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Diego Fusaro – Silvio Bolognini IL NICHILISMO DELL’UNIONE EUROPEA ARMANDO EDITORE

IL NICHILISMO DELL’UNIONE EUROPEA · 2019. 7. 17. · 11 Ci permettiamo di rinviare al nostro Antonio Gramsci. La passione di essere nel mondo, Feltrinelli, Milano 2015. 12 Si veda

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Diego Fusaro – Silvio Bolognini

IL NICHILISMO DELL’UNIONE EUROPEA

ARMANDO EDITORE

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Sommario

Parte Prima 9Diego Fusaro

L’ideologia europeista. O della normalizzazione 11dell’inimmaginabile

1. Il nichilismo dell’Unione Europea 11

2. Una “rivoluzione passiva” gestita dall’alto 13

3. Libera circolazione: l’Europa del capitale 17

4. Post-democrazia e cesarismo finanziario 23

5. Sempre a sud di qualcun altro. La “quistione meridionale” 27

6. Irriformabilità strutturale. Critica della ragione europeista 30

7. Inimicizia tra UE e carte costituzionali 39

8. L’unione delle classi dominanti europee 43

9. La profezia di Lenin 50

10. Una tecnocrazia efficiente, repressiva e post-democratica 54

11. La mondializzazione del Vecchio Continente 59

12. Stato minimo e deregolamentazione 62

13. L’euro, moneta privata e transnazionale 66

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14. “Più Europa”: le mot d’ordre dei tecnocrati di Bruxelles 72

15. Il Manifesto di Ventotene e la metamorfosi globalista 77 delle sinistre

16. “Cedere la sovranità”: autocrazia dell’economico sovranazionale 85

17. Di male in peggio. L’Italia dopo il 1989 91

18. Estremismo di centro e trionfo del modello liberal 95

19. A destra come a sinistra. Il partito unico dell’eurocapitalismo 100

20. Il panfilo Britannia e la privatizzazione globalista dell’Italia 105

21. I colonnelli dell’economia: il colpo di Stato finanziario del 2011 109

22. Gli oratores e la “bestia selvatica” del mercato globale 114

23. Apologetica indiretta del globalismo europeista 122

24. Uno sguardo all’area post-sovietica 127

25. Sovranità e democrazia. Per invertire la rotta 133

Parte seconda 141silvio Bolognini

Capitolo primoIl “nuovo” paradigma di sviluppo dominante, 143la sua implementazione nel disegno europeista e l’utilizzo strumentale del sub paradigma smart city

Capitolo secondoIl processo di svuotamento di potere degli stati sovrani 155e la governance multilivello; i meccanismi e l’apparato strumentale del sistema

Capitolo terzoL’evoluzione umanisticamente orientata 167– o presuntivamente tale – della smart city

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Capitolo quartoLo strumentario tecnico che disciplina 188 il mainstreaming: il sistema autoreferenziale e prescrittivo degli indicatori

Capitolo quintoLe formule alternative, non istituzionalizzate, 201di governance: riconducibilità al paradigma di sviluppo dominante e potenziali valenze antisistemiche

Capitolo sestoL’impatto “verticale” dello smart thinking sul policy 224 making e le implicazioni sulla vita individuale: scenari attuali e scenari possibili

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Parte Prima

Diego Fusaro

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L’ideologia europeista. O della normalizzazione dell’inimmaginabile

“Il più grande avvenimento recente – che Dio è morto, che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile – comincia a gettare le sue prime ombre sull’Europa”.(F. Nietzsche, La gaia scienza)

“Il mondo nuovo è un unico campo di concentramento che si crede un paradiso, non essendoci nulla da contrapporgli”.(T.W. Adorno, Prismi)

“Apriti sesamo: vorrei uscire!”.(S. Jerzy Lec, Pensieri spettinati)

1. Il nichilismo dell’Unione Europea

Nel 1940, Martin Heidegger tenne un celebre ciclo di lezioni che, destinate a sfociare nel monumentale studio su Nietzsche, vennero pub-blicate con l’evocativo titolo di Der europäische Nihilismus, Il nichili-smo europeo1.

Sulla scorta di un Nietzsche riletto in chiave ontologica come Vol-lendung, come “compimento” tecnocapitalistico della metafisica e del

1 M. Heidegger, Der europäische Nihilismus, 1961; tr. it. a cura di F. Volpi, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 20103, pp. 167-242. Si veda la raccolta di W. Müller-Lauter pbbli-cata in italiano con il titolo di Volontà di potenza e nichilismo: Nietzsche e Heidegger, a cura di C. La Rocca, Parnaso, Trieste 1998.

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suo “oblio dell’essere” (Seinsvergessenheit), Heidegger individuava nel nichilismo l’ombra segreta dell’avventura storica dell’Europa, il suo cuore di tenebra destinato a mostrarsi appieno solo nel momento culminante di quella storia.

Con le profetiche parole di Nietzsche: “il più grande avvenimento recente – che Dio è morto, che la fede nel Dio cristiano è divenuta inac-cettabile – comincia a gettare le sue prime ombre sull’Europa”2.

Rispetto al tempo in cui scriveva Nietzsche, quelle ombre fanta-smatiche si sono oggi tramutate in realtà concretissima, a tal punto che il nichilismo, divenuto ubiquitario, ha informato di sé ogni atomo del mondo sussunto sotto la globalizzazione dei mercati e sotto il nuovo ordine post-nazionale europeo.

Più del comunismo di Marx, era il nichilismo di Nietzsche lo spet-tro che si aggirava clandestinamente tra le regioni europee nel secolo XIX: provenendo da distante, esso era prossimo a realizzarsi nel nuo-vo quadro di un’Europa interamente tecnicizzata e affidata al calcolo senza pensiero, svuotata dei suoi valori storici e ormai vocata in forma esclusiva al valore di scambio, al mito della crescita quantitativa e alla déraison de la raison économique3. È l’apoteosi del più macabro “pa-neconomismo utilitarista”4, come l’ha etichettato Serge Latouche.

Né Heidegger, né Nietzsche, forse, avrebbero potuto immaginare che il nichilismo europeo si istituzionalizzasse e assumesse la forma di quella civilissima barbarie che si presenta oggi con il nome seducente di Unione Europea5.

Per chi si sappia avventurare al di là del vitreo teatro delle grandi narrazioni, essa sempre più si presenta come una tecnocrazia repressi-va ed efficiente, costruita sul nulla e, per ciò stesso, figurante come la negazione della storia della civiltà europea. È la Vollendung del nichili-smo occidentale, elevato al nobilitante rango di istituzione a cui i popoli d’Europa debbono tributare il loro culto ossequioso.

2 F. Nietzsche, Die fröhliche Wissenschaft, 1882; tr. it. La gaia scienza, in Id., Opere, V, 3, Adelphi, Milano 1965, § 343, p. 204.

3 S. Latouche, La Déraison de la raison économique, Albin, Paris 2001.4 Id., L’invention de l’économie, 2005; tr. it. L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri,

Torino 2010, p. 204.5 Si veda l’interessante studio di R. Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa,

Einaudi, Torino 2016.

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La recente pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger ci ha re-stituito, oltre alla tediosa quanto superficiale “chiacchiera” (Gerede) giornalistica sulla vita del filosofo, una chiara idea di quanto il filoso-fo di Meßkirch fosse consapevole del destino incombente sulla civiltà europea: “l’Europa in quanto un unico ‘ufficio’”6, egli scrive icastica-mente in un passaggio dei Quaderni neri, perfettamente adombrando l’essenza grigia del tecnonichilismo oggi divenuto essenza ovunque riscontrabile dell’Unione Europea.

In effetti, l’Unione Europea si presenta oggi come un “unico uffi-cio” adibito al pensiero calcolante e dimentico del pensiero meditante: un “unico ufficio” nel quale i mezzi hanno preso il sopravvento sui fini e nei cui spazi può dirsi compiuto il Tod Gottes, la “morte di Dio” pre-conizzata da Nietzsche.

Secondo il dettato della Gaia scienza (§ 125), l’annuncio dell’uo-mo folle – Gott ist tot! – viene pronunziato in quel luogo tutto fuorché neutro che è il mercato: Dio muore nella società di mercato, ove cioè ogni valore sia ucciso in nome del valore di scambio. E che altro è, in fondo, l’Unione Europea se non un “unico ufficio”, un’unica “banca” e un unico sistema di dominio tecnico, che uccide la vita dei popoli eu-ropei e che segna l’apoteosi del nudo calcolo e della volontà di potenza infinitamente autopotenziantesi?

2. Una “rivoluzione passiva” gestita dall’alto Come abbiamo cercato di chiarire in Europa e capitalismo, l’odierna

Unione Europea deve essere intesa come il compimento, nel vecchio con-tinente, del “capitalismo assoluto”, l’epoca del fanatismo dell’economia, del monoteismo del mercato e degli économistes contre la démocratie7.

Il capitale è oggi assoluto perché è “sciolto da” (ab-solutus) ogni limite residuo, da ogni freno in grado di limitarne lo sviluppo. A partire dal 1968 – mito fondativo di un capitalismo post-borghese –, si mette in congedo la cultura borghese, la sua sfera valoriale (etica, culturale, religiosa) incompatibile con l’estensione illimitata della forma merce.

6 M. Heidegger, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948); tr. it. Quaderni neri. Note I-V, 1942-1948, Bompiani, Milano 2018, p. 11.

7 J. Sapir, Les économistes contre la démocratie. Les économistes et la politique économi-que entre pouvoir, mondialisation et démocratie, Albin Michel, Paris, 2002.

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Si è, così, imposta una spoliticizzazione dell’economia che è, poi, l’altra faccia dell’economicizzazione della politica: la gelida gestione tecnico-amministrativa del sociale e la governamentalizzazione biopo-litica della nuda vita spodestano la decisione politica della comunità sovrana. La ratio oeconomica della teologia mercatistica non accetta altre ragioni, compresa quella del politico.

Disgiungere l’economia dalla politica – il sogno realizzato del neo-liberismo oggi trionfante – significa sottrarre la prima agli interventi re-golatori della seconda, neutralizzando quest’ultima e favorendo il pieno dispiegamento dell’odierna situazione mondiale, in cui di sovrano vi è solo il mercato.

Secondo quanto già teorizzato da Luigi Einaudi, “il frutto spirituale immateriale più alto dell’economia di mercato è quello di sottrarre l’e-conomia alla politica”8: habent sua fata verba. Per impiegare il lessico di Ulrick Beck, gli “spazi d’azione cosmopolitizzati”9 sono intrinseca-mente “spazi non istituzionalizzati in un quadro nazionale”10 e, dunque, tali da sfuggire alla presa normante del politico.

Il costituirsi dell’odierna Unione Europea deve, in questa prospet-tiva, essere inquadrato come un caso paradigmatico di “rivoluzione passiva”11 nell’accezione gramsciana.

Sulla scia dei Quaderni del carcere, si può con diritto parlare di “ri-voluzione passiva”, allorché si produce, tra le trame dell’accadere sto-rico, un assestamento e un potenziamento del dominio dei dominanti: ossia, allorché il pur tellurico mutamento, lungi dal “fare epoca” e dal segnare il transito a un diverso modo della produzione, figura come un “durare” del medesimo, vuoi anche come un “prolungamento organico” della stessa organizzazione del Produzieren.

Come è noto, il concetto di “rivoluzione passiva”12 svolge un ruolo fondamentale nel “sistema in movimento”13 dei Quaderni del carcere.

8 L. Einaudi, Economia di concorrenza e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX, in “Rivista di storia economica”, VII, n. 2 (1942), pp. 49-72.

9 U. Beck, The Metamorphosis of the World, 2016; tr. it. La metamorfosi del mondo, Laterza, Roma 2017, p. 14.

10 Ivi, p. 15.11 Ci permettiamo di rinviare al nostro Antonio Gramsci. La passione di essere nel mondo,

Feltrinelli, Milano 2015.12 Si veda J. Mena, El concepto de Revolucíon Pasiva: una lectura a los “Cuadernos de la

Cárcel”, Universidad Autónoma de Puebla, Puebla 1984.13 Cfr. A. Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, Deriveapprodi, Roma 2014.

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Gramsci mutua l’espressione “rivoluzione passiva” da Cuoco, che l’a-veva impiegata in riferimento alla rivoluzione partenopea del 1799, svoltasi sotto l’egida dei nobili e degli aristocratici, senza partecipazio-ne contadina.

In riferimento alla vicenda partenopea delineata da Cuoco, Gramsci allude, con la formula “rivoluzione passiva”, a quei fenomeni di profon-do mutamento economico, sociale, politico e culturale diretto e gestito dalle classi dominanti (ad esempio, l’aristocrazia nel Risorgimento), subito passivamente da quelle dominate e determinante un adeguamen-to passivo della mentalità e dei costumi delle masse.

In che senso si può, dunque, parlare – con Gramsci, oltre Gramsci – di rivoluzione passiva in riferimento all’odierna Unione Europea? Lun-gi dal realizzare il sogno husserliano del compimento del telos occiden-tale o quello kantiano del foedus pacificum e dell’attuazione di rapporti tra popoli liberi e uguali, la creazione dell’Unione Europea ha posto in essere il più perverso rovesciamento di quel nobile ideale.

In estrema sintesi, l’Unione Europea corrisponde, appunto, a una “rivoluzione passiva” con cui le classi dominanti, dopo il 1989, hanno stabilizzato il nesso di forza capitalistico, rimuovendo la potenza che ancora in parte, sia pure in forme non esenti da contraddizioni, lo con-trastava (lo Stato sovrano, con primato del politico sull’economico, con spazi di pur perfettibile democrazia e con compromesso keynesiano tra Stato e mercato14). Proprio come il fascismo e l’americanismo studia-ti dai Quaderni del carcere, anche la rivoluzione passiva dell’Unione Europea “fa durare” il presente, impedendo al nuovo di sorgere e al vecchio di tramontare15.

Si è trattato, gramscianamente, di una rivoluzione passiva anche per il fatto che, al pari di quella risorgimentale, la nascita dell’Unione Euro-pea non ha visto l’attiva partecipazione delle classi subalterne.

Di più, è stata attuata apertamente ai danni di queste ultime, non più rappresentate politicamente e, di più, nemmeno interpellate circa la possibilità di entrare nel “sistema Europa”. La creazione dell’Unione Europea ha provveduto a esautorare l’egemonia del politico, aprendo la strada all’irresistibile ciclo delle privatizzazioni e dei tagli alla spe-

14 Si veda G. Leghissa, Neoliberalismo. Un’introduzione critica, Mimesis, Milano 2012, p. 117.

15 Cfr. A. Burgio, Gramsci storico. Una lettura dei “Quaderni del carcere”, Laterza, Roma-Bari 2003.

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sa pubblica, della precarizzazione forzata del lavoro e della riduzione sempre più netta dei diritti sociali, imponendo la violenza economica ai danni dei subalterni e dei popoli economicamente più deboli16.

La neutralizzazione della volontà – direbbe Gramsci – “nazionale-popolare” e di quel pur contraddittorio primato della politica sull’eco-nomia tipico dello Stato sovrano e dello jus publicum europaeum ha costituito un passaggio obbligato per la spoliticizzazione dell’economia e per l’imporsi dell’odierna dittatura del “finanz-capitalismo”17, come ebbe a qualificarlo Luciano Gallino.

Come è stato recentemente mostrato in La nouvelle raison du monde da Pierre Dardot e Christian Laval18, la corsa alla competitività illimita-ta e – foucaultianamente – la “governamentalizzazione” in senso neoli-berale costituiscono, a tutti gli effetti, la cifra dell’epoca post-1989: ciò trova la propria più lampante incarnazione nei princìpi della Costitu-zione Europea, che è formalizzazione della “nuova ragione del mondo” neoliberale19.

In particolare, come sappiamo, l’Unione Europea si fonda sulla competizione tra le economie europee e, insieme, sulla moneta unica gestita da una banca centrale che è garante della stabilità dei prezzi. Questo permette a ogni Paese europeo di praticare il dumping fiscale più spietato per attirare a sé le multinazionali e i contribuenti più fa-coltosi, abbassando sempre di più i salari e il livello della previdenza sociale, i costi della produzione e gli stessi diritti sociali20.

Ne seguono due conseguenze che sono ante oculos omnium e che, lungi dall’essere patologie transeunti, discendono strutturalmente dai fondamenti sui quali è stata edificata l’Unione Europea: la delo-calizzazione e la riduzione della spesa pubblica (sanità e istruzione in primis).

16 Cfr. A. Bagnai, Il tramonto dell’euro. Come e perché la fine della moneta unica salve-rebbe democrazia e benessere in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia 2012; M. Badiale e F. Tringali, La trappola dell’euro. La crisi, le cause, le conseguenze, la via d’uscita, Asterios, Trieste 2012.

17 Cfr. L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011.18 P. Dardot e C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale,

2009; tr. it. a cura di P. Napoli, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoli-berista, DeriveApprodi, Roma 2013.

19 Ivi, pp. 20-21.20 A. Hinarejos Parga, The Euro Area Crisis in Constitutional Perspective, Oxford

University Press, Oxford 2015.

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In quest’ottica, acquista un senso specifico la frase pronunziata da uno dei massimi fiduciari dei mercati apolidi, Mario Monti, in un’intervista del 26 settembre 2011: “la Grecia è il più grande successo dell’euro”, essendo quest’ultimo non una semplice moneta, ma un preciso metodo di governo teso ad applicare le politiche neoliberiste21. Il nesso tra eurozona e liberismo è a tal punto saldo ed evidente che si potrebbe, sulle orme di Sapir, impiegare direttamente la formula eurolibéralisme22.

La competitività diventa il principio regolatore, quando non l’ideale stesso dell’Unione Europea23: i valori della cultura europea, le sue radici spirituali, finiscono per essere ridimensionate, quando non completamen-te omesse, sostituite dagli ideali della competitività e del fiscal compact.

Per questa via, come ancora suggerito da Dardot e Laval24, la nor-ma neoliberista si estende a tutti i paesi dell’Unione Europea e a tutte le aree dell’esistenza, guadagnando territori che tradizionalmente era-no sottratti alla sua presa. Si crea, in tal guisa, uno spietato calo della domanda, nell’illusione di un’offerta più competitiva, e viene posta in essere la concorrenza generalizzata tra i salariati europei e nel mondo, con annesse deflazione salariale e accentuazione delle disuguaglianze. In ciò risiede, appunto, “il miraggio di fondare l’Europa politica sul successo economico e la prosperità materiale”25, su cui si fonda il tra-gico errore di costituzionalizzare le norme della stabilità del bilancio e della concorrenza.

3. Libera circolazione: l’Europa del capitale Che l’Unione Europea, fin dal Trattato di Maastricht (1992), sorga

come “rivoluzione passiva” con cui il nesso di forza capitalistico rinsal-da se stesso nell’epoca post-1989 affiora limpidamente se si considera-no, sulla scia di Dardot e Laval26, quelli che, a ben vedere, sono i suoi tre princìpi fondamentali: a) la costituzionalizzazione della concorrenza

21 Cfr. A. Bagnai, Il tramonto dell’euro, cit., pp. 55-62.22 Cfr. J. Sapir, La fin de l’eurolibéralisme, Seuil, Paris 2006.23 Si veda A. Casiccia, I paradossi della società competitiva, Mimesis, Milano 2011.24 Cfr. P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoli-

berista, cit., pp. 213 ss.25 Ivi, p. 23.26 Ibidem.

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e del pareggio di bilancio; b) il federalismo esecutivo, che consacra il primato dell’intergovernamentale; c) il passaggio in secondo piano dei diritti sociali, ciò che invece era garantito dalla pur contraddittoria pre-senza dello Stato nazionale dello jus publicum europaeum.

Al cospetto di questa evidente struttura neoliberale, l’ideologia eu-ropea sempre di nuovo impiega l’ideale dell’Europa per occultare e le-gittimare la realtà presente, che di quell’ideale è, appunto, la negazione.

L’odierna Unione Europea, da questo punto di vista, rappresenta il paradosso di un’Europa che nega se stessa e la propria storia, neutraliz-zando i propri valori e i propri ideali sull’altare della norma del pareg-gio di bilancio e della competitività; norma che, lungi dal produrre una confederazione tra Stati fratelli e democratici, genera nuove asimmetrie che pongono in essere conflittualità di tipo economico analoghe, entro certi limiti, a quelle politico-militari del Novecento.

Si pensi anche solo all’odierno rapporto asimmetrico e conflittuale tra la Grecia di Tsipras e la Germania della Merkel27: senza esagerazio-ni, è riuscito, in termini economici, al regime neoliberista ciò che non era riuscito – in termini militari – al fascismo di Mussolini, “spezzare le reni alla Grecia”.

Alla luce di queste considerazioni, si può sostenere, ancora con Dar-dot e Laval, che “la crisi dell’Europa è una crisi dei suoi princìpi”28, non certo di alcune sue specificità generali e, per così dire, secondarie. Sic-ché, se si dessero possibilità concrete per riformare l’Europa in corso d’opera, sarebbe opportuno adoperarsi per tradurle in atto. E, tuttavia, tali possibilità non vi sono, giacché il problema è negli stessi princìpi dell’Unione Europea.

Infatti, le oligarchie cosmomercatistiche che governano l’Unione Europea hanno assunto come progetto di riferimento non certo il sogno di Erasmo o di Spinelli, né il foedus pacificum kantiano e il telos hus-serliano, bensì il processo di governamentalizzazione neoliberista, che di quel nobile sogno è il pervertimento.

Storicamente – e vi torneremo – l’Europa esiste come arcipelago di differenze29, e dunque in quella ricchezza irriducibile delle tradizioni,

27 Cfr. A. Bagnai, Il tramonto dell’euro, cit., pp. 32 ss.28 P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista,

cit., p. 23.29 Questa tesi è ampiamente sviluppata, sia pure con esiti non sempre condivisibili, in M.

Cacciari, L’arcipelago, Adelphi, Milano 1997.

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delle lingue e delle culture in virtù della quale gli italiani e i francesi, i tedeschi e gli spagnoli, i portoghesi e i greci sono europei senza dover rinunciare alle proprie specificità.

È l’esatto contrario della tendenza oggi imperante nell’Unione Eu-ropea, nella sua aspirazione all’annichilimento di ogni differenza e nell’imposizione dell’unico modello della crescita, della competitività e del libero mercato. L’ideale di un’Europa di Stati nazionali demo-cratizzati, liberi e uguali, in cui siano rispettate le culture e le tradizio-ni nazionali, le comunità etniche e religiose, è reso impossibile dalla finanziarizzazione del vecchio continente, dall’imposizione della sola cultura anglofona del mercato e dalla sottomissione dei popoli sovrani al volere della “nuova ragione del mondo” neoliberista.

In questo senso, diventa possibile sostenere, una volta di più, che “non è il tetto di ‘casa Europa’ che è troppo fragile, sono le fondamenta che cadono a pezzi”30: di qui la necessità di rifondare l’Europa, dotan-dola di nuove fondamenta rispetto a quelle odierne.

Si tratta, cioè, di rifare ex novo l’Europa, a partire dalla politica e dalla cultura, e non dalla “cattiva unificazione” monetaria, con la quale si sono poste sullo stesso livello, tramite l’eurozona, economie diffe-renziate e impossibilitate a stare tra loro sullo stesso piano (da cui le già evocate asimmetrie che pongono la Grecia e i Paesi dell’area mediterra-nea in una posizione di completa subalternità rispetto alla Germania31). L’errore capitale è stato quello – coerente con il programma neoliberista – di fondare l’Unione Europea sull’economia: là dove l’unificazione economica dovrebbe costituire il compimento della già avvenuta uni-ficazione politica, in grado di garantire libertà e uguaglianza, diritti e democrazia, cioè un’economia rispettosa dei popoli e dei diritti32.

Si può, davvero, sostenere che l’Unione Europea è sorta su queste basi e costituisce, gramscianamente, una rivoluzione passiva? Ascol-tiamo quanto sostenuto da Frits Bolkestein, responsabile del mercato interno e della fiscalità della Commissione Europea33. Nella conferenza

30 P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista, cit., p. 23.

31 Cfr. A. Somma, Europa a due velocità, Imprimatur, Reggio Emilia 2017.32 Si veda M. Badiale e F. Tringali, La trappola dell’euro. La crisi, le cause, le conseguen-

ze, la via d’uscita, cit., pp. 15-22.33 P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista,

cit., p. 344.

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presso l’Istituto Walter-Eucken a Freiburg del 10 luglio del 2000, pro-grammaticamente intitolata Costruire l’Europa liberale del XXI secolo, egli ha sostenuto:

In una visione dell’Europa di domani, l’idea di libertà come la difende-va Eucken deve occupare di certo una posizione centrale. Nella pratica europea, l’idea è concretizzata dalle quattro libertà del mercato interno, ovvero la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e del capitale34.

A dire di Bolkestein, l’ideale dell’Europa unita coinciderebbe con la libertà di spostamento delle persone e dei beni, del capitale e dei servi-zi: ciò che, appunto, rispecchia il sogno della governamentalizzazione neoliberale e del suo perseguimento dell’ideale della competitività sen-za impedimenti, senza limiti e senza i “lacci e lacciuoli” dello Stato e della politica35.

Non vi è riferimento allo spirito europeo e alla cultura, all’idea di una costituzione europea. La libertà viene certamente evocata come va-lore, ma nella forma specifica ed esclusiva della libertà di scambio e di consumo, di acquisto e di circolazione36.

Richiamandosi a Eucken e all’ordoliberalismo, Bolkestein soste-neva, poi, che erano quattro i punti da attuare nell’Unione Europea, assumendoli, de facto, come ideali di riferimento37: a) flessibilizzare i salari e i prezzi tramite riforme del lavoro; b) riformare le pensioni con incentivazione del risparmio individuale; c) promuovere lo spirito d’impresa; d) difendere la civiltà come libero consorzio umano retto sul libero mercato.

Perché questa rivoluzione passiva potesse compiersi, era necessario produrre un’integrale spoliticizzazione dell’economia38. Per questo, è del tutto contraddittorio sostenere che l’odierna Unione Europea potrà essere riformata e perfezionata tramite un surplus di politica: essa è nata

34 Ibidem.35 Cfr. AA. VV., Quale Europa? Crisi economica e partecipazione democratica, Tau, Todi

2016.36 Si veda il documentatissimo L. Barra-Caracciolo, Euro e (o?) democrazia costituziona-

le: la convivenza impossibile tra Costituzione e trattati europei, Dike, Roma 2013.37 P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista,

cit., p. 345.38 Si veda G. Leghissa, Neoliberalismo. Un’introduzione critica, cit., pp. 101 ss.

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con l’obiettivo di mettere in congedo la politica, di modo che l’econo-mia potesse imporsi senza più freni e limitazioni dell’ordine politico.

L’“anarchia commerciale” (Handelsanarchie) a suo tempo de-nunciata da Fichte39 corrisponde all’odierna deregulation propria del laissez faire globale del codice neoliberista quale si incarna nell’Unione Europea come compimento della spoliticizzazione dell’economia tra-mite il trasferimento del potere dagli Stati nazionali sovrani al mercato sovrano transnazionale con sede presso la Banca Centrale. Più che di epoca che viene “dopo il Leviatano”40, come pure si è sostenuto, oc-correrebbe, allora, parlare di evo che ha segnato il trionfo di un nuovo e ancor più potente Leviatano, quello dell’economia desovranizzata e superiorem non recognoscens.

Come recentemente ricordato da Eve Chiapello e Luc Boltanski, il capitalismo regolato non può esistere, poiché la sua essenza è la srego-latezza, l’entropia efficiente che travolge ogni norma che aspiri a frena-re e limitare la dinamica d’accumulation illimitée du capital41.

Ove ancora sopravviva, lo Stato è oggi ridotto, proprio come la politica, a una funzione meramente ancillare rispetto all’economia. Prova ne è che, in caso di crisi, banche e finanza tornano a rivolgersi alla “mano visibile” dello Stato. Quest’ultimo, con veri e propri pia-ni di salvataggio della finanza, interviene soccorrendo i responsabili della crisi e iniettando liquidità, dunque socializzando le perdite e privatizzando i profitti.

Il superamento della tradizionale Staatsform costituisce un passag-gio obbligato per la spoliticizzazione, per l’annientamento della forza di una politica ancora in grado di agire sull’economico42.

Rendere inefficienti le unità statali tramite l’instaurazione di un or-dine impolitico è la condizione per imporre i due princìpi convergenti dell’anarchia commerciale e – con la sintassi di Carl Schmitt43 – della

39 J.G. Fichte, Der geschlossene Handelsstaat, 1800; tr. it. Lo Stato commerciale chiuso, Bocca, Milano 1909, p. 70.

40 G. Marramao, Dopo il Leviatano: individuo e comunità, Bollati Boringhieri, Torino 2013, seconda edizione accresciuta.

41 Cfr. L. Boltanski e È. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999, pp. 52 ss.

42 Cfr. G. Leghissa, Neoliberalismo. Un’introduzione critica, cit., pp. 101 ss.43 C. Schmitt, Das Zeitalter der Neutralisierung und Entpolitisierung, 1929; tr. it. L’epoca

delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni, in Id., Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna 19842, pp. 167-183.

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Entpolitisierung integrale della sfera economica, di modo che lo Stato non possa più governare l’economia, ma sia al suo servizio.

In accordo con i trattati di Maastricht (art. 104) e di Lisbona (art. 123), gli Stati europei oggi non hanno più la possibilità di prendere a prestito dalle loro banche centrali. Di più, lo Stato abbandona il diritto di battere moneta e trasferisce questa facoltà sovrana al settore privato, di cui diventa debitore44.

Che l’Unione Europea si regga strutturalmente sull’economia spo-liticizzata emerge in maniera adamantina nell’articolo 30, comma 3 del Trattato di Lisbona del 2007:

La Banca Centrale europea è un’istituzione. Essa ha personalità giuri-dica. Ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione dell’euro. Essa è indipendente nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze. Le istituzioni, organi e organismi dell’Unione e i governi degli Stati membri rispettano tale indipendenza.

La Banca Centrale non dipende dalla potenza politica statale, né può essere da essa limitata: la sua indipendenza assoluta è rispettata. Non vi è politica che possa controllarla, finendo invece la politica per essere essa stessa governata dall’economia.

Dal canto suo, l’articolo 86 del Trattato di Lisbona delinea un’e-conomia di concorrenza totale, senza monopoli privati e pubblici, esi-bendo visibilmente il vero volto neoliberista dell’Unione Europea, in quella che è stata con diritto definita la “logica europea di costituziona-lizzazione dell’ordine liberista”45:

È incompatibile con il mercato comune e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfrutta-mento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominan-te sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo.

Con questo principio, è definitivamente messa in congedo la pos-sibilità, per lo Stato, di governare l’economia. Se la modernità si era

44 Cfr. A. Bagnai, Il tramonto dell’euro, cit., pp. 142 ss. 45 P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista,

cit., p. 360.

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aperta con la figura dello Stato come Deus mortalis46, si può ben dire che oggi il moderno sia stato ampiamente superato: l’economia ha rioc-cupato essa stessa lo spazio della politica, ponendosi come superiorem non recognoscens e come Deus mortalis.

4. Post-democrazia e cesarismo finanziario Ancora con la sintassi di Gramsci, si potrebbe con diritto parlare di

“cesarismo finanziario” in riferimento all’odierna situazione europea, in cui le decisioni vengono stabilmente prese da quegli enti “sensibil-mente sovrasensibili” di marxiana memoria47, che non sono stati demo-craticamente eletti dal popolo e che quest’ultimo non può governare.

Nei Quaderni del carcere, la categoria di cesarismo svolge un ruolo di primaria importanza, non secondario rispetto a quella di rivoluzione passiva. Come sappiamo, in riferimento a Napoleone III, a Bismarck e, ancora, a Mussolini, i Quaderni parlano di “cesarismo” nel senso di una “soluzione arbitrale, affidata a una grande personalità, di una situazio-ne storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica”48. Più che sull’aspetto della “grande personalità”, l’accen-to cade su quello della “soluzione arbitraria” e strutturalmente sottratta alla volontà democratica.

In questo senso, si può, con diritto, parlare di “cesarismo finan-ziario” in riferimento all’odierna Unione Europea, alludendo al fatto che il potere è affidato al mercato ipostatizzato in “grande personalità” (secondo l’oggi in voga figura delle scelte anonime e impersonali del Mercato49), che decide senza alcun mandato democratico sulla vita dei popoli europei.

Tramite il cesarismo finanziario dell’Unione Europea, si sono tra-sferiti i poteri dei governi democratici a istanze prive di rappresentati-vità, non soggette ad alcun controllo da parte del popolo. Si è instaurata

46 T. Hobbes, Leviathan, 1651, II, cap. XVII, 13; tr. it. a cura di R. Santi, Leviatano, Bompiani, Milano 2001, p. 283.

47 K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, Band I, 1867; tr. it. a cura di D. Cantimori, Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 103.

48 Q, IX, 133.49 Cfr. AA. VV., Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione,

Mimesis, Milano 2011.

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la sovranità assoluta dei mercati finanziari e si è prodotta un’autentica deriva oligarchica della democrazia.

La tesi che guida la nostra interpretazione, e che già avevamo ab-bozzato in Europa e capitalismo (2015), può così essere condensata: l’ordine del discorso sostiene astrattamente la necessità del superamen-to delle sovranità nazionali, in quanto responsabili dei nazionalismi belligeranti e delle conflittualità interstatali e persegue concretamente, mediante la desovranizzazione, la contrazione degli spazi democratici nazionali e delle conquiste welfaristiche nazionali50.

Per il tramite della sovranazionalizzazione, in altri termini, la ri-voluzione passiva a beneficio dell’élite finanziaria cosmopolitica e a nocumento delle classi lavoratrici nazionali-popolari può realizzarsi ap-pieno51: il centro delle decisioni viene traslato dai parlamenti nazionali agli enti post-democratici sovranazionali52; e, in maniera sinergica, i diritti sociali e le conquiste welfaristiche, valide nel quadro dello spazio nazionale con primato della Staatsform, vengono sbriciolati in nome della competitività globale libera dai “lacci e lacciuoli” delle ingerenze nazionali.

Secondo il più tipico dispositivo ideologico, che – Marx docet53 – universalizza falsamente l’interesse dei dominanti, viene presentato come bene per l’Europa tutta quello che, a rigore, è tale solo per la clas-se egemonica, per la global class turbocapitalistica.

Addirittura, v’è chi, come il giornalista Sergio Rizzo54, s’è avventu-rato a tratteggiare una distopia neo-orwelliana (02.02.2020: la notte che uscimmo dall’euro), ipotizzando le esiziali conseguenze che scaturireb-bero qualora si uscisse dall’euro.

Tra le strategie narrative portanti della europäische Ideologie – come potremmo appellarla, variando la formula marx-engelsiana – v’è immancabilmente la legittimazione dello status quo, pur con le sue macroscopiche contraddizioni, mediante la comparazione con l’abis-so che seguirebbe da ogni possibile alternativa. L’obiettivo è sempre

50 Cfr. J.A. Camilleri e J. Falk, The End of Sovereignty? The Politics of a Shrinking and Fragmenting World, Elgar, Aldershot 1992.

51 Si veda G. Caggiano (a cura di), Integrazione europea e sovranazionalità, Cacucci, Bari 2018.

52 Cfr. S. Cesaratto, Sei lezioni di economia, Imprimatur, Reggio Emilia 2016.53 Si veda l’eccellente studio di P. Vinci, La forma filosofia in Marx: commento al-

l’“Ideologia tedesca”, Cadmo, Roma 1981.54 S. Rizzo, 02.02.2020: la notte che uscimmo dall’euro, Feltrinelli, Milano 2018.

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il medesimo, vertice insuperato dell’ideologia come pratica simbolica orientata alla santificazione dell’ordine esistente: esso è teso a convin-cere le menti del fatto che “non possiamo fare a meno dell’Europa”55, che “uscire dall’euro sarebbe una follia”56 e che sono preponderanti le “buone ragioni che rendono l’Unione Europea desiderabile”57.

La potenza dell’ideologia e del pensiero unico europeisticamente corretto è, assai spesso, tale da riuscire a occultare il fatto che le trage-die annunziate in relazione all’eventuale uscita dall’eurozona (disoccu-pazione, miseria, crisi, ecc.) si stanno gia compiendo tutte nell’ordine eurocratico di cui siamo prigionieri.

Lo scavalcamento degli Stati nazionali come impedimenti al pote-re transnazionale dell’economia e delle oligarchie finanziarie a struttura rizomatica si rivela, allora, pienamente funzionale all’instaurazione del cesarismo finanziario, con il potere stabilmente concentrato in quell’en-tità “sensibilmente sovrasensibile” e “piena di capricci teologici” che è la Banca Centrale, cifra macabra di un’Europa finanziaria in cui – nel conflit-to tra global capital e national governments58 – i popoli e le nazioni non contano più nulla né come soggetto politico, né come soggetto sociale.

Se si volesse proseguire il progetto incompiuto dei Quaderni del carcere, il suo ambizioso tentativo di pensare criticamente la storia d’Italia considerata in se stessa e in relazione con le vicende europee, si potrebbe ravvisare nell’odierna Unione Europea una fase di “rista-gno della storia”, il compimento di quello che, in Minima mercatalia (2012), abbiamo qualificato come capitalismo absolutus59 (sciolto da limitazioni e non contrastato dal conflitto da parte degli offesi), vuoi anche un momento decisivo della lotta di classe che il capitale – con il suo esercizio di un’egemonia oggi assoluta – sta vincendo senza incon-trare resistenze60.

55 A. Volpi, Perché non possiamo fare a meno dell’Europa. Contro la retorica anti-euro di sovranisti e populisti, Altreconomia, Milano 2019.

56 L. Becchetti, Neuroscettici. Perché uscire dall’euro sarebbe una follia, Rizzoli, Milano 2019.

57 AA. VV., Pro Europa. Alcune buone ragioni che rendono l’Unione Europea desidera-bile, Una Città, Forlì 2019.

58 Cfr. L. Mosley, Global Capital and National Governments, Cambridge University Press, Cambridge 2003.

59 Su questo tema, ci permettiamo di rinviare al nostro Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo, Bompiani, Milano 2012.

60 Si veda D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013.

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Fase suprema del neoliberismo61, l’Unione Europea segna il trionfo del capitale nella tradizionale lotta di classe, in cui i diritti sociali e del lavoro vengono sacrificati sull’altare dell’ideologia europea e del sacro dogma della crescita e del pareggio di bilancio62.

Come si è estesamente mostrato in Europa e capitalismo e in Il fu-turo è nostro (2014), con la data epochemachend del 1989 si apre un nuovo fronte per il capitalismo vincente e per le sue dramatis personae, ossia per gli agenti dell’aristocrazia finanziaria rappresentante il polo dominante: crollato ingloriosamente il socialismo realizzato a est del Muro di Berlino, è ora contro gli Stati sovrani nazionali che il turboca-pitale high-tech può rivolgere la propria offensiva, con l’obiettivo della spoliticizzazione dell’economico (in nome del mercato deregolamenta-to e del disorganized capitalism teorizzato da Offe63) e, più in generale, della dedemocratizzazione dello spazio europeo.

A proposito dell’impronta squisitamente liberista dell’ordo instau-rato dall’Unione Europea, è sufficiente in questa sede rammemorare quanto scritto da Gallino. Questi ha posto l’accento sui processi di pre-carizzazione e di flessibilizzazione del lavoro come coessenziali all’or-dine neoliberista dell’Unione Europea:

Le politiche del lavoro dell’Unione Europea sono concepite e diret-te dalla Commissione europea, un organismo non eletto, soggetto alle pressioni dei gruppi economici massicciamente presenti a Bruxelles, che dopo la presidenza di Jacques Dolors (1985-1995) ha vistosamente abbracciato la dottrina economica e politica neoliberale64. Insomma, sulle orme di Gallino, si può senza ambagi sostenere che si

scrive Unione Europea e si legge trionfo della classe dominante europea e sconfitta delle classi lavoratrici e dei ceti nazionali-popolari d’Europa, mas-sacrati in nome del verbo concorrenziale liberista, apice dell’atomizzazione deeticizzante del sociale e di quello che è stato definito “il crollo del noi”65.

61 P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo: critica della razionalità neoliberista, cit., pp. 272 ss.

62 Cfr. M. Revelli, La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi (vero!), Laterza, Roma-Bari 2014.

63 K. Offe, Disorganized Capitalism, Polity, Oxford 1985.64 L. Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma 2007, p. 162.65 Cfr. V. Paglia, Il crollo del noi, Laterza, Roma 2017.

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5. Sempre a sud di qualcun altro. La “quistione meridionale” Esiste un libro famosissimo. Il protagonista è un gigante serio, affi-

dabile, produttivo e industrioso. Esso si porta appresso un’enorme palla al piede abitata da esseri microscopici, indolenti, pigri, inferiori, pelan-droni, inaffidabili. Il libro lo conosciamo tutti, si chiama Storia, con la S maiuscola. Il gigante è il Nord, la palla al piede il Sud. L’ambientazione è l’Italia unita, che, per l’appunto, ha raccontato la Storia.

Basterebbe, tuttavia, avere il coraggio di “spazzolarla contropelo”, come direbbe Walter Benjamin, per conoscere la verità. L’unificazione dell’Italia è stato un gesto di inaudita violenza, una pagina scritta nel san-gue: rapine, omicidi e sfruttamento ne furono i momenti fondamentali. Il nord aggredì il sud e lo “piovrizzò”, per riprendere l’efficace formula di Gramsci66: ne sfruttò le risorse come volano per lo sviluppo industriale a Torino, Milano e Genova. E condannò il sud al ruolo di perenne subalterno.

A suffragarlo è, oltretutto, il mistero dell’oro di Napoli: la città più ricca e fiorente della penisola sprofondò nella miseria, a unificazione avvenuta, per via della vorace rapacità del nord.

La terra, però, è rotonda e si è sempre a sud di qualcun altro. Ora in-fatti l’Italia tutta intera, il nord virtuoso e il sud “sprecone”, ha scoperto di essere la questione meridionale dell’Unione Europea: che, come è noto, ha per capitale Berlino e per moneta il Marco tedesco. Ma nessu-no deve farlo emergere, perché la storia – oggi come ieri – è il racconto del più forte, di colui che ha imposto a tutti, con il venerabile nome di “giustizia”, la propria narrazione e la propria legge.

Anche in questo caso, alla storia reale sono interamente sconosciute le retoriche apologetiche che magnificano l’ordine eurocratico: l’Europa – ripete con cadenza regolare l’ordine del discorso – garantirebbe pace e prosperità, benessere e integrazione67. E invece sta generando puntualmen-te gli effetti opposti: miseria per i paesi mediterranei, disgregazione dei ceti medi e delle classi lavoratrici, potenziamento delle élites turbofinanziarie, e vere e proprie guerre economiche. La Germania ha invaso la Grecia: non con mitra e carri armati, ma con troika e spread, pareggio di bilancio e schiavitù del debito. I risultati sono, a tutti gli effetti, quelli della guerra. Basti qui richiamare l’inaudita ammissione del vicedirettore del “Corriere

66 Cfr. Q, XIX, 10, 1934-1935, 2021-2022.67 Si veda, ad esempio, P.S. Graglia, L’Unione Europea: perché stare ancora insieme, Il

Mulino, Bologna 2019.

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della Sera”, Federico Fubini, rilasciata nel maggio 2019: le politiche di au-sterità depressiva imposte dalla UE alla Grecia hanno causato la morte di circa 700 bambini. E, come se non bastasse, il circo mediatico e il clero intellettuale hanno tenuto nascosta la notizia – per ammissione dello stesso Fubini –, al fine di evitare la crescita del consenso dei movimenti sovranisti e dell’opposizione al pensiero unico europeisticamente corretto.

Con un inaudito dispiegamento di violenza economica, la Germa-nia sta letteralmente depredando le nazioni dell’area mediterranea. Alle quali attribuisce, con palese razzismo, le colpe della miseria a cui li condanna (i Greci “pelandroni”, gli Italiani “perdigiorno”, ecc.).

La storia si ripete e continua a impartirci insegnamenti: ma non ha scolari e, così, siamo costretti a riviverla, con tutte le sue tragedie e le sue contraddizioni. Basti, a tal riguardo, rammentare quanto evidenzia-to da Vladimiro Giacché nel suo studio Anschluss (2013).

Egli ha sostenuto che, con l’Unione Europea e con il “sistema euro”, si è verificata una situazione per molti versi analoga a quella della riunifica-zione delle due Germanie dopo il 198968: si è trattato, cioè, di un processo di annessione ad opera dell’Ovest ai danni dell’Est. Quest’ultimo si è visto costretto a transitare a un’economia a capitalismo avanzato e ad abbando-nare il sistema di diritti sociali per accedere al regime neoliberale69.

Situazione analoga si sarebbe verificata, ad avviso di Giacché, con l’unificazione operata dall’Unione Europea tra il Nord a guida tedesca e il Sud dei paesi mediterranei, oggi definiti ingenerosamente PIGS dalla neolingua europeista: si sarebbe anche in questo caso trattato di una an-nessione nel sistema neoliberista che in quei paesi, complice l’arretra-tezza e la modernizzazione non ancora realizzata in forma pienamente dispiegata, non era ancora del tutto presente.

Accanto all’analogia storica dell’Anschluss di Giacché, può euristi-camente giovare l’analogia con la “quistione meridionale” di Gramsci. Come sappiamo, nei Quaderni, ma già anche nel saggio su Alcuni temi sulla quistione meridionale (1926), Gramsci tematizza l’unificazione risorgimentale dell’Italia nei termini di un’opera di annessione brutale del Sud ad opera del Nord, con annesso sfruttamento delle risorse del primo da parte del secondo.

68 Cfr. V. Giacché, Anschluss: l’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Imprimatur, Reggio Emilia 2013.

69 Cfr. AA. VV., L’Unione Europea in crisi, Giuffrè, Milano 2017.

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Così nei Quaderni: “l’unità non era stata creata su una base di egua-glianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna”70. E ancora:

Il Nord concretamente era una “piovra” che si arricchiva alle spalle del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto di-retto con impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolano dell’Alta Italia pensava invece che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni econo-mico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridio-nale, tanto più che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica71.

Si potrebbe forse, allora, parlare a giusto titolo di un’europeizzazio-ne della “quistione meridionale”, peraltro sviluppando un allargamento del tema che era già stato avviato dallo stesso Gramsci. Sappiamo, infat-ti, che nei Quaderni lo stesso tema dell’americanismo deve essere letto in parallelo, oltre che con il fascismo, con la “quistione meridionale”72.

Il rapporto di egemonia del Nord sul Sud, in Italia, viene sempre più determinandosi, a livello globale, come nesso egemonico del capitalismo americano fordista su tutte le altre forme esistenti. Per questo, l’egemo-nia americana – la vera novità strutturale del capitalismo quale si è venuto sviluppando dopo Marx – costituisce, a giudizio di Gramsci, una sorta di internazionalizzazione della “quistione meridionale”73, in cui il Nord ame-ricano sfrutta e sottomette il Mezzogiorno del restante mondo capitalistico.

In che senso si può, allora, parlare gramscianamente di una euro-peizzazione della questione meridionale? È evidente che le politiche neoliberali hanno individuato nell’area mediterranea dell’Europa – i Paesi infelicemente detti PIGS – quello che potremmo definire, con

70 Q, I, 44, 47.71 Q, XIX, 10, 1934-1935, 2021-2022.72 Cfr. R. Mordenti, “Quaderni del carcere” di A. Gramsci, in A. Asor Rosa (a cura di),

Letteratura italiana, Le opere, vol. IV/2, Einaudi, Torino 1996, p. 67.73 Si veda G. Baratta, voce Americanismo, in F. Frosini e G. Liguori (a cura di), Le parole

di Gramsci: per un lessico dei “Quaderni del carcere”, Carocci, Roma 2004, p. 17.

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Page 25: IL NICHILISMO DELL’UNIONE EUROPEA · 2019. 7. 17. · 11 Ci permettiamo di rinviare al nostro Antonio Gramsci. La passione di essere nel mondo, Feltrinelli, Milano 2015. 12 Si veda

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Lenin, l’“anello debole della catena” del capitalismo europeo, il punto su cui fare leva per disarticolarlo e per introdurre il paradigma neoli-berista a profitto dell’area nordica74. A tal punto che, forse, si potrebbe con diritto parlare di germanizzazione dell’Europa.

È, pertanto, sull’area mediterranea che si sta abbattendo la “furia del dileguare” propria della politica economica neoliberista europea, diretta dalle logiche di riproduzione del capitale finanziario globale75: non soltanto sulla Grecia, prima vittima sacrificale immolata al Moloch capitalistico76, ma anche sulla Spagna degli Indignados77 e sull’Italia, perennemente sotto ricatto del debito.

Il tema della “quistione meridionale” di Gramsci aiuta anche a get-tare luce su quel particolare atteggiamento per cui le aree nordiche, e in particolare l’area tedesca, ritengono sempre più con convinzione che l’immiserimento dei popoli mediterranei non sia – citando Gramsci – “da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma inter-ne, innate nella popolazione meridionale”, strutturalmente pigra e non propensa al lavoro. Si pensi, a questo proposito, alle litanie – ossessiva-mente frequenti e animate da un razzismo niente affatto larvato – intor-no alla presunta pigrizia atavica dei greci. Con le parole del Convivio dantesco, la disgrazia dipendente dalla sorte o, più spesso, dalle scelte altrui “suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata”78.

6. Irriformabilità strutturale. Critica della ragione europeista Nel suo fondamento, l’Unione Europea è stata un processo di de-

strutturazione e di scavalcamento del primato del politico proprio degli Stati sovrani nazionali democratici, volto a favorire, nel quadro del con-creto conflitto di classe, l’offensiva del Signore global-elitario ai danni del Servo nazionale-popolare79.

74 Cfr. C. Preve e L. Tedeschi, Lineamenti per una nuova filosofia della storia. La passione dell’anticapitalismo, Il Prato, Padova 2013, pp. 145 ss.

75 D. Harvey, The Enigma of Capital and the Crises of Capitalism, 2010; tr. it. a cura di A. Oliveri, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano 2011.

76 Cfr. M. Benini, La guerra dell’Europa, Nexus, Battaglia Terme 2012.77 Si veda, ad esempio, E. Dussel, Indignados, 2011; tr. it. a cura di A. Infranca, Indignados,

Mimesis, Milano 2012.78 D. Alighieri, Convivio, I, 3, 4.79 Ci permettiamo di rimandare al nostro studio Storia e coscienza del precariato. Servi e

signori della globalizzazione, Bompiani, Milano 2018.

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