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II. I mulini 1. Lo sfruttamento dell’energia idraulica dalle origini al XIV sec.: uno sguardo al contesto tecnologico italiano ed europeo 1.1. TIP OL OGIA DEL LE RUOTE AD ACQUA E C L ASSIFICAZI ONI POSS IB IL I Per millenni l’uomo trovò nei propri muscoli o in quelli degli animali domestici la principale fonte dell’energia necessaria a trasformare in farina il grano e gli altri cereali. Le cose cambiarono quando entrò a far parte del suo patrimonio tecnologico un meccanismo che gli permise di sfruttare la forza inanimata dell’acqua corrente: la ruota idraulica. Il più antico riferimento ad un congegno di tale tipo si trova in un epigramma di Antipatro di Tessalonica, databile attorno all’85 a.C.: in esso il poeta celebra la libertà che il mulino idraulico donava alle donne, prima costrette a muovere per ore la macina con la forza delle loro braccia 1 . Circa un secolo più tardi Strabone ricorda il mulino fatto costruire da Mitridate nel suo palazzo di Cabeira, nel Ponto, intorno al 65 a.C. 2 . Entrambi questi riferimenti sono estremamente vaghi e non permettono in alcun modo di stabilire quale fosse il tipo specifico di ruota idraulica utilizzata. Nonostante ciò, studiosi di storia della tecnologia come Richard Bennet e John Elton, fra i primi ad occuparsi di questo argomento, sono partiti da tali generici accenni per sostenere che le ruote descritte fossero orizzontali, a causa della loro natura primitiva, e che questa tipologia fosse stata presto adottata in gran parte dell’Italia rurale 3 . Tale supposizione si basava essenzialmente sulla testimonianza di Plinio il Vecchio, che per il periodo attorno al 75 d.C. parla di una larga diffusione in Italia del mulino orizzontale 4 . Ma già quasi un secolo prima, attorno al 20 a.C., Vitruvio aveva descritto con sufficiente chiarezza il funzionamento di una ruota idraulica verticale 5 : nonostante il testo abbia dato adito a varie interpretazioni, è generalmente accettato che egli descriva una ruota colpita dall’acqua nella sua parte inferiore 6 . Sulla base dei pochi accenni contenuti nelle fonti scritte, si sono dunque succedute numerose ipotesi riguardo alla tipologia dei primi meccanismi idraulici, alla cronologia della loro comparsa, al luogo 1 Antipatro di Tessalonica, Anth. Pal., IX, 418. 2 Strabone, Geograph., XII, 3, 30. 3 Bennet-Elton, 1898-1904, vol. 2, p. 6, cit. in Muendel, 1974, p. 204. 4 Plinio, Nat. Hist., XVIII, 97. 5 Vitruvio, De Arch., X, V, 1-2. 6 Cuomo di Caprio, 1985, p. 98. ©1997 Edizioni All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale

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II. I mulini

1. Lo sfruttamento dell’energia idraulica dalle origini al XIV sec.: uno sguardo al contesto tecnologico italiano ed europeo

1.1. TIP OL OGIA DEL LE RUOTE AD ACQUA E C L ASSIFICAZI ONI POSS IB IL I

Per millenni l’uomo trovò nei propri muscoli o in quelli degli animali domestici la principale fonte dell’energia necessaria a trasformare in farina il grano e gli altri cereali. Le cose cambiarono quando entrò a far parte del suo patrimonio tecnologico un meccanismo che gli permise di sfruttare la forza inanimata dell’acqua corrente: la ruota idraulica. Il più antico riferimento ad un congegno di tale tipo si trova in un epigramma di Antipatro di Tessalonica, databile attorno all’85 a.C.: in esso il poeta celebra la libertà che il mulino idraulico donava alle donne, prima costrette a muovere per ore la macina con la forza delle loro braccia1. Circa un secolo più tardi Strabone ricorda il mulino fatto costruire da Mitridate nel suo palazzo di Cabeira, nel Ponto, intorno al 65 a.C.2. Entrambi questi riferimenti sono estremamente vaghi e non permettono in alcun modo di stabilire quale fosse il tipo specifico di ruota idraulica utilizzata. Nonostante ciò, studiosi di storia della tecnologia come Richard Bennet e John Elton, fra i primi ad occuparsi di questo argomento, sono partiti da tali generici accenni per sostenere che le ruote descritte fossero orizzontali, a causa della loro natura primitiva, e che questa tipologia fosse stata presto adottata in gran parte dell’Italia rurale3. Tale supposizione si basava essenzialmente sulla testimonianza di Plinio il Vecchio, che per il periodo attorno al 75 d.C. parla di una larga diffusione in Italia del mulino orizzontale4. Ma già quasi un secolo prima, attorno al 20 a.C., Vitruvio aveva descritto con sufficiente chiarezza il funzionamento di una ruota idraulica verticale5: nonostante il testo abbia dato adito a varie interpretazioni, è generalmente accettato che egli descriva una ruota colpita dall’acqua nella sua parte inferiore6.

Sulla base dei pochi accenni contenuti nelle fonti scritte, si sono dunque succedute numerose ipotesi riguardo alla tipologia dei primi meccanismi idraulici, alla cronologia della loro comparsa, al luogo

1 Antipatro di Tessalonica, Anth. Pal., IX, 418.2 Strabone, Geograph., XII, 3, 30.3 Bennet-Elton, 1898-1904, vol. 2, p. 6, cit. in Muendel, 1974, p. 204.4 Plinio, Nat. Hist., XVIII, 97.5 Vitruvio, De Arch., X, V, 1-2.6 Cuomo di Caprio, 1985, p. 98.

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di origine ed alle modalità di diffusione7. Sino a tempi recenti la tendenza generale degli studiosi di storia della tecnologia è stata quella di ipotizzare due linee evolutive rigidamente alternative, delle quali l’una soppianta l’altra, facenti capo rispettivamente alla tipologia di ruota orizzontale ed a quella di ruota verticale. Un’altra idea comunemente riscontrabile nella letteratura tecnica tradizionale è quella di una presunta primitività o rozzezza del mulino orizzontale, rispetto a quello verticale, che avrebbe fatto del primo lo strumento tipico di civiltà poco evolute. Lo stesso Marc Bloch, il cui classico studio sulle origini del mulino idraulico ha posto le basi fondamentali per il successivo dibattito storiografico sul ruolo economico e sociale di questo meccanismo durante il Medioevo, per quanto riguarda gli aspetti tecnologici si limita a dire che il mulino orizzontale, rudimentale e primitivo, potrebbe rappresentare una forma di regresso tecnico avvenuto presso popolazioni abituate ad una vita materiale piuttosto povera .

Negli ultimi anni, tuttavia, alcuni studiosi si sono opposti decisamente all’idea di un ‘evoluzionismo tecnologico’ secondo il quale il tipo più efficiente succede al tipo ritenuto più primitivo soppiantandolo, ed hanno negato nella fattispecie che per la ruota orizzontale si possa parlare di arretratezza o regresso tecnico9. In ambito toscano, ad esempio, John Muendel si è opposto a questo luogo comune, in base ai risultati di una vasta ricerca condotta entro i fondi archivistici notarili di Pistoia e Firenze, sulla quale torneremo ampiamente in seguito. I dati reperiti, infatti, mostrano che proprio il mulino orizzontale rappresenta il tipo più antico conosciuto, il più diffuso nell’area esaminata e probabilmente in tutta la regione10. Le diverse tipologie, dunque, non sono da ritenersi interdipendenti e probabilmente coesistono fin dalle origini, adattandosi alle diverse esigenze locali secondo le caratteristiche quantitative e qualitative dell’energia disponibile. è quindi estremamente importante cercare di chiarire quali fattori ambientali, congiunture economiche, linee di trasmissione del sapere tecnologico o elementi di resistenza locali, abbiano determinato il prevalere di un certo tipo in alcune aree piuttosto che in altre.

Pur avendo bene in mente le precedenti considerazioni, abbiamo ugualmente deciso di proporre qui un tentativo di classificazione delle diverse ruote idrauliche. Si tratta di uno schema, infatti, che non intende presentarsi come una ‘evoluzione’ di tipi che si succedono l’uno all’altro, in un rigido percorso che vede l’adozione, attraverso i secoli, di soluzioni a sempre maggior rendimento. Ciò che si sottolineerà più volte, al contrario, sarà proprio la coesistenza, negli stessi luoghi e negli stessi periodi, di tecnologie differenti, ed anzi spesso il prevalere, in determinate aree, di tipologie

7 Bennett ed Elton affermavano, ad esempio, che il mulino vitruviano doveva essere certamente conosciuto al tempo di Plinio, ma soltanto dai tecnici romani, mentre non doveva essere diffuso estesamente perché troppo complicato e costoso (Bennet-Elton, 1898-1904, vol. 2, p. 6, cit. in Muendel, 1974, p. 204). Gille riteneva che il mulino greco-romano comportasse una ruota verticale e che la presenza della ruota orizzontale in alcune zone dell’Europa occidentale fosse stata una recente importazione dei secc. XVI-XVII (Gille, 1954, pp.1-2). Secondo Curwen, che riesaminava la teoria di Bennett ed Elton alla luce di nuove fonti, il mulino orizzontale era giunto dall’Est nel mondo mediterraneo e vi era conosciuto nel I sec. a. C. (Curwen, 1944, pp. 130-132). Forbes riteneva che l’origine della ruota orizzontale fosse incerta, ma che probabilmente essa fosse apparsa per la prima volta nelle zone montuose del Vicino Oriente e da qui si fosse diffusa ad Est ed Ovest, cfr. Forbes, 1962a, p. 603. Lynn White ipotizzava invece che la ruota orizzontale fosse stata un’invenzione barbarica, diffusasi da un ignoto centro posto a Nord-Est dell’impero romano, cfr. White, 1967, p. 147. Del tutto diversa l’impostazione del problema proposta dal Needham, il quale, avendo dimostrato che ipiù antichi mulini cinesi erano orizzontali, ritiene che prima dell’era cristiana questo tipo abbia raggiunto il Ponto e si sia poi affermato lungo le coste mediterranee nei primi secoli dopo Cristo (Needham, 1981, vol. IV, cap. 27, par. 6).

8 Bloch, 1969, p. 82 (ed. orig. 1935). L’idea che il mulino orizzontale rappresenti un meccanismo primitivo è stata ancora ribadita in Makkai, 1981, pp. 169-170 e Reynolds, 1983, pp. 7 e 23.

9 Dockes, 1991, p. 120; Balestracci, 1981, p. 133; Berretti-Jacopi, 1987, p. 33; Comet, 1992, p. 438, ha definito il mulino orizzontale un “moulin denigré”.

10 Muendel, 1974, p. 206; Muendel, 1984, p. 219.

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contraddistinte da una bassa produttività, ma che evidentemente presentavano minori difficoltà di sfruttamento, minori costi, maggiore duttilità nell’adattarsi alle caratteristiche ambientali di taluni territori. Le pagine che seguono hanno inoltre l’obbiettivo di rendere più chiaro al lettore il funzionamento delle varie macchine idrauliche, fornendo anche alcuni dettagli tecnici indispensabili per comprendere con maggiore facilità i caratteri strutturali degli impianti individuati all’interno del bacino idrografico Farma-Merse. Una classificazione delle ruote idrauliche, infine, si rende necessaria per capire come proprio questo elemento dell’intero meccanismo sia stato la chiave di volta per l’impiego dell’energia dell’acqua in altre attività produttive, oltre che nella macinazione del grano: i cosiddetti ‘usi industriali’, quali soprattutto la follatura della lana, cui soltanto accenneremo nelle pagine seguenti, o la metallurgia, argomento trattato nel terzo capitolo.

Il tipo più semplice di mulino era quello a ruota orizzontale o “ritrecine”: all’estremità inferiore di un albero verticale era fissata una piccola ruota sistemata orizzontalmente, detta appunto ritrecine, composta di pale, piatte o a cucchiaio, che venivano colpite e fatte girare da un getto d’acqua a forte pressione. L’estremità superiore dell’albero passava attraverso la macina inferiore fissa ed era ancorata, mediante una barra trasversale, alla macina superiore rotante11. Poiché non era necessario ribaltare il piano di macinazione rispetto a quello di rivoluzione della ruota idraulica, l’impianto non necessitava di meccanismi, ma funzionava meglio se dotato di un bacino di riserva e di una condotta forzata.

Questo tipo di mulino aveva il vantaggio della semplicità: era facile e poco costoso da costruire e da mantenere, non prevedeva complicati ingranaggi da riparare continuamente a causa dell’attrito12; d’altra parte, però, non forniva di solito un grande quantitativo di energia (1-2 CV) e con un rendimento piuttosto scarso13 (infatti le macine giravano lentamente, compiendo l’intera rotazione una volta per ogni rivoluzione della ruota idraulica, per cui non riuscivano a macinare che modeste quantità di grano)14. Esso poteva funzionare unicamente con piccoli volumi d’acqua a flusso rapido ed era quindi adatto anche per le zone montane e per quelle prive di fiumi e torrenti di una certa consistenza.

Un mulino orizzontale, tipologia come abbiamo visto già nota a Plinio, è stato scavato in un abitato romano di II sec. d.C. in Tunisia, mentre altri due esempi, risalenti ai primi secoli dell’era cristiana, sono stati individuati in scavi nello Jutland15. I mulini orizzontali furono estremamente diffusi fino al tardo Medioevo e molti esempi se ne ritrovano ancora oggi in Grecia, nelle isole Orkney e Shetland, in Romania, in Scandinavia: di qui la definizione “mulino greco o scandinavo” adottata da alcuni studiosi16. Tale tipologia era praticamente la sola conosciuta in Provenza nel periodo medievale e moderno17, era diffusa in tutte le zone accidentate della Francia 18 e fu probabilmente anche il tipo più frequente in Toscana durante il Medioevo. Quasi tutti i mulini pistoiesi presi in esame dal Muendel, ad esempio, erano a ruota orizzontale e non possedevano meccanismi19. Il ritrecine, inoltre, dominava incontrastato nel territorio di Lucca e di Pescia ed è rimasto il tipo più comune fino ai nostri giorni20. Anche nel pratese tutti i mulini idraulici giunti fino a noi sono di tipo a ritrecine, ed è ipotizzabile che questa prevalenza si verificasse già nel periodo

11 V. la ricostruzione proposta in Pierotti, 1993 p. 87. 12 Comet, 1992, p. 443. 13 Attorno al 5-15% secondo Reynolds, 1984, p. 110, tra 10 e 20% secondo Makkai, 1981, p. 169. I

calcoli presentati in Foresti-Baricchi-Tozzi Fontana, 1984, p. 75, riporterebbero un rendimento più alto, attorno al 30-40%, ma ci si riferisce a meccanismi più moderni, con maggiore impiego di parti in ferro.

14 Forbes, 1962a, p. 603: fornisce alcuni dati quantitativi sulla produzione media. 15 White, 1967, p. 147; Comet, 1992, p. 441. 16 Forbes, 1962a, p. 603; Comet, 1992, p. 440. 17 Comet, 1992, p. 440. 18 Alpi, Prealpi, Massiccio Centrale, Jura, Pirenei, Bretagna, Corsica; alcuni esemplari sono rimasti in

funzione almeno fino al XVIII sec., cfr. Dockes, 1991, p. 120. 19 Muendel, 1974, pp. 200-201; Muendel, 1984, pp. 218-219. 20 Berretti-Jacopi, 1987, p. 24.

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medievale21. Lo stesso discorso è valido per la zona del Mugello, dove i mulini documentati posteriormente al XV sec. sono di tipo orizzontale22, e per il Chianti, ove sembra che l’uso del ritrecine fosse diffuso e del tutto comune23. è da segnalare infine, sempre per l’ambito toscano, il recente studio e recupero di un notevole complesso di mulini a ritrecine presso Rio nell’Elba, il cui stato di conservazione, piuttosto buono, permette di avere un’idea abbastanza chiara sul funzionamento di impianti di questo tipo24.

Notevole interesse suscitò poi questo meccanismo, ma soprattutto le sue possibilità di miglioramento, nei due ingegneri senesi del ‘400 Mariano Taccola25 e Francesco di Giorgio Martini 26: estremamente sensibili verso i molteplici problemi dello sfruttamento dell’energia idraulica27, ci offrono nei loro trat tati tecnici alcune delle più antiche raffigurazioni di ritrecini, talvolta in associazione con il meccanismo vitruviano che ne aumentava la velocità e l’efficienza28.

Il mulino descritto da Vitruvio, e probabilmente anche quello citato nell’opera di Lucrezio29, era invece verticale, di tipo azionato “per di sotto”: si trattava, cioè, di una ruota a palette radiali piane fissate alla circonferenza, azionata dall’impatto dell’acqua che fluiva lungo la sua parte inferiore spingendo contro le palette stesse. Le principali componenti consistevano nell’albero orizzontale terminante in un mozzo, in un numero variabile di bracci radiali che da questo si dipartivano, in un cerchione esterno entro il quale si incastravano i bracci e su cui erano fissate le pale per mezzo di supporti sporgenti in legno o metallo, in eventuali cerchioni laterali per rendere più compatto l’insieme30. Questo tipo di ruota poteva funzionare in qualsiasi corso d’acqua dotato di un flusso discretamente costante, che scorresse a velocità piuttosto rapida, ma lavorava con il massimo rendimento in un canale limitato, possibilmente fornito di una saracinesca che regolasse l’afflusso dell’acqua contro la ruota. L’energia fornita andava da 2 a 3 CV con un rendimento del 20-30%31.

La grande novità, rispetto al mulino a ritrecine, era la presenza di ingranaggi che permettevano di ribaltare su un asse verticale il movimento fornito da un albero orizzontale: questo era possibile grazie ad una ruota dentata, il lubecchio, fissata ad una delle estremità dell’asse della

21 Moretti, 1985, pp. 241-242: i documenti medievali sono poco espliciti, in un solo caso si specifica che si trattava di un retrecinis. A questo proposito l’autore propende però per una maggiore diffusione della ruota orizzontale anche nel Medioevo.

22 Romby-Capaccioli, 1981, pp. 28-29: nessun esempio di ruota verticale è presente nel comune di Barberino ed il mulino denominato “Il Rotone”, in cui si trovava la ruota verticale, rappresenta un caso isolato e piuttosto recente.

23 Carnasciali-Stopani, 1981, p. 6. 24 Pierotti, 1993. Si tratta di 22 piccoli impianti molitori, risalenti al XVII-XVIII sec., tutti a ruota

orizzontale, concentrati lungo un tratto di circa 2 Km, alimentati da un complesso sistema di canalizzazioni e bottacci intercomunicanti. All’interno di uno di essi si è eccezionalmente conservato l’intero ritrecine in legno.

25 Raffigurazione di mulino a ritrecine orizzontale dal libro I del De Ingeneis, riprodotta in Taccola, Corpus, tav. 8.

26 Martini, Trattati, vol. 1, tavv. 63-68: più di una dozzina di raffigurazioni. 27 Sull’interesse qualificato dei tecnici senesi nel settore delle applicazioni idrauliche, anche oltre i

confini del XV sec., v. Galluzzi, 1991b, pp. 15, 26-27, 31 e Galluzzi, 1996, pp. 33 e sgg. 28 Marchis, 1991, p. 115: in particolare Francesco di Giorgio raggiunge nei propri disegni la massima

raffinatezza nella costruzione della palettatura, quasi anticipando la turbina idraulica. Le ruote orizzontali sono chiamate “retecine” o “mulino terragnolo” e devono avere delle pale costruite come “gusci scavati et aperti alquanto da la parte di fore”. Anche se non in maniera esplicita traspare che le ruote a gusci sono ruote veloci, che abbisognano di una piccola quantità d’acqua ma “cacciata con impeto”, cioè con elevata velocità d’impatto, erogata da un condotto distributore fatto “a corno con una piccola uscita”.

29 Lucrezio, De Rer. Nat., V, 515-516. 30 Su questo tipo di ruota v. Makkai, 1981, p. 170 e Reynolds, 1983, p. 10, fig. 1.1. 31 Reynolds, 1984, p. 110.

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ruota idraulica, i cui denti si incastravano nella lanterna, ingranaggio costituito da due dischi di legno collegati da fuselli e a sua volta fissato su un asse verticale. Il sistema lubecchio-lanterna permetteva anche di aumentare la velocità di rotazione delle macine rispetto a quella della ruota idraulica, in quanto il rapporto tra il numero dei denti del lubecchio e quello dei denti della lanterna poteva variare32. Ingranaggi di tale genere sono già noti a Vitruvio, che li cita all’interno della sua descrizione del mulino “per di sotto”33. Naturalmente la costruzione della coppia lubecchio-lanterna richiedeva abilità e conoscenze meccaniche specializzate da parte dei carpentieri; gli ingranaggi erano inoltre sottoposti ad una forte usura che ne provocava spesso il danneggiamento e la sostituzione34.

I più antichi resti conosciuti di un mulino “per di sotto” sono venuti alla luce nei pressi di Pompei: la ruota idraulica era stata sepolta dall’eruzione del 79 d.C., ma la sua impronta, compresa persino quella dei chiodi usati per costruirla, era rimasta impressa nella lava35. Altre testimonianze ci vengono, per il III sec. d.C., dallo scavo inglese di Haltwhistle Burn e per il V sec. d.C. dalla raffigurazione in un mosaico di Bisanzio36.

Per il Medioevo è spesso difficile distinguere, a causa dell’elusività dei documenti, se le ruote verticali fossero colpite dall’acqua in basso o in alto. Si tratta, infatti, di documenti legali e non tecnici, che considerano i particolari sulla costruzione di dighe, invasi, canali o ruote dettagli non importanti e quindi da non menzionare. Le prime raffigurazioni su questo tema cominciano solo nel XII sec. e sono talmente generiche che spesso l’unica informazione da esse ricavabile è se si trattava di mulini orizzontali o verticali e, nel migliore dei casi, se possedevano ruote per di sopra o per di sotto37. A questo proposito si è fatto notare che in generale, per ora, questo tipo di indagine non ha dato informazioni esaurientemente probanti a favore di una determinata soluzione tecnologica38. In genere, comunque, le più antiche ruote idrauliche ad essere raffigurate furono quelle verticali “per di sotto” riguardo alle quali, nonostante alcuni problemi interpretativi, si possono cogliere dei particolari interessanti. Infatti, a differenza di quelli romani, la maggior parte dei mulini medievali non era dotata di cerchioni laterali che fissavano le pale. è probabile, quindi, che i tecnici dell’epoca avessero capito il miglior rendimento delle ruote non cerchionate (i cerchioni laterali, impedendo un veloce defluire dell’acqua dopo l’impatto sulle pale, di fatto rallentavano il movimento della ruota) ed avessero sviluppato migliori metodi di ancoraggio della ruota all’albero e delle pale alla circonferenza39.

Un aspetto simile doveva avere il tipo di mulino denominato orbicum nei documenti medievali pistoiesi: si capisce abbastanza chiaramente che si trattava di un mulino dotato del meccanismo vitruviano e colpito per di sotto, in quanto la terminologia usata lo distingue da quello

32 Comet, 1992, p. 42. 33 Si tratta del tympanum e del tympanum dentatum, cfr. nota 5. 34 Si tentò fino ad epoca tarda di migliorare il sistema: Leonardo da Vinci lavorò a lungo tentando di

inclinare i denti conici del lubecchio per diminuire l’attrito, cfr. Comet, 1992, p. 424. 35 L’albero portava 18 pale unite da cerchioni sui lati esterni, formanti una ruota di 1,85 m di diametro;

l’acqua era fornita da un acquedotto. Cfr. Forbes, 1962a, p. 608; Reynolds, 1983, p. 36. 36 Reynolds, 1983, pp. 18 (e fig. 1.8), 36. 37 Ivi, pp. 97-98: si fornisce un elenco molto dettagliato delle più antiche fonti iconografiche

raffiguranti mulini idraulici. 38 Moretti, 1985, pp. 242-243 e nota 93: il problema principale è rappresentato dal fatto che il mulino a

ritrecine non mostra all’esterno alcuna parte del meccanismo e perciò un artista che voleva rendere l’idea di ‘mulino’ doveva necessariamente ispirarsi al tipo di ruota verticale, che di solito è posta all’esterno delle strutture. Comunque spesso i mulini sono rappresentati senza riferimento al tipo di ruota anche nel XV e XVI sec. (presumibilmente era interna).

39 Reynolds, 1983, pp. 97-98. Si vedano anche le caratteristiche tecniche della ruota idraulica scavata a Bordesley (infra, Cap. III, par. 1.2), anche se si tratta di una ruota impiegata in un opificio metallurgico. Secondo Makkai, 1981, p. 174, il numero delle palette nelle ruote idrauliche verticali andava da 18 a 28 ed il diametro variava da 1 a 3 metri.

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colpito da sopra, detto molendinum franceschum40. Esso sembra essere posto sempre su fiumi navigabili o alle bocche di tributari dove la corrente era costante, ed appare sconosciuto nel territorio di Firenze per quasi tutto il Duecento41. Nei documenti bolognesi, invece, la terminologia usata nel XIII sec. indica con una certa chiarezza che le ruote di questo tipo erano le più diffuse42 è da citare, infine, per il suo carattere eccezionale, un documento lombardo del 918 d.C.: la menzione dello scutus, termine che in molti dialetti dell’Italia settentrionale indica ancor oggi il lubecchio, induce a supporre che in questo mulino le ruote esterne fossero in posizione verticale, sebbene manchi la citazione dell’altro elemento essenziale per la trasformazione del moto, cioè la lanterna. Se questa ipotesi ha valore ci troveremmo di fronte, fin dall’inizio del X sec., ad un livello di applicazione tecnologica sorprendente43.

Una maggiore efficienza, rispetto al mulino verticale per di sotto, si ottenne facendo cadere l’acqua dall’alto sul quadrante superiore della ruota entro cassette fissate alla circonferenza. In questo caso era il peso dell’acqua, più che il suo impatto, a far girare la ruota; ogni cassetta versava poi fuori l’acqua nel punto inferiore della rivoluzione e tornava vuota in alto per ricominciare il ciclo. I principali componenti erano un albero orizzontale terminante in un mozzo da cui si dipartivano i bracci radiali, i cerchioni che formavano le pareti esterne delle cassette, le cassette o compartimenti perimetrali entro cui si riversava l’acqua (costruite in forma tale da mantenere al loro interno il peso di questa il più a lungo possibile), infine un cerchione concentrico con il mozzo, formato da tavole che costituivano la parte interna delle cassette ed alle quali queste ultime erano fissate44.

Tali ruote erano più costose, sia perché più complicate da costruire, sia perché richiedevano un’alimentazione ben diretta e regolata: raccolta in una gora dai fiumi o dalle sorgenti, l’acqua veniva di qui avviata verso una chiusa posta in posizione elevata, da cui cadeva per colpire sul punto voluto le cassette della ruota. Con un volume d’acqua anche molto piccolo ed una caduta da altezza variabile tra 3 e 12 m, queste ruote operavano con un rendimento compreso tra il 50 ed il 70% e fornivano una potenza da 2 a 40 CV (la rendita media era tra 5 e 7 CV)45. La ruota per di sopra era dunque particolarmente adatta per le regioni con rilievi che offrivano dei dislivelli notevoli ed anche per quelle in cui l’acqua non era abbondante, a condizione di avere una buona altezza di caduta. Una variante della ruota per di sopra è il tipo cosiddetto “alle reni” nel quale, a causa dell’insufficiente dislivello, l’acqua si riversa nella cassette all’altezza dell’asse e non alla sommità della circonferenza: dal punto di vista tecnico è una ruota per di sopra, poiché l’agente meccanico è la pesantezza dell’acqua, ma la caduta e l’impatto sono minori ed il senso di rotazione è quello di una ruota per di sotto46.

Anche il mulino verticale per di sopra ha origini molto lontane ed era già impiegato, pur se in rari casi, nei primi secoli dell’era cristiana: ad esempio a Barbegal, presso Arles, all’inizio del IV sec. d.C. un acquedotto riforniva un doppio canale con una pendenza di 30∞ e un dislivello di oltre 18 m, entro il quale furono costruite due serie di ben otto ruote per di sopra, con ingranaggi di

40 Muendel, 1984, p. 225. 41 Il primo esempio è del 1282, ivi, p. 227. 42 Pini, 1987, p. 7. 43 Chiappa Mauri, 1984, p. 18. 44 Forbes, 1962a, p. 606; Makkai, 1981, p. 171; Reynolds, 1983, p. 12, fig. 1.2; Reynolds, 1984, p. 110. 45 Secondo il calcolo proposto in Reynolds, 1984, p. 110. Secondo Makkai, 1981, p. 175, il rendimento

era di circa il 63%. 46 Comet, 1992, p. 437. Il rendimento di una ruota di questo genere si aggirava attorno al 40%

(Makkai, 1981, p. 175).

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legno, che macinavano farina a livello industriale47. Quasi tutti i mulini di epoca romana erano alimentati da acquedotti: la ragione principale era probabilmente economica, in quanto era più facile usare canalizzazioni pubbliche già esistenti che costruire un sistema indipendente di alimentazione. Durante il Medioevo, invece, fu necessario compiere un notevole sforzo per utilizzare l’energia anche di torrenti e di fiumi medio-grandi, attraverso la costruzione di appropriate strutture ausiliarie come dighe, bacini di riserva, canali di alimentazione. Furono inoltre modificati in epoca medievale alcuni dettagli tecnici della ruota idraulica, che la resero più efficiente: fu alleggerito il peso del mozzo e fu ridisegnata la forma delle cassette il cui fondo, da semplicemente inclinato, assunse un profilo a gomito, che tratteneva l’acqua più a lungo e permetteva una resa migliore48.

Illustrazioni medievali di ruote per di sopra esistono, ma non prima del XIII-XIV sec., mentre il loro numero aumenta notevolmente nel XV sec., soprattutto nei trattati del Taccola e di Francesco di Giorgio Martini49.

In Toscana il mulino per di sopra è talvolta identificabile nei documenti grazie alla definizione molendinum franceschum. Con tale termine si designava un mulino che aveva sì la coppia lubecchio-lanterna come il già citato molendinum orbicum, ma che se ne distingueva semplicemente per la direzione dell’acqua sulla sua ruota esterna; Taccola aveva infatti disegnato una ruota a cassette colpita dall’alto definendola mulino francese o gallicano50. Il primo documento in cui compare un mulino di tale tipo si ha per Lucca nel 119551, in seguito lo troviamo a Firenze nel 131252 ed un altro esempio, del 1315, è noto per Prato 53. Rimane il problema di quando avvenne questa innovazione e se tale tipologia fosse conosciuta in altre parti della Toscana prima che a Firenze, dove l’influenza francese sembra arrivare solo quando la città aumenta di importanza ed inizia ad espandere la sua industria laniera incorporando metodi di manifattura nord-europei54. Sembra quindi che le ruote verticali, sia per di sotto che per di sopra (e di conseguenza il meccanismo vitruviano), fossero impiegate nella macinazione piuttosto tardi in Toscana. Il mulino orbicum era diffuso lungo le sponde di fiumi navigabili come l’Arno o l’Elsa, mentre quello franceschum nei piccoli torrenti delle colline o montagne del contado55. Essi non sostituirono affatto i preesistenti ritrecini, ma li affiancarono, cosicché alla fine del XV sec. si arrivò ad applicare il

47 Cfr. Forbes, 1962a, pp. 608-609; Reynolds, 1983, pp. 39-41. Un altro esempio di mulino idraulico verticale proviene dagli scavi dell’Agorà di Atene: risale al V sec. d.C. ed era alimentato da un lungo canale rifornito da un acquedotto; gli ingranaggi erano molto simili, anche per dimensioni, a quelli descritti da Vitruvio. Sempre un acquedotto alimentava il mulino scoperto nelle Terme di Caracalla e databile al III-IV sec. d.C., cfr. Cuomo di Caprio, 1985, p. 99.

48 Reynolds, 1983, pp. 43, 54-55, 100. 49 Raffigurazioni di ruote per di sopra in Taccola, Corpus, tav. 36 e Martini, Trattati, vol. I, tavv. 63,

65, 66, 69; v. anche le riproduzioni in Galluzzi, 1996, pp. 184 e sgg. 50 Muendel, 1984, p. 225 e fig. 12. 51 Ivi, p. 216: molinum franceschum. 52 Un molendinum franceschum viene aggiunto ad una vecchia struttura che conteneva già un ritrecine,

cfr. ivi, p. 228. Inoltre a Pistoia, nel 1387, l’Opera di S. Iacopo possedeva un molino francesco dotato di ribecco e rocchetto, cioè della coppia lubecchio/rocchetto-lanterna, cfr. Muendel, 1974, p. 214.

53 Moretti, 1985, p. 242: nell’Estimo pratese è registrato unum molendinum franceschum. 54 Sulla manifattura laniera toscana e soprattutto fiorentina, si veda Melis, 1989. 55 Berretti-Jacopi, 1987, p. 24. Inoltre un’indagine svolta nel comune di Calci (Pisa), ha evidenziato

che tutti gli opifici esistenti nei secoli XVII-XIX avevano ruote verticali a cassetta, mentre la lettura dei documenti d’archivio più antichi non consente di stabilire che tipo di ruote idrauliche fossero qui presenti in precedenza. Si ipotizza che fossero del tipo verticale azionato per caduta, dato che non si sono riscontrate tracce di strutture murarie relative alle condotte inclinate che, passando all’interno dell’edificio, mettevano in azione i ritrecini; inoltre la morfologia del territorio, a forte pendenza naturale, consentiva di sfruttare gli sbalzi del terreno per far cadere l’acqua sopra le ruote idrauliche. Vi sono solo tre esempi di ritrecini ed uno di ruota a pale, tutti dislocati su un’area pianeggiante, cfr. Manetti, 1985, pp. 37-38.

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meccanismo vitruviano anche al ritrecine per modificare la velocità delle macine56. La più antica modifica della ruota verticale tradizionale che permise di sfruttare direttamente

l’acqua di grandi fiumi navigabili, nonostante le variazioni di flusso, fu il mulino su nave. Durante il Medioevo se ne svilupparono essenzialmente due tipi: il primo prevedeva due ruote montate su entrambi i lati di una nave, il secondo una sola ruota verticale che girava in mezzo a due navi, comunicando il moto ad una o due coppie di macine57. Quest’ultimo era il tipo più efficiente, in quanto i fianchi delle navi incanalavano l’acqua verso la ruota, che poteva essere anche molto grande e quindi più potente e più stabile. Tali imbarcazioni venivano spesso ancorate sotto grandi ponti, i cui archi offrivano un attracco sicuro e funzionavano contemporaneamente da diga.

La prima menzione di mulini su nave si trova in Procopio: durante la Guerra Gotica e l’assedio di Roma del 537 d.C., Belisario avrebbe inventato questi congegni galleggianti per ovviare al taglio degli acquedotti operato dagli assedianti58. Questo tipo si diffuse nei secoli successivi lungo i grandi corsi d’acqua di pianura europei59: le fonti iconografiche sono piuttosto abbondanti a partire dal XIV sec.60 e numerose raffigurazioni, con ruote verticali per di sotto ma anche ritrecini, si trovano nei manoscritti del Taccola e di Francesco di Giorgio Martini61.

In Toscana numerosi mulini galleggianti si trovavano sull’Arno: i più sono detti in navibus e dovevano quindi essere ad una sola ruota, mentre alcuni detti in navim, ad navem, a nave dovevano prevedere o due ruote su una sola barca, oppure che uno dei due lati della nave fosse fissato ad un attracco o ad un ponte. Essi sparirono dal territorio di Firenze alla metà del XV sec.62. Sempre sull’Arno, presso Signa, una grande quantità di mulini su nave si concentrava in un tratto di fiume lungo 1,5 Km nella prima metà del XIII secolo63. Data la grande diffusione di questi congegni durante il Medioevo, non si può assolutamente pensare ad una soluzione tecnica di ripiego: essi infatti per molte comunità rappresentarono la risposta tecnicamente ed economicamente più adeguata alla necessità della molitura64. Tuttavia certamente presentavano diversi inconvenienti: la mancanza di stabilità, la facilità con cui potevano venire distrutti dalle piene, la difficoltà di controllarne i movimenti, che li rendeva un pericolo per le altre imbarcazioni; inoltre erano poco produttivi e troppo dipendenti dalle variazioni di corrente.

La pratica di ancorare i mulini galleggianti ad un attracco lungo la riva, o meglio ancora sotto le arcate dei ponti, portò probabilmente ad un più sofisticato tentativo di adattare la ruota verticale ai grandi fiumi. Si trattava di una ruota idraulica montata su una struttura di pali, che aveva nel suo pavimento delle aperture che permettevano alla ruota stessa di essere alzata o abbassata in accordo con l’altezza dell’acqua. Si hanno notizie dell’esistenza di tali macchine a partire dal sec. XII e più tardi anche alcune raffigurazioni, che però non sono abbastanza chiare da farci capire con

56 Questo ibrido non compare in nessuno dei manoscritti del Taccola, mentre è una voce importante dei Trattati di Francesco di Giorgio Martini, completati nel 1489. A questa data, quindi, esso era divenuto una entità ormai formata nella tecnologia italiana.

57 Su questo tipo di mulino, v. Makkai, 1981, p. 171; Reynolds, 1983, pp. 57-58; Comet, 1992, p. 430. 58 Procopio, De Bel. Goth., V, 19, 19-20. 59 Se ne conoscono aTolosa nel XII sec., in Provenza, aVenezia; sono numerosi a Parigi nel sec. XIV (ben 68) dove

perdurano fino al sec. XIX; a Roma funzionavano sul Tevere ancora nel 1870: cfr. Forbes, 1962a, pp. 616­618; Comet, 1992, pp. 429-430. Un gran numero di mulini galleggianti sono presenti a Moncalieri nel XIII sec. e nel Monferrato agli inizi del XV (si veda la trattazione di Benedetto, 1993); nel territorio di Padova sono documentati dalla fine del XII sec. ed in numero estremamente consistente, il più alto in assoluto per l’Italia, a metà XIV sec. entro il centro urbano stesso: Bortolami, 1988, pp. 292-294.

60 Vedi Reynolds, 1983, p. 57. 61 Martini, Trattati, vol. I, tavv. 67-68; Taccola, Corpus, tav. 40; cfr. anche Galluzzi, 1991b, pp. 440­

442. 62 Muendel, 1984, pp. 224-225. 63 Pirillo, 1989, p. 25. 64 Cfr. le osservazioni di Benedetto, 1993, p. 67.

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precisione il tipo di meccanismo utilizzato65. Questo genere di mulino, detto molendinum penzolum, era, dopo il ritrecine, il più comune a Firenze nel

XIII sec.: si trovava esclusivamente sull’Arno e sull’Elsa e dalle fonti risulta che contenesse il meccanismo vitruviano del ribecco, mentre non sono stati trovati documenti che nominino il ritrecine; quindi, per quanto esista la possibilità che la ruota orizzontale vi fosse impiegata, è tuttavia certo che il meccanismo vitruviano predominava66.

65 Reynolds, 1983, p. 59; Comet, 1992, p. 433. 66 Muendel, 1984, pp. 222-224.

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1.2.AFFER MAZIONEE DIFFUSIO NEDELMUL INODAMAC INADURAN TEILMEDIO EVO

Come abbiamo visto in precedenza, nell’antichità classica la tecnologia idraulica per la macinazione del grano era già conosciuta, ma non era diffusa estesamente67. Gli studiosi di storia della tecnologia sono in linea generale d’accordo nell’indicare il IV sec. d.C. come un momento cruciale in cui, soprattutto a causa del forte calo demografico, della diminuzione della schiavitù e della conseguente minore disponibilità di manodopera, si creò una congiuntura favorevole per il diffondersi degli impianti idraulici: da questo momento si moltiplicano le citazioni nelle fonti letterarie68 e cominciano i primi tentativi di regolamentazione da parte del potere centrale, che proseguiranno nel periodo immediatamente successivo69. è inoltre accertato che nei secoli che seguirono al collasso dell’impero romano, l’uso dell’energia idraulica, forse con una prima battuta d’arresto ed una successiva ripresa70, si diffuse in ogni angolo d’Europa. Le conoscenze tecnologiche riguardo all’installazione di meccanismi idraulici non vennero del tutto sommerse dalle invasioni barbariche di IV, V e VI sec., ma sopravvissero in alcune zone dell’Italia e del sud della Francia, in particolare attorno ad aree urbane come Roma ed a pochi centri monastici. Da queste aree la ruota idraulica sembra diffondersi verso l’esterno con una “serie quasi regolare di isocrone il cui centro di radiazione, senza possibilità di contestazione, si può collocare nel bacino mediterraneo”71.

Gregorio di Tours (540-594 ca.) parla di mulini idraulici presso Digione e più o meno contemporaneamente il poeta Venanzio Fortunato ne cita uno sulla Mosella. Al tempo dei Merovingi tali meccanismi erano abbastanza importanti da essere protetti nelle leggi saliche e compaiono come fonte di reddito fiscale nel Capitulare de villis di Carlomagno. In Svizzera il più antico mulino conosciuto risale al VI sec., nella Germania meridionale si ha una rapida diffusione dopo le invasioni di VII, nell’VIII mulini compaiono nelle leggi alamanna e bavara, mentre comincia una più lenta diffusione verso nord. Ruote idrauliche erano usate in Belgio alla metà del VII sec., in Olanda nell’VIII, in Austria e nelle Alpi orientali nel IX. Per l’Inghilterra il primo riferimento attendibile ad un mulino idraulico compare nel 762 e nel X sec. tali meccanismi avevano invaso l’Irlanda72. Questo processo di espansione, che fu non solo geografica ma anche quantitativa, si può visualizzare nel suo momento culminante facendo riferimento ai ben 5624 mulini inglesi, censiti attorno al 1080 nel pluricitato Domesday Book73.

Restringendo il quadro più in particolare all’Italia, sappiamo ad esempio che in Lombardia le

67 Sui motivi della mancata diffusione di tali meccanismi in epoca classica si è molto discusso, cfr. Bloch, 1969, pp. 43-47; Forbes, 1965, pp. 98-99; Reynolds, 1983, pp. 32-35.

68 Ausonio,Mos., 361-364; Prudenzio,C. Symm.,II, 950;Procopio,De Bel. Goth.,V, 19, 8-9. 69 Editto di Diocleziano del 301 d.C., nel quale si fissa il prezzo di un mulino ad acqua (Malanima,

1988, p. 41); editto protezionistico di Onorio e Arcadio del 398 d.C. (Reynolds, 1983, p. 31); editti di Zeno del 485, di Teodorico del 500 ca., di Giustiniano del 538 (ibidem e Forbes, 1965, p. 97).

70 Il processo di diffusione non sembra essere stato del tutto lineare, ad es. cfr. Malanima, 1988, pp. 41­42 e Idem, 1996: alcuni indizi portano a pensare che nei secc. V-VI si sia verificata in alcune areeunanetta caduta nell’impiego delle macchine antiche, ed un forte ritorno alle mole a mano.

71 Bloch, 1969, p. 77. In tale saggio Bloch fu il primo a sottolineare con estrema decisione l’importanza dei secoli altomedievali per i progressi nel campo della tecnica e soprattutto dello sfruttamento di nuove fonti di energia.

72 Si vedano le testimonianze più antiche riguardo ai mulini idraulici europei raccolte negli studi di Bloch, 1969, pp. 75-77; Forbes, 1962a, pp. 618-621; Reynolds, 1983, pp. 49-50. V. anche Malanima, 1996, pp. 97 e sgg.

73 Sulla base dei dati ricavabili dal Domesday Book è stata calcolata una media di 1 mulino ogni 250 persone. è importante notare come tali cifre siano state confermate anche per altre regioni europee nel Medioevo, e come calcoli effettuati per il XIX sec. abbiano mostrato un parallelismo perfetto tra l’aumento della popolazione e quello delle ruote idrauliche, cfr. Makkai, 1981, p. 176.

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prime menzioni di mulini idraulici compaiono in documenti del 767 e del 776, continuano con regolarità durante il IX sec. e si moltiplicano nel X74. Tali meccanismi sono documentati nel Trevigiano dal 710, a Brescia dal 767, in Abruzzo dal IX sec.75, nel territorio padovano dall’819, a Parma dall’860, a Pavia dall’863, a Cremona dall’89176, a Verona dal 905 77, a Bologna dal 1074 78. In Toscana i primi documenti risalgono all’anno 726 per il territorio di Pistoia ed al 798 per Lucca79.

Praticamente tutti i mulini la cui storia siamo in grado di seguire per il periodo altomedievale erano di pertinenza di monasteri e di vescovi: ciò dipende, ovviamente, in primo luogo dal fatto che l’unica documentazione scritta che possediamo per questo periodo è di origine monastica. A ciò si aggiunga la considerazione che per installare impianti idraulici era necessario essere in possesso di diritti pubblicistici sulle acque (che in questo periodo ancora potevano essere concessi solo tramite autorizzazione regia)80 e soprattutto poter disporre di manodopera e di risorse economiche notevoli, dato che la costruzione di una struttura costosa come un mulino comportava forti investimenti (considerazione valida, naturalmente, anche per l’aristocrazia laica, riguardo alla quale, però, le fonti ci dicono poco). Da questa ultima osservazione consegue anche che, fin quando la popolazione si manteneva ancora poco numerosa, l’installazione di tali meccanismi era vantaggiosa solo se essi servivano alla molitura di molto grano, cioè all’approvvigionamento di comunità consistenti (ad esempio quelle monastiche), oppure operavano in regime di monopolio. Per arrivare al “banno” il passo era certamente breve: investire in mulini, infatti, pur se costoso, diveniva estremamente remunerativo, in quanto le rendite di un signore potevano aumentare considerevolmente se egli era in grado di imporre a tutti i contadini delle sue terre di servirsi esclusivamente del proprio impianto molitorio, ed obbligarli, anche con la forza, ad abbandonare le macine a mano81.

Alcuni dati suggeriscono che il momento di più forte espansione numerica degli impianti idraulici in Europa si verificò tra XII e fine XIII sec., in corrispondenza con un periodo di prosperità economica e soprattutto di forte incremento demografico82. A partire dal Mille, in concomitanza con l’aumento delle fonti scritte, le menzioni di mulini nei documenti crescono in maniera esponenziale, talvolta al punto “che non vale la pena di citarle tutte”83. Come nei secoli altomedievali, anche in questo periodo i mulini appartengono per la maggior parte ad enti ecclesiastici ed ai vescovi, ora molto più spesso affiancati, tuttavia, dai nascenti organismi comunali84 e dalle grandi famiglie dell’aristocrazia laica (riguardo alla quale la documentazione si fa adesso più abbondante)85. Quest’ultima comincia a comparire sempre più frequentemente come proprietaria di impianti

74 Chiappa Mauri, 1984, pp. 8-9. Un andamento simile si riscontra per la Sabina, cfr. Toubert, 1976, pp. 106-107; Toubert, 1977, v. I, pp. 460-461.

75 Malanima, 1988, p. 42. 76 Bortolami, 1988, pp. 283-285. 77 Varanini, 1988, pp. 342-343. 78 Pini, 1987, p. 7. 79 Muendel, 1972, p. 39; Berretti-Jacopi, 1987, p. 23. Sul diffondersi dei termini “molendinum”,

“molinum”, nei documenti italiani a partire dalla seconda metà dell’VIII sec., cfr. anche Aebischer, 1932. 80 V. infra, nota 259. 81 Su tali aspetti cfr. ancora Bloch, 1969, in particolare le pp. 54 e sgg e Malanima, 1996, p.100. 82 Gille, 1954, p. 3; Forbes, 1962a, p. 618; Gimpel,1977, p. 57; Reynolds,1983, pp.52-53. 83 Chiappa Mauri, 1984, p. 14; v. anche Pini, 1987, pp. 7-8 e 21. In Malanima, 1995, pp. 64-65, 74-75

una sintesi sui dati quantitativi riguardo alla presenza di mulini in Europa nei secoli centrali del Medioevo. Per visualizzare il punto di arrivo di tale espansione attraverso i secoli si pensi ai 500-600.000 mulini calcolati per l’Europa del XVIII secolo (Braudel, 1979, p. 312; Makkai, 1981, pp. 175-176)

84 La politica comunale in proposito di controllo sulle acque e la conseguente creazione e gestione in proprio di una rete di impianti molitori si dispiega a ritmo crescente dalla fine del XII sec. e per tutto il XIII, quando l’espansione numerica dei mulini ha toccato ormai il suo apice; per le iniziative comunali v. infra, nota 347.

85 Balestracci, 1992, pp. 432 e 435.

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molitori: si vedano i chiari esempi delle famiglie aristocratiche di Bologna tra XI e XII sec., di Verona e Reggio Emilia nel XII, di Piacenza a fine XII-inizi XIII sec.86. Ma in numero ancora maggiore i mulini furono costruiti o si concentrarono nelle mani dei vescovi cittadini, soprattutto con l’evolversi del processo che vide i diritti sulle acque divenire sempre più di loro pertinenza: basti pensare al chiarissimo esempio di Reggio Emilia, dove il vescovo è il solo ad avere diritto di costruire mulini sui corsi d’acqua urbani e ne è il maggiore proprietario tra IX e XIII sec.87, o al caso di Padova, dove tra X ed XI sec. è fra le patrimonialità dei vescovi che fanno la loro comparsa i primi mulini88.

Per quanto riguarda invece gli enti ecclesiastici, si ha l’impressione che nessun monastero di una qualche consistenza sia stato privo di propri impianti molitori89. Invece di lanciarci in un lungo elenco di esempi, dunque, preferiamo limitarci a considerare, come caso emblematico, un ordine monastico particolarmente studiato, sia in ambito europeo che italiano, proprio sotto il particolare aspetto dell’interesse mostrato verso le tecnologie idrauliche: quello cistercense. Del resto una delle più note ed esplicite testimonianze letterarie medievali dell’attenzione con cui si guardava all’impiego dell’energia dell’acqua, ci viene proprio da questo ordine: si tratta di un famoso e spesso citato brano di Arbois de Jubainville, monaco del XIII sec., che dedica ampio spazio ad una accurata descrizione di come i confratelli di Clairvaux avevano organizzato tutto il complesso degli edifici in modo da sfruttare le acque del fiume Aube, che scorreva nelle vicinanze, deviandolo e canalizzandolo per irrigare gli orti del monastero e far funzionare le mole per il grano, la gualchiera, la birreria e la conceria90. Tutti i monasteri maschili francesi si dotarono di almeno un mulino entro i primi 2 o 3 decenni che seguirono alla fondazione, ma nella maggior parte dei casi la quantità fu molto più elevata: gli impianti andavano da 2 a 3 per moltissime abbazie, a 5 o 6 per le più ricche91. Ma questo fu solo l’inizio: l’acquisto di impianti idraulici seguì una curva in continua ascesa secondo una politica economica ben precisa in più e più monasteri. Per la Borgogna, centro di irradiazione dell’ordine, Chauvin arriva a parlare di una vera e propria “bulimia d’acquisto”, immagine incisiva per definire il processo che, a partire dal 1210-1220 per una ventina d’anni, o anche con una politica di acquisti concentrata in 2 o 3 anni, portò ad una presa di possesso cistercense quasi completa92. In certi casi la gestione dei mulini si sviluppò fino a divenire la principale fonte di reddito con la costituzione di veri e propri monopoli93.

La situazione italiana non era diversa dal resto d’Europa: molti monasteri cistercensi sembrano indirizzarsi da subito verso l’accaparramento dei diritti sulle acque e di un numero elevatissimo di impianti idraulici. Fu questa, ad esempio, la politica di Chiaravalle Milanese,

86 Cfr. Pini, 1987, p. 8; Varanini, 1988, pp. 359-372; Dussaix, 1979, p. 121; Balestracci, 1992, p. 443. 87 Dussaix, 1979. 88 Bortolami, 1988, p. 287. Si vedano inoltre vari altri esempi di mulini vescovili in Balestracci, 1992. 89 È una tendenza assolutamente generale: per citare solo alcuni esempi si vedano i monasteri liguri

(Origone, 1974), quelli lombardi (Chiappa Mauri, 1984), bolognesi (Pini, 1987, p. 8), della zona chiantigiana (Carnasciali-Stopani, 1981, p. 4); altri esempi anche in Varanini, 1988, p. 343 e Balestracci, 1992.

90 De Jubainville, Descriptio, pp. 570-571. Una descrizione analoga della rete idrica di Clairvaux ritroviamo anche in un più antico passo dell’abate Arnold de Bonneval, il quale descrive la ricostruzione dell’abbazia nel 1136: non fa nessuna menzione della chiesa, ma mostra verso le opere idrauliche realizzate la stessa ammirazione del suo successore, cfr. De Bonneval, San. Bern. p. 285.

91 Chauvin, 1983, pp. 30-31. 92 Verso la metà del XIII sec. sono rare le abbazie che dispongono di meno di mezza dozzina di mulini,

la media è una decina, mentre qualche monastero, come Bellevaux, Charlieu o Citeaux, ne possiede il doppio, cfr. Chauvin, 1983, pp. 30-31. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi sia per la Francia che per l’Inghilterra, cfr. Reynolds, 1983, p. 110; Lekai, 1989, p. 386. Cfr. inoltre l’amplissima bibliografia recentemente raccolta in RighettiTosti-Croce, 1993a.

93 È quanto avvenne nelle abbazie di Reinfeld e Doberan, in Germania, e Poblet in Catalogna nel XIII sec., cfr. Lekai, 1989, p. 387.

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Casanova, Lucedio, Morimondo, Casamari, Fossanova, Chiaravalle di Fiastra e dei monasteri liguri94. Molto interessante, infine, è il caso del monopolio instaurato dall’abbazia di S. Salvatore a Settimo sugli impianti molitori lungo un tratto notevole dell’Arno. A partire dal loro arrivo sul luogo, nel 1236, i Cistercensi cominciarono l’acquisto di singole quote-parti o di interi sbarramenti utilizzati dai mulini naviganti di Signa e li eliminarono progressivamente, fino a costruire, nel 1253, una pescaia a sbarramento totale dell’alveo, che riforniva un loro grande impianto a 6 mole. In tale modo essi non solo imposero il monopolio sulla macinazione nella zona, ma probabilmente anche alle navi cariche di grano che risalivano verso Firenze, costrette a sbarcare il carico in questo punto ed a farlo proseguire via terra aggirando lo sbarramento95.

Una così massiccia espansione delle tecnologie idrauliche, comportò naturalmente un notevole sforzo di ingegneria civile per la costruzione di una serie di strutture accessorie come dighe, gore di derivazione, bacini di riserva, canali di rifiuto96. Di rado, infatti, le ruote erano mosse direttamente dalla corrente: in genere veniva invece scavata una derivazione che deviava l’acqua dal fiume in un canale, parallelo al corso d’acqua, che riforniva i bacini di riserva e serviva sia ad isolare le ruote dalle variazioni stagionali del livello dei fiumi, sia ad evitare di ostruire l’alveo con strutture ingombranti in caso di piena97. Gli sbarramenti che consentivano il deflusso delle acque dal fiume alla gora potevano essere di vari tipi: si andava da semplici strutture costruite con materiali deperibili che richiedevano una continua manutenzione98, a delle vere e proprie dighe in muratura a sbarramento totale dell’alveo del fiume. Realizzare strutture di questo secondo genere comportava evidentemente notevoli capacità ingegneristiche ed il superamento di alcune difficoltà tecniche: le dighe dovevano reggere la forza delle piene ed essere dotate di saracinesche di scolmo, erano inoltre soggette da un lato all’erosione delle parti alte, dall’altro al deposito di fango e materiali alluvionali che ne determinavano il progressivo interro99. Dighe imponenti erano state già costruite da Romani ed Arabi100, ma i dati per il Medioevo suggeriscono un progresso tecnico ed una diffusione notevole, tanto che le descrizioni nelle fonti, le citazioni nei documenti e le tracce sul territorio sono numerosissime101.

Per quanto riguarda la struttura materiale dei canali di derivazione, bisogna dire che nella maggioranza dei casi si trattava di semplici fossati a cielo aperto, delimitati da argini in terra battuta, talvolta con pareti rivestite in muratura o in legno. Nei punti depressi il canale poteva essere tenuto in quota mediante ponti su archi in muratura o rinforzato con muri di sostegno, mentre un sistema di paratoie distribuite lungo il percorso permetteva di deviare le eventuali eccedenze d’acqua oppure di interrompere del tutto l’afflusso102. Una buona manutenzione del canale era indispensabile per l’efficienza degli opifici e le operazioni

94 Per Chiaravalle si vedano gli acquisti massicci di mulini e gualchiere a partire dal 1139, cfr. Chiappa Mauri, 1985, p. 300, Chiappa Mauri, 1990, pp. 68-69; per Casanova e Lucedio cfr. Comba, 1985, p. 256; per Morimondo cfr. Occhipinti, 1983, p. 548; per Casamari cfr. De Benedetti, 1952, p. 9 e sgg.; per Fossanova e Chiaravalle di Fiastra cfr. Righetti Tosti-Croce, 1993a, pp. 48-51, 78-79; per i monasteri liguri di Tiglieto, S. Eustachio di Chiavari, S. Andrea di Sestri, cfr. Origone, 1974, pp. 95-96.

95 Pirillo, 1989. 96 Sulle strutture accessorie di un mulino v. in generale Makkai, 1981, pp. 171-172. 97 Reynolds, 1983, p. 62; Chiappa Mauri, 1984, p. 16; Crossley, 1985, p. 117. 98 Cfr. Bellero, 1985, p. 347, Pirillo, 1989, p. 30 e nota 33. 99 Si vedano gli esempi riportati in Cleere-Crossley, 1985, pp. 222-225; Crossley, 1985, p. 120. 100 Gordon, 1985, p. 85. 101 Crossley, 1985, p. 117. Tra gli esempi più famosi la diga di terra costruita ad Arlesford nel 1189,

che rimane ancora in piedi (cfr. Gordon, 1985, p. 85) ed il triplo sbarramento della Garonna presso Tolosa nel XII sec., cfr. Reynolds, 1983, p. 65, che riporta inoltre molti altri esempi per tutta l’Europa. Particolarmente imponenti anche le dighe di terra costruite dai monaci di Fontenay intorno al1130 per sbarrare i corsi d’acqua che scorrevano in due valloni, alla cui confluenza doveva sorgere il monastero, e bonificare il sito (Benoit, s.d., pp. 224 e sgg.).

102 Cleere-Crossley, 1985, p. 224; Crossley, 1985, p. 120.

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di ripulitura periodica erano spesso espressamente previste nelle legislazioni medievali103. La lunghezza dei canali poteva variare notevolmente, a seconda dei casi, e vi sono esempi di gore molto lunghe, anche diverse centinaia di metri, talvolta con tratti scavati nella roccia e gallerie104. Per il XII sec. un esempio particolarmente articolato di un vero e proprio sistema di canali e bacini di raccolta per l’approvvigionamento e controllo delle acque, oltre che per il drenaggio di una intera vallata, ci viene dalle indagini archeologiche sull’abbazia cistercense inglese di Bordesley105. Per la Toscana vi sono casi di veri e propri sistemi di gore e canali: ad esempio per Prato numerosi documenti di varia provenienza, datati a cominciare dai primissimi anni dell’XI sec., descrivono un complesso articolarsi di derivazioni idriche e canalizzazioni, che dovevano aver assunto una propria fisionomia già prima del Mille106. Anche la presenza di canali di rifiuto, talvolta di notevole lunghezza, era di grande importanza: dovevano, infatti, far scorrere via l’acqua senza impedire alla ruota di girare ed era fondamentale che non si ostruissero a valle107.

La realizzazione di strutture di sbarramento ed opere di derivazione per lo sfruttamento dell’energia idraulica provocava spessissimo vertenze giudiziarie e scontri anche violenti tra i proprietari. Infatti la presenza di dighe determinava gravi danni alla navigazione sui grandi fiumi e talvolta disastri in caso di piena. Le controversie si moltiplicano in proporzione col diffondersi delle nuove tecnologie, i casi sono innumerevoli108 e riguardano molto più spesso la costruzione di chiuse piuttosto che i mulini veri e propri109. Solo a titolo di esempio è interessante riportare i toni asprissimi che assunse la vertenza tra il comune di Firenze ed il monastero di Settimo a proposito della già citata pescaia a sbarramento totale dell’Arno110. Il comune ne decretò la distruzione nel 1254 in quanto la struttura provocava danni per la navigazione ed allagamenti a Signa ed altri luoghi su entrambe le rive fino alla città stessa. La questione si trascinò comunque per anni, aggravata dalle carestie che costrinsero Firenze a far giungere via acqua il grano dal Sud Italia e dalla Provenza. Nonostante le minacce di scomunica alla Parte Guelfa, nel 1331 il monastero dovette cedere, lo sbarramento fu demolito ed i mulini abbandonati; la perdita finanziaria fu notevolissima, ma perlomeno i monaci di Settimo non furono travolti dal biasimo popolare contro i

103 Ad esempio a Prato questa operazione è obbligatoria per i mugnai e prevista nello Statuto medievale dell’Arte, cfr. Moretti, 1985, p. 247. A Colle Val d’Elsa il sistema delle gore era di proprietà della Comunità, cui spettava una parte della ripulitura, mentre il resto della loro estensione era distribuito fra chi ne usufruiva: a partire dal 1491 si regolamentarono con uno Statuto specifico i compiti dei proprietari ed i tratti di gora da ripulire, cfr. Roselli-Forti-Ragoni, 1984, p. 16.

104 Ad esempio il monastero di Clairvaux riceveva l’acqua dall’Aube tramite un canale lungo 3,5 Km, ad Obazine sempre i Cistercensi scavarono nella roccia un canale lungo 1,6 Km per assicurare un sufficiente apporto energetico, cfr. Chauvin, 1983, p. 30. A Citeaux il corso del fiume Sansfonds fu deviato entro un canale in parte sopraelevato, per consentire il superamento di ostacoli naturali, cfr. Righetti Tosti-Croce, 1993a, p. 44 ed altri numerosi esempi ivi riportati.

105 Astill, 1993, in particolare le pp. 246-252. 106 Moretti, 1985, pp. 231-232. 107 Cleere-Crossley, 1985, pp. 233-238; Crossley, 1985, p. 120. Ad esempio nei mulini pratesi, che non

erano dotati di bacino di raccolta, ma solo di un canale passante con flusso di acqua continuo che si allargava e rialzava in prossimità dell’impianto, un aumento anche minimo del livello di acqua per scarso deflusso dalla camera del ritrecine poteva ostacolare seriamente il libero movimento di quest’ultimo: v. Moretti, 1985, p. 247.

108 Per citarne solo alcuni, v. Occhipinti, 1983, pp. 543-544; Bellero, 1985, pp. 346-347; Chiappa Mauri, 1990, pp. 150-153.

109 Chiappa Mauri, 1984, p. 17. A questo proposito il Crossley (Crossley, 1985, p. 107) fa notare che spesso, proprio a causa di problemi giuridici e vertenze riguardanti la proprietà, le confinazioni ed i diritti sulle acque, accade che le chiuse, i bacini di riserva ed i canali siano posizionati in modo diverso da come sembrerebbe logico a noi moderni.

110 V. sopra, in questo stesso paragrafo. Tutte le notizie relative a questa vertenza sono tratte da Jones, 1980, pp. 317-344 e Pirillo, 1989, pp. 36-37.

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proprietari di pescaie sull’Arno dopo la tremenda alluvione del 1333.

1.3. ALTRI OPIFICI IDRAULICI

Per più di nove secoli dopo la sua scoperta, non si hanno notizie sicure che in Europa la forza motrice dell’acqua fosse impiegata in altri processi produttivi oltre che nella macinazione del grano; è a partire dal IX sec. che cominciano a comparire indizi di una diversificazione nell’uso delle ruote idrauliche. Uno dei primi procedimenti in cui furono impiegate fu la preparazione del malto per la birra111; altri impieghi si ebbero nella macinazione delle olive, dello zucchero e dei pigmenti per tingere. Ancora una applicazione medievale dell’energia idraulica fu nella concia delle pelli, per ridurre in polvere la corteccia di quercia da cui si estraeva il tannino112. Per tutti questi casi ci troviamo di fronte ad usi che richiedevano un semplice moto rotatorio continuo, in tutto simile a quello necessario per la macinazione dei cereali; si trattava dunque di una diversificazione del medesimo procedimento e non di una vera e propria innovazione tecnica.

Il discorso si fa invece del tutto diverso per quelle applicazioni ‘industriali’ dell’energia idraulica che richiedevano una grande novità, ovvero la trasformazione del moto circolare in moto alternato (gualchiere, cartiere, impianti metallurgici ecc.). Mentre in tutte le operazioni elencate in precedenza, infatti, era possibile adottare anche la ruota orizzontale, per queste ultime era necessario l’impiego esclusivo di ruote idrauliche verticali. Tali ruote non richiedevano la presenza del complicato meccanismo vitruviano, poiché l’asse di rotazione non doveva essere ribaltato ma doveva rimanere orizzontale. Per la creazione del moto alternato la tecnologia medievale adottò essenzialmente un meccanismo molto semplice e molto antico, conosciuto già nell’antichità classica, ma mai applicato a macchine per la produzione su vasta scala prima del Medioevo: l’albero a camme113. La camma non era altro che una sporgenza, in legno o metallo, fissata su un albero, applicata diffusamente soprattutto per azionare pestelli, mazzuoli e martelli. Nel pestello verticale una camma montata su un albero posto orizzontalmente ruotava entrando in contatto con una sporgenza analoga solidale con l’asse verticale che portava al suo estremo inferiore il pestello. La camma, ruotando, sollevava l’asse verticale finché durava il contatto, dopodiché esso ricadeva battendo con il pestello sul materiale da frantumare114. Nel caso del martello azionato a leva, la camma veniva fatta ruotare contro l’estremità munita di martello di un asse orizzontale che faceva leva dall’altra estremità; la camma prima sollevava il martello e poi, proseguendo la rotazione, si disimpegnava lasciandolo ricadere. La prima applicazione del sistema a magli e martelli idraulici avvenne probabilmente nella gualcatura - o follatura - della lana (e forse anche nella battitura della canapa). Le notizie più antiche di un impiego in questo settore provengono dalla penisola italiana e sono note per l’Abruzzo nel 962, per Parma nel 973, e per il territorio di Verona nel 985115.

Nei secoli successivi tale macchina si diffuse in tutta Europa, dando il via ad una serie di nuove utilizzazioni, quali ad esempio l’industria della carta da stracci, che comparve quasi

111 In una pianta del monastero di S. Gallo, risalente all’820, sono raffigurati oggetti simili a magli, detti pilae, accanto ad altri chiamati molae, probabilmente macine; alcuni studiosi hanno ipotizzato che si tratti di magli azionati da un albero a camme, ma la questione è estremamente dibattuta, cfr. Reynolds, 1985, pp. 67-68. Altre evidenze per questo uso ci vengono dalla Picardia nell’861, cfr. White, 1972, p. 129.

112 Sui vari impieghi dell’energia idraulica a partire dal Mille cfr. Gille, 1954, p. 7; Forbes, 1962, p. 610; Braudel, 1979, p. 311; Reynolds, 1983, pp. 73-75; Reynolds, 1984, p. 113. Sintesi in Malanima, 1995, pp. 68-69.

113 Gille, 1954, pp. 8-10; Gille, 1962, p. 652; Reynolds, 1983, p. 79; Reynolds, 1984, p. 114. 114 Illustrazioni in Agricola, 1563, libro VIII, pp. 240-243. 115 Riguardo alle origini della gualchiera idraulica e la sua diffusione in Italia ed Europa durante il

Medioevo si rimanda al saggio di Malanima, 1988, in particolare le pp. 45 e sgg., 51 e sgg.

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simultaneamente in Spagna ed Italia alla fine del XII sec.116. Dalle mazze battenti per la follatura dei tessuti venne probabilmente anche lo stimolo per l’uso dell’energia idraulica in un settore produttivo di fondamentale importanza, la metallurgia, con l’invenzione dei primi magli idraulici: di questo parleremo ampiamente in seguito.

Dunque, quando il mulino da grano ha ormai raggiunto il suo optimum tecnologico117, è già diffuso ovunque, in grande quantità ed in tutte le sue varianti, per la tecnologia idraulica medievale si apre un nuovo, vastissimo orizzonte. I mulini per la macinazione continueranno a moltiplicarsi, punteggiando il paesaggio rurale ed urbano, per rispondere alle esigenze alimentari di una popolazione che fino alla metà del XIV sec. sarà in continuo aumento; ma il meccanismo in sé, le ruote, le macine, gli ingranaggi, non subiranno che variazioni minime, in una sorta di ‘stasi’ che si protrarrà fino all’età industriale. La ricerca di nuove soluzioni tecniche avverrà, invece, in altri settori, che possono veramente essere definiti ‘protoindustriali’. La forza dell’acqua, imbrigliata per ottenere l’energia necessaria a trasformare le materie prime in prodotti semilavorati o finiti, determinerà un aumento notevolissimo del potenziale produttivo entro alcuni poli manifatturieri già esistenti, ne farà nascere di completamente nuovi; la sua mancanza o scarsità, invece, sarà uno dei maggiori fattori di crisi per interi sistemi produttivi. Le conseguenze sul piano economico, sociale e politico saranno davvero di grande portata.

2. Strutture materiali e tecnologie nel bacino idrografico Farma-Merse

2.1. STRUT TURE ID R AULIC HE ACCESSOR IE118

Nessuno degli opifici idraulici individuati nel corso di questa indagine era azionato direttamente dal fiume o dal torrente presso cui si trovava; tutti ricevevano invece l’acqua per mezzo di un canale di derivazione, di lunghezza estremamente variabile, che ne permetteva un migliore controllo ed una più attenta regolazione. L’impianto vero e proprio poteva quindi venirsi a trovare anche a notevole distanza dal corso d’acqua alimentatore ed essere dislocato, ad esempio, su un’area pianeggiante sufficientemente comoda per gli abitati e relativamente ben raggiungibile dalla viabilità principale; la presa d’acqua, invece, poteva trovarsi in una zona maggiormente disagiata. L’esempio più macroscopico è certamente quello dei grandi mulini edificati alla metà del XIII sec. dall’abbazia delle SS. Trinità e Mustiola di Torri, in collaborazione con il comune di Siena, nel bel mezzo della pianura sottostante agli abitati di Brenna ed Orgia: la presa d’acqua dista, dal più lontano di essi, ben 4 Km in linea d’aria119. È inoltre piuttosto ovvia la constatazione che, quanto più distante era un edificio dal corso d’acqua principale, tanto più era scongiurato il pericolo di distruzioni dovute a piene e straripamenti.

Molto spesso l’impianto era dislocato nella parte interna di un’ansa più o meno ampia del fiume o torrente, la quale veniva in un certo qual modo ‘tagliata’ dal canale che conduceva l’acqua all’edificio e da quello di rifiuto, così che l’impianto veniva in pratica a trovarsi posizionato su una

116 Malanima, 1995, p. 69. 117 Giuffrida, 1981, p. 220. 118 Si è scelto di trattare questo argomento considerando come un blocco unico le strutture idrauliche

accessorie annesse a tutti gli opifici censiti, senza operare una distinzione fra impianti molitori ed impianti siderurgici; non si sono riscontrate, infatti, consistenti differenze funzionali che ne consigliassero una trattazione in gruppi separati. Anche le variazioni all’interno dell’arco cronologico considerato sono risultate minime.

119 Siti 5, 15, 16, 17; v. sotto, in questo stesso paragrafo.

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porzione di terreno completamente delimitata, su tutti i lati, da acqua corrente120. Altre volte, quando l’edificio si trovava nelle vicinanze di un tratto rettilineo del corso d’acqua, i canali che servivano l’impianto, scorrendo parallelamente al fiume, venivano a delimitare un’angusta striscia di terra, larga talvolta pochi metri; ciò si verificava soprattutto in situazioni morfologicamente accidentate ed in aree in cui mancavano zone pianeggianti di una certa estensione.

Per quanto riguarda il rifornimento idrico, possiamo distinguere fra le opere di intercettazione delle acque e le opere di derivazione. Le prime sono quelle che sbarrano il corso del fiume in parte o totalmente e servono per innalzare il livello del pelo dell’acqua, assicurando una efficiente derivazione e nello stesso tempo creando una zona di relativa calma a monte. Al di sopra dello sbarramento, infatti, l’alveo si presenta in genere piuttosto profondo, compatto, non eccessivamente largo, il pelo dell’acqua calmo; a valle dello sbarramento, invece, l’acqua cade formando piccole cascate e si disperde su un alveo notevolmente allargato, dividendosi in diramazioni separate da isolotti ed aree asciutte talvolta coperte da vegetazione121. Lo sbarramento, se sviluppato in altezza, poteva servire anche per aumentare la caduta.

La scelta del sito per la localizzazione della struttura di sbarramento era strettamente legata alle caratteristiche del corso d’acqua: quest’ultimo non doveva avere un eccessivo trasporto di materiale solido, non doveva dar luogo ad improvvisi fenomeni di piena, né approfondire per erosione il proprio alveo; doveva altresì garantire un minimo apporto di acqua per tutto l’anno122. Solitamente veniva quindi scelto un settore del percorso in prevalenza rettilineo, che desse garanzia di una portata costante, spesso però, come abbiamo visto sopra, immediatamente precedente ad una grande ansa, la quale già di per sé creava una strozzatura a valle della presa.

La presenza dello sbarramento, elemento fondamentale per l’attività dell’impianto, viene sempre citata nelle fonti medievali in connessione con l’opificio vero e proprio. Il termine che ricorre nei documenti consultati è esclusivamente steccaria123, sia per il periodo medievale che per quello successivo. Già la parola stessa suggerisce che doveva trattarsi di una struttura in cui non erano previste parti in muratura, ma piuttosto semplici palificazioni con impiego di materiali deperibili. La tecnica costruttiva utilizzata consisteva nell’infiggere profondamente entro il letto del fiume numerosi grossi pali, disposti in file parallele, in modo tale che sporgessero in parte al di sopra del livello naturale dell’acqua. Gli spazi fra i pali venivano riempiti con fascine, intrecci di giunchi e sassi; il fiume stesso, poi, trasportando fango e pietrisco, contribuiva a rendere più solida la struttura124. Queste opere di intercettazione, ove conservate, sono ovviamente il risultato di continui rifacimenti attraverso i secoli dal Medioevo ai nostri giorni, ma è certo che la tecnica

120 Siti:1 (UT 1 e UT 2), 2 (UT 1), 3 (UT 1), 9, 10 (UT 1), 18, 19. è probabilmente questo il motivo per cui il luogo su cui sorgeva il mulino veniva talvolta definito insula nelle carte medievali (cfr. Chiappa Mauri, 1984, p. 16 nota 60; Pirillo, 1992, p. 27 e nota 90); nella nostra zona questo avviene per uno dei più antichi impianti documentati, il Mulinaccio (Sito 10 UT 1), a proposito del quale, nel 1218, si parla dell’insulam positam ad molendinum.

121 V. ad esempio Siti 4, 15, 25. 122 Tuttavia negli opifici alimentati dai torrenti secondari il periodo di attività rimaneva comunque

limitato ai mesi di autunno-inverno, come vedremo più avanti. 123 Nelle sue varianti steccata, stecharia, steccatum, stecchatum (v. Catalogo, sotto la voce Fonti,

passim); non ricorre mai, ad esempio, il termine pescaia, comunemente usato nel territorio di Firenze (Pirillo, 1989), oppure clusa, diffuso nel Nord Italia (Chiappa Mauri, 1984, p. 17).

124 Un esempio ancora perfettamente visibile è la steccaia a sbarramento totale del fiume Merse, che alimentava la gora dei mulini di Brenna ed Orgia (v. Siti 5, 15, 16, 17); si è conservata in parte anche la palificazione principale della steccaia del Mulino delle Pile, presso Chiusdino: v. Sito 9.

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costruttiva si è tramandata inalterata125. Le steccaie dovevano essere di solito a sbarramento totale dell’alveo e potevano attraversarlo

con una linea ortogonale alle sponde oppure obliquamente126. Difficile dire, poiché non se ne sono conservate, se esistessero strutture ancora più piccole e più semplici, che non attraversavano tutto l’alveo, ma erano costituite da semplici palificazioni, lunghe pochi metri, situate nelle immediate vicinanze dell’imbocco della presa ed atte a convogliare la corrente verso di essa127. È anche possibile che, per gli impianti più piccoli, specialmente nelle zone particolarmente impervie, l’opera di intercettazione non esistesse nemmeno, in quanto si sfruttavano piccoli bacini di raccolta, formatisi con l’accumulo naturale di pietre in certi tratti del torrente, dai quali poteva essere fatto partire il canale adduttore.

I vantaggi principali di una struttura come la steccaia, rispetto ad una vera e propria diga in muratura, consistevano essenzialmente nel fatto che era relativamente semplice e poco costosa da costruire, non necessitava di conoscenze tecniche troppo complesse per la messa in opera, era meno pericolosa in caso di piena perché il fiume, tracimando con facilità al di sopra delle palificazioni, più difficilmente provocava allagamenti a monte. D’altra parte, però, necessitava di una continua manutenzione, era meno efficace e più dispersiva nell’innalzare il livello dell’acqua in caso di scarsa portata, veniva facilmente distrutta dalle piene stesse128.

Riguardo alla tipologia di sbarramento maggiormente diffusa nel nostro ambito territoriale, l’indagine sul campo ha permesso di riscontrare che quasi tutti i mulini della zona erano alimentati da steccaie di pali e fascine, mentre in genere non si sono conservate strutture in muratura129. Solamente in due casi, nelle ferriere di Ruota e di Torniella (Siti 4 e 23), si riscontra la presenza di

125 Una conferma ci viene anche dalle raffigurazioni di sbarramenti di questo genere in piante di XVI-XVII secolo, nelle quali si può apprezzare perfettamente la corrispondenza della tecnica costruttiva illustrata con i resti di steccaie ancora visibili attualmente: ad esempio una pianta relativa al Mulino delle Pile raffigura, con un disegno curato e chiarissimo nei particolari, la steccaia costruita con file parallele di grandi pali, ed altre opere di derivazione (v. Sito9).

126 La steccaia del mulino di Pari (v. Sito 20) è raffigurata in una pianta settecentesca come una grande palificazione che attraversava con andamento obliquo tutto l’alveo del fiume Merse; nel documento relativo viene definita “steccata traverza à quattro ordini con fascine di scopo, pali, e pertiche”.

127 Qualche cosa di simile alle siepi che nel XIII sec. sull’Arno alimentavano i mulini galleggianti nei pressi di Signa, cfr. Pirillo, 1989, p. 30 nota 33.

128 Per questo in alcuni contratti di locazione (ad es. v. Sito 7, anno 1304) si prevedeva che “si contingeret quod dicta steccharia dicti molendini prefati propter pluviam vel fortunam temporis ledaret vel magagnaret” in modo tale da impedire la macinazione, venisse decurtata una parte dell’affitto. Si veda anche, per un esempio di epoca più tarda, la descrizione dei danni subiti dalla steccaia del mulino di Pari in seguito alla piena del 1741 (Sito 20): fu divelta per metà ampiezza dal fiume Merse, tanto che fu necessario costruire una piccola steccaia provvisoria allo sbocco del vicino Farma e prolungare il gorello a captare l’acqua di quest’ultimo.

129 Unica eccezione la steccaia semicircolare in laterizi e pietra che alimentava il Molinello di Monticiano (Sito 2 UT 1): deve trattarsi però di una costruzione molto recente, se ancora la Carta Idrografica del 1893 ci conferma l’esistenza di una “steccaia di pali e fascine”. Per il Sito 21 la Carta Idrografica parla invece di una “pietraia stabile”, ma pure in questo caso doveva trattarsi di una realizzazione semplice, probabilmente un accumulo di ciottoli e pietrame a secco, vista anche la scarsa portata del corso d’acqua alimentatore.

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vere e proprie dighe stabili in materiali non deperibili130. Il fatto non appare casuale, ma strettamente legato all’esigenza di un apporto idrico particolarmente regolare e costante, fattore importantissimo soprattutto per l’azionamento continuo dei mantici per periodi piuttosto lunghi, senza che si verificassero interruzioni dannose per la buona riuscita del processo metallurgico. Si tratta comunque, in entrambi i casi, di realizzazioni di epoca moderna; nel caso di Ruota, poi, la diga fu costruita in seguito al progetto di ampliare e modificare l’impianto produttivo, che in precedenza veniva alimentato da una steccaia del tipo esaminato sopra131.

Lo sbarramento, in epoca medievale, rappresentava un elemento molto importante dal punto di vista giuridico ed era spesso fonte di aspre controversie; una sua eccessiva altezza poteva, infatti, causare inondazioni a monte. È quanto avveniva, ad esempio, per la steccaia del mulino di S. Lorenzo a Merse, di cui, nel 1282, il comune di Siena decretò la distruzione e lo spostamento in altro luogo, a causa dei danni da essa causati al ponte di Foiano ed ai bagni di Macereto132. In altri casi, quando si era in presenza di diversi impianti idraulici dislocati in successione lungo lo stesso corso d’acqua, le dispute potevano riguardare lo scarso apporto idrico che uno sbarramento posto a

130 A Ruota, alla metà del XVII sec. ca., fu edificata una diga larga 3,5 m a sbarramento totale dell’alveo del Farma, realizzata in conglomerato tipo calcestruzzo; di essa, oltre ai resti ancora ben visibili, possediamo una serie di piante e disegni. Il sito per la costruzione era stato accuratamente scelto, in base alle caratteristiche dell’alveo del torrente, già precedentemente al 1627. A Torniella esisteva una diga di pietre e ciottoli con basamento in muratura affiancata sulle due sponde da muraglioni di contenimento. Nella ferriera di Gonna (Sito 1 UT 1) lo sbarramento era certamente una steccaia di pali: le tracce di murature irregolari di sostegno agli argini, in corrispondenza dell’imbocco della gora, rappresentano probabilmente i resti di strutture di rinforzo laterali.

131 Sulla ferriera di Ruota, v. infra, Cap. III, par. 3.5. L’idea risale al 1631: “si potria ridur l’edifitio con due fuochi essendone capacissimo il guscio di esso, ma bisognerebbe farci una stechaia di muro”. Per quanto riguarda la steccaia “vecchia” di Ruota, nel 1571-73 Agnolo Venturi così scrive: “Come entra il mese d’aosto si avertisca con grande diligentia di fare vedere la steccaia della ferriera se la sta bene o male, e se à bisogno di acconciare ci si metti mano in fatto fatta S. Maria d’aosto che è a quindici d’aosto e con diligenza si aconci di tu(tt)o quello fa bisogno di travi, stecaia con passoni dinanzi, perché in questo tempo sono finite le ricolte e ci è poca acqua e si trova delli omini che possono aiutare, siché si facci questo con grandissima cura; evvi do questa avertenzia, che quando non vi paresse che vi fusse di bisogno niente, sempre fortificate dinanzi alle travi con passoni e fascine e pontelli alle travi di dietro e sempre tenere delli auti da travi fatti e tenere sempre nella ferriera dieci canne di tavole di farnia fatte per monisione perché si adoparano di continuo a ghore e alla steccaia; e questo si facci con diligentia grande che non manchi perché [...] se qualche volta andata via una parte di detta stechaia di verno è smesso questo, oltre al danno che ne resulta che la ferriera non lavora, cresce la spesa” (Venturi, Ruota, p. 29).

132 Sito XI: “stecchatum quod est supra pontem de Foiano pro eo quod multum offendit et possit offendere Balneum de Macereto”.

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monte poteva causare agli impianti localizzati più a valle133. Liti di questo genere potevano sorgere non solo riguardo alla steccaia principale, posta sul fiume alimentatore, ma anche a proposito di quelle opere di intercettazione minori, dette torcitorii, che venivano realizzate lungo una gora che alimentava diversi opifici e che servivano a convogliare l’acqua verso ogni singolo impianto134. Su questo tema possiamo riportare, in quanto caso particolarmente esplicativo, la controversia sorta tra i proprietari del Mulino delle Guazzine e quelli del Mulino Palazzo, posti rispettivamente a monte ed a valle lungo la stessa gora, a proposito del torcitorium chiamato Stecchatella, che era situato a metà strada tra i due mulini. Nel 1262 gli arbitri chiamati a dirimere la questione stabilirono che il detto torcitorio doveva “stare et permanere” all’altezza “que indicet scilicet quod ponatur corda in cruce et in fundo crucis que est in lapide seu termino lapideo cum calcina murato posito et fixo in terra seu lama [...] prope dictum torcitorium et pretendatur dicta corda usque ad crucem et in fundo crucis que est in alio lapide seu termino lapideo cum calcina murato posito et fixo in terra heredum Spinelli Pandolfini”. Le minuziosissime disposizioni prevedevano inoltre che tale corda fosse tesa in linea perfettamente diritta, con l’aiuto dell’archipendolo, sopra l’acqua della gora, in modo che essa non superasse mai l’altezza designata dalle croci; nessuna delle due parti in causa avrebbe potuto innalzare o abbassare il livello dell’acqua, e se ciò fosse avvenuto, sarebbe stato lecito all’altra parte ripristinare l’altezza stabilita135.

L’importanza dello sbarramento, tanto per fare un ultimo esempio, è ribadita in una norma del Constituto del 1262, con specifico riferimento proprio al Mulino Palazzo (Sito 17): in essa si prevedeva che fosse punito con una multa “quicumque goram vel stecchatam molendini olim comunis Senarum, positi in plano de Orgia, ruperit vel fregerit vel in aliquo alio leserit [...] vel aliquid fecerit, propter quod aqua libere ad molendinum venire non possit”.

Le opere di derivazione erano quelle che consentivano di far arrivare l’acqua dal fiume alimentatore fino all’edificio vero e proprio e consistevano nella presa, nel canale di alimentazione e nel bacino di raccolta.

La presa era semplicemente il dispositivo che, posto poco più a monte dello sbarramento,

133 Nel 1289 gli arbitri scelti per dirimere una lite sorta tra il monastero di S. Galgano e quello di S. Eugenio stabilirono, tra le altre cose, che non si potessero mutare di luogo la gora, il rifiuto, il torcitorio, e che non si potesse tagliare o abbassare la steccaia in modo che il mulino rimanesse privo dell’acqua del Merse (per la trascrizione del documento v. Sito 17). Nel 1317, quando il comune di Monticiano vendette a Ghino Azzoni il sito per costruire la ferriera di Gonna, si specificò che non potevano altri prelevare l’acqua dal di sopra della steccaia (v. Sito 1 UT 1). Alcune regole tendenti ad impedire una eccessiva concentrazione di mulini in spazi limitati sono inserite nel Constituto del comune di Siena del 1262 (Zdekauer, 1897, pp. 350­351): “nullum hedificium nec aliud fieri permittam; et si factum est, illud destrui faciam, propter quod suus vicinus perdat vel dissipetur suum molendinum vel prius inceptum, ita quod superiora molendina non impediantur molere per inferiora et e contra”. Nel Constituto del 1310 (Lisini, 1903, pp. 66-67) si prevede che “missere la podestà diSiena sia tenuto et debia [...] fare terminare, infra IIII mesi de l’entrata del suo regimento [...] tutte e ciascune steccate de le molina del contado et giurisditione di Siena [...]. Et neuno debia, né possa, fatta la terminagione predetta, essa alzare o vero mutare in alcuna cosa [...]. Etse apparirà essa mutatione o vero alienatione, tollasi via a postutto et pongasi nel primo stato, nel quale per lipredetti saranno terminate”; inoltre si specifica che “se alcuna novità fatta fusse in alcuno molino, fatto dipo l’altro, et quella novità impedisse el prima fatto macinare, quella novità disfare farò”.

134 Il termine torcitorium ricorre spessissimo nella documentazione scritta, quasi sempre in associazione con termini quali steccaia, gora, fuitum, all’interno di elenchi degli elementi accessori di un mulino (v. Catalogo, passim). Tuttavia non risultano del tutto chiare la struttura e la funzione di questo dispositivo: sembra comunque che si trattasse di un’opera atta a captare l’acqua di un canale comune deviandola (‘ da notare anche la radice del nome, che implica l’azione del torcere, del deviare) verso le condotte di ciascun edificio; in pratica una presa d’acqua, forse dotata di palificazione e paratoia regolabile. In epoca moderna, negli opifici idraulici di Colle Val d’Elsa, il “torcitoio” era una specie di argano, disposto orizzontalmente, che chiudeva o apriva l’accesso dell’acqua dalla gora verso le prese delle ruote, cfr. Roselli-Forti-Ragoni, 1984, p. 73.

135 V. Sito 17.

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permetteva all’acqua di immettersi nel canale adduttore. In molti casi era costituita soltanto da un imbocco scavato nel terreno, privo di qualsiasi struttura muraria. Nei documenti, in genere, non compare una terminologia specifica per designare tale elemento136, a meno di non supporre che proprio il termine torcitorium stesse talvolta ad indicare anche la presa d’acqua principale vera e propria137.

Sono stati riscontrati alcuni casi di prese costruite in muratura: la struttura prevede in genere due tratti di muro paralleli che accompagnano gli argini della gora nella porzione più vicina al fiume, formando così un imbocco che era spesso dotato di una saracinesca138; ciò permetteva di regolare l’afflusso dell’acqua nella gora ed eventualmente anche di interromperlo del tutto. Tale saracinesca era costituita da una imposta in legno che scorreva incastrata entro scanalature verticali ricavate nel muro stesso; la regolazione avveniva tramite una catena, fissata all’imposta, che si avvolgeva attorno ad un arganello superiore, posto trasversalmente sopra a due montanti a stipite litici o lignei139.

Un caso singolare, per la sua struttura articolata ed imponente, è rappresentato dalla presa della ferriera di Ruota, costruita insieme alla steccaia in muratura alla metà del XVII sec. circa. Si tratta infatti di un grosso muro (spessore 2,80 m, altezza ca. 3 m) che forma con la diga un angolo retto ed accompagna la parte iniziale della gora, con andamento parallelo al torrente, per un tratto di 27 m. Circa alla metà della lunghezza del muro si trova una apertura rettangolare, che doveva un tempo essere dotata di saracinesca, attraverso la quale l’acqua si immetteva nel canale140. Ai nostri giorni le prese si presentano quasi sempre del tutto interrate141, talvolta distanti diversi metri dall’attuale corso del fiume, con le saracinesche rimaneggiate in tempi recenti.

Il canale di alimentazione degli opifici, nei documenti consultati, viene quasi esclusivamente definito gora, sia in epoca medievale che moderna142. Il termine gora, nel significato di canale artificiale, non compare nel repertorio romano, bensì nel latino medievale e sembra che

136 Solo in un documento del 1290 (Sito X) si specifica “cui desuper est imboccatorium et desubtus est torcitorium” mentre in un documento settecentesco la si designa col nome di “incile, o abboccatoio” (Sito 20).

137 V. sopra, nota 134; in un caso si parla infatti della “fovea torcitorii sive torcitorium” (Sito XII). 138 La presa della ferriera di Gonna (Sito 1 UT 1) era costituita da due tratti paralleli di muro a sacco

con paramento in pietre parzialmente sbozzate, spessi rispettivamente 70 ed 85 cm, che accompagnavano il tratto iniziale della gora per almeno 14 m; l’imbocco era largo 90 cm e presentava su entrambi i lati una scanalatura verticale entro cui scorreva una saracinesca. La presa che alimenta tuttora la gora dei mulini di Brenna (Siti 5, 15, 16, 17), situata pochi metri a monte della steccaia, presenta due murature parallele in pietra ed un imbocco sbarrato da un muro in pietra largo 3 m ed alto altrettanti sopra il pelo dell’acqua, nel quale si apre una bocchetta rettangolare la cui luce viene tuttora regolata tramite una paratoia lignea con meccanismi in ferro. Conservata in parte è la presa del Mulinaccio (Sito 10 UT 1) ma completamente interrata e rimaneggiata in epoca moderna con parti in cemento: anche qui troviamo due tratti di muro paralleli che formano un’imboccatura larga 2 m.

139 V. Siti 5, 15, 16, 17, 10 (UT 1),1 (UT 1). In una raffigurazione del 1580 ca. relativa al Mulino delle Pile (Sito 9), si vede bene una struttura simile ad una chiusa equipaggiata con saracinesca, dalla quale l’acqua si riversa nella gora.

140 Vedi Sito 4. Per avere un’idea sulla funzione svolta da murature di tale genere si può citare come confronto una relazione dell’ingegnere Giovanni Bruno, dell’anno 1580, relativa ai danni causati dalle piene alla ferriera di Ferriere in Val di Nure (pubblicata in Calegari, 1989, nota 28): “la Travata è andata in ruina et sarà bisogno che vol fare lavorare il forno reffarla di novo dove che la vol fare perpetua bisognerà farvi un buon muro della parte dove si cava il canallo che fa andar le rode; l’altra sponda è sicura che l’acqua non vi puolo”.

141 L’unico esempio di presa e gora ancora in funzione è quello relativo ai Siti 15-17. 142 V. Catalogo, sotto la voce Fonti, passim. Soltanto in pochi casi (Sito VII anno 1216, Sito XIX anno

1220, Sito XX anno 1220, Sito IVa anno 1277, Sito V anno 1277) si usa il termine aque ductus, evidentemente anche qui ad indicare un canale di derivazione delle acque; tuttavia il termine, tranne che nel documento più antico, viene sempre citato in unione a quello di gora.

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l’attestazione più antica del termine in Toscana sia contenuta in una carta pistoiese del 726143. La struttura materiale consisteva in un semplice canale scavato artificialmente nel terreno, la cui lunghezza poteva variare notevolmente: si va da poche decine di metri144 fino a diversi chilometri 145, ma naturalmente sono più frequenti le situazioni intermedie. Il percorso poteva costeggiare molto da vicino il fiume146 oppure allontanarsene notevolmente dopo il tratto iniziale 147: è possibile che ciò non dipendesse esclusivamente, come si potrebbe pensare in un primo momento, da fattori morfologici di pendenza del terreno, ma anche da questioni riguardanti le confinazioni delle proprietà ed i diritti sulle acque148. Particolarmente chiaro, a questo proposito, l’episodio verificatosi nel 1337 a Monticiano, quando il Capitolo dell’abbazia di S. Galgano, per impedire ai Monticianesi di costruire un mulino sul Merse, decise di acquistare un appezzamento di terreno, attraverso il quale si sarebbe dovuta scavare la gora per il nuovo impianto: di conseguenza neppure il mulino progettato pot’ essere edificato149.

La gora era scavata a sezione rettangolare con fondo piatto ed era delimitata da semplici argini di terra senza rivestimento; non si sono riscontrati, durante l’indagine sul campo, casi di canali con argini foderati in muratura o in legno (ma in questo secondo caso il rivestimento potrebbe essere andato perduto). Periodicamente l’afflusso dell’acqua alla gora, così come agli altri canali, doveva essere interrotto, ed essi dovevano venire svuotati e ripuliti. Si trattava di una operazione importantissima che viene talvolta descritta nelle carte medievali: ad esempio in un contratto di vendita del 1288 (Sito 5) si prevede che gli acquirenti abbiano la possibilità di “evacuandi et evacuari faciendi reaptandi et reactari faciendi dicta molendina vendita et eorum goram fuitum torcitorium”.

Eccezionale, per il notevole livello di applicazione tecnica che vi si raggiunge, è la struttura della gora che alimentava i mulini di Brenna ed Orgia (Siti 5, 15, 16, 17), costruita nella prima metà del XIII sec. dai monaci dell’abbazia di Torri. Si tratta di un canale, lungo complessivamente oltre 6 Km, sostenuto in parte da argini di terra e in parte scavato nella roccia, talvolta con l’apertura di gallerie artificiali, dotate di sostegni in muratura, attraverso speroni di calcare che ostruivano il percorso. Il canale di Brenna viene mantenuto in quota, lungo il fianco dell’altura di Montestigliano, ad un dislivello di oltre 15 m rispetto al fiume sottostante, in modo da ottenere una pendenza costante e controllata su tutto il percorso a partire dalla presa fino all’ultimo opificio alimentato.

Un tipo particolare di canale è quello che alimentava il Mulino di Mugnone (Sito 14): non si tratta, infatti, di una derivazione da un corso d’acqua ma piuttosto di un fosso di drenaggio che raccoglieva, e ancora raccoglie, le acque di scolo della pianura circostante e quelle che scendono

143 Moretti, 1985, p. 230 e nota 37. 144 Siti 3, 19. 145 Ad esempio la gora che alimenta il Sito 20, lunga ca. 2 Km, e quella che alimenta i Siti 5, 15, 16, 17

lunga oltre 6 Km. 146 Siti 2 (UT 1), 7, 12, 13, 18, 20, 26. 147 Siti 1 (UT 1), 1( UT 2), 4, 9, 10 (UT 1). 148 Cfr. nota 259. 149 V. Catalogo, Sito IIIb. Sempre su questo tema possiamo citare la clausola contenuta nel contratto

con cui il comune di Siena vendette il mulino del Palazzo nel 1258 (Sito 17): si garantiva ai compratori che “si contingeret vobis esse necessarias vel utiles aliquas terras vel de aliquibus terris pro bono statu et acconciamento dictorum molendinorum sive gore sive fuiti vel cursus aque sive fluminis Merse promictimus vobis compellere omnes homines quorum fuerint terre dicte vendere vobisì. Anche nel Constituto del 1262 sono contenute norme generali riguardanti i terreni entro i quali si poteva derivare una gora: nella Rubrica CCLVII (Zdekauer, 1897, p. 353) è previsto che “habentes terras et possessiones prope flumen Merse teneantur et debeant, comuni extimatione, volentibus hedificare vel reactare aliquod molendinum in dicto flumine seu facere fiutum vel goram sive stecchatam, eas vendere, statuimus et ordinamus quod idem fiat et observetur in omnibus aliis fluminibus et aquis et aliis locis omnibus, in quibus sunt molendina vel vellent hedificari”.

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dalle alture retrostanti ad Orgia, per evitare l’impaludamento della zona150. Naturalmente anche la larghezza e la profondità di una gora erano molto variabili, a seconda

della portata del corso d’acqua alimentatore o delle dimensioni dell’impianto151. I canali ancora visibili attualmente si presentano comunque in buona parte interrati, per cui non è possibile determinarne l’originaria profondità. Questo è uno dei motivi che spiegano perché talvolta, osservando i canali adduttori dalla sponda del fiume, essi appaiono inclinati verso il corso d’acqua anziché in pendenza verso l’opificio che alimentavano; un secondo motivo è rappresentato dal fatto che, nella situazione originale, la presenza della steccaia innalzava notevolmente il livello del pelo dell’acqua in corrispondenza del punto di presa: poiché attualmente la struttura di sbarramento non esiste più, talvolta si verifica questo inganno ottico152.

Talora lungo il percorso della gora sono presenti delle prese laterali secondarie, da cui poteva essere prelevata acqua per l’irrigazione, oppure per tenere ulteriormente sotto controllo il livello nella gora e quindi l’afflusso all’opificio153; anche in questo caso la regolazione della luce di accesso avveniva per mezzo di paratoie lignee. L’acqua proveniente dalla gora, passando talvolta attraverso tratti sotterranei, o bocchette che potevano essere dotate di griglie, si immetteva di solito in una grande vasca, chiamata bottaccio154. Si trattava di un bacino di raccolta che aveva la funzione di immagazzinare l’acqua, per permetterne un ulteriore controllo prima della caduta sulle ruote. Inoltre, nel caso di modesto apporto del fiume o torrente alimentatore, il bottaccio serviva per accumulare le acque in determinati periodi dell’anno, quando la portata naturale non era più sufficiente per creare l’energia idraulica necessaria al funzionamento degli impianti. Nei periodi di magra o di insufficiente o non continuo afflusso delle acque, queste venivano raccolte fino a completo riempimento del bottaccio, dopodiché esso veniva svuotato del tutto permettendo la macinazione per alcune ore. La vasca poteva essere semplicemente scavata nel terreno, e quindi delimitata solo da argini di terra, o più spesso essere circondata almeno in parte da muri; era comunque sempre situata ad un certo dislivello rispetto all’edificio, per permettere la caduta dell’acqua sulle ruote. Le dimensioni dei bottacci variavano a seconda dei casi, così come la profondità, che è però impossibile determinare con esattezza poiché si presentano attualmente quasi sempre interrati.

Non sempre, però, una vera e propria vasca era presente: infatti, soprattutto negli impianti

150 Questa è la situazione attuale, ma è improbabile che risalga al periodo medievale: infatti gli interventi di bonifica e costruzione di canali di drenaggio nel Padule di Orgia, effettuati nel XIII-XIV secolo, riguardavano esclusivamente la zona prospiciente Rosia, Torri, Stigliano ed Orgia, mentre questa zona più meridionale rimase allo stato paludoso fino a tempi recenti. è molto probabile, quindi, che nel XIII sec. questo mulino fosse circondato dall’acqua stagnante e dal fiume e collocato su una sorta di insula. A proposito delle zone oggetto della bonifica medievale cfr. le rubriche del Constituto del Comune di Siena del 1262 (Zdekauer, 1897, pp. 361-362); inoltre v. Banchi, 1871b e Bizzarri, 1937.

151 Sito 1 UT 1: argini di terra alti allo stato attuale 1,70 m, con larghezza media di 1,60 m. Sito 10 UT 1: canale che scorre su un letto pensile con argini di terra sopraelevati in alcuni tratti di circa 2 m rispetto allivello del terreno circostante, largo 1 m, profondo allo stato attuale 80 cm ma in gran parte interrato. Sito 23: canale largo alla base 2 m, con argini di terra alti 1,20 m ma in gran parte interrato. Sito 26: canale largo circa 2 m, in parte interrato, ma del quale sono ben conservati gli alti argini laterali (talvolta oltre 2 m).

152 Un fenomeno del genere si riscontra anche per le gualchiere trecentesche di Quintole sull’Arno, cfr. Salvini, 1986, p. 573.

153 Siti 1 (UT 1), 5, 10 (UT 1), 23 (UT 1), 26; in un disegno seicentesco relativo al sito 9, si nota la presenza di due punti di scolmo, di cui uno in muratura.

154 Questo elemento accessorio del mulino non sempre viene ricordato nei documenti di epoca sia medievale che moderna: nel 1351 si nomina un “bottaccio” (Sito IIIb), nel 1390 un “bottacium” (Sito 4); nel 1402 un “bottaccio” (Sito II); nel 1571 un “bottaccio” (Sito 4); nel 1582 un “bottaccio” (Sito 1 UT 1); nel 1622 ancora un “bottaccio” (Sito 2 UT 1). Soltanto in un caso, in un documento settecentesco, il bacino viene definito “colta” (Sito 20).

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dislocati in pianura, la gora, giunta in prossimità del mulino, che di solito sottopassava, subiva semplicemente un allargamento della sezione formando un bacino di forma triangolare allungata155. In questo caso l’acqua, chiusa frontalmente a valle dal muro stesso dell’edificio rivolto verso la gora, si innalzava di livello rispetto al piano di campagna e si immetteva dentro le condotte che la conducevano alle ruote156. Potrebbe essere proprio questa mancanza di una vera e propria vasca di raccolta delle acque, il motivo per cui nei documenti medievali il bottaccio viene raramente nominato e, quando lo ‘, questo avviene solamente in connessione con impianti non dislocati in pianura.

Un altro elemento ricorrente, tra le strutture accessorie di un opificio idraulico, era la presenza di un canale derivatore, che permetteva il deflusso delle acque in eccedenza dal bacino di raccolta: esso viene denominato nei documenti traboccatorium e nella terminologia locale attuale “trabocco”157. Tale elemento appare particolarmente importante nel caso di più impianti dislocati lungo la stessa gora. Infine, per completare il quadro delle strutture accessorie di un impianto idraulico, una grande importanza rivestiva il canale di rifiuto. La sua funzione era quella di far scorrere via l’acqua, dopo che questa aveva azionato la ruota, e reimmetterla velocemente nel fiume senza impedire alla ruota stessa di girare. Ad esempio, nel Sito 17, i quattro archi acuti originali da cui l’acqua, dopo essere passata al di sotto dell’edificio, defluiva nel canale di rifiuto, sono stati tagliati e rialzati; probabilmente questa modifica si rese necessaria, per assicurare un regolare deflusso, in una fase in cui il rialzamento del fondo della gora aveva causato un aumento eccessivo del livello dell’acqua nella camera dei ritrecini. Nella documentazione medievale la presenza di questo canale viene citata spesso: il termine usato è fuitum/fiutum158. Si trattava in genere di un semplice canale aperto, simile per aspetto alla gora di alimentazione, ma di solito piuttosto corto. Nel caso di diversi opifici posti lungo la stessa gora, ovviamente non esisteva un vero e proprio rifiuto, ma l’acqua che fuoriusciva in basso sul fronte dell’edificio defluiva di nuovo nel canale principale proseguendo il suo percorso verso l’impianto successivo159.

2.2. IL MUL INO DA MAC INA

Tentare di ricostruire nei dettagli l’aspetto esteriore, la struttura interna, il funzionamento ed i meccanismi dei mulini esistenti nel Medioevo in questa zona, nonché l’eventuale evoluzione del sistema tecnico attraverso i secoli, non è impresa facile. I documenti scritti sono avari di descrizioni particolareggiate, alludendo al molendinum come a cosa ben nota a chi legge, e per l’età comunale in genere capita di rado di imbattersi in testi che diano un’idea non vaga della consistenza di un impianto idraulico160. La scarsità di descrizioni riguardanti la struttura o il meccanismo dei mulini e

155 È questa una caratteristica generale, ad esempio, dei mulini di pianura nel pratese, cfr. Moretti, 1985, p. 246.

156 È quanto avviene nei Siti 15, 16, 17, nei quali le strutture medievali, ancora molto ben conservate, permettono di cogliere perfettamente il funzionamento di tali impianti in antico. Caratteristiche simili dovevano avere, sulla base di quanto si coglie dalla mappa del Catasto Toscano, anche il Sito 10 (UT 1) ed il Sito 14; anche nella raffigurazione settecentesca del Sito 20 il bottaccio manca e la gora sottopassa l’edificio.

157 Sito 5 anno 1288 “traboccatorium vel traboccatoria”, e testimonianze orali relative al Sito 15. Per un confronto si veda Moretti, 1985, p. 247. Un canale di questo tipo, anch’esso regolabile con una paratoia, è presente nei Siti 15, 16, 10 (UT 1) ed è raffigurato nel disegno settecentesco del Sito 9 con la didascalia “cataratta”. Nel Sito 2 UT 1 si riscontra la presenza di una canaletta sotterranea, scavata nella roccia, che devia le acque dal bottaccio nel canale di rifiuto.

158 Catalogo, passim. 159 V. Siti 15, 16, 17. 160 Tanto più che per il territorio senese mancano fonti come l’elenco dei mulini redatto per Pistoia alla

metà del ‘300 (Muendel, 1972; Muendel, 1974), o quello della metà del ‘200 relativo ai mulini di Reggio Emilia (Dussaix, 1979).

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l’assenza di dettagli tecnici è comunque caratteristica generale della documentazione scritta precedente al XV secolo161. In effetti, come abbiamo già accennato, la documentazione disponibile sugli impianti idraulici è costituita per buona parte da atti che hanno per oggetto liti e controversie riguardanti le opere di derivazione ed intercettazione delle acque - vero nodo cruciale in cui si incontrano diritti signorili, consuetudinari o di proprietà ñ, mentre più raramente riguardano l’impianto molitorio in sé. Tuttavia è certamente possibile integrare le scarse informazioni reperibili nei documenti scritti con l’osservazione e l’analisi delle strutture ancora conservate sul territorio, sia medievali che moderne, e con i dati provenienti dallo studio di svariate fonti che si estendono cronologicamente dai secoli medievali all’Ottocento, fino a tracciare un quadro sufficientemente esauriente162.

Uno dei principali interrogativi cui questa indagine si prefiggeva di dare una risposta, sia pure parziale, riguardava innanzitutto il tipo di ruota idraulica maggiormente diffuso negli impianti molitori del bacino Farma-Merse: si trattava, cioè, di mulini a ruota orizzontale oppure a ruota verticale?163 I documenti medievali consultati non sono al riguardo molto eloquenti; di rado, infatti, nell’elenco delle parti che costituivano il mulino, si nominano le ruote idrauliche: nella nostra documentazione questo avviene 6 volte e si tratta sempre di ritrecini164. La ruota orizzontale viene inoltre citata altre due volte in documenti di epoca moderna165. Dalle fonti scritte non vengono altre indicazioni, ma la ricerca sul campo, con l’osservazione delle strutture superstiti relative a mulini di XIII-XIV sec., e talvolta il ricorso alle fonti orali nel caso di mulini che hanno funzionato fino al nostro secolo, ha comunque permesso di determinare quale tipo di ruota era collocato in altri 17 impianti: anche per tutti questi casi la tipologia impiegata era quella orizzontale166. Poiché gli impianti molitori individuati sono in totale 37, questo significa una percentuale certa di oltre il 65% di ruote di questo tipo. Si deve poi sottolineare il fatto che le descrizioni dei rimanenti mulini non contengono alcun elemento che possa indicare l’impiego di un tipo differente di ruota idraulica; non sembra quindi scorretto ipotizzare che probabilmente anche gli altri impianti individuati nella zona utilizzassero il ritrecine e quindi concludere che la larga maggioranza dei mulini da grano del bacino Farma-Merse fossero a ruota orizzontale, sia nel Medioevo che nei secoli successivi. Tale conclusione conferma quindi un modello già documentato per altre parti della Toscana e dello stesso territorio senese167.

Ciò non significa che la ruota verticale fosse sconosciuta in questo ambito territoriale. Tale

161 Cfr. Chiappa Mauri, 1984, pp. 14-16 e 152. 162 È forse opportuno, infatti, richiamare qui una osservazione di metodo: il semplice impianto

molitorio idraulico per il grano sembra raggiungere l’optimum tecnologico nel XII sec., mentre nei secoli successivi furono effettuate solo varianti minime; fino all’introduzione del motore elettrico, quindi, non c’è molto da distinguere tra i metodi di costruzione ed installazione delle ruote idrauliche nel XIII o nel XVIII secolo, e pare dunque sostanzialmente corretto utilizzare fonti ed informazioni concernenti anche i secoli post-medievali.

163 Per la trattazione delle origini e delle principali caratteristiche delle varie tipologie di ruote idrauliche, si rimanda al par. 1.1.

164 Sito 5, a. 1288: reticinorum. Sito IVa, a. 1277, retecinis. Sito V, a. 1277, retecinis. Sito X, a. 1290 reticinorum. Sito 17, a. 1290, reticinorum. Sito XI, a. 1329, tribus retecenis. Il termine “ritrecine”, che ha raggiunto un significato ormai stabilizzato di “ruota da mulino posta orizzontalmente”, risulta comunemente usato nel Medioevo, cfr. Cherubini, 1974, p. 221. In Muendel, 1974, pp. 208-209, si tenta una analisi etimologica del termine e delle sue varianti, fino alla conclusione che la parola si formò probabilmente nel latino medievale e non classico. V. inoltre Foresti-Baricchi-Tozzi Fontana, 1984, p. 108, con bibliografia.

165 Sito 20, a. 1741: “ritrecini”. Sito 2 UT 1, a. 1693: “retrecini”. 166 Siti 1 (UT 2), 3, 10 (UT 1), 13, 14,15, 16,18, 21,23, 24; con tutta probabilità anche nei Siti 12 e 26; si

comprendono nel gruppo ancheil Sito XII (2 mulini), ed il Sito XVI,in quanto situati con certezza sulla stessa gora, che scorre sempre in pianura, alimentante i Siti 15-17.

167 V. supra, par. 1.1.

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tipologia, infatti, come vedremo in seguito, era impiegata negli impianti siderurgici e sembra inoltre attestata dalla presenza di gualchiere associate talvolta ai mulini da grano. Ciò che sembra essere sconosciuto - o meglio forse non applicato perché probabilmente ritenuto poco funzionale e troppo costoso rispetto al ritrecine - è il complicato meccanismo lubecchio-lanterna per la trasmissione del moto da una ruota verticale al piano orizzontale di macinazione168.

Per quanto riguarda la struttura architettonica di un mulino medievale, ovviamente la planimetria e le dimensioni potevano variare notevolmente, a seconda dell’importanza dell’impianto e del numero di macine che ospitava169. Tuttavia l’edificio doveva essere articolato sempre in almeno due livelli: un piano terra, in genere costituito da un unico locale destinato alla lavorazione, nel quale si trovavano le macine, ed un piano inferiore, cioè un vano seminterrato occupato interamente dall’alloggiamento delle ruote e dei meccanismi. Questo vano rappresenta un elemento caratteristico delle strutture in cui era adottato il meccanismo di macinazione a pale orizzontali anziché verticali. Si tratta di un ambiente stretto e lungo, simile ad una galleria, sottostante al locale dove erano alloggiate le macine; solitamente era voltato a botte e largo quanto bastava per consentire la rotazione170. Il nome che gli viene attribuito generalmente, sia nella letteratura tecnica che nel linguaggio popolare, è “carceraio”171.

Quasi sempre, però, il mulino doveva prevedere anche un piano superiore, destinato ad abitazione per il mugnaio. A questo proposito è interessante vedere come nei documenti medievali si specifichi spesso che il molendinum è cum domo, evidentemente alludendo ad una distinzione fra i locali destinati alle operazioni di macinazione e all’alloggio dell’apparato tecnico - ovvero il ‘mulino’ vero e proprio - e la soprastante, o talvolta forse adiacente, abitazione172. I termini edificium e casamentum sembrano invece riferirsi ad ambienti e corpi secondari di servizio, probabilmente destinati a stalla, magazzino per il grano e la farina, deposito di attrezzi.

Le descrizioni dei documenti, per quanto riguarda la struttura architettonica dell’edificio, non vanno molto al di là di quanto detto finora; solo in un caso si specifica che i mulini da costruirsi dovevano essere “duas domos eque bonas de muro et calce et altitudine et amplitudine ut sunt domus dicte abbatie que sunt ibi supra in dicto flumine [...] bene actata et preparata cum stecchatis,

168 Cfr. ivi. 169 Si va da impianti molto piccoli, come i Siti 3, 12 (secondo la raffigurazione del Catasto Toscano),

18, 19, 24, a impianti di medie dimensioni, come i Siti 2 UT 1, 1 UT 2, 23, fino ad edifici di proporzioni notevoli come i Siti 9, 10 UT 1(oggi distrutto, dalla raffigurazione del Catasto Toscano sembrerebbe essere stato uno dei più grandi mulini di tutta la zona), 14, 15, 16, 17, 20.

170 Esempi ben conservati di questi ambienti seminterrati, di epoca moderna, talvolta ancora praticabili, sono presenti per i Siti 1 UT 2 (un unico carceraio per due ritrecini affiancati), 2 (UT 1) (un unico carceraio per due ritrecini affiancati), 18 (due carcerai affiancati), 24 (due carcerai affiancati). Nelle raffigurazioni riguardanti i Siti 9 e 20, sono chiaramente rappresentati, nella parte bassa dell’edificio, tre archi di uscita dell’acqua dai carcerai.

171 Pierotti, 1993, pp. 85-86. Nei documenti consultati, tuttavia, questo termine ricorre una sola volta, nel 1741, per il Sito 20: si tratta forse di una denominazione di origine tarda?

172 Sito 5, a.1288: “molendini sive molendinorum [...] et domorum ipsorum molendinorum”. Sito 7, a. 1304: “unum molendinum aque cum unam casettam”. Sito 10 UT 1, a. 1223: “molendinorum [...] et edificii et suppelletilium que sunt in domibus dictorum molendinorum”. Sito 15, a. 1245: “duas domos [...] cum stecchatis, goris, fuitis et molis et feramentis et omnibus apparatibus suisì; a. 1258: “duarum domorum et molendinorum [...] cum hedificiisì. Sito 17, a. 1258: “molendinum [...] cum domo palatio seu domibus [...] edificiisì. Sito XII, a. 1256: “molendini [...] et domorum ipsius [...] et unius domus posite subtus dictum molendinum et domos eiusdem”. Sito 26, a. 1318-1320: “terre laboratorie [...] cum palatio, domo cum molendino”. Sito IVa, a. 1277: “molendini [...] cum domo”. Sito VII, a. 1210: “molendina [...] cum casisì; a. 1223: “cum [...] hedificiis et curte”. Sito VIII, a. 1338: “molendini [...] domorum et casamentorum”. Sito XI, a. 1271: “molendini [...] et eius casamenti et domorum”.

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goris, fuitis et molis et feramentis”173. Sempre nel medesimo documento si prevedeva la futura edificazione di “unum hedificium in quo possint quattuor molendina”, dove con molendinum ci si riferiva evidentemente al singolo palmento. Succede talvolta, infatti, che si parli di molendina anche riguardo ad impianti che sembrerebbero essere singoli; di conseguenza l’uso del plurale va probabilmente inteso non come riferimento a più edifici diversi, ma a diverse macine funzionanti all’interno di uno stesso edificio174.

Il testo citato poco sopra fa riferimento ai mulini costruiti alla metà del XIII sec. dall’abbazia di Torri, in comproprietà col comune di Siena, nei pressi di Brenna. Si tratta di edifici ancora ben conservati e particolarmente notevoli sia per dimensioni che per struttura architettonica. Il Mulino del Pero (Sito 15) si presenta come un’alta torre quadrangolare in filaretto con parte inferiore a scarpa, piccole finestre ad arco tondo, porta d’ingresso ad arco tondo all’altezza del primo piano, alla sommità mensole in pietra aggettanti e completa merlatura con feritoie in molti merli. Il Mulino di Serravalle (Sito16), anche se estremamente rimaneggiato, presenta una struttura molto simile al precedente, a torrione quadrangolare in pietra, con mensole aggettanti alla sommità. L’aspetto massiccio e lo sviluppo verticale di entrambi gli edifici risalgono forse alla fase di fortificazione che essi subirono nel corso del XIV secolo. Una tipologia a torre quadrangolare con murature in pietra e sviluppo prevalentemente verticale si riscontra anche nel vicino Molinello di Torri (Sito 21), che pure è un edificio più piccolo dei precedenti, e nel Mulino delle Pile (Sito 9) con un grande corpo rettangolare allungato sormontato da una torre quadrata. Particolarmente massiccia, a giudicare dai resti delle murature, doveva essere anche la struttura del Sito 5. Il tipo del mulino fortificato, che è stato felicemente definito come una “sintesi” che riassume i caratteri di edificio destinato alla produzione, e quindi “industriale”, con quelli di un edificio “militare”175 si riscontra anche in aree limitrofe a quella qui presa in esame: ad esempio nel territorio di Massa, e in quello di Roccastrada176.

La struttura più imponente, fra quelle censite, è comunque il vicino Mulino Palazzo (Sito 17), costruito dal comune di Siena alla metà del XIII secolo. Si tratta di un grande edificio a tre piani in filaretto, a pianta rettangolare, con alcune aperture originali, fra cui la porta d’ingresso sormontata da un’iscrizione in volgare che ne ricorda la costruzione, piccole finestrine con architrave monolitico sagomato ad arco, finestre ad arco tondo, mensole in pietra aggettanti alla sommità. Il piano seminterrato presenta tre aperture ad arco acuto per la fuoriuscita dell’acqua; il piano terra è interamente occupato da un vasto ambiente voltato a botte, dove un tempo erano collocate le macine. è evidente che un edificio di tali dimensioni, direi eccezionali, si discostava dalla struttura, generalmente più modesta, di un mulino-tipo. Possiamo farci un’idea più precisa a questo riguardo tramite un esempio particolarmente significativo e perfettamente conservato di impianto di XIII secolo: il mulino situato sul Farma nei pressi di Torniella (Sito 23 UT 2). Si tratta di un edificio rettangolare, con un piano seminterrato in cui erano alloggiati i ritrecini, un piano terra diviso in due ambienti (di cui il più grande destinato alla macinazione), un piano superiore. In facciata si trovano alcune aperture originali, tra cui la porta d’ingresso ad arco e due finestre rettangolari con architrave monolitico. Sul lato posteriore una porta a livello del primo piano dava accesso al bottaccio; il tetto è a due falde coperto da coppi ed embrici. Proprio in questo mulino si riscontra una tecnica muraria

173 Sito 15, a. 1245. 174 174 Sito 5, a. 1288: “totius molendini sive molendinorum”; Sito 10 UT 1, a. 1223: “molendinorum

positorum in Mersa in loco qui dicitur Molendinum vetusì; Sito XI, a. 1329, “molendina, domos molendinorum [...] cum tribus molendinis macinantibus [...] tribus retecinisì; Sito VII; Sito VIII.

175 Balestracci, 1981, p. 137. 176 Cfr. il mulino di Botricoli, edificio fortificato a torre a pianta quadrilatera (Cucini, 1985, pp. 250­

251) ed il Molino di Molinpresso, opificio fortificato di aspetto massiccio, a pianta rettangolare, a due piani con base a scarpa (ivi, pp. 260-261). Inoltre il mulino di Giugnano, edificio fortificato con corpo centrale a torre quadrata (Farinelli, 1992, p. 47).

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tra le più raffinate di quelle censite, in filaretto con corsi regolari di grandi bozze squadrate177. In un altro gruppo di edifici, databili al XIII-XIV sec., si riscontra la presenza di murature in pietre non squadrate, disposte su corsi regolari o subregolari, con grandi pietre angolari perfettamente squadrate, uso di laterizi come zeppe e talvolta per delimitare porte e finestre178. In epoca moderna, invece, si riscontrano in genere murature piuttosto irregolari di ciottoli e pietre non sbozzate, con largo uso del laterizio. Come materiali da costruzione si utilizzavano essenzialmente le materie prime locali; da alcune indicazioni dei documenti si ricava che molto legname doveva essere impiegato sia per la costruzione degli edifici veri e propri, che per i meccanismi, che per la manutenzione delle infrastrutture179.

In genere al mulino era unito un pezzo di terreno, talvolta coltivato a orto, oppure seminativo; in alcuni casi nella proprietà dell’impianto compaiono anche porzioni di bosco180.

Per quanto concerne il funzionamento dell’apparato macinante interno al mulino, purtroppo pochi sono i dati a nostra disposizione: scarse le notazioni tecniche contenute nei documenti, ma soprattutto del tutto perduti, perché distrutti o asportati, i meccanismi in legno e in ferro che un tempo erano alloggiati dentro gli edifici181. Se quindi non era pensabile effettuare misurazioni e calcoli sulla potenzialità delle varie componenti o un’analisi dei materiali costruttivi impiegati, è tuttavia possibile esaminare il meccanismo di macinazione scomponendolo nei suoi elementi costitutivi principali182.

L’asse verticale del mulino era costituito da un grosso palo, chiamato appunto palus, che poteva essere di ferro o di legno183. L’estremità superiore di questo palo passava attraverso un foro aperto nella volta del carceraio, poi attraverso l’occhio della macina184 inferiore, ed era fissata alla

177 Questo tipo di tecnica, tipica del XII-XIII secolo, si riscontra anche nel Sito 5, nel Sito 17, nei resti di murature inglobate nel Sito 2 (UT 1).

178 Siti 15, 17, 21, 26. 179 Sito 10 UT 1, a. 1223: l’abate di S. Galgano promette che farà trasportare con buoi e bufali del

monastero la legna grossa necessaria al mulino. Sito 15, a. 1244: il monastero di Torri concede tutta la legna e le pietre necessarie per la costruzione di mulini a Cetinaia Longa. Sito 7, a. 1261: “cum toto legnamine quod fuerit necesse de inceps ad dictum molendinum”. Sito 10, a. 1290: anche se vengono messi in comproprietà con il mulino Palazzo alcuni appezzamenti di terreno, l’abate di S. Eugenio si riserva per 12 anni l’uso del legname che vi si trovava.

180 Sito VII, a. 1210: “cum terrisì. Sito 7, a. 1243: “in quodam molendino [...] et in resedio eiusì; a. 1259: “et eius resedio rapediarterio(?)”; a. 1261: “unius molendini et resedii [...] cum rispareco et terra”; a. 1304: “unum molendinum aque cum [...] uno sive jardino”. Sito 15, a. 1258: “plateis, terris cultis et incultisì. Sito 17, a. 1258: “plateis terris cultis et incultisì. Sito IVa, a. 1277: “cum terris et nemoribus atque lamisì. Sito IIIb, a. 1281: “et terrarum et lamarum et nemorum ad dicta molendina pertinentium”; a. 1351: “cum quadam petia terre [...] boschis terris et pratis ad dictum molendinum pertinentibusì. Sito X, a. 1290: “unius petie terre et lame [...] unius petie terre vinee et lame”, inoltre alcuni orti e tre parti del bosco di Filetta. Sito VIII, a. 1338: “petie terre super qua est dictum molendinum et lame et prati et orti positorum iuxta et prope dictum molendinum”.

181 In alcuni casi, dove per la cessazione dell’attività in epoca molto recente è possibile che si siano conservati alcuni meccanismi, l’accesso ai locali seminterrati non è stato possibile per problemi di proprietà privata o inaccessibilità dovuta al timore di crolli.

182 Per tale ricostruzione si è tenuto presente il modello proposta in Muendel, 1974, pp. 175 e sgg., per i mulini pistoiesi di XIII-XIV sec.; cfr. anche Pierotti, 1993, pp. 75-97.

183 Sito XI, a. 1329: “tribus palis de ferro”; Sito VIII, a. 1338: “palorum”. In un solo caso gli alberi motori si sono conservati in situ: nel Sito 20 rimane un albero in legno, privo del mozzo e delle pale del ritrecine, in ciascuno dei due carcerai.

184 Le macinae, molte volte dette anche molae, ricorrono spessissimo nelle descrizioni dei mulini medievali: vedi Catalogo, sotto la voce Fonti, passim.

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macina superiore mediante una barra trasversale, detta nottola o noctola185 . Ciò permetteva alla macina superiore, mobile, di ruotare liberamente sopra la macina inferiore, che rimaneva fissa. Fra le due macine c’era una grande differenza di spessore: mentre la superiore si aggirava intorno ai 10 cm, l’inferiore poteva raggiungere anche il mezzo metro186. La pietra da cui erano ricavate doveva, ovviamente, essere durissima ed era quindi importante che cave adatte all’approvvigionamento di nuove mole non fossero troppo lontane. Per la zona di Brenna sappiamo dal Constituto del 1262 che cave esistevano sul poggio di Montestigliano (detto podium mole): a questo proposito si stabiliva di dislocare dei custodi nei boschi in corte di Mallecchi, Ripinata, Montestigliano e Cerbaione “ne incidantur nemora infrascripta, propter conservationem et retentionem molendinorum comunis Senarum et monasterii de Turri [...] et debeant dicti forestarii custodire quod mole non fiant in dictis nemoribus, nisi ad opus molendinorum comunis Senarum et monasterii dicti”187. Interessante è anche vedere come, fra i beni di pertinenza del Mulino del Pero, nella vendita del 1258, siano citate anche delle cave di pietra188.

...

Dei grandi cerchi in ferro, detti circuli189, circondavano ciascuna macina per proteggerla dalla rottura; inoltre, se le macine si fossero fessurate, queste bande avrebbero impedito loro di cadere in pezzi. Appesa al di sopra delle macine, si trovava la tremogia190, contenitore in legno sagomato ad imbuto che portava il grano da macinare ed alimentava dall’alto l’apertura della macina rotante. Generalmente un contenitore in legno di forma circolare, detto palmentus191, circondava la coppia di macine in modo tale che la fuoriuscita della farina poteva avvenire soltanto da un’apposita apertura praticata nel palmento stesso192

All’estremità inferiore dell’albero motore si trovava il meccanismo cruciale per il movimento, il già più volte citato ritrecine. Quest’ultimo era assicurato saldamente al palus, e poteva muoversi appoggiandosi al puntaruolus193, una sporgenza di ferro sagomata a punta con la quale in basso terminava l’albero. Il puntaruolo girava su un perno di ferro, la ralla194, a sua volta inserito in un ceppo fissato al pavimento del carceraio.

L’acqua, dal bacino di raccolta, entrando in una apertura, detta doccia o duccia195, probabilmente dotata di paratoia, arrivava alla ruota acquistando velocità e pressione tramite la caduta attraverso una condotta forzata, di lunghezza variabile, inclinata e strombata196. La parte finale di questo canale, nel punto in cui sfociava sulla parete di fondo del carceraio, presentava una bocca di legno sporgente197.

Ogni mulino richiedeva, per garantire una buona efficienza, un continuo lavoro di

185 Sito XI, a. 1329: “tribus nottolis ferreis [...] et una nottola de ferro”; Sito VIII, a. 1338: “noctularum”.

186 Alcune macine rimangono nei Siti 1 UT 2, 15, 17, 18, 21, 23. 187 Zdekauer, 1897, p. 316. Si veda anche Catalogo, Sito 15. 188 Catalogo, Sito 15: il termine usato è “lapidicinii”. 189 Sito XI, a. 1329: “quinque circulis ferreis macinarum”. 190 Sito XI, a. 1329: “tribus tremogiisì. Sito VIII, a. 1338: “tremogiarum”. 191 Sito 5, a. 1288: “palmentorum”. Sito 15, a. 1258: “palmentisì. Sito 17, a. 1258: “palmentisì. Sito

IVa-Sito V, a. 1277: “palmentisì. Sito X, a. 1290: “quinque palmenta”. Sito VIII, a. 1338: “palmentorum”. Sito XIII, a. 1318-20: “cum duobus palmentisì. Sito 15, a. 1391: “duo palmenta”.

192 È importantenotare che un mulino che possedeva più di una coppia dimacine veniva solitamente designato, nella sua capacità produttiva, indicando il numero dei palmenti.

193 Sito 2 UT 1, a. 1622: “pontaroli”. 194 Sito XI, a. 1329: “tribus rallis de ferro”. Sito 2 UT 1, a. 1622: “ralle” . 195 Sito 15, a. 1258: “ducciis”. Sito 17, a. 1258: “ducciis”. Probabilmente a questo componente si

riferisce anche la parola “gittusì usata in due documenti del 1305 (Sito XI). 196 Alcuni esempi sono ancora ben visibili, per la descrizione v. Catalogo, Sito 2 (UT 1), Sito 23, Sito

24. 197 Visibile nel Siti 1 (UT 1) e 18.

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manutenzione: innanzitutto le macine, che venivano sostituite dopo un certo numero di anni d’uso, dovevano essere continuamente scalpellate, in quanto con l’attrito tendevano a diventare lisce. In particolare la macina inferiore doveva essere incisa con solchi obliqui a raggiera, che permettevano una maggiore resa e facilitavano la fuoriuscita della farina. A tal fine doveva esistere anche nei nostri mulini un congegno che permetteva il sollevamento della macina superiore, cioè una sorta di argano dotato all’estremità di un aggancio in ferro: in un documento del 1329 esso viene descritto come “uno palo ferreo pro molendino levando”(Sito XI).

Una certa idea possiamo farci a proposito del corredo di attrezzi mobili necessari per il funzionamento di un mulino medievale: nei documenti vengono citati spesso i ferramenta198, probabilmente quell’insieme di martelli, martelline e scalpelli necessari alla manutenzione delle macine; ma forse il termine era usato anche con riferimento a tutte le parti in ferro presenti nei meccanismi. Quasi sempre, poi, nei contratti ricorre la formula generica cum omnibus massaritiis, con riferimento in generale a tutto l’insieme di beni mobili interni al mulino. Con estrema precisione, ancora nel succitato contratto del 1329, entro il corredo di attrezzi del mulino si elencano “una caldaria raminis cum sua canna raminis pro dictis gualcheriis, cum quinque circulis ferreis macinarum, cum uno boççolo cum sua catena ferrea, tribus tendis, uno stario ferreo cum duobus martellis pro macinis, cum uno picchone cum duabus punctis, uno scarpello ferreo, una maççuola de ferro, una ascia ferrea, uno palo grosso ferreo pro molendino levando [...], una lucerna, uno pennato ferreo, uno succhiello fracto, una tina et cum duabus vegetibus fractis seu sfondatis, cum uno bigonçello et uno crivello et cum una scala”. In un altro contratto di vendita del 1338 relativo al Sito VIII, si specifica che l’attrezzatura consisteva in “molarum seu macinarum palmentorum bocolorum palorum tremogiarum noctularum bigonzorum et ceterorum instrumentorum et arnesium et massaritiarum tam de ferro quam ligno”. A distanza di qualche secolo l’attrezzatura-tipo del mulino si ripresenta con diverse somiglianze, se nel 1693 si nominano “una mazza di ferro, un palo di ferro, una martellina, uno scarpello tutto ferro, un’ascia, una statera grossa, una pala di ferro, una zappa, un Bozzolo di rame, un cassone, un bigonzo et una lucerna”199.

17

Non è facile fornire dati certi, vista la vaghezza delle fonti, sul numero di macine con le quali lavoravano i mulini del bacino Farma-Merse nel Medioevo. Talvolta, infatti, è problematica la valutazione del termine molendinum menzionato dai documenti, perché con questa definizione generica si designa qualsiasi meccanismo mosso da forza idraulica, sia esso un semplice mulino rurale, di piccole dimensioni, sia un complesso ragguardevole contenente molte coppie di macine. Tuttavia è certo che il modello a più di un palmento era assai comune sia nei secoli medievali che successivamente. Più di una coppia di macine (non sappiamo quante) possedevano i Siti 5, 16, 13, IVa, V, VIII; due coppie i Siti 1 (UT 2), 2 (UT 1), 18, 23, 24, XIII; tre coppie i Siti 9, 10 UT 1, 15,

200, 20, XI; ben cinque coppie il Sito X. Del resto, vista la stasi tecnologica che caratterizza i meccanismi di macinazione sia per il Medioevo che per i secoli dell’Età Moderna, la risposta tecnica che si era in grado di offrire alla richiesta di cereali da parte di una popolazione in aumento, sembra essere stata quella di moltiplicare sia il numero degli impianti sia, cosa più conveniente dal punto di vista dello spreco di risorse, moltiplicare il numero delle ruote entro uno stesso impianto.

La maggiore potenzialità di un mulino, comunque, non derivava automaticamente dal numero di ruote installate, ma dal maggior numero di ruote attivabili contemporaneamente e dalla maggior durata del loro periodo di attività. Infatti un impianto con un minor numero di ruote poteva raggiungere una maggiore potenzialità produttiva rispetto ad un mulino con un maggior numero di ruote, se era in grado di azionare tutte le coppie di macine contemporaneamente, quando invece

198 Siti 10 (UT 1), a. 1223; 15, a. 1258; 17, a. 1258; IIIb, a. 1280; IVa, a. 1276; V, a. 1276, ecc. 199 Sito 2 (UT 1). Si veda anche la perfetta corrispondenza con i documenti pubblicati in Balestracci,

1981, p. 133. 200 In questo caso i palmenti erano forse quattro, visto il numero degli archi d’uscita per l’acqua.

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nell’altro avesse potuto funzionare una sola ruota per volta e non per tutto l’arco dell’anno201. La possibilità di azionare più macine era data principalmente dalla portata d’acqua

disponibile. A questo riguardo possediamo alcuni dati, relativi agli impianti della nostra zona ancora attivi alla fine del XIX secolo, censiti nei volumi di corredo della Carta Idrografica d’Italia. Da essi risulta che disponevano di un regime perenne i Siti 9, 10 (UT 1), 15, 16, 17, 20, cioè tutti quelli dislocati sul Merse, ed il Sito 23, sul Farma; tutti gli altri202, situati su corsi d’acqua minori, dovevano interrompere la macinazione almeno per qualche mese all’anno. Tra questi, i Siti 18, 19, 21 lavoravano tutto l’anno esclusivamente a raccolta o a “gorate”, cioè facendo riempire il bottaccio e poi lasciandolo svuotare completamente ogni volta. Da tali dati, presupponendo che non si siano verificate enormi variazioni di flusso attraverso i secoli, si può dedurre che anche gli altri impianti dislocati sul Merse e sul Farma, dei quali non si hanno più notizie perché scomparsi in epoca medievale, potessero usufruire di una portata perenne e quindi di una discreta potenzialità203. Soltanto per il Sito X i documenti medievali sono espliciti e ci dicono che nel 1290 esso poteva lavorare “ad quinque palmenta in ieme et estate”; possiamo tuttavia ipotizzare una analoga risorsa idrica anche per i Siti 15, 16, 17, che erano collocati lungo lo stesso canale alimentatore. Dalla Carta Idrografica sappiamo poi che disponevano di una portata continua sufficiente per tre macine in inverno, una d’estate, due nei periodi intermedi i Siti 9, 10 (UT1), mentre i Siti 15, 16, 17 potevano azionare sempre almeno due macine, in inverno tre. Le massime portate in litri si riscontrano nei Siti 9 e 10 (UT 1) e nei Siti 15, 16, 17204.

Da questi dati si può facilmente desumere l’enorme differenza fra la capacità produttiva delle piccole strutture distribuite lungo i corsi d’acqua minori, evidentemente destinate a consumi locali, e le potenzialità di impianti come gli ultimi citati, che erano i più importanti mulini di tutto il comprensorio fin dai secoli del Medioevo, dotati di risorse idriche e di sistemi di derivazione tali da garantire una produzione di farina a livello almeno subregionale e oseremmo dire ‘industriale’205.

3. Diritti sulle acque, proprietà, gestione (secc. XIII-XIV)

3.1. LE PRIME ATTESTAZIONI:LA GEOGRAFIA DEL POTERE ED IL PROBLEMA DELLE FONTI

Trattare di strutture produttive medievali, siano esse mulini ad acqua o altri tipi di impianti, e del loro ruolo nel contesto economico-sociale dei secoli centrali del Medioevo, significa affrontare non soltanto questioni inerenti strettamente al campo della storia tecnologica, ma piuttosto e soprattutto una serie di interrogativi di carattere più globale. Essi riguardano, ad esempio, i modi ed i tempi di diffusione delle tecnologie idrauliche in determinate aree, le persone, gli enti e più in generale i ‘poteri’ che si dimostrarono principalmente interessati allo sviluppo di tali tecnologie, il modo in cui essi sfruttarono i diritti sulle acque in loro possesso o cercarono di procurarseli se non li avevano, infine i tipi di gestione degli impianti e gli effetti economici derivanti da una loro massiccia presenza sul territorio. In tali domande, infatti, è inevitabile imbattersi nel tentativo di

201 Cfr. Foresti-Baricchi-Tozzi Fontana, 1984, p. 75. In tale pubblicazione vengono anche proposti dei calcoli della potenzialità assoluta dei singoli impianti, basati su grandezze quali la portata, l’altezza di caduta, il rendimento relativi ai mulini di XIX-XX secolo. è ovvio che per una indagine come quella qui presentata, che prende in considerazione impianti di età più antica, la mancanza di dati quantitativi di questo tipo esclude ogni possibilità di effettuare calcoli del genere.

202 Siti 1 (UT 2), 2 (UT 1), 3, 7, 12, 13, 14, 18, 19, 21, 24. 203 Per i dati relativi alla portata dei due corsi d’acqua e quindi alla potenzialità come fornitori di

energia idraulica nell’ambito della Toscana meridionale, si rimanda al Cap. I, par. 1. 204 Ancora oggi si può vedere che la gora che alimenta questi mulini si presenta quasi piena anche nei

periodi più siccitosi. 205 Per la storia di questi mulini v. infra, par. 3.3 e 3.5.

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chiarire la dinamica del processo di sfruttamento della potenzialità idrica che durante il Medioevo portò ad un progressivo e talmente massiccio aumento delle strutture idrauliche, da rendere l’edificio del mulino “un elemento del tutto consueto del paesaggio rurale”206.

Tentare questo tipo di ricostruzione significa in primo luogo avere ben chiaro in mente il quadro della geografia del potere esistente sul territorio oggetto dell’indagine. è questa una operazione sempre difficile per il periodo medievale, riguardo al quale è necessario tenere presente l’avvertenza, data dal Bloch ormai molti anni orsono, sull’impossibilità di poter fissare in una carta, per mezzo di contorni lineari, i confini delle signorie o delle zone di influenza, a causa del massiccio e continuo sovrapporsi delle proprietà e dei diritti giurisdizionali207. A maggior ragione tale osservazione è valida per una zona come il bacino idrografico Farma-Merse, territorio tutt’altro che marginale nei secoli centrali del Medioevo, che si configura in modo piuttosto evidente come una zona di confine208, disomogenea, nella quale interagiscono e si intrecciano in primo luogo i diritti patrimoniali e giurisdizionali di signorie laiche, enti ecclesiastici, vescovi, ed in una seconda fase comunità di villaggio, poteri cittadini e borghesi di città.

Su una parte dell’alta Val di Merse, che rientrava nei limiti meridionali della diocesi e della contea di Volterra, si estendeva il patrimonio della famiglia Gherardeschi. Niente sappiamo sulle origini e sulla formazione della casata comitale prima della fine del X sec.209, mentre un documento del 1004, di particolare interesse per l’area qui indagata, permette per la prima volta di identificare le principali zone di dislocazione dei beni della famiglia, tra i quali un nucleo consistente si trovava nell’alta Val di Merse. Il documento in questione è l’atto di fondazione del monastero benedettino maschile di S. Maria, nel castello di Serena, su un poggio alla sponda sinistra del Merse, a poca distanza dall’attuale Chiusdino. Fondatori furono il conte Gherardo II, titolare della contea di Volterra, insieme alla moglie Willa: essi donarono all’abbazia il loro intero patrimonio, costituito da castelli con i rispettivi territori e chiese, distribuiti tra diverse contee della Toscana occidentale e meridionale210. Il documento non ci informa esattamente sui rapporti tra il cenobio ed i fondatori e neppure sulle modalità di gestione del patrimonio, ma certamente la fondazione di un monastero sui propri possessi, da parte dei Gherardeschi, ebbe anche lo scopo di riorganizzare territorialmente, unificare e controllare un vasto patrimonio fondiario. Al nuovo monastero fu concessa l’immunità ed esso divenne un’abbazia regia, anche se soggetta all’egemonia dei conti fino al XII sec., svincolata invece dal controllo vescovile211; essa fu anzi, in seguito, a più riprese coinvolta nei contrasti che in Val di Merse opposero i vescovi volterrani ai Gherardeschi. Proprio queste vicende dettero inizio alla progressiva crisi che colpì l’abbazia nel corso del XII sec., costringendola all’alienazione dei beni più lontani, e che portò infine, nel 1196, all’ingresso nell’ordine vallombrosano212.

206 Secondo la definizione di Cherubini, 1974, p. 273. 207 Bloch, 1987 (ed. orig. 1939), p. 429. 208 Ad esempio confine di diocesi tra Siena e Volterra, area sulla quale il vescovo volterrano estende la

propria influenza piuttosto tardi e contemporaneamente a quello, ben più ‘agguerrito’, di Siena. 209 Cfr. Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 49-55, riguardo alle notizie reperibili su questa famiglia per

l’ultimo trentennio del X secolo. 210 Ivi, pp. 47-49 e nota 5: in Val di Merse i conti donarono il castello di Serena, ove sorgeva il

monastero, con il suo territorio e le chiese, metà della vicina chiesa di S. Andrea di Padule, i castelli di Miranduolo e di Sovioli con le loro chiese, 1/6 del castello di Frosini e della sua chiesa.

211 Ceccarelli Lemut, 1981, p. 172 e Ceccarelli Lemut, 1993, pp. 58 e 61, anche sull’ulteriore ampliamento dei possedimenti abbaziali nella nostra zona.

212 Intorno al 1120 l’abbazia fu coinvolta nella lotta tra Ugo di Gherardo di Guido ed il vescovo Crescenzio; dall’arbitrato del 1133 sappiamo che nel contrasto fu distrutto anche il castello di Serena. Questi fatti dovettero avere pesanti conseguenze per l’ente monastico: infatti i conti si impegnarono a non ricostruire il castello di Serena e riconobbero al vescovo il possesso dei castelli di Frosini e di metà di Chiusdino, mentre dei diritti patrimoniali del monastero su questi beni non si fa menzione, v. Ceccarelli Lemut, 1993, p. 63.

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Nello stesso tempo, in quest’area, la famiglia Gherardeschi perdeva progressivamente di importanza, spostando i propri interessi soprattutto verso la città di Pisa, mentre cresceva il potere del vescovo volterrano. A partire dalla metà dell’XI sec., la casata si era inoltre suddivisa in quattro rami, ognuno dei quali concentrava i propri beni in un determinato ambito territoriale, assumendo il titolo comitale dalla località più importante in proprio possesso. In Val di Merse un ramo gherardesco si incentrava sul castello di Frosini e manteneva legami col vescovo di Volterra, ma anche una forte autonomia, che provocò continui scontri per tutto il XII sec.213. In questo stesso periodo, infatti, i vescovi volterrani estendevano la propria giurisdizione, pur se in concorrenza con altri enti ecclesiastici e signorie laiche, sui castelli di Chiusdino, Monticiano e sulla pieve di Luriano, tentando a più riprese di impadronirsi anche del castello minerario di Miranduolo214. Fu poi probabilmente con una politica che mirava al consolidamento del proprio potere nella zona ­gravemente incrinato per i contrasti con i Gherardeschi, ma come vedremo anche per i tentativi di inserimento da parte dell’episcopato senese215 - che il vescovo volterrano Ugo de’ Saladini promosse, intorno al 1185, la fondazione del cenobio cistercense di S. Galgano, sull’altura di Monte Siepi, tra Frosini e Chiusdino. Esso diverrà, nel volgere di pochi anni, una delle realtà patrimoniali e dei centri di potere più importanti della zona216.

Nella bassa Val di Merse e nella Val di Farma era la potente casata comitale degli Ardengheschi ad imporre in modo massiccio il proprio dominio. Alla fine dell’XI sec. la famiglia constava di un patrimonio disperso e disgregato, ma, dai primi anni del XII, si notano uno spostamento ed una concentrazione patrimoniale a sud di Siena217 cosicché, a partire dal 1100, il patrimonio di questa casata trovava il suo centro nella zona detta appunto Ardenghesca, tra il Farma, il Merse e l’Ombrone. Nello stesso tempo all’interno della famiglia si andavano distinguendo progressivamente tre rami, che nel XII sec. facevano capo ai castelli di Pari, Fornoli e Civitella218. Nel 1108 il conte Bernardo investì l’abbazia dei SS. Salvatore e Lorenzo al Lanzo, fondazione monastica della famiglia, del castello di Civitella ed altri beni, che da atti successivi, del 1124 e 1143, risultano comprendere Orgia, Stigliano, Brenna, Belagaio219. Da un atto del 1179 emerge poi che la famiglia possedeva un territorio assai vasto, che si estendeva in maniera pressoché continua da Orgia a Civitella, con orientamento nord-sud, lungo i corsi di Merse, Ornate, Farma e Ombrone, su una zona montuosa e fittamente incastellata220. Castelli della consorteria, nel XII sec., esercitavano un controllo sui corsi d’acqua e sulle strade che portavano verso la Maremma: Orgia, forse il più importante, Brenna, Stigliano, Capraia, Belagaio, Montepescini, Civitella, Pari; agli inizi del XIII sec. sono documentati anche S. Lorenzo a Merse, Tocchi, Rosia, Castiglion della Farma221.

213 Cammarosano-Passeri, 1976, p. 306; Ceccarelli Lemut, 1981, pp. 175-176 e 180-181. 214 Nel 1004 il castello di Chiusdino non esisteva: la Ceccarelli Lemut (1993, p. 63) ipotizza che sia stato fondato dai

monaci della Serena, ai quali però rimaneva, alla metà del XII sec., solo la cappella castrense. Nel XII sec. il castello era certamente di pertinenza dei vescovi di Volterra, ma ad esempio già nel 1137 il vescovo di Siena Ranieri acquistava una superficie nel castello e due nel borgo, dando il via alla futura penetrazione del comune senese, cfr. Cammarosano-Passeri, 1976, p. 305. A metà XII sec. Monticiano rientrava nella giurisdizione del vescovo volterrano; nel castello erano tuttavia insediati dei nobili locali, i Lambardi; nello stesso periodo cominciava anche qui la penetrazione del vescovo senese, che affermò i suoi diritti su castello e corte nel 1189, ivi, p. 343; su Luriano e Miranduolo, ivi, p. 306.

215 V. nota precedente e più avanti in questo stesso paragrafo. 216 Per una trattazione delle prime vicende del monastero si rimanda soprattutto a Canestrelli, 1896 e

Barlucchi, 1991, pp. 63 e sgg. 217 Angelucci, 1982, p. 119: ad es. il ramo di Willa ha possessi a Capraia, Orgia, Ancaiano. 218 Ivi, p. 135. 219 Ivi, p. 126; Rocchigiani, 1983, p. 31. 220 Angelucci, 1982, p. 126. 221 V. Cammarosano-Passeri, 1976, alle schede corrispondenti.

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Ma l’aristocrazia laica, in questa zona, doveva fare i conti ed intrecciare rapporti con un’altra forma di signoria, quella dei vari enti ecclesiastici. Oltre alla presenza di numerose pievi, si riscontrano proprietà del monastero di S. Eugenio, presente nella zona fin dalla fondazione, nel 730, da parte del gastaldo senese Warnefred. Tali beni nel XII sec. comprendevano alcuni possedimenti ad Orgia, Filetta e la chiesa di Cerreto a Merse, in piena zona ardenghesca222. Ma in questo periodo cominciavano soprattutto a formarsi le fortune dell’abbazia delle SS. Trinità e Mustiola di Torri: fondata verso la metà del secolo XI, nel 1070 fu posta sotto la diretta dipendenza della Sede Apostolica e, nel 1156 circa, unita alla congregazione vallombrosana. Essa raggiunse il massimo della potenza nel XII secolo, mantenendo una posizione di netta autonomia nei riguardi di Roma e mostrando una notevole partecipazione, in varie occasioni, allo sviluppo ed alle affermazioni del comune cittadino, fino ad essere presa sotto formale tutela di Siena nel 1245223.

Dal XII sec., poi, una nuova forza comincia ad affacciarsi su questo territorio, la chiesa cattedrale di Siena, che persegue una politica di consolidamento della propria presenza in questa zona di confine con la diocesi volterrana. Abbiamo già visto le iniziative dei vescovi senesi nei castelli di Chiusdino e Monticiano224 e sappiamo che, nel 1178, la chiesa pievana di Sovicille, situata proprio sul confine con la diocesi di Volterra, rientrava nella giurisdizione ecclesiastica senese225. Ma già dal secolo precedente il Capitolo della cattedrale di Siena aveva intrecciato rapporti con gli Ardengheschi, a proposito di alcuni possedimenti lungo il Merse: nel 1055 parte del castello di Montepescini apparteneva al Capitolo in condominio con la famiglia comitale ed alla metà dell’XI sec. la Canonica di Siena era in possesso di alcune terre presso Orgia, donate dagli Ardengheschi226.

Su questa complessa rete di insediamenti e giurisdizioni si espande quindi, a partire dalla seconda metà del XII sec., il dominio del comune di Siena. In una prima fase l’espansione senese non si attua con vaste conquiste territoriali, ma attraverso acquisti patrimoniali e forme di assoggettamento che interessano questa o quella comunità con i relativi territori. In questo periodo l’affermazione del comune si manifesta attraverso il vescovo, che assume la funzione di persona giuridicamente individuata, in grado di ricevere le proprietà e gli atti di sottomissione227. Abbiamo già visto ciò che accade a Chiusdino nel 1137 e a Monticiano nella seconda metà del secolo e intanto la pressione senese si fa sentire a Frosini, dove il comune approfitta delle lotte tra i Gherardeschi ed il vescovo di Volterra per imporre la propria autorità, a Luriano e a Miranduolo228. Siena si muove poi con decisione contro gli Ardengheschi: il primo atto di ingerenza cittadina nelle vicende della famiglia risale al 1151, quando il conte Ugolino dà in pegno al vescovo Ranieri terre, castelli, ville e borghi, con vari obblighi di alleanza e fedeltà229. Nel 1156 i Senesi attaccano e danno alle fiamme il castello di Orgia, cosicché i conti sono costretti a cederlo al vescovo. Nel 1158, inoltre, il comune otterrà, dall’imperatore Federico I, il divieto per i conti Ardengheschi di ricostruire castelli nel raggio di 12 miglia dalla città, limite entro cui rientrava proprio Orgia: era questa la consacrazione del recente acquisto compiuto dai Senesi nel territorio della famiglia comitale230. Nei decenni successivi seguiranno numerosi altri scontri, fino al definitivo atto di sottomissione del 1202, ottenuto con la forza delle armi: castelli, ville, uomini dell’Ardenghesca, furono elencati nominativamente nel

222 Ivi, pp. 396 e 397 e Rocchigiani, 1983, p. 31. 223 Cammarosano-Passeri, 1976, p. 399: nel 1156 l’abate dona il poggio di Monte Acuto al Comune di

Siena, nel 1179 assiste al trattato fra Senesi ed Ardengheschi. Si veda anche Balestracci, 1988, pp. 153-154. 224 V. sopra, nota 214. 225 Cammarosano-Passeri, 1976, p. 394. 226 Ivi, p. 346 e Rocchigiani, 1983, p. 22. 227 Cammarosano, 1991a, pp. 38-39 e 43. 228 Cammarosano-Passeri, 1976, p. 306. 229 Angelucci, 1982, p. 128; Rocchigiani, 1983, p. 33. 230 Angelucci, 1982, pp. 128-129.

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giuramento con cui i conti e l’abate di S. Lorenzo al Lanzo si impegnavano a pagare un censo al comune di Siena. In tale atto compaiono Pari, Civitella, Belagaio, Montepescini, Castiglion della Farma, Petriolo, Tocchi, Capraia, S. Lorenzo a Merse, Stigliano, Rosia231. L’acquisizione di questo territorio sotto il dominio senese può dirsi ormai definitiva, anche se i conti manterranno in seguito vasti diritti patrimoniali nella zona.

Se questa era, a grandi linee, la geografia delle strutture di potere presenti sul territorio, molto problematica si presenta invece la situazione delle fonti documentarie ad esse relativa prima del XIII secolo. Sono andati perduti, infatti, gli archivi dei principali enti ecclesiastici della zona, il che significa che sono scomparsi tutti i filoni documentari di una certa consistenza in cui sarebbe stato possibile ricercare le più antiche attestazioni di strutture idrauliche eventualmente presenti nell’area232. è andato disperso l’archivio del monastero di S. Maria di Serena233, così come quello dell’Abbazia Ardenghesca234, è praticamente inaccessibile l’archivio vescovile di Volterra, manca la documentazione riguardante le abbazie di S. Eugenio e Torri235. Soltanto dalla seconda metà del XII sec. compare un filone documentario laico comunale, in cui sono reperibili notizie riguardo alla famiglia Ardengheschi nei suoi rapporti con Siena: si tratta della documentazione inserita nel Caleffo Vecchio, che comprende però solo atti di carattere pubblico relativi a guerre, paci, sottomissioni, mentre mancano i documenti privati, che sono i più preziosi per questo tipo di ricerca236. Invece gli archivi scomparsi delle fondazioni monastiche dovevano essere costituiti in prevalenza, come di regola, da atti di carattere privato concernenti donazioni, compravendite, permute, locazioni di vario genere di beni fondiari, ed è in questo tipo di fonti che si possono in genere riscontrare menzioni di strutture produttive come i mulini.

Il quadro così tracciato serve in gran parte per spiegare la mancanza di attestazioni scritte relative a strutture idrauliche, in questo ambito territoriale, precedentemente al XIII sec.: infatti la prima menzione a me nota risale all’anno 1209, quando quattro mulini ed una gualchiera sul Merse, in località Campora (Sito VII), vengono venduti ad un certo Burgundione di Dono di Luriano. Una prima attestazione nel XIII sec. appare decisamente tarda ed è improponibile pensare che in tutto il bacino del Farma e del Merse i mulini fossero assenti prima di tale epoca, soprattutto sulla base di considerazioni che riguardano la diffusione delle strutture molitorie in Toscana e nell’area senese. Infatti la presenza della tecnologia idraulica è ben documentata in aree geograficamente non lontane

231 Cfr. Cammarosano-Passeri, 1976, alle voci corrispondenti. 232 Paolo Cammarosano sottolinea più volte il fatto che praticamente tutta la tradizione scritta

antecedente al XII-XIII sec. si inquadra nelle maggiori strutture ecclesiastiche, né vi è speranza di individuare, nella pratica di ricerca locale e territoriale, un filone documentario di una qualche consistenza, se lo spazio che si indaga non è inserito nell’ambito di interesse di una chiesa importante o di un monastero, cfr. Cammarosano, 1991b, pp. 50-51, 53-54.

233 Ceccarelli Lemut, 1993, p. 61. 234 Angelucci, 1982, p. 119; Rocchigiani, 1983, p. 7. Solo alcuni atti sono sparsi in fondi vari,

conservati presso l’Archivio di Stato di Siena: un sondaggio effettuato su buona parte delle pergamene superstiti (conservate soprattutto nel Diplomatico, fondo S. Maria degli Angeli) non ha riscontrato alcuna attestazione di strutture idrauliche nel patrimonio del monastero; non si tratta, tuttavia, di atti privati, ma di atti ufficiali ed in particolare bolle papali, nelle quali si elencano castelli e chiese senza entrare in ulteriori dettagli riguardo alla consistenza del patrimonio abbaziale.

235 Un rapido e chiaro quadro dei pochi fondi documentari disponibili per tutta l’area senese prima del XIII sec. è delineato in Cammarosano, 1979. Essi riguardano quasi esclusivamente i monasteri di S. Salvatore all’Amiata, S. Salvatore a Fontebona nella Berardenga, S. Salvatore all’Isola, il Capitolo della Cattedrale di S. Maria di Siena. Dopo il 1140 si aggiungono gli atti raccolti nel Caleffo Vecchio. Solo con l’inizio del XIII sec. si verifica un nuovo incremento delle fonti ed una grande dilatazione qualitativa con la comparsa, ad esempio, dei primi registri notarili, degli archivi familiari privati, degli atti comunali di giurisdizione. Si veda ora anche, sulle fonti documentarie toscane, Ginatempo-Giorgi, 1996.

236 Angelucci, 1982, p. 119; in generale sul Caleffo Vecchio, v. Cammarosano, 1991a.

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dall’ambito territoriale qui trattato già molto prima del XIII secolo. Ad esempio alcuni molina sono attestati nella zona amiatina dal IX sec.237, diversi impianti molitori idraulici compaiono nel territorio della Berardenga nell’XI e XII sec.238, un mulino è presente tra i beni dell’abbazia di Abbadia a Isola nella seconda metà dell’XI239. In pratica si può dire che per tutti quei territori riguardo ai quali esiste documentazione precedente al XIII sec., sono rintracciabili anche menzioni di strutture molitorie idrauliche di pertinenza monastica o signorile240.

Nella nostra zona, dunque, le prime attestazioni relative a mulini cominciano solo con il comparire degli atti raccolti nei Caleffi di S. Galgano. è tuttavia possibile tentare di ricavare, anche dai documenti a nostra disposizione, alcuni indizi che permettono di retrodatare l’esistenza di impianti molitori idraulici nel bacino Farma-Merse almeno al XII secolo, ma forse anche più indietro. Già la notevole fioritura documentata nella prima metà del Duecento appare di per sé un po’ troppo improvvisa e sembra dipendere proprio dalla disponibilità di abbondanti fonti scritte solo a partire da questo periodo. Lo stesso documento del 1209, citato sopra, attesta la presenza, nella zona di Campora, di un complesso idraulico di notevole entità, già articolato in vari opifici con produzioni differenziate, che appare diviso in almeno 4 quote appartenenti a quattro diversi conti di Civitella, della casata ardenghesca241. Si tratta quindi di impianti di pertinenza signorile e possiamo supporre che siano stati divisi tra eredi, con vari passaggi di proprietà, in un arco di tempo forse non brevissimo.

È importante poi un documento del 1220, mediante il quale l’abate di S. Maria di Serena permuta con il monastero di S. Galgano alcune terre, situate nelle vicinanze di quest’ultimo e nei pressi delle località di Ticchiano e Campora, in cambio di metà delle terre “citra et ultra Mersam ubi constructa fuerunt molendina quondam Guaschi et construenda et rehedificanda sunt”242. è probabile, infatti, che ci si riferisca a mulini di pertinenza signorile, appartenenti un tempo ad un signore locale della famiglia dei Guaschi, consorteria dominante a Roccatederighi dalla seconda metà del XII sec. e attiva anche in questa zona243. è possibile che il signore avesse ceduto o donato all’abbazia le terre su cui sorgevano; l’accenno alla necessità di una riedificazione significa probabilmente che i mulini esistevano già da tempo ed erano andati in rovina: ciò potrebbe essere avvenuto in coincidenza con uno dei numerosi periodi di turbolenze che interessarono quest’area.

Facendo un ulteriore passo indietro, sempre a proposito del monastero di Serena, si può ricordare che nell’atto di fondazione del 1004, entro l’elenco dei beni donati, si citano espressamente i diritti su “pantaneis, piscareis, puteis, fontibus et rivis, et aquis, molendinis”244. Si tratta ovviamente di una formula fissa e di carattere generale, riferibile a tutti i possedimenti e castelli donati, dalla quale non si può trarre nessuno specifico riferimento a strutture esistenti nella zona qui indagata. Tuttavia essa costituisce certamente un indizio per ipotizzare che l’abbazia,

237 Farinelli, 1996, pag. 41 e sgg. 238 Valenti, 1988, pp. 87-88. 239 Cammarosano, 1993, doc. 41, p. 267. Un altro mulino nel 1188, ivi, doc. 96, p. 371. 240 Si tratta di fonti come il Cartulario della Berardenga, pubblicato in Cammarosano, 1974b, i cui atti,

rogati tra la seconda metà del IX sec. e gli inizi del XIII, hanno permesso l’individuazione dei mulini della zona chiantigiana, sorti dietro l’iniziativa del monastero di S. Salvatore a Fontebona. I mulini dell’Amiata compaiono nel Codex Diplomaticus Amiatinus, che raccoglie atti dal 736 al 1198 riguardanti il monastero di S. Salvatore (pubblicato da Kurze, 1974 e 1982). Infine si veda la recente pubblicazione del cartulario delmonastero di Abbadia Isola, con documenti datati a partire dal X sec. (Cammarosano, 1993).

241 Si veda la nota 320. 242 Si veda il Catalogo, Sito XX. 243 Cammarosano-Passeri, 1976, p. 367: agli inizi del ‘200 Roccatederighi era detta Rocca filiorum

Guaschi, dal nome della consorteria dominante. Nella seconda metà del ‘200 alcune fonti documentano rapporti litigiosi col vescovo di Volterra per diritti giurisdizionali sul castello di Montecastelli, tra Radicondoli e Pomarance, mentre alla metà del secolo vi sono scontri col comune di Massa.

244 Cfr. la trascrizione del documento in Ceccarelli Lemut, 1993, p. 72.

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fondata su un colle proprio sulle sponde del fiume Merse e dotata di ampi diritti sulle acque, nel momento di sua massima prosperità probabilmente fosse in possesso di strutture molitorie dislocate nelle vicinanze.

Un’ultima notazione a proposito dell’abbazia di Torri: in un documento del 1245, relativo all’accordo tra il monastero ed il comune di Siena per l’edificazione di mulini sul Merse, di cui tratteremo in seguito, si accenna a diversi impianti molitori, già in precedenza in possesso dell’abbazia sullo stesso fiume. Da questo non si ricava, ovviamente, una cronologia, ma ancora una indicazione, sulla base della quale sembra probabile che l’inizio della politica di sfruttamento delle acque, da parte di questo ente monastico, risalga almeno al XII secolo, cioè al momento di sua maggiore potenza politica ed espansione economica e territoriale.

3.2. L’ABBA ZIA DI SAN GALGA NO

Qualsiasi ricerca svolta su un ambito territoriale al cui interno era presente una filiazione di Citeaux, è quasi inevitabilmente soggetta ad approfondimenti riguardo al come, in base ai dettami della regola cistercense, si sfruttarono le risorse esistenti sul territorio e come, nel modo tipico di questo ordine, si procedette all’organizzazione della proprietà fondiaria. Nel caso particolare di una indagine come questa, poi, il tentativo di verificare l’esistenza o meno, nell’area in questione, del binomio ‘sfruttamento delle acque-monaci cistercensi’, riscontrabile spessissimo in tutte le zone di diffusione dell’Ordine245, si prefigurava fin dall’inizio come uno dei punti cardine della ricerca, anche in considerazione del fatto che la maggior parte dei documenti esaminati proviene dai cartulari dell’abbazia di S. Galgano.

Le linee generali delle soluzioni adottate dai Cistercensi in fatto di gestione della proprietà fondiaria e delle strutture produttive sono ormai sufficientemente conosciute a livello europeo, così da non richiedere più di qualche rapido accenno in questa sede. Si tratta, infatti, di tendenze ben note, che vanno dalla reazione al monachesimo cluniacense ormai lontano dalle istanze originali al rifiuto di privilegi e diritti di signoria territoriale, dal divieto di acquisizioni di decime, rendite, mulini ed ogni fonte di reddito non derivante dal proprio lavoro all’organizzazione del sistema delle grange, dalla ricerca di autosufficienza in luoghi spesso molto isolati all’impiego di una forza lavoro costituita dai conversi246. Tutti questi aspetti sono stati oggetto di numerose indagini storiografiche e sono ormai ben conosciuti, così com’è nota e ben assodata una tendenza che a noi particolarmente interessa: la specializzazione dei monaci bianchi in materia di regolamentazione e sfruttamento delle acque, ed il successo che l’applicazione delle tecnologie idrauliche ottenne presso questo ordine, in misura che sembra spesso nettamente maggiore rispetto ad altri ordini monastici che pure si erano in precedenza applicati in questo campo. Basterà sottolineare qui l’evoluzione che subì l’atteggiamento cistercense proprio nei confronti degli impianti molitori: dopo la proibizione iniziale, sancita dalla Regola, di possedere mulini, alla metà del XII sec. veniva concesso di prenderli in affitto, agli inizi del XIII si proibiva di costruirli o acquistarli (segno di una tendenza in atto in tal senso), nel 1215 si concedeva di riceverli in dono, con una progressiva inversione di tendenza, che trasformò “l’iniziale reticenza anche nei confronti dei mulini che venivano offerti ai monaci”, in quella che, a metà XIII sec., si può ormai definire “una sorta di predilezione che l’ordine manifestava sempre più per questo genere di impianti”247

A proposito delle abbazie cistercensi si è spesso posto l’accento sul fatto che molte delle

245 Riguardo al ruolo svolto dai Cistercensi, in ambito europeo, nello sfruttamento delle potenzialità idriche e nella diffusione dei macchinari idraulici, v. sopra, par. 1.2 e Cap.III, par. 1.1.

246 La bibliografia su questi argomenti è vastissima: si vedano soprattutto il saggio di Comba, 1985 e tutto il volume L’économie cistercienne, 1983, in particolare i saggi di Barri’re, Comba, Chauvin, Higounet. Si veda anche l’ampia bibliografia raccolta in Righetti Tosti-Croce, 1993a e 1993b.

247 Pirillo, 1989, pp. 25-26.

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prime fondazioni si impiantarono su terre marginali, talvolta ancora disabitate e difficili da far fruttare248; per questi territori è talvolta ipotizzabile che i monaci, iniziandone per primi lo sfruttamento, abbiano importato nuove tecnologie, soprattutto nel campo idraulico. Ma, come sempre, bisogna guardarsi dal generalizzare e si deve piuttosto tener conto proprio delle peculiari coordinate geografiche, politiche, economiche e demografiche entro cui ciascun monastero si sviluppò. è noto, infatti, che molte delle filiazioni più tarde frequentemente fiorirono in territori ove la rete del popolamento ed il sistema di utilizzazione delle risorse costituivano da tempo una solida realtà, e di sicuro non nel bel mezzo di un deserto249. è senza dubbio questo il caso di S. Galgano, eppure anche stavolta, secondo una caratteristica comune agli insediamenti cistercensi sparsi in tutta Europa, la fondazione del monastero avvenne entro un paesaggio che sembra presentare caratteri tipici: profondi profili vallivi, vasti boschi, aree paludose e soprattutto l’essenziale presenza nelle vicinanze di un consistente corso d’acqua, il fiume Merse250.

Vista la morfologia del luogo, è probabile che anche la pianura sottostante al colle di Monte Siepi, circondata dal fiume Merse e dai fossi Gallessa e Righineto, sia stata in parte paludosa al momento della fondazione del primo cenobio. è quindi ipotizzabile che i monaci, prima di intraprendere l’edificazione della chiesa maggiore, abbiano provveduto alla sistemazione idrica dei terreni pianeggianti ai piedi del Monte Siepi, sui quali doveva sorgere la grande abbazia251. Sappiamo, ad esempio, che essi avevano scavato un fossato di drenaggio che, passando sotto al

248 A questo proposito v. ad es. Lekai, 1989, p. 341. Sul ‘mito’ dei Cistercensi dissodatori e solitari protagonisti della storia agraria medievale si vedano le osservazioni di Righetti Tosti-Croce, 1993a, p. 858, ove si sottolinea come non si debba né estrapolare l’azione colonizzatrice dei Cistercensi dal contesto storico dell’Europa tra XII e XIII sec., sopravvalutando il loro contributo, né d’altro canto opporsi a questa eccessiva considerazione sottovalutando in modo altrettanto errato la loro azione.

249 Si vedano le osservazioni di Comba, 1988, p. 21, a proposito dell’alto grado di adattabilità, nell’esperienza cistercense, a diverse situazioni sociali e politiche e della contraddittorietà implicita nella compresenza di una aspirazione a vivere nel desertum e di una forte attrazione, ad esempio, verso le città.

250 La geografia dell’insediamento cistercense, è noto, sceglie di preferenza siti di fondovalle in cui l’acqua sia abbondante, o zone paludose situate in aree spesso poco invitanti. Inizialmente ciò rispondeva alla ricerca del desertum, ossia del luogo in cui, secondo le prescrizioni della Regola, l’unico mezzo di sussistenza consisteva nel lavoro manuale dei monaci per la bonifica delle terre di cui disponevano; tuttavia in seguito la ricerca di luoghi con abbondanti risorse idriche sembra rispondere a ragioni soprattutto economiche. è innegabile che in tutta Europa fossero quasi sempre luoghi molto ricchi d’acqua ad attirare i monaci bianchi per le loro fondazioni: può darne un’idea anche solo l’esame dei toponimi col continuo ricorrere in essi dei termini “valle”, “fonte”, “acqua” (cfr. Righetti Tosti-Croce, 1993a, p. 39). Per questo tipo di insediamento sono numerosi gli esempi anche in Italia e ne citerò solo alcuni per il settentrione della penisola, zona particolarmente studiata: Chiaravalle Milanese (cfr. Chiappa Mauri, 1985, p. 264; Chiappa Mauri, 1990, p. 65 e sgg.), S. Maria di Lucedio (Bellero, 1985, p. 337), Morimondo (Occhipinti, 1983, Occhipinti, 1985); in generale sulle abbazie cistercensi del nord Italia v. Comba, 1983.

251 Essa appare per la prima volta almeno già in parte edificata nel 1224, quando si nomina l’Abbatiam novam Sancti Galgani, v. Canestrelli, 1896, p. 69.

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dormitorio del monastero, andava dal fonte Righineto fino al Merse252. Nel 1242, inoltre, il vicario imperiale presso il comune di Chiusdino concesse ai monaci di prendere acqua dalla sorgente Righineto, di condurla fino agli edifici del monastero e costruire per proprio uso una fonte, a condizione, peraltro, che questa restasse aperta anche per comodo dei viandanti253. Del resto, lo stato di degrado della situazione idrologica in cui ripiombarono i terreni nei pressi dell’abbazia quando essa era ormai da tempo abbandonata, salta subito agli occhi leggendo la testimonianza del Targioni Tozzetti, il quale descrive la propria visita alle rovine del monastero nel 1742254. Oltre che della sistemazione idrica nelle aree immediatamente adiacenti all’abbazia, i monaci di S. Galgano, più o meno nello stesso periodo, si occupavano della bonifica anche in zone più lontane: ad esempio nel 1229 erano impegnati a rendere coltivabile l’area impaludata che si trovava lungo il medio corso del Feccia, alla confluenza con il torrente Cona, prosciugandola mediante lo scavo di un canale di drenaggio255. Una prospezione archeologica nella zona del Pian di Feccia, ha poi individuato tracce di canalizzazioni artificiali e dell’uso di strutture lignee, che i ricercatori attribuiscono all’intervento dei monaci, per controllare l’erosione degli argini e forse anche come peschiere256.

Se da un lato l’abbondanza di acque nella zona creava qualche problema ai monaci in fatto di regimentazione, dall’altro lato non dovevano sfuggire loro i vantaggi che poteva offrire la vicinanza di fiumi o torrenti, ed in particolare del Merse, oltre che per l’irrigazione, soprattutto come forza motrice per i mulini e le officine del monastero. Abbiamo visto che mulini nella zona esistevano già e che non furono certo i monaci bianchi ad introdurre in quest’area la tecnologia idraulica; tuttavia è da rilevare il modo in cui i Cistercensi di S. Galgano adottarono e sfruttarono mezzi già noti: in un momento in cui le macchine idrauliche toccavano il massimo della diffusione e cresceva la domanda di poterne usufruire, essi cominciarono ad investire in modo massiccio in questo settore,

252 Ivi, p. 71 e doc. XXXVIII: l’esistenza di questo fossato viene citata in un documento del 1244, quando alcuni uomini di Monticiano cedono all’abate Forese tutti i diritti sui terreni, boschi, case e vignecompresi tra il fonte Righineto, il Gallessa, il Merse e “sicut trahit fossatum quod est subtus dormitorium monachorum SanctiGalganiusque ad fontem de Righineto usque ad flumen Mersem”. La presenza dell’acqua, infatti, che in molte fondazioni cistercensi aveva una importanza determinante nella sceltadel sito, condizionava anche la disposizione degli edifici all’interno del monastero; infatti nelle abbazie cistercensi la posizione del chiostro variava talvolta rispetto alla chiesa, in seguito all’esigenza di innalzare quest’ultima nel punto più alto del complesso monastico e poter convogliare le acque di scolo di cucina, refettorio,lavandini e servizi in una fogna che scaricava lontano dalle abitazioni dei monaci e dei conversi.A tale proposito si vedano le piante di varie abbazie in Canestrelli, 1896, pp. 80 e sgg., dalle quali si osserva chiaramente che il chiostro si trovava sempre sul lato della chiesa verso il quale si dirigeva lo scorrimento delle acque, nel caso di S. Galgano a sud. Numerosi esempi, italiani ed europei, di complessi sistemi di canalizzazione finalizzati sia allo smaltimento che all’adduzione delle acque sono illustrati in Righetti Tosti-Croce, 1993a, p. 39 e sgg.: essi costituiscono una costante delle abbazie cistercensi ed in molti casi (Fossanova, Maubisson, Royaumont, Fountains, Rielvaux, Tre Fontane ecc.) sono opere architettoniche di eccezionale rilievo. In certi monasteri, come a Senanque, l’esigenza di regolamentare lo scolo delle acque prevalse persino sull’orientamento della chiesa (Farina-Vona, 1988, p. 252). Di tutte queste esigenze si teneva conto durante l’ispezione previa del sito, in un primo momento affidata all’abate ed in seguito ad una commissione d’inchiesta, composta da 2 o 3 abati, secondo le disposizioni del 1267 (ivi, p. 245).

253 Canestrelli, 1896, p. 71. 254 Targioni-Tozzetti, 1768-1779, IV, p. 27: “Conviene però credere che anticamente questo soggiorno

non fosse insalubre, perché le rovine della Badia fanno conoscere che essa era piuttosto una mezza città che una Badia” ma adesso “la umidità dell’aria rende la chiesa impraticabile [...] le pareti sembrano muffate, l’intonaco è tutto corroso”.

255 Barlucchi, 1991, p. 73 e nota 30: l’area di impaludamento, nel 1228, aveva il nome di Melma di Filicaia; nel 1229 i monaci, ormai proprietari di vari appezzamenti a valle dell’impaludamento, ottennero il permesso dal proprietario del luogo di costruire una chiusa ed un canale per far defluire le acque. In un documento del 1233 ancora compare la Melma di Filicaia, ma nella seconda parte del secolo rimane solo il toponimo Milmone (1270); nella Tavola delle Possessioni non si riscontra più neanche il toponimo. Si veda anche Barlucchi, 1992, pp. 56-57.

256 Gilbertson-Hunt-Redon, 1987, p. 404.

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mostrando fin dall’inizio un forte interesse verso l’acquisto di quote-parti, la riparazione o l’edificazione ex novo di una grande quantità di mulini. Già nel 1216 il privilegio del vescovo Pagano Pannocchieschi, una delle prime importanti concessioni al monastero, dà larghissimo spazio al trasferimento ai monaci di diritti sulle acque in connessione con i mulini dell’abbazia. Si concede, infatti, “plenam facultatem integraliter et totaliter faciendi et construendi aque ductus per terram nostram et episcopatus et per terram nostrorum hominum ubicumque est, et reperiri poterit in loco et vocabulo quod dicitur Campora et pro aliis molendinis nobis sub ipsis positis et pro aliis molendinis veteribus et construendi ac ponendi steccatas, goras, fiutos pro tempore necessario infrascriptis molendinis presentibus et futuris in perpetuum infra dictas terras nostras et terras nostrorum hominum”257; si specifica, tra l’altro, che tale concessione viene fatta dietro richiesta dell’abate Giovanni. Del resto, già nel 1209 un diploma dell’imperatore Ottone IV aveva confermato tutti i possedimenti ricevuti in dono precedentemente dall’abbazia “cum pascuis, nemoribus, silvis, terris, cultis et incultis, aquis, aquarumque decursibus”258. I diritti sulle acque che scorrevano nelle terre del monastero passarono quindi, dalla giurisdizione imperiale e vescovile, sotto il controllo diretto dei monaci ed è chiaro che questi atti ufficiali potevano servire al monastero per far valere la propria volontà nelle eventuali successive dispute in proposito259.

Bisogna notare, inoltre, che proprio nel privilegio del 1216 viene citato il mulino ai piedi del Monte Siepi, identificabile con il Mulinaccio (Sito 10 UT 1), con la definizione molendinum vetus Sancti Galgani: ciò significa che fin dai primissimi anni di esistenza del monastero, forse prima ancora di iniziare l’edificazione dell’abbazia maggiore, i monaci avevano provveduto a costruire quello che sembra essere stato, o che comunque divenne, uno dei più importanti impianti molitori di tutta la Val di Merse.

È possibile individuare una fase iniziale di acquisti di mulini nel primo trentennio di esistenza dell’abbazia, rivolta soprattutto all’area più vicina al monastero, cioè l’alta Val di Merse. In questo periodo i monaci, impegnati nella creazione di un patrimonio fondiario in Maremma e nelle Masse di Siena, in tale zona si dedicano soprattutto all’ampliamento della proprietà di Ticchiano260, all’acquisto di particelle di terreno lungo il Merse e appunto ai mulini. Come abbiamo visto, nel

257 V. Catalogo, Sito VII. 258 Canestrelli, 1896, p. 118, doc. VIII. 259 Il problema dei diritti sulle acque è argomento vasto e di non facile trattazione in una semplice

parentesi, in quanto la situazione giuridica subì sostanziali trasformazioni attraverso un ampio arco cronologico e presentò aspetti diversi nelle varie aree geografiche, a seconda della situazione politica e sociale che in ciascuna di esse si andava creando. Limitandoci ad accennare solo alle linee generali della questione, possiamo ricordare che, dopo il periodo altomedievale, durante il quale le acque non dovevano aver perso del tutto quella connotazione di res publica che le aveva caratterizzate nel periodo romano, a partire dal X sec., come gli altri iura regalia, finirono per essere allodializzate, donate, concesse, usurpate, nel generale fenomeno di frantumazione del potere centrale. Re e imperatori, cui teoricamente spettavano ancora queste prerogative, fecero concessioni sempre più ampie in primo luogo ai vescovi, ma sempre più spesso anche ai signori laici. In questa situazione l’uso delle acque e l’impianto di mulini divennero elementi costituenti il banno del signore e tratti di fiumi poterono essere patrimonializzati o considerati pertinenza dei terreni rivieraschi. Dal XII sec., inoltre, lo sviluppo delle comunità rurali determinò talvolta una appropriazione dei diritti di uso dei beni comuni e delle acque in particolare. Al 1158 risale il tentativo di Federico I di riaffermare la demanialità delle acque sottraendole al dominio privato; si trattò di un tentativo effimero, in quanto nel 1183 i comuni urbani, la nuova forza che dal XII sec. era entrata nel gioco, ottennero dall’imperatore una generica regalia sulle acque e cominciarono a tentare di imporvi il proprio controllo. Ma sulla politica comunale torneremo in seguito. Per una trattazione più approfondita di questo argomento si rimanda a Dussaix, 1979; Chiappa Mauri, 1984 pp. 24-25, 101 e sgg.; Chiappa Mauri, 1990, pp. 133-134; Balestracci, 1992.

260 Sulle vicende della formazione del patrimonio di S. Galgano, oltre a Canestrelli, 1896, si veda soprattutto Barlucchi, 1991.

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1216 è già stato edificato il Mulinaccio261, tra 1216 e 1223 viene ampliata la proprietà dei quattro mulini di Campora262, nel 1220 si effettua l’acquisto di altre due strutture, di cui una da ricostruire, situate sempre in zona sul Merse, che non è stato però possibile identificare con precisione263. Inoltre abbiamo visto in precedenza che, sempre nel 1220, il monastero era in possesso delle terre su cui sorgevano i mulini diruti detti quondam Guaschi; non sappiamo quando e in che modo queste strutture erano finite nelle sue mani, ma vediamo che in tale anno si preferisce cederle all’abbazia di Serena - forse perché piuttosto decentrate verso monte - in cambio di beni più vicini situati a Ticchiano, proprietà il cui ampliamento, come già accennato, è oggetto di particolare cura da parte dei monaci in questo periodo.

È piuttosto evidente che tutta l’area dell’alta Val di Merse stava attraversando in quegli anni un periodo di forte espansione economica, testimoniata da numerose fonti264, ed è probabile che tale clima di mobilità abbia favorito il monastero nei suoi investimenti. Scopo principale di questo gruppo di operazioni sembra quello di ottenere il controllo sulle strutture molitorie dislocate nelle vicinanze dell’abbazia, eliminando di fatto la proprietà privata che esisteva in precedenza; ciò garantiva, come vedremo in seguito, la copertura del fabbisogno interno del monastero, ma costituiva anche un primo passo verso un tentativo di monopolio sulla molitura lungo un tratto consistente del fiume principale. Per allargare il quadro su questa prima fase di investimenti dell’abbazia in mulini, è opportuno ricordare che, al di fuori della nostra zona, il monastero prendeva l’iniziativa anche in Maremma, costruendo alcune strutture molitorie nei possedimenti di Ischia d’Ombrone intorno al 1227-1228265.

Una seconda serie di acquisti, sempre in alta Val di Merse, si svolse poi dopo la metà del XIII secolo, talvolta approfittando delle occasioni favorevoli rappresentate dalle difficoltà finanziarie di comuni ed altri enti ecclesiastici. Tali acquisti andarono avanti fino ai primi decenni del Trecento: il monastero entrò in possesso di un mulino sul Frelle presso Frosini266 e sul fiume Merse acquistò quote dei mulini di Ripetroso 267, Lupinari 268, Campo

261 Sito 10 UT 1: nel 1216 si parla della “planities montis qui dicitur Seppi ad pedes cuius montis ab orientali parte est situm suprascriptum molendinum vetus Sancti Galgani cum planities sibi pertinenti”. Nel 1223 il monastero vende per 500 lire senesi, con varie convenzioni, metà dell’impianto ad un consorzio di privati (ma su questo episodio torneremo in seguito). Da questa vendita derivò una lite che si protrasse tra il 1246 ed il 1249, fino al pronunciamento, a favore dell’abbazia, sia del rettore del castello di Monticiano che del podestà di Siena, da cui si capisce che la proprietà intera del mulino era tornata all’abbazia.

262 Sito VII: dal privilegio del vescovo Pagano del 1216 si ricava che essi appartenevano, almeno in parte, al monastero; nel 1218 si parla della “gora cum steccaria quattuor molendinorum et unius gualcherie dicti monasterii”; nel 1221 Bonifazio di Guido, conte di Civitella, dona all’abbazia tutti i diritti e lo ius decimarum sui mulini di Campora; nel 1223 se ne acquistano altre quote da Ildibrandino di Ugo Turacci e da Burgognone di Novellino da Luriano. Da questo momento non si hanno altri contratti riguardanti tali strutture, segno che probabilmente esse erano ormai totalmente nelle mani del monastero.

263 V. Catalogo siti XIX e XXI: nel 1220 Bernardo di Ranieri di Ticchianello vende al monastero la terza parte di una terra in località detta “Molendinum Bernardesarum” allo scopo di costruirvi e riedificarvi un mulino. Nel 1223 Rutifredo Bonaccorsi vende al priore del monastero dei mulini sul Merse chiamati “molendina Bonacorsi”.

264 Cfr. Barlucchi, 1991, p. 99. 265 In parte anche nel 1247, cfr. Barlucchi, 1991, p. 88. Nel 1227 Pepo, vescovo di Grosseto, cedette il

distretto di Ischia all’abbazia di S. Galgano con la facoltà di costruirvi alcuni mulini, che risultano terminati nel 1229, e suddivisi a metà tra il monastero ed il vescovo grossetano, cfr. Canestrelli, 1896, p. 29.

266 Sito 19: nel 1245 ne acquista la metà appartenente alla vicina pieve di S. Giovanni al Monte, gravata dai debiti; nel 1270 il monastero risulta in possesso di 3/4 del mulino.

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Buolichi e Gonfienti269. Agli inizi del XIV sec. risulta inoltre essere proprietario di un mulino sul Farma presso Moverbia270, e di un mulino a due palmenti sul Feccia, inserito in una proprietà immobiliare di grande valore all’interno della grangia di Valloria271.

Questa volta il monastero non prende l’iniziativa di costruire nuovi impianti, ma acquista quote sempre maggiori di tutti i mulini documentati nella zona, scalzando sia la proprietà privata laica, che quella di altri enti ecclesiastici, che quella collettiva della comunità di Monticiano. Alla conclusione di questa fase, possiamo dire che il monastero possiede la maggior parte degli impianti molitori in tutta l’area di Frosini, Chiusdino e Monticiano. è probabile che i monaci stessero tentando di instaurare un vero e proprio monopolio sulla molitura della zona, anche se non è detto che il tentativo sia riuscito. Questa ipotesi è a mio avviso confermata da un episodio avvenuto nel 1337: il Capitolo dei monaci, per impedire al comune di Monticiano di costruire un mulino per uso degli abitanti in località Gonfienti (dove già esisteva un impianto di proprietà del monastero, che a quanto pare ne sarebbe stato danneggiato), decise all’unanimità di acquistare da un tal Ranieri di Cenni di Siena un appezzamento di terreno, sul quale sarebbe dovuta passare la gora del nuovo mulino, impedendo in questo modo l’edificazione della struttura stessa272.

Per quanto riguarda invece la bassa Val di Merse, dai Caleffi risulta che i Cistercensi si affacciarono in questa zona relativamente tardi, con una politica di investimenti concentrati tra gli anni ‘60 e ‘90 del XIII secolo273. Questa volta il loro intervento si limitò all’acquisizione di quote via via crescenti della proprietà di mulini che già esistevano, senza mai prendere l’iniziativa di costruirne di nuovi. Anche in questo caso, talvolta si approfittò dei problemi economici dei precedenti proprietari. Il monastero investì ingenti capitali nei mulini del Palazzo274, del Pero275, di Serravalle 276, de Saxis 277, de Volta 278, delle Guazzine Vecchie e Nuove 279, di Petriera 280 e

267 Sito V: nel 1249 il comune di Monticiano ne deve cedere una parte all’abbazia in seguito ad una sentenza sfavorevole nella lite riguardante un altro impianto molitorio (Sito 10 UT 1); nel 1276 il monastero ne acquista 4 /24 e mezzo sempre dal comune afflitto dai debiti e nello stesso giorno altre 2 parti e mezzo dagli Eremitani di Camerata, che le hanno a loro volta acquistate dal comune, ma hanno difficoltà a pagarle. Nel 1280 si acquista 1/18 da Contessa di Ottinello, nel 1303 una parte non specificata da due maestri di legna, nel 1317 probabilmente ancora un ventiquattresimo.

268 Sito IVa: nel 1276 se ne acquistano quattro parti e mezzo su 24 dal comune di Monticiano e nello stesso giorno altre 2 parti e mezzo dagli Eremitani di Camerata, che le hanno acquistate dal comune, v. la nota precedente.

269 Sito IIIb: nel 1280 1/18 è venduto da Contessa di Ottinello; nel 1337 è ancora di proprietà del monastero.

270 Sito 7: nel 1304 viene concesso in affitto ad un abitante del Belagaio. 271 Sito XIII: si tratta dell’unico mulino documentato sul Feccia; nella seconda metà del XIII rientra tra i possessi dell’abbazia,

nel 1318-20 appartiene ancora interamente a S. Galgano e fa parte di una proprietà composta da sei case con vari annessi delvalore complessivo di 3721 lire.

272 Cfr. Catalogo, Sito IIIa. Non possediamo il documento originale ma uno spoglio molto particolareggiato in cui si legge che il nuovo mulino sarebbe stato edificato “in danno del detto monastero” e che il Sottopriore “propose che si comprasse detto pezzo di terra per il prezzo di sopra (50 lire senesi) acciò venisse impedita la fabbrica di detto mulino, alla qual proposta acconsent” il detto Capitolo e monaci, giudicandosi tal compra utilissima per il detto monastero”.

273 Barlucchi ha calcolato che soltanto negli anni 1256-60 l’abbazia investì nei mulini di questa zona la notevole somma di 7325 lire, cfr. Barlucchi, 1991, p. 102.

274 Sito 17. Nel1258 ilmonastero, insieme a tre privati, acquista l’intero mulino dal comune di Siena: la quota acquistata dal monastero corrisponde ai 4/5 della metà; nel 1262 l’abbazia risulta ancora in possesso di 4 parti su 9 totali; nel 1273, con due contratti distinti, acquista 4/8 di altre 4 quote del mulino; nel 1289, per dirimere una lite sorta col monastero di S. Eugenio a proposito del mulino di Petriera, i due impianti molitori vengono messi integralmente in comproprietà. Nel 1318 il monastero di S. Galgano è ancora in possesso di 1/4 della struttura.

275 Sito 15: nel 1258 il monastero, insieme a tre privati, acquista la metà appartenente al comune di Siena (l’altra appartiene all’abbazia di Torri) dei mulini del Pero e Serravalle (oltre che quello di Palazzo, cfr. nota precedente); nel 1260 acquista dai propri soci altri 5/18 del mulino del Pero.

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di Foiano281. Sempre per allargare il quadro, si può ricordare che in questo periodo, al di fuori della nostra zona, il monastero appare impegnato in una lunga vertenza con la pieve di S. Gimignano, a proposito del possesso di tre mulini e quattro gualchiere sull’Elsa, nei pressi di Villa Castelli282; possiede inoltre, presso l’Abbazia Ardenga, alcune quote in comproprietà di mulini sul fiume Ombrone283.

In sintesi si può dire che il monastero di S. Galgano è praticamente onnipresente, sia come unico proprietario che in compartecipazione con altri, negli impianti molitori della nostra zona per tutto l’arco del XIII secolo e parte del XIV. In questo senso credo che anche per questa abbazia si possa parlare dell’attuazione di una strategia economica volta all’acquisizione del controllo sul maggior numero possibile di strutture produttive284. è da notare, infatti, il dinamismo che caratterizza le operazioni finanziarie del monastero, il quale diversifica i propri investimenti distribuendoli su una quantità davvero impressionante di strutture molitorie. Colpiscono, soprattutto, la capacità di approfittare immediatamente delle difficoltà economiche dovute all’accumularsi dei debiti che affliggevano altri proprietari per accaparrare quote di mulini in cambio di denaro liquido, e la spregiudicatezza con cui il monastero riesce a trarre vantaggio dalle

276 Sito 16: v. la nota precedente, a. 1258; inoltre nel 1280 il monastero acquista da Viviano di Pandolfino due parti del mulino.

277 Sito 5: nel 1288, i monaci acquistano la metà dei mulini e della gualchiera situati in questa località dall’abate di Torri che si trovava indebitato presso usurai; nel 1318 il monastero risulta ancora in possesso di 1/3 della struttura.

278 Sito XVI, nel 1288 si acquista la metà di questa struttura dall’abbazia di Torri, v. nota precedente. 279 Sito XII: nel 1256 se ne acquistano alcune quote da Bartolomeo di Pietro, nel 1266 altrettante da

Tommaso di Pietro (nel primo caso di tratta forse di una falsa vendita). 280 Sito X: il mulino, appartenente all’abbazia di S. Eugenio, nel 1289, per risolvere una lite, viene

messo in comproprietà col monastero di S. Galgano ed i suoi soci, insieme al mulino Palazzo. Nel 1290 il monastero di S. Galgano ne acquista ancora 1/4 e nel 1318 risulta in possesso della medesima quota.

281 Sito XI: nel 1271 il monastero ne compera 1/3 da alcuni membri della famiglia Incontri, affiancato nelle operazioni di acquisto dall’Opera Metropolitana. Seguono diversi e complicati contratti riguardanti l’affitto o l’acquisto di parti del mulino, alcuni dei quali mascherano senza dubbio dei prestiti su pegno fondiario, che coinvolgono alcuni membri della famiglia Bonsignori ed altri privati loro soci. Nel 1305 il monastero è ancora in possesso di 1/3 della struttura, mentre nel 1318 essa risulta spartita esattamente a metà con l’Opera di S. Maria.

282 Si vedano Canestrelli, 1896, pp. 31-32 e Barlucchi, 1991, p. 91. Uno di questi mulini fu acquistato, in comproprietà col comune di S. Gimignano, con varie operazioni a partire dal 1274; il secondo fu costruito in comproprietà col comune stesso dopo il 1281; un terzo mulino apparteneva per intero al monastero (acquisto nel 1281). Il possesso dei beni e dei mulini da parte del monastero di S. Galgano fu più volte contestato, con varie molestie, dal Capitolo della pieve, che arrivò ad accusare i monaci cistercensi dell’omicidio di un dipendente della pieve e ne approfittò per confiscare i beni di Villa Castelli; nel 1290 la causa fu portata davanti al pontefice Niccolò IV, che riconobbe innocenti i monaci ed ordinò che i beni confiscati fossero restituiti, il che avvenne solo nel 1296.

283 Canestrelli, 1896, pp. 28-29. 284 Qualcosa del genere avviene ad esempio, sempre verso la metà del XIII sec., per i mulini

dell’abbazia di S. Salvatore all’Amiata: diversi impianti molitori esistevano nei territori sottoposti al monastero già molto tempo prima dell’arrivo dei Cistercensi, ma erano stati in parte venduti, in parte affittati a privati; invece, alla metà del XIII, l’abate Manfredi, nel suo tentativo di restaurazione, cercò di riprendere il controllo sui mulini ricomprandone alcune parti e approfittando delle occasioni favorevoli, nate da controversie, per confiscarne altre (cfr. Redon, 1982, pp. 117-119).

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controversie scoppiate con i propri stessi soci nella proprietà285. Ma quali furono le motivazioni che indussero i monaci ad una operazione che, tra acquisti e

spese di costruzione, assorbiva somme ingentissime? La questione non è semplice e non prevede una sola risposta. Per le primissime campagne di investimenti, infatti, si può ancora pensare che il motivo principale fosse la necessità di disporre di impianti destinati alla trasformazione dei prodotti delle grange, da gestire in proprio e per i fabbisogni interni del monastero, con costi di conduzione praticamente inesistenti grazie alla manodopera dei conversi. Ma a partire almeno dagli anni ‘20 del XIII secolo, i massicci investimenti del monastero in mulini ed altri opifici idraulici non si spiegano più, se non si tiene conto del sempre maggiore orientamento dell’Ordine verso l’ottenimento di rendite fisse da parte di utenti esterni, e della partecipazione dell’abbazia ad attività commerciali nei mercati rurali ed urbani286. Che l’attività dei mulini posseduti da S. Galgano nella bassa Val di Merse fosse rivolta essenzialmente alla lavorazione per conto di terzi e non alle esigenze del monastero, lo dimostra il fatto che una caratteristica comune della proprietà dell’abbazia in quest’area è l’esiguità dei terreni circostanti i mulini, appena pochi ettari287.

È stato sottolineato come il periodo tra la metà del XIII sec. ed i primi decenni del XIV sia un momento d’oro per chi è in grado di gestire un mulino e come l’investimento in questo settore, con l’apertura agli utenti esterni, rappresenti la prima risposta al crescente fabbisogno della popolazione del contado, ma soprattutto della città in piena espansione. La domanda di cereali panificabili era molto alta e, nel caso di una gestione diretta degli impianti, il prelievo di una quantità fissa di farina o di grano come quota per la macinazione preservava anche dall’eventuale svalutazione della moneta288. Le precedenti considerazioni possono spiegare il fatto che S. Galgano continui ad investire capitali in mulini anche nell’ultimo ventennio del XIII sec. e nel primo del XIV, quando comincia ad attraversare una profonda crisi finanziaria289. Infatti la macinazione del grano era ancora un ottimo affare, le cui alte rendite erano preziose per le casse dell’abbazia, e tale attività non aveva ormai che in minima parte a che vedere col fabbisogno interno del monastero, ma si era diretta soprattutto alle esigenze della città di Siena. Basti solo pensare che proprio S. Galgano fu uno degli acquirenti che subentrò al comune cittadino nella proprietà dei mulini del Pero, Serravalle

285 Si veda il caso eloquente del Mulino Vecchio (Sito 10 UT 1): nel 1223 il monastero ne vende la metà ad un gruppo di mercanti, probabilmente a causa di necessità contingenti (si pensi ad esempio alla costruzione, in questo lasso di tempo, dell’abbazia maggiore). Nel 1249, in seguito ad una lite coi comproprietari, il monastero, appoggiato dalle autorità senesi, rientra in possesso dell’intera struttura; non solo: il podestà di Siena impone alla comunità di Monticiano di cedere al monastero una quota del mulino di Ripetroso, come risarcimento delle perdite di guadagno conseguite alla proibizione, imposta dal rettore del castello agli ex-soci dell’abbazia, di portare grano a macinare nei mulini del monastero.

286 È questo un fenomeno riscontrabile non soltanto qui, ma di portata generale: si vedano per un confronto le osservazioni di Comba, 1985, pp. 256-257, a proposito delle abbazie cistercensi nel milanese. è probabilmente in questa tendenza che, anche a livello europeo, va individuato il fattore scatenante di quella “bulimia d’acquisto” (v. sopra, par. 1.2) nei confronti dei mulini, verificatasi a partire dai primi decenni del XIII secolo anche nelle abbazie che già da molto tempo avevano iniziato lo sfruttamento delle acque.

287 Barlucchi, 1991, p. 93. 288 Si vedano le osservazioni di Pirillo, 1989, p. 31. Anche in Chiappa Mauri, 1984, pp. 24 e sgg. si fa

notare che tanto più è vicina o perlomeno facilmente raggiungibile la sede di un grande mercato urbano, tanto maggiore è l’accanimento con cui gli enti ecclesiastici liberi di accedere al mercato cittadino tentano con ogni mezzo di appropriarsi di mulini o di farsi riconoscere dalle autorità in carica il diritto di realizzarli. Si vedano in generale anche le osservazioni di Righetti Tosti-Croce, 1993a, p. 24, a proposito del notevole interesse verso i centri urbani, e soprattutto verso i loro mercati, da parte di molte abbazie, alcune delle quali già dal XII sec. possiedono delle ‘case urbane’ incaricate di commercializzare i prodotti delle grange.

289 A proposito di queste difficoltà si vedano Barlucchi, 1991 e Barlucchi, 1992, pp. 73-74, ove si riporta la notizia che, intorno al 1280, il monastero rischiò di dover alienare, per i debiti accumulati, gran parte del patrimonio di Frosini e fu salvato da un prestito di ben 1450 fiorini d’oro ottenuto dai Gallerani.

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e Palazzo (Siti 15, 16, 17), grandi impianti che macinavano grano in quantità ‘industriale’, quando, a causa dei debiti, Siena fu costretta a venderli. Soltanto intorno al 1320, analizzando i dati provenienti dalla Tavola delle Possessioni, si possono notare i primi segnali di una inversione di tendenza, forse interpretabile come una crisi, che porta alla contrazione delle quote spettanti all’abbazia in alcune delle strutture censite290.

Ma veniamo adesso al tipo di gestione adottato per questo notevole patrimonio di impianti produttivi. Il modo in cui la nostra abbazia decise di sfruttare i propri mulini è un fattore di grande importanza per capire quale fu, qui come altrove, la differenza fra gli ideali originari dell’Ordine e la realtà. Si possono distinguere tre diversi tipi e momenti nella gestione degli impianti molitori, in parte corrispondenti anche ai tipi di gestione adottati per le terre coltivabili: una primissima fase di sfruttamento in proprio, rivolta esclusivamente al fabbisogno interno, una seconda fase che vede l’apertura degli impianti agli abitanti delle terre del monastero ed anche a clienti esterni, in cambio di una percentuale sulla molitura, infine una fase in cui i mulini vengono concessi in affitto dietro pagamento di un canone.

È noto che inizialmente i mulini dei Cistercensi avrebbero dovuto essere utilizzati solo dai monaci e per i monaci, sfruttando la manodopera a basso costo fornita dai conversi: la Regola vietava esplicitamente la concessione in uso o gestione a terzi di tali strutture, al pari delle terre coltivabili291. Tuttavia, quando nel corso del XIII secolo la maggior parte delle terre dei monasteri venne ceduta in affitto a famiglie di contadini, i nuovi affittuari divennero i clienti principali dei mulini delle abbazie e la macinazione si trasformò così in una vera e propria operazione commerciale, sempre più rivolta verso l’esterno292. A S. Galgano la conduzione indiretta delle terre, non limitata a singoli appezzamenti ma estesa a delle zone intere, è una pratica che i monaci adottarono molto presto293, ed anche la molitura sembra di conseguenza diventare per l’abbazia un vero e proprio affare, che coinvolgeva a vasto raggio una clientela proveniente anche dal di fuori delle terre del monastero. è del 1223 il già citato contratto stipulato dall’abbazia con un gruppo di privati, che acquistarono la metà del Mulinaccio (Sito 10 UT 1), ove compaiono alcune clausole interessanti: era infatti previsto l’impegno, da parte dei mercanti acquirenti, di far portare senza interruzione né frode salme di frumento a macinare al mulino e di non portarlo a macinare in altro luogo; si specificava inoltre che, se per qualche motivo il mulino in questione non avesse potuto funzionare, i soci avrebbero dovuto portare il grano ai mulini che il monastero possedeva a Campora. Sembra di capire, quindi, che l’abbazia, dovendo in quel momento vendere o impegnare la struttura per necessità finanziarie contingenti, tendesse a ribadire chiaramente il proprio tentativo di monopolio sulla molitura nella zona, cercando di impedire che ci si rivolgesse ad altri impianti vicini, i quali esistevano294 e sui quali il monastero avrebbe messo le mani solo dopo la metà del

290 Sito 5: il testo della Tavola del 1318 è stato corretto nel 1320; la quota di S. Galgano da 1/3 (valutato 1420 lire) è scesa ad 1/4 (valutato 1065 lire). Sito 15: allo stesso modo la quota che nel 1318 consiste in 1/4 (549 lire) è scesa nel 1320 a 4/18 (488 lire). Sito VII: nel 1318 la Tavola cita un solo mulino in possesso del monastero a Campora, contro i 4 mulini con gualchiera documentati nella prima metà del XIII secolo.

291 Exordium Parvum, citato in Farina-Vona, 1988, pp. 34-36. 292 Si veda ad esempio il caso eclatante dell’abbazia di Settimo, presso Firenze (cfr. supra, par. 1.2);

altri confronti, per il Nord Italia, sono le abbazie di Lucedio, Morimondo e Chiaravalle, cfr. Comba, 1985, p. 256.

293 Sull’argomento si veda Barlucchi, 1992, pp. 70-71. 294 Ad esempio doveva già esistere quello di Ripetroso, Sito V, in mano alla comunità di Monticiano.

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secolo295. Quello del Mulinaccio ‘, tra l’altro, il primo esempio di gestione in comproprietà fra il

monastero e terzi. Anche la comproprietà dei mulini ed altre strutture produttive era vietata dalla Regola che però, dopo un periodo iniziale, venne un po’ dovunque largamente disattesa. La gestione dei mulini di S. Galgano nella nostra area è proprio un chiaro esempio di tale inversione di tendenza, in quanto il monastero cogestiva le strutture con chiunque capitava, da altri enti ecclesiastici ai comuni, da consorzi di privati a famiglie aristocratiche. I soci del monastero cistercense erano, infatti, il monastero di Torri (Siti 5, 15, 16 dal 1258; Siti XII, XVI dal 1288), il monastero di S. Eugenio (Siti 17, X dal 1289), gli Eremitani di Camerata e la Canonica di Monticiano (Sito V dal 1264), l’Opera Metropolitana (Sito XI, dal 1271), il comune di Monticiano (Siti IVa, V dal 1249), il conte di Frosini (Sito 19, nel 1271), le famiglie Incontri e Bonsignori (Sito XI dal 1271), un consorzio di membri delle famiglie Scotti, Giulli e Angelini (Siti 15, 16, 17, X, XII dal 1256) ed una gran quantità di piccoli proprietari e artigiani non meglio identificabili. L’importante sembra essere solo l’accaparramento del maggior numero possibile di quote-parti delle strutture molitorie.

La terza fase, nella politica di gestione degli impianti, è rappresentata dalla concessione in affitto dei mulini ad operatori laici in cambio di un canone. Di questa pratica, che dalla seconda metà del XIII sec. viene spesso adottata dall’ordine cistercense296, anche per il monastero di S. Galgano sono noti alcuni casi. Ad esempio, nel 1289 abbiamo la notizia che i possedimenti di Monticiano, e forse anche i mulini ivi esistenti, erano gestiti in proprio da un converso297, mentre nel 1304 il mulino di Moverbia (Sito 7) viene ceduto in affitto ad un abitante del Belagaio per tre moggia e dodici staia di grano; infine nel 1313 i monaci decidono, in pieno accordo con l’Opera di S. Maria di Siena, di dare in affitto la propria metà del Mulino di Foiano (Sito XI), i cui contratti dilocazione si susseguono poi regolarmente fin dopo la metà del Trecento. Sulla base di questi soli dati non si può dire molto, ma l’impressione che si ricava è quella di una certa reticenza, fino ad epoca relativamente tarda, a rinunciare alla gestione diretta delle strutture molitorie, mentre come abbiamo detto perle terre essa viene adottata piuttosto presto e su larga scala.

Soltanto alcune parole, infine, a proposito del ruolo svolto dai Cistercensi nella diffusione delle tecnologie idrauliche. Riguardo alle prime filiazioni di questo ordine ci si è spesso chiesti se i monaci siano stati degli innovatori ed abbiano sperimentato ed inserito nuove tecnologie nei territori in cui si insediavano, oppure se abbiano sfruttato mezzi tecnici già noti localmente. Per il caso dei mulini ad acqua di S. Galgano, fondazione tarda, abbiamo già visto che si può escludere l’introduzione della tecnica molitoria idraulica nella zona da parte dei monaci. Tuttavia, proprio le vicende di questa abbazia offrono diversi elementi che confermano l’ipotesi secondo la quale i Cistercensi avevano messo in piedi, ad uso interno dell’Ordine, una sorta di formazione tecnica e professionale che permetteva loro di disporre immediatamente, anche in filiazioni lontanissime, di

295 Qualcosa di simile, ma un po’ più tardi, avvenne nel caso dei mulini posseduti dal monastero di S. Galgano insieme al comune di S. Gimignano: nel 1281 si stabil” un accordo secondo il quale venivano ripartite a metà le spese per edificare uno dei mulini in comproprietà (l’altro fu rilevato da certi privati) ed il godimento degli utili; il monastero fu inoltre libero di trasportare e commerciare grani senza pagare dazi, mentre il comune si impegnava a far sì che i contadini portassero a tali mulini i loro prodotti da macinare, cfr.Barlucchi,1991, p. 91.

296 Qualche esempio: nel XIII sec. in Liguria i monasteri, al pari dei privati, locano i propri mulini con contratti di varia scadenza e condizione, cfr. Origone, 1974, pp. 96 e sgg.. Alcuni mulini della signoria di S. Salvatore all’Amiata, soggetti all’abate allo stesso titolo delle terre, sono in mano a privati che pagano un canone, cfr. Redon, 1982, p. 117.

297 Barlucchi, 1992, p. 73.

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esperti in possesso di ampie conoscenze in materia tecnica298. è notissimo, ad esempio, che fu a Donno Gnolo, monaco di S. Galgano esperto nelle discipline idrauliche, che il comune di Siena si rivolse nel 1267 per avere un parere tecnico sulla possibilità di realizzare una derivazione dal fiume Merse fino alla città, cronicamente afflitta dalla scarsità di acqua299; e ancora i monaci di S. Galgano ricoprirono a partire dal 1258 l’importante incarico di operarii dell’Opera del Duomo di Siena300, anche se non sappiamo se si trattava di un incarico tecnico in senso stretto oppure prevalentemente manageriale, come quello di Camarlinghi di Biccherna301. Un converso di S. Galgano, per fare un ultimo esempio, sovrintendeva ai lavori di costruzione delle mura del nuovo borgo che il comune di Siena stava edificando a Paganico302. Una situazione analoga si ritrova anche a Firenze, dove i Cistercensi di Settimo, filiazione di S. Galgano, ricoprirono le cariche di tesorieri e camarlinghi del comune, oltre ad assumere la direzione di cantieri per la costruzione di fortificazioni, come quello per le mura di Buggiano dal 1346 in poi303. Per il caso di S. Galgano si può comunque concludere che i monaci, per poter in parte creare e in parte gestire una tale rete di opifici idraulici, dovevano sicuramente distinguersi per capacità tecniche e conoscenze nel campo. Alla fine, però, forse non è questo che colpisce di più nelle vicende dei loro mulini, bensì lo spirito di imprenditorialità, l’oculatezza nella gestione, la capacità di approfittare di una buona congiuntura economica, che permisero loro di realizzare un progetto di così vasta portata.

3.3. ALT RI ENTI ECC LESIA STIC I

Durante il XIII secolo, e soprattutto nella seconda metà, il monastero di S. Galgano ricoprì indubbiamente un ruolo di primo piano nella gestione dei mulini nella nostra zona, ma molti altri enti ecclesiastici costruirono impianti molitori o ne furono in possesso almeno in parte. Bisogna, infatti, sottolineare ancora una volta l’importanza che riveste il tipo di documentazione disponibile nella ricostruzione di questo quadro. La principale fonte di informazioni riguardo agli impianti molitori della zona è costituita proprio dai Caleffi dell’abbazia cistercense; di conseguenza, se sono innegabili la politica di accaparramento attuata da S. Galgano ed una preponderante presenza del monastero nell’attività molitoria di tutta l’area considerata, è probabile che esse appaiano ai nostri occhi in un certo senso ingigantite entro la prospettiva offerta dalle fonti consultate. Come vedremo,

298 Bertrand Barri’re ritiene che in campo tecnologico i cistercensi abbiano molto meno innovato che migliorato, tuttavia constata che a diverse riprese l’Ordine inviò a questa o quella abbazia di recente fondazione degli istruttori in campi specializzati e non solo in materia di liturgia o canto, ma anche in lavori idraulici o altro, cfr. Barri’re, 1983, p. 82. Marina Righetti Tosti-Croce (1993a, p. 41) osserva che “se non si conosce nei singoli dettagli quale sia stato l’apporto dei Cistercensi all’elaborazione di nuove metodologie del lavoro idraulico, sappiamo però che la loro pratica abituale li portò ad una applicazione su vasta scala di questo tipo di opere e conseguentemente ad una efficace messa a punto delle varie metodologie, continuamente confrontata grazie agli incontri annuali dei Capitoli, e dunque omogenee in tutta Europa, senza sacche di arretratezza”.

299 Canestrelli, 1896, p. 17, riporta il testo della proposta fatta da Bartolomeo Saracini nel Consiglio Generale: “Supra flumine Merse consuluit et dixit quod mittatur pro donno Gnolo ordinis de Cestello, qui debeat videre flumen Merse bene et diligenter et si potest derivari et deduci prope Senas, et id quod ipse dixerit faciendum”.

300 Carli, 1979, p. 13. 301 Canestrelli, 1896, p. 20. 302 Angelucci, 1980, pp. 102-103. 303 Pirillo, 1989, p. 34, nota 43. Per questo caso Pirillo propone l’ipotesi che il sempre più intenso

coinvolgimento dell’abbazia nell’amministrazione cittadina derivasse in gran parte anche dalla volontà dei monaci di ottenere aiuto e soccorso in caso di incursioni del nemico nel territorio, durante le quali si dava sistematicamente il “guasto” proprio a tutte le strutture, ed in primo luogo i mulini, legate al vettovagliamento.

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infatti, sulla base dei dati ricavabili da un pugno di documenti superstiti, sembra che nella nostra zona altri ordini monastici, quali ad esempio i Vallombrosani, siano stati più precoci e probabilmente maggiormente innovatori, rispetto ai Cistercensi, nel campo delle tecnologie idrauliche applicate alla macinazione.

Per quanto riguarda l’alta Val di Merse abbiamo già proposto l’ipotesi che l’abbazia di Serena possedesse, fin dall’XI-XII sec., alcuni mulini nelle terre lungo il fiume in prossimità di Chiusdino. Nell’area possedevano mulini anche alcuni enti ecclesiastici minori: i frati Eremitani di Camerata, presso Monticiano, e la Canonica di Monticiano. I primi già precedentemente al 1223 possedevano degli impianti che vengono citati in modo indiretto, quando ormai sono in rovina, in un documento che riguarda il Mulinaccio di S. Galgano304; nel 1276, inoltre, tentarono di acquistare dal comune di Monticiano, che era gravato dai debiti, 2/24 del mulino di Ripetroso (Sito V) e del mulino con gualchiera di Lupinari (Sito IVa), ma li cedettero immediatamente al monastero di S. Galgano non avendo sufficienti disponibilità per pagarli. Della Canonica di S. Giusto di Monticiano sappiamo che nel 1264 possedeva la sesta parte delle due strutture citate sopra, in comproprietà col comune: erano concesse in affitto a privati per 13 moggia e 12 staia di grano.

Sempre nell’alta Val di Merse si riscontrano interessi nei mulini da parte delle pievi della zona. La pieve di Luriano riscuoteva lo ius decimarum sui mulini di Campora (Sito VII); il diritto di decima, comunque, che pertiene tradizionalmente alle pievi ed ai vescovi, non implica affatto la proprietà delle strutture o di parti di esse305. Le decime in questione risultano cedute dal pievano, prima del 1221, al conte di Civitella Bonifazio306, che in precedenza era proprietario di parte di questi mulini. Certamente di proprietà si trattava invece nel caso della pieve di S. Giovanni a Monte, presso Frosini: nel 1245, infatti, a causa dei debiti accumulati, il pievano vendette la metà di un mulino sul Frelle al monastero di S. Galgano (Sito 19).

Per quanto riguarda la bassa Val di Merse, iniziatore e maggiore protagonista dello sfruttamento idraulico, nella zona di Brenna ed Orgia, fu il monastero di Torri. è probabile, come accennato in precedenza, che il monastero avesse costruito mulini nell’area già dal XII secolo, momento della sua massima fioritura, o dai primi anni del XIII. Nel 1245, infatti, anno in cui si progettava di costruire nuovi mulini in comproprietà col comune di Siena, l’abbazia risultava già proprietaria di altri impianti sul Merse: erano almeno due, uno denominato de Saxis (Sito 5) e l’altro de Volta307. Questi impianti, ancora in un documento della seconda metà del XIII sec. risultano infatti interamente di proprietà del monastero, senza la partecipazione di altri soci. Le strutture superstiti del mulino de Saxis, inoltre, individuate sul versante del poggio di Montestigliano, sono costruite con una tecnica muraria molto accurata, che sembra riportare ad un ambito cronologico di XII.

Per alimentare questi due mulini, i monaci realizzarono lo scavo del primo tratto di una lunga gora, che probabilmente solo in seguito fu prolungata per servire i mulini del Pero, Serravalle e Palazzo nella pianura tra Brenna, Stigliano ed Orgia (Siti 15,16,17). Al 1245, infatti, risale l’atto

304 Sito 10 UT 1: in occasione della vendita di metà del mulino, tra gli accordi stipulati con gli acquirenti, si prevede che, in caso di necessità, l’impianto possa essere spostato e ricostruito in terre del monastero che confinano coi mulini un tempo appartenenti agli Eremiti; nello stesso documento l’abate si riserva la possibilità di restaurare o ricostruire mulini nel luogo, dal che consegue che probabilmente gli edifici preesistenti erano all’epoca in rovina.

305 Cfr. Castagnetti, 1986, p. 510. 306 La cessione delle decime a laici, da parte di vescovi o rettori di chiese, sotto forma di livello

perpetuo o limitato alla vita dell’investito, è documentata già a partire dal IX sec. e diventa usuale dopo il X, cfr. ivi, pp. 516-519.

307 Sito XVI: nel 1288 è citato nel contratto di vendita del mulino de Saxis come casa que domus dicitur molendinum de Volta, posta nelle immediate vicinanze del mulino precedente; la definizione di questa struttura come “casa”, potrebbe far pensare che essa fosse in questo periodo ormai inattiva e ridotta a semplice abitazione.

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con il quale il monastero fu preso sotto la formale tutela del comune di Siena: in quella occasione l’abate Alberto promise al podestà di Siena di costruire su terra del monastero, nel tratto tra il mulino de Saxis e la steccaia Cathalani et filiorum Guazini, due edifici ospitanti quattro palmenti. Tutte le spese di costruzione e manutenzione dovevano essere a carico dell’abbazia, la quale in cambio si riservava i proventi di tali strutture per cinque anni, dopodiché esse sarebbero state gestite in comproprietà con il comune. Si prevedeva, inoltre, di costruire eventualmente in seguito, a monte del mulino de Saxis, un altro edificio con quattro palmenti, sempre su terra del monastero, i cui proventi sarebbero stati subito a metà con il comune. Infine si concedeva al comune di costruire per proprio conto, se lo avesse voluto, dei mulini su terra del monastero, con la possibilità di prelevare tutto il legname e le pietre necessarie all’edificazione308. Le due strutture in questione erano il Mulino del Pero (Sito 15) ed il Mulino di Serravalle (Sito 16); quando, nel 1258, il comune di Siena venderà la sua parte di questi due notevolissimi impianti, l’abbazia di Torri si ritroverà in comproprietà col monastero di S. Galgano e con i suoi tre soci.

Oltre a questi opifici, l’abbazia di Torri nel 1262 risulta proprietaria, sempre nel piano di Orgia, di una quota non precisata del mulino delle Guazzine (Sito XII), che appare suddiviso tra numerosi soci. Per il terzo mulino citato nel documento del 1245, rimangono dubbi se esso fu poi effettivamente costruito: nella zona immediatamente a monte del mulino de Saxis non si sono riscontrate tracce di altre strutture, ed è difficile fare delle ipotesi sul luogo dove eventualmente poteva trovarsi, data la mancanza di qualsiasi indicazione topografica nel documento in questione. Si potrebbe comunque ipotizzare che ci si riferisse alle strutture di Mallecchi, luogo in cui l’abbazia possedeva delle terre, sulle quali mulini erano sicuramente presenti nel 1262 e dove, agli inizi del XIV sec., si trovavano le gualchiere possedute in comproprietà tra il monastero di Torri e l’Arte della Lana di Siena (Sito IX).

Sulla base di quanto detto sin qui, nonostante le notizie riguardanti i mulini di Torri provengano da un ristrettissimo numero di documenti, ritengo che in questo monastero si possa individuare uno dei primi e principali innovatori nel campo delle tecnologie idrauliche per la zona indagata: l’abbazia non acquistò mulini, ma fu tra i primi a costruirne, e si tratta delle più imponenti strutture tra tutte quelle individuate, in grado di raggiungere altissimi livelli produttivi309. La gora che i monaci scavarono per alimentare questi opifici era una realizzazione di alta ingegneria idraulica, che comportò il superamento di notevoli difficoltà tecniche e l’impiego di una grande forza-lavoro310, ma che una volta ultimata era in grado di garantire la macinazione in più impianti per tutto l’arco dell’anno. Dal punto di vista economico, è piuttosto chiaro che l’operazione del 1245 fu un investimento di tipo essenzialmente commerciale: anche in questo caso, come abbiamo visto avvenire per S. Galgano, se per le strutture molitorie preesistenti si poteva pensare al fabbisogno interno del monastero, o a strumenti di controllo sul territorio, o a rendite provenienti dagli abitanti del luogo, l’accordo col comune di Siena si inseriva ormai in una prospettiva più vasta, che guardava soprattutto al crescente fabbisogno alimentare del vicino centro urbano.

Lungo il basso corso del fiume principale, nel tratto rettilineo e pianeggiante a sud di Orgia, investivano in mulini altre tre importanti istituzioni: il monastero di S. Eugenio di Siena, l’Ospedale del S. Maria della Scala e l’Opera del Duomo. Il primo, di antichissima fondazione, era stato fin dall’origine dotato di terre nella zona di Orgia, Montecapraia, Filetta, Cerreto a Merse, ma di questi possedimenti non si hanno molte notizie nei secoli successivi311. Di mulini del monastero non sappiamo niente fino al 1289, quando esso risulta proprietario del mulino della Petriera ubicato nei pressi di Frontignano (Sito X): è possibile che tale impianto, sorto in una zona dove si trovavano antichi possedimenti dell’abbazia, fosse già da tempo di pertinenza di quest’ultima. Come spesso

308 Per questo documento v. Catalogo, Sito 15. 309 Cfr. supra, par. 2.2. 310 Per la descrizione dei particolari tecnici di questa struttura cfr. supra, par. 2.1. 311 Cammarosano-Passeri, 1976, p. 389.

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avviene, veniamo a sapere dell’esistenza della struttura in seguito ad una controversia, nella fattispecie quella sorta tra S. Eugenio ed il monastero di S. Galgano coi suoi soci, a causa dei danni reciproci che la vicinanza dei due mulini, evidentemente ubicati lungo la stessa gora, provocava per la regolarità di afflusso delle acque. La lite venne risolta mettendo in piena comproprietà le due strutture ed alcuni appezzamenti di terreno su cui passava il canale alimentatore.

L’Ospedale del S. Maria della Scala, probabilmente l’ente religioso-laicale economicamente più importante della Siena bassomedievale312, dotato di un vastissimo patrimonio fondiario dislocato soprattutto nella Val d’Arbia, mostra piuttosto precocemente un interesse anche verso una struttura molitoria in Val di Merse: il mulino di Mugnone (Sito 14). Quest’ultimo compare per la prima volta nella documentazione nel 1237, quando due privati donano all’Ospedale 3/8 dell’impianto; a questa prima donazione ne seguiranno altre ed anche acquisti da parte dell’ente tra 1240 e 1248. L’Ospedale, inoltre, intorno al 1275 si mostra estremamente pronto ad appropriarsi di alcune quote dello stesso mulino in seguito al mancato pagamento dei debiti che alcuni comproprietari avevano contratto con l’ente stesso. Acquisti di piccole quote della struttura, da parte del S. Maria della Scala, proseguono nel 1281, 1284, 1286: il tentativo di ricostruire la proprietà appare piuttosto lungo e difficoltoso, soprattutto a causa dell’estrema frammentazione delle quote, che arrivavano fino ad 1/32. L’interessamento a questo mulino - fra l’altro piuttosto decentrato rispetto ai nuclei più consistenti dei possessi fondiari dell’Ospedale - come abbiamo detto ci appare piuttosto precoce in confronto ai grandi investimenti in impianti molitori che questo ente, il più grosso produttore di cereali del Senese, dispiegò soprattutto nella prima metà del XIV secolo313. Di un altro mulino appartenente al S. Maria della Scala, questa volta sul Farma, abbiamo notizia molto più tardi, nel 1380, quando l’Ospedale venderà la propria metà di un impianto ubicato nei pressi dei Bagni di Petriolo (Sito 12).

Ad un altro opificio sul Merse, quello di Foiano (Sito XI), si volgono invece gli interessi dell’Opera Metropolitana di Siena, istituzione il cui compito principale era la vigilanza sulla fabbrica della Cattedrale, ma che amministrava anche un vasto patrimonio immobiliare nel contado314. L’Opera, congiuntamente al monastero di S. Galgano, attorno al 1271-72 comincia a rilevare quote del mulino soprattutto da membri della famiglia Bonsignori. Principale artefice di tali acquisti fu il famoso Frate Melano, che agiva sia in qualità di monaco di S. Galgano, sia in qualità di operarius, ossia responsabile, dell’Opera di S. Maria. L’ente nel 1282 possedeva 16/60 della struttura e la stessa quota nel 1305. è interessante notare come in due documenti di quegli anni la proprietà dell’Opera sia ambiguamente identificata con quella del comune di Siena: ciò si spiega evidentemente con il fatto che in questo momento è in pratica ormai assoluta la compenetrazione tra ente di governo cittadino ed ente preposto alla fabbrica del Duomo315.

312 L’Ospedale, che compare per la prima volta nella documentazione nel 1090, fu probabilmente fondato nella seconda metà dell’XI sec. su ispirazione del Capitolo della Cattedrale. Esso si staccò tuttavia piuttosto rapidamente dalla tutela canonicale e vide un sempre più profondo coinvolgimento nel governo della cosa pubblica e nell’economia senese: basti pensare alla funzione di prestatore di denaro all’erario e a quella di calmiere del prezzo del grano cui il comune, in casi di carestia, imponeva la vendita dei cereali a prezzo controllato. Tali funzioni erano imposte dal comune in cambio di protezione, sgravi fiscali, appoggio nelle cause civili. Sulle vicende dell’Ospedale, la formazione del patrimonio fondiario, l’intreccio profondo tra matrice religiosa e laica nella sua storia, si rimanda a Balestracci-Piccinni, 1985, pp. 22 e 25; Epstein, 1986, p. 7 e sgg..

313 Sono ben note le vicende dei grandi mulini sull’Arbia costruiti dall’Ospedale: intorno al 1323-24 quello fortificato di Monteroni, dal 1343 quello di Buonconvento, dagli anni ‘70 quello di Isola d’Arbia, v. Epstein, 1986, pp. 73 e sgg., 83-90; Balestracci, 1990b. Inoltre nella prima metà del XIV sec. l’Ospedale entrò in possesso, per donazione o acquisto, di numerosi altri mulini sparsi su tutto il territorio senese, v. Epstein, 1986, p. 89.

314 Sull’Opera di S. Maria v. Moscadelli, 1995. 315 Su tale aspetto ivi, p. 13.

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3.4. I PROP RIETARI LAICI

Quello del ruolo svolto dai privati laici nella costruzione o gestione di impianti molitori entro la nostra zona rimane un capitolo abbastanza oscuro nel quale, con le poche informazioni disponibili, è possibile aprire solo alcuni spiragli. Ciò dipende essenzialmente dal tipo di documentazione rimasta, per lo più di origine ecclesiastica, che rischia di falsare in parte le prospettive, evidenziando e testimoniando soprattutto quanto concerne il mondo degli enti religiosi, ma lasciando più in ombra il resto. Anche nel nostro caso, infatti, ci troviamo di fronte ad un problema tipico della documentazione di questo periodo, cioè l’assenza di gruppi di documenti giuntici per tramite di archivi familiari. Come spesso avviene, quindi, la possibilità di conoscere qualcosa riguardo ai laici dipende in generale dal fatto che essi abbiano intrecciato relazioni con qualche ente ecclesiastico - nel nostro specifico caso con l’abbazia di S. Galgano, vista la quasi totale dispersione degli archivi appartenenti agli altri organismi religiosi della zona - tra le cui carte possono essere stati inglobati documenti che li riguardano316.

Per quanto ci concerne, dunque, possiamo contare sul fatto che entro la documentazione dell’abbazia cistercense si trovano spesso delle carte il cui oggetto è costituito da determinate proprietà per il periodo precedente alla loro acquisizione da parte dell’ente monastico, o naturalmente molte in cui laici compaiono come cedenti delle strutture: questo consente di fare qualche osservazione anche riguardo alla loro presenza ed al loro ruolo. A ciò si aggiungono, ma solo a partire dalla seconda metà del XIII sec., alcune sporadiche notizie provenienti da fondi di famiglie private, che possono fornire qualche ulteriore informazione perlomeno sull’identità di certi proprietari.

Due problemi in gran parte da chiarire sono l’eventuale origine signorile di alcuni mulini ­documentati a partire dal XIII sec., ma che probabilmente esistevano già in precedenza - e l’eventuale esistenza, precedentemente al periodo in cui i mulini cominciano a comparire nella nostra documentazione, di diritti signorili sugli impianti dislocati nel territorio sottoposto al controllo delle grandi famiglie comitali, come gli Ardengheschi o i Gherardeschi. Queste consorterie, infatti, detenevano il dominatus loci sulle aree controllate, che si esprimeva esercitando diritti non solo sulle terre proprie, ma anche su tutto il territorio sottoposto alla loro giurisdizione. In genere questi diritti riguardavano le strade pubbliche, i corsi d’acqua, le foreste, i pascoli, cioè tutti quei beni che non rientravano nella proprietà privata, ma erano per tradizione destinati ad uso comune317. Dai diritti esercitati sui corsi d’acqua derivava, com’è ovvio, il controllo sui mulini, in quanto la costruzione di queste strutture era in genere subordinata ad uno speciale permesso del signore, il quale ritraeva poi un utile da tutti i mulini del territorio o sotto forma di una percentuale sul macinato, oppure della disponibilità gratuita degli impianti per determinati periodi318.

È altamente probabile, dunque, che un legame tra mulini e signori locali sia esistito anche nella nostra zona, ma su tale aspetto la documentazione è scarsissima319. Dobbiamo dunque accontentarci, ancora una volta, di indizi: in primo luogo il già citato atto di fondazione dell’abbazia di Serena dove, tra i diritti concessi dai conti Gheradeschi, compaiono esplicitamente quelli sulle

316 Su questi aspetti cfr. Cammarosano, 1991b, p. 55. 317 Sulla signoria, i diritti giurisdizionali, il dominatus loci e il banno, si vedano: Cammarosano, 1974a,

pp. 15-92; Tabacco, 1979, pp. 240-257; Sergi, 1986, pp. 381-386 (in particolare sui mulini p. 384); Cammarosano, 1991b, pp. 84-85.

318 Per degli esempi toscani si vedano Cherubini, 1974, pp. 207 e 221 ed il caso del mulino di Tintinnano in Cammarosano, 1974a, p. 22 e doc. 10 a p. 51. Riguardo ai diritti esercitati sulle acque da signori laici, si rimanda a quanto accennato nella nota 259 ma soprattutto alla bibliografia ivi citata.

319 Abbiamo visto in precedenza, nel paragrafo 3.1, i problemi derivanti dalla perdita dei fondi documentari dei maggiori enti ecclesiastici della zona, in particolare l’abbazia di Serena e quella di S. Lorenzo al Lanzo, che avrebbero potuto fornire notizie sul tipo di diritti signorili esercitati dalle due più importanti famiglie della zona, i Gherardeschi e gli Ardengheschi.

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acque e sui mulini. In un secondo caso, ma il contesto non è chiarissimo, è forse possibile riscontrare una traccia di residui diritti bannali sui mulini. Si tratta della cessione ad un certo Burgundione di Dono di Luriano, avvenuta nel 1209, dei quattro mulini con gualchiera di Campora (Sito VII), i quali risultano suddivisi tra Ranieri di Ciolo, Paganello e Bernardino di Ugolino e Bonifazio di Guido, tutti conti di Civitella, appartenenti cioè al ramo ardenghesco320. Nel 1221 Bonifazio dona al monastero di S. Galgano ogni azione e diritto sui mulini sunnominati ed inoltre lo ius decimarum, che era stato a lui concesso dal pievano di Luriano. Questa cessione si differenzia dalle altre, riguardanti questi ed altri mulini, in quanto è l’unica in cui non ci si riferisce in concreto alla proprietà delle strutture o loro parti (che fra l’altro il conte aveva già venduto in precedenza), ma si parla solo dei diritti su di esse. Infatti in quasi tutti i documenti di questo tipo si specifica, spesso con l’espressione fissa cum omnibus iuris et pertinentiis, la cessione di diritti di derivazione delle acque, ma sempre con preciso riferimento alla parte o alle parti vendute della struttura. Ma l’indizio certamente più chiaro, ancorché piuttosto tardo, riguarda il mulino sul Frelle, presso Frosini, che nel 1271 risulta appartenere in parte al monastero di S. Galgano ed in parte ad Ugolino di Bartalo, detto Moscone, conte del soprastante castello e membro della casata gherardesca. Quando nel 1273 Ugolino, insieme a Filiano di Filiano della Suvera, cederà al monastero il castello di Frosini con tutte le sue proprietà (tra cui la quota del suddetto mulino), l’atto di cessione elencherà numerosi diritti signorili, tra i quali espressamente quelli sui molendinis et in difitiis molendinorum321 del distretto castrense. Non è un caso che il più esplicito riferimento a diritti bannali sui beni di uso comune e sui mulini compaia in relazione ad una signoria di castello forte e ben strutturata, anche se ormai in declino, quale era stata quella dei Gherardeschi su Frosini.

Al di là di questi casi, le fonti su tale questione non ci dicono altro. Va fatta comunque una constatazione: quando i mulini, ormai in pieno XIII sec., cominciano a comparire numerosi nei documenti, essi risultano svincolati da ogni residuo di banno signorile, sembrerebbero cioè proprietà allodiali, patrimonio di singoli privati, aristocratici e non, soggette senza alcun vincolo limitativo a trasmissione ereditaria, donazione, compravendita.

Raramente compaiono notizie esplicite, nelle fonti consultate, riguardo ad iniziative di costruzione ex novo di mulini da parte di famiglie aristocratiche o comunque in generale di laici, ma ciò è dovuto quasi certamente alla carenza della documentazione stessa. Una chiara iniziativa da parte di due importanti famiglie senesi si riscontra, ad esempio, per il mulino di Foiano (Sito XI): costruito attorno al 1260, era diviso in quote tra alcuni membri della famiglia Bonsignori e di quella Incontri; soltanto a partire dal 1271 nella proprietà della struttura subentreranno il monastero di S. Galgano e l’Opera del Duomo di Siena, che assorbiranno progressivamente le quote dei proprietari laici - i quali più volte sembrano versare in difficoltà e sono costretti ad impegnare parti del mulino come garanzia di prestiti mascherati - fino alla loro definitiva estromissione.

A parte il caso citato, comunque, anche per altri mulini, riguardo ai quali non compare mai, o solo tardivamente, la proprietà di enti ecclesiastici, è logico presumere una iniziativa laica nell’originaria edificazione322. Anche per il mulino di Torniella, riguardo ai cui proprietari non sappiamo assolutamente nulla se non in epoca tarda, è possibile ipotizzare una iniziativa laica e

320 Si tratta di Paganello e Bernardino di Ugolino, che in una sottomissione del 1179 risultano conti di Pari mentre nel 1187 e 1194 sono nominati come comites de Civitella (Angelucci, 1982, p. 123 e genealogia a p. 153). Abbiamo poi Ranieri di Ciolo, certamente identificabile con Ranieri di Giollo, personaggio menonoto, ma che compare nell’atto del 1194 tra i conti di Pari e Civitella (ivi, p. 132 e genealogia a p. 153); infine il conte Bonifazio figlio di Guido, che in un privilegio del 1221 concesso da Federico II a Ildibrandino Aldobrandeschi compare tra i suoi fideles (ivi, p. 126 e genealogia a p. 154).

321 Per la trascrizione del documento si veda il Catalogo, Sito 19. 322 Ad esempio, nel XIII sec., i già citati mulini di Campora (Sito VII), il mulino di Pelago Mare (Sito

7), il Mulino di Mugnone (Sito 14), e nel XIV sec. quelli di Castiglion Balzetti (Sito XIV), di Montarrenti (Sito XV) e di Montecapraia (Sito XVII).

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probabilmente signorile: infatti, l’assenza nella zona di grandi domini ecclesiastici e la dislocazione topografica del mulino in stretta connessione con il castello soprastante, potrebbero far pensare ad una relazione con i signori locali, della dinastia di un Ranieri, qui attestati tra fine XII e metà XIII sec. ed inseriti nel più ampio dominio aldobrandesco323.

Ma passiamo rapidamente in rassegna i proprietari di queste strutture. Innanzitutto abbiamo visto che mulini erano compresi tra i possedimenti di grandi famiglie comitali o di signori locali: è il caso dei mulini citati tra le proprietà dei Gherardeschi nel 1004, dei mulini sul Merse quondam Guaschi, di quelli appartenenti ai conti Ardengheschi a Campora e dell’impianto posseduto in parte dal conte di Frosini. In secondo luogo compaiono le casate aristocratiche senesi o membri di famiglie agiate probabilmente della ricca borghesia: ho infatti inserito in questo gruppo, oltre che gli appartenenti a famiglie senesi i cui nomi sono ben noti ed identificabili, anche tutti quei personaggi che compaiono nei documenti insigniti del titolo di dominus. è da notare che, tra i proprietari laici di mulini, coloro che sono indicati con tale titolo rappresentano la netta maggioranza324. Tra i nomi più noti di importanti famiglie cittadine nel XIII sec. compaiono i già citati Incontri e Bonsignori per il mulino di Foiano (Sito XI), e ancora gli Incontri e i Tolomei nel mulino di Mugnone (Sito 14). A partire dal 1258 i principali soci dell’abbazia di S. Galgano nei mulini del Pero (Sito 15), Serravalle (Sito 16), Palazzo (Sito 17), Guazzine (Sito XII), Frontignano (Sito X) sono un ricco componente della famiglia Scotti325 ed uno della famiglia Ardengheschi . Per quanto riguarda il XIV secolo vediamo che i Saracini possiedono un mulino nella loro corte di Castiglion Balzetti (Sito XIV) e che il mulino di Montarrenti (Sito XV) appartiene per una porzione non specificata a Johannes domini Meschiati, della famiglia dei Petroni, padrone anche del cassero e della maggior parte dei beni in zona. Sempre a Giovanni dei Petroni, probabilmente la stessa persona, apparteneva nel 1318 un mulino con gualchiera in corte di Montecapraia (Sito XVIII), il cui cassero e fortezza risultavano divisi tra lui ed il fratello Caterino. Infine nel 1338 alcune quote del mulino di Rigocervio (Sito XVIII) vennero vendute da un Tolomei ad un Forteguerri.

Nelle carte concernenti i mulini della nostra zona compare anche, pur se in minore misura, una folla di piccoli proprietari privati, dei quali poco sappiamo, che potrebbero essere artigiani o mercanti, ma di cui solo in pochi casi si specifica l’attività: ad esempio nel 1223 tra gli acquirenti del Mulino Vecchio (Sito 10 UT 1) - definiti genericamente mercatores - compare anche un medico e nel 1303 due maestri dell’arte della legna posseggono una quota del mulino di Ripetroso (Sito V). Questi personaggi detenevano in prima persona piccole quote dei mulini, oppure erano riuniti in una sorta di consorzi, come nel caso dei 14 privati che acquistarono la metà del succitato Mulino Vecchio. Un altro esempio sono i numerosi proprietari elencati nel 1262, insieme all’abbazia di Torri e ad un dominus iudex Tommaso di Pietro, per il mulino delle Guazzine (Sito XII). Di altri non conosciamo che i nomi e talvolta non viene nemmeno precisamente specificata la loro quota di proprietà. Una buona porzione possedevano Simone di Giovanni di Torri (1/3) e Guiduccio di

323 Cfr. Cammarosano-Passeri, 1976, p. 368. 324 V. Catalogo, passim. Per un confronto di vedano le osservazioni di Catherine Dussaix (Dussaix,

1979) sul caso di Reggio Emilia: su 172 nomi di proprietari solo 23 non hanno la qualifica dominus. Tuttavia questo titolo crea alcuni problemi interpretativi per quanto riguarda una precisa collocazione sociale di chi lo deteneva, in quanto nel XIII secolo ha sì ancora valore di titolo onorifico, ma non è riservato solo alle grandi famiglie aristocratiche, bensì anche ai nobili inurbati, ai magistrati comunali, agli uomini di legge ed ai grossi mercanti e banchieri, cfr. Bowsky, 1986, p. 54.

325 Si tratta di Pietro di Scotto. A questo stesso personaggio, nel 1265, l’abate di S. Lorenzo al Lanzo, oberato dei debiti, venderà alcune ville, nonché redditi, affitti e servizi tributati al monastero da alcuni coloni; la vendita fu approvata e ratificata dai signori di Pari, Fornoli, e Civitella, cfr. Angelucci, 1982, p. 124.

326 Si tratta di Viviano Giulli o di Giollo; suo figlio, Dietaviva o Viva Viviani, che compare più volte come suo erede nella nostra documentazione (v. Sito 17), è citato nel 1318-20 tra i signori di Pari e di terre tra Ombrone e Merse (cfr. Cherubini, 1974, p. 291): è quindi molto probabile l’identificazione del Viviano Giulli socio di S. Galgano nel 1258 con un discendente di Ranieri Giulli, conte di Pari e Civitella (cfr. nota 320).

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Andrea di Rosia (1/2) nel piccolo mulino di Montarrenti (Sito XV); una certa dose di iniziativa nel settore mostra poi un certo Paganello di Iammorde, che tra il 1258 e il 1261 ricostruisce la proprietà del mulino di Pelago Mare (Sito 7) ricomprandone varie quote divise tra alcuni domini precedentemente proprietari. è difficile da inquadrare, infine, la figura di Iacopo Angelini, che nel 1258 compare come socio del monastero di S. Galgano, Pietro Scotti e Viviano Giulli nel grosso affare dei mulini di Orgia e Brenna (Siti 15, 16, 17), ma che già nel 1262 è completamente sparito dalla proprietà di questi mulini e le cui quote sono state riassorbite dagli altri soci: è probabile che abbia dovuto ritirarsi per problemi finanziari.

Un dato emerge con una certa chiarezza: a fianco di una proprietà ecclesiastica consistente, tendenzialmente omogenea e piuttosto salda nel lungo periodo, quella laica risulta più mobile, frazionata (soprattutto a causa delle suddivisioni ereditarie), spesso freneticamente soggetta a passaggi di mano. Proprio per questo essa è anche più difficile da definire con chiarezza nei suoi contorni, in quanto raramente è possibile seguirne l’evolversi attraverso una documentazione di matrice essenzialmente ecclesiastica. Si deve tuttavia sottolineare la massiccia presenza in questo settore di un po’ tutta l’aristocrazia mercantile senese ed il forte carattere di investimento che assumono le strutture molitorie, spesso costruite, acquistate e gestite mediante dei veri e propri consorzi, sistema che evidentemente permetteva di ammortizzare meglio le ingenti spese che gli interessi in questo settore comportavano.

3.5. IL COM UNE DI SIENA

Com’è noto, Siena sorge al centro di un territorio fra i più aridi della Toscana: mancano, nelle immediate vicinanze della città, non solo fiumi navigabili, o perlomeno a portata perenne, ma anche torrenti di una certa consistenza. Per tutta l’epoca medievale, e soprattutto nei secoli di maggiore sviluppo demografico ed economico del centro urbano, la storia di Siena è segnata dalla mancanza o almeno dalla scarsità d’acqua, che condizionò pesantemente gli usi alimentari ed industriali della città, costringendo i vari governi cittadini ad affrontare, spesso in situazioni di emergenza, questa spinosa questione327. A tale proposito Duccio Balestracci 328, nell’ambito di un contributo sull’origine e lo sviluppo della rete di bottini - cioè acquedotti - sotterranei medievali, ha messo in luce tutta una serie di problematiche strettamente legate alla scarsità d’acqua in Siena durante il periodo comunale: le difficoltà alimentari derivanti dai problemi per la macinazione, l’insufficienza di acqua potabile nel momento di massima espansione della città, la situazione di inferiorità rispetto alla vicina Firenze nella produzione dei panni di lana, le difficoltà per le attività produttive del cuoio e del ferro, la conseguente continua, affannosa ricerca di nuove vene d’acqua, cui si riconnettono le famose leggende sull’esistenza di fiumi sotterranei sotto la città329.

Proprio il problema della macinazione divenne particolarmente urgente a partire dalla prima metà del Duecento, quando la domanda di farina da parte di una popolazione in rapido aumento si

327 Si pensi invece alla situazione diametralmente opposta delle ricchissime risorse idriche in molte città del nord Italia - ma anche nelle più vicine Firenze e Pistoia ñ, con conseguente enorme diffusione delle ruote idrauliche all’interno delle stesse mura cittadine. Per citare solo alcuni esempi si vedano Reggio Emilia (Dussaix, 1979), Bologna (Pini, 1987), Padova (Bortolami, 1988), Verona (Varanini, 1988) e appunto Firenze (Muendel, 1981; Muendel 1991a) e Pistoia (Muendel, 1972).

328 Balestracci, 1984 a. 329 Vale la pena di richiamare alcune osservazioni, che si vanno moltiplicando negli studi sulla

diffusione delle macchine idrauliche in età comunale, a proposito dello stretto rapporto tra lo sfruttamento dell’energia dell’acqua e l’evoluzione economica e sociale delle città nei secoli decisivi della loro crescita. I mulini e le altre macchine idrauliche, infatti, si rivelano spesso essenziali per il decollo dell’economia cittadina e sono inoltre strutture capaci di produrre particolari esiti socio-ambientali nella organizzazione dello spazio urbano. Cfr. Bortolami, 1988, p. 282;Varanini,1988, pp. 334-335; Montanari Pesando, 1993,pp. 11 e sgg.

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fece sempre più alta. Il Duecento è difatti il secolo nel quale l’andamento demografico della città medievale sembra raggiungere il culmine330, mentre le colture cerealicole si estendono al limite del possibile331, ed è evidente la stretta connessione che lega questi due fenomeni all’attività molitoria.

Per poter macinare si cercarono varie soluzioni e, nonostante intorno alla città non ci fossero corsi d’acqua di rilievo, ci si arrangiò come si poteva, costruendo mulini sul torrentello Tressa, che scorreva in prossimità delle mura, soprattutto fuori della porta di Fontebranda332, o su altri rigagnoli dei dintorni, come il Riluogo, il Bozzone, il Bolgione333. Il comune rivolse inoltre la sua attenzione, tra ‘200 e ‘300, al progetto di costruzione di una serie di molendina sicca nella Montagnola ed alta Val d’Elsa, per impedire che gli abitanti, in caso di estrema necessità, fossero costretti ad andare a macinare fuori del territorio senese334. Negli anni ‘30 del XIII sec. abbiamo anche notizia di un tentativo di utilizzo del motore eolico, dei cui esiti, probabilmente scarsi, non sappiamo nulla335.

Ma è evidente che per ovviare ad un così forte condizionamento ambientale, l’unica soluzione radicale era quella di portare il grano a macinare in località più lontane dalla città. Una zona ricca d’acqua tra quelle dislocate ad una distanza relativa, e da Siena politicamente controllate, era proprio l’area oggetto di questa indagine e ad essa, a partire dagli anni ‘40 del Duecento, il comune guardò come al principale polo di macinazione del grano. Che tale soluzione fosse inevitabile, per quanto economicamente onerosa rispetto alla situazione di città che potevano contare sulla presenza di corsi d’acqua al loro interno, lo si legge a chiare note ancora in un testo del 1388 dove si lamenta la “caristiam macinatus propter defectum aque molendinorum Tresse et aliorum propinquorum unde expedit eis ire ad macinandum ad molendina Merse et alia loca remota civitatis Senarum”336.

Dopo il 1245, dunque, in seguito all’accordo già descritto e citato più volte nei paragrafi precedenti, il comune di Siena divenne comproprietario, insieme all’abbazia di Torri, dei due grandi complessi molitori a quattro palmenti del Pero e di Serravalle (Siti 15 e 16), oltre che di un altro impianto a quattro palmenti, sempre in zona, se effettivamente esso fu costruito. Decisamente tale accordo contiene in sé delle clausole particolarmente vantaggiose per il comune: tutte le spese di edificazione e manutenzione ricadevano sull’abbazia, anche se essa come compenso si riservava gli utili per cinque anni; il monastero doveva quindi garantire di mettere a disposizione sia le terre di sua proprietà, sulle quali dovevano essere costruiti gli edifici e realizzati i canali di derivazione, che

330 Si ricordi che Siena nei decenni tra fine ‘200 e anni ‘30 del ‘300 è certamente una delle maggiori città italiane, con più di 40.000 abitanti, cfr. Ginatempo-Sandri, 1990, p. 106. Per l’accrescimento demografico ed urbanistico della città dopo la metà del XII secolo, v. anche Sestan, 1961.

331 Per l’espansione della cerealicoltura anche su terreni poco adatti cfr., a livello europeo, Duby, 1970, I, pp. 99 sgg.; sulla produzione cerealicola toscana e in particolare quella senese, cfr. Pinto, 1982, pp. 140 e sgg.; per l’espansione delle colture nella nostra area durante il XIII, si veda la bonifica del padule di Orgia, cfr. infra, nota 340.

332 Balestracci, 1981, p. 128: nel XIV sec. sono almeno otto, ma lamentano grossi problemi di scarsità d’acqua. All’interno delle mura cittadine si ha notizia, nel tardo Trecento, di un mulinetto per arrotare il ferro situato nel Borgo Nuovo di S. Maria e del mulino di un tintore nel Piano di Follonica, che utilizzavano piccole vene locali, cfr. Balestracci-Piccinni, 1977, p. 161.

333 Dalla Tavola delle Possessioni risulta che ne esistevano tre sul Riluogo, tre sul Bolgione, due sul Bozzone, cfr. Cherubini, 1974, pp. 273-274.

334 Balestracci, 1981, pp. 128-131: di questo progetto si parla fino al 1334, ma forse non se ne fece mai di niente. Anche nel Constituto del 1262 ci si preoccupa di “quid faciendum sit de blada perferenda ad molendinum vel molendina comunis et ad alia de iurisdictione Senarum, et non ad alia extra iurisdictionem Senarum” (Zdekauer, 1897, p. 351).

335 La notizia si trova nel Caleffo Vecchio (Cecchini, 1932-1991, II, p. 534): nel 1237 due “magistri molendinorum ad ventum” domandano al comune di Siena di poter costruire mulini a vento in cima al Monte Martini.

336 Balestracci-Piccinni, 1977, p. 163, nota 38.

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la manodopera ed i materiali da costruzione, oltre naturalmente al bagaglio di competenze tecniche necessarie per portare a termine tali opere. In questa prima fase, dunque, il comune non sembra poter prescindere dalla collaborazione con l’ente monastico per la realizzazione del progetto: l’appoggio fornito dai monaci di Torri - evidentemente dotati di collaudata esperienza nel campo degli impianti idraulici e particolarmente partecipi alle affermazioni ed allo sviluppo dell’organo di governo cittadino - dovette quindi essere decisivo, sia dal punto di vista economico che tecnico, per garantire il successo dell’ente comunale nell’arricchire di ruote il paesaggio del contado. Tuttavia la formazione di una vera e propria società con il comune di Siena, che si era da tempo avviato verso un controllo integrale dei flussi di grano337, poteva portare anche all’abbazia dei vantaggi economici notevoli, con l’arrivo di grossi introiti derivanti dalla molitura su vasta scala di cereali destinati al mercato urbano.

Che su questa zona si fosse ormai concentrata l’attenzione del comune lo dimostra poi la costruzione nell’anno seguente, il 1246, sotto l’impulso del podestà Gualtieri da Calcinaia, del grande Mulino Palazzo (Sito 17) ai piedi dell’altura di Orgia, questa volta assumendo l’intero carico dell’edificazione, ma sfruttando le stesse opere di derivazione realizzate dai monaci di Torri338. Lo dimostra, inoltre, anche il progetto, inserito nel Constituto del 1262, “de construendis molendinis pro comuni Senarum et quot in flumine Merse a molendinis de Mallecchio usque ad molendina de Rigocervio”339

(l’indicazione topografica è estremamente vaga ed ampia, comprendendo in pratica tutto il tratto di fiume dalla zona di Mallecchi fino a quella sottostante Montepescini). Progetto che però probabilmente rimase tale, dato che di questi impianti non si trova più alcuna traccia documentaria successivamente e che l’ente cittadino non risulterà proprietario di altre strutture.

337 Sull’argomento si vedano in generale De Colli, 1957, pp. 155-157, Bowsky, 1976, pp. 42 e sgg., Bowsky, 1986, pp. 285 e sgg. Una delle più antiche memorie attestanti una tutela da parte del governo in fatto di grano si ha nel 1213, quando, in un atto di sottomissione degli Ardengheschi, è inclusa tra le varie imposizioni la clausola di non portare a vendere cereali fuori dal contado senese (per questa notizia in particolare cfr. Angelucci, 1982, p. 131, nota 35). Nel 1223 una commissione appositamente addetta stabiliva di vietare che dalla città o contado si esportasse grano, specialmente a Firenze. Si ritiene che fin da allora venissero create, in determinati momenti, apposite commissioni e bal”e che dovevano tutelare l’approvvigionamento dei cereali, stabilirne il prezzo, esaminarne la cessione ai particolari: si veda al proposito il pagamento dei provveditori di Biccherna, nel 1226, ad un balitore inviato in vari luoghi del contado e “ad mercatum de Ardenghesca [...] super facto blade ne portaretur extra comitatum Senensem” (per questa notizia in particolare, cfr. Angelucci, 1982, nota 35). Siena attuava una politica annonaria articolata, ben documentata soprattutto per il periodo del governo dei Nove. Il comune cercava di ottenere il controllo sulla distribuzione del grano prodotto nel contado in linea generale perché fosse disponibile innanzitutto per le masse cittadine: ciò avveniva spesso, specialmente in periodi di carestia, ricorrendo ad imposizioni di cereali sulle comunità del contado, cui si richiedeva di inviare determinate quantità a vendere nella città, a prezzi fissati dal governo senese, e addirittura concedendo lasciapassare ai contadini indebitati per recare almeno minime quantità di grano a vendere in città. Il comune amministrava e ammassava le granaglie nelle “canove” o “dogane”, cioè depositi collocati in punti determinati della città e del contado. All’interno dello stato senese, a zone molto produttive come la Val di Chiana e la Maremma si contrapponevano zone poco fertili come le Colline Metallifere ed i poggi tra Val d’Elsa, Val di Cecina e Val di Merse, il che dava luogo ad intensi scambi di prodotti tra le varie zone, sopperendo alle necessità di quelle più improduttive (cfr. Pinto, 1982, p. 141). Sulla politica annonaria in Italia fra XIII e XIV sec. si veda anche Pinto, 1985.

338 Si noti che nel novembre del 1246 le autorità cittadine deliberarono di vendere la parte senese della palude di “Canneto”, presso Monteriggioni (di cui il comune si era appropriato dopo una lunga disputa con il monastero dell’Isola) proprio per finanziare le spese per questo mulino, cfr. Cammarosano, 1983, p. 49. In questo stesso anno, per far fronte ai bisogni di una accresciuta popolazione, il comune di Siena si impegnò in grandi spese nella nuova ricerca di vene d’acqua per alimentare Fontebranda, costruendo un lungo bottino in muratura, e inoltre riadattando e scavando ex novo altri rami per aumentare la portata delle fonti cittadine, cfr. Balestracci, 1984a, p. 17

339 Zdekauer, 1897, p. 351.

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Oltre che nei mulini, in questa zona il comune di Siena si impegnò nella bonifica del Padule di Orgia, che occupava la porzione di pianura prospiciente Torri e Stigliano. La palude, prima posseduta in comproprietà con l’abbazia di Torri, nel 1240 fu concessa dal comune ad un consorzio di cittadini, che si organizzarono in una società con propri Statuti, in cui si prevedevano lo scavo di fossati, la realizzazione di argini e l’imposizione di norme severe per la manutenzione di questi ultimi340. Venne inoltre potenziata, o realizzata ex novo , la rete viaria, spesso dotata di ponti, che collegava la città con l’abbazia di Torri ed i mulini del Merse, ed inoltre il tragitto che percorreva la bassa Val di Merse in direzione di Macereto e Petriolo341. L’interesse del comune nei riguardi di questa zona culmina poi nel già citato progetto di adduzione delle acque del Merse fino alla città, la cui prima menzione si trova ancora una volta nel Constituto del 1262342, progetto del quale non si fece mai nulla e che era del resto sostanzialmente irrealizzabile.

Ma torniamo ai mulini che il comune possedeva lungo il Merse, per constatare il verificarsi di un importante cambiamento: nel 1258, infatti, solo pochi anni dopo che erano entrati in funzione, il comune vendette i propri mulini di Orgia e Brenna, cioè la metà di quelli del Pero e Serravalle e l’intero Mulino Palazzo. Il motivo era la carenza di denaro liquido necessario per la costruzione delle mura cittadine343 e per estinguere i debiti contratti presso alcuni usurai. Al comune subentrarono, come già visto, il monastero di S. Galgano in società con dei privati e nel Constituto del 1262 fu inserita una rubrica specifica, riguardante la vendita di questi importanti mulini344. Da questo momento in poi, nella documentazione reperita, il comune non comparirà più come proprietario o anche solo comproprietario di mulini in tutta la zona345.

Ciò non significa affatto che il governo cittadino non continuasse ad avere un controllo sulle strutture molitorie: infatti l’intervento del potere pubblico in questo campo, se altrove si attuò mediante la costruzione e gestione in proprio di una rete di impianti molitori346, per Siena sembra

340 Sull’argomento: Banchi, 1871b; Zdekauer, 1897, pp. 361-362; Bizzarri, 1937; Cammarosano-Passeri, 1976, p. 397; Balestracci, 1988, p. 158.

341 Si veda Balestracci, 1988, p. 150, che riporta l’esempio del ponte sul fosso della Testiera, sotto Stigliano, largo abbastanza per permettere il transito di un carro tirato da due buoi; inoltre le rubriche del Constituto del 1262 “De fiendis spondis pontis de Orgia”, “Quod fiat pons super flumen Rosie inter Turrim et Rosiam”, “De via fienda per vallem aputinis usque ad fossatum in pede podii de Petriolo”, “De ponte fiendo super Farmam apud balneum de Petriolo” (Zdekauer, 1897, pp. 314, 316, 359). Si veda anche SzabÒ, 1975.

342 Zdekauer, 1897, p. 349: “Et per totum mensem Ianuarii faciam consilium campane et populi, in quo proponatur et consilium petatur de providendo per bonos magistros subtiles et ingeniosos, et alios sapientes viros, qualiter possit derivari et deduci aqua fluminis Merse prope civitatem Senarum, et quomodo et ubi et quot expensis”.

343 Si tratta probabilmente della costruzione delle porte Ovile e S. Marco, con il corrispondente tratto di mura, e dell’antiporto di Camollia, cfr. Cammarosano-Passeri, 1976.

344 Zdekauer, 1897, p. 393: in tale testo si specificano i nominativi di tutti gli acquirenti, cioè il monastero di S. Galgano, Pietro Scotti, Viviano Guillielmi e Iacopo Angeleri. Sempre nel Constituto del 1262 fu inserita una rubrica riguardante la pena da comminare a chi avesse danneggiato le strutture di derivazione idrica del Mulino Palazzo impedendo la macinazione, cfr. supra, p. 70.

345 Soltanto in un documento del 1282 ed in uno del 1305, riguardanti alcune quote del mulino di Foiano, si parla ambiguamente della proprietà del comune identificadola con quella dell’Opera Metropolitana (Sito XI).

346 Come avviene a Firenze, dove il comune nel XIV sec. crea una propria rete di mulini sull’Arno (Muendel, 1991a), a Pistoia, dove nel XIV sec. i mulini sono in gran parte in mano al comune e ad enti ecclesiastici (Berti-Gori, 1976, p. 72), a Reggio Emilia nel XIII sec. (Dussaix, 1979). Il caso più eclatante sembra comunque quello di Bologna, dove il governo cittadino giunge alla vera e propria espropriazione di tutti mulini privati sul canale del Reno (Pini, 1987). Di grande interesse, soprattutto per la sua precocità, è anche il caso di Ardesio, nelle Alpi lombarde, ove nel 1179 il comune acquista tutti i diritti sui mulini da grano e per la follatura ed inoltre su tutti i forni da argento e da ferro (Menant, 1987, p. 787 e nota 57). Si vedano inoltre i numerosi esempi di proprietà comunale riportati in Balestracci, 1992.

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realizzarsi essenzialmente tramite strumenti legislativi. Essi erano diretti alla regolamentazione dell’attività molitoria e soprattutto a garantire l’efficienza e l’incremento delle strutture. Le acque costituivano per Siena un bene talmente agognato e la cui fonte di ricchezza era tanto evidente, che esse non potevano non richiamare l’attenzione delle autorità pubbliche, tanto più che, dopo i secoli centrali del Medioevo, si andava reimponendo un po’ dovunque il concetto che i corsi d’acqua fossero un bene pubblico, la cui tutela e salvaguardia spettava perciò agli organi comunali347. Di conseguenza, anche là dove non esistevano mulini pubblici, o essi erano poco importanti, il servizio della molitura, proprio perché ritenuto essenziale per una buona organizzazione della città, era rigidamente controllato dalle autorità comunali, che dettavano norme tassative circa le modalità di svolgimento348. è questo un passaggio importante che, a Siena come altrove, segna di fatto la scissione tra il concetto di proprietà privata e allodiale dei mulini e dell’acqua che li azionava, ed un concetto di ‘pubblicità’ delle acque e delle strutture molitorie, supporto ideologico ad una politica comunale che non necessita più della proprietà di fatto per imporsi, ma interviene ormai a vasto raggio anche sulle strutture private ritenute di pubblica utilità.

Gli interventi sono molteplici, precisi, particolareggiati e vale la pena di elencarli in dettaglio, cominciando in primo luogo dalle norme inserite negli Statuti cittadini. Ad esempio si impone ai proprietari dei terreni rivieraschi di vendere a chi voglia costruire nuovi mulini le strisce di terra necessarie allo scavo di canali349 e si concede a chi possiede almeno tre parti di un terreno di edificarvi un mulino anche contro la volontà del comproprietario350. Inoltre si vieta di occupare fossati alterando il consueto corso dell’acqua, nel caso che ciò impedisca il regolare afflusso ai mulini, e si obbliga a costruire ponti nei punti in cui i canali tagliavano delle strade pubbliche351. Si impedisce poi la costruzione di nuovi opifici nel caso che danneggino quelli preesistenti352, si controllano la struttura e l’altezza delle steccaie dei mulini353, si regolamentano con precisione le

347 A partire dalla fine del XII sec. i comuni urbani volsero il loro interesse alla questione delle acque e tentarono a varie riprese di imporvi il proprio controllo. La prima politica di acquisizione dei diritti sulle acque si mosse nei confronti di vescovi, enti ecclesiastici e parte dell’aristocrazia, con maggiore decisione dopo la pace di Costanza, che sancì il riconoscimento sovrano di una politica comunale iniziata spesso molto prima. Naturalmente questo processo di acquisizione conobbe fasi, strategie e tempi molto diversi tra comune e comune, ma si intensificò in genere a ritmo crescente durante il XIII secolo, soprattutto in seguito al maggior peso assunto dalle attività manifatturiere ed all’aumento demografico. Da questo periodo si moltiplicarono gli interventi comunali e si tentò anche una certa regolamentazione con l’elaborazione di normative specifiche. Nel corso del Duecento, inoltre, la giurisdizione comunale, ormai definitivamente affermata dopo aver assorbito i diritti imperiali e vescovili, procedette all’esautorazione anche dei signori del contado. Da questo momento in poi le norme statutarie si faranno più rigide e minuziose, nasceranno alcune magistrature apposite competenti in materia e, pur restando valido il principio della proprietà privata, i comuni si riserveranno il diritto di intervento sui terreni rivieraschi secondo il principio della pubblica utilità: cfr. la bibliografia citata alla nota 259.

348 Cfr. le osservazioni della Chiappa Mauri a proposito della legislazione milanese sui mulini anche in assenza di una proprietà pubblica, Chiappa Mauri, 1984, pp. 101 e sgg.

349 Zdekauer, 1897, p. 353; cfr. anche supra, nota 149. Tale norma è confermata anche nel Costituto del 1309-10 (Lisini, 1903, II, p. 70).

350 Ibidem. 351 Ivi, p. 350 e p. 324. 352 Ibidem. Una norma simile viene confermata nel Costituto del 1309-10 (Lisini, 1903, II, p. 67). Cfr.

anche supra, nota 133. 353 Lisini, 1903, II, pp. 66-67. Cfr. anche supra, nota 133.

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modalità di trasporto delle granaglie354, si impone un controllo minuzioso sul grano che arriva al mulino e la farina che ne esce355, codificando rigidamente le misure di capacità dei “bozoli” di rame in cui si riponeva la farina356 ed il prezzo da corrispondere ai mugnai per la molitura 357. Si crea infine una sorta di commissione addetta alla risoluzione delle controversie che sorgevano frequentissime tra i comproprietari dei mulini358.

È evidente che, in particolare con alcune di queste norme, il comune ha ormai avocato a sé il controllo dei diritti sulle acque, esautorandone di fatto i proprietari dei terreni rivieraschi in base al principio dell’utilità pubblica. Tale acquisizione non appare tuttavia ancora completa nei confronti degli enti ecclesiastici, i cui diritti sembrano più difficili da scalzare. In questo caso il comune deve accontentarsi di formulare e perseguire un simile proposito destinato in realtà solo a parziale realizzazione: infatti, per quanto concerne le norme relative alla distruzione delle ‘novità’ costruite nei mulini ed al controllo dell’altezza delle steccaie, si specifica che esse non valgono per gli ecclesiastici, a meno che questi ultimi non vogliano spontaneamente sottoporvisi359. Un altro punto da sottolineare è l’evidente protezione pubblica accordata ai mulini, che traspare da molte delle direttive sopra elencate. Questa sorta di ‘favore’ concesso dalle autorità comunali ai mulini ad acqua, è giustificato innanzitutto dalla indispensabile funzione che essi svolgevano nel settore dell’approvvigionamento alimentare, tanto più urgente quanto più popolosa era la città. La mancanza o scarsità di grano, pane, farina, o il loro alto prezzo, oltre che affamare ampie categorie di cittadini, poteva infatti costituire anche un ottimo pretesto per rivolte e sommovimenti popolari360; di qui tutta una serie di provvedimenti tesi ad impedire l’accaparramento o l’espor tazione dei grani fuori del contado, se non dietro concessione di speciali licenze dette “tratte”, e a favorirne viceversa l’affluenza sul mercato cittadino, a regolamentarne le modalità di trasporto, ammasso e vendita, a controllarne i prezzi361.

Oltre alle norme contenute nei Costituti, per Siena possediamo anche lo Statuto degli Ufficiali sopra i Mugnai, che fu redatto nel 1281362 anche se di una magistratura con competenze in materia, i domini mugnariorum, abbiamo notizia già a partire dal 1226, e sappiamo che essi provvedevano al

354 Si stabilisce che i padroni dei mulini debbano possedere delle bestie da soma per il trasporto al mulino delle granaglie (Zdekauer, 1897, p. 353); inoltre che chiunque possieda un mulino sul Merse “a molendinis alexassa usque ad molendina domini Orlandi Bonsignoris etconsortum de Foiano”, cioè nella zona più lontana dalla città, debba tenere un mulo o un cavallo per ciascun palmento per portare le granaglie a macinare al mulino durante tutto l’arco dell’anno (Zdekauer, 1897, p. 352); quest’ultima norma è confermata nel Costituto del 1309-10 (Lisini, 1903, II, pp. 68-70).

355 Lisini, 1903, II, p. 68. 356 Ibidem: questi “bozoli” devono essere di rame e ampi otto once alla bocca, devono stare appesi alla

tramoggia con robuste catene di ferro ed essere suggellati con marchi del comune. Si controlla inoltre con frequenza che essi non vengano alterati.

357 Zdekauer, 1897, pp. 351-352. 358 Ivi, pp. 350-351: si stabilisce che venga scelto “unus bonus et legalis homo et bone fame” per

ciascun Terzo cittadino e che tale commissione riassegni a ciascun proprietario in causa la parte a lui spettante della struttura in questione.

359 Lisini, 1903, II, p. 67: “Et questo capitolo abia luogo per li laici et infra li laici, et non per li cherici o vero religiosi; salvo che se li cherici o vero religiose persone vorranno etconsentiranno che le loro molina et steccate sidebiano terminare, abia luogo et intendasiancora per quelli cherici et religiose persone,e’ quali et le quali vorranno et consentiranno che le loro steccate et molina si terminino”. Ivi, II, p. 70: “Et lo detto capitolo abia luogo per li laici et contra lilaici, et anco per li cherici et contra li cherici, se missere lo vescovo et li cherici religiosi diceranno con effetto. Et che essi cherici et le chiese sieno tenuti et oservino de le loro terre et de le chiese per li laici et diquelle cose le quali nel predetto capitolo si contengono”.

360 Si veda Bowsky, 1976, pp. 47 e 50, episodi del 1295 e 1328. 361 L’argomento è molto vasto e, anche se strettamente connesso con questa parte della trattazione,

esula in parte da essa e non potrebbe essere comunque esaurientemente affrontato. In ogni caso si vedano al proposito De Colli, 1957, p. 156; Bowsky, 1976, pp. 42-46, 51, 53, 73 e sgg.; Bowsky, 1986, pp. 285 e sgg.; Pinto, 1982, p. 140; Pinto 1985.

362 Pubblicato da De Colli, 1957.

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trasporto del grano, alla sua compravendita, alla macinazione ed alla riscossione della relativa gabella363. I domini erano nominati e stipendiati dal comune e considerati come ufficiali minori dello Stato, segno evidente di un particolare interesse e controllo, da parte della comunità intera, verso i problemi dell’approvvigionamento e della limitazione del commercio di generi alimentari fondamentali. Dallo Statuto del 1281 risulta che i compiti più importanti degli ufficiali erano la cura dell’igiene nei mulini, la sorveglianza dei “bozoli” e la punizione delle frodi nella misurazione della farina. Essi dovevano inoltre garantire che i mugnai adempissero continuamente alla molitura e che gli incaricati del trasporto (portitores) facessero ininterrottamente affluire il grano ai mulini (anche dirottandolo su altre strutture nel caso che alcune non potessero macinare), e viceversa la farina verso la città. Questi ufficiali dovevano poi sorvegliare i mulini dei luoghi pii e religiosi e delle chiese tramite i tres homines de penitentia, i quali avevano il compito di pregare i rettori delle chiese affinché facessero osservare quanto stabilito dallo Statuto. In caso di inadempienza era prevista la proibizione a tutti gli uomini della giurisdizione senese di portare a macinare in tali mulini364. A proposito di questa ultima norma, ci si può ricollegare a quanto detto in precedenza riguardo alla progressiva acquisizione, da parte del comune, del controllo anche sulle strutture private o di pertinenza ecclesiastica: si può notare, infatti, che, se le norme degli Statuti rispettano formalmente l’autonomia degli impianti ecclesiastici, il comune aveva altri mezzi molto efficaci per far rientrare di fatto anche le strutture appartenenti ad enti religiosi sotto il proprio controllo normativo.

La comparsa di una legislazione specifica e la creazione di magistrature con competenze in materia sono da interpretarsi come tappe di quel fenomeno di portata generale che vede ogni comune, con maggiore o minore lentezza, cercare di avocare a sé i diritti sulle acque. In questo senso sono da interpretarsi anche le lunghe dispute che spesso si scatenavano, a proposito di mulini, tra comuni, vescovi o enti religiosi365. Tuttavia per Siena non si segnalano evidenze di tale tipo ed anzi molti provvedimenti comunali sembrano mostrare una convivenza tutto sommato pacifica con questi poteri, e talvolta una stretta collaborazione con essi. Sembra dunque che il passaggio delle consegne sia avvenuto in modo indolore, senza episodi di imperio e contrasti clamorosi come altrove, anzi spesso trovando delle convergenze di interessi: riesaminando l’atto con cui il comune prende sotto la sua tutela l’abbazia di Torri e stipula l’accordo sulla costruzione dei mulini, si nota che si tratta di un contratto che, anche se in parte sbilanciato in favore dell’organo cittadino, procura certamente notevoli vantaggi ad entrambe le parti stipulanti.

L’attenzione delle autorità verso i mulini e l’attività molitoria era comunque spesso dettata anche da un altro motivo, cioè dalla potenzialità di gettito fiscale che potevano rappresentare. Vi sono esempi di città italiane in cui diverse imposizioni del fisco comunale gravavano sui mulini o sulla molitura con dazi di vario genere, che andavano da una imposta fissa annuale sulla base del censimento dei fuochi, ad un dazio da pagare direttamente al mulino in proporzione alla quantità di grano macinato, ad imposizioni calcolate in base al numero dei palmenti alloggiati nella struttura molitoria366. Si è osservato che, analizzando la fiscalità in materia annonaria in generale, e quella

363 Ivi p. 156. 364 Ivi, p. 164. 365 Si vedano, ad esempio, tutte le vicende relative all’abbazia di Settimo (Pirillo, 1989), o le dispute

sorte tra il comune di Reggio Emilia ed il vescovo della città per il controllo sui mulini in seguito al tentativo attuato dal comune nel XIII sec. di accaparrarsi tutti i mulini del territorio, rimanendo infine escluso solo da quelli degli enti ecclesiastici (Dussaix, 1979, pp. 133, 138-139, 141); inoltre la lunga lite, iniziata nel 1252, tra il monastero di S. Salvatore all’Amiata ed il comune di Abbadia a proposito della costruzione di una gualchiera sul Vivo, risoltasi con una netta vittoria del potere comunale, (Redon, 1982, p. 118).

366 Si vedano i numerosiesempi di tassedi vario tipo nella Milano di XIII-XIV sec. riportati in Chiappa Mauri, 1984, pp. 109­114. Inoltre le notizie di imposizioni fiscali del genere riguardanti lazona diPadova,Bassano, Monselice, Cittadella,Este, in Collodo, 1990, p. 395 e sgg.

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legata alla molitura in particolare, “siamo spinti a ridimensionare il peso degli obiettivi di rifornimento alimentare che in un primo momento ci erano sembrati decisivi per motivare la sorveglianza cittadina sulle derrate”367.

Siena non costituisce una eccezione a questa tendenza generale: nella selva di dazi e gabelle stabilite dal comune, che colpivano in particolare i prodotti alimentari nei loro movimenti, sono certamente previste imposte anche sulla farina proveniente dal contado, da pagarsi direttamente alle porte di Siena368; ma si trattava tutto sommato di dazi ordinari, che colpivano questa merce al pari di decine di altri prodotti. Molto più degni di nota sono invece gli interventi comunali in fatto di tassazioni che colpivano direttamente l’operazione della molitura. De Colli riporta la notizia secondo la quale vi sono tracce, nei libri di Biccherna e Consiglio Generale, di un ordinamentum in materia granaria almeno dal 1249 e di una delibera sulla violazione di questo, cioè l’invio di grano al mulino senza il relativo permesso: tale permesso potrebbe sottintendere una forma di tassazione369.

Il primo Statuto della Gabella, comunque, della fine del XIII sec., dedica numerose rubriche ad una minuziosa e severa regolamentazione delle entrate che dovevano pervenire alle casse comunali dalla macinazione del grano. Ci si preoccupava innanzitutto che tutti i mulini esistenti nel contado senese dovessero essere stimati da una commissione apposita ed essere affittati e quindi operativi (bisogna notare che i membri della commissione non dovevano partecipare alla proprietà delle strutture, evidentemente per evitare frodi)370. Inoltre, cosa ancora più importante, si stabiliva che tutte le persone sottoposte alla giurisdizione senese dovessero andare a macinare solo ai mulini che pagavano la gabella al comune, sotto pena, in caso di trasgressione, di una multa di 10 lire per ogni salma e della perdita del carico e delle bestie (la metà di questi ultimi sarebbe andata all’eventuale delatore, l’altra metà al comune); la tassa consisteva in 5 soldi per moggio di frumento

367 Collodo, 1990, p. 399. 368 Nella gabella “delle Otto Gabelle” si tassavano vari generi di primo consumo tra cui la farina, la

legna da ardere, il carbone, cfr. Bowsky, 1976, p. 198. In Consiglio Generale, 60, c. 87 r-v, anno 1301, tale gabella è inserita tra quelle da raddoppiare e vi è compresa la farina, oltrea bestie da cortile, uova, formaggio, polli, legna ecc.: sull’argomento cfr. Ginatempo,1989-1990, pp. 120-121,note 26 e 32. La farinarientrava anche tra i generi compresi nella cabella portarum agli inizi del XIV sec., ed era tassata 1 denaro allo staio, cfr. Banchi, 1871, p. 128.

369 De Colli, 1957, p. 155. 370 “In primis statutum et ordinatum est quod omnia et singula molendina que sunt in comitatu et iurisdictione Senarum que

non sunt affictata debeant affictari et extimari eorum etcuiuslibet eorum redditus hoc modo. Scilicet quod per dominos Novem eligantur tres boni homines et sapientes viri, scilicet unus de quolibetterçerio in secreto ita quod non sciatur, qui habeant notitiam molendinorum qui iurent bona fide sine fraude affictare et extimare valutam affictus et redditus molendinorum que sunt in flumine Umbronis que affictata et extimata non sunt. Et alii tres simili modo eligantur quidebeant dicto modo affictare et extimare redditus molendinorum que sunt in flumineArbie que extimata et affictata non sunt. Etalii tres simili modo eligantur qui debeant dicto modo affictare et extimare redditus molendinorum que sunt in flumine Boççonis et Bulgionis Tresse Riluoghi et Malene et in aliis aquis que suntin comitatu et iurisdictione senarum que extimata et affictata non sunt, alia vel omnia et singula molendina que sunt in comitatu et iurisdictione senarum que sunt affictata stare debeant et esse in extimationeet affictu in quo nunc affictatasunt. Et alii qui eligentur ut dictum est ad affictandum etextimandum supradicta molendina que affictata et extimata non sunt non sint de illis qui habeant aliquam partem in aliquo dictorum molendinorum et omnes redditus cuiuslibet molendini debeant affictari et extimari ad frumentum solum et non alium bladum.” (Gabella, I,cc. 52v-53r). “Item statutum et ordinatum est quod supradicti offitiales quidebent affictare et extimare molendina predicta ut dictum est debeant in flumine in quo posita fuerint invenire si est ibi aliquid molendinum affictatum. Et si ille vel illi cuius vel quorum fueritmolendinum dixerit quod dictum molendinum fuerit affictatum faciant sibi ostendi instrumentum affictus et reducant illud in scriptis silicet quo anno et qua die dictum istrumentum fuit conditum et manus cuius notari et in quantum est affictatum. Etsi dictum instrumentum non ostenditur dictis offitialibus debeant et teneatur predicti offitiales dictum molendinum affictare et extimare sicut tenentur affictare et extimare alia molendina non affictata” (Ivi, cc. 53r-54r).

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e ci si doveva assicurare che tutti i mulini, anche quelli di più recente edificazione, la pagassero371. Si noti bene il modo in cui questo gruppo di norme tendeva a stabilire un monopolio, da parte del comune, sui proventi che derivavano dalla molitura. Si stabiliva infine che anche chi non era soggetto alla giurisdizione cittadina, ma era proprietario di un mulino o sua parte nel contado senese, doveva ugualmente pagare la tassa al comune, sotto pena di essere escluso dalla protezione pubblica372. Direttive simili erano previste anche per i mulini a vento e per i “molendina sicca”373.

Il comune, dunque, non usava certo mano leggera anche in materia di imposizioni fiscali e di eventuali trasgressioni alla normativa. Gli interessi in gioco, come più volte sottolineato, erano alti, sia in fatto di approvvigionamento, che di ordine pubblico, che di risorse finanziarie: la legislazione sui mulini appare dunque come il corollario della vasta ed articolata politica annonaria cittadina, perfezionata attraverso varie tappe per tutto il XIII secolo.

3.6. CONSI D ERAZIO N I CONCLU SIVE

Diritti pubblicistici sulle acque e disponibilità economiche per gli investimenti necessari alla realizzazione degli impianti: non diciamo nulla di particolarmente nuovo individuando, anche per il nostro territorio, questi fattori come gli elementi chiave di cui era indispensabile essere in possesso per poter installare strutture molitorie idrauliche.

Per quanto concerne i diritti sulle acque, dai dati a nostra disposizione emergono almeno tre fasi con caratteristiche diverse. La prima, cronologicamente più antica, vede rientrare il controllo sui corsi d’acqua, e quindi sui mulini, all’interno dei diritti signorili esercitati da famiglie aristocratiche o enti ecclesiastici su un determinato territorio. Di questo momento, come abbiamo già sottolineato, con la documentazione disponibile si possono in realtà soltanto individuare degli indizi, intravedere dei residui: ad esempio i diritti trasferiti dai Gheradeschi al monastero di Serena, quelli ceduti dal vescovo volterrano all’abbazia di S. Galgano, quelli esercitati dal conte di Civitella sui mulini di Campora o dal conte di Frosini sulle strutture presenti nella giurisdizione del castello, anch’essi ceduti allo stesso monastero.

Una seconda fase, centrale e ben documentata dai dati a nostra disposizione, si individua invece in pieno XIII sec.: i diritti bannali sui mulini sembrano scomparire e tali strutture paiono rientrare ormai pienamente tra le proprietà allodiali, oggetto di transazioni, passaggi ereditari, compravendite, così come l’uso delle acque sembra adesso dipendere esclusivamente dalla proprietà dei terreni rivieraschi e degli appezzamenti attraverso i quali si devono realizzare le opere di derivazione. Contemporaneamente, però, si va delineando una nuova situazione, ovvero l’intervento degli organismi comunali che, soprattutto a partire dalla metà del Duecento, cominciano a stabilire norme legislative che riguardano tutti i mulini, anche

371 “Item statutum et ordinatum est quod quilibet de civitate et comitatus Senarum teneatur et debeat ire ad molendum frumentum vel aliud bladum solum ad illa molendina que dant redditum sive kabellam comuni Senarum. Et qui non fecerit scilicetqui iverit ad aliud molendinum quam ad illud molendinum quod dat redditum vel kabellam comuni Senarum condempnetur pro quolibet vice et qualibet salma in 10 librarum denariorum Senarum et perdat salmam et bestiam et cuilibet sit licitum accusare et capere bestiam et salmam et medietas sit accusatoris vel capientis et alia sit comunisì (ivi, c. 54r). “Item statutum et ordinatum est quod de quolibet molendino quod est in comitatu et districtu Senarum debeat solvi pro intrata comunis Senarum 5 soldorum denariorum de quolibet modio frumenti in quo est vel fueritaffictatum velextimatum” (ivi, c. 54r-54v). “Item statutum et ordinatum est quod per dominos Novem gubernatores et defensores comunis et populi senarum de mense decembris venturi debeant eligi duo boni homines per terçerium qui teneantur et debeant taxare omnia molendina que taxata non sunt que facta et constructa fuerunt sive sunt a taxatione citra que sunt in comitatu senarum. Et quod dicti taxatores teneantur et debeant minuere de taxatione illorum molendinorum veterum que fuerunt vicina predictis novis molendinis sideteriorationem receperunt propter constructiones novorum molendinorum”(ivi, c. 56 r-v).

372 “Item statutum et ordinatum est quod quilibet qui non fuerit suppositus iurisdictioniSenarum qui habuerit aliquid molendinum vel partem in aliquo molendino comitatus et iurisdictionis Senarum et non solverit comuniSenarum de redditus molendini utsupradictum est illa talis persona vel ille talis locus et eorumbona et eorum familiares sint exempti et extracti de protectione comunis Senarum et eis et cuilibet eorum nullum ius nec constitutum servetur.” (ivi, cc. 54v-55r)

373 Ivi, c. 54v.

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appartenenti a privati ed organismi religiosi, dislocati all’interno della giurisdizione senese. In pratica, con un procedimento che si può definire circolare, il comune reintroduce il concetto di acque pubbliche, il cui controllo, in un tempo molto lontano, spettava addirittura all’autorità regia, era stato poi assorbito nelle prerogative signorili locali, era infine andato perduto identificandosi ormai con la proprietà privata.

Passando a considerazioni prettamente economiche, quando si parla di mulini si richiama in genere l’attenzione sugli alti costi che comportava l’installazione di una di queste strutture, derivanti da tre operazioni fondamentali: in primo luogo la realizzazione di sbarramenti, canali, bacini di raccolta, in secondo luogo l’edificazione dell’edificio vero e proprio, infine la costruzione dei meccanismi interni in legno e ferro. All’investimento iniziale si dovevano poi aggiungere le continue spese necessarie per le opere di manutenzione, quali il ripristino degli sbarramenti via via che essi venivano danneggiati dalle piene, la ripulitura periodica dei canali, la riparazione o sostituzione delle parti usurate dei meccanismi; basti pensare soltanto alle mole, che da sole dovevano costituire un piccolo capitale sia per il loro valore intrinseco che per l’onere del trasporto di cui erano gravate374. A ciò si deve aggiungere la semplice considerazione che i mulini erano edifici particolarmente soggetti alla completa rovina portata dalle piene e non era infrequente il caso in cui essi dovevano essere riparati, ricostruiti, o addirittura del tutto spostati di luogo, in seguito a violente alluvioni, con conseguente grave danno economico. Avendo bene in mente questa serie di caratteristiche, anche prescindendo da altre considerazioni riguardanti i diritti sulle acque, appare abbastanza logico constatare che i mulini si concentrassero nelle mani di quegli organismi o persone che avevano maggior potere ed un patrimonio più solido: in primo luogo gli enti ecclesiastici, le grandi famiglie aristocratiche o borghesi, il comune.

L’alto costo e valore degli impianti molitori spiega in parte anche il fatto che la proprietà dei mulini appaia estremamente frazionata: si parla spesso di 1/9, 1/18, 1/24 e persino 1/36 o 1/60 di una struttura molitoria. Quasi mai i documenti riportano transazioni relative all’intera proprietà, mentre generalmente si tratta di porzioni più o meno piccole. Ad esempio nell’arco del XIII secolo soltanto in 6 casi gli impianti appartengono integralmente ad un unico proprietario e non si tratta mai di privati laici375; bisogna inoltre notare che in tutti questi casi si trattava di alcuni dei più grandi impianti della zona. Anche la proprietà di almeno metà di un mulino è piuttosto rara e riguarda ancora una volta quasi esclusivamente il comune di Siena o enti ecclesiastici. Il cerchio dei proprietari comincia ad allargarsi sensibilmente soltanto a partire dalla frazione 1/4, venendo a comprendere anche diversi privati laici. Negli altri casi ci troviamo di fronte a frazioni molto piccole ed ai già citati esempi di ‘consorzi’, probabilmente formatisi per affrontare le spese dell’acquisto e manutenzione di un mulino376. Un altro fattore che verosimilmente può aver contribuito a determinare questa estrema frammentazione, può essere stata l’originaria appartenenza a grandi famiglie aristocratiche, con le successive suddivisioni ereditarie secondo l’istituto dell’indiviso377; essa infine può essere talvolta il segnale di beni appartenenti ad intere comunità378.

374 Per questo aspetto cfr. supra, p. 89; per tutti gli altri aspetti tecnici riguardanti la costruzione e la struttura materiale dei mulini si rimanda ai par. 2.1 e 2.2.

375 Sono i mulini de Saxis (Sito 5) e de Volta (Sito XVI) nel 1245 appartenenti all’abbazia di Torri; il Mulinaccio (Sito 10 UT 1, ca. 1220), i mulini di Campora (Sito VII, ca. 1220: le cui quote sono state ricostruite) ed il mulino sul Feccia (Sito XIII, inizi XIV sec.) di proprietà di San Galgano; il Mulino Palazzo (Sito 17) del comune di Siena.

376 Un estremo frazionamento della proprietà dei mulini è diffuso anche in altre aree, ad es. in Liguria (Origone, 1974, pp. 89 e sgg.), a Reggio Emilia (Dussaix, 1979, p. 136), in Lombardia (Chiappa Mauri, 1984, p. 28).

377 Il mulino di Castiglion Balzetti (Sito XIV) diviso in quote fino ad 1/36 tra appartenenti alla consorteria dei Saracini, il mulino di Foiano (Sito XI), diviso in piccole quote tra Bonsignori ed Incontri.

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Il continuo e progressivo frazionamento dei patrimoni favoriva, in un periodo di aumento demografico ed espansione economica, la mobilità e commerciabilità dei beni fondiari ed immobiliari, dando luogo a tutta una serie di transazioni. In particolare i mulini, per il loro alto valore intrinseco e per le notevoli rendite che garantivano, sembrano estremamente appetibili e quindi maggiormente soggetti ad operazioni finanziarie. Non solo: è importante sottolineare come essi risultino essere considerati quasi alla stregua di moneta corrente, alla cui vendita, oppure pegno come garanzia di un credito, si ricorre per ottenere denaro liquido in caso di gravi difficoltà economiche. Di questa ultima tendenza ci sono almeno quattro casi molto chiari nella nostra documentazione, cioè la metà del mulino sul Frelle ceduta a causa dei debiti dalla Pieve di S. Giovanni a Monte al monastero di S. Galgano, la vendita dei mulini di Brenna ed Orgia da parte del comune di Siena nel 1258, la cessione, ancora una volta per debiti, di metà del mulino de Saxis, da parte del monastero di Torri nel 1288, infine la vendita di alcune quote dei mulini di Ripetroso e Lupinari, da parte del comune di Monticiano, avvenuta nel 1276.

È naturale che una tale mobilità favorisse chi poteva contare su una situazione patrimoniale più stabile e quindi era più in grado di approfittare della congiuntura favorevole: è evidente ad esempio il caso di S. Galgano e del suo tentativo, portato avanti con tenacia, di razionalizzare ed allargare attraverso acquisti successivi il proprio controllo sugli impianti molitori di questo bacino idrografico. Ma la parzialità della documentazione non deve ingannarci: attorno a queste strutture ruotava un vasto mondo di interessi, che coinvolgevano anche molti altri enti ecclesiastici ­praticamente tutti, come abbiamo avuto modo di vedere - e soprattutto le famiglie mercantili senesi, le cui operazioni immobiliari, però, non sono purtroppo percepibili nei dettagli. L’affare della molitura è in fondo uno spaccato di vita medievale che coinvolge una folla di personaggi più o meno piccoli, con le loro dispute per assicurarsi un po’ di acqua in più, col loro frenetico andirivieni nella documentazione, con le loro fortune che talvolta aumentano e talvolta sfumano nell’arco di pochi anni, travolte dai debiti o da una piena improvvisa del fiume.

Fig. 5 - Ruo ta idrau lica “per di sop ra”.

Fig. 6 - Sch ema di funzionam ento del l’albero a camme nell’azionare un p estello verticale.

Fig. 7 - Albero a camme azionato da una ruota idraulica (Agricola, 1563, libro IX, p. 327).

Fig. 8 - Steccaia di pali e fasci ne presso Brenna

Fig. 9 - Sbarramento in muratura che alimentava la ferriera di Ruota (Sito 4 ).

Fig. 10 - Canale che alimentava il M ulinaccio di Mon ticiano (Sito 10 UT 1).

Fig. 11 - Archi di uscita dell’acq ua dal M ulino Palazzo (S ito 17)

Fig. 12 - Archi di u scita dell’acqua del Mul ino del Pero (Si to 15)

Fig. 13 - Il Mulino del Pero (Sito 1 5)

Fig. 14 - Il Mulino Serraval le (Sito 16)

Fig. 15 - Il Molinel lo di Torri (Sito 2 1)

Fig. 16 - Il Mulino Palazzo (Sito 17 )

Fig. 17 - Il Mulino di Torniella (Sito 23 UT 2)

Fig. 18 - Meccanismi interni del mulino orizzontale (1: tremogia; 2: macina superiore; 3: macina inferiore; 4: doccia; 5:palus; 6: puntaruolus; 7: noctola; 8: palmentus; 9: circuli; 10: ritrecine; 11: ralla)

Fig. 19 - Iscrizione posta sopra l’arco d’in gresso d el Mulin o Palazzo (Sito 17) che ne ricorda lacostruzione avvenuta nel 124 6.

Fig. 20 - Distribuzione degl i opifici (secc. XIII-prima m età XIV).

Fig. 3 - Mulino orizzontale.

378 È probabilmente il caso dei mulini di Ripetroso (Sito V) e Lupinari (Sito IVa) che, da quando cominciano a comparire nella documentazione, appaiono divisi in quote fino ad 1/24, delle quali una buona fetta appartiene al comune di Monticiano, che sarà poi costretto ad alienarle; altre quote spettano in parte alla Canonica di S. Giusto di Monticiano, in parte a privati del luogo. Cfr. anche 1/6 del mulino appartenente alla Comunità di Montepescini nel 1318 (Sito 26).

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F ig . 4 - Ru o ta id rau lica “pe r di sot to” e m e ccan ismi p er la trasmiss io n e d el mo to .

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