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Il pettirosso è solo

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di Enrico Bante - Narrativa, racconti

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Enrico Bante

Il pettirosso è solo

Racconti

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IL PETTIROSSO È SOLO Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Enrico Bante ISBN: 978-88-6307-314-0

In copertina: immagine di Enrico Bante

Finito di stampare nel mese di Settembre 2010 da Digital Print

Segrate – Milano

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A chi fugge

Siamo seppelliti sotto i nostri atti, ciò che ci pesa è la necessità di rifarli.

André Gide

Era una di quelle sere in cui l’accidia pasteggia col tuo cuore. Disteso sul letto, sigaretta alle labbra, bottiglia di birra sul comodino, ticchettio della pioggia sulla finestra. Tic tac tac tac tic plin tac tic. Mi chiesi se fosse un messaggio morse, un comunicato della pioggia. Sarebbe stato interessante sapere cosa avesse da dirmi, la notte di piog-gia. Per esempio perché piove, com’è vivere in cielo e poi trovarsi a precipitare sulla terra, che scopo abbiamo e dove andiamo tutti noi po-veri derelitti sconfitti dall’accidia in una stupida notte piovosa che fa tic tac tac tic e ci lascia in spettrale silenzio. Entrò il mio compagno di stanza, si stese sul suo letto, accese una can-na, fece schioccare le labbra. «Sei accidioso anche tu?» gli chiesi. «Cerco di cavarmela. Un tiro?» «No, grazie. Si fa qualcosa stasera?» «Non so. Programmi? A che pensavi?» «A che cazzo vuol dirci la pioggia con il suo ticchettio». «Probabilmente vuol ricordarti di prendere l’ombrello». Mi misi a sedere. Scolai un po’ di birra. Fissai il mio compare. Magris-simo, pallido, serioso, lineamenti spigolosi, capelli rossicci e ricci, con-to in banca da vertigine, tre-quattro corteggiatrici, noia che mangia il fegato. Antonio era il suo nome, ma tutti lo chiamavamo Mario. «Ci sarà qualche festa studentesca o cose del genere» disse lentamente, occhi al soffitto, «che dici?» «Che bisogna prendere l’ombrello».

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«Che stronzo che sei». Ridacchiò, tossì, aspirò. Odore di erba metropo-litana s’impregnò nell’aere. «Sto pensando di scrivere un libro» riflettei a voce alta. «Titolo?» «L’autobiografia di qualcun altro». «Amico, mi piace, ‘sto titolo. Come mai? Vuoi fare un tiro?» «No, grazie. Perché mi affascinano le autobiografie. Ma non posso scrivere la mia, non mi piace». «Basta che tu non scriva la mia». «La noia è già di Moravia». «Vaffanculo». «Vado a prendere una birra». Mi alzai. «Ne vuoi?» «Come no. Un tiro?» «Va bene». Inspirai, espirai, socchiusi gli occhi, ne feci un altro, andai di là portan-domi appresso l’inequivocabile odore di maggese. Manuel, l’altro mio coinquilino, stava sprofondato sul divano della sala, abbracciato alla chitarra, e con i soli boxer. Russava. Il respiro gli sollevava i lunghi ca-pelli sparpagliati davanti al viso. La tv accesa vaneggiava al nulla e a nessuno, com’è giusto che sia. La spensi, presi le due birre dal frigo e tornai in camera. «Il coglione dorme in mutande e chitarra», sentenziai. Mario stava completando un nuovo spinello. «E tu vuoi darti il colpo di grazia già alle nove di sera?» «Va così. È una serata da buttare». Accese il cilindretto magico. «Un tiro?» «NO GRAZIE, cazzo!» Bevemmo la birra senza proferir parola. Mario schioccava le labbra do-po ogni tiro. «Credo che sia in occasioni come questa» dissi infine, «che ci si accor-ge della mancanza di una donna». «Beh, cos’abbiamo di sbagliato io e Manuel?» «Nulla. Ma manca qualcosa». «Ti manca sempre qualcosa, a te. Sei un cazzo di ragazzo mancante, o mancato o che so io». «E tu sei un ricchetto viziato che abita con i plebei per cercare in tutti i modi di non morire di noia». Sorrise, si appoggiò su un gomito, schioccò le labbra da poco inumidi-te, disse: «è affascinante, vero?» «Vaffanculo».

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«Senti, poetino da strapazzo e autobiografo della minchia, smetti di te-nere quel muso da tenia essiccata e di lamentarti delle mancanze fem-minili. Ho portato due amiche Stuporfà la settimana scorsa (Per chia-rezza: Stuporfà sta per ragazza STUpida-PORca-FAcile), erano QUI, a casa nostra. Una delle due ti avrebbe divorato pantaloni e miserie an-nesse a costo di cagare stoffa e cazzo per una settimana. E tu, che face-vi? Te ne andavi in camera a scrivere il tuo diario o una poesia, o a farti una pippa d’esistenzialismo». Sbarrai gli occhi. Aprii lentamente la bocca e dissi, ancor più lentamen-te: «una…tenia essicata?» «Già!» gridò. Manuel si svegliò, di là, e bestemmiò. «Due Stuporfà da competizione!» gridò di nuovo. «Sentimi, Mario», mi sedetti sulla sponda del suo letto, «tu hai paura della noia, di restare da solo con te stesso perché se lo facessi realizze-resti che sei un minchione privo di fascino e attitudine, e per questo scivoli da un letto all’altro e da una canna all’altra e non capisci perché io ami starmene per i fatti miei ogni tanto. Il mondo è stupido, quindi talvolta decido di essere lasciato stare, o di lasciarlo stare io. Fumato e coglione!» «Ti voglio bene, stronzo» sorrise. «Pure io me ne voglio» sorrisi. «La piantate di urlare?» ordinò Manuel facendo capolino nella stanza, «sto tentando di studiare». «Certo, certo», e gli ridemmo in faccia. Lui, sbeffeggiato, come appar-ve disparve con diplomatica grattata di coglioni. «Sai amico» riprese il mio folle compagno, «un giorno, quando avrai pubblicato il tuo libro di poesie e sarà su tutti i fottuti scaffali, io dirò: “questo qui era il mio coinquilino e scriveva le poesie nella nostra stan-zetta, di notte, mentre io scopavo in sala.” Ti darebbe un taglio sul tra-gico-leopardiano-underground-esistenzialista». «E tu dacci un taglio e basta. Non pubblicherò mai poesie. Pubblicherò L’autobiografia di qualcun altro». «Perché?» «Perché la mie poesie sono mediocri. Se uno ama scrivere e ama la po-esia ma la trova mediocre, si butta sulla prosa». «E quella gli viene meglio?» «No. Mediocre anche quella. Ma è più difficile accorgersene. Ti po-trebbero amare anche se non hai un briciolo di talento». «E come?»

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«Ci si arrabatta. Basta scrivere un aforisma qua e là sul roditore autole-sionista che sfinisce l’uomo moderno, essere scurrile…sei subito il nuovo genio». «Facile. Allora diventerò scrittore». «Non esagerare, adesso». Mi alzai, mi misi le scarpe, inaugurai un’altra Camel, presi la giacca. «Dove vai?» mi chiese schioccando, ormai noiosamente, le fottute lab-bra. «In biblioteca. Magari studio un po’». Mario rise, poi s’inabissò nella sua catalessi da stupefacenti e non disse più nulla. Passai dal salotto, Manuel ora aveva i jeans e strimpellava qualcosa con la chitarra. Credo Hendrix. Alzò la testa, portò i capelli dietro le orecchie svelando così i grandi occhi neri, mi fissò, chiese «dove vai?» «Biblioteca». Afferrai lo zaino. Lui rise, poi s’inabissò nella sua catalessi musicale e non disse più nulla. Fuori era freddo, cazzo, e umido, terribilmente umido. Aprii l’ombrello e avanzai tra le pozzanghere gelide come lastre metalliche del marcia-piedi. La pioggia ticchettava come un’inesorabile mitragliatrice sul mio ombrello, e tutt’intorno era una guerra malata di spruzzi e di gocce tra la notte nera indistinta e le luci giallastre e flaccide della città fiaccata d’acqua. La biblioteca era calda e confortevole, gravida di silenzio e impagliata d’austerità. Odore di cappotti bagnati, di carta, di palazzo vecchio e di legno. Poca gente, facce pallide e stanche, chine sulle loro occupazioni. Qualcuno dormiva e sbavava sulle pagine. Qualcuno fissava il vuoto e sembrava morto, pietrificato o fuori uso. Presi un caffè alla macchinetta, lo seccai d’un fiato, mi sedetti di fronte ad uno di quelli che sbavavano sul libro, aprii Il Canzoniere di Petrarca ma non lessi che due-tre sonetti, giacché fui subito vinto da cotale stan-chezza et apatia, vieppiù accompagnata da ferocissima et vulgare insof-ferentia, che mi ritrovai a sbavare pure io sul libro. Mi perdoni Petrarca. Mi svegliai un’ora e mezza dopo, cioè alle dieci e trenta. Il mio collega di bava non c’era più e io avevo inumidito le Chiare, fresche et dolci acque, e scusate il gioco di parole. Che blasfemia. Valutai saggio il compagno che se n’era andato, misi tutto in cartella e mi diressi all’uscita. Avevo un bel po’ di mal di testa e la bocca arida. Uscii. Una ragazza stava fumando appoggiata al muro, senza ombrello.

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«Non smette proprio, eh?» disse sorridendomi. Era bruttina, sola, la ti-pica ragazza che cerca di attaccare discorso in biblioteca. «A quanto pare no» dissi aprendo l’ombrello. «Comunque è perfetta per studiare» aggiunse, sempre sorridendo come un’ebete. «O anche per infilarsi nel tepore delle bettole» osservai. «O infilarsi nel tepore del letto». «Già». Sorrisi anch’io, la fissai, «ma spero non con te. Buona serata». Mi avviai giù per la strada. Lei restò esterrefatta, poi gridò un «vaffan-culo» carico di astio. Le donne non sanno sdrammatizzare. Di nuovo a camminare nella notte, con schianti di pozzanghere. Entrai in un pub e lì avrei deciso sul da farsi, avrei aspettato un avvenimento, aspettato di aspettare. Mi sistemai strategicamente al banco, ordinai una birra media, attesi la birra, arrivò, aspettai tre sorsi prima di uscire per un’altra Camel, (fuori sempre schianto di pioggia nella notte), finii la birra, sorrisi alla cameriera la quale mi fece capire di andare a fare in culo io e il mio sorriso melenso, aspettai un po’, ordinai un’altra birra, aspettai la birra. Aspettare, appunto. Che fiatone. Decisi di ingannare il tempo importunando la simpatica cameriera. «Senti tesoro» le dissi, «vorrei avere il tuo parere riguardo una questio-ne». Lei non emise suono, si limitò a lanciarmi un sorriso dolce e tenero come la carta vetrata. «Ecco» ripresi, «mi è successo un fatto curioso. Un giorno, sul bus, ho sorriso ad una ragazza carina. Niente di male, mica l’ho violentata. Lei cos’ha fatto? Mi ha preso per il collo e mi ha detto “c’è qualcosa che non va?”. Mi ha preso per il collo, capisci? Vedi, penso che le ragazze di questa città siano impazzite, tutte nevrotiche! Tu che ne pensi? Che male c’è se sei bella e che male c’è se un uomo sorride innocentemente alla tua bellezza? Non è un gesto di violenza o di scherno. Tutte nevro-tiche, ventunesimo secolo e tutte pazze nevrotiche. O, per essere più precise, stronze». Lei mi ascoltò fissandomi sbalordita. Sorso di birra, un po’ di fiato, continuai: «penso proprio che il 90 per cento delle ragazze di qui siano stronze. Il 10 per cento sono ninfomani e credimi, sono sollevato nel sapere che tu non sei ninfomane». Era a bocca aperta. Rimuginò per un po’ su quel che le avevo detto, cercò di capire se ci fosse un’offesa, la identificò, si appoggiò al banco e, sempre sorridendo, mi prese per il collo. Ma guarda un po’.

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«Senti, stronzetto» sibilò, «se cerchi rogne capiti bene. Il mio ragazzo, che è il gestore del locale, sarà qui tra cinque minuti, ed è il doppio di te». «E’ un armadio? Comodo per tenerci i vestiti». Mi lasciò, sbuffò e andò a prendere le ordinazioni chissà dove. Decisi di aspettare il fidanzato-gestore-armadio. Aspettare, appunto. La vita non è che aspettare in continuazione. A scopo raggiunto, un essere u-mano si mette subito in attesa di un nuovo scopo. È un’insoddisfazione genetica, spesso da noi umani insabbiata con convenzioni ipocrite, finte realizzazioni personali, affetti che puzzano di contratto, corse sfrenate nel nulla. Mi sembra sempre di essere al cinema, nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo. C’è chi, per ingannare l’attesa, va a prendere coca e pop-corn, chi va a pisciare, chi limona, chi dorme. Io semplice-mente aspetto. Tutti noi sappiamo che il secondo tempo non inizierà mai, ma persistiamo nell’attesa, nella speranza. Buffo. Mi venne in mente il primo bacio tra me e Roberta, l’unica donna che per me valeva la pena. Io ero a pochi centimetri da lei ma non la bacia-vo, mi limitavo a fissarla. Lei sorrise e mi guardò con aria interrogativa. «Beh, che aspetti?» sussurrò. «Che finisca il momento eterno che precede il nostro bacio». «Non finisce mica se non mi baci». «Appunto». «Leo…non ho capito. Vuoi baciarmi o no?» «Certo! Però…se ti do un bacio il momento d’attesa che ha preceduto il nostro primo bacio sparirà per sempre. Ammetto che mi sto affezionan-do a questo momento, mi mancherà e…». Mi baciò lei, forse solo per tapparmi la bocca. «Sei una palla!» esclamò poi. «Cazzo, l’hai ucciso, hai visto? Mi spiace, povero piccolo misero atti-mo di vita umana». «Ripeto: sei proprio una palla». Lo ero: ci siamo lasciati. Ora si aspettava di essere menati. Ma può andare peggio. Entrarono facce amiche, tre scapestrati del mio corso, uno dei quali mi abitava di fronte. Seguirono pacche sulle spalle e tutto il resto. «Leo!» gridò uno di loro, «come butta stasera?» «Così. Piove, non so cosa voglia dirci. Ho sbavato sul Petrarca. Il pa-drone del locale sta arrivando e vuole picchiarmi». Strabuzzarono gli occhi. Comunque erano abituati alle mie stranezze.

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«Sei solo?» «Come tutti». «No, intendevo…Manuel? Mario?» «Uno è ancora in mutande, l’altro in stato penosamente catatonico. Ah no, Manuel ha messo i jeans. Feste?» «C’è una serata Erasmus, credo. Al solito bar». «Interessante. Micette mitteleuropee. Birra?» «Ah? Sì». Birra fu. Sguardo torvo della cameriera. Si era già innamorata di me? Era uno strano terzetto, quello unitosi alla mia presenza. C’era Giulio, un ragazzo altissimo magrissimo delicatissimo, biondoc-chiazzurri, non un pelo di barba, sorriso bambino, un vero Ganimede, sciarpa di seta, camicia ricamata e un’aria da vago poeta malaticcio scoordinato dinoccolato, com’è normale per un poeta (se esistono anco-ra) del ventunesimo secolo. Mi piaceva una sua frase, diceva «se potes-si viaggiare nel tempo, vorrei incontrare Rilke, non so se per parlare di poesia per tutto il pomeriggio o per riempirlo di pugni». Scriveva poe-siuole dappertutto, se era ispirato e tu non eri attento te la scriveva pure in faccia. Aveva l’abitudine di manifestare esageratamente i propri sen-timenti, piangeva o rideva o singhiozzava o ringhiava anche per scioc-chezze, e in mezzo alla gente. Il perfetto incontro tra l’animale e il ge-nio. Ma era fanciullesco e compagnone, quindi tutti l’amavamo, nono-stante fosse, appunto, un genio. Seguiva Carlo, un massiccio ragazzone, infiammabile come la benzina. S’innamorava ogni giorno, s’infervorava ogni ora, propagandava ogni minuto ed era un attivista politico come nessun altro nell’ateneo. Orga-nizzava comizi cortei scioperi dibattiti sit-in cineforum happening scambi satire eccetera. Faceva tutto, e così si era dimenticato di sé stes-so e si cercava nelle donne. «Gli studenti di oggi dormono!» tuonava, «si ritroveranno a rimpiange-re il bel corteo, o la lotta, quando saranno vecchi e sapranno solo appic-cicare caccole ai muri!». Una delizia di oratore, e che diplomazia. Si riconosceva subito: sguardo infuocato circondato da pazzi riccioli neri indipendenti, viso incazzato, sigaretta nervosa in bocca, passo deciso da figlio del popolo, barba sinistroide, un Che tatuato sulla spalla. Tutto lo chiamavano “Capo” o “subcomandante”. Poi c’era Lorenzo, un melanconico triste folle ragazzo, occhi gigante-schi spalancati nel vuoto, capelli per lo più dati per dispersi, corpo ma-gro scattoso e scricchiolante. Aveva sempre le donne in testa, e pur-troppo solo lì. «Verrà il mio momento» diceva, e viveva solo per questo

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suo futuro ipotetico giorno di gloria. Come tutti, forse. Si aspetta un momento mentre ci si sparpaglia a caso nel vasto mondo. I suoi incontri sessuali si limitavano ad un bacio senza lingua, alle medie, con la sca-morza della classe, e a un amplesso nell’ascensore dell’università con una sventola da paura. Nessun testimone oculare nel secondo caso: si sospettava la bugia. Ci volle poco per far capire alla cameriera che le ordinazioni sarebbero state frequenti. Lei mi guardava con aria di sfida e un sorrisetto che vo-leva dirmi: “vedrai, vedrai, aspetta un po’”. Aspettai. «Sicché stiamo aspettando un tizio» riassunse Giulio, «che dovrebbe suonarle al nostro caro Leonardo, vero?». «Già» confermai. «C’è qualcosa di epico» continuò, «c’è qualcosa di epico nell’elettricità che precede l’incontro con l’energumeno. Ettore e Achille!» «Davide e Golia» aggiunsi. «È argomento creativo». «Finito di dire cazzate?» intervenne prontamente Lorenzo. Ordinammo degli Havana-cola, giusto per cogliere maggiormente l’elettricità. Fu in quel momento che qualcuno mi afferrò per il collo, mi girò e mi ringhiò in faccia. Il locale tacque. Era il fidanzato-armadio. Diavolo, se era grosso. «Mi dispiace, ma non intendo iscrivermi ad un corso di fitness» dissi. Giulio sghignazzò, lui no. «Senti stronzo, non ti permettere MAI PIU’ di offendere la mia fidanza-ta» mi abbaiò. «Non l’ho offesa. Le ho detto che non è una zoccola». Mi scaraventò contro il bancone, di schiena. Le vertebre imprecarono. «Mi vuoi prendere per il culo, eh? Mi vuoi prendere per il culo!» «Sinceramente no. Preferisco quello della tua ragazza». Sì, lo so, esagerai. Caricò un pugno che aveva tutta l’aria di voler scen-dere inesorabilmente sul mio viso innocente. Fu in quel momento che raccolsi tutte le mie forze e gli diedi una ginocchiata nelle palle tre-mendamente forte e mirata, talmente mirata che quasi mi commossi pensando alla sua fidanzata, costretta da quel momento in poi ad arran-giarsi con un paté di testicoli. Ovviamente Armadio lasciò la presa, io e i miei compagni uscimmo di corsa dal locale. Carlo, che era l’ultimo, si voltò e urlò «FASCISTA!» prima di alzare i tacchi. Sparimmo come fantasmi nella stridente notte di pioggia. Prendemmo fiato sotto un portico, tutti tranne Lorenzo, il quale lo usò per fumarsi una canna.

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«Straordinario!» urlò Giulio, «da cardiopalma!» «E che calcio nei coglioni, amico!» fece eco Carlo. «Mi dispiace solo per l’Havana-cola che non avevo finito di bere» notai tristemente. «Qualcuno vuole fumare?» chiese candidamente Lorenzo. E sia, si sca-rica l’adrenalina. «Adesso?» «Beh, la festa Erasmus, no?» Ci dirigemmo verso il pub, con mezzo ombrello a testa. «Giulio» insistetti, «secondo te ci vuole dire qualcosa la pioggia? Senti, no?» Aspirò la canna, guardò fisso davanti a sé, sorrise. Il suo sorriso bambi-no. «Leo, sei ubriaco, vero?» «Un po’ sì». «Ebbene, credo di sì. È un rumore di fuga. È il rumore della nostra fuga proiettato nella pioggia». «Quale fuga?» «Da qualsiasi cosa. Forse, oggi va per la maggiore la fuga dalla banali-tà. Ce n’è molta, oggigiorno. Può essere il senso di vuoto, vertigine, in-consistenza». «Cazzo!» esclamai. «Ricorda: chi fugge scappa» fece un altro tiro, «scappa da qualcosa. Ma deve anche arrivare da qualche parte. Non c’è fuga senza arrivo. Il ru-more della pioggia può essere un arrivo. O una cosa inarrivabile. Sia-mo in fuga perenne, amico mio». «Anche tu sei ubriaco, e strafatto!» «Ci puoi giurare, amico» fissò i miei occhi con complice insistenza, «il mio è pressappoco un delirio. Ma chi ci dice che dobbiamo dare più importanza al discorso razionale e produttivo piuttosto che al delirio?» Fortunatamente arrivammo al locale. Trovammo i miei coinquilini lì fuori, Mario e Manuel, in silenziosa contemplazione di carne straniera e non. Non avevano l’ombrello, erano completamente zuppi. Mario aveva due occhi di bragia come Caron dimonio e li accompagnava con ebete sorriso. «Ciao, cari!» urlò Manuel facendosi incontro. «Vi voglio in forma, sta-sera. Domani ho lezione alle otto e mezzo, ma vaffanculo». «Dieci a uno che non ci andrai» lo sfidai. Lui mi cinse le spalle con un braccio e mi guardò con aria di sfida. «E io scommetto dieci euro che non hai il coraggio di entrare con il tuo vecchio amico Manuel e di sedere al banco con lui».

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«Mi stai sottovalutando. Ti vedrò in coma tra dieci minuti». Entrammo, seguiti dagli altri quattro. Facemmo la nostra porca figura, sfilando per il locale: Mario camminava a stento e non riusciva a to-gliersi il sorriso ebete, Lorenzo incespicava e tossiva e sembrava un malato terminale, Giulio era folgorato da una poesia che gli stava sfug-gendo in qualche corrente siderale, Carlo era normale, io e Manuel scu-lettavamo abbracciati come due fidanzatini che di lì a poco si sarebbero immolati all’etilismo. Sedemmo e cominciammo la festa. Ci scaldammo con una birra media, giusto per ambientarci. Lo stato di ebbrezza che avevo in quel momento mi farà d’ora in avanti esporre i fatti con telegrafica sintesi, nessuno me ne voglia. Esposizione telegrafica di un paio d’ore autodistruttive. Lorenzo e Mario si allontanarono. Li vidi parlare con delle biondine, presumibilmente tedesche. Giulio era sparito. Finita la birra, ordinammo un chupito per tagliare l’aria. Carlo parlava con un suo amico, un tizio con rasta lunghi fino al culo e il “conquering lion” sulla maglietta. Mario si unì a noi giusto in tempo per un’altra birra. Poi offrì a tutti e tre un giro di Papero-cola. Il cameriere, che prima mi sembrava uno, era adesso triplicato. Gli chiesi se fossero tre gemelli. A questa domanda mi offrì un chupito. Giulio apparve nuovamente, bagnato come un pulcino, balbettando pa-role apocalittiche e sostenendo di aver trovato nella notte il Canzoniere del mondo, ma gli era sparito com’era apparso. Festeggiammo per il Canzoniere: quattro birre. Giulio piangeva, per l’emozione. Andai a pisciare. Pisciando, capii come fossimo tutti e sei tragicamente pericolosi per noi stessi e per gli altri. Il sospetto mi venne quando mi accorsi che avevo pisciato nel lavabo. Tornai al banco, Mario era uscito per una canna. Manuel e Giulio mi avevano lasciato indietro e avevano un’altra birra in mano. Giulio tremava per il freddo e rideva come un isterico. Uscii e trovai Mario che vomitava come una fontana accasciato sul marciapiedi. «GESU’, COME SIAMO RIDOTTI?» gridai. «Moralista» bofonchiò pulendosi. «Poetino, tetro depresso segaiolo».

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«Anch’io ti voglio bene». Era normale, per me, ricevere gli insulti di Mario: quando beveva era sua abitudine coprire di offese le persone che gli stavano vicino. Credo che, dentro si sé, odiasse un po’ tutti perché proiettava all’esterno le sue mancanze. Povero piccolo sfigato borghese del cazzo. Ma gli volevo bene in qualche modo, forse gli volevo bene proprio per questo. E que-sto era l’importante. Lo riparai con l’ombrello e assistetti a un secondo round di rigetto, do-podiché lo riportai dentro. «Devo sedermi un attimo» disse, «mi siedo qualche minuto e poi sono come nuovo». Si sedette ad un tavolo, appoggiò la testa, si addormentò in due secondi. Tornai al banco. Era tornato anche Lorenzo e ordinava birre su birre per recuperare. Nel-la confusione ne offrì una anche a me. Una graziosissima ragazza mora, tutta riccioli e sorriso, chiacchierava timidamente con Giulio, probabilmente attratta dalla sua abbondanza di biondezza e occhiazzurralità. Giulio tremava e vomitava aforismi improbabili. «SIAMO SPACCIATI!» gridai. «O spacciatori» disse Manuel. Ero stremato. Stanco, depresso. Mi sedetti al tavolo dove dormiva Ma-rio, appoggiai la testa sul tavolo, mi addormentai di botto. Nonostante il fracasso provocato dal gruppo punk-rock che suonava. Quando mi svegliai il gruppo non suonava più. Mario, che prima dor-miva accanto a me, non c’era più. Mi guardai intorno: poche facce, pal-lide e piene di libidine frustrata. Avevo la bocca secca come il deserto e deglutii qualcosa di acido. Feci una smorfia di diniego, accesi una siga-retta, mi alzai. Al banco c’erano solo Giulio e la ricciolina tutta sorrisi. Lei parlava e parlava, lui non la ascoltava. Gli ciondolava inequivocabilmente il ca-po. Scossi cupamente la testa. Nessuno ti ascolta, e se lo fa, non capisce. Eravamo delle povere anime, tutti noi in quel locale e fuori in strada sotto la pioggia che ci irrideva. Delle povere anime sole con le loro ne-vrosi e con accanto solo i fantasmi delle persone, le loro parvenze. Solo così si diventa uomini. Solo così si accetta il patto con la vita. La spiazzante improvvisa onda di solitudine, inorgoglita dall’alienazione dell’ubriaco intristito, mi fece quasi piangere. Avevo

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gli occhi gonfi e dolenti di bruciore, più o meno come la gola. Ma chi ci ha buttato come stracci per terra nella notte lorda di acqua e marcia? Che generazione è la mia? Con quest’umore abbracciai Giulio, un povero pazzo poeta che era solo come me e mio amico e compagno. «Sei suo amico?» mi chiese la ricciolina, prendendomi da parte. «Que-sto qui è proprio emblematico. Ma è così dolce, sembra un vecchio ma-linconico poeta di cent’anni fa». «È così carino quando si addormenta» commentai io. «Sembra su un altro pianeta, mi ha ascoltato con pazienza per più di un’ora. Uno degli ultimi uomini che ascoltano». «Secondo me non ti ha cagato proprio». «Ma come…». Giulio alzò la testa, guardò me e poi la ragazza. «Ciao Leo!» esclamò. «Come va? Chi è la signorina? La tua nuova fiamma?» Ricciolina tutta sorriso divenne prima tutta stupore e poi tutta rabbia. «UOMINI!» urlò fuggendo via. «Ma che diavolo è successo?» «Lascia stare, Giulio. Andiamo». C’inoltrammo nelle strade fradice sprovvisti di ombrello: qualcuno me l’aveva fregato. Corremmo verso casa mia, decisi a prenderci una pausa dal martellante delirio della notte universitaria, oltreché asciugarci. Purtroppo, anche la casa era un delirio. Come sentì il chiavistello, Ma-nuel ci venne incontro, fremente e agitato. Era ancora molto, molto sbronzo. «Ciao, siete qui? Abbiamo ospiti» dichiarò ghignando. «Stronzo, ci avete lasciato al bar. Mario?» «È a letto». In salotto c’erano Lorenzo e le due biondine tedesche. Lorenzo era in pieno attacco. Tentava di fulminarle con gag in italiano o in inglese maccheronico. Loro ridevano a crepapelle perché si erano accorte che Lorenzo mirava le loro curve con maniacale insistenza. O forse perché erano semplicemente sbronze. Mi salutarono con un «ciao» molto mitteleuropeo. Andai al frigo e be-vetti una coca-cola. Giulio e Manuel circondarono le tedesche, con grande disappunto di Lorenzo. «Il vostro amico non socievole» disse una di loro, indicandomi. «È un po’ riservato» spiegò Manuel. «Eccentrico» aggiunse Lorenzo.

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Ruttai con eccentricità ma senza riservatezza, deciso a farmi odiare. In-vece risero. Sono tedesche, pensai, i rutti li conoscono. Una delle due mi puntava insistentemente. «Dite alle tedesche che ho i coglioni girati, e sono malinconico». Malinconico, già. Me lo diceva sempre, Roberta. «Quello che non va in te, Leo» cominciava, «è il tuo chiuderti a riccio, la tua espressione frustrata e il tuo nostalgico rifiuto del presente». «Grazie» rispondevo. «Cazzo, c’è qualcosa in te che non va. Qualcosa di masochistico». «Purtroppo». «Sai cos’è?» e giù a scandagliarmi con i suoi occhi di mare, «è che non ti sforzi di vivere, di essere allegro. Come se ti preoccupasse cercare la felicità». «È probabile, Roberta». «Bisogna rischiare di fasi del male». «Cosa credi?» urlavo. «Io amo la vita. Solo che a volte ci litigo, e così succede che sia lei a portarmi in giro, e non io a scorrazzarla!» «La tua apatia malinconica mi farà saltare i nervi». «E a me mi rompono il cazzo quelli che fanno i dottrinali, i salvagente. Perché mi dici come devo stare al mondo? Voi donne credete di avere la ricetta della felicità per gli uomini nel vostro nobile esempio di vita. Vaffanculo!» «Non generalizzare… è solo che vorrei vederti sorridere di più». Pian-geva. «So sorridere anche nella tragedia, se vuoi. E piangere di giubilo. Cosa vuoi di più da un uomo?» «Ultimamente sorridi SOLO nella tragedia». «Roberta, Roberta… un ragazzo cresce tra mille inquietudini. Quando ha vent’anni diventa un vero uomo, temprato dalle sue debolezze. Que-sto dura solo pochi mesi, perché subito dopo subentra un’inquietudine nuova e tutta maschile fatta di: desiderio di non appartenenza, di im-mortalità, di sregolata trasgressione, di celata irresponsabilità, di paura dei doveri. Ci arrabattiamo, soffriamo, fremiamo, tesi e slegati allo stesso tempo, ci disperiamo in solitudine. Torniamo bambini. Tu mi hai trovato così». «Sono le tue solite stronzate psicoanalitiche da apocalisse». «Il mondo mi darà ragione» ridevo, «ma solo quando morirò. La gloria è un bottino che non si gode mai. Chi è vivo non può essere creduto, troppi fattori compromettenti».

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«Basta, BASTA, mi gira la testa». Le era girata parecchio, la testa. Non siamo più insieme perché forse ero troppo psicanalista di me stesso. Le donne, si sa, vogliono psicana-lizzarti loro. E proteggerti. Anche quello lo facevo da solo, mi proteg-gevo. O, più probabilmente, ero troppo esposto agli elementi. Un ra-gazzo del ventesimo secolo dentro fino al collo nella Grande Crisi delle Personalità. Ero intrattabile. M’infilai in camera, ignorando la combriccola del salotto. Accesi la lu-ce. Mario dormiva beatamente, ancora completamente vestito, giacca scarpe e tutto. Era pallido come un angelo. Un angelo alcolizzato. Sul mio letto c’era una ragazza che mi fissava divertita. «Oddio, mancavi solo tu». «Ciao Leo». «Togliti dal mio letto, Silvia». Si alzò, mi fece segno di accomodarmi e sfoderò un sorriso grande co-me la sua sfacciataggine. Silvia era una mia spasimante, ed era deter-minata. Pericolose, le donne determinate. (Ma non lo sono tutte?). era la classica ragazza che non vedi se ti passa accanto, me che trovi piacevo-le se ti fermi a chiacchierarci insieme perché inizi a notare dei curiosi e grandi occhi scuri sotto la frangetta, una bocca voluttuosa e carnosa, un corpo grassottello ma appetitoso. «Come mai sei in camera mia?» «Ho trovato Manuel e gli altri per strada, mi sono accodata». «Gli stronzi. Nessuno mi ha avvisato del tuo agguato». «Li ho pagati bene». Mi sdraiai sul letto. Silvia mi tolse le scarpe e si sedette per terra. «Che cazzo vuoi da me?» borbottai. «Cosa vuoi, Silvia? Ho le palle gi-rate, sono ubriaco e malinconico, oltreché nostalgico». «Sono qui per tirarti su il morale» disse lei. Presuntuosa. Eravamo stati a letto qualche volta, quand’ero troppo solo. O forse ero solo come sempre ma ne soffrivo di più. Dall’alto della sua confidenza Silvia infilò la mano nella cerniera dei miei pantaloni. «Sai bene che questo è uno stupro, visto che ora non posso reagire». «Certo». «Cosa vuoi da me?» continuai a lamentarmi. «Non ti ho mai mostrato amore, sono lunatico e incostante. VATTENE!» «Tu sei uno che vuole nello stesso tempo non appartenere a niente ed essere ovunque. Mi fai impazzire!»

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La sua mano insisteva. Fissai la faccia dormiente di Mario. Poi quella di Silvia. Poi il soffitto. Vorticava. Provai ribrezzo e tristezza per quel momento. Mi alzai di scatto, Silvia ritrasse la mano. «Che fai?» chiese con tono falsamente timido. «Devo bere» dissi mettendomi le scarpe. «Ti accompagno?» «Vaffanculo, trovati un fidanzato». Mi diede uno schiaffo. Bello forte. Se ne andò. Tutti, in sala, mi guar-darono allibiti quando uscii dalla camera. «Che succede?» chiese Manuel, «Silvia è corsa fuori piangendo». «È una donna tenace» ammisi, «le donne tenaci piangono spesso». «Leo, stai sanguinando» Lorenzo m’indicò la guancia. In effetti Silvia, dandomi la sberla, mi aveva tagliato con il suo anello. «Non è niente». «Dove vai?» chiese Giulio. «Fuori». Cazzo se pioveva. Più di prima. E non avevo più l’ombrello. Tirai su il bavero, misi il cappuccio, guardai l’ora: le due e mezza. Entrai in un pub vicino che faceva chiusura alle quattro. Arrivai al bancone comple-tamente fradicio. Ero fradicio e solo. Tutti i ragazzi che stazionavano nel locale mi guardavano incuriositi. Gente che non sa stare da sola. Si abitueranno. «Birra media». Tremavo. Avevo bisogno di calore. Non sapevo di quale genere. CA-LORE. Entrò il classico tipo “male in arnese”. Un ragazzo sui venti, basso, magro e pallidissimo. Due borse della spesa sotto occhi arrossati e sbarrati verso il nulla. Forse ci era rimasto sotto da qualcosa di tosto, tipo acidi o giù di lì. Anfibi slacciati, catena, spille, borchie, toppe sul bomber nero logoro e stracciato. Camminava con una postura eretta e fiera, scattosa anche. Si appoggiò al banco proprio accanto a me. Puz-zava di vino e nicotina. «UNA BIRRA MEDIA!» urlò. «Scusa amico» gli dissi senza guardarlo, «se non ti spiace vorrei stare solo. In pace, ok?» «Perché?» «Non so… amico, sono ubriaco e ho la sbronza triste. Forse sono anco-ra innamorato della mia ex. Forse il mondo fa schifo e sono obbligato a riconoscerlo. Forse voglio bere una birra in pace». «Stronzate! Ti svelerò un segreto». Si avvicinò con complicità, inon-dandomi di alito vinoso. Aveva una luce tremolante di follia negli oc-

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chi. «Ho un amico, si chiama Alberto» bisbigliò. «Quello della relativi-tà». «Ne ho sentito parlare. Albert». «ALBERTO» mi corresse. «Alberto è un amico. Un bel giorno mi dice che l’energia è uguale alla massa per qualcosa al quadrato. È sensazio-nale, no? In un istante potrei essere a mille anni luce da qui». Era proprio fatto fottuto. E serissimo. Teneva lo sguardo sbarrato fisso sul mio con insistenza delirante. Perché tutti a me? La sua interpreta-zione di E=mc2 (di Alberto) era originalissima. «Sai che ti dico?» continuò, «vorrei che qualcuno mi spiegasse perché si sente dolore con il petto squarciato». «Dovresti provare» dissi con una punta d’ironia. Il suo sguardo dilatato si fece più cupo. Si morse le labbra e barcollò un po’. «Mi credi un pazzo drogato che si è bevuto il cervello, eh?» «È probabile». «Già». Ci pensò un po’ su, barcollò di nuovo, si accese una sigaretta, riprese: «Sai, puoi pure prendermi per il culo. O picchiarmi, se ti di-sturbo. Ma io ti dico: l’apocalisse è vicino, molto vicino. Per Odino e per Thor, sei nella merda, come me». «ODINO?» esclamai ridacchiando. Ero allibito e divertito. «Sì, LUI. Alla gogna il falso credo cristiano e lo strapotere culturale cattolico-penitenziale! E se vuoi seguirmi, partiremo alla conquista del-le GALASSIE!» «Apprezzo la proposta». «Mi piaci, ragazzo. PER THOR! Ti svelerò il grande male che affligge i nostri tempi». «Sentiamo». Ormai non me ne sarei più liberato. «La vera grande tragedia della nostra generazione è che non abbiamo casa. La casa, l’alcova, il rifugio alla fine del mondo. È un bisogno ata-vico dell’essere umano, e noi l’abbiamo perso. L’amore stesso per la casa fisicamente intesa è morto: l’amore per le sue mura, per le conqui-ste lente di generazioni e generazioni di uomini all’interno di quelle mura. Erano casa i grandi ideali, o gli Dei. L’immortalità era la casa di Achille, il mondo quella di Che Guevara, le coscienze quella di Gandhi eccetera». Ascoltai quella filippica in silenzio. Quel tizio aveva commesso un sa-crilegio: aveva sfinito con le droghe un cervello niente male. Uno scempio. Gli offrii una birra. «Perché?» mi chiese.

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«Mi hai illuminato sulla casa e le galassie. Te la meriti tutta. Alla pros-sima». M’infilai il cappotto e uscii, lasciando quel derelitto sfasciato ometto aggrappato al bancone e alla fugacità della sua lucidità. Mi dispiaceva lasciarlo lì, solo, in mezzo a sobrie e monotone teste di cazzo (le perso-ne qualunque) che probabilmente l’avrebbero deriso o biasimato. Mi voltai prima di chiudere la porta e lo vidi che parlava infervorato col barista. Beh, ci vediamo su qualche galassia, pensai. Aveva smesso di piovere. Cazzo, aveva smesso sul serio. Camminai, con passo tra il lieto e l’indeciso, causa abuso di alcol. Non avevo meta, solo voglia di camminare a vuoto. Giunto ad un piccolo parco, mi fermai. Fui folgorato. Folgorato dall’odore fragrante e fresco di corteccia bagnata. Respirai profondamente più e più volte, aggrappato a quella carezza di madre natura. Tutt’intorno erano pronti a stenderti i pugni del lerciume cittadino. Fu per questo che quell’odore delicato mi folgorò letteral-mente, e mi sembrava fossero passati millenni dall’ultima volta che lo sentii. Lasciai alle spalle brutture, sporcizia, grigia depressione e alienazione cittadina. La morte, pure. La natura mi aveva abbracciato e il resto non importava, perché solo il profumo, la consistenza, i colori, i palpiti della terra possono salvare l’uomo dalle sue spirali d’angoscia. Lo capii in quell’istante. «Ehi, qui, qui sono a casa» dissi soprappensiero. Ma durò poco. Un camion passò rombando e lasciando dietro di sé gli odori di scappamento. Fui travolto dalla sua rabbia inquinatrice. Scon-fitto, ripresi a camminare, stavolta svogliatamente. Inconsciamente finii davanti al portone di casa. Incrociai Lorenzo sulle scale. Bestemmiava e aveva la sua tipica faccia da speranze frustrate. «Che succede?» chiesi senza interesse. «LA BIONDONA!» urlò, «quella che piaceva A ME. Quella con cui ho parlato per tre ore e mezzo e sembrava così coinvolta, quella con due zinne così, quella che sembrava fatta…». «Quella?...». Sapevo già quel che stava per gridare. «QUELLA TROIA che è a letto con il TUO AMICO MANUEL, A-DESSO! STRONZA TEDESCA! Ti caga, ti caga… poi va con l’altro. Gli è bastato fare un lentaccio con la chitarra, dire quattro stronzate ruf-fiane…e A LETTO! L’intelligenza è inutile, e morirà. Alle tipe interes-sano le chitarre e i Baci Perugina!»

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«Forse non è mai stata utile». «Cosa?» «L’intelligenza». «Hai ragione, Leo. Buonanotte». «Ciao». Chiuse il portone e sparì nella notte. L’ennesima serata-no di Lorenzo. Ma lui almeno si era fatto la gnocca-ninfomane in ascensore. Varcai la soglia di casa, trovai Giulio che dormiva sul divano. Usava il cappotto come coperta. C’era una sua poesia, o un abbozzo di questa, su un foglietto che trovai per terra. “Dei sogni le trame pendono come ragnatele proprio ad un metro dalle angosce. Fuggo o ritorno, nulla afferro Ma di qualcosa sarò re, da qualche parte, qualcosa che non so.” Pessima. Fangosa e per nulla musicale. Una gran poesia, quindi. Ripensai alle sue parole, e a quelle del delirante apocalittico. La fuga. L’assenza di casa. Ci voleva una sigaretta. L’accesi. Cos’era la casa per i Beatnik? Era la strada, la fottuta strada. E noi era-vamo ancora vagabondi, proprio come loro, con la sola differenza che non riuscivamo a spostarci fisicamente. Eravamo dei vagabondi sedentari senza casa, questa era la vera, imma-ne tragedia. Gli altri problemi, solo conseguenze. Entrai in camera. Mario dormiva ancora beatamente nel suo letto, e una tedesca dormiva nel mio. Come udì il rumore della porta, la ragazza al-zò la testa. Era quella che prima mi puntava. «Vieni letto?» chiese con ipocrita innocenza. Chiusi la porta, entrai nel letto e lasciai la sua domanda in sospeso, almeno a parole. Non avevo mai provato una scopata mitteleuropea. Men che meno con col mio co-inquilino che mi russava accanto. Beh, era brava, cazzo. Quando lei (non sapevo neppure il nome) si addormentò, mi alzai e tor-nai in sala. Mi stesi sopra il tavolo e chiusi gli occhi appesantiti dal ses-so e dalla birra. Alla fine non ho scritto L’autobiografia di qualcun altro, pensai. Ho scritto un brandello della mia. Cioè, sostanzialmente non ho scritto nul-la.

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Forse è il destino, l’autobiografia di tutti. Questo brandello è la mia vita e la mia fuga. E lo dedico a me. E a chi fugge.

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La distesa di gelo

La maggioranza degli uomini vive in quieta disperazione. Ciò che si chiama rassegnazione è disperazione rafforzata.

H. D. THOREAU, Walden; ovvero vita nei boschi. Quando Walter fece capolino in cucina per il celeberrimo languorino e, viste le borse della spesa appena fatta da sua moglie Giovanna lasciate incustodite sul tavolo in cucina, vi ci infilò con infantile curiosità la manina e quando dopo un attento rovistare tra la pasta bio e il propoli e il gelato di soia e una mousse che fa andare al cesso – il BIFIDUS AC-TIREGULARIS, attenzione! – e qualche medicinale omeopatico e ver-dure geneticamente modificate, ebbene quando si ricordò che era sposa-to con Giovanna, una brava ragazza e madre e moglie ma col pallino del BIO e della medicina naturale e del colesterolo e delle tossine nega-tive che sfrangiano le palle al KARMA positivo sito nell’addome – guarda caso il posto dove buttiamo il cibo – e dell’aura che neanche fosse stata una fan di Kenshiro come lo era stato lui da ragazzo – d’altronde come non si fa a non amare un tizio che fa esplodere la gen-te, un uomo microonde che ammazza il fratello e vede crescere una dolce ragazzina pazientemente pazientemente per poi sbattersela quan-do è arrivato il periodo della vendemmia ovulare? Ebbene quando si ricordò di essere sposato con Giovanna e che fino a prova contraria è lei che fa la spesa e che acquista le cose che piacciono a LEI, e che tanto per ribadirlo anche se fosse Walter ad andarci, comprerebbe le stesse cose perché comunque Giovanna gli ORDINEREBBE di comprare le cose che vuole lei semplicemente perché è LEI – altro ruolo tutto suo – quella che comanda in casa, mica il povero WALTER che cristo per un attimo si era trovato soprappensiero e si era messo a rovistare tra le bor-se della spesa alla ricerca che so di un Ferrero Rocher o un Kinder o un Torroncino, ma poi per l’appunto si era ricordato di essere sposato con Giovanna e perdio non era in fondo una dimenticanza tanto lieve, cioè

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dimenticare il coniuge e il fatto che mangi merda bio da undici anni è insolito per non dire, STRANO, tanto che il fatto fece pensare a Walter che «oh dio, se dimentico queste cose ci sono due spiegazioni. Uno, ho talmente tanta voglia di un dolcetto zuccherato che il mio cervello arri-va a farmi sperare di trovarne uno anche dinanzi a un’evidenza negata da undici anni. Due, non sono felice del mio matrimonio tanto che arri-vo a sperare di non essere sposato con Giovanna anche dinanzi all’evidenza di undici anni di vita assieme?». Quale sarà la risposta giu-sta, si chiese Walter sospirando. Entrambe? Ritrasse la mano dal sacchetto con la morte nel cuore. In quel momento Giovanna comparve in cucina e squadrò il marito come al solito: tenen-do cioè il capo leggermente reclinato verso sinistra, socchiudendo gli occhi, sorridendo (ma un sorriso tipo maschera, circostanza, noi-viviamo-quieti-perché-sani-e-bio-e-soprattutto-perché-IO-reggo-le-redini-di-questa-famiglia. Insomma, un sorriso così, avete presente?). Dopo averlo squadrato, Giovanna gli disse, col suo solito tono di voce: leggermente cantilenante come ce l’hanno quelli della provincia rurale, squillante, chiaro, appena più alto del normale parlare, imperioso. Gli disse: «cerchi il propoli? Se lo cerchi c’è, l’ho comprato». «Non cerco il propoli, Giovanna. Cercavo» Walter soppesò ben bene le parole da usare, ma la ricerca non servì a nulla se non a fargli dire la ve-rità. «Cercavo un dolcetto. Potremmo comprare un Ferrero Rocher ogni tanto». Giovanna strabuzzò gli occhi così tanto che quasi ruppe le lenti degli occhiali. Poi eruppe come un vulcano: «ma lo sai con cosa il fanno i Ferrero Rocher? Con scarti di scarti di roba scartata e rimestata e sono pieni di coloranti e additivi e dolcificanti cancerogeni che non ne hai neanche l’idea». «Beh, che m’importa? Sono, cioè, SAREI un po’ stufo di tutta quest’attenzione e questo salutismo, Giovanna. Sai di cosa sei fatta tu? Di muco, cacca, urina, pus, midollo. Però mi piaci e vengo a letto con te». La donna parve quasi barcollare dall’incredulità. Alla fine riuscì a dire: «ma ti sembra un paragone calzante? Non ti ho mai sentito dire una co-sa più stupida di questa, Walter! E non voglio prendere in considera-zione di mangiare roba che mi avvelena e pagare pure per farlo». «Nulla è per sempre. Bisogna vivere bene» ribadì Walter, STAVOLTA deciso a non mollare un centimetro. «Appunto» ringhiò Giovanna, «vivere bene è avere uno stile di vita sa-no».

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«Vivere bene è concedersi un qualche piacere ogni tanto che faccia ap-prezzare la vita, come un dolcetto dopo cena, una birra fredda in agosto, qualcosa di unto e calorico di cui abbuffarsi ogni tanto. Tanto prima o poi qualcosa che ti fa male lo dovrai prendere in considerazione, Gio-vanna». «Ah, sì?» incrociò le braccia in tono di sfida, «e sarebbe?» «La morte, cara». «Ma sentilo» si afferrò la testa tra le mani, «come mai oggi pomeriggio te ne esci con queste assurde teorie?» «Ti sembrano teorie? Più terreno di così… » osservò Walter stranamen-te quieto, così stranamente che pure lui se ne stupì – da sempre Gio-vanna lo metteva in soggezione. Ma lo stupore lo abbandonò subito: aveva capito che in quel preciso istante doveva essere scattato in lui uno di quegli istinti primordiali che puoi sì cercare di scacciare o imba-vagliare o far tacere o castrare, ma che poi alla fine in quanto primor-diali e soprattutto in quanto istinti prima o poi se ne escono fuori con la giusta prepotenza a essi dovuta. Gli era scattato, ne era sicuro, il pri-mordiale istinto di sopravvivenza: il più cazzuto? Certo, il più cazzuto. Giovanna fissò il marito in silenzio – sempre con la testa lievemente reclinata – e alla fine decise di ricorrere al miglior metodo possibile da usare quando qualcuno alza la cresta con lei. Cambiò argomento. «Stasera devi uscire, no?» lo incalzò alzando in modo appena percetti-bile il tono e la cantilena della voce, appena percettibile ma comunque colto da Walter, il quale sapeva bene che significava «non sfidarmi fi-glio di puttana» e la conseguenza fu che l’impeto dell’istinto di soprav-vivenza perse un filo di potenza. «Sì, ho la banda. Cioè, le prove della banda» disse semplicemente, quando in realtà avrebbe desiderato sputare fuori un po’ di veleno e nel-la fattispecie: «mi devi sempre cambiare argomento porca la puttana quando recrimino qualcosa ma io non reggo più tutto questo non sono mica un cazzo di bambinetto di merda che si può accontentare o raggi-rare così a tuo piacimento e che cazzo mi sento lobotomizzato alle volte e non osare dirmi che non sopporti le parolacce perché so già benissimo che le odi ma apri bene le orecchie A ME NON ME NE FOTTE UN CAZZO SE NON TI PIACCIONO HAI CAPITO SI’ O NO VAF-FANCULO TE E TUTTE LE STRONZE COME TE». Evidentemente il non detto trasparve sul suo viso contratto. Walter era un libro aperto per Giovanna. Ma in ogni caso Giovanna era così cazzu-ta che anche se Walter fosse stato un libro chiuso lei lo avrebbe aperto con la forza. Illanguidì la voce e gli disse: «dovresti prepararti, non sei

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in ritardo? Fatti una doccia, mi sembri STRESSATO», e Walter capì che la parola STRESSATO era stata pronunciata con un pizzico di astio e con tanta, troppa soddisfazione canzonatoria. Giovanna sapeva chi comandava, Giovanna sapeva di manovrarlo, sapeva come comportarsi per averla vinta, sapeva quali erano le sue debolezze. Ma quando era stato, cazzo, che Walter le aveva consegnato tutti quei suoi punti debo-li, come si regala un mazzo di chiavi? «Tieni, ecco qua tutti i modi pos-sibili per fottermi. Usali pure a tuo piacimento ogni qual volta lo ritieni opportuno durante la nostra vita in comune». Ma quand’è che aveva deciso di auto-fottersi così? Che cosa era accaduto della sua vita? «Sì, tra un po’ vado» asserì rimanendo in piedi come un’ebete in cucina rimuginando in quale modo fosse possibile riattaccarsi all’argomento DOLCETTI perché non aveva intenzione di arrendersi questa volta, oh no, no, no. Ma a un tratto l’oggetto preferito di Giovanna, cioè il telefonino, iniziò a vibrare come un ossesso. VVVVVVRRRRRRRRRRR. Sua moglie era una delle tante persone che passavano più tempo al cellulare che no. Sì perché con quell’oggetto si possono controllare anche le persone di-stanti a livello spaziale. Oltretutto la donna era una maniaca del lavoro e della carriera e quindi si portava a casa il lavoro con dedizione para-noica sotto forma di conversazione telefonica. Infatti, come poté constatare Walter, la stava chiamando una collega (la chiamavano SEMPRE i colleghi). «Pronto? Oh, ciao Angela! Come? Dove ho messo il faldone? Ma è sul comodino di Riccardo, ti ho lasciato un post-it in proposito. L’hai vi-sto? Sì? Bene. Hai sentito che figura ha fatto il Mario in consiglio d’amministrazione? Io non riesco a capire come ancora possano dar-gli… cosa? Sì, lo so che il caporeparto ha parlato bene di me, sai l’ho colpito quella volta che… come facciamo con la presentazione? Guar-da, ci penso io: innanzitutto dobbiamo sbatterci per quanto riguarda la veste grafica, sai, ho delle idee a riguardo che… sì, sì, ovvio che butto giù tutto stasera, ho anche da leggermi quei progetti di legge che mi in-teressano… sì, sì, stasera mi ci metto, tanto non ho niente da fare, Wal-ter ha la banda e Vanessa la metto a letto…sì, sì, Walter sta bene. An-cora fermo, sì. Lo so, lo so. Gliel’ho detto, che credi? Sì, potrebbe esse-re promosso anche domani se lo volesse ma…sì, sì, la COSTAN-ZA…già, uhm, sì, DETERMINAZIONE… come dici? Già, già, sì, PROGRAMMAZIONE… l’AMBIZIONE, no? Ma…». E così via. E con Walter con la bocca semiaperta e una protesta di im-portanza vitale già morta in bocca. Ma ecco che la telefonata era finita,

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e si poteva… VVVVRRRRRR… una vibrazione, di nuovo. VRRRRRRRR…. «Oh cristo» pensò Walter. «Pronto? Pronto? Ah, è lei. Sì, ho appena fatto la spesa. Allora, com’è andata con l’imbianchino? Non si trova bene? Come sarebbe, è lento? Non sa fare lo spatolato? Mi dia il suo numero, signora. Sì, ovvio che ci penso io. Walter? Sta bene, sì. Un po’ stressato, a dire la verità. Ma so IO come calmarlo, non si preoccupi. Certo che mangia regolarmente, signora. Lo molli, ha trentasette anni, lui! Aha, sì, certo, sì, lo farò sta-sera, sì, O.K., bene. A presto, buona serata». Allontanò il cellulare dall’orecchio con un gesto plateale e sussurrò: «e-ra tua mamma». «L’avevo capito» le disse meccanicamente Walter – che in realtà stava ancora pensando a come fare per riprendere il discorso ma non gli ve-niva in mente nessuna strategia. E sul più bello il cellulare risuonò nuo-vamente della sua orgasmica vibrazione: VVVRRRRRRRR…. «Pronto? Sì? sì, l’ho comprata quella libreria. Sì, è carina, non occupa molto spazio. Sta bene in camera nostra. Stesso colore dell’armadio. Anche se sì, vero, avevo intenzione di prendere l’armadio nuovo, ma non prima di aver comprato una cucina nuova. Sì, i mobili della nostra cucina sono un disastro. Collassati su loro stessi. Già, già…». Walter sospirò e bofonchiò, passando accanto a sua moglie: «adesso vado in doccia» e sua moglie diede ad intendere di aver recepito tant’è che gli fece cenno di sì con la testa mentre stava spiegando i vari colori della nuova cucina che aveva in mente. Cazzo, pensa alla cucina ma non mangiamo mai niente di buono, rimuginò l’uomo con astio. Mentre faceva le scale Walter si ritrovò a chiedersi perché avesse spo-sato quella donna. Per inerzia, forse? Non gli era sembrata così male, quando l’aveva conosciuta. Si era presentata meglio di come la vedeva adesso che ne era il marito. A dir la verità, non gli dispiaceva neanche ora. Certo. Ma se era vero che non gli era sembrata così male, fu altret-tanto vero che non gli era sembrata neanche così BENE. Niente di esal-tante, insomma. Nessun amore travolgente, o passione dapprima focosa ma poi spentasi col tempo. Semplicemente: NON ERA MALACCIO. Inerzia, appunto. Walter non era mai stato quel tipo d’uomo “delle grandi domande”. E neanche “l’inquieto”. Men che meno “l’intrepido”. Era una persona na-ta nei settanta – purtroppo nata e non vissuta – e cresciuta come tale negli ottanta, quando non c’erano più rivoluzioni né sogni, quelli erano finiti quando i suoi genitori si erano accorti di averli realizzati senza

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gustarseli (troppo fatti o troppo tardiva la rivelazione), insomma quan-do la figura più trasgressiva dello spettacolo non era più Bob Dylan o Lennon ma Giorgio Faletti che faceva il paninaro a Drive-In e la can-zone di una generazione non era né My generation né Imagine né Blo-win’ in the wind ma Wild boys o The final countdown. Non che si vo-glia sputare sugli anni ottanta (ma magari su quelle persone che se li sono lasciati passare addosso passivamente sì). Insomma, Walter era il classico tipo “comune”. Magari un po’ sfigato. Fu il bimbo un po’ timido a scuola – il miope con i primi occhiali da vista e giù a prenderlo per il culo, i compagni senza cuore. Fu il ragazzino segaiolo che mendicava un po’ di attenzione dai ragaz-zini leader, quelli belli e irrimediabilmente bravi a calcio – ma cazzo com’era possibile che tale alchimia si verificasse SEMPRE, cioè quella che i belli erano irrimediabilmente anche bravi nello sport? Walter non lo capì mai né lo capisce tutt’ora – e passava ore nella sua cameretta a immaginare porcate con le compagne di scuola carine che non lo caga-vano di striscio perché si sa a undici dodici tredici anni ti piacciono le belle stronze – com’è che spesso coincide anche in questo caso? L’alchimia “bella&stronza”, cioè. Alle medie, in particolare, è quasi una prassi. Fu l’adolescente brufoloso, occhialuto, bruttino in verità, che si era guadagnato un bel gruppo di amici a forza di essere provvido di sigaret-te – Giovanna non sapeva né doveva sapere del suo passato da fumatore – e di giri di birra offerti e di compiti in classe passati. Fu lo studente universitario un po’ defilato. Un po’ di vita sociale ma niente Erasmus Party o festini in appartamenti – quelli pregni di supe-ralcolici e ragazze ubriache che a momenti andrebbero a letto anche con uno scopettone –, un po’ fuori corso per godersi il campus ma non troppo, un po’ di capelli lunghi e basette lunghe e jeans a zampa e ma-glioni con collo a V ma non per troppo tempo. Fu un fidanzato paziente – leggi: facciamo tutto quello che vuoi basta che me la dai perché mi masturbo da ormai quindici anni e no, non mi sono ancora innamorato della mia mano destra. Fu punito per la sua pazienza: l’altare lo beccò. Giovanna ne esultò e pianificò la sua vita fatta di dominio e razionalità e razionalizzazione e che cazzo fatta anche di prevedibilità e forse anche monotonia (Walter sospettava che sua moglie avesse pianificato persino quando lui doves-se morire, tutto era così PERFETTO). Tutto ciò lo riassunse facendo le scale per andare al piano di sopra. Sia chiaro, non erano piani di cento metri d’altezza. Fece solo un riassunto

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flash di ciò che sapeva a menadito: se stesso. Ma era sicuro di sapere a menadito di sé? Quasi a cercare di darci un taglio con l’introspezione, Walter ficcò la testa dentro la cameretta di Vanessa, la sua figlioletta di otto anni. Stava facendo i compiti per casa e gli dava le spalle. Era una splendida bam-bina: già molto alta per l’età, ampio sorriso gratuito, occhioni verdi co-me la mamma, nasino elegante come la mamma, capelli color paglia lisci e fluenti e sempre profumati di shampoo ai frutti di qualcosa. Ma c’era un ma. Quella ragazzina possedeva di già qualcosa di allarmante. Lo notò persino in quel momento mentre le fissava la schiena. La schiena ben dritta e rigida sulla sedia e perfetta nella postura, insomma quella posizione IMPECCABILE, unita a piccoli segnali che l’occhio attento di papà aveva notato, come ad esempio i lineamenti un po’ tirati del viso – così innaturali i lineamenti da stress in una bimba di otto an-ni, così strani, così violenti – e il sorriso (che solitamente in una bambi-na è luminoso e sgombro da inibizioni) così freddo e già circostanziale e il tono di voce contenuto e pacato e privo di quella squillante e spon-tanea elettricità dei ragazzini che non riescono a tenere a freno quello che hanno da buttar fuori e quindi sbrodolano tutto in una piena di paro-le convulsa ma melodiosa pur nella disarmonia. Insomma, il lavoro di Giovanna sulla figlia era già iniziato e anzi procedeva a gonfie vele. Vanessa aveva assimilato come una piccola innocente spugnetta i co-mandamenti ripetuti ininterrottamente: doveva essere PER FORZA la prima della classe, PER FORZA la migliore a musica (pianoforte e sol-feggio, per lei), PER FORZA educata fino alla svenevolezza (l’EDUCAZIONE e il SAPER CONTENERSI sono sintomo di FOR-ZA INTERIORE e AUTOCONTROLLO, e vai a spiegare tu che diavo-lo potrà anche andare ogni tanto fuori controllo un bimbo di otto anni, potrà pure sviluppare la sua creatività in modo a volte, diciamolo pure, ANARCHICO, o completamente sgombro da vincoli), PER FORZA di già onesta intellettualmente e sincera sempre e mai contraddittoria e in definitiva MATURA (matura? Otto anni? Otto anni?). «Che c’è, papà?» gli chiese improvvisamente Vanessa dopo averlo no-tato fermo sulla soglia. «Niente. Ti guardavo». «Mi guardavi?» assunse un fare interrogativo ma molto formale, paca-to, dio mio già così simile a sua madre – «ma che diavolo i nostri figli devono per forza essere stampini di noi stessi? Non è un’ingiustizia, quando accade? Non ha sopportato già abbastanza NOI, il mondo? E noi che facciamo, gli consegniamo prontamente una perfetta nostra co-

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pia? Non dovremmo EVOLVERCI una volta per tutte, invece di perse-verare nella ricerca di un’immortalità che nessuno veramente vuole? Che sto pensando?» – questo rimuginava il povero padre. «Sì, guardavo la mia figlia. Il mio tesoro». «È perché devi dirmi qualcosa?» «No, tesoro, non è perché devo dirti qualcosa. Era semplicemente per il piacere di osservarti». «Non capisco». «Non fa niente, tesoro». «Comunque se non ti dispiace devo finire i compiti di italiano, papà». «Certo. Certo. Non volevo disturbarti. Vai pure avanti» la assecondò il papà anche se dentro di lui un vortice di emozioni si agitava e produce-va pensieri riassumibili in una parvenza di discorso: «salvati piccina mia. Scappa. Urla. Liberati. Non voglio vederti crescere con la pagella immacolata. Non voglio vederti cantare per il coro-adolescenti della chiesa e parlare in modo sprezzante dei coetanei che frequentano il bar o fumano gli spinelli (perché un uomo si arroga il diritto di giudicare un altro uomo?). Non voglio vederti sognare un principe azzurro che non esiste e allora vederti abbassare il tiro solo perché i sogni bisogna ab-bandonarli per il pragmatismo – no, no, NO, i sogni si devono inseguire e se sono troppo in alto è meglio cadere nel tentativo di raggiungerli che vivere senza mai essere caduti una volta. Non voglio vederti di-sprezzare chi va peggio di te a scuola o chi ha i vestiti più economici dei tuoi o chi è grasso o magro o timido. Non voglio che diventi spoc-chiosetta. Non voglio vederti a casa con il nuovo fidanzato che ha il Mercedes tutto suo e i campi e parla male dei marocchini e dei terroni e dei rumeni e gli piacciono le domeniche pomeriggio al CENTRO COMMERCIALE e sbronzarsi in segreto con i compagni della squadra di calcio quando la “morosa” non c’è insomma sei diventata una secon-da mamma che quando ci sei si fa il bravo e quando no si possono fare le marachelle OH MIO DIO CHE TRISTEZZA NON FARLO, NON FARLO, NON FARLO. Non voglio vederti diventare fredda, algida, diffidente della gente, impaurita dal diverso, pregiudiziale, dipendente dal benessere, schiava di preconcetti precotti. Non voglio vederti perde-re la curiosità, la voglia di scoprire il mondo e la vita e le diverse esi-stenze umane. Non voglio vederti andare in vacanza con marito a Sharm El Sheik in un club italiano e sapere che alla mattina hai fatto quella cazzo di aerobica in acqua (sembrano tutti cerebrolesi) e al po-meriggio una nuotatina in piscina perché l’acqua salata ti dà fastidio (il Mar Rosso nel frattempo è li, immobile da sempre e per l’eternità e non

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ti aspetta né tantomeno sa che esisti) e alla sera un party organizzato da effeminati animatori turistici nel quale ti sei sbronzata di Margarita ma non lo vuoi mostrare al marito per non essere presa per il culo (e non sai che tanto lui non se ne accorgerebbe mai visto che è sbronzo fradi-cio di Mojito ed è molto distratto dalle chiappe stellari di una delle a-nimatrici, oh le chiappe abbronzate!). Non voglio vederti diventare co-me Giovanna. Non voglio vederti diventare come me. Non voglio ve-derti persa nei labirinti dove i tuoi genitori si sono infilati da una vita. Come noi. Perduta per sempre. Non voglio». Richiuse la porta della camera. Sospirò. Tenere dentro troppi sfoghi fa male alla salute. Va a finire che s’incancrenisce lo spirito. E visto che non poteva/non aveva il coraggio di buttar fuori tutto, si decise per il non pensare. Eseguì meccanicamente ciò per cui era stato programma-to: si fece la doccia, si vestì in modo accuratamente casual, afferrò la custodia rigida che conteneva la tromba, s’infilò il giaccone pesante (meno due gradi, quella sera!), salutò la moglie (era al telefono), uscì nell’aria secca e gelida e sferzante, sopra la sua testa una stellata limpi-da e tersa da togliere il fiato o da far piangere, produsse un rumore che trovava carino calpestando la neve resa dura e stridente dalla giornata secca, guadagnò la macchina – un SUV voluto dalla moglie perché i SUV sono sicuri in caso di incidente e hanno molti comfort e per una famiglia vanno bene e bla bla bla bla –, mise in moto, partì, si diresse verso le scuole dove la banda si riuniva per le prove serali. Ma. Ma non raggiunse la scuola. Cambiò direzione un bivio prima. Perché? Vai a saperlo. Fatto sta che mancavano cento metri alla desti-nazione quando Walter disse tra sé e sé un bel «vaffanculo» e quindi voltò a destra invece che a sinistra e s’infilò in un viale della zona fiera. Era presto, neanche ora di cena. Troppo presto per quello che aveva in mente. Indi per cui svoltò nuovamente a destra in fondo al viale, rag-giunse l’incrocio di Porta Nuova, prese il Corso Porta Nuova, si fermò in una piazzola per residenti («che vadano a fare in culo loro e anche i vigili»), scese dal veicolo, si mosse a grandi falcate decise e autoritarie e liriche e splendide, entrò al Mc Donald, ordinò un menù e un dolce, divorò tutto con atavica avidità (risolini di alcuni ragazzini che assiste-vano attoniti alla sua voracità quasi sessuale nonché alla sua grazia) (nel frattempo il capobanda imprecava: «e il trombettista dove cazzo sta?». Sta al Mc Donald, sta), ruttò pacatamente a pasto concluso, uscì nella sera di ghiaccio rimuginando su una strana legge della natura («ma perché tutti, dico TUTTI, i ragazzi e le ragazze che lavorano al Mc Donald sono brutti?»), ordinò un caffè in un bar elegante e caldo e

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accogliente, lo bevve in piedi e si sentì così leggero (nonostante il Mc Donald!) che quasi si spaventò. Tornò al SUV, nessuna multa (che culo), ripartì, riguadagnò la zona fie-ra, si parcheggiò in un punto ombroso tra due capannoni deserti, accese l’autoradio, ascoltò Let it bleed degli Stones e poi Innuendo dei Queen. Finito questo, rimise in moto perché a star fermi a motore spento c’era un freddo boia. Alzò il riscaldamento di molto – in macchina Giovanna gli rompeva i coglioni dicendo che metteva troppo caldo, il guaio era che a lui PIACEVA mettere troppo caldo, sentire quella ventata forte di calore tropicale mentre fuori la gente si congela le palle – e ripartì. Ormai erano le dieci di sera, si poteva attuare l’idea. Fece qualche giro tra i capannoni e gli uffici e i garage della zona industriale avvolti nell’oscurità mantenendo una velocità di crociera bassa e rilassata. Calmante. Complici i 25 gradi sparati dal condizionatore, veniva quasi voglia di spalmarsi la crema solare e iniziare un Sudoku. E alla fine vide quella che gli andava di più. Alta, snella, felina, lunghi capelli mossi. Esibiva una mini jeans e, presumibilmente, tre paia di collant. Aveva un mini-giubbetto sempre di jeans e un maglioncino dolcevita. Serrava le braccia attorno al corpo per scaldarsi. Quella era la zona delle africane. Le più sfruttate, le più economiche, le più maltrat-tate. La prostituta si avvicinò alla macchina ferma di Walter guardinga ma speranzosa di entrare al caldo almeno per un po’. L’uomo abbassò li finestrino e attese. Semplicemente, non sapeva che dire. Forse perché non era mai andato a puttane. Lei si affacciò. Tremava come una foglia e non sapeva bene la lingua, per cui balbettò qualcosa come un «ciao, passaggio?» «Quanto?» la studiò Walter con tono asciutto e pacato. «Thirty». «O.K., va bene» visionò impaziente lo specchietto retrovisore e ai lati. Temeva la polizia. «Ora Sali». Lei salì, accompagnata da un miasma di acre profumaccio di infima qualità che sapeva di qualche frutto esotico non ben identificato e da una zaffata di gelo tagliente che violentò la molleggiata aria tropicale ricreata dal SUV. L’unione delle due novità nell’abitacolo fecero sob-balzare Walter quasi più dell’idea di aver FATTO SALIRE UNA PUTTANA. «O.K., dove si va?» le chiese con la cortesia di quando si chiede infor-mazioni turistiche a un passante. «Là» la donna indicò a sinistra.

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«O.K., mi dici tu quando devo girare». «All right» commentò lei. Il viaggio iniziò. Walter non aveva il coraggio di voltarsi verso di lei. Si limitò a scrutarle le gambe con la coda dell’occhio – sembravano mu-scolose e sode – e a farsi ipnotizzare dall’ossessionante rumore di ma-sticazione: lei stava masticando una chewing-gum a fauci spalancate. «B-beh, come ti chiami?» le chiese infine, dopo un po’ di silenzio. «Naomi» rispose lei piatta, continuando a guardare la strada con grandi occhi neri assenti – profondi come il più profondo pozzo di tenebra dell’Africa più nera. «Bene, e di dove sei, Naomi?» «Naigiria». «E, e quanti anni…ehm…». «Sinistra. Qui» indicò con veemenza, «poi the next, destra, right». «O.K., capito, ma quanti anni…». «No capisce io». «How old are you?» «I’m twenty-five. Destra, adesso» indicò una viuzza stretta che si allon-tanava dai capannoni e prometteva di perdersi per campi silenziosi e oscuri. Walter obbedì docilmente – com’era abituato ad obbedire a Giovanna. «Adesso left, qui». Imboccò una stradina sterrata che si dirigeva verso un edificio sperduto in mezzo a un prato. L’edificio era completamente immerso nell’oscurità e sembrava un capanno per attrezzi agricoli, o un garage. Ma non arrivarono fino ad esso, accostarono a metà sentiero e Walter spense il motore. L’oscurità totale piombò anche all’interno dell’abitacolo (il cruscotto un po’ illumina sempre) e solo un lampione lontano riuscì a illuminare il bagliore opaco dello sguardo di Naomi. Dopo qualche secondo però, Walter si abituò al buio e iniziò a scrutare i contorni del viso della pro-stituta e un po’ si allarmò perché non era per niente bella e il suo sguar-do era tanto tanto dolcemente triste e aveva anche qualcosa di spento e morto e in definitiva faceva paura (ora mi ucciderà e mi lascerà qui, pensò per un secondo) e poi quel suo modo di masticare il chewing-gum a bocca aperta, torturandolo, SGNAC – SGNAC –CIAC – CI-CIOK, e formando piccoli palloni che poi i suoi grandi molari d’avorio preziosi gioielli dell’Africa scoppiavano con foga rabbiosa e frustando con violenza il silenzio: BANG – CRACCCK-SPLATCIACK!

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«Ehm, e quindi…» abbozzò lui, a disagio – tra l’altro l’olezzo tropicale ormai monopolizzava le sue narici e lo stordiva e lo ipnotizzava: un qualche rito voodoo, rito voodoo olfattivo omicida omiodio fuggi Wal-ter? «Thirty euro» disse lei secca facendo esplodere l’ennesimo pallone. «Uh, sì. O.K.» e si mise a trafficare col portafoglio e estrasse i soldi e glieli passò e lei se li infilò nello stivale dove Walter vide che facevano capolino gli altri soldi degli altri clienti accumulati in serata, tutte le banconote arrotolate in modo infantile e ohdiomio così triste e poi: ma con quante/quali altre persone era già stata quella sera? Walter impalli-dì e odiò i clienti precedenti e odiò se stesso per essersi permesso di ar-rivare a odiare i clienti precedenti di una puttana (se sono PRECE-DENTI vuol dire che si appresta a essere un cliente lui stesso, no?). Naomi lo riportò al momento presente: «tu spoglia. Togli pantaloni». «No». «No?» la ragazza non capì. S’irrigidì, pure. «Intendo, non subito. Aspetta un attimo». Walter prese ad accarezzarle una coscia. Era soda e tornita e appetitosa ma cavolo, così…FREDDA. Sebbene fosse in auto da qualche minuto, Naomi era ancora completamente congelata. Sembrava di toccare un ghiacciolo. A Walter mancò il respiro, ma continuò ad accarezzarle la gamba, imperterrito, e pensò: «mio dio, come può il suo corpo essere così freddo? Così freddo? Solo i morti sono così freddi. Anzi, neanche i morti. È GELATA. Completamente GELATA. È la morte. È… è… cazzo». Ciononostante, seguitò ad accarezzare quel corpo un tempo ba-ciato dal sole equatoriale ma adesso gettato sul cemento e tra i capan-noni di una città industriale europea congelata dalla morsa dell’inverno dove tanti cadaveri pallidi del nord del mondo tutte le notti vanno a cer-carlo – il corpo – ormai morto, ormai trasportato da un’anima lacerata e distrutta. Walter accarezzava spaventato e disgustato e Naomi lo guardava e lui se ne accorse e annegò in quello sguardo di ebano profondo come la tri-stezza di tutta l’umanità – Naomi se l’era accollata tutta – e di colpo il profumo nauseante parve aumentare d’intensità così come la flagella-zione perpetrata al chewing-gum e Walter si sentì come svenire o come dovesse vomitare o come se avesse appena toccato il fondo del fondo del baratro e in definitiva si sentì sporco e inutile e gretto e desolante e umiliato e cattivo. Spostò lo sguardo oltre la ragazza, oltre l’odore insostenibile, oltre il finestrino e si guardò intorno: un prato secco e congelato chiazzato di

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mucchi di neve gelata e oltre questo alcune case in lontananza e le luci pallide di una tangenziale e i capannoni industriali e il cielo terso e le stelle così fredde. Tutto immobile, tutto brinato, tutto gelato, tutto mor-to, tutto morto ma così affascinante, immutabile, immobile, perfetto, silente, imperturbabile, frigido, spietato, alieno. Disumano. Bellissimo. Anche in una ZAI si poteva dunque atterrire dinanzi alla perfezione mortifera del gelo? Naomi ne era al corrente? Come poteva tornare sul-la strada, adesso? La doveva salvare? «Tu no vuole scopare? Tu strano» osservò lei con un mezzo sorriso. E Walter confrontò la perfezione invernale di fuori e la miseria che si stava concretizzando nel suo SUV da quarantacinquemila euro e quindi ritrasse la mano disgustato con se stesso e avvertì una specie di conato ma lo rispedì al mittente – non voleva aprire la portiera e stuprare il si-lenzio del prato congelato. «Ripartiamo. Ti riporto al tuo posto». «Tu no vuole scopare?» insisté Naomi. «No. Tieni i soldi, non aver paura. Torniamo». Rimise in moto («addio piccolo campo erboso, non saprò più ricono-scerti di giorno, anche perché cercherò di evitarti giacché mi ricordere-sti uno dei peggiori momenti della mia vita!»), riportò Naomi sullo stradone dove l’aveva pescata, la guardò mentre si allontanava con i suoi movimenti sinuosi, da modella, nel gelo secco di quella serata così astiosa con l’uomo e con i concetti di sopravvivenza, ripartì, accese l’autoradio ma non lo ascoltò veramente così come non guardò vera-mente la strada ma guidava “in automatico” per così dire. E all’incrocio che se giravi a destra andavi in autostrada, autostrada che avrebbe potuto portarlo sull’autobahn fino ad Amsterdam («fuggire, fuggire!»), mentre se giravi a sinistra tornavi a casa, Walter svoltò. E tutti noi sappiamo con assoluta certezza quale strada scelse.

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Il grattacielo e la coccinella La vicenda che mi va di raccontare accadde durante i tempi farraginosi del liceo, gli stridenti e scordati diciassette anni. Era una mattina di primavera. La giornata era fresca e di un limpido quasi imbarazzante. Attendevo il bus alla fermata, ben poco confortato dall’idea di rinchiudermi a scuola. Abitavo in piazza Renato Simoni, la fermata del bus era in piazza Renato Simoni. Accesi una sigaretta. Avevo iniziato a fumare perché le sigarette erano una distrazione che riempiva alla perfezione i piccoli punti morti della giornata: i cinque minuti di attesa autobus, la ricreazione, il dopo pran-zo eccetera. Adesso è diverso, nei piccoli punti morti della giornata mi prendo una pausa dalle sigarette. Cominciai a tirare furiosamente, come fanno tutti i neo-fumatori, e m’immersi nei miei soliti pensieri adolescenti. Pensavo molto, parlavo poco, osservavo sempre. Non sono cambiato molto da allora, forse osservo molto meno e penso ancora di più. Quan-do penso, mi estraneo. Sono quello che in gergo si dice che ha “la testa tra le nuvole”. Magari l’avessi veramente, dato che amo follemente le nuvole: sembrano enormi e soffici sofà dove ci si siede, si socchiude gli occhi, ci si lascia trasportare verso interminabili spazi e folli misteri, si manda a fare in culo tutto quello che c’è giu. Stavo guardando le nuvole e facendone di piccole e novelle con il fu-mo, e non mi accorsi che tra le solite facce che attendevano alla fermata ce n’era una nuova. Il bus, così terreno e grigio e sferragliante e sporco, arrivò cigolando. Si fermò tra gli sbuffi e spalancò le fauci. Io e i soliti visi noti della fermata salimmo, la faccia nuova esitò un po’, poi salì anche lei seguendomi a ruota. Ancora una volta sopravvissi alle gomitate e alla puzza tagliente e inde-scrivibile del bus, una puzza che c’è solo lì e che non riesci a decifrare. Ero pressato in fondo, contro il finestrino, e mi misi a guardare fuori. Mi piaceva veder scorrere le cose oltre la mia vista, uomini, alberi, ce-mento eccetera. Anche se non avevo ancora inquadrato il perché di

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quella sensazione gradevole, avevo intuito che mi dava un’idea di fuga, di liberazione, di distrazione dal pesante mondo di chi cammina con i propri piedi, oppresso dalla pesantezza del tutto. Dopo un po’ però la mia attenzione si spostò verso l’interno della vettu-ra. Mi colpì il profumo di qualcuno che era dietro di me. Doveva essere una ragazza, per cui provai a sbirciare con la coda dell’occhio ma riu-scii solo a intravedere un riflesso di fluenti capelli castani. Avevo paura di far brutta figura, perciò mi voltai di nuovo verso il finestrino ma non riuscii più a concentrarmi sul paesaggio. Quella luminescente onda di capelli mi tornò più volte davanti agli occhi. Improvvisamente la vettura frenò molto bruscamente. Io ero saldamente attaccato, ma la ragazza mi venne addosso duramente, piantandomi una gomitata sulla schiena. «Scusami, scusami tanto» sussurrò. Mi voltai, sorrisi e dissi «non è nulla» con scarsa disinvoltura. Lei ricambiò il sorriso, per nulla imbarazzata. La prima cosa che notai furono dei profondi e scaltri occhi nocciola. Poi vennero delle graziose, quasi evanescenti efelidi sulle guance pallide. Poi la bocca, carnosa e sensuale, che contrastava nettamente con la pelle chiara del viso. Poi che non aveva ombra di trucco, quindi non nascondeva delle grosse oc-chiaie, ma pure quelle le donavano. La conclusione era che la trovai molto bella. «Tutto bene?» m’incalzò. Sembrava volesse cercare il dialogo. Io, che il dialogo lo evito da sempre, mi ritrovai ad essere insospettabilmente affabile. «Certo, ho solo una vertebra spostata, quindi nulla di grave». «Se vuoi te la rimetto a posto con un’altra gomitata». «Magari un’altra volta». «Oh, mi piacerebbe». Ero ingenuo, forse più di adesso, quindi non capii i sensi nascosti in quella risposta, buttata lì tutt’altro che a caso. Ero arrivato alla mia fer-mata, e mi avvicinai alla porta. «Allora ci vediamo per la vertebra» disse seriosa. «Ehm…certo». «Come ti chiami?» «And…». La porta si chiuse. L’autobus ripartì col suo incedere lento e tremolante. Rimasi immobile per un po’, circondato dai miasmi e sferzato dai bor-soni delle signore di colore che mi passavano a fianco. C’era da riflettere.

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Esposi la faccenda ai miei amici più fedeli, Riccardo e Marco, quella sera stessa. Eravamo seduti sul gradone del porticato di piazza Simoni. Riccardo aveva portato un pacchetto di Marlboro da dieci, Marco aveva portato tre birre, io la mia simpatia. Dividemmo il tutto per tre. «Quindi le cose sono andate così» cominciai, «credo che questa tipa sia salita con me, qui in piazza». «La dovremmo conoscere, se abitasse qui» osservò Marco. «Lo so, ma mi sembra di ricordare che fosse alla fermata con me. Eb-bene, saliamo. Lei è dietro di me. Ad un certo punto il bus frena, O.K.? Lei mi viene addosso e mi chiede scusa». «Fin qui tutto normale» disse Riccardo. «Lo so. Poi comincia a scherzare sulla mia vertebra. Butta lì una frase, tipo “magari ci vediamo per sistemarla”». «Chi?» chiese Marco. «La vertebra!» «EH?» chiesero all’unisono. «Va beh… e quando scendo mi chiede il mio nome». «Cosa vuoi sapere, Andrea?» «Se era molto socievole o ci stava provando, ecco… ». «Socievole!» esclamò Riccardo ridacchiando. «O psicopatica!» gridò Marco, sbellicandosi in ciniche risate. «Oh, andate a farvi fottere!» dissi elegantemente. C’era una splendida luna appesa alla notte limpida, troppo limpida per la città. Spuntava timidamente tra le immense e mostruose masse scure dei nostri condomini. Le nostre case. «Bella, eh?» sospirai. «Cosa?» chiese Riccardo. «La luna, no?» «Sì, è la luna, Andrea». «Lo so, e allora?» «È sempre quella» intervenne Marco. «Avete il gusto estetico di due gasteropodi». «Ma scherzavamo, scemo. È vero che stasera è bellissima. È troppo fa-cile prenderti per il culo». «Ehi Andre, dimmi una cosa» disse Lorenzo. «Sì?» «Che cazzo è un gasteropode?»

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La mattina seguente era fredda e piovosa. Il vento era cessato, ma la pioggerellina fina che esalava incessantemente su tutto creava una cupa e densa atmosfera di servile umidità. Alla fermata eravamo io e le solite facce. Lei no. Mi ero aspettato di ri-vederla, io che nella notte avevo sognato profumi e riflessi e sguardi rapidi sfuggenti di colei che era stata una fugace sagoma di passaggio nel mio mondo. Accesi la solita sigaretta da momento morto. Un gruppo di ragazzine urlanti e sghignazzanti passò dall’altra parte della strada. Le osservai finché scomparvero dietro l’angolo, ma la loro scia di colore e rumore rimase ancora un po’, sospesa nell’aria come un’illusione o un sogno che si accarezza per i lembi la mattina appena sveglio. Riuscivo raramente a ridere come loro: a quell’età mi limitavo a registrare gli avvenimenti piuttosto che viverli. Questo perché tentavo di evitare di far parte di quel qualcosa di indefinibile e patetico che ac-cumulava i miei coetanei. Non riuscivo appieno in quest’impresa, e de-testavo un po’ me stesso e un po’ gli altri. Ora che quegli anni sono passati, sono migliorato: detesto solo me stesso. La pioggerella insisteva e non dava segni di cedimento. Io non avevo mai l’ombrello con me perché lo perdevo sistematicamente e perché volevo subire appieno le precipitazioni che Dio o gli agenti atmosferici decidevano di donarmi. Avevo il mio cappello, un basco, e il bavero alzato. La sigaretta si bagnò e imprecai sottovoce. «Potrei ripararti, se ti va» disse lei. Apparsa all’improvviso. Mi fece quasi saltare all’indietro. Sorrideva spontaneamente. Mi sorprese quel modo di sorridere, gratuito e per nulla circostanziale, nei confronti di un estraneo. «Beh, potrei accettare». «Potrei? Sei prezioso, tu». «Scherzavo». «Allora» mi squadrò tenendo il capo lievemente inclinato, «mi dici il tuo nome, oggi?» «Andrea». «Un po’ banale». «Oh, insomma…». Mi alterai un po’. Sapevo che il mio nome era molto comune, ma non volevo sentirmelo dire. Ero un fan dell’originalità ad ogni costo, convinto che nelle opinioni comuni si nasconda la stupidità. E quest’estranea che cazzo voleva? «Scherzavo, Andrea è carino. Odio i nomi ricercati». «Beh, sentiamo il tuo, allora». «Madeleine».

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«EH?» «Madeleine Marie Foquet». «Per fortuna che non ti piacciono i nomi ricercati». «Già. Mio padre è belga. Tutti mi chiamano Maddalena, o Maddy. O “ehi, tu!”». «Anche a me capita che mi chiamino così, a volte». Il dialogo s’interruppe bruscamente. Mi sentii un idiota a starmene zitto zitto sotto il suo ombrello. Dovevo parlare. Nell’attesa, la sbirciai di na-scosto. Era carina, eccome, ma non mi attirava come il giorno prece-dente. Mi sembrava il classico tipo di “ragazza carina” che non avrei mai potuto capire: una di quelle troppo mature, troppo emancipate, troppo complesse e in definitiva troppo migliori di me. Ma mi aveva incuriosito, questo è certo, e avrei voluto trovare un discorso. Fu lei a rompere il silenzio. «Vai a scuola oggi?» «Beh… vediamo, ho diciassette anni, la cartella sulle spalle, oggi è mercoledì… mah, direi proprio di sì». Sbuffò, mi fece una smorfia di scherno. «Scemo, volevo chiederti se avevi voglia di saltare scuola». «Perché mai?» «Vediamo… perché la salto io, e ti sto chiedendo se avresti voglia di tenermi compagnia». Per me non era una novità assoluta saltare scuola. Ero un mago a falsi-ficare le firme e a nascondere il libretto scolastico ai miei. Quel giorno però, non avevo patemi d’animo tipo interrogazioni e mi sembrava inu-tile e stupido rischiare grosso per nulla. Ci pensai su. «O.K.» dissi infine. Così, senza sapere perché lo facevo né con chi, m’incamminai giù per la strada, riparato da un ombrello verde. Lasciai le facce note alla fer-mata, il bus al suo tragitto consono, la scuola e i suoi banchi agli altri e cercai solamente di pensare al viscido rumore che producevano le suole delle mie scarpe, strascicate con indolenza sul marciapiedi bagnato. Madeleine non parlava, sorrideva soltanto. Era esile, pallida, in perfetta armonia con il grigio-cielo ed il grigio-cemento che la circondava. Una perfetta figlia belga della pioggia. Ricordo con dolente soddisfazione quel fotogramma allo stesso tempo triste e leggero. Entrammo in un bar qualsiasi, personalmente nemmeno lo ricordo. Do-po poco avevamo due cappucci sul tavolo e molta voglia di parlare. Lei si sfilò l’impermeabile azzurro e scoprì un maglione largo e un po’ sfat-

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to, color terra. Com’era ovvio e naturale, vista la mia età e il mio essere maschio, le guardai il seno: era grosso, e molto. «A che pensi?» mi chiese a bruciapelo. «A perché mi trovo al bar e non a scuola a dormire come sempre» ri-sposi. «Non avrai sonno». «Ce l’ho, invece». «Andrea, la risposta è facilissima, sai?» «Ah, sì?» «Ti ho proposto di saltare scuola, ed hai accettato». «E perché mi hai proposto di saltare scuola?» «Oh, non è ovvio?» sussurrò con un’occhiata nuova, docilmente mali-ziosa. «Non lo è» ammisi mescolando lentamente il cappuccino. «Perché sei carino, tutto qua» disse con naturalezza. «Ti vedevo tutte le mattine alla fermata quando uscivi di casa. Mi piaci perché sembri un estraneo in mezzo al caos della città, ma un estraneo disinvolto. Volevo conoscerti, così ieri ho preso il tuo autobus. Ho saltato scuola anche ieri solo per prendere il bus con te, sai?» La sua sfacciataggine mi paralizzò e mi lusingò allo stesso tempo. «Sei molto disinvolta negli approcci» le dissi. «Non è vero, sinceramente è la prima volta che mi comporto così. E non è un approccio, volevo solo… parlarti, non lo so». «Ma una cosa non mi quadra». «Dimmi». «Dove cavolo abiti? Hai detto che mi vedi tutte le mattine». «Mi sembra ovvio, in piazza Renato Simoni» rispose affabilmente. «In piazza Simoni?» strabuzzai gli occhi. «Esatto. Abito proprio nel “grattacielo”». «Nel GRATTACIELO?». Esso era un palazzo particolarmente alto che si trovava sul lato nord della piazza. Forse era il più alto della città, no-nostante non fosse un gigante: aveva quattordici piani. Comunque, fa-miliarmente tutti lo chiamavamo così. «Ma non è possibile, ti abito praticamente di fronte e non ti ho mai vi-sta!» Abbassò gli occhi e sorrise timidamente. «Si vede che non sono cari-na». «Non è vero». «È vero, invece. Passo inosservata, sono un po’ insignificante. Diciamo pure che voglio esserlo: non curo l’aspetto. Non parlo così disinvolta

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quasi con nessuno. Avevo ragione nel voler conoscerti, sono tranquilla adesso, anche se sei un estraneo». «Mio dio, è incredibile, nel grattacielo». Mi concentrai per cercare di ricordare se avessi già visto il suo volto nel passato, ma non mi venne in mente niente. Lei mi aveva letto nel pensiero, e disse: «visto che so-no brava a passare inosservata? Comunque io un ricordo di te ce l’ho, se si eccettuano questi ultimi tempi in cui ti vedevo alla fermata». «Sì?» «Sì. Avevo otto anni ed ero al parco al di là della circonvallazione. Un gruppo di bambini giocava a calcio, tu invece te ne stavi in disparte, di-steso sul prato. Mi avevi incuriosita. Mi avvicinai sospettosa e cercai di sbirciare cosa stessi facendo. Avevi una coccinella sul dorso della ma-no, e la fissavi con il più dolce degli sguardi». Frugai nei miei ricordi: non avevo neppure quello. «Mi sedetti accanto a te» continuò. «Rimasi a guardarti, stupita da quel tuo sguardo estasiato. Tu non ti eri neppure accorto di me. Ad un certo punto i bambini con la palla ti chiamarono per giocare. Tu non li ascol-tavi, guardavi la coccinella. Infine, uno di loro venne lì e ti afferrò per la maglia. “Insomma, che fai qua da solo come uno scemo?”, ti urlò. Ti alzasti e solo allora mi vedesti, mi prendesti la mano e mi passasti la coccinella. Rimasi con quell’insetto in mano per tutto il pomeriggio». «Cazzo» esclamai, «è un ricordo vecchio. Come fai a sapere che io so-no quel bambino?» Si sporse sul tavolo. I seni si schiacciarono su di esso. Il sorriso si avvi-cinò a me. Ebbi un fremito. «Scemo, si vede benissimo che sei tu» sus-surrò divertita. «Davvero?» «Sì, ne sono sicura. Non ne ho le prove, ma non mi sbaglio. Quel gior-no avrei voluto conoscerti. Anche alle elementari stavo spesso da sola, forse più di adesso. Non mi piacevano i “soliti” giochi. E tu mi avevi fatto stare bene e a mio agio come nessun altro prima, e senza rivol-germi la parola. Oggi mi sono rifatta, perché sono riuscita nello scopo di diventare tua amica». «Ma non verri deluderti, Madeleline» ammisi. «Non guardo più le coc-cinelle, e sono molto più cupo, se vogliamo. Lo sento. Il bambino esta-siato che ero, poiché lo ero, è diventato un po’ troppo riflessivo». «Le persone non cambiano» disse perentoria, «e tu non fai eccezione. Sei sempre quel bambino, Andrea. Lo sarai sempre, anche se spesso lo dimenticherai».

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Quando uscimmo dal bar pioveva ancora. La pioggia, da sottile e pe-dante di prima, si era fatta più spessa e violenta. Tenni io l’ombrello, dato che ero più alto. Passeggiamo senza meta fino a quando i nostri talloni e le nostre zampe d’elefante dei jeans furono fradice, infine ci riparammo sotto l’enorme porticato di piazza Dei Signori. Maddy mi stava molto vicina e tremava leggermente. «Buffo, no?» esclamò. «Ho maglione e impermeabile, sono per metà nordica, ma soffro terribilmente il freddo umido». Se possibile, in quel momento era ancora più pallida. Ma il suo pallore non l’abbruttiva, anzi: faceva risaltare le efelidi, le labbra rigogliose e i grandi, espressivi occhi nocciola. Era fredda, altera, algida come una principessa elfica e allo stesso tempo trasmetteva un tepore e una sicu-rezza che compiacevano l’anima. «Come mai non parli quasi con nessuno?» le chiesi. «È strano, sei cari-na e simpatica». «Mah… con le mie coetanee è dura, Andrea. Le adolescenti si muovo-no in branco, e per permetterti di farne parte vogliono che tu ti attenga ad alcuni requisiti. Tipo che tu sia vestita bene, o sexy, o firmata. Che non parli di libri, che ascolti musica pop, che faccia la scema e la me-lensa coi ragazzi, che attacchi le foto degli attori sui diari». «Ma non sono tutte così» esclamai esterrefatto. «Quelle che non sono così sono generalmente le secchione, che non ti rivolgono la parola a causa della loro sdegnosa alterità, oppure le timi-de-brutte-grasse-imbranate, bistrattate da tutte, che si compiangono pe-rennemente». «Un’analisi fredda e spietata delle tue coetanee, oltre che generalizza-ta». «Io direi realistica». «Non credo. È tipico della nostra età vedere le cose così male. Se avessi uno sguardo meno severo ti accorgeresti delle cose belle e piacevoli. O perdoneresti alcune veniali bassezze delle persone». «Osi dirmi questo TU?» sbottò. «Perché, non posso?» «Credo proprio di no. Anche tu, secondo me, ti concedi poco al prossi-mo». «È vero, in questo sono molto simile a te. Ma cerco di migliorarmi». «Beh, ti picchierei. Io sono anche timida. Quindi, anche volessi provare ad avvicinarmi agli altri, faccio una fatica bestiale. Tu non mi sembri timido, tu scegli l’isolamento ancor più di me».

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«È vero, ma te l’ho detto: cerco di migliorarmi. E tu non sei affatto ti-mida, signora mia. Sei stata molto spregiudicata con me». «Era la disperazione». Accesi una sigaretta e mi appoggiai pigramente al muro. «I ragazzi?» chiesi. «Oh, ancora meglio!» disse furibonda. «Immaginavo avresti risposto così». «Fino a qualche tempo fa ero convinta che con i ragazzi fosse più facile fare amicizia. Niente senso del branco, competizione, ruoli prestabiliti. Almeno con le donne. Ma poi ho scoperto che tutti i miei amici voleva-no solo il mio corpo, e nient’altro. Vogliono solo scoparti». «Altro giudizio severo». «Tutti quelli con cui cerco il dialogo pensano: “uh, questa mi parla, quindi ci sta”. Uno stress. Tu pensi che io ci stia provando con te?» «No». «Sicuro?» «No». Scoppiò a ridere, una risata limpida e spontanea. «Un ragazzo è pur sempre un ragazzo. Credi che non mi sia accorta che mi hai fissato le tette, quando mi sono tolta la giacca?» «Mah… ». «Silenzio, è così. Tanto ci sono abituata. È normale, in fondo. I ragazzi amano le tette e io ho una quarta. Ma un po’ le odio, sai? Sembra che vengano sempre prima le tette di Maddy, poi Maddy. È terribile». «Beh, in effetti fisicamente è così davvero» ammisi. «Per quello cerco di nasconderle, non mi valorizzo. Ragazze che hanno tette così di solito le mettono sempre in bella mostra. Guarda che ma-glioni indosso!» «Ehi, Maddy» dissi sottovoce, «ti ho guardato il seno, è vero, ma non do così tanta importanza alla cosa». «È una balla» sbottò reprimendo un sorrisetto da finta arrabbiata. La conoscevo da quella mattina, ma avevo già sbirciato alcune cose di lei che mi piacevano: la sua insofferenza, come me, verso tutti i sensi di appartenenza, lo strano e inspiegabile senso di tepore e sicurezza che m’infondeva, la sua rabbia adolescenziale, la paura nascosta dietro una saccente e razionale visione del mondo. «Cosa fai nella vita, Andrea?» mi chiese fissandomi negli occhi. «Studio, non so… ». «Cosa fai VERAMENTE, dico. Studiare per noi è un’operazione mec-canica».

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«Suono la chitarra». «Oh, e sei bravo?» «Insomma, mi sono un po’… fossilizzato. So quei quattro arpeggi, o motivi, e li ripeto ad libitum. Dovrei andare avanti, ma adesso non ne ho voglia. Gioco a calcio, amo andare al cinema e passeggiare di notte quando è estate e la città sonnecchia nel silenzio dell’afa. Amo anche leggere, pensare, credere che il mondo ormai è vecchio e incrinato e i-nospitale per me. Che per me c’è dell’altro». «Anch’io lo penso spesso» bofonchiò fissando il vuoto, «o meglio, sempre. Sto al penultimo piano del grattacielo, vedo tutta la città e que-sta mi sembra così appesantita, morta, triste. Sento tutti soli e poveri, quando sono sul terrazzo». Si portò i capelli dietro le orecchie. Mi sorrise, come al solito, senza pietà. Cominciava ad attrarmi. Lo spirito impaurito e inviolabile, la quarta di seno, la bocca florida, l’innocenza, le efelidi… soprattutto mi attraeva perché avevo capito che non era vera la mia iniziale convinzio-ne che fosse più matura di me. Appoggiò la testa sulla mia spalla. Io socchiusi gli occhi e mi concen-trai sul contatto. «Sai» le dissi, «che mai nessuno mi aveva appoggiato la testa sulla spalla?» «Ah sì? Che vita triste!» «Sì. E ora lo fai tu, e ti conosco solo da stamattina». «Non ci conosciamo da stamattina. Ci conosciamo da nove anni. Da quel giorno al parco». FINE ANTEPRIMACONTINUA...