e della lettura.

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Agli inizi degli anni Settanta l‘attenzione degli studiosi era centrata sulle

strategie di memoria. Si cercava di spiegare lo sviluppo cognitivo nei termini di

sviluppo di tali strategie e il ritardo cognitivo come deficit di produzione di tali

strategie.

Come conseguenza di tale ipotesi si pensava che le prestazioni di memoria

potessero migliorare con un adeguato addestramento strategico. In realtà

l‘addestramento all‘uso di strategie, in particolare la reiterazione, non comporta

necessariamente un miglioramento della prestazione nei compiti di memoria.

Il problema allora consiste nell‘incapacità del bambino ad utilizzare strate-

gie di memoria come conseguenza della mancanza di conoscenze metacognitive

relative a quando e con quali modalità usare le strategie a cui è stato addestrato o

che possiede (metamemoria).

Per Flavell e Brown la questione non consiste nel verificare se il bambino

possiede o meno una strategia, ma se sa individuare le situazioni in cui usarla.

Lo sviluppo cognitivo sarebbe riconducibile a una conoscenza sempre più

ampia e sofisticata delle condizioni di applicabilità delle strategie.

Metamemoria e metacognizione

Flavell e Wellman distinguono tre categorie di fenomeni relativi alla me-

moria: 1) la conoscenza, 2) le strategie e 3) la metamemoria.

1) La conoscenza comprende le informazioni acquisite, conservate e recu-

perate dalla memoria;

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2) Le strategie riguardano quei meccanismi che l‘individuo mette in atto

per eseguire meglio i compiti di memoria. Esempi di strategie sono la reiterazio-

ne, cioè la ripetizione di un elemento di informazione allo scopo di conservarlo

più a lungo nella memoria a breve termine e facilitarne il trasferimento nella

memoria a lungo termine. Per esempio nel fare un numero telefonico non fami-

liare utilizziamo questa strategia fino a quando non abbiamo composto il numero

telefonico sulla tastiera, altrimenti lo trascriviamo.

Le strategie di codificazione sono utilizzate per ricordare più a lungo il

materiale nuovo nella memoria a lungo termine. Per esempio costruire immagini

familiari o l‘imporre una organizzazione semantica a elementi eterogenei, che ne

facilitano il recupero successivo.

Questo tipo di conoscenza si accresce con l‘esperienza e l‘istruzione.

3) La metamemoria è la conoscenza e la consapevolezza che l‘individuo

ha della memoria e di ciò che attiene all‘immagazzinamento e al recupero

dell‘informazione.

Nella metamemoria gli autori distinguono una sensibilità con cui il bambi-

no e l‘adulto avvertono le situazioni che richiedono la memorizzazione e la co-

noscenza dei fattori o variabili che influenzano la prestazione di memoria di un

individuo.

Queste variabili sono state classificate relativamente 1) alla persona 2) al

compito e 3) alle strategie.

1) Le variabili della persona riguardano tutto ciò che un individuo sa su stes-

so quale esecutore di compiti di memoria. La conoscenza delle proprie

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abilità e limiti e la consapevolezza della prestazione in condizioni specifi-

che.

2) La categoria del compito comprende la conoscenza delle variabili che in-

fluenzano la difficoltà di un compito di memoria; per esempio sapere che

la difficoltà aumenta con la lunghezza del compito o quando si deve impa-

rare un materiale poco organizzato.

3) Le strategie comprendono la conoscenza dei modi possibili per aiutare

l‘attività cognitiva. Questo tipo di conoscenza riguarda sia le strategie co-

gnitive, cioè le procedure usate per svolgere un compito, sia quelle meta-

cognitive, usate per valutare l‘utilizzo delle prime.

Esempio: dopo aver usato la reiterazione per memorizzare un brano, si

controlla se la strategia ha funzionato confrontando ciò che si è memorizzato con

quanto è scritto nel libro.

Il modello di Brown e Campione

Brown e Campione presentano all'interno della loro teoria metacognitiva

dell‘abilità mentale e delle differenze individuali, la seguente classificazione dei

processi metacognitivi:

predizione

pianificazione

monitoraggio

valutazione

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Predizione: si chiede ai soggetti di predire il loro livello di prestazione in

un compito o di stimarne il grado di difficoltà, o di predire il risultato

dell‘applicazione di una certa strategia.

La predizione richiede l‘abilità di immaginare gli atti cognitivi che non si

sono ancora verificati e risulta abbastanza difficile per i soggetti più giovani.

Pianificazione: riguarda la capacità di organizzare le azioni che portano a

un obiettivo.

Si chiede a un bambino se, dopo che gli è stato detto il numero di telefono

di un suo amico, preferisce telefonargli subito o fare qualche cosa di diverso

prima. I bambini di otto anni si mostrano di regola consapevoli che è meglio te-

lefonare subito per non dimenticare il numero o di scriverlo, mentre i più giovani

non sanno indicare un piano per ricordare.

Monitoraggio: riguarda il controllo che un individuo esercita su un‘attività

cognitiva da lui intrapresa, in particolare sulla soluzione di un problema.

Risolvere un problema implica una serie di operazioni, la correttezza di

ciascuna delle quali è condizione necessaria per la soluzione. A differenza della

predizione e della progettazione, che evolvono con l‘età e l‘esperienza, le ca-

renze di questa forma di controllo si rilevano a tutte le età.

Valutazione: riguarda la capacità di mettere alla prova una strategia di ap-

prendimento ed eventualmente di modificarla. Mentre il monitoring è un con-

trollo progressivo che si esercita sulle singole fasi, la valutazione riguarda

l‘esecuzione di una strategia nella sua globalità.

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Il pregio di questa teoria sta nell‘aver individuato la sequenza dei processi

che riflette il comportamento di un pensatore o solutore.

2.10 Indagine metacognitiva: Indicatori per la costruzione di percor-

si6

Nell'ambito della metacognizione, possiamo distinguere quattro questioni

specifiche che vengono affrontate in relazione alle funzioni psicologiche (me-

moria, attenzione, ragionamento, ecc.) e che hanno le maggiori ricadute a livello

psicopedagogico:

a) Le caratteristiche dei contenuti, degli stimoli, dei materiali su cui la

mente è chiamata a lavorare;

b) Le caratteristiche del contesto, dell‘ambiente, della situazione in cui si

svolge l‘attività psichica;

c) Le caratteristiche del processo mentale che viene attivato durante

l‘esecuzione di un certo compito;

d) Le modalità alternative, le altre strategie di pensiero che si sarebbero

potute attivare per quel particolare compito.

Per ciascuno di questi aspetti l'insegnante può mettere a punto delle do-

mande, riferite ai livelli di consapevolezza che lo studente può avere, alle sue

6 Le esercitazioni e gli strumenti riportati in questa parte sono tratti dai testi di A.Antonietti, di M.Cantoia e di L.Carrubba indicati in bibliografia. Altro materiale, oltre a quello qui proposto è reperibile presso i Quaderni SPAEE pubblicati da Vita e Pensiero, Università Cattolica, Milano.

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conoscenze al riguardo e al controllo che egli riesce ad esercitare sui propri pro-

cessi mentali.

Esempi di domande

Domande finalizzate alla rilevazione di somiglianze e differenze

Il soggetto è consapevole che il compito che deve svolgere è dello

stesso genere di altri compiti svolti in precedenza?

Il soggetto sa riconoscere la tipologia di compito che gli è proposto e

ciò che differenzia le strategie adatte a tale compito da quelle idonee

per altri contesti?

E‘ importante la capacità che la persona ha di individuare gli aspetti

salienti sia degli stimoli da elaborare sia del lavoro mentale che deve

compiere su questi stimoli.

Si possono, inoltre, predisporre domande relative alla valutazione della fa-

cilità o semplicità del materiale da elaborare, la stima del tempo, dell‘impegno e

del carico mentale richiesto per 1‘elaborazione cognitiva, il riconoscimento delle

potenziali fonti di difficoltà e di errore, la rilevazione da parte del soggetto dei

vantaggi e dei limiti connessi a certi tipi di materiali e di processi mentali e

l‘esame delle risorse cognitive che sono a disposizione.

Possono essere proposte domande relative all‘essere coscienti delle proprie

capacità, abitudini e preferenze, il senso di insicurezza o di padronanza che su-

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scitano certi compiti o l‘utilizzo di certe strategie, il tipo di emozioni e di moti-

vazioni che si collegano all‘attivazione di determinati processi mentali.

L‘esecuzione di un‘operazione intellettiva può essere accompagnata da

una vasta gamma di consapevolezze e credenze che riguardano l‘operazione

cognitiva stessa .

Esempio: nel caso di un individuo posto di fronte a un problema,

l‘indagine metacognitiva dovrebbe portare a interrogarsi sul complesso di cono-

scenze e atteggiamenti che ha sviluppato in relazione al compito che lo attende.

Di seguito presentiamo un esempio di domande che possono essere utilizzate

dall'insegnante in questa versione oppure messe a punto in base alla situazione

specifica di apprendimento.

Lo studente sa distinguere di che tipo di problema si tratta?

Sa valutare le proprie capacità e predire la propria prestazione?

Sa quali sono le strategie che potrebbe seguire?

Sa valutare i vantaggi e gli svantaggi delle possibili strategie e le

proprie capacità al riguardo?

E‘ consapevole del proprio stile di pensiero, del proprio modo di porsi

di fronte al problema, delle proprie preferenze ad affrontare i problemi

in un certo modo?

Sa individuare le cause di difficoltà e di errore, i motivi e sa poi

approntare delle operazioni di ‗aggiornamento‘ o di ‗recupero‘?

E‘ certo di essere arrivato alla soluzione corretta?

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Se si propone allo studente di esprimere ad alta voce i ragionamenti che

esegue mentre affronta un compito e di verificare se nel suo modo di procedere

sono presenti operazioni di controllo, le conoscenze metacognitive che emergo-

no possono poi essere differenziate in base si seguenti criteri:

genericità o specificità

coerenza e sistematicità

pregnanza emotiva

forza del credito che viene loro attribuito.

Possono poi variare secondo:

possibilità di essere verbalizzate

facilità con cui il soggetto vi può accedere

possibilità di essere tradotte in comportamento o di guidare il lavoro

mentale dell‘individuo.

La tecnica che permette di evidenziare i differenti livelli di metacognizio-

ne consiste nel thinking aloud, ovvero nella richiesta al soggetto di esprimere ad

alta voce il ragionamento che esegue mentre affronta un compito e verificare poi

se nel suo modo di procedere sono presenti operazioni di controllo.

Le verbalizzazioni possono essere analizzate utilizzando una griglia, la cui

versione italiana consiste in un adattamento da Swanson (1990). Questa griglia

di analisi delle verbalizzazioni presenta 13 item, relativi a comportamenti che

indicano la presenza di un atteggiamento metacognitivo .

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Griglia di analisi delle verbalizzazioni durante la soluzione di un problema

(adattato da Swanson H.L., ―Influence of metacognitive knowledge and aptitude

on problem solving‖, Journal of Educational Psychology, 82, 1990, 306-314)

1) Ripete le informazioni date

2) Dichiara assunti impliciti

3) Organizza i dati

4) Identifica le informazioni mancanti

5) Identifica l‘informazione importante/scarta quella irrilevante

6) Definisce la condizione di partenza

7) Definisce l‘obiettivo

8) Individua possibili domande

9) Assegna delle priorità

10) Individua possibili strategie

11) Pianifica l‘esecuzione

12) Formula ipotesi, previsioni, ecc.

13) Identifica feedback

Di seguito vengono presentate una serie di esercitazioni destinate agli stu-

denti di diversi ordini di scuola, il docente potrà utilizzare gli strumenti così co-

me vengono riportati o apportare modifiche in base alle proprie esigenze didatti-

che. Iniziamo con il proporre un percorso metacognitivo messo a punto da An-

tonietti.

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Strumento 2

Riflessioni metacognitive su un’attività scolastica

―Desidererei portarti a fare alcune riflessioni su quello che hai compiuto.

Ciò che mi interessa è ricostruire i processi mentali che hai seguito. Ti invito

pertanto a rivolgere la tua attenzione, per quanto è possibile, a ciò che si è svi-

luppato nella tua testa e a rispondere alle domande che ti porgerò.‖

1) La prima cosa che vorrei chiederti è di provare a ricostruire ciò che hai

fatto nella tua mente mentre svolgevi l‘attività.

2) Se dovessi fare un paragone, a che cosa diresti assomigli il processo

che hai seguito?

3) Se dovessi scegliere tra queste strategie, quale ti sembra che si avvicini

di più al modo con cui hai svolto l‘attività?

▪ procedere a caso

▪ seguire un piano

▪ farmi guidare dal ―fiuto‖

▪ fare un‘analisi

▪ procedere da un‘idea all‘altra, ecc.

4) Quali sono gli obiettivi che ti pare di esserti proposto mentre svolgevi

l‘attività?

5) Che cosa ti è soprattutto piaciuto dell‘attività?

6) Nell‘attività hai incontrato dei punti o momenti di difficol-

tà/incertezza/dubbio? Se sì, quali/quando/perché.

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7) Ti sei posto delle domande mentre svolgevi l‘attività? Se sì, quali?

8) Secondo te, quali funzioni mentali hai soprattutto impiegato

nell‘attività?

▪ attenzione

▪ memoria

▪ fantasia

▪ ragionamento

▪ decisione

9) Che cosa, a tuo parere, è particolarmente importante fare e/o deve esse-

re fatto per svolgere bene l‘attività?

10) Che cosa può impedire di svolgere bene l‘attività?

11) Ti sembra ti poter individuare delle regole generali o dei principi utili

per svolgere quel tipo di attività?

12) Quali capacità pensi siano soprattutto richieste per svolgere l‘attività?

▪ fare collegamenti

▪ valutare

▪ fare ipotesi

▪ trarre conclusioni

▪ ricordare

▪ progettare

▪ selezionare

▪ concentrare l‘attenzione

▪ sintetizzare

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13) Pensi che l‘attività possa essere svolta bene da chi ha la tendenza a:

analizzare i particolari — considerare il quadro generale

passare subito all‘azione — riflettere

creare — applicare

fare più cose contemporaneamente — fare una cosa alla volta

procedere in modo sistematico — procedere in modo intuitivo

fare cose nuove — fare cose conosciute

rischiare — essere prudente

L'indagine metacognitiva che segue è rivolta agli studenti della scuola se-

condaria di primo e secondo grado, ovviamente l'insegnante deciderà quali spun-

ti inserire, cosa mantenere rispetto alla versione proposta e cosa eventualmente

modificare in base all'analisi dei bisogni dei singoli studenti e del gruppo classe.

Strumento 3

Identificare le strutture concettuali

ALCUNI INTERROGATIVI DI PARTENZA

COME POSSO COMPRENDERE TESTI DIFFICILI?

COME POSSO MIGLIORARE NELLA LETTURA E NELLA

COMPRENSIONE DEL TESTO?

COME POSSO COMPRENDERE LA NATURA DI UN

PROBLEMA MATEMATICO?

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Strumento 4 (rivolto ai docenti)

Alla ricerca degli aspetti principali: come posso migliorare nella lettu-

ra?

Per favorire negli alunni il possesso di una serie di conoscenze metacogni-

tive riguardanti la lettura è importante focalizzare l‘attenzione sui seguenti aspet-

ti:

a) Gli scopi del leggere: L‘individuazione da parte del bambino dello

scopo principale della lettura (la comprensione) e degli scopi che il let-

tore si pone nell‘approccio al testo scritto (leggere per svago, per moti-

vi di studio, per ricavare informazioni) rappresenta il punto di partenza

per approdare ad una lettura significativa. Molto spesso è posta

un‘enfasi eccessiva sugli aspetti di decifrazione/decodifica nella con-

vinzione che una lettura corretta e scorrevole conduca necessariamente

alla comprensione.

b) Le strategie di lettura da porre in atto al fine di raggiungere una buona

comprensione del testo.

La consapevolezza dell‘esistenza di molteplici strategie di lettura consente

al bambino di adeguare il suo modo di leggere alle finalità che si propone di

raggiungere.

Tra le principali strategie di lettura si possono prendere in considerazione

le seguenti:

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- la lettura analitica finalizzata ad una comprensione puntuale, preci-

sa e approfondita del testo letto;

- la scorsa rapida, utile per riuscire a cogliere le informazioni essen-

ziali ;

- la rilettura;

- la lettura selettiva mirata a cogliere un numero limitato di informa-

zioni.

Strumento 5

Come posso migliorare nella comprensione del testo?

Come individuare le parti essenziali di un testo?

Le attività che seguono cercano di aiutare gli alunni a selezionare in modo

corretto gli aspetti principali di un testo, elemento determinante ai fini della

comprensione del contenuto di quanto letto.

1) Proporre la lettura di un testo opportunamente scelto dall‘insegnante.

2) Far riflettere il bambino sull‘importanza di individuare nel testo le par-

ti importanti e fondamentali, chiedendo quali modalità (COME?) egli

utilizza per operare la selezione degli elementi principali (per esempio,

evidenziare attraverso la sottolineatura oppure indicare a margine del

testo i concetti- chiave). In questa fase è utile osservare ed annotare le

modalità spontanee che il bambino mette in atto di fronte alla consegna

data.

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3) Chiedere di evidenziare/sottolineare gli aspetti fondamentali individua-

ti durante la prima lettura.

4) Far rileggere il testo più volte e successivamente proporre lo stesso la-

voro (enucleare i concetti fondamentali).

5) Far confrontare i due compiti svolti e far emergere le differenze tra la

prima e la seconda ricerca. (Che cosa noto nel primo lavoro? Che cosa

noto nel secondo lavoro che nel primo non emerge? Che cosa distingue

il primo tentativo di selezione dal secondo tentativo?)

6) Elaborare una riflessione condivisa tesa a mettere in luce che la prima

lettura ci consente di avere un‘idea generale del contenuto; soltanto

dopo aver riletto il brano più volte sarà possibile individuarne le parti

più importanti. Da quanto detto mettere in evidenza l‘importanza di

non sottolineare il testo in prima battuta (durante la prima lettura) per

una più proficua comprensione.

7) Gli aspetti principali da ricercare sono naturalmente differenti da testo

a testo. Per esempio, in un testo di tipo narrativo, gli elementi fonda-

mentali da individuare rispondono alle seguenti domande:

CHI? I personaggi

CHE COSA? Le vicende narrate/La trama

DOVE? L‘ambiente/I luoghi

QUANDO? Il tempo/Il periodo in cui avviene

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Strumento 6

Organizzo il mio tempo

La tabella seguente può essere utilizzata anche con alunni di scuola prima-

ria e permette al bambino di acquisire un maggior controllo rispetto all'attività di

studio e di pianificare meglio le attività anche in base ad un stima del tempo ne-

cessario allo svolgimento di un compito. Tempo che bisogna imparare a stimare

correttamente anche in base alla percezione di facilità/difficoltà rispetto alle pro-

prie competenze

Che cosa devo fare per la prossima vol-ta?

L'ho fatto Il giorno..... Dalle ore alle ore

In che modo l'ho fatto

Quali difficol-tà ho incontra-to nel farlo

Potevo farlo in un altro modo? Quale

Strumento 7

Organizzare lo studio: comprendere le difficoltà

IL PROBLEMA DI STUDIO CHE VORREI RISOLVERE E’:

….............................................................................................................................

.................................................................................................................................

.................................................................................................................................

COME SI VERIFICA?

Con chi/che cosa si verifica?

QUANDO SI VERIFICA?

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DOVE SI VERIFICA?

Elementi su cui è impos-sibile o difficile interve-nire

Elementi su cui è possi-bile intervenire

Piste di intervento

Esempio di applicazione della scheda

Elementi su cui è im-possibile o difficile in-tervenire

Elementi su cui è possi-bile intervenire

Piste di intervento

Dover studiare per forza nell‘imminenza delle verifiche Non avere altro luogo in cui studiare che non sia casa propria, ecc.

Momenti in cui studiare Studio solitario Pensieri estranei

Non studiare subito ap-pena tornato a casa (appena a casa fare altro, per esempio preparare lo studio: predisporre gli appunti, ecc.) Studiare insieme ad ami-ci Pianificare per iscritto gli impegni così da non doverci pensare durante il giorno, ecc.

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Strumento 8

Le ore della mia giornata....Pianificare al meglio le attività!

L'ultima scheda proposta è particolarmente indicata per gli studenti della

scuola primaria e se supportati dall'insegnanti può essere molto utile anche con i

bambini della scuola dell'infanzia

"Colora la striscia sotto riportata con colori diversi secondo quanto di soli-

to fai nelle varie ore della giornata."

Ore della tua giornata....

7 8 9 1

0

1

1

1

2

1

3

1

4

1

5

1

6

1

7

1

8

1

9

2

0

2

1

2

2

2

3

Mangio (pranzo, merenda, cena, ecc.) = bianco

Sto in casa (a giocare, parlare con gli amici) = marrone

Esco di casa (giocare all'aperto, andare in giro) = verde

Studio o faccio i compiti = rosso

Leggo cose non per la scuola = giallo

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Guardo la televisione = nero

Mi riposo (dormo, leggo giornaletti, ecc.) = blu

Adesso osserva la striscia e insieme all'insegnante e ai tuoi genitori, con-

trolla quanto tempo dedichi alle diverse attività della tua giornata e come potresti

fare per organizzarti meglio.

2. 11 Studiare che fatica! Metacognizione e metodo di studio

Per analizzare e descrivere le principali difficoltà di studio è indispensabile

iniziare con il definire in modo operativo in cosa consista l'attività di studio e

delineare sinteticamente quali sono i differenti processi psicologici coinvolti.

Sappiamo, infatti che lo studio richiede abilità cognitive complesse. Affrontare

con successo l'apprendimento e lo studio è sicuramente un desiderio ed un obiet-

tivo di tutti gli studenti, così come è desiderio di tutti i docenti insegnare ad al-

lievi che studiano, imparano e realizzano pienamente la loro formazione.

Purtroppo succede che alcuni studenti manifestino delle difficoltà di studio

già alle elementari, che altri partano molto bene e poi si arenino e che altri inve-

ce affrontino lo studio con entusiasmo e si dimostrino studenti efficaci e brillan-

ti. Perché succede questo? In cosa differiscono gli studenti di successo rispetto a

quelli con difficoltà?

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Innanzitutto, facendo riferimento alle caratteristiche individuali dello stu-

dente, possiamo attribuire la diversità dei risultati scolastici al fatto che gli stu-

denti differiscano per abilità cognitive, conoscenze (in particolare conoscenze

strategiche), stili cognitivi, motivazioni ed emozioni collegate all'apprendimento.

Sia per insegnare a studiare sia per valutare in modo corretto le abilità di

studio da sviluppare o potenziare è indispensabile chiarire cosa si intenda per

studio e quali processi cognitivi e non cognitivi siano coinvolti .

Anche se spesso parliamo di apprendimento e di studio come fossero sino-

nimi, in realtà non lo sono. Il concetto di apprendimento è molto più ampio di

quello di studio.

Si apprendono, infatti, comportamenti, abitudini, conoscenze, reazioni

emotive secondo modalità diverse .

Studiare, invece, è una particolare forma di apprendimento che ha come

scopo l'apprendere dal testo, o da una lezione, in modo intenzionale (Anderson).

Studiare un testo significa leggerlo attentamente ed in modo selettivo con

lo scopo di comprenderlo, ricavarne informazioni e memorizzarle per eseguire

una prova, come può essere una interrogazione o un compito scritto.

L'attività di studio in genere è intenzionale e autodiretta dallo studente che

decide autonomamente di studiare, scegliendo obiettivi , tempi e strategie.

Sostanzialmente nello studio si distinguono tre fasi fondamentali:

1) Fase della prelettura, implica l'organizzazione e la definizione degli

obiettivi

2) Fase centrata sulla lettura, comprensione ed elaborazione del testo

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3) Fase finalizzata alla memorizzazione del materiale ed alla capacità

di rievocarlo al momento del bisogno.

Per ogni fase è possibile utilizzare delle strategie che possono essere:

semplici (ad es. la ripetizione per la fase della memorizzazione),

complesse (ad es. la costruzione di schemi grafici per la fase della

memorizzazione),

organizzate in piani (una sequenza di strategie), fino costituire un

metodo, cioè un insieme strutturato di strategie che riguarda tutte e

tre le fasi dello studio.

Lo studio implica diverse abilità cognitive, come l'attenzione, la lettura, la

comprensione e la memoria, che insieme concorrono all‘apprendimento di nuove

informazioni. L'abilità di studio è in relazione con le strategie utilizzate per leg-

gere, capire, memorizzare e monitorare l'attenzione. A partire da abilità di par-

tenza simili, si possono affrontare compiti identici con modalità strategiche dif-

ferenti, che spiegano le diverse prestazioni.

Lo studio strategico è in relazione con la metacognizione. Le conoscenze

metacognitive relative allo studio riguardano ciò che lo studente sa o crede di

sapere relativamente a se stesso come studente, alle sue abilità di studio, allo

studio in generale , alle discipline e al compito specifico che deve affrontare in

quel momento, alle strategie da utilizzare, agli scopi che si pone.

Alcuni esempi di conoscenza metacognitiva possono essere i seguenti:

"Leggere un romanzo o leggere un testo di studio non è la stessa

cosa“

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"Quando leggo per studiare è importante capire il testo utilizzando

la lettura silente"

"Io in genere sono un buon visualizzatore, perciò…“

"Questa disciplina è troppo difficile per me“

"Questo argomento non mi servirà perciò…"

I processi metacognitivi di controllo, che integrano e pianificano le cono-

scenze precedenti, riguardano attività come il prevedere i risultati dello studio, il

pianificare lo studio secondo tempi e modi, monitorarlo in itinere, verificarne i

risultati finali (Brown), cioè l'autogestione dell'attività cognitiva.

Le affermazioni seguenti evidenziano i processi di controllo attivati duran-

te lo studio:

"Per questo argomento è importante visualizzare i concetti

principali“

"Questo testo richiede particolare attenzione perché alcuni

passaggi sono poco chiari"

"Considerati gli impegni pomeridiani mi organizzo il tempo dello

studio in questo modo"

"Questo capitolo lo studierò dividendolo in …, prevedo queste fasi

per raggiungere i seguenti risultati"

L'uso ripetuto in più contesti delle strategie non solo migliora la prestazio-

ne, ma ha delle ricadute sulla stessa metacognizione. Infatti migliorano le cono-

scenze metacognitive, la sensibilità metacognitiva e il controllo. Inoltre quando

si diventa via via più esperti dello studio, si utilizzano le strategie in modo più

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automatico e spontaneo, con risparmio di fatica, maggiore soddisfazione perso-

nale e senso di autoefficacia.

Invece gli studenti principianti non usano le strategie in modo spontaneo,

necessitano di aiuti esterni, spendono più risorse cognitive senza trarre evidenti

vantaggi (si avvicinano alla tipologia di studente che è stato definito con deficit

strategico di produzione) .

Anche studenti con buone abilità di base possono essere poco strategici o

demotivati ed ottenere risultati inferiori a studenti meno dotati.

Pertanto sia a livello diagnostico sia per impostare correttamente un inter-

vento efficace riferito allo studio vanno considerate differenti variabili che inte-

ragiscono tra loro: abilità cognitive, strategie, conoscenza e controllo metacogni-

tivo, percezione del sé, senso di autoefficacia, motivazioni ed emozioni.

2.11.1 Difficoltà di studio

Considerata la complessità dell'abilità di studio si possono individuare di-

verse tipologie di studenti con difficoltà differenti.

1)Una prima categoria riguarda studenti con difficoltà di studio legate a di-

sturbi specifici nella lettura strumentale, nella comprensione del testo, nella me-

moria e nell'attenzione.

In questo caso il problema primario riguarda lo specifico processo cogniti-

vo, ma le prestazioni di studio ne vengono ampiamente danneggiate.

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Si pensi ad uno studente della scuola superiore dislessico che deve affron-

tare ogni pomeriggio pagine e pagine di lettura e studio di diversi manuali. Que-

sto studente non riesce a tenere il passo dei suoi compagni, ma potrebbe essere

facilitato nello studio attraverso una riduzione del materiale da leggere (strumen-

ti dispensativi e compensativi)

2) Una seconda tipologia di studenti presenta difficoltà di tipo strategico.

Si possono individuare studenti con deficit di mediazione, nei quali mancano le

abilità di base per usare le strategie, e studenti con deficit di produzione, che non

usano spontaneamente le strategie, ma che sono in grado di usarle qualora ven-

gano loro insegnate (Flavell).

La prima situazione è tipica di studenti con ritardo mentale di una certa

gravità, la seconda riguarda sia studenti con ritardo mentale lieve, sia studenti

più giovani o comunque inesperti che necessitano di una guida.

Alcuni studenti dimostrano una povertà strategica o una rigidità d'uso delle

strategie ed una scarsa automatizzazione dovute a poca esperienza in contesti di-

versi.

Anche studenti maturi possono presentare queste difficoltà, magari per al-

cune discipline, se ad esempio l'insegnamento impartito loro è stato prevalente-

mente contenutistico.

3) Una terza categoria di studenti presenta difficoltà legate soprattutto al-

la conoscenza metacognitiva , in particolare ad errate convinzioni, che a loro

volta portano a cattive abitudini, come ad esempio pensare che per studiare sia

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sufficiente leggere e capire , pensare che si possa studiare con la radio o la TV

accesa , che chi è dotato impara senza sforzo, ecc..

4) Una quarta categoria di studenti ha difficoltà legate in particolare ai

processi di controllo metacognitivo: non sanno prevedere in anticipo i loro risul-

tati , non sanno pianificare ed organizzare il lavoro personale, non sanno auto-

valutare la loro prestazione, cogliendo eventuali cadute.

5) Una quinta categoria di studenti sono quelli che hanno marcate difficol-

tà associate a demotivazione verso lo studio in generale o verso talune discipline

(ad esempio la matematica o l'italiano) e attività specifiche (le espressioni, la

grammatica), a stili attributivi, percezioni del sé, convinzioni, stati emotivi poco

funzionali.

Questi studenti non puntano molto sulla scuola, sono convinti che gli scar-

si risultati scolastici dipendano da variabili come la fortuna, la difficoltà della

materia, le richieste dei professori, la scarsa abilità ed intelligenza. Per alcuni la

scuola e lo studio suscitano malessere generale o serie situazioni di ansia che

non sanno fronteggiare.

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III Lezione Competenze, creatività e integrazione: implicazioni

psicopedagogiche

3.1 Tante vie per imparare: le competenze trasversali

Nei capitoli precedenti abbiamo esplorato diverse concezioni di apprendi-

mento e definito cosa possa significare per ognuno di noi il termine imparare. La

riflessione psicopedagogica ci spinge a considerare non solo le variabili cogniti-

ve, inevitabilmente interessate, ma anche dimensioni riconducibili alla personali-

tà e alla spinta motivazionale; ne consegue l'esigenza di lavorare, più che sulle

analogie, sulle diversità tra gli alunni. Come abbiamo visto nel corso del secon-

do capitolo gli insuccessi scolastici, potrebbero essere spiegati con solo (e non

sempre) con la mancanza di abilità, ma ricorrendo alle modalità preferite di ela-

borazione delle informazioni (li abbiamo definiti stili cognitivi) che possono es-

sere più o meno efficaci e produttivi nei diversi contesti. Pur ampliando la pro-

spettiva, abbiamo comunque posizionato la nostra lente di ingrandimento sui

processi cognitivi. In questo capitolo, invece, sposteremo il focus attentivo su al-

tre competenze, definite trasversali che aprono possibilità di apprendimento di-

verse e complementari.

Le competenze trasversali non sono riconducibili a saperi specifici, ma

presenti trasversalmente in tutte le attività. Si tratta di modalità di procedere

messe in atto da un soggetto che si attiva per svolgere un compito o affrontare

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un problema e sa trasformare i suoi saperi in prestazioni efficaci. Possono essere

trasferite e utilizzate in diverse situazioni, servono per ampliare e modificare le

conoscenze, per adattarsi ai cambiamenti con responsabilità, autonomia, flessibi-

lità.

Una definizione efficacie è stata elaborata nel 1998 dall‘ISFOL, articolan-

do l‘apprendimento in tre macrocategorie, le competenze di base, le competenze

trasversali, e infine le competenze tecnico professionali. La loro individuazione

può essere frutto dell'analisi e della scomposizione dell'attività del soggetto al

lavoro posto di fonte al compito. Tale analisi consente di suddividere tre grandi

tipi di operazioni, fondate su processi di diversa natura (cognitivi, emotivi, mo-

tori) e che sono presenti in tutte le esperienze del soggetto non solo in quelle la-

vorative, entrano in gioco nelle diverse situazioni e condizionano la possibilità

degli individui di esprimere comportamenti professionali abili o esperti, di tra-

sferire competenze da un ambito lavorativo ad un altro e consentono all'indivi-

duo di sviluppare la propria competenza in attività differenti. Tali competenze si

apprendono per via formale, informale, non formale, possono sempre essere po-

tenziate con appositi percorsi formativi, la prima è la base delle altre due, la ter-

za presuppone le altre due.

Le competenze trasversali consistono quindi:

3. nel diagnosticare le caratteristiche dell'ambiente e del compito,

analizzare capire rappresentare la situazione, il problema, se stessi (le risorse che

possono essere utilizzate o incrementate all'occorrenza) come condizione

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indispensabile "per la progettazione e la esecuzione di una prestazione efficace"

(abilità cognitive);

4. nel mettersi in relazione adeguata con l'ambiente, le persone e le cose

di un certo contesto per rispondere alle richieste (abilità interpersonali o sociali:

insieme di abilità emozionali, cognitive e stili di comportamento, ma anche

abilità comunicative);

5. nel predisporsi ad affrontare l'ambiente e il compito, sia mentalmente

che a livello affettivo e motorio, intervenire su un problema con migliori

probabilità di risolverlo, costruire e implementare le strategie di azione,

finalizzate al raggiungimento degli scopi personali del soggetto e di quelli

previsti dal compito.

Si tratta di tre macro-competenze trasferibili a compiti e contesti diversi

che si possono scomporre in competenze a abilità più semplici. Sono risorse del

singolo soggetto che hanno un ruolo fondamentale nel plasmare il comportamen-

to lavorativo e nell'influire in modo significativo sulle sue azioni. "Il grado di

padronanza, da parte del soggetto, dell'insieme di queste competenze non solo

modulabili, la qualità della sua prestazione attraverso le strategie che è in grado

di mettere in atto, ma influisce sulla qualità e sulle possibilità di sviluppo delle

sue risorse (conoscenze, cognizioni, rappresentazioni, elementi di identità) attra-

verso la qualità delle informazioni che è in grado di raccogliere, delle relazioni

che sa instaurare, dei feed-back che riesce a ottenere e di come sa utilizzarli per

riorganizzare la sua conoscenza. Il modo con cui l'individuo affronta la sua espe-

rienza lavorativa sembra considerato ormai come una qualità decisiva per la riu-

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scita della carriera lavorativa e per il suo stesso sviluppo socio-psicologico. De-

cine di ricerche empiriche internazionali sottolineano che, tra le principali diffi-

coltà incontrate nel lavoro dai giovani, si trovano non tanto quelle legate a scarsa

qualità della performance teorica (scarse conoscenze disciplinari, degli strumenti

di lavoro ecc.), bensì quelle derivanti dall'incapacità di situarsi nell'ambiente di

lavoro con adeguatezza, di decifrarne le caratteristiche essenziali, di delineare

strategie di fronteggiamento dei problemi, di coinvolgersi, anche emotivamente,

nel contesto concreto, esibendo e utilizzando le cognizioni raccolte ed interioriz-

zate nel corso dei vari periodi di formazione pre-lavorativa" (Di Francesco,

1998).

I documenti elencano moltissime abilità strategiche che fondano il proces-

so d‘apprendimento, ma non le classificano. Risulta invece importante ricondur-

le entro uno schema interpretativo, dedotto dalla letteratura sull‘apprendimento

per valutare quali risorse sono messe a disposizione dalle discipline e dai saperi

esperti ed individuare le esperienze necessarie alla loro costruzione e trasferibili-

tà. In altre parole occorre capire come la scuola, che è l‘istituzione preposta

all‘apprendimento attraverso le discipline formali, può attrezzarsi, assumendo un

ruolo specifico rispetto alla pervasività dei saperi informali e non formali.

V è un sostanziale accordo nel considerarne quattro:

le abilità comunicative, sono le capacità che consentono di decodificare e

produrre informazioni, per padroneggiare i linguaggi quotidiani, i linguaggi

specifici delle diverse discipline, i linguaggi logici, i linguaggi delle nuove

tecnologie;

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le abilità cognitive, logiche e metodologiche, sono le capacità pratiche che

guidano il lavoro di ricerca: procedure, regole, mezzi, strumenti, fasi operative,

in altre parole operazioni cognitive e metodi di lavoro (Bernard, 2005).

Apprenderle consente di capire come sono costruiti i saperi formali e di

acquisirli, di appropriarsi delle procedure logiche e metodologiche di ciascuna

disciplina in modo da usarle e da produrre nuove conoscenze, di usare

correttamente ed efficacemente le facoltà mentali per agire in modo appropriato

alla situazione e/o al compito e per capire e elaborare pensiero astratto, per

acquisire un metodo di lavoro intellettuale;

le abilità e le strategie metacognitive, sono le capacità che consentono di

conoscere il funzionamento della mente, propria e altrui, e di decentrare il

pensiero verso il futuro, prevedere e progettare azioni, e verso il passato,

monitorare e autovalutarsi, controllando i percorsi mentali utilizzati per

elaborare informazioni, assumere decisioni, svolgere compiti. In altre parole

sono la capacità di essere riflessivi, di usare consapevolmente il pensiero in

funzione e prima dell‘azione;

le abilità e le strategie meta-emozionali, personali e sociali ,sono le

capacità che consentono di avere consapevolezza, autocontrollo, motivazione e

di saper stare con gli altri in modo empatico costruttivo e collaborativo,

padroneggiando le dinamiche della vita sociale. Il senso di autoefficacia: la

convinzione di possedere capacità adeguate ad affrontare le situazioni per

raggiungere le mete prefissate, quindi con efficacia, che ha il potere di motivare

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e di portare al successo e consente di essere protagonisti, assumendosi la

responsabilità di costruire gli eventi della vita in modo mirato.

Nell‘insegnamento tradizionale è stata sempre privilegiata la prima dimen-

sione (fatti, concetti, dati, nozioni da memorizzare), trascurando le altre. La pos-

sibilità di spaziare a livello didattico tra tutte le quattro dimensioni considerate

permetterebbe un apprendimento molto più ricco in cui si acquisiscono anche

procedure e quindi abilità comunicative, cognitive, metacognitive e meta-

emozionali. I saperi disciplinari, arricchiti da saperi trasferibili ed utilizzabili in

diversi contesti, si trasformerebbero più facilmente in capacità di azione.

Diventano determinanti la progettazione e le modalità di conduzione del

lavoro in classe da parte dell‘insegnante anche come sostegno alla relazione

educativa positiva e mirata alla costruzione di autostima e autoefficacia.

Il metodo di insegnamento diviene determinante: solo partendo

dall‘apprendimento di conoscenze semplici, dichiarative e procedurali, ciascuna

insegnabile, misurabile, valutabile ed essendo poi guidati in modo intenzionale

ad aggregarle si possono acquisire conoscenze complesse, abilità e competenze.

Le abilità trasversali sono, dunque, acquisibili in tutte le discipline a patto di mi-

rare intenzionalmente al loro insegnamento ed apprendimento, usando tutte le ri-

sorse disciplinari. Questo è il primo tipo di trasversalità. Se si vuole, però, che le

competenze trasversali non servano solo ad eseguire bene determinati compiti (i

problemi richiedono creatività) occorre pensare anche ad un altro tipo di trasver-

salità che coincide con la trasferibilità e spendibilità in campi molto diversi.

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Poiché molte ricerche hanno evidenziato che non è affatto spontanea e na-

turale la capacità di usarle in contesti diversi da quelli di apprendimento, è ne-

cessario che ci sia una specifica intenzionalità. Occorre anche accompagnare gli

alunni, attraverso esperienze ed esercizi mirati, a passare dall‘acquisizione alla

consapevolezza e quindi allo sforzo di applicazione in altri campi e contesti. Il

soggetto, infatti, solo se prende coscienza delle cose che fa e riesce a istituire

similitudini tra le situazioni, riesce intenzionalmente a operare i trasferimenti

necessari a compiti diversi: non sono, quindi, le abilità ad essere trasversali, ma

è il soggetto che decide di usarle altrove, intenzione e non puro automatismo.

Tale capacità migliora con l‘esercizio, si potenzia con l‘attenzione e la riflessio-

ne per la situazione concreta, si rafforza con l‘abitudine consolidata a scegliere

come procedere: il soggetto competente è un individuo che può avere un‘età

qualsiasi e che si è impadronito delle conoscenze e delle abilità di una disciplina

o di un ambito conoscitivo e sa applicarle correttamente in situazioni nuove.

La prima sequenza operativa è la scomposizione delle competenze in sin-

gole conoscenze semplici ed abilità, intese come capacità di applicare conoscen-

ze settoriali e delimitate ad un certo campo per eseguire una parte specifica di

un‘attività, e la segmentazione della complessità in tanti spezzoni, semplici da

apprendere, singoli ostacoli superabili con l‘accompagnamento di un adulto

esperto in modo da permettere a tutti, anche ai più deboli, di capire ciò che san-

no e sanno fare ai vari livelli.

La seconda sequenza è la predisposizione di esperienze di apprendimento,

materiali didattici e attività. Per la costruzione, infatti, di competenze, fatte an-

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che di procedure, non basta l‘apprendimento intellettuale, ma è indispensabile

l‘esperienza pratica e, anzi, ogni tipologia richiede esperienze specifiche e mira-

te che ne consentano l‘acquisizione. Occorre costruire, prima, esperienze per

l‘apprendimento di ogni singolo segmento e, poi, esperienze di ricapitolazione

che sostengano la sintesi in costrutti complessi.

È bene che gli alunni siano attivi protagonisti del proprio processo di co-

noscenza, usino strategie per organizzare e ricordare le conoscenze, formulino

ipotesi e ricorrano a teorie (più o meno consapevoli) per rendere coerente la pro-

pria esperienza. Così facendo esercitano una pluralità di azioni cognitive che si

integrano e si rafforzano con l‘uso di più canali sensoriali (visivo, uditivo, tatti-

le) e di intelligenze diverse, sia quelle tradizionalmente privilegiate

nell‘apprendimento scolastico (linguistica e logico-matematica) che altre.

In altre parole, se è importante il cosa si apprende, è altrettanto importante

il come si apprende e diventa fondamentale il modo in cui il processo di appren-

dimento è organizzato/progettato preventivamente.

Ianes (2008) sottolinea che il padroneggiamento di alcune abilità scolasti-

che non garantisce per nulla di avere buoni risultati nella scuola e nella vita, in

quanto il loro possesso non implica automaticamente la capacità di utilizzarle

nelle situazioni difficili o particolari o di svolta per affrontare le quali, con suc-

cesso, è determinante invece la propria convinzione di efficacia, l‘essere creativi,

flessibili e disponibili al cambiamento.

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Solo in questo modo la scuola diventa un luogo in cui gli studenti si sento-

no rispettati, seguiti, curati e legati ai compagni, agli insegnanti e alla scuola

stessa.

3.1.1 Imparare insieme: la dimensione relazionale dell'apprendimen-

to

Schreiber nel 1998 scrive:“Ciò che sembra determinare la riuscita sociale

di una persona non è tanto la potenza del suo intelletto, quanto la sua capacità di

comunicare con gli altri, di valutare le situazioni sociali ed emozionali, di con-

trollare le proprie emozioni, di non lasciarsi trascinare dalla collera, di inibire la

propria aggressività, di emettere i giusti segnali emozionali, di restare sintoniz-

zati con gli altri per navigare in modo armonioso con la flotta di relazioni umane

di cui si è circondati. L'insieme di queste capacità è chiamato "quoziente emo-

zionale", in contrapposizione al quoziente intellettivo: il Q.E. al posto del Q.I. E'

emerso che il Q.E. determina il successo sociale di una persona molto più del

Q.I., che può solo prevedere la prestazione scolastica di una persona, ma non va

oltre”.

Prima ancora possiamo ritrovare utili indicazioni anche negli studi di Ro-

gers e di Maslow, fautori dell‘approccio umanistico alle problematiche educative

e fonti di riferimento di modelli didattici che enfatizzano le relazioni socio-

affettive all‘interno della classe. La gratificazione dei bisogni fondamentali teo-

rizzata da Maslow appare ancora oggi importante punto di riferimento anche per

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affrontare la questione della motivazione, per tale autore ciascun essere umano è

una totalità integrata, possiede tendenze e bisogni essenzialmente buoni che si

traducono in motivazioni all‘agire e diventano mezzi per raggiungere un fine. Il

fine di ogni essere umano diventa la piena realizzazione delle proprie potenziali-

tà, che si raggiunge grazie al soddisfacimento di tali esigenze.

Roger (1973), invece, si sofferma sul concetto di libertà di apprendimento,

che caratterizza la sua pedagogia ―non direttiva‖, nella quale l‘insegnante do-

vrebbe fungere da facilitatore dell‘apprendimento, con atteggiamenti di ascolto e

di empatia. Secondo Rogers, la capacità di apprendere è connaturata nell‘essere

umano, tutta la vita è apprendimento: si impara a camminare, si impara a parlare,

si fanno conquiste, a volte si incorre nell‘insuccesso o si incontrano notevoli dif-

ficoltà, ma si procede comunque. Il progresso umano è il frutto della capacità di

apprendere, innata nell‘uomo. E‘ evidente che l‘apprendimento è facilitato se è

―significativo‖ e se avviene in un ambiente favorevole. Nell‘insegnamento egli

considera fondamentale, non tanto il contenuto culturale, destinato a cambiare

grazie alle scoperte scientifiche, ma l‘acquisizione delle abilità di ricercare, do-

cumentarsi, osservare ecc., di ―imparare ad imparare‖. L‘alunno non può essere

considerato un soggetto passivo destinatario dell‘intervento didattico, ma deve

essere necessariamente attivo; infatti la costruzione di un concetto, la soluzione

di un problema o l‘acquisizione di particolari capacità, come quelle dello scrive-

re, del leggere, del nuotare ecc., richiedono l‘attività dell‘alunno. Questo signifi-

ca che egli è il protagonista della propria istruzione (attività di acquisizione delle

conoscenze) e della propria formazione (attività di acquisizione di capacità e di

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atteggiamenti). Quindi la funzione del docente non è quella di ―fare lezione‖, di

spiegare determinate argomenti, ma di creare delle situazioni che consentano

agli alunni di operare a livello fisico e psichico. Il docente deve essere in grado

di creare delle situazioni di apprendimento, cioè dei ―percorsi apprenditivi‖, de-

gli itinerari di apprendimento. In quest‘ottica, il docente deve individuare attra-

verso quali attività gli studenti possono pervenire all‘acquisizione di conoscenze

e delle capacità; pertanto il suo compito non è quello di presentare i concetti, ma

quello di creare le situazioni idonee che consentono agli alunni di costruirli. Egli

deve anche conoscere quali strategie utilizzano gli alunni (per tentativi ed errori,

per associazione ecc.) e il livello di sviluppo individuale, per individuare le atti-

vità da proporre a livello operativo concreto, a livello iconico o a livello simbo-

lico. Successivamente può progettare gli itinerari di apprendimento. Gli itinerari

di apprendimento rappresentano una traccia, uno schema operativo modificabile

in corso d‘opera se è necessario; sono degli orientamenti, delle linee d‘azione

che evitano di operare a caso; quindi sono dei percorsi con una meta, un obietti-

vo da raggiungere, sono degli itinerari formativi. Essi non vengono imposti agli

alunni che vanno, invece, motivati e stimolati nell‘interesse e nel bisogno ad ap-

prendere e a costruire concetti. Pertanto, negli itinerari devono essere indicate

anche le strategie per motivare gli alunni stessi. I docenti devono sapere quali

strumenti sono più adeguati a seconda del livello di sviluppo degli studenti, de-

vono anche scegliere tra strumenti concreti, iconici e simbolici. L‘esperienza

concreta deve essere necessariamente il punto di partenza, le operazioni a livello

iconico hanno significato solo se si sono già effettuate le esperienze concrete e

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dalle esperienze concrete ed iconiche occorre pervenire alle rappresentazioni

simboliche.

Gli itinerari di apprendimento si debbono presentare come delle situazioni

problematiche ( problem solving ) che gli alunni affrontano avendo a disposizio-

ni determinati strumenti. Gli itinerari di apprendimento sono le sequenze di atti-

vità che gli alunni vengono motivati e guidati a svolgere quando il docente ha il

coraggio di non dire, quando il docente riesce a resistere alla tentazione di espor-

re i concetti prima che gli alunni li abbiano scoperti.

In quest‘ottica il cooperative learning risulta un modalità apprenditiva par-

ticolarmente idonea. Una classe cooperativa è un insieme di piccoli gruppi di

studenti, relativamente permanente e composto in modo eterogeneo, unito per

portare a termine un'attività e produrre una serie di progetti o prodotti, che ri-

chiedono una responsabilità individuale nell'acquisizione delle competenze utili

al raggiungimento dello scopo (Comoglio, 1999). Il cooperative learning può co-

stituire l‘ossatura profonda, il substrato di cui si nutre tutta l‘azione formativa e

l‘apprendimento all‘interno del gruppo classe. Il docente non è più l‘attore prin-

cipale del processo, ma in queste fase diviene ―attento regista‖, all‘interno della

classe; il ―luogo del sapere‖ viene modificato, l‘insegnante non è più l‘unico de-

tentore del ―sapere‖ ma in un ruolo di interazione e co-formazione, anche il do-

cente apprende nell‘atto di insegnare. Durante i lavoro nei sottogruppi,

l‘insegnante può invitare alcuni alunni a ―modellare‖ i compagni che ottengono

performance medio-alte nei diversi ambiti delle competenze (sociale, relaziona-

le, espositiva etc). Il modellamento, tecnica di facile esecuzione e applicabile

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ovunque, può nel contesto del cooperative learning avvenire anche durante la fa-

se di confronto fra componenti dei diversi gruppi che abbiano lo stesso ruolo

ciascuno all‘interno del proprio gruppo di appartenenza. Il docente può cioè in-

serire come fase operativa di lavoro, un momento specifico a metà del lavoro in

cui vi sia un incontro tra ruoli: leaders con leaders, cercatori con cercatori, elabo-

ratori con elaboratori ecc…) Scoprire come il proprio compagno abbia condotto

a termine il proprio compito può facilitare l‘estrazione di strategie vincenti che

poi, una volta adeguatamente motivati, si possono replicare ed adattare a se stes-

si ogni qualvolta di ritenga utile farlo.

Il docente può trovare nel cooperative learning alcune linee guida che pos-

sono risultare utili indicatori di percorso, ma deve però utilizzare la sua compe-

tenza professionale per arricchire l‘offerta didattica e costruire il proprio ―meta-

modello‖ che va al di là della teoria stessa dell‘ apprendimento cooperativo.

Tenere presenti, ad esempio, i limiti delle strategie didattiche e riconoscere

sempre il valore intrinseco della relazione nei processi di cambiamento, permette

di avere una sempre maggiore aderenza alla realtà del gruppo classe e di offrire

ai propri allievi ―saper essere‖ trasversale a qualunque contesto (Comoglio,

1996).

Le competenze sociali che si attivano in gruppi di apprendimento coopera-

tivo sono:

1) Competenze decisionali

2) Competenze problem solving

3) Competenze per la gestione costruttiva dei conflitti.

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4) Competenze di leadership (ruoli orientati al compito, e al sostegno

socio-emotivo).

5) Competenze comunicative interpersonali:

Sapersi "aprire" all'altro.

Sapersi "aprire" con l'altro.

Saper comunicare contenuti.

Saper comunicare le proprie emozioni.

Saper comunicare nelle relazioni di aiuto (ad es. ascolto attivo).

Il cooperative learning (Sharan, 1998) prevede, quindi, tra le sue caratteri-

stiche l'insegnamento diretto delle competenze sociali che gli alunni devono sa-

per usare per lavorare con successo con i pari. Si intende per competenza sociale

un insieme di abilità consolidate e utilizzate spontaneamente e con continuità

dallo studente per avviare, sostenere e gestire un'interazione in coppia o in grup-

po.

3.1.2 Imparare sempre: la dimensione creativa dell'apprendimento

Parlare di creatività nella scuola vuol dire favorire un apprendimento che

implica la rielaborazione personale del bambino o dello studente e innesta stimo-

lazioni culturali, partendo dalle istanze soggettive profonde dell'individuo. Si

tratta, quindi, di un apprendimento che non rimane "inerte", ma che sa entrare in

contatto con la struttura dinamica della mente (Antonietti, 1996). Il primo con-

tributo sul processo creativo è opera di Vygotskij, il quale sottolinea come il

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processo creativo sia condizionato dall‘ambiente in cui è inserito il soggetto. La

creatività dell‘individuo, così, può essere incoraggiata o ostacolata rispetto agli

stimoli e alle esperienza alle quali è sottoposto nel contesto in cui vive. Il bam-

bino, infatti, per poter giocare e imparare a vivere creativamente, soprattutto nei

primi anni di vita, ha bisogno di un ambiente che faciliti il suo sviluppo psico-

fisico. In tutto questo l‘adulto, sia in famiglia che a scuola, deve farsi garante del

confine incerto, non sistematizzato o frammentario, tra il mondo

dell‘immaginazione ed il mondo reale. L‘adulto (genitore, insegnante o terapeu-

ta) deve accompagnare il bambino in questo percorso, deve ascoltarlo, essere at-

tento ai suoi bisogni e alla sua realtà emotiva, apprezzare i suoi sforzi espressivi,

valorizzare le sue produzioni simboliche (Accursio e Bucolo, 2006). La scuola

svolge, così, un ruolo significativo e rappresenta l‘ambiente all‘interno del quale

il bambino esplora se stesso, affronta costruttivamente le varie esperienze che

man mano vive e impara a socializzare con figure diverse da quelle genitoriali.

È opportuno citare le considerazioni di Winnicott (1973) riguardo il gioco

e la dimensione creativa. Il gioco non solo rappresenta lo strumento attraverso il

quale esplorare eventi esterni, il che consente di aggiungere nuove percezioni e

nuovi significati a quelli già integrati, ma è anche il principale strumento per

soddisfare la normale curiosità. Il contesto ludico, inoltre, permette di sviluppare

maggiormente le capacità creative, aumentare il senso di auto-efficacia e incen-

tivare l‘autostima, componenti fondamentali per affrontare qualsiasi situazione

indipendentemente dal contesto. Il bambino, l‘adolescente o l‘adulto, attraverso

un‘ attività di laboratorio o un gioco, attivano le proprie potenzialità, si speri-

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mentano e allenano la mente alla creatività. Infatti giocare e giocare con la crea-

tività non appartiene solo ed esclusivamente ai bambini, ma anche all‘adulto ca-

pace di utilizzare tutta intera la propria personalità.

Qualsiasi forma espressiva (musica, teatro, pittura, giochi di gruppo, dan-

za) insegna entusiasmo, passione, eccitazione, gioia, curiosità, senso del gioco,

autonomia e sicurezza: sentimenti ed emozioni che non dovrebbero appartenere

solo al mondo dell‘infanzia. Se osserviamo le dinamiche che vengono agite dai

bambini all‘interno dei laboratori creativi si denota l‘enorme importanza del ruo-

lo della creatività nelle fasi di crescita del bambino. Attraverso le attività creati-

ve i bambini sono maggiormente stimolati a creare e scoprire nuove modalità di

relazionarsi e di entrare in contatto con le proprie ed altrui emozioni. Il gioco, la

festa e il momento creativo diventavano un vero e proprio mezzo per imparare a

gestire i problemi e i cambiamenti. Un elemento significativo che incide sullo

sviluppo delle capacità creative è sicuramente dato dall‘interazione tra

l‘ambiente ed il bambino; infatti, un ambiente improntato sulla fiducia e fondato

su relazioni sicure favorisce nei ―piccoli‖ l‘assunzione del rischio, la capacità di

apprendere dagli insuccessi ed imparare ad utilizzare le conoscenze in modo

creativo.

Secondo alcuni autori risolvere i problemi in modo creativo, utilizzando

tutte le risorse che la mente ha a disposizione per l‘adattamento cognitivo e so-

ciale, è obiettivo essenziale di qualunque intervento formativo. Un compito ri-

chiesto alla scuola è di dare sempre più spazio a percorsi creativi in grado di aiu-

tare il bambino ad affrontare il mondo senza pregiudizi, automatismi o schemi

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mentali, che a volte sono appresi nell‘ambito familiare e nella società. Infatti,

oggigiorno, la scuola e le sempre più numerose attività extra-scolastiche sottoli-

neano la necessità di una formazione orientata non solo all‘apprendimento logi-

co e razionale ma, soprattutto, allo sviluppo delle capacità creative.

La creatività è diventata, così, uno strumento prezioso e utile sia

nell‘infanzia che in ogni tappa della vita e in ogni contesto( familiare, lavorativo

e sociale) per affrontare le varie esperienze o situazioni problematiche da una

nuova prospettiva. Tutto ciò appare ancora più evidente se si fa riferimento ai

numerosi cambiamenti avvenuti negli anni rispetto gli stili di vita, le nuove tec-

nologie e le esigenze del mondo del lavoro che richiedono sempre più capacità

creative: di flessibilità e di adattarsi a situazioni diverse. In un ambiente che

cambia, essere pronti a risolvere difficoltà sempre nuove e ―saper fare‖, orien-

tandosi al contesto e non solo alle conoscenze teoriche, diventano elementi es-

senziali per potersi realizzare pienamente. Aprirsi a se stessi, alle nuove espe-

rienze e affrontare i cambiamento con soluzioni diverse da quelle note sono pre-

supposti alla base non solo del processo creativo, ma anche di qualsiasi altro

percorso di crescita. Il potenziale ―terapeutico‖ insito nel processo creativo è sta-

to enfatizzato dall‘arteterapia, un intervento di aiuto e di sostegno che si basa sul

presupposto per cui il processo creativo messo in atto nel ―fare arte‖ favorisce il

recupero e la crescita della persona nella sfera emotiva, affettiva e relazionale

(Castelli, 2011). L‘espressione della propria creatività, attraverso la musicotera-

pica, la pittura o la poesia, consente di incentivare le relazioni sociali, esternare

vissuti difficilmente esprimibili con le parole e di dare un significato e una for-

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ma alle emozioni. Non si nasce creativi, ma ciascuno di noi possiede in grado

variabile delle attitudini inerenti alla creatività. La creatività deve rappresentare

uno spazio di libertà nel quale riconoscersi come individui attraverso esperienze

non condizionate dall'ambiente (Antonietti, Cesa-Bianchi, 2003). La scuola,

quindi, nel dare risposta ai diversi bisogni formativi dei bambini, deve offrire

occasioni di educazione ai linguaggi, verbali e non verbali, e alla creatività sen-

sibilizzando all‘uso e all‘intreccio dei molteplici linguaggi possibili (gestuale,

verbale, musicale, iconico) al fine di migliorare l‘espressività e la comunicazio-

ne, rivalutando, inoltre, l‘importanza della percezione emotiva e sensoriale come

strumento per l‘attivazione di nuovi canali conoscitivi. Lo sviluppo di una plura-

lità di linguaggi comunicativi in maniera originale, rappresenta il mezzo più ido-

neo per accompagnare il bambino nel suo processo di maturazione e prepararlo a

prendere contatto con il proprio mondo, a sviluppare creatività ed espressività,

favorendo il superamento dell‘eccessiva prevalenza del linguaggio verbale e

stimolando la comunicazione simbolica, l‘attenzione e la concentrazione.

3.2 Creatività e resilienza

Quale nesso potrebbe esserci tra i termini creatività e resilienza? Innanzi

tutto partiamo con il definire meglio i termini in questione. Creatività non è una

parola che ricorre spesso nei programmi e nei documenti istituzionali della scuo-

la, ma di fatto oggi concordiamo nel definirla una dimensione che non si manife-

sta soltanto nelle attività artistiche, ma pervade le manifestazioni del pensiero e

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del comportamento. In effetti viene sviluppata trasversalmente nei diversi ambiti

disciplinari, per cui ogni insegnante all'interno della sua materia ha la possibilità

di sviluppare e potenziare questa capacità, proponendo delle attività che, inte-

grandosi con quelle che mirano a far imparare la consequenzialità, la precisione,

ecc. sollecitino un modo di pensare diverso, il quale possa generare qualcosa di

nuovo che risulti utile o interessante7

Antonietti, compiendo una sintesi tra le diverse teorie proposte al riguardo,

individua tre macro-operazioni che sembrano ricorrere nelle dinamiche creative:

ampliare la prospettiva, collegare tra loro elementi disparati, riorganizzare il

campo cambiando il punto di vista con il quale lo si considera.

Veniamo ora la secondo termine in questione probabilmente meno noto,

rispetto al primo, ma come vedremo egualmente importante.

Nella letteratura psicologica, il sostantivo indica la capacità umana di af-

frontare, superare e uscire rinforzati da esperienze negative. Le parole di Cyrul-

nik riportate di seguito, ci aiutano a cogliere meglio il senso di tale costrutto.

In altre parole la resilienza indica la capacità di superare i momenti dolo-

rosi dell‘esistenza e di evolvere, nonostante le avversità, cioè ―è l‘arte di naviga-

re sui torrenti. Un trauma sconvolge il soggetto trascinandolo in una direzione

che non avrebbe seguito. Ma una volta risucchiato dai gorghi del torrente che lo

portano verso una cascata, il soggetto resiliente deve ricorrere alle risorse interne

impresse nella sua memoria, deve lottare contro le rapide che lo sballottano in-

7 Per eventuali approfondimenti si consiglia il recente testo di Antonietti A., La creatività si impara. Metodi e tecniche per lo sviluppo del pensiero divergente a scuola, Giunti Scuola, Fi-renze-Milano, 2011.

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cessantemente. A un certo punto, potrà trovare una mano tesa che gli offrirà una

risorsa esterna, una relazione affettiva, un‘istituzione sociale o culturale che gli

permetteranno di salvarsi. La metafora sull‘arte di navigare i torrenti mette in

evidenza come l‘acquisizione di risorse interne abbia offerto al soggetto resilien-

te fiducia e allegria. Tale inclinazione, acquisita in tenera età, gli ha conferito un

attaccamento sicuro e comportamenti seduttivi che gli permettono di individuare

ogni mano tesa‖.

Incominciamo con il considerare gli aspetti concettuali comuni a resilienza

e creatività. La resilienza è intesa come possibilità di trasformare una situazione

dolorosa o traumatica in un processo di apprendimento e di crescita, come capa-

cità di riorganizzazione positiva della vita (Cyrulnik e Malaguti, 2005, pp. 8-9).

La trasformazione e la riorganizzazione che contraddistinguono l'atto crea-

tivo, sono dimensioni chiamate in causa anche dalle risposte di tipo resiliente

che un individuo più di un altro può mettere in campo. Questi meccanismi, che

nel caso della creatività vengono apprezzati perché portano a produrre qualcosa

di originale e inaspettato, nel caso della resilienza sono importanti perché indu-

cono a una reinterpretazione della propria condizione che, pur nella sua dramma-

ticità o problematicità, assume un significato che non conduce alla disperazione

o chiude allo sviluppo ma apre al cambiamento o all‘integrazione positiva degli

eventi critici nella propria storia. Resilienza è anche capacità di trasformare un

evento critico e destabilizzante in un‘occasione di ricerca personale (Cyrulnik e

Malaguti, 2005, p. 8). Anche l'atto creativo si avvale di una ricerca, in particola-

re durante la generazione di idee, selezionate in base all'obiettivo che ci si è posti

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andiamo piano piano a scartare e selezionare in un angolo della mente qualcosa

a cui prima non avevamo pensato. Essere resilienti è infine disporre di un insie-

me di strutture e strategie cognitive e relazionali che permettono di riannodare i

rapporti tra passato, presente, futuro cosicché l‘individuo possa nuovamente

connettersi ad un ambiente (fisico, sociale, culturale, mentale) che ha dovuto

temporaneamente abbandonare (Cyrulnik e Malaguti 2005, p. 9). Riannodare,

connettere: secondo parecchie teorie il pensiero creativo opera proprio compien-

do collegamenti. Un esito creativo talvolta viene raggiunto stabilendo legami tra

concetti disparati, cogliendo somiglianze tra elementi che non hanno nulla in

comune. La capacità di compiere "associazioni remote", ossia nel trovare rap-

porti tra oggetti o concetti che apparentemente non condividono alcuna proprie-

tà, oppure nel collegare due distinte catene di ragionamenti, è per alcuni il mec-

canismo di base della creatività. Esempi di scoperte o invenzioni avvenute sulla

base di associazioni di questo tipo confermerebbero la realtà psicologica di que-

sti processi.

Inoltre è facilmente comprensibile come un individuo che si trovi ad af-

frontare una situazione drammatica che a prima vista non presenta vie di uscita

sia di fatto chiamato a mettere in gioco una certa dose di creatività (Antonietti,

Pizzingrilli, 2011).

Un riferimento diretto al collegamento tra resilienza e creatività viene

compiuto dallo stesso Cyrulnik. Egli ricorda che la differenziazione è uno dei

possibili meccanismi di base della resilienza. Con la differenziazione si attua una

scissione nella mente del soggetto: una parte della sua mente soffre le limitazioni

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e le conseguenze della situazione negativa che viene vissuta mentre una parte

sotterranea continua a vivere e a produrre. Secondo Cyrulnik i soggetti creativi

sono quelli che compiono un collegamento tra le due parti, riconoscendo i limiti

della situazione reale e trovando il modo per esprimere e orientare in un senso

socialmente accettabile e utile le sofferenze che patiscono (Cyrulnik e Malaguti,

2005).

Le espressioni più ―esistenziali‖ della creatività mettono in luce come que-

st'ultima non sia soltanto questione di meccanismi cognitivi. Non è sufficiente

saper produrre tante idee, compiere combinazioni insolite, trasporre schemi,

cambiare punto di vista. Occorre anche essere inclini o motivati ad attivare que-

sti processi. In altre parole, occorre un assetto mentale complessivo che permetta

o inviti a dispiegare le proprie potenzialità creative, a sfruttarle, coltivarle, met-

terle in atto (Antonietti, Pizzingrilli, 2011).

3.3 Intervento psicopedagogico: racconto di un'esperienza con i

bambini dell'Abruzzo

Il concetto di resilienza ha fornito i punti di riferimento teorici per pensare

ad un progetto finalizzato ad aiutare i bambini dell‘Abruzzo, vittime del terre-

moto, che si trovavano a dover comprendere ed elaborare l'evento traumatico.

L'intervento psicopedagogico era teso a supportare i bambini nel recupero di un

percorso di crescita individuale, relazionale e sociale.

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Il riferimento operativo era costituito da un modello di intervento elabora-

to dall‘Università Cattolica e già applicato in altri contesti di emergenza come lo

Sri Lanka e il Kosovo. Tale intervento, volto a promuovere la resilienza in bam-

bini e adolescenti, è costituito da un itinerario educativo che tiene conto sia

dell‘approccio psico-educativo (dare strumenti per risolvere difficoltà e conflitti)

sia dell‘approccio ludico-sportivo (aiutare a scaricare la tensione e le frustrazio-

ni). I bambini erano coinvolti in attività tra loro differenziate che toccavano nu-

merosi ambiti esperienziali, spaziando dall‘ambito espressivo e creativo a quello

narrativo a quello esplorativo e motorio.

A titolo esemplificativo descriveremo brevemente l‘esperienza degli itine-

rai psico-educativi attivati nei tre Campi di Accoglienza di Monticchio 1, Mon-

ticchio 2 e Paganica 5, dal 15 giugno al 21 settembre 2009, compresi nella fase

del progetto denominata ―Estate insieme‖8. Nei campi in cui si è operato è stata

allestita una grande tenda che funzionava da ludoteca, in cui hanno trovato posto

alcuni tavoli e un mobile con materiale di consumo come fogli, pennarelli, colla

ecc.. In questo spazio i bambini, sotto la guida di psicologi e pedagogisti, hanno

svolto una serie di attività organizzate in Laboratori creativo-espressivi mentre le

attività ludico-sportive usufruivano degli spazi aperti intorno ai campi di acco-

glienza.

L‘idea del laboratorio nasce con l‘obiettivo di offrire ai ragazzi uno spazio

sicuro e strutturato (Castelli, 2011) che favorisse l‘espressione e la condivisione

8 Il percorso presentato viene qui accennato nelle sue fasi principali. Per ulteriori approfondi-menti delle tematica trattata si rimanda al testo di Castelli C. (2011) e in particolare al capitolo 9, ivi contenuto, scritto da Castelli e Mancinelli (2011).

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di idee, sentimenti e vissuti personali e collettivi legati al terremoto e stimolasse

processi di elaborazione ed integrazione dell‘evento traumatico. I laboratori

hanno avuto lo scopo di creare un luogo in cui vivere momenti di serenità, ma

soprattutto di offrire una concreta possibilità per parlare di sé, per recuperare

energie e voglia di vivere e e di fare.

Il laboratorio è innanzi tutto un luogo fisico, estremamente importante per

i bambini che hanno perso il loro (la loro casa, la cameretta, la scuola, ecc.), luo-

go che si presenta sicuro e diviene spazio in cui condividere attraverso il fare so-

gni, pensieri, paure, sfide con se stessi e con le proprie capacità. Questo spazio

da fisico diviene mentale poiché consente di andare oltre il fare e recuperare e

―dare spazio‖ all'intuizione, alla creatività, alle sperimentazioni e alle esperienze.

Il laboratorio è altresì uno spazio per il confronto e la condivisione dei vissuti

personali e la riattivazione di sentimenti di collaborazione e condivisione con gli

altri.

Nel pianificare le attività gli educatori hanno privilegiato il fare: manipola-

re, dipingere, rappresentare con il teatro o il canto, narrare, in modo che il pro-

dotto potesse essere visibile, concreto e potesse diventare oggetto di riflessione

ed elaborazione. Si è lavorato molto con gli psicologi ed i pedagogisti nella

creazione di un clima positivo, di apertura e accoglienza

I laboratori sono stati pensati a metà strada tra l‘atelier di un artista e la

bottega dell‘artigiano, per cui vengono privilegiate tecniche varie e strumenti,

molti dei quali hanno a che fare con l‘arte. Per la realizzazione di questi labora-

tori sono state usate soprattutto attività espressive come il disegno, la musica, il

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teatro, la narrazione, tutte attività che da sempre sono state considerate fonda-

mentali per il raggiungimento dell‘equilibrio psichico e per fare emergere le ri-

sorse psicologiche necessarie ad affrontare situazioni di difficoltà più o meno

gravi. Queste tecniche, infatti, utilizzano ―le potenzialità, che possiede ogni per-

sona, di elaborare creativamente tutte quelle sensazioni che non si riescono a far

emergere con le parole e nei contesti quotidiani. Per mezzo dell‘azione creativa

l‘immagine interna diventa immagine esterna, visibile e condivisibile e comuni-

ca all‘altro il proprio mondo interiore emotivo e cognitivo. Le immagini possono

aiutare a ‗vedere‘ quello che non è possibile verbalizzare, essendo libere da vin-

coli del pensiero logico e del linguaggio sequenziale‖ (Sunderland, 1993, p. 9 )

Alla base di numerosi percorsi educativi vi erano una serie di attività basa-

te sulla manipolazione dei materiali e sulla costruzione di manufatti ed erano ri-

volte sia alla prima infanzia, quando cioè il fare riesce ad esprimere meglio delle

parole ciò che si ha dentro, sia agli adolescenti. Per i ragazzi, il creare oggetti at-

traverso la pittura, l' argilla o il legno, costituisce una modalità spesso più effica-

ce della comunicazione verbale. Nei laboratori sono stati proposti diversi mate-

riali, da quelli più destrutturati come l‘acqua e la farina, che hanno la qualità di

essere duttili e facilmente plasmabili, a quelli più strutturati come la carta, il le-

gno, il cartone, la stoffa utilizzati per creare oggetti e rappresentazioni. Tra que-

sti, un posto particolare è occupato dal collage, una tecnica consistente nella

creazione di opere o composizioni riguardanti un determinato tema, realizzate

mediante la sovrapposizione di carte, fotografie, oggetti, ritagli di giornali o di

riviste incollati su un supporto rigido (cartoncini, tavole di legno, ecc.).

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Esempi significativi sono la costruzione dell' ―armadio‖ dove conservare i

propri ricordi, la creazione di un fiore di carta da donare a un amico o la costru-

zione di un ―acchiappasogni‖ per sperare ancora nel futuro.

Una particolare modalità di esprimere creatività, immaginazione, abilità

manuali e impegno lavorativo è quella della riscoperta dei mestieri d‘arte che

sono un'espressione del territorio, della cultura e delle tradizioni di un popolo e

vanno dalla lavorazione della ceramica a quella del vetro e dell‘oro, dalla confe-

zione di costumi teatrali alla costruzione di strumenti musicali, dalla incisioni su

vari materiali al restauro di oggetti antichi.

Il recupero di questi lavori è particolarmente importante in un momento

come quello delle catastrofi naturali in cui si perde il rapporto con il proprio con-

testo e con il proprio passato ed è quindi necessario favorire tutte quelle attività

che possano facilitare il recupero delle proprie radici storiche e culturali (Castel-

li, 2011).

A questo scopo, la riscoperta dei mestieri d‘arte nei laboratori è stata rea-

lizzata sia attraverso il racconto degli anziani riguardo le attività tradizionali, sia

dall'attività stessa dei ragazzi che si sono cimentati con tecniche come

l‘incisione su rame, il modellamento della creta, la costruzione di strumenti per

misurare il tempo (orologio, calendario).

E' stato dedicato molto tempo al disegno e alle attività grafiche in generale

in quanto rappresentano uno dei linguaggi creativi più diffusi ed efficaci in

quanto danno forma all‘esperienza sensoriale (sensazioni visive, acustiche, tatti-

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li, olfattive, percezione ed organizzazione dello spazio) e l‘arricchiscono di con-

tenuti interni alla persona coinvolgendo emozioni e processi cognitivi.

La molteplicità di variabili cognitive ed emotive che entrano in gioco nelle

attività grafiche hanno fatto sì che questa modalità espressiva assumesse un ruo-

lo centrale nell‘attività didattica, fosse ampiamente utilizzato in psicologia clini-

ca e nella psicodiagnosi e trovasse largo impiego anche nell‘ambito della psico-

terapia, come supporto e integrazione al colloquio, per facilitare l‘espressione di

contenuti emotivamente difficili. Il disegno è stato ampiamente utilizzato nei la-

boratori per esprimere le emozioni rispetto a se stessi, alla propria casa, alla fa-

miglia, all‘evento traumatico, alle speranze e ai sogni per il futuro.

Per le loro molteplici potenzialità le fotografie hanno trovato largo impie-

go nell'ambito delle attività proposte. In educazione, formazione ma anche

nell'ambito clinico le fotografie vengono usate come ―oggetti mediatori‖ per aiu-

tare un individuo ad esplorare i vissuti e organizzare la comunicazione di idee,

ricordi, sentimenti e associazioni all‘interno di un gruppo ristretto. Si possono

anche utilizzare fotografie che ritraggono l‘individuo stesso e, attraverso

l‘osservazione di una propria fotografia, si offre la possibilità di rivedersi e ri-

trovarsi nei ricordi e nei sentimenti evocati dall‘immagine, favorendo così un

processo di autoconoscenza e di confronto con se stesso. Si possono infine usate

fotografie scattate dallo stesso individuo per fermare un istante, un ricordo, una

immagine da poter poi essere rivissuta in tempi successivi. All‘interno dei labo-

ratori, ci si è serviti della fotografia come un metodo per consentire ai ragazzi di

fissare il ricordo delle loro esperienze, di integrare i propri vissuti con la propria

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creatività, ma anche di condividere tutto questo con agli mediante l'allestimento

di una mostra fotografica.

Altre metodiche utilizzate riguardano l'attività della narrazione e in parti-

colare il raccontare, fare leggere, vedere, riflettere, disegnare e recitare i conte-

nuti di una fiaba. Sappiamo che queste attività possono aiutare i bambini a supe-

rare le difficoltà che incontrano in quel determinato momento della loro vita e

scoprire le risorse per uscire dalla situazione problematica e inserirsi in una nuo-

va situazione di vita. Nelle attività dei laboratori le fiabe vengono raccontate ai

bambini come strumenti per aiutarli a comprendere e superare alcune problema-

tiche legate all‘evento vissuto, ma sono anche raccontate dai bambini attraverso

la rappresentazione grafica e teatrale. Infatti una delle espressioni artistiche più

antiche e dalle potenzialità molteplici è senza dubbio il teatro, utilizzato sia da

psicologi che da educatori ed operatori. Nell‘ambito dei laboratori, mediante

l‘azione fisica ed emotiva e attraverso il processo dell‘improvvisazione e

dell‘interpretazione di ruoli prestabiliti, bambini e ragazzi hanno avuto la possi-

bilità di mettere in scena fiabe e storie che li hanno aiutati a rielaborare e integra-

re a livello personale le esperienze e i sentimenti di quel particolare momento

della loro vita.

Nei laboratori creativi di musica, gli elementi sonori sono stati utilizzati

sia per sottolineare stati d‘animo suscitato da particolari suoni (come nel caso

del ―bastone della pioggia‖) sia per creare un legame all‘interno del gruppo ca-

ratterizzato dalla multietnicità. Attraverso il recupero delle canzoni tradizionali

del proprio paese e il confronto di quelle di altri contesti culturali, il ragazzi

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hanno preso consapevolezza della necessità di confrontarsi con culture ed etnie

diverse e imparato a convivere con esse nel rispetto e nella collaborazione reci-

proca.

Le attività sono state organizzate intorno ad alcuni percorsi tematici e rag-

gruppati in tre grandi settori che fanno riferimento rispettivamente al rapporto

dei ragazzi con il mondo esterno sia fisico che sociale, al rapporto con se stessi

nel presente e al rapporto con la loro vita futura.

Il primo tema (il mondo esterno, la natura) aveva lo scopo di favorire una

ripresa di contatto e di fiducia con l‘ambiente naturale circostante sconvolto dal

terremoto. Attraverso varie attività si è cercato di aiutarli a riscoprire la bellezza

del rapporto con la natura, vista di nuovo come ―madre buona‖, fonte di gioia e

di vita e non più come strumento di dolore e di distruzione. Gli spazi aperti, i co-

lori, i profumi e gli elementi della natura dell‘Abruzzo, più di ogni altra espe-

rienza, hanno favorire il recupero del contesto ambientale.

Il secondo tema (se stessi) ha consentito agli operatori di focalizzare

l‘attenzione sul ricco patrimonio di idee, sentimenti, valori e vissuti dei bambini

con l'intento di favorire il recupero di se stessi da un punto di vista sia fisico che

emotivo e relazionale. A questo scopo le attività sono state incentrate

sull‘immagine corporea, sulle emozioni, sul vissuto della casa e sul rapporto con

la famiglia, tutti aspetti fondamentali della vita dell‘individuo messi in pericolo

dall‘evento del terremoto.

Il corpo è il primo elemento che costituisce l‘immagine di sé ma è anche la

sede delle pulsioni e dei desideri. Il corpo umano che nell‘esperienza dei bambi-

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ni è stato soggetto a deprivazioni, dolore e morte è stato disegnato, modellato

con la creta, rappresentato nel teatro, fotografato.

Altri aspetti trattati riguardavano la percezione e rappresentazione della

casa che da sempre simboleggia il rifugio, il calore familiare, il nucleo originario

in cui trovare protezione e conforto. L‘esperienza del terremoto ha distrutto in-

sieme alle case anche la sicurezza di avere un luogo sicuro, stabile a cui tornare

e in cui ritrovare i propri oggetti e i propri affetti. Si è lavorato anche sul tema

della famiglia che rappresenta, soprattutto per i bambini, la fonte primaria di so-

pravvivenza. Mediante le tecniche sopra evidenziate gli educatori hanno cercato

di aiutare i bambini a ricostruire i rapporti familiari e rafforzare i legami al suo

interno.

Le emozioni vissute durante il terremoto e anche nel periodo successivo

all‘evento traumatico, sono state numerose e di grande intensità: paura, dispera-

zione, rabbia, impotenza, ecc. Il poterle rivivere, anche a livello simbolico e in

una situazione di sicurezza, rappresenta un momento fondamentale di supera-

mento del trauma.

Se per un verso era importante che i ragazzi riuscissero a focalizzare il

proprio interesse su se stessi, sulla loro storia e sulla loro identità personale e

culturale, dall‘altro era necessario spingerli ad allargare i propri orizzonti, a

guardare oltre il limite della situazione concreta e immediata e ricominciare a

pensare e a progettare il futuro. Affinchè questo fosse possibile sono state pro-

poste delle attività che, attraverso il recupero delle esperienze del passato, dei

sogni avverati e di quelli non realizzati, degli obiettivi raggiunti e delle difficoltà

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incontrare, fornissero dei concreti punti di riferimento sui quali costruire il futu-

ro.

3.4 Immigrazione e resilienza

Negli ultimi dieci anni, gli ambiti di studio di ricerca si sono estesi arri-

vando a far confluire all'interno del termine resilienza tutta una serie di processi

e competenze che chiamano in causa diversi domini della psicologia: cognizioni,

emozioni, relazioni. La letteratura riporta una lunga serie di fattori protettivi:

abilità cognitive (QI elevato, abilità attentive, ecc), senso di sicurezza (autoeffi-

cacia ed autostima), temperamento positivo), temperamento positivo, personalità

prosociale. Altri studi hanno considerato, oltre alla dimensione individuale, l'im-

portanza delle relazioni interpersonali (qualità del caregiving degli adulti, le re-

lazioni amicali, l'integrazione scolastica, la qualità dei servizi alla persona, ecc.).

La resilienza ―appartiene al mondo delle sfumature più che a quello dei confini,

della creatività e della diversità più che a quello della prescrizione e dell'omoge-

neità, dell'evoluzione e del cambiamento più che a quello della permanenza e

della staticità‖ (Castelli, 2011, p.16). Nel paragrafo precedente abbiamo potuto

constatare come le attività espressivo-creative possano promuovere e sostenere

la resilienza, cioè la capacità dell'individuo di far fronte alle avversità che incon-

tra nel ciclo di vita.

Nell'ultima parte di questo capitolo, proseguiamo nell'analizzare il costrut-

to di resilienza, mettendolo in relazione con l'esperienza della migrazione ed, in

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particolare, con le difficoltà che deve affrontare il bambino straniero che si trova

sdradicato dal suo contesto e da tutto quello che fino ad un momento prima gli

era familiare. La migrazione dei bambini, come vedremo, si traduce in un evento

faticoso che segna inevitabilmente la loro storia e la loro identità.

L'esperienza della migrazione dal proprio paese per una famiglia rappre-

senta un evento traumatico che delinea una situazione di crisi, cioè una possibile

vulnerabilità. L'abbandono del paese nativo e la difficoltà ad inserirsi nel nuovo

contesto rappresentano un cambiamento radicale che si ripercuote sul senso di

identità delle persone. L'esperienza di chi emigra è quella di rottura con la pro-

pria cornice di riferimento e implica un passaggio ad un diverso sistema di valo-

ri, a diverse pratiche e modalità relazionali e richiede uno sforzo interpretativo

della nuova cultura, sia la capacità di coniugare i diversi stili culturali onde evi-

tare gli effetti nocivi dello sdradicamento e dell'isolamento.

Le ricerche molto spesso evidenziano la relazione positiva tra integrazione

e benessere psico-sociale. Proviamo allora a desumere dalla letteratura alcune

dimensioni importanti che potrebbero fungere da fattori di protezione per la per-

sona ed aiutarla a mantenere un livello almeno accettabile di benessere. Il primo

aspetto che consideriamo riguarda l'identità, ed in particolare, l'identità etnica.

Con tale espressione intendiamo secondo Tajfel quella parte dell'immagine che

un individuo si fa di se stesso, che deriva dalla consapevolezza di appartenere ad

un gruppo sociale, unita al valore e al significato emozionale associato a tale ap-

partenenza. Ne consegue che laddove la persona riesce ad attribuire un valore al-

la propria appartenenza, il senso di identità etnica può costituire una tutela ed es-

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sere una dei fattori che contribuiscono a favorire la resilienza della persona im-

migrata. Un secondo aspetto è riconducibile al progetto migratorio che viene

considerato il principale fattore di resilienza, in quanto protegge dalla sofferenza

psichica. Un terzo aspetto riguarda il riuscire a sviluppare una doppia apparte-

nenza, questo aspetto è collegato al precedente perchè la forza del sogno e le

aspettative tipiche del progetto migratorio spingono la persona ad inserirsi più

facilmente nella comunità ospitante. La doppia appartenenza è frutto di un lento

e profondo lavoro analitico in cui l'identità viene formata dal continuo confronto

tra i due mondi. Tale confronto non comporta soluzioni estreme, ma selezione e

adeguamento. In tal modo il soggetto riesce ad avere un'identità formata dall'ar-

monizzazione dei valori delle due differenti culture e, soprattutto, ad avere un

duplice sentimento di appartenenza.

Il progetto migratorio che sostiene gli adulti nella scelta di lasciare il paese

di origine, non è sicuramente un fattore di protezione per i bambini, i quali sono

più fragili e spesso inconsapevoli. Alcuni autori li hanno chiamati ―viaggiatori

non per scelta‖ poiché si ritrovano catapultati talvolta anche dall'altra parte del

mondo senza che vi sia sta alcuna preparazione al distacco. In particolare la se-

conda generazione, cioè i figli di immigrati che hanno seguito o raggiunto i geni-

tori sono maggiormente esposti ad una situazione di vulnerabilità sociale e psi-

chica dovuta alla precarietà dei progetti migratori dei genitori, alle difficili con-

dizioni materiali ed economiche della famiglia, alle tensioni tra i diversi modelli

culturali proposti e sovente, alle discriminazioni più o meno esplicite da parte

dei coetanei. L'integrazione e la conoscenza del paese ospitante, il più delle volte

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vengono gestite in solitudine, senza alcun appoggio adulto. I genitori tendono ad

ignorare o sottovalutare il peso della sfida che i minori si trovano a dover fron-

teggiare, altre volte si trovano loro stessi nella condizione di non poterli aiutare

non conoscendo la lingua, le regole implicite, gli spazi educativi della scuola.

3.4.1 Favorire l'integrazione del bambino straniero a scuola

L'ingresso nella scuola è un evento critico per il bambino migrante, sia per

quanto riguarda l'aspetto della socializzazione, che per l'apprendimento della let-

to-scrittura nella seconda lingua. Questo momento può essere vissuto come ele-

mento di dolore e discontinuità rispetto alle proprie tradizioni e alla propria lin-

gua di origine: apprendere a leggere e a scrivere (soprattutto per i bambini più

piccoli) solo nella lingua del paese di accoglienza significa rompere il legami

fondamentali rappresentati dalla lingua materna. I bambini stranieri, inseriti nel-

la scuola sono però molto diversi tra loro per storie e vissuti: molti sono nati in

Italia; altri giunti qui al seguito della famiglia oppure attraverso percorsi di ri-

congiungimento familiare; poi abbiamo i figli delle coppie miste; gli adolescenti

non accompagnati; i bambini adottati e i figli di richiedenti asilo, rifugiati o pro-

fughi

I genitori stranieri in alcuni casi non riescono a garantire in questo mo-

mento una base sicura e li caratterizza un generale senso di inadeguatezza. Inol-

tre, non è raro assistere ad un'inevitabile inversione di ruolo e di competenza nei

rapporti intergenerazionali, motivo questo che fa vivere la scuola in maniera

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ambivalente. Non solo in quanto luogo di potenziale affrancamento sociale, ma

anche luogo che espone a rischio i valori tradizionali e la distribuzione dei ruoli

all'interno della famiglia.

Al di là delle tipologie identificate, i bambini stranieri hanno bisogni co-

muni di cui la scuola può e deve prendere atto:

1) Il bisogno di costruire un‘identità plurale e un senso di appartenenza

ampio

2) Il bisogno di armonizzare nella rappresentazione del loro sé in

costruzione le molteplici storie che caratterizzano la loro esperienza

3) Il bisogno di elaborare eventuali vissuti traumatici o le esperienze di

discriminazione subite

4) Il bisogno di identificare i punti di riferimento e i valori importanti

Cosa può fare l'insegnante? Innanzi tutto coniugare la sfera cognitiva con

quella emotivo-affettiva e relazionale. Il che implica mettere al centro l'alunno,

evitare stereotipi e pregiudizi, avere voglia di mettersi in gioco come insegnante

privilegiando una dimensione di decentramento, di ascolto e comprensione

dell'altro. Privilegiare pratiche didattiche come la ricerca-azione, lo scambio tra

storie-saperi-riferimenti, interdisciplinarieta‘ e se possibile promuovere e

sostenere lo sviluppo di partenariati tra scuole e/o enti pubblici e privati

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Passaggi pedagogico-formativi

l'inserimento del minore passa attraverso una serie di passaggi descritti

dalla normativa in possesso di tutti gli istituti scolastici. riprendiamo, insieme gli

elementi salienti ai fini del nostro discorso.

Innanzi tutto è necessaria una prima fase di orientamento in cui rilevare le

abilità e le competenze in ingresso e valutare gli apprendimenti. La rilevazione

consente di: definire la classe di assegnazione e predisporre il piano personale.

La rilevazione deve riguardare la rilevazione di competenze ed abilità non

solo in L2, ma logico-matematiche, artistico- espressive, motorie, manipolative,

comportamenti prossemici differenti nelle culture di appartenenza quando è pos-

sibile in L1. Successivamente i docenti:

- rilevano bisogni specifici di apprendimento in base ai livelli

linguistici del Framework europeo9

- elaborano percorsi didattici in L2, anche in collaborazione con

soggetti esterni

- individuano modalità di semplificazione e facilitazione linguistica in

ogni disciplina

9 Nel Framework europeo vengono distinti i seguenti livelli: Livello base A1, A2 Livello autonomo B1 , B2 Livello padronanza C1,C2 Esempio nella produzione scritta: A1 è in grado di scrivere semplici frasi isolate A2 frasi semplici con connettivi semplici (e, ma, perché) B1 su argomenti che conosce bene è in grado di redigere un testo breve e molto semplice B2 testi articolati su argomenti diversi valutando informazioni e argomentazioni tratte da diverse fonti

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Per quanto riguarda la valutazione, il dirigente scolastico con il collegio

Docenti può definire il necessario adattamento dei programmi di insegnamento

e i criteri per una programmazione /valutazione individualizzata degli alunni

stranieri che riguarda per esempio l'adattamento dei programmi di insegnamento,

l'eventuale riduzione dei contenuti curriculari, la sospensione momentanea di va-

lutazione in alcune discipline.

E' possibile, per cui, predisporre (in base ovviamente ad un'attenta valuta-

zione dello studente) un piano didattico individualizzato che potrebbe compren-

dere i seguenti aspetti:

- Informazioni generali dello studente (schede, auto interviste)

- Rilevazioni competenze linguistiche e disciplinari in ingresso

- Obiettivi formativi e didattici trasversali

- Definizione degli interventi: dispositivi di supporto, omissioni

disciplinari, riduzione, sostituzione e integrazione contenuti e

discipline

- Individuazione di obiettivi delle singole discipline

- Tempi e modi delle verifiche e delle valutazioni

Le dimensioni sotto indicate, invece, possono essere utilizzate come Indi-

catori dell‘integrazione dell'alunno straniero:

- Situazione dell‘inserimento scolastico e qualità dei risultati

- La competenza della lingua italiana

- Qualità delle relazioni in classe

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- Scambi con ambiti extrascolastici

- Lingua materna e legame con la cultura d‘origine

- Autostima,accettazione delle sfide.

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IV Lezione La relazione insegnanti-genitori: dimensioni relazio-

nali nel contesto scolastico

4.1 Le relazioni genitori-insegnanti: modelli interpretativi10

L'ingresso nel sistema scolastico è per la famiglia un momento particolar-

mente importante, caratterizzato da molte emozioni ambivalenti. Da un lato vi è

la felicità e la curiosità di vedere il proprio figlio inserito in un nuovo contesto di

crescita e di apprendimento, dall'altro la paura e l'ansia che potrebbe non trovarsi

bene. Inoltre il peso della valutazione e la relazione con le insegnanti ancora tut-

ta da costruire non facilitano certo il compito. La situazione non migliora prose-

guendo nel ciclo dell'istruzione quando il genitore non solo deve fare i conti con

le maggiori aspettative e richieste che inevitabilmente la scuola fa, ma soprag-

giungono i problemi legati ai compiti di sviluppo propri dell'età adolescenziale.

La maturazione del sé, la ricerca dell'identità cominciano ad essere aspetti preva-

lenti e compiti evolutivi privilegiati per l'adolescente che, in alcuni casi, mal tol-

lera l'interessamento genitoriale o le richieste della scuola (interrogazioni, carico

di compiti, ecc.). Si parla ormai da qualche anno dell'importanza di un'alleanza

scuola-famiglia, alleanza in cui la collaborazione e la condivisione nel rispetto

delle reciproche competenze e dei differenti ruoli ponga al centro il minore e ne

10 Per ulteriori approfondimenti si rimanda il lettore a: Bartolomeo A., Le relazioni genitori-insegnanti, La Scuola, Brescia 2004.

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garantisca nel miglior modo possibile la crescita e l'esplicitazione di tutte le sue

potenzialità.

Alcune volte questa collaborazione funziona in altri casi, invece, abbiamo

genitori assenti o sfuggenti e/o insegnanti stanchi e poco desiderosi di porsi dav-

vero in relazione con le figure genitoriali. La letteratura psicopedagogica (so-

prattutto le ricerche che ci giungono dal Nord America) sottolineano i benefici di

una buona relazione tra diverse agenzie educative, che coinvolgono primaria-

mente il benessere e lo sviluppo dell'alunno.

La relazione genitori-insegnanti, come abbiamo detto, si confronta con la

dimensione evolutiva, caratterizzandosi come spazio di accoglienza dei bisogni

emotivi e affettivi del bambino nella scuola dell'infanzia, per connotarsi poi co-

me modello centrato sull'attività didattica nella scuola secondaria di primo gra-

do. La lettura delle caratteristiche evolutive della relazione scuola-famiglia, pe-

rò, ci offre importanti spunti di riflessione circa l'importanza di focalizzarsi sulle

dimensioni di accoglimento dei bisogni emotivi lungo tutto il corso dei differenti

cicli scolastici, nella considerazione delle esigenze che emergono con la crescita

degli alunni e anche dei loro genitori.

La scuola e i servizi educativi rappresentano luoghi di relazione alla cui vi-

ta partecipano diversi attori sociali: insegnanti, dirigente scolastico, alunni, per-

sonale non docente e genitori, educatori, psicologi, assistenti sociali, ecc.

Alcuni modelli psicologici ci permettono di analizzare la dimensione rela-

zionale nel contesto scolastico ed educativo, offrendo chiavi di lettura che am-

pliano la prospettiva di analisi centrata sull'individuo, fino a comprendere i di-

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versi contesti di crescita, intesi come luoghi di scambio relazionale. Presentere-

mo i principali approcci teorici che a diverso titolo di sono occupati di insegnan-

ti e genitori.

Nella prima parte di questo capitolo analizziamo i seguenti modelli: psico-

dinamico, ecologico e sistemico, la teoria dell‘attaccamento, e il modello cogni-

tivo-comportamentale. In particolare, il contributo psicodinamico aiuta a foca-

lizzare la relazione sui vissuti interiori e fantasmatici degli individui che si gio-

cano nell‘incontro con l‘altro. La teoria generale dei sistemi e la prospettiva eco-

logica di Bronfenbrenner fondano teoricamente un modello della complessità

ambientale nelle relazioni, che va dall‘interazione diadica ai grandi sistemi so-

ciali. La teoria dell‘attaccamento spiega la dimensione affettiva e relazionale,

con riferimento alle prime esperienze di relazione primaria e per finire il model-

lo cognitivo comportamentale offre delle indicazioni pratiche su come impostare

la relazione scuola-famiglia.

Il modello psicoanalitico

Solo di recente il contributo psicoanalitico ha iniziato a occuparsi del fun-

zionamento relazionale nel contesto scolastico , offrendo una lettura della rela-

zione educativa sulla base delle conoscenze maturate nel setting terapeutico.

Blandino (psicoanalista che si è occupato a fondo di tematiche connesse

all‘apprendimento), presenta il modello psicoanalitico come possibilità di assu-

mere un vertice da cui osservare i fenomeni che caratterizzano il campo interper-

sonale ed educativo.

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Questo vertice consiste in un atteggiamento mentale relativo alla conside-

razione del ruolo che giocano i sentimenti e le emozioni, sensibilità che non va

confusa con l‘adozione di un atteggiamento interpretativo fine a se stesso, e tan-

to meno diagnostico, sulle personalità altrui.

L‘approccio psicoanalitico definisce il contesto scolastico in termini di alto

tasso di relazionalità. L‘insegnante si trova spesso a gestire relazioni, e quindi a

svolgere un lavoro psicologico di presa in carico e di elaborazione della dimen-

sione interpersonale. La mente dell‘insegnante è lo strumento psicologico di la-

voro, intesa non solo in termini cognitivi, ma anche e soprattutto emotivo-

affettivi.

All‘interno di una relazione ―…noi possiamo pensare solo quando siamo

in contatto con le nostre emozioni.‖ La professionalità relazionale consiste nella

possibilità di fornire supporto sia cognitivo che emotivo all‘altro, nella capacità

di comprendere, capire e assumere responsabilità all‘interno della relazione, il

che rimanda alla presa in carico dell‘altro e alla gestione della sofferenza emoti-

va (holding).

Questa professionalità consiste anche nella capacità di sentire e di essere

presenti nella relazione, ricevere, accogliere e contenere, nel saper entrare in

contatto con l‘altro, comprenderne le richieste e i bisogni. Si tratta, quindi, della

capacità di gestire la complessità interpersonale. Infatti, la professionalità rela-

zionale a scuola si declina nel rapporto tra insegnante e alunno, tra insegnanti e

genitori, tra operatori e utenti. In questo mondo relazionale non è presente solo

la dimensione consapevole delle persone, data dalla intenzionalità comunicativa,

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ma emerge anche una dimensione non consapevole , che insegnanti e operatori a

scuola devono imparare a conoscere e a tenere in considerazione. Questa di-

mensione inconsapevole ha spesso a che fare con le ansie più profonde, che ine-

vitabilmente interferiscono con la scelta e l‘ascolto delle parole che si utilizzano

nell‘incontro dialogico con l‘altro. Infatti, molte volte al di là delle intenzioni

comunicative, attraverso le parole vengono scambiati significati molto differenti

che attingono al nostro mondo interiore.

L‘approccio psicoanalitico, nella lettura della dimensione relazionale nel

contesto scolastico, offre un contributo importante sottolineando il ruolo del

mondo interno e dei vissuti emotivi e affettivi che caratterizzano la vita di cia-

scun individuo.

L‘importanza del lavoro psicologico, inteso come quel lavoro che coinvol-

ge il docente sulla dimensione relazionale, comporta, quindi, la necessità di co-

noscere come il proprio mondo interno si gioca nell‘incontro con l‘altro.

La teoria generale dei sistemi

La teoria generale dei sistemi fornisce una serie di principi che aiutano a

leggere la complessità relazionale nei contesti educativi e scolastici.

Pianta, studioso contemporaneo di psicologia dell‘educazione, ha analizza-

to l‘applicazione della teoria generale dei sistemi alla psicologia dello sviluppo.

―I sistemi sono unità composte di diverse parti interconnesse che agiscono in

modo organizzato e interdipendente per promuovere l‘adattamento o la soprav-

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vivenza dell‘unità intera. Le classi, le scuole, i gruppi di lettura, le pratiche di-

sciplinari, le relazioni tra bambino e insegnante, il saper leggere e scrivere, le

famiglie sono, o possono essere, in vari modi, sistemi‖.

La teoria generale dei sistemi permette, quindi, di analizzare il comporta-

mento delle parti in relazione al tutto e di comprendere le proprietà dinamiche

del tutto in relazione al contesto.

I principi della teoria generale dei sistemi contribuiscono ad analizzare i

molteplici fattori che influenzano lo sviluppo dei bambini piccoli, come le fami-

glie, le comunità, i processi sociali, lo sviluppo cognitivo, le scuole, gli inse-

gnanti e i compagni.

I sistemi esercitano sullo sviluppo influenze di portata variabile , che van-

no da influenze remote (come quelle esercitate dai governi) a influenze prossi-

mali (come quelle esercitate dalla famiglia).

I sistemi si riferiscono alla cultura, al piccolo gruppo sociale, alla diade, al

bambino, al sistema comportamentale e al sistema genetico e biologico. I siste-

mi, inoltre, contengono codici che modellano il contesto più vicino a cui il bam-

bino deve adattarsi e prescrivono azioni di regolazione del sistema nei confronti

del bambino stesso. Ad un livello remoto le culture influenzano lo sviluppo con

un insieme di codici che definiscono l‘insieme delle aspettative diffuse riguar-

danti lo sviluppo del bambino, come per esempio il momento in cui imparare a

leggere.

Al livello più prossimale troviamo i codici dei sistemi delle famiglie e dei

piccoli gruppi sociali (coetanei, bande, gruppi parrocchiali, scuole, classi) che si

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occupano della regolazione del comportamento del singolo bambino al fine di

formare individui in grado di svolgere adeguatamente i ruoli assegnati nella

struttura sociale allargata.

All‘interno dei piccoli gruppi sociali, le relazioni interpersonali svolgono

un ruolo fondamentale nella regolazione del comportamento del bambino. Que-

ste relazioni o sistemi diadici sono costituite dall‘interazione tra due persone ,

che si struttura nel tempo e in diverse situazioni.

Questa relazione può assumere un ruolo fondamentale nel modellare i

comportamenti degli individui coinvolti e, attraverso innumerevoli interazioni,

può regolare o limitare lo sviluppo delle persone (Pianta, 1999).

Le relazioni a loro volta sono interconnesse; le relazioni tra coetanei sono

influenzate dalla qualità del rapporto tra genitori e figli e dalla qualità della rela-

zione tra bambini e insegnanti, dalla qualità della relazione genitori-insegnanti,

ecc.

La teoria dei sistemi e il modello ecologico

Bronfenbrenner è il principale esponente della teoria ecologica, prospettiva

di ricerca che studia le interazioni tra individuo e ambiente, con attenzione alle

componenti individuali della personalità e alle variabili contestuali dello svilup-

po umano, realizzando un incontro fecondo tra biologia, psicologia e sociologia.

In particolare la teoria ecologica si occupa delle influenze che l‘ambiente

fisico e sociale hanno sul progressivo adattamento dell‘organismo all‘ambiente.

Per molto tempo si è studiato lo sviluppo dell‘individuo tralasciando la conside-

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razione del contesto e, successivamente l‘attenzione è stata focalizzata sul conte-

sto tralasciando la dimensione evolutiva. Invece, Brofenbrenner presenta una let-

tura delle relazioni tra persona e ambiente che tiene conto delle caratteristiche

individuali, biologiche e temperamentali coinvolte.

Lo studioso rileva un altro limite presente in molte teorie psicologiche, ri-

guardante la mancanza di considerazione della dimensione temporale, da cui

emerge una concezione dell‘ambiente come fisso e immutabile. Per cui elabora

un modello crono-sistemico, che tiene conto della dimensione temporale sia

nell‘individuo, sia nei contesti, con attenzione anche alle più ampie modificazio-

ni storico-sociali ed ai problemi che riguardano il rapporto fra individuo e istitu-

zioni. In tale prospettiva si possono analizzare disfunzioni e potenzialità delle

situazioni educative nelle relazioni reciproche con la famiglia , il gruppo dei

compagni e i contesti più ampi della socializzazione .

Bronfenbrenner ha mostrato come eventuali modificazioni di condizioni

ambientali possono avere effetti sul comportamento dei bambini, dei genitori e

del personale scolastico, e anche sullo sviluppo del bambino nel tempo.

L‘approccio ecologico ha il pregio di aver modificato l‘impostazione li-

neare causa-effetto che ha caratterizzato la ricerca nella prima metà del secolo

scorso, assumendo una prospettiva di studio delle relazioni umane circolare, che

sottolinea l‘importanza del contesto da cui non può essere scissa alcuna unità.

L‘ambiente ecologico include le interconnessioni tra più situazioni am-

bientali e le influenze esterne su quelle situazioni. All‘interno dell‘ambiente

ecologico Brofenbrenner individua una serie ordinata di strutture concentriche

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incluse l‘una nell‘altra, definite: microsistema, mesosistema, esosistema e ma-

crosistema .

I cambiamenti di ruolo e di situazione ambientale che modificano la posi-

zione dell‘individuo nell‘ambiente ecologico sono definite ―transizione ecologi-

ca ‖ (per esempio l‘inizio della frequenza scolastica).

Il Microsistema è l‘ambiente immediato in cui vive il bambino in un pre-

ciso momento dello sviluppo. E‘ dato dal complesso di attività, ruoli e relazioni

interpersonali con cui l‘individuo è in contatto diretto in un particolare contesto,

casa, scuola o gruppo dei compagni durante il suo sviluppo.

Il Mesosistema e la zona di relazione tra due o più contesti , ai quali il

bambino partecipa direttamente.

E‘ un sistema di microsistemi e si riferisce a due o più contesti ambientali

e alle loro interconnessioni. Un esempio degli effetti delle relazioni fra microsi-

stemi è rappresentato dai rapporti scuola- famiglia. Il tentativo di modificare le

relazioni fra scuola e famiglia con il coinvolgimento di genitori e insegnanti in

progetti comuni può incidere sull‘atteggiamento dei genitori e sui processi di

apprendimento dei bambini in modalità rilevanti ai fini dello sviluppo .

L' Esosistema è l'ambito in cui hanno luogo eventi e vengono prese deci-

sioni che influiscono sullo sviluppo del bambino pur non avendo contatto diretto

con esso. Riguarda due o più contesti ambientali, fra i quali almeno uno a cui la

persona non partecipa direttamente, ma in cui si verificano eventi che influenza-

no l‘ambiente con cui la persona è in contatto diretto.

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Il Macrosistema è il contesto ideologico, culturale e organizzativo che go-

verna tutta la rete relazionale e dota di coerenza l‘intero sistema. Rappresenta,

quindi, il contesto sovrastrutturale. Tale contesto è legato a culture e organizza-

zioni sociali più ampie, che hanno i loro sistemi di norme, credenze, rappresen-

tazioni sociali e aspettative, che sono rilevanti ai fini dello sviluppo.

Bronfenbrenner analizza così come segue il contesto scolastico secondo il

modello ecologico. Nella scuola, la classe e lo spazio di gioco sono microsistemi

del bambino; la relazione tra casa e scuola è un mesosistema; gli esosistemi si si-

tuano a livello comunitario dove si compiono le scelte educative e di organizza-

zione del funzionamento scolastico.

La teoria dell’attaccamento

La qualità delle relazioni può essere compresa più a fondo grazie al contri-

buto della teoria dell‘attaccamento (Bowlby) e ai suoi sviluppi più recenti. Que-

sta teoria evidenzia come la modalità di relazione che si forma tra il bambino e

la figura di riferimento, di solito la madre, nel secondo semestre del primo anno

di vita concorre alla creazione di un legame che fornisce la base e un modello

per l‘esplorazione del mondo fisico e sociale da parte del bambino. La relazione

di attaccamento è regolata dalla capacità degli adulti di rispondere ai bisogni del

bambino in un equilibrio tale per cui se la vicinanza ottimale tra adulto e bam-

bino viene alterata si attiva un sistema di segnalazione finalizzato a ristabilire

l‘equilibrio.

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Con il contributo di M.Ainsworth viene messa a punto la cosiddetta Stran-

ge Situation, cioè una situazione di osservazione di tipo strutturato, che consente

di delineare diverse tipologie di attaccamento. Il legame di attaccamento viene

per cui classificato in attaccamento di tipo sicuro o di tipo insicuro.

Nel primo caso, i bambini definiti ―sicuri‖ mostrano fiducia nell‘altro e

sono in grado di tollerare separazioni, evidenziando desiderio di esplorazione.

Nel caso dell‘attaccamento insicuro troviamo le seguenti tipologie: I bam-

bini ―ansioso-ambivalenti‖ hanno sperimentato una relazione con la madre carat-

terizzata da insicurezza e incapacità di accudire ai bisogni del bambino nei mo-

menti di reale bisogno. Questi bambini oscillano tra momenti di affetto e mo-

menti di rabbia e sono bisognosi di attenzione da parte degli adulti.

I bambini caratterizzati, invece, da un attaccamento ―insicuro evitante‖

hanno sperimentato nella relazione con la madre una mancanza di responsività ,

tale per cui si mostrano eccessivamente autonomi. In realtà sono bambini che

hanno imparato a gestire la relazione senza contare sull‘altro.

Bowlby ipotizza che con i primi scambi con le figure di attaccamento si-

gnificative, l‘individuo costruisce dei modelli operativi interni, working models

, ovvero rappresentazioni interne che indirizzano l‘individuo

nell‘interpretazione delle informazioni che provengono dal mondo esterno e

guidano il suo comportamento nelle situazioni nuove.

Se il bambino ha avuto delle esperienze precoci con una figura allevante

pronta a offrire aiuto e conforto, costruirà un modello del Sè come di persona

degna di essere confortata e che può aspettarsi di essere amata e una rappresen-

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tazione interna degli altri come di persone pronte ad aiutarlo in caso di necessità.

Avrà meno bisogno di controllare continuamente la disponibilità della sua figura

di attaccamento e sarà più libero e autonomo nell‘esplorazione del mondo circo-

stante. (attaccamento sicuro)

Se, invece, la figura di attaccamento, nel periodo sensibile per la forma-

zione del legame di attaccamento, non è stata pronta nel rispondere ai bisogni di

sicurezza o è stata rifiutante, il bambino formerà un modello mentale del sè co-

me di un individuo non degno di essere amato e confortato. Perciò sviluppa un

modello della figura di attaccamento come di persona tale da dare risposte inaf-

fidabili (attaccamento ambivalente) o da cui non può aspettarsi niente (attacca-

mento evitante ).

Queste aspettative verranno estese a tutte le figure affettive che si incontre-

ranno nel corso della vita e determineranno i comportamenti indirizzati a esse. I

modelli operativi interni sono meccanismi cognitivi di interpretazione della real-

tà; costruiti nella relazione con la figura di riferimento primaria, vengono appli-

cati alle figure con cui il bambini entrano in contatto successivamente.

Queste modalità di relazione sono state osservate anche nelle interazioni

con gli insegnanti.

La relazione genitore-bambino può essere trasferita nella relazione con fi-

gure diverse da quelle genitoriali , sulle quali il bambino fa affidamento per ri-

cevere protezione e conforto.

A questo proposito si pone la questione relativa al ruolo dell‘insegnante

nel contesto scolastico , e alla sua relazione con il bambino in termini di cura e

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protezione. Per quanto riguarda la rappresentazione del legame di attaccamento

tra insegnante e bambino è emersa l‘esistenza di somiglianze tra la relazione ge-

nitore-bambino e la relazione insegnante-bambino.

Entrambe sono asimmetriche in termini di potere, responsabilità e abilità e

presentano dipendenza, bisogni di protezione e di apprendimento nel bambino.

Esisterebbe una coerenza tra la qualità della relazione madre-bambino e

quella insegnante-alunno, anche se genitori e insegnanti rivestono e assumono

ruoli differenti.

La qualità dell‘attaccamento tra genitore e bambino si pone come

un‘infrastruttura all‘interno della quale si situa e opera la relazione insegnante-

alunno.

La qualità della relazione di attaccamento con l‘insegnante può connotarsi

in termini di sicurezza, se questa è già presente nel legame con il genitore o

emergere come una nuova e diversa qualità di attaccamento, permettendo al

bambino di sperimentare una qualità relazionale differente da quella familiare a

cui si collegano nuove potenzialità e risorse cognitive. Diversamente, la qualità

di attaccamento insicuro sia con i genitori che con gli insegnanti evidenziata nel

contesto scolastico si collega a prestazioni inferiori negli ambiti della motricità

e della metacognizione, rispetto a bambini che presentano legami sicuri di at-

taccamento a livello familiare e scolastico.

Ricerche recenti hanno evidenziato che i bambini con una relazione di at-

taccamento sicuro mostrano di possedere competenze cognitive più precoci ri-

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spetto ai bambini che rivelano una qualità dell‘attaccamento insicuro (ansioso-

ambivalente o evitante).

La qualità sicura della relazione di attaccamento è correlata con lo svilup-

po della funzione metariflessiva , ovvero della capacità di pensare la mente pro-

pria e altrui in termini di stati mentali e emozioni. Questi bambini possiedono

una maggiore competenza relazionale proprio perché sarebbero più capaci di

rappresentarsi l‘altro come soggetto che possiede una vita mentale.

Queste ricerche confermano l‘importanza del ruolo dell‘insegnante che si

pone come figura educativa che fornisce cura e protezione, offrendo la possibili-

tà di sperimentare una legame di attaccamento sicuro, con effetti importanti per

il bambino sia a livello affettivo che a livello cognitivo.

Il modello cognitivo-comportamentale

L‘approccio comportamentale evidenzia l‘importanza della comunicazione

tra scuola e famiglia, soprattutto nella gestione di situazioni problematiche nel

comportamento dei bambini.

La comunicazione scuola-famiglia orientata da questo approccio è stata in-

trodotta per migliorare il rendimento scolastico degli alunni e per modificare una

serie di comportamenti, quali l‘abitudine a conversare durante le lezioni, il tene-

re comportamenti inadeguati durante la ricreazione, la violazione del regola-

mento della classe.

Il sistema delle comunicazioni scuola-famiglia e i provvedimenti adeguati

da parte dei genitori costituiscono l‘aspetto più importante della procedura uti-

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lizzata in questi interventi. Ai genitori vengono insegnate le modalità di control-

lo dei comportamenti problematici attraverso l‘utilizzo di una serie di tecniche di

modificazione del comportamento. Una tecnica caratteristica nell‘approccio

comportamentale consiste nella gestione delle contingenze di rinforzo.

Gli obiettivi di tale tecnica consistono nel rafforzare i comportamenti ap-

propriati in modo da aumentarne la frequenza e di ignorare o punire i compor-

tamenti inadeguati o inaccettabili, al fine di diminuirne la frequenza. Se il com-

portamento da modificare si manifesta in classe, i genitori devono intervenire

sulla base dei feed-back che arrivano dagli insegnanti e per tale motivo è fonda-

mentale che la comunicazione scuola-famiglia sia estremamente chiara. Per

esempio i genitori vengono istruiti a lodare i figli per il rendimento soddisfacen-

te, certificato dalla comunicazione scuola-famiglia, e a evitare di punirli per un

rendimento scarso.

Gli studi che hanno utilizzato questa procedura ne hanno rivelato

l‘efficacia, evidenziando come il comportamento adeguato da parte degli alunni

aumentasse a seguito dell‘adozione di questa procedura. In altri studi la lode da

parte dei genitori viene combinata con ricompense tangibili da assegnare a se-

guito di un buon comportamento a scuola.

Gli interventi di gratificazione realizzati sia a scuola che a casa sono più

efficaci rispetto a quelli realizzati solo a scuola. Le tecniche di rinforzo in colla-

borazione con la famiglia portano a un miglioramento nel comportamento in

classe di ragazzini di età molto diverse tra loro.

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Queste tecniche vengono utilizzate soprattutto nei casi di bambini con di-

sturbo dell‘attenzione. Una tecnica utilizzata, con risultati positivi nelle comuni-

cazioni tra scuola e famiglia, riguarda l‘uso di una scheda, il ―Daily Report

Card‖ in cui vengono riportati quotidianamente gli aspetti più importanti del

comportamento del bambino, sia quelli positivi che quelli negativi.

Genitori e insegnanti devono aggiornare un quadernetto sul quale sono in-

dicate alcune aree di comportamento. Queste aree (non più di 4 o 5) dovrebbero

riguardare in ambito scolastico le relazioni interpersonali, la gestione del mate-

riale scolastico, l‘esecuzione di compiti, l‘esecuzione di attività extra-didattiche

e, con riferimento al contesto domestico, momenti quali quello che precede

l‘andare a scuola, lo stare a tavola, lo svolgere i compiti scolastici e i rapporti

con i familiari e con persone al di fuori dalla famiglia.

Il comportamento del bambino viene monitorato e durante gli incontri ge-

nitori e insegnanti possono creare le basi per gratificare in modo più regolare il

bambino nei suoi comportamenti positivi che sono stati rilevati in entrambi i

contesti.

Il contributo cognitivo-comportamentale non persegue come obiettivo la

spiegazione dei processi coinvolti nella relazione, ma si focalizza sulla defini-

zione di programmi di intervento.

Questi programmi implicano la definizione delle condizioni che permetto-

no di realizzare una collaborazione efficace tra scuola e famiglia, individuata

nell‘attuazione di una comunicazione chiara ed efficace tra insegnanti e genitori

e degli strumenti che la rendono possibile.

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I genitori devono basarsi sulle informazioni che ricevono dall‘insegnante,

perché il problema si manifesta nel contesto scolastico e devono essere disponi-

bili a farsi aiutare e a seguire le indicazioni offerte dall‘insegnante su come

comportarsi con il figlio anche a casa.

L‘applicazione di questo modello evidenzia come l‘efficacia di queste tec-

niche implichi come condizione l‘esistenza di una dimensione relazionale di fi-

ducia tra scuola e famiglia, base per il successo di ogni intervento educativo.

Dopo aver illustrato i principali contributi che derivano principalmente

dall'ambito psicologico, nel paragrafo successivo sposteremo la nostra attenzio-

ne sulla figura dell'insegnante per evidenziarne le peculiarità e le dimensioni ca-

ratterizzanti rifacendoci alle riflessioni di alcuni noti pedagogisti.

4.2 Insegnanti..si diventa

Ragionare su chi sia un buon insegnante non è semplice. Esistono molte-

plici fattori da considerare, dalle radici storiche del ruolo dell‘insegnante, al va-

lore sociale condiviso oggi dalla collettività.

Una cosa che sappiamo per certo è che la propensione all'insegnamento

esiste fin dall'antichità, forse fin da quando è comparso l'essere umano che in

quanto tale ha sentito il bisogno e gustato il piacere di insegnare.

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Per iniziare leggiamo insieme questo tratto da ―Le qualità di un precetto-

re‖ di Quintiliano per poi passare a considerare aspetti psicopedagogici più re-

centi.

“Assuma prima di tutto verso i suoi discepoli i sentimenti di un genitore e

creda di succedere al posto di coloro che gli hanno affidato i figli. Egli stesso

non abbia e non permetta vizi. La sua severità non sia rigorosa, la benevolenza

eccessiva, in modo che non nasca da quella l’odio, da questa il disprezzo. Parli

moltissimo di ciò che è buono e onesto; infatti, quanto più spesso ammonirà,

tanto più raramente castigherà. Non sia affatto iroso né trascuri quelle cose che

sono da biasimare; sia chiaro nell’insegnare, lavoratore, assiduo piuttosto che

eccessivo. Risponda volentieri a quelli che lo interrogano, si rivolga di sua ini-

ziativa a quelli che non lo fanno. Riguardo alle risposte date dagli alunni e che

gli sembrano degne di lode non sia avaro né prodigo, poiché l’avarizia (di paro-

le di lode) genera la noia per il lavoro; la prodigalità, presunzione. Nel punire

ciò che lo merita, non sia acerbo e offensivo; invero proprio questo allontana

molti dal proposito di studiare e cioè che alcuni rimproverano come se odiano

(il docente) dica ogni giorno qualcosa, anzi molte cose che poi quelli che lo

ascoltano ripetano tra di sé. Infatti, dalla lettura tanti esempi da imitare si pos-

sono trarre fuori ma di più nutre la voce e specialmente (la voce) di quel precet-

tore che i discepoli, se sono stati rettamente istruiti, amano e rispettano. A sten-

to si può dire quanto più volentieri imitiamo coloro verso i quali siamo ben di-

sposti.”

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Partiamo dal contributo di Damiano il quale, a partire dalle radici storiche

della questione fino ad arrivare al dibattito internazionale sul tema

dell‘educazione scolastica, giunge a definire l‘insegnamento come un‘azione

morale: non un sapere neutrale bensì un progetto antropologico sui giovani. At-

torno a questo sapere oggi, nella pluralità delle antropologie, si consuma la vera

crisi della scuola. Gli insegnanti si trovano a doversi emancipare da uno stato

esecutivo e impiegatizio, cercando il loro coronamento nella professionalità. Gli

insegnanti non devono più pensare fortemente al riscatto della categoria, bensì

devono riorientare i loro compiti secondo un‘etica della responsabilità verso gli

alunni, le famiglie e la società in generale.

Damiano indaga l‘―etica pratica‖ degli insegnanti, cioè quell‘insieme di

strategie comportamentali e di azioni messe in atto tutti i giorni nelle aule scola-

stiche dagli stessi docenti, a partire da alcuni principi morali fortemente interio-

rizzati. Smonta l‘idea, oggi piuttosto diffusa, che l‘insegnamento consista

nell‘attuazione di una serie di ‗tecniche didattiche‘, intendendo, invece, recupe-

rare il concetto di ‗relazione formativa‘, centrale nella scuola di un tempo e oggi

sempre più in crisi a seguito dei vorticosi cambiamenti sociali che hanno interes-

sato anche questa istituzione.

La funzione delle scelte centralizzate è cambiata, perché largo spazio è la-

sciato all‘autonomia, in particolare dei singoli Istituti. Ciò significa che dirigenti

scolastici ed insegnanti debbono fare un salto di qualità e inventare un nuovo

modo di fare scuola, strettamente legato alla realtà locale e al territorio, per far

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crescere cittadini consapevoli e responsabili. Gli insegnanti hanno la possibilità

di modellare il proprio stile di insegnamento in funzione degli alunni, mettendo

in gioco la propria soggettività. L‘insegnamento come azione morale prevede,

quindi, il reintegro della soggettività dell‘insegnante: un soggetto responsabile

delle proprie scelte è chiamato a rispondere delle stesse. Egli non dovrà trascura-

re né l‘oggetto culturale né alunno, ponendo contemporaneamente l‘accento sul

sapere e sugli aspetti relazionali e emozionali necessari nel processo di appren-

dimento. Senza interazione non avviene il transfert educativo: senza il carica-

mento affettivo i contenuti risultano pesanti anche per gli studenti bravi e senza

sapere, d‘altra parte, il rapporto educativo non ha senso, non può portare

all‘autonomia dello studente, che, perché avvenga il processo di apprendimento,

deve passare dal non conoscere qualcosa al conoscere. L‘insegnante in questa

prospettiva diventa il mediatore, non il modello del prodotto. L‘ insegnamento si

definisce allora come negoziato continuo in cui l‘alunno co-protagonista è arte-

fice di un apprendimento autodiretto, di cui costantemente controlla i propri pro-

gressi.

Damiano sintetizza così il profilo dell'insegnante etico:

Non è perfetto, ma aperto e ricettivo nello sviluppo della sua personale

conoscenza etica e si impegna per far avanzare e incrementare la conoscenza

etica collettiva della categoria.

Non c‘è modello uniforme o generale di Insegnante Etico: ciascuno è

tenuto a interpretarlo a suo modo, nella personale unicità e nella particolarità

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delle situazioni. I principi di riferimento sono i medesimi, primariamente la

giustizia, la benevolenza e il rispetto degli altri.

E' imparziale anche con gli studenti che sbagliano. Sempre empatico, sa

bene che non conta soltanto ciò che dice, ma anche la gestualità e lo sguardo

possono incoraggiare comunicando attenzione e rispetto per l‘altro.

Protegge i suoi studenti dall‘imbarazzo che possono provare davanti ai

loro compagni per difetti fisici o difficoltà scolastiche. Rispetta la privacy, la

loro dignità e quella delle loro famiglie. Non tollera meschinità e richiama agli

studenti l‘imperativo della cura e del rispetto degli altri, compagni e personale

scolastico a tutti i livelli.

L‘Insegnante Etico ritiene un segno di rispetto per gli alunni esaminare

attentamente, valutare e restituire prontamente le prove di valutazione con i suoi

commenti e giudizi. Il lavoro degli studenti va riconosciuto degno di attenzione

come il proprio.

Esamina, soppesa, prende in carico, coscienziosamente e regolarmente, i

bisogni dei singoli studenti e il benessere generale del gruppo-classe. Applica i

criteri dell‘uguaglianza e dell‘imparzialità, escludendo qualsiasi forma di

privilegio ed assicurandosi che ciascuno sia certo di essere seguito con la stessa

attenzione riservata agli altri.

Sente il bisogno morale di evitare qualsiasi forma di falsità e inganno, non

solo nelle relazioni e negli scambi interpersonali, ma anche nella valutazione

degli studenti e nell‘insegnamento delle discipline di studio. La scelta dei

contenuti e dei materiali didattici è accurata, anche per quanto concerne la loro

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valenza morale e il loro potenziale educativo. Si guarda dall‘imporre le proprie

opinioni agli studenti in merito a controversie politiche o ideologiche. Evita di

coinvolgere gli studenti fuori dalla loro portata, per esempio nel contenzioso che

può insorgere per ragioni contrattuali con l‘amministrazione scolastica.

L‘insegnante etico tiene fede agli stessi principi, anche nell‘interesse degli

studenti, nei rapporti con i colleghi e con tutto lo staff della scuola. Vede la

scuola come una comunità che esprime gli stessi valori e non si presta a ignorare

e tanto meno a coprire le cattive pratiche dei colleghi nei riguardi degli studenti.

Trova la maniera di discutere con i colleghi i dilemmi morali che possono

insorgere e di studiare alternative che possano servire a migliorare le intese

educative per la conduzione collegiale dell‘istituto scolastico.

Scartati definitivamente i modelli del manager e dello stratega,

all‘insegnante non resta che ispirarsi a quelli dell‘artigiano, del bricoleur,

dell‘esperto pratico-riflessivo.

4.2.1 L'insegnante riflessivo

In letteratura si ritrovano spesso due visioni di insegnante. La prima consi-

dera questa figura professionale come l'esperto che si limita ad applicare principi

e metodi derivati dalla scienza dell‘educazione (tale modello deriva dalla tradi-

zionale scissione tra il riflettere e l‘agire e tra il decidere e l‘attuare; scissione

che nel mondo occidentale ha radici sia nella cultura greca che in quella cristia-

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na). La seconda visione, invece, descrive il professionista come un artista capace

di riflettere e agire in equilibrio tra fedeltà al sapere accademico e pertinenza alla

situazione. Questo è il risultato di una analisi continua di stimoli e risposte, che

permette di modellare e correggere le azioni durante il loro svolgimento.

In una logica positivista, il professionista ricerca la soluzione alle proble-

matiche selezionando il mezzo che meglio si adatta alla situazione tra quelli di-

sponibili e conosciuti. Il problem solving, in questa visione, quindi, si limita ad

individuare tra i ―principi generali‖ la ―soluzione particolare‖, senza definire fini

e mezzi dell‘operato. Questa modalità, che Schön denomina ―razionalità tecni-

ca‖, spesso è eseguita in modo standardizzato, per mezzo di azioni in cui la co-

noscenza è tacita ed implicita, tanto che spesso riguardano comportamenti che

non si è in grado di verbalizzare e di cui non si sa fornire una giustificazione.

Questo approccio è reso possibile dall‘idea che la realtà sia conoscibile in modo

oggettivo e univoco, ma se ci si pone dinnanzi a una situazione cogliendone la

sua reale complessità e unicità, si evidenzia l‘inadeguatezza della ―conoscenza

nell‘azione‖ e delle ―razionalità tecnica‖.

Il superamento della scissione tra pensare e agire, secondo Schön, va ricer-

cata nel problem setting e, quindi, nell‘impostazione del problema definendo le

decisioni, i fini da raggiungere e i mezzi da scegliere. Durante lo sviluppo di una

situazione si possono presentare risultati inattesi, dinanzi ai quali il professioni-

sta può reagire ignorando gli elementi perturbatori oppure riflettendo su quanto

accaduto. Quest‘ultima eventualità può assumere due diverse modalità:

l‘operatore può fermarsi a pensare, separando il momento dell‘azione da quello

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della riflessione oppure riflettere nel corso dell‘azione. Si tratta della ―riflessione

nell‘azione‖ ed è metodo da preferire in quanto può determinando una modifica

dell‘azione durante il suo svolgimento. Schön esemplifica questa condotta evo-

cando i musicisti jazz, i quali improvvisano mescolando abilmente strutture ac-

quisite con riflessioni nell‘azione, rispondendo ―in tempo reale‖ alle sorprese

lanciate dagli altri musicisti.

Il docente verrà incontro a problemi inediti non riconducibili a repertori

tecnici o regole definite e per i quali la propria conoscenza pratica ed esperienza

risulteranno insufficienti. In queste circostanze il professionista deve analizzare,

criticare e rielaborare nuove soluzioni da verificare attraverso esperimenti sul

campo. Questo processo trasforma il professionista in un ricercatore operante nel

contesto della pratica, ovvero un ―professionista riflessivo‖. L‘attuazione di que-

sta metodologia è reso possibile da quello che viene definita ―intelligenza

nell‘azione‖: l‘autonomia del docente dal sapere accademico evitando di ritaglia-

re le situazioni pratiche per renderle adeguate alla conoscenza professionale o

forzando la situazione in maniera che si presti all‘uso delle tecniche disponibili,

l‘imitando le possibilità di errate interpretazioni delle situazioni.

Freire, in ―Pedagogia degli oppressi‖, ci fa riflettere sulla necessità della

ricerca continua da parte degli insegnanti, affinché possano destare negli alunni

una ingenua curiosità che li porterà verso la conoscenza delle cose. Per insegna-

re bisogna pensare in modo corretto: questo concetto è legato all'etica, che deve

essere alla base di ogni pratica educativa. Pensare in modo corretto significa ri-

schiare, andare al di la del proprio sapere, cioè mettersi in discussione e quindi

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continuare ad imparare, significa rifiutare ogni discriminazione, rispettare l'iden-

tità culturale dell'alunno, le sue esperienze che gli vengono dall'ambiente sociale

da cui proviene. Pensare in modo corretto inoltre significa saper ascoltare non è

parlando-soprattutto dall'alto in basso- che impariamo ad ascoltare ma è ascol-

tando che impariamo a parlare con gli altri. Significa rispettare l‘autonomia

dell‘essere educando, perché essere consapevoli della nostra incompiutezza ci

rende etici ed essendo etici dobbiamo rispettare l'autonomia dell'alunno, cioè il

suo linguaggio, la sua inquietudine, la sua legittima ribellione e la sua curiosità,

il suo essere insomma. Questo atteggiamento è possibile attraverso un' autentica

capacità dialogica quella in cui, cioè, i soggetti coinvolti, quindi anche l'educato-

re, imparano e crescono nelle diversità.

Battistelli nel volume dal titolo Apprendere partecipando cita due ricerca-

tori che hanno sottolineato l‘importanza della riflessività, specificandone però

una connotazione differente. I due autori sono Argyris e Schón, i quali partendo

dall‘assunto centrale della teoria dell'apprendimento, rilevano uno scarto tra in-

tenzione, progetto e realizzazione. L'apprendimento nasce dalla presa d'atto di

una discontinuità. Presupposto di base è l'auto-riflessività dell'individuo e

dell'organizzazione, cioè la capacità di costruire riflessioni su se stessi e sulle

proprie azioni che rendano confutabili le interpretazioni elaborate. Lo strumento

fondamentale per l'auto-riflessione è il linguaggio. L'apprendimento può essere

inibito dal fatto che molto spesso individui e organizzazioni tendono a fossiliz-

zarsi su forme di ragionamento e di azione obsolete ma comode in quanto testate

nel corso del tempo. Per permettere lo sviluppo della capacità di apprendere Ar-

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gyris sviluppa l'Action Science. L‘obiettivo è quello di incrementare l'efficacia

professionale degli individui affinché questi superino i limiti del ragionamento

difensivo nella risoluzione di problemi. Schón parla del Reflective Practitioner,

cioè del professionista riflessivo che deve entrare nel sistema di valori dei clienti

per comprenderne i problemi secondo la loro prospettiva; questa è una condizio-

ne fondamentale per sostenere una progettazione organizzativa. Il professionista

riflessivo è colui che ha la capacità di «riflettere-in-azione», cioè di riflettere sul-

le proprie azioni mentre queste vengono realizzate, e la capacità di riflettere sul

«riflettere-in-azione» e il «conoscere-in-azione», capacità che permettono all'at-

tore di formulare e criticare le strategie d'azione e le proprie concezioni di pro-

blemi e ruoli.

Come sostiene Fisher ―Insegnare diventa spesso un ‗mestiere impossibile‘,

implica agire con urgenza, decidere nell‘incertezza, operare senza avere il tempo

di meditare. Tutto ciò senza una preparazione adeguata. Diventa allora chiaro

che la conoscenza tacita, acquisita nel tempo, non basta più per affrontare le

nuove situazioni, occorre imparare a riflettere sul problema, attingere a cono-

scenza pratica, fornire risposte‖.

Schón afferma: ―Nella prassi delle prestazioni spontanee, intuitive, dell'a-

gire quotidiano, ci dimostriamo intelligenti in modo peculiare. Spesso non riu-

sciamo ad esprimere quello che sappiamo. [...] Il nostro conoscere è normalmen-

te tacito, implicito nei nostri modelli di azione e nella nostra sensibilità per le

cose delle quali ci occupiamo. Sembra corretto affermare che il nostro conoscere

è nella nostra azione. Analogamente, l'attività lavorativa quotidiana del profes-

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sionista si fonda sul tacito conoscere nell'azione. Ogni professionista competente

riesce a riconoscere i fenomeni [...] per i quali non è in grado di fornire una de-

scrizione ragionevolmente accurata o completa. Nella pratica quotidiana egli

formula innumerevoli giudizi di qualità per i quali non è in grado di definire cri-

teri adeguati e mostra capacità per le quali non è in grado di definire regole e

procedure. Persino quando fa un uso consapevole di teorie e tecniche fondate

sulla ricerca, dipenda da taciti riconoscimenti, giudizi, e azioni esperte. [...] Mes-

so da parte il modello della Razionalità Tecnica, che ci porta a pensare alla prati-

ca intelligente come a una applicazione della conoscenza a decisioni strumentali,

non vi è alcunché di strano nell'idea che un certo tipo di attività cognitiva sia

inerente all'azione intelligente. [...] Sebbene talvolta pensiamo prima di agire, è

anche vero che in gran parte del comportamento spontaneo proprio della pratica

esperta riveliamo un tipo di attività cognitiva che non deriva da una precedente

operazione intellettuale‖. (Schòn, 1999, pp.76-77).

L'apprendimento si verifica grazie alla riflessione sui successi e sugli in-

successi delle proprie azioni. Schón parla di «riflessione in azione» come pro-

cesso di esteriorizzazione dei ragionamento. Attraverso il dialogo si possono

esteriorizzare ed eventualmente correggere i ragionamenti e le conoscenze sotto-

stanti le azioni. Il dialogo permette di mettere a disposizione di tutti i propri mo-

delli mentali, il proprio modo di leggere e analizzare la realtà, rendendoli ogget-

tivi. La competenza riflessiva è una competenza chiave per l'apprendimento in-

dividuale e collettivo.

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Argyris e Schón introducono il concetto di indagine organizzativa, deri-

vante dall'inquiry, processo di indagine proposto da Dewey; esso consiste in un

momento di autoriflessione condotto dal gruppo. Il concetto di inquiry si riferi-

sce a un misto di ragionamento e azione; l'indagatore cerca di risolvere questa si-

tuazione problematica rimuovendo il dubbio attraverso l'istituzione di condizioni

ambientali almeno in parte inedite, che danno luogo a nuovi problemi. In genera-

le, è la scoperta di un errore, cioè la mancata corrispondenza tra aspettative e ri-

sultati, a determinare la consapevolezza di una situazione problematica, dalla

quale viene avviata l'indagine. Il successo di un'indagine viene decretato in fun-

zione del valore che l'indagatore attribuisce ai nuovi problemi generati.

L'indagine diviene organizzativa quando viene messa in atto da agenti di

un'organizzazione in accordo con le regole che governano. Quando l'indagine

individuale e quella organizzativa si intersecano, si influenzano a vicenda attra-

verso un processo circolare. L'apprendimento organizzativo si verifica quando

gli attori organizzativi, sperimentata una situazione problematica, la indagano

nell'interesse dell'organizzazione.

Il risultato finale dell'indagine è la conoscenza organizzativa, come ap-

prendimento che dà luogo a cambiamenti nell'azione e nel pensiero. La cono-

scenza è conservata da mappa, archivi, oggetti che supportano le operazioni co-

gnitive e attraverso i quali le organizzazioni si rendono comprensibili a sé e agli

altri. Argyris e Schón definiscono questa conoscenza sottostante le azioni «teorie

dell'azione», le quali comprendono strategie dell'azione, valori che stanno alla

base delle scelte dell'azione e gli assunti su cui si fondano. Ogni teoria dell'azio-

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ne è definita in funzione della situazione particolare (S), della conseguenza in

quella situazione (C) e della strategia d'azione (A) che si pone come obiettivo

quello di ottenere C in S. La «teoria dell'azione» può essere una «teoria dichiara-

ta», cioè proposta per spiegare e giustificare uno schema specifico di attività,

oppure una «teoria-in-uso», cioè una teoria dell'azione implicita nella messa in

atto dello schema stesso. È molto probabile che nelle organizzazioni siano tacite.

Osservare la «teoria-in-uso» di un'organizzazione dall'esterno significa osservare

i comportamenti governati da regole messi in atto dai membri. Da un punto di

vista interno all'organizzazione si ha accesso al know-how che genera e controlla

le pratiche adeguate al sistema. La «teoria-in-uso» organizzativa dipenderà dai

modi in cui i membri se la rappresentano, quindi l'indagine deve prendere in

considerazione i processi attivi dell'organizzazione, cioè l'organizzare, e non en-

tità statiche, cioè le organizzazioni. Poiché c'è divergenza tra le immagini private

dell'organizzazione i membri hanno bisogno di riferimenti esterni che guidino le

loro revisioni private. Questo ruolo di guida è svolto da mappe, memorie e pro-

grammi organizzativi. Le mappe sono i diagrammi di flusso, gli organigrammi, i

disegni e le fotografie dei luoghi di lavoro; le memorie comprendono archivi,

documenti, database, e tutti gli oggetti fisici che conservano la conoscenza orga-

nizzativa; i programmi sono le descrizioni delle routine (ad esempio piani di la-

voro, copioni, politiche). Tutti questi strumenti costituiscono descrizioni delle at-

tività organizzative e linee guida per il futuro. Gli attori esperiscono la sorpresa

della mancata corrispondenza tra risultati attesi e risultati effettivamente ottenuti

e reagiscono attraverso processi di pensiero, cioè attraverso l'indagine organizza-

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tiva, che li porta a modificare le immagini dell'organizzazione e a ristrutturare le

attività, in modo tale da ottenere una corrispondenza tra attese e risultati, modifi-

cando in questo modo la «teoria-in-uso» organizzativa. Perché l'apprendimento

sia organizzativo deve radicarsi nella mente di ogni membro e/o negli artefatti

cognitivi (memorie, mappe, programmi) presenti nell'organizzazione.

Il prodotto dell'apprendimento organizzativo è un qualunque cambiamento

nella «teoria-in-uso» organizzativa.

Argyris e Schón ritengono che l‘apprendimento possa essere organizzativo

quando viene messo in atto dai membri dell'organizzazione all'interno di una

comunità di indagine organizzativa.

L'indagine organizzativa può sfociare in apprendimento quando si manife-

stano pensieri o azioni inediti per l'organizzazione. L'apprendimento può essere

a circuito singolo (single-loop) e a doppio circuito (double-loop); quest'ultima

forma di apprendimento favorisce le trasformazioni verso l'apertura e la flessibi-

lità. La differenza tra i due tipi di apprendimento dipende dalla qualità dell'inda-

gine collettiva. attraverso un apprendimento che permetta di riconoscere i propri

modelli e bisogni di apprendimento, si giunge al deutero-learning; in questo caso

i membri agiscono consapevolmente come agenti di apprendimento dell'organiz-

zazione.

Il deutero-learning è il concetto dell'apprendere ad apprendere elaborato da

Bateson, 1972, che ritiene che questo processo sia possibile grazie ai mezzi della

cultura, linguaggio, arte, e tecnologia, i quali mediano il flusso degli eventi in

cui l'uomo è immerso come soggetto cognitivo. Le condizioni dell'apprendere ad

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apprendere si hanno quando si manifestano interazioni significative tra mondo

comportamentale dell'organizzazione e la sua abilità ad apprendere.

―Il dilemma tra rigore e pertinenza potrà essere rimosso se saremo in grado

di sviluppare una pratica che:

• collochi la soluzione tecnica dei problemi all'interno di un più ampio

contesto di indagine riflessiva;

• mostri che la riflessione nel corso dell'azione può essere rigorosa per

propri meriti;

• leghi l'arte dell'esercizio della pratica in condizioni di incertezza e unicità

all'arte della ricerca propria dello scienziato‖.

4.3 Guardiamoci...e partiamo! Gli stili degli insegnanti

In letteratura sono presenti numerosi studi e ricerche sulle differenze indi-

viduali nell'apprendimento, meno successo ha avuto, invece, la ricerca riguardo

gli stili di insegnamento. Questa poca attenzione potrebbe essere parzialmente

giustificata dal fatto che tradizionalmente si pone al centro del processo educati-

vo lo studente e si ritiene per cui maggiormente importante analizzarne le diffi-

coltà, i punti di forza e di debolezza senza quasi mai pensare di indagare conte-

stualmente anche potenzialità, competenze relazionali e capacità di insegnare

del docente. Ecco allora che è più semplice indagare sugli stili di apprendimento

degli studenti ed eventualmente analizzare strategie metacognitive non mature

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indebitamente utilizzate, piuttosto che riflettere sulle nostre metodologie di inse-

gnamento e modificarle qualora si dimostrassero poco adatte ai contenuti e ai

contesti.

In considerazione di questi elementi non deve sorprendere il fatto che l'u-

nica teoria degna di nota, in questo settore, risulti essere quella di Henson e Bor-

thwick (1984). In base ad una serie di osservazioni e rilevazioni, gli studiosi

identificano 6 stili di insegnamento. Anche in questo caso, potrebbe essere che ci

ritroviamo in uno stile oppure che ci riconosciamo tra stili diversi o che ci attri-

buiamo questo o quel comportamento anche in base alla situazione che dobbia-

mo gestire. La raccomandazione è la medesima, più volte segnalata: l'importante

è conoscere le proprie modalità, sforzarsi di modificarle, evitare la rigidità e so-

prattutto saper ascoltare prima di tutto gli studenti e in secondo luogo anche i

genitori.

Approccio orientato al compito:Vengono prescritti compiti ben program-

mati e associati a materiali appropriati. Questo stile dovrebbe favorire quegli

studenti che apprezzano avere delle direzioni da seguire e dei materiali ben strut-

turati, come accade ad esempio ai convergenti.

Approccio di progettazione cooperativa: Insegnanti e studenti progettano

insieme l‘apprendimento in modo collaborativo, benchè venga guidato

dall‘insegnante (favorisce i campo-dipendenti)

Approccio centrato sullo studente: La struttura del compito viene fornita

dall‘insegnante e gli studenti scelgono tra le varie opzioni possibili secondo il lo-

ro interesse.

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Approccio centrato sulla disciplina: Il contenuto dell‘insegnamento viene

pianificato e strutturato al punto che gli studenti sono pressoché esclusi dal pro-

cesso. Anche in questo caso bisogna tenere in considerazione la creatività e il bi-

sogno di autonomia di alcuni studenti.

Approccio centrato sull’apprendimento: Viene manifestata dall‘insegnante

uguale attenzione allo studente e alla disciplina di studio.

Approccio emotivamente stimolante: L‘insegnante cerca di vivacizzare il

più possibile emotivamente l‘insegnamento.

Questi stili non si escludono a vicenda, ma possono essere usati insieme, e

anzi sarebbe proprio questo il modo per risultare efficaci ai fini

dell‘apprendimento degli studenti.

Oltre agli stili di insegnamento, in un'ottica di cura della relazione

educativa, con l'obiettivo di favorire un clima di collaborazione e reciproca

fiducia tra scuola e famiglia, gli insegnanti, in quanto esperti di educazione e

professionisti dell'apprendimento, sono chiamati a curare la comunicazione.

Questo non è l'ennesimo fardello che l'insegnante si trova, tra le tante cose, a

dover gestire, ma rappresenta una capacità necessaria che dovrebbe rientrare

nella ―cassetta degli attrezzi‖ di ogni insegnante.

Curare la comunicazione scuola-famiglia fin dalle prime fasi di

inserimento dei bambini nei contesti educativi, significa curare e costruire una

comunicazione che passa attraverso le parole, i dialoghi, i colloqui, la

comunicazione non verbale, l'attenzione e l'ascolto, ma anche tramite l'insieme

dei significati che connotano l'incontro relazionale insegnanti-genitori nei vari

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livelli organizzativi del contesto scolastico.

I modelli presentati di seguito rappresentano un tentativo di applicazione

di concetti provenienti dalla letteratura psicopedagogica e dalla pratica scolastica

e si collegano al modello proposto da Bouchard (1989). Descrivono, quindi,

alcune dimensioni relazionali che possono essere osservate nella relazione tra

genitore e professionista.

La comunicazione direttiva: L‘insegnante sottolinea la sua dimensione

istituzionale. Gli strumenti comunicativi privilegiati sono le valutazioni. Il

genitore si percepisce incapace di sostenere i compiti educativi e tende ad evitare

l‘incontro o a cercare lo scontro. Possibile risultato: allontanamento dello

studente dalla struttura. Bouchard (1989) lo definisce razionale: il professionista

è l‘esperto che tende ad imporre le decisioni, si verifica una gestione gerarchica

e asimmetrica del potere. Non c‘è spazio per l‘espressione delle risorse dei

genitori nei quali si generano sentimenti di ansia (e/o inadeguatezza).

La comunicazione genitoriale: L‘insegnante si pone come una persona di

famiglia, utilizzando una modalità comunicativa di tipo affettivo, quali la

comprensione e l‘accudimento dei genitori. Il rischio è quello di alimentare la

dipendenza del genitore dalle decisioni dell‘insegnante, con ridotte possibilità di

attivare le risorse autonome della famiglia. L‘eccesso di affettività rischia di

mascherare una richiesta di sostituzione educativa del genitore da parte

dell‘insegnante.

La comunicazione competente: L‘insegnante sostiene la relazione con il

genitore attraverso la comprensione emotiva e la competenza professionale,

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aiuta il genitore nella promozione delle potenzialità del figlio, al fine di rendere

la relazione educativa il più funzionale possibile al raggiungimento di obiettivi

condivisi. Il genitore viene visto come una risorsa e non come un problema. La

dimensione è prevalentemente collaborativa, l‘insegnante sa che il genitore può

essere di aiuto, ma ne rispetta l‘autonomia genitoriale. Con riferimento a

Bouchard questo modello può essere inteso come un incontro relazionale

caratterizzato dal saper-fare della famiglia e dall‘attivazione delle sue risorse

(ascolto ematico, espressione dei sentimenti). L‘insegnante cerca di

comprendere la realtà del genitore, che è invitato ad essere propositivo rispetto

alle ipotesi di intervento del docente. L‘insegnante è un partner competente e

rispettoso delle conoscenze e del saper-fare dell‘altro. Riesce a valorizzare le

risorse genitoriali senza che ciò minacci la sua percezione di capacità

professionale

4.4 Genitori a scuola: Aspettative familiari e successo scolastico

La famiglia può forzare i figli al successo, e in particolare al successo sco-

lastico? Quale ruolo possono svolgere i genitori nel motivare i figli ad apprende-

re e a raggiungere risultati soddisfacenti nell‘ambito dell‘apprendimento scola-

stico?

Il compito di motivare all‘apprendimento e al successo scolastico non ri-

siede solo nella scuola e nella funzione svolta dagli insegnanti, come spesso si

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riscontra nelle opinioni di alcuni genitori, ma riguarda e coinvolge direttamente

le famiglie (Bartolomeo, 2012)

Gli studiosi Henderson e Mapp (2002) identificano alcuni indicatori del

successo scolastico:

- Capacità di adattamento degli alunni alla vita scolastica;

- Frequenza regolare alle lezioni;

- Promozione a fine anno;

- Raggiungimento di punteggi più elevati nelle prove di valutazione;

- Coinvolgimento degli allievi in progetti didattici più complessi;

- Accesso ai livelli superiori della formazione;

Mentre altre ricerche si sono focalizzate sull'analisi degli atteggiamenti

familiari che potrebbero essere correlati con buoni risultati in ambito scolastico e

mostrano, ad esempio, l‘importanza del coinvolgimento della famiglia nella vita

scolastica come fattore fondamentale per garantire il successo dei figli a scuola.

Il fattore, però, che maggiormente predice il rendimento scolastico consi-

ste nel livello di autostima che lo studente possiede rispetto alle sue abilità sco-

lastiche, livello che risulta influenzare fortemente i voti in tutte le materie (Ver-

migli, 2001; 2002). L'autostima e la valutazione del sé sono rinforzati dall'ap-

provazione sociale e quindi in prima battuta sono sostenuti dal contesto familia-

re. Infatti è fondamentale è il ruolo della famiglia nel sostenere un'idea positiva

del figlio rispetto alle sue capacità e alle sue potenzialità.

Autostima, relazioni familiari e successo scolastico sono, quindi, stretta-

mente connessi, in quanto i genitori incidono sull'autostima dei figli, la quale è a

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sua volta correlata con la possibilità di sperimentare risultati soddisfacenti a li-

vello di apprendimento a scuola. Osservando le correlazioni tra rendimento a

scuola e stile genitoriale, gli studiosi concordano nel ritenere lo stile genitoriale

di tipo autorevole il più idoneo a promuovere l'autocontrollo e rinforzare l'auto-

stima.

I ragazzi con alta autostima godono dell‘accettazione piena dei loro geni-

tori e di regole precise di comportamento che però non costituiscono forti limita-

zioni alla loro libertà. Viceversa, i ragazzi con bassa autostima hanno, quasi

sempre, genitori o troppo autoritari o estremamente permissivi.

In particolare nella fascia di età pre-adolescenziale e adolescenziale la

relazione con il padre influenza l‘autostima in alcuni ambiti specifici. La figura

paterna sembra avere un ruolo estremamente positivo nell‘incoraggiare

l‘autonomia dei figli.

Oltre alla figura paterna, ovviamente, il grado di supporto, affetto e cura

che la famiglia offre ai figli incide positivamente sull‘autostima anche rispetto al

successo scolastico, perchè il ragazzo che si sente amato sa di valere e acquisisce

una sicurezza che si traduce in fiducia nelle proprie possibilità (Vermigli, 2002).

Altri studi hanno, inoltre, indagato il ruolo dei fattori di promozione del

successo scolastico, evidenziando l‘importanza del sostegno familiare. Le fami-

glie che sostengono i figli nell‘ambito scolastico definiscono regole ben precise

per quanto riguarda fare i compiti, studiare, guardare la televisione e leggere.

Identificano alcuni indicatori del sostegno familiare al successo scolastico, come

ad esempio: con che frequenza i genitori incoraggiano il figlio a leggere libri, a

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frequentare la biblioteca, a vedere programmi educativi alla televisione. Quanto

tempo i genitori dedicano ad aiutare i figli a completare il lavoro scolastico, ad

assistere i figli nei compiti o a prepararsi per una interrogazione. Quali regole

vengono date con riferimento ai programmi televisivi da guardare, alla pro-

grammazione del tempo per la lettura, alla organizzazione del tempo per fare i

compiti.

Abbiamo poi altri contributi di ricerca che provengono dall'ambito nord

americano e che sottolineano il ruolo del coinvolgimento dei genitori a scuola e

nelle attività di formazione dei figli. Il coinvolgimento dei genitori si correla con

miglioramenti negli apprendimenti, nelle capacità di socializzazione e nel suc-

cesso scolastico degli alunni. Dobbiamo, però, precisare che il coinvolgimento

efficace dei genitori esercita effetti sul rendimento scolastico quando i genitori:

1. dialogano a casa con i figli sull‘esperienza scolastica

2. controllano i compiti a casa

3. partecipano agli eventi della scuola.

Come coinvolgere i genitori nella scuola? Sono state identificate tre moda-

lità che più di altre sembrano funzionali: la strutturazione dei compiti da svolge-

re in famiglia; il mantenimento di un contatto continuo sui progressi dell‘alunno

e la realizzazione di incontri con i genitori su come aiutare i figli a casa. In parti-

colare, la realizzazione di incontri nella scuola, per i genitori, sulla gestione dei

compiti scolastici a casa sortisce progressi negli alunni, che mostrano punteggi

più elevati negli ambiti della lettura e della matematica.

Se le interazioni tra insegnanti e genitori sono buone, gli alunni:

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mostrano un maggiore livello di autostima

partecipano attivamente alla vita di classe

tendono a impegnarsi di più

ottengono risultati più soddisfacenti

Quali sono i fattori che sostengono la partecipazione e il coinvolgimento

dei genitori nella vita scolastica e nei compiti di apprendimento dei figli?

Il contributo di Hoover-Dempsey e Sandler, 1997 ci aiuta a rispondere al

quesito. Vediamo quali sono, secondo questi autori, i fattori che entrano in gio-

co:

1) La concezione personale del ruolo genitoriale, ovvero ciò che i genitori

ritengono faccia parte dell‘educazione dei bambini. La concezione del

ruolo genitoriale si costruisce nei contesti socioculturali (gruppi di

appartenenza: famiglia, scuola, lavoro) e concorre a definire quali

attività sono considerate importanti e necessarie per essere buoni

genitori.

2) Senso di auto-efficacia percepito dai genitori rispetto alla possibilità di

aiutare i figli nella realizzazione del successo scolastico. Credenze che

i genitori hanno nei confronti della loro adeguatezza nel sostenere i

figli e delle capacità di apprendimento che attribuiscono ai figli stessi.

3) Richieste effettive di coinvolgimento. Le richieste effettive di

coinvolgimento nella realizzazione del successo scolastico, effettuate

sia dai figli che dalla scuola ai genitori segnalano la volontà effettiva di

far partecipare le famiglie.

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4) Altri fattori di coinvolgimento: Età e livello di sviluppo del bambino;

qualità personali dei padri e delle madri; generale entusiasmo relativo

alla possibilità di far parte della vita scolastica dei figli; percezione del

tempo e delle energie necessarie per tale compito; esperienza

precedente realizzata grazie alle richieste di coinvolgimento da parte

dei figli, degli insegnanti e delle scuole

5) Fattori personali relativi all‘esperienza scolastica e sociale dei genitori.

Questi fattori sono connessi alla storia personale dei genitori e chiamano in

causa in primo luogo le esperienze realizzate nella propria scuola, cioè quanto e

come i rispettivi genitori si erano fatti coinvolgere quando loro stessi erano stu-

denti; poi entrano in gioco le credenze sulla partecipazione della famiglia in re-

lazione alle norme culturali e valoriali di riferimento e in ultima battuta il carico

delle responsabilità familiari e la disponibilità di tempo.

Concludendo possiamo dire che il successo scolastico può essere conside-

rato come l‘effetto di vari fattori, individuali e sociali. Il ruolo delle famiglie nel

promuovere l‘autostima dei figli e nella disponibilità a farsi coinvolgere nella vi-

ta scolastica sono parte di una visione che considera i genitori, insieme agli inse-

gnanti e alle altre figure educative, attori fondamentali del successo formativo.

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4.5 Insegnamento e relazione di aiuto a scuola

La relazione di aiuto si declina tra le professioni dell‘aiuto di tipo psicolo-

gico, psicopedagogico e clinico (psicologi, psicopedagogisti, counselor, psichia-

tri) e altre professioni che implicano competenze comunicative e relazionali per

l‘aiuto come quella dell‘insegnante, dell‘educatore, dell'assistente sociale e che

possono avvantaggiarsi di alcune conoscenze psicologiche di base legate alla

comunicazione , alla relazione e alla conduzione del colloquio.

La relazione di aiuto è un rapporto fra due o più persone, che comporta

una condizione di reciprocità, all‘interno della quale ognuna delle parti in causa

può subire delle modificazioni proprio grazie al rapporto con l‘altra, con la con-

seguente creazione di un legame.

Con il termine aiuto ci si riferisce ad un‘azione o risposta prestata a qual-

cuno in difficoltà nei termini di appoggio, collaborazione, assistenza.

La relazione di aiuto è in primo luogo una ―relazione‖, che esclude la vi-

sione di un intervento unidirezionale sull‘altro inteso come oggetto, per accede-

re ad una dimensione, che riconosce nell‘altro una persona e si articola

nell‘ottica dello scambio .

Ogni relazione di aiuto deve essere considerata con riferimento al contesto

in cui si esplica. La relazione di aiuto realizzata dell‘insegnante nella scuola ha

delle caratteristiche, perché si inserisce in un contesto quale quello scolastico ca-

ratterizzato dalla esplicazione di una situazione formativa , dove il docente è

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chiamato non solo a trasmettere conoscenze ma soprattutto a riconoscere e valo-

rizzare le risorse positive dello studente, da promuovere in chiave di autoforma-

zione e motivazione alla crescita personale e disciplinare.

Gli insegnanti, attraverso la relazione di aiuto nella scuola, perseguono

obiettivi specifici e primari di apprendimento, di problem solving e di socializ-

zazione degli alunni, ma contemporaneamente sono chiamati a realizzare anche

obiettivi secondari di tipo psicologico, quali promozione dell‘autostima, della

stabilità emotiva, dell‘integrazione sociale, legate anche alla relazione interper-

sonale docente-alunno. Trasversalmente alle diverse professionalità, nella rela-

zione di aiuto diviene fondamentale la preparazione e la formazione

dell‘operatore nell‘acquisizione di competenze comunicative e relazionali, che

richiedono consapevolezza di sé, dei propri vissuti emotivi, del proprio quadro

valoriale, capacità di decentramento cognitivo, abilità nella costruzione, nel

monitoraggio, nell‘evoluzione della relazione.

Le competenze comunicative e relazionali e la competenze tecniche di

conduzione del colloquio emergono come elementi di base nella gestione della

relazione di aiuto che può essere declinata nel contesto scolastico ed extra-

scolastico con le seguenti modalità: il coaching, l’holding e il counseling .

L‘insegnante guida, stimola, esercita gli studenti (coaching ), li contiene e

li sostiene affettivamente (holding ), li consiglia e li orienta (counseling )

nell‘affrontare i loro impegni e nel risolvere i loro problemi.

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Il coaching è un modello attraverso il quale l‘insegnante o l‘educatore al-

lena e aiuta gli studenti ad identificare i punti di forza e di debolezza e cerca, in-

sieme con i colleghi e con gli studenti, soluzioni più creative.

Attraverso l‘holding l‘insegnante e/o l‘educatore media e contiene le emo-

zioni e le preoccupazioni degli studenti, infonde fiducia e partecipazione a quan-

to gli allievi e le loro famiglie sentono come problema o come sfida.

Attraverso il counseling responsabilizza gli allievi, li rende consapevoli

dei loro livelli di maturazione, li abilita a prendere decisioni personali, e pro-

muove la comunicazione con le loro famiglie attraverso il colloquio.

Questi tre modelli di relazione di aiuto indicano pratiche operative conso-

lidate caratterizzate da strategie e tecniche differenti, che evidenziano

l‘importanza di focalizzarsi sulle differenti dimensioni dell‘alunno e degli altri

attori che partecipano alla vita scolastica.

In particolare la relazione di aiuto coinvolge la dimensione cognitiva e la

dimensione emotivo-affettiva (che agisce perlopiù a livello inconsapevole) degli

attori coinvolti nella relazione educativa. Riprendiamo adesso in maniera più

analitica i concetti descritti.

4.5.1 Il Coaching: la funzione di “guida”

Il Coaching tipicamente consiste in una forma personalizzata di accompa-

gnamento finalizzata ad aiutare le persone a migliorare le proprie prestazioni e

la qualità della vita privata e professionale. Il termine coach deriva dal nome di

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una particolare carrozza rinascimentale costruita nella città ungherese Kocs, che

per il suo successo si diffuse rapidamente in altri paesi. Solo alla fine del XIX

secolo, il termine assunse nella lingua inglese un nuovo significato, quello di al-

lenatore sportivo. Sia la carrozza che l‘allenatore assolvono la stessa funzione,

quella di accompagnare una persona o uno sportivo o un gruppo/ squadra da un

determinato punto di partenza ad una meta stabilita.

Il Coaching nasce negli Stati Uniti circa venti anni fa e rappresenta una

nuova professione in costante espansione a livello internazionale. Si costituisce

come una partnership tra il ―coach‖ e un cliente e si fonda su una serie di incon-

tri e colloqui a scadenze prefissate .

Il coach aiuta la persona a trasformare se stessa e a riformulare il proprio

modo di pensare, di agire e in taluni casi anche di essere, supportandola a rag-

giungere livelli più elevati nelle sue prestazioni e a fare emergere il meglio del

proprio potenziale attraverso la ristrutturazione di credenze e di convinzioni che

possono limitare la persona, valorizzando le sue risorse e attivando la creatività

inespressa.

Il coaching consiste in una metodologia che prevede interventi personaliz-

zati, volti a mettere a fuoco le possibilità di sviluppo di un individuo.

Il coach analizza la situazione di partenza del cliente e condivide con lui

ciò che egli è disposto a fare per raggiungere la meta individuata. Questa assun-

zione di responsabilità è considerata la ragione dell‘efficacia del coaching. Le

competenze che il coach deve possedere sono soprattutto di tipo verbale : ascol-

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to, porre domande, far riflettere per creare il massimo di efficacia in termini di

conversazione e di esperienza per l‘individuo.

Durante il colloquio la persona sceglie l‘argomento della conversazione , e

il coach lo ascolta ponendo osservazioni e domande, al fine di creare maggiore

chiarezza ed sostenere la propositività.

In particolare gli obiettivi di un colloquio di coaching sono i seguenti:

1. aiutare la persona a focalizzare il suoi reali obiettivi , esplorare

nuove opportunità o opzioni, rimuovere eventuali barriere e a

creare un piano d‘azione per raggiungere i suoi obiettivi con

successo;

2. sollecitare la persona a prendere l‘impegno di fare di più di quanto

non avrebbe fatto da solo;

3. chiedere alla persona di lavorare sui suoi punti di forza e aiutarla a

sviluppare il suo potenziale al fine di raggiungere risultati più

duraturi e appaganti;

4. aiutare la persona a rimanere focalizzato per raggiungere più

velocemente quello che veramente desidera.

Il tipo di relazione che si instaura tra il coach e la persona è perlopiù di ti-

po simmetrico, ovvero viene vissuta nei termini di un rapporto fra adulti pari,

piuttosto che un rapporto genitoriale di tipo paternalistico e la comunicazione è

caratterizzata da un linguaggio propositivo piuttosto che da un linguaggio di ti-

po direttivo.

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Il coaching a scuola

L‘utilizzo di questo modello nel contesto scolastico con riferimento alla

funzione di tutor dell‘insegnante sottolinea il ruolo di guida personalizzata che il

docente è chiamato a svolgere con l‘alunno. In tale prospettiva il coaching im-

plica competenze che agiscono sul piano della consapevolezza e della responsa-

bilizzazione. L‘insegnante valuta, guida e orienta l‘alunno, cercando di condivi-

dere con lui o lei obiettivi di apprendimento e di realizzazione nell‘ambito scola-

stico, al fine di promuovere le sue risorse.

La capacità di definire e condividere con l‘alunno un percorso di appren-

dimento permette di responsabilizzare l‘alunno, in una prospettiva di ascolto e di

facilitazione rispetto alle sue potenzialità. Operativamente, la funzione di coa-

ching può essere svolta dall‘insegnante attraverso dei colloqui, sia individuali

che di gruppo, finalizzati alla definizione di un contratto , dove si definiscono

obiettivi e traguardi, attraverso una condivisione del profilo dello studente in

termini di punti di forza e punti di debolezza.

Attraverso la definizione di un piano l‘alunno può impegnarsi a raggiunge-

re determinati obiettivi di apprendimento, che ha fatto suoi, attraverso una situa-

zione di negoziazione con la figura del docente. Questi incontri possono essere

poi ripetuti nel tempo proprio per aiutare l‘alunno a verificare le modalità assun-

te nel perseguimento dei suoi obiettivi.

La possibilità per l‘alunno di porsi all‘interno di una relazione ―quasi

simmetrica‖, quale quella del coaching, dovrebbe promuovere un‘assunzione di

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responsabilità, che agisce sulla sfera della motivazione ad apprendere , sul rico-

noscimento del proprio impegno come fattore di successo scolastico, sulla pos-

sibilità di assumere un approccio metacognivito all‘apprendimento.

Il modello del coaching chiama in causa competenze e abilità che possono

essere influenzata dall‘età degli alunni, rispetto ai quali l‘insegnante è chiamato

ad attuare delle modificazioni che permettano comunque sia ai più piccoli che ai

più grandi di assumere una dimensione attiva e propositiva nei processi di ap-

prendimento, finalizzata alla realizzazione di un senso rispetto alla progettualità

del sé scolastico.

4.5.2 L'Holding: la funzione del “contenimento affettivo”

L‘holding rappresenta un aspetto fondamentale, piuttosto che un modello

paradigmatico, della relazione di aiuto che trova il suo fondamento nella pro-

spettiva psicoanalitica e in particolare nella teorizzazione di Winnicott. Tale

modalità di esplicitare la relazione di aiuto fa riferimento alla teoria evolutiva di

Winnicott, secondo il quale agli inizi della vita ogni essere umano esiste solo in

quanto parte di una relazione e le sue possibilità di vivere e di svilupparsi dipen-

dono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e ap-

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partenenza a un ―Altro‖ (madre o caregiver) che si prende cura di lui e gli dà

quel senso di sicurezza e d‘intimità che sono le basi per la crescita.

Dalla qualità affettiva di tale relazione primaria, ovvero da quanto la ma-

dre o caregiver sarà disponibile, protettiva, affidabile, costante, capace di un

contatto caldo e rassicurante, ovvero di un buon holding e di una sintonizzazione

empatica, dipenderà l‘attuazione delle sue potenzialità innate e dell‘innata socia-

lità del bambino, cioè dipenderà il lo sviluppo sano del suo Vero Sé.

L‘holding consiste nel fornire da parte della madre o caregiver al bambino

un ―ambiente di contenimento ‖, ovvero un ‖holding environement‖ tale per cui

il bambino sente assicurata la sua ―continuità di essere e di esistere ‖. Winnicott

indica come si dovrebbe tenere in braccio (e così nella propria mente) il bambi-

no , rimanendo là dove egli è e dove chiede di essere raggiunto.

Il contributo di Winnicott, come quello più in generale della psicoanalisi

allo studio delle relazioni, considera le esperienze infantili fondanti per la storia

dell‘individuo. L‘esperienza che il bambino vive nella sua relazione primaria

con la madre o caregiver si rivela fondamentale per le successive esperienze di

relazione, comprese quelle scolastiche.

Le prime vicende relazionali determinano le modalità e le possibilità che

l‘individuo ha di percepire, conoscere e porsi nei confronti della realtà struttu-

rando e dando forma al mondo interno e agli aspetti affettivo-emozionali della

persona.

Poiché ogni atto di pensiero e conoscenza mantiene una dimensione rela-

zionale, il processo di crescita cognitiva può essere incrementato nella relazione

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con una persona attenta a cogliere, pensare elaborare e restituire all‘altro le emo-

zioni implicate nei processi di apprendimento . La funzione del docente evoca

quella del genitore proprio di contenimento e di mentalizzazione degli aspetti

emotivi legati all‘esperienza di apprendimento .

L’holding a scuola

Nella relazione insegnante-allievo si struttura un‘area condivisa, ovvero

uno spazio che può essere accogliente per le parti profonde di ciascuno dei due,

all'interno in un equilibrio libero e flessibile, che può assumere un significato di

trasformazione. Questo spazio costituisce "un'area transizionale ", un'area comu-

ne del Sé, dove è possibile mettere in gioco e condividere stati emotivi profondi,

ma al tempo stesso altri aspetti del Sé permettono di riconoscersi reciprocamente

come diversi , con la possibilità di un reciproco arricchimento e di cambiamento

emotivo: sentirsi riconosciuti senza negare il riconoscimento dell'altro.

L‘holding permette di creare uno spazio potenziale dove insegnanti e

alunni (individualmente o nel gruppo-classe) si mettono in gioco, con l'obiettivo

di facilitare il ritrovamento del vero sé e di una fiducia di base. Operativamente

ciò è possibile organizzando l'ambiente per l‘alunno, provvedendo a ciò che è

necessario, inclusi i limiti, nel senso anche di regole, e creando una rete protet-

tiva che viene a coincidere con un ambiente facilitante lo sviluppo .

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4.5.3 Il Counseling: la funzione di “ascolto”

Il counseling è un processo relazionale il cui scopo consiste nel facilitare

la persona o cliente a prendere una decisione rispetto a scelte di carattere perso-

nale o a problemi o difficoltà che la riguardano direttamente, ad esempio come

scegliere un lavoro o un corso di studio. Il counseling si basa su un'originaria in-

tuizione di Carl Rogers secondo la quale se una persona si trova in difficoltà, il

miglior modo di venirle in aiuto non è quello di dirle cosa fare, quanto piuttosto

quello di aiutarla a comprendere la sua situazione e a gestire il problema assu-

mendo da sola e pienamente le responsabilità delle scelte eventuali.

Il processo di counseling enfatizza l'importanza dell'autopercezione,

dell'autodeterminazione e dell'autocontrollo. Il risultato finale è misurabile attra-

verso il grado in cui si riesce a rendere una persona capace di azioni razionali e

positive, a renderla soddisfatta e in pace con se stessa. Il couseling ha, quindi, a

che fare con l'area del conflitto, della confusione, del turbamento in seguito a

stress più o meno intensi nei vari ambiti di vita del soggetto (famiglia, scuola,

lavoro, ecc.) in persone altrimenti ben adattate e integrate (Mucchielli, 1987).

Il counseling orientativo

Per quanto riguarda l'ambito dell'orientamento scolastico e professionale, è

necessario fare una distinzione rispetto al termine couseling, spesso utilizzato in

alternativa a consulenza o supporto orientativo. Questi ultimi si riferiscono ad un

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intervento teso a migliorare una situazione critica sia mediante un rapporto indi-

viduale che di gruppo. Il couseling, invece, è una modalità di aiuto all'individuo

per affrontare ed esplorare aspetti che riguardano la persona nel suo insieme, per

riattivare energie e potenzialità necessarie a trovare soluzioni positive e favorire

un progressivo processo di autonomia e sviluppo personale. Secondo questa pro-

spettiva il couseling di orientamento si profila come una relazione di aiuto per

far fronte ai compiti di sviluppo connessi all'esperienza formativa e lavorativa di

ogni persona e come strategia di prevenzione nei confronti di esperienze indivi-

duali di successo e di disagio. In adolescenza questo tipo di intervento si basa su

una serie di colloqui con un consulente da cui il ragazzo si aspetta soprattutto un

chiarimento della sua situazione, un diverso punto di vista sul problema che lo

preoccupa, un aiuto per superare ostacoli e difficoltà. Le situazioni problemati-

che affrontate sono diverse e non riguardano solo la sfera scolastico-

professionale, ma si spazia anche su problemi sentimentali, relazionali, scolasti-

ci, personali legati prevalentemente ai compiti di sviluppo tipici dell'età. Tende

ad essere un intervento breve che analizza le difficoltà del presente, ma è orien-

tato al raggiungimento di un cambiamento a breve o lungo termine.

Il couseling orientativo può essere svolto all'interno della scuola oppure in

una realtà esterna (ad esempio un centro psico-pedagogico). Se affrontato a

scuola, taluni studiosi sottolineano che sarebbe meglio che non venisse svolto da

un insegnante (anche se questi ha una preparazione specifica in materia) proprio

perchè il docente è visto come colui che valuta e difficilmente può essere perce-

pito come un alleato, soprattutto quando le problematiche sono di tipo scolasti-

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co. Spesso le scuole ricorrono ad una consulenza esterna, anche se non si esclu-

de la possibilità che un insegnante possa svolgere il ruolo di docente in una

scuola e quello di counseling in un altro istituto o in una sede distaccata.

I ragazzi possono rivolgersi al counseling direttamente o indirettamente

perchè segnalati da altri. Secondo Pelanda, essenzialmente presentano quattro ti-

pi di problemi:

1) un primo gruppo è costituito da ragazzi che giungono alla

consultazione per difficoltà connesse alla crisi evolutiva;

2) un secondo gruppo arriva su richiesta dei genitori, spesso per difficoltà

scolastiche o rischio di abbandono scolastico;

3) un terzo gruppo è rappresentato dai narcisisti che parlano a lungo dei

problemi, dei propri pensieri e progetti ma danno poca importanza alla

realtà concreta;

4) un quarto gruppo è rappresentato da ragazzi che hanno una patologia

grave e che vengono inviati ad una struttura specialistica.

Ricordiamoci sempre che il counseling non è una psicoterapia e non ha

una scopo né di diagnosi, né di cura e anche se condotto da un esperto come lo

psicologo non si rivolge a persone mentalmente disturbate, ma a individui che

hanno un problema e vogliono condividerlo con una persona qualificata.

Il colloquio nel counseling di orientamento: Il colloquio si svolge in una

stanza riservata (costruzione del setting) e non troppo rumorosa. Si struttura in

quattro o cinque incontri e la tendenza è quella di non superare mai gli otto-dieci

in modo da evitare che il lavoro si trasformi in un lavoro terapeutico prolungato.

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La durata è di circa 40 minuti, ma può essere anche più breve. Non vi è una ca-

denza fissa, si seguono i tempi di comprensione del soggetto.

Anche se vi sono diverse modalità di conduzione, si può fare una distin-

zione tra alcune fasi caratterizzanti.

a) Fase iniziale: accoglienza e definizione del problema

Si distinguono tre momenti:

- presentazione e accoglienza

- analisi della domanda

- approfondimento del problema

b) Fase centrale: esplorazione della persona

- storia personale

- situazione attuale

c)Fase finale: sintesi delle informazioni e formulazione di strategie

1. ridefinizione del problema

- formulazione degli obiettivi successivi

- conclusione del colloquio

Il couseling orientativo assume, quindi, in primo luogo una funzione di

―indagine scoperta‖ della personalità dello studente. Il compito del consulente in

questo caso è quello di aiutare l'adolescente ad esplicitare alcune conoscenze su

se stesso, metterle in relazione con le reali capacità e possibilità ed elaborare un

progetto o un percorso scolastico e/o professionale. In secondo luogo assume

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una funzione di ―indagine e costruzione‖ della personalità nel corso del quale si

cerca di facilitare una modificazione di atteggiamenti che possono essere disfun-

zionali. In questo caso il consulente stimola l'adolescente ad acquisire compe-

tenze adeguate utili a risolvere eventuali problematiche evolutive e assumere

nuovi atteggiamenti in vista dell'obiettivo che ci si è prefissati.

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