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IL PROTESTANTESIMO PARAGONATO COL CATTOLICESIMO NELLE SUE RELAZIONI CON LA CIVILTÀ EUROPEA VOLUME PRIMO OPERA DEL SACERDOTE SPAGNOLO D. GIACOMO BALMES Tradotta in Italiano dal C. A. C e qui lievemente aggiornata all’italiano odierno dal forumista di totustuus.biz LucioF per il quale si chiede un’Ave Maria come ringraziamento CARMAGNOLA 1852. TIPOGRAFIA DI PIETRO BARBIE’ Si permette la stampa Torino 27 aprile 1852 FILIPPO RAVINA Vic. Gen

IL PROTESTANTESIMO PARAGONATO COL ......all’influenza del Cattolicesimo. Mezzi di cui si servì il Cattolicesimo per formarla. CAPITOLO XXIX Analisi della teoria di Montesquieu sui

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IL PROTESTANTESIMO PARAGONATO COL CATTOLICESIMO

NELLE SUE RELAZIONI CON LA CIVILTÀ EUROPEA

VOLUME PRIMO

OPERA DEL SACERDOTE SPAGNOLO D. GIACOMO BALMES

Tradotta in Italiano dal C. A. C e qui lievemente aggiornata all’italiano odierno dal forumista di totustuus.biz LucioF per il quale si chiede un’Ave Maria come ringraziamento

CARMAGNOLA 1852 . TIPOGRAFIA DI PIETRO BARBIE’

Si permette la stampa Torino 27 aprile 1852 FILIPPO RAVINA Vic. Gen

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INDICE

Prefazione

CAPITOLO I Natura e nome del Protestantesimo

CAPITOLO II Indagine sulle cause del Protestantesimo. Valutazione dell’influenza dei suoi fondatori. Varie cause, che qui si accennano. Equivoci nati su questo punto. Opinioni di Guizot e di Bossuet. Si dimostra la vera causa del fenomeno, fondata sul medesimo stato sociale dei popoli europei.

CAPITOLO III Nuova dimostrazione della divinità della Chiesa cattolica ottenuta dall’esame delle sue relazioni con lo spirito umano. Fenomeno straordinario che si presenta nella cattedra di Roma. Superiorità del Cattolicesimo sul Protestantesimo. Importante confessione di Guizot: sue conseguenze.

CAPITOLO IV Il Protestantesimo porta in sé un principio dissolutore. Per sua natura tende ad annientare tutte le credenze. Direzione pericolosa che dà all’intelletto. Descrizione dello spirito umano.

CAPITOLO V Istinto di fede. Si estende anche alle scienze. Newton. Cartesio. Osservazioni sulla storia della Filosofia. Proselitismo. Stato attuale dell’intelletto.

CAPITOLO VI Differenti necessità religiose dei popoli in relazione alle varie fasi della loro civiltà. Tenebre che si incontrano nell’applicarsi ai princìpi primi delle scienze. Scienze matematiche. Caratteri particolari delle scienze morali. Illusioni di alcuni ideologi moderni. Errore commesso dal Protestantesimo nella direzione religiosa dello spirito umano.

CAPITOLO VII Indifferenza e fanatismo: due estremi opposti introdotti in Europa dal Protestantesimo. Origine del fanatismo. Servizio importante prestato dalla Chiesa alla storia dello spirito umano. La Bibbia abbandonata al libero esame; sistema erroneo e funesto del Protestantesimo. Importante testo di O’Callaghan. Rappresentazione della Bibbia.

CAPITOLO VIII Il fanatismo. Sua definizione. Sue relazioni col sentimento religioso. Impossibilità di distruggerlo. Mezzi per ridurlo. Il Cattolicesimo ha posto in pratica questi mezzi con molta prudenza. Osservazioni sui presunti fanatici cattolici. Veri caratteri dell’esaltazione

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religiosa dei fondatori di ordini religiosi.

CAPITOLO IX Incredulità e indifferenza religiosa introdotte in Europa dal Protestantesimo. Sintomi fatali che li manifestarono subito. Grande crisi religiosa avvenuta nell’ultima parte del diciassettesimo secolo. Bossuet e Leibnitz. I Giansenisti: loro influenza. Dizionario di Bayle: osservazioni sull’epoca di tale pubblicazione. Condizione deplorevole delle credenze tra i Protestanti.

CAPITOLO X Si risolve una questione importante sulla durata del Protestantesimo. Rapporti dell’individuo e della società con l’indifferentismo religioso. Le società europee rispetto all’Islamismo e al Paganesimo. Confronto tra il Cattolicesimo ed il Protestantesimo nella difesa della verità. Intima unione del Cristianesimo con la civiltà europea.

CAPITOLO XI Dottrine del Protestantesimo. Loro classificazione in positive e negative. Fenomeno singolarissimo: la civiltà europea ha rigettato uno dei dogmi più importanti dei fondatori del Protestantesimo. Importante servizio svolto dal Cattolicesimo per la civiltà europea con la difesa del libero arbitrio. Carattere dell’errore. Carattere della verità.

CAPITOLO XII Analisi degli effetti che produrrebbe in Spagna il Protestantesimo. Stato attuale delle idee irreligiose. Trionfo della religione. Stato attuale della scienza e della letteratura. Situazione delle società moderne. Riflessioni sull’avvenire e sulla futura influenza del Cattolicesimo. Sulla probabilità dell’introduzione del Protestantesimo in Spagna. L’Inghilterra: sue relazioni con la Spagna. Pitt. Carattere delle idee religiose in Spagna. Situazione della Spagna. Suoi elementi di rigenerazione.

CAPITOLO XIII Comincia il confronto tra il Protestantesimo e il Cattolicesimo nelle loro relazioni col progresso sociale dei popoli. Libertà: senso vago di questa parola. La civiltà europea è dovuta principalmente al Cattolicesimo. Confronto dell’Oriente con l’Occidente. Congetture sui destini del Cattolicesimo nelle catastrofi che possono minacciare l’Europa. Riflessioni sugli studi storico-filosofici. Fatalismo di certa scuola storica moderna.

CAPITOLO XIV Stato religioso, sociale e scientifico del mondo all’epoca in cui apparve il Cristianesimo. Diritto romano. Riflessioni sull’influenza esercitata dalle idee cristiane sul diritto romano. Vizi del sistema politico dell’impero. Sistema del Cristianesimo per rigenerare la società: il suo primo passo fu diretto al cambiamento delle idee. Confronto tra il Cristianesimo e il paganesimo nell’insegnamento delle buone dottrine. Osservazioni sul pulpito dei Protestanti.

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CAPITOLO XV La Chiesa non offre solamente un insegnamento grande e fecondo, ma costituisce anche un’associazione rigeneratrice. Temi di cui dovette occuparsi. Difficoltà che dovette vincere. La schiavitù. Chi abolì la schiavitù. Opinione di Guizot. Numero immenso di schiavi. Con che giudizio si procedette nell’abolire la schiavitù. L’abolizione istantanea era impossibile. S’impugna l’opinione di Guizot.

CAPITOLO XVI La Chiesa cattolica adoperò, per abolire la schiavitù, non solo un sistema di dottrine, i suoi princìpi e lo spirito di carità, ma anche un insieme di mezzi pratici. Punto di vista dal quale si deve guardare a questo fatto storico. Idee erronee degli antichi sulla schiavitù. Omero, Platone, Aristotele. Il Cristianesimo iniziò subito a combattere questi errori. Dottrine cristiane sulle relazioni tra schiavi e padroni. L’impegno della Chiesa per mitigare i trattamenti crudeli verso gli schiavi.

CAPITOLO XVII La Chiesa difende con zelo la libertà dei manomessi (schiavi affrancati). Manomissione (atto di affrancamento) nelle chiese. Benéfici effetti di tale pratica. Riscatto degli schiavi. Zelo della Chiesa nel praticare e promuovere quest’opera. Prevenzione dei Romani su questo punto. Influenza che ebbe lo zelo della Chiesa nell’abolire la schiavitù per la redenzione degli schiavi. La Chiesa protegge la libertà degli schiavi riscattati.

CAPITOLO XVIII Modo d’agire della Chiesa riguardo agli schiavi degli Ebrei. Motivi che spingevano la Chiesa alla manomissione dei suoi schiavi. Sua benevolenza riguardo a questo. Sua generosità verso i propri liberti. Gli schiavi della Chiesa erano considerati come consacrati a Dio. Effetti benèfici di tale considerazione. Si concede la libertà agli schiavi che vogliono abbracciare la vita monastica. Effetti di tale pratica. Condotta della Chiesa nell’ordinazione sacerdotale degli schiavi. Repressione degli abusi che s’introdussero su questo punto. Disciplina della Chiesa di Spagna su questo particolare.

CAPITOLO XIX Dottrine di S. Agostino sulla schiavitù. Importanza di tali dottrine per giungere all’abolizione della schiavitù. Dottrine di S. Tommaso sulla stessa materia. Si impugna Guizot. Matrimonio degli schiavi. Disposizioni del diritto canonico su questo matrimonio. Dottrina di S. Tommaso sullo stesso punto. Riepilogo dei mezzi adoperati dalla Chiesa per abolire la schiavitù. S’impugna ancora Guizot. Si dichiara che l’abolizione della schiavitù è dovuta esclusivamente al Cattolicesimo.

CAPITOLO XX Quadro della civiltà moderna. Abbozzo delle civiltà non cristiane. Tre elementi della civiltà: individuo, famiglia, società. La perfezione di questi tre elementi deriva dalle dottrine.

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CAPITOLO XXI Distinzione tra individuo e cittadino. Individualismo dei barbari secondo il Sig. Guizot. Se quest’individualismo appartenne esclusivamente ai barbari. Natura ed origine di questo sentimento. Sue modificazioni. Quadro della vita dei barbari. Vero carattere del loro individualismo. Ammissione del Sig. Guizot. Questo sentimento era in qualche modo comune a tutti i popoli antichi.

CAPITOLO XXII Il rispetto all’uomo in quanto uomo non era conosciuto dagli antichi. Analogia di questa particolarità degli antichi con un fenomeno delle rivoluzioni moderne: tirannia del potere pubblico sugl’interessi privati. Spiegazione di un doppio fenomeno che ci si presenta nelle società antiche, e nelle moderne non cristiane. Opinioni di Aristotele. Carattere della democrazia moderna.

CAPITOLO XXIII Nella Chiesa primitiva i fedeli avevano il sentimento della vera indipendenza. Errore del Sig. Guizot su questo punto. Dignità della coscienza sostenuta dalla società cristiana. Sentimento del dovere. Sublimi parole di S. Cipriano. Sviluppo della vita interiore. Difesa del libero arbitrio da parte della Chiesa cattolica. Importanza di questo dogma per rialzare la dignità dell’uomo.

CAPITOLO XXIV Nobilitazione della donna dovuta esclusivamente al Cattolicesimo. Mezzi adoperati dalla Chiesa per riabilitarla. Dottrina cristiana sulla dignità della donna. Monogamia. Diversa condotta del Cattolicesimo e del Protestantesimo su questo punto. Fermezza di Roma rispetto al matrimonio. Suoi effetti. Indissolubilità del matrimonio, Il divorzio tra i Protestanti. Effetto del dogma cattolico del matrimonio come vero Sacramento.

CAPITOLO XXV Preteso rigore del Cattolicesimo nei confronti degli sventurati coniugi. Due sistemi per regolare le passioni: sistema protestante e sistema cattolico. Esempi. Passione per il gioco. Diffondersi delle passioni in tempi torbidi: la causa. L’amore: carattere di questa passione. Il matrimonio da sé solo non è un freno sufficiente. Quale debba essere il matrimonio perché serva da freno. Unità e fermezza delle dottrine e condotta del Cattolicesimo. Fatti storici: Alessandro, Cesare, Napoleone.

CAPITOLO XXVI La verginità. Dottrine e condotta del Cattolicesimo su questo punto. Idem del Protestantesimo. Idem della filosofia atea. Origine del principio fondamentale dell’economia politica inglese. Considerazioni sul carattere della donna. Relazioni della dottrina sulla verginità con la riabilitazione della donna.

CAPITOLO XXVII Esame dell’influenza del feudalesimo nel rivalutare la donna europea. Opinione di M.

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Guizot. Origine del suo errore. L’amore del cavaliere. Spirito della cavalleria. Rispetto dei Germani per le donne. Analisi del famoso passo di Tacito. Considerazioni sopra questo storico. Testimonianza di Cesare sui barbari. Difficoltà di conoscere bene lo stato della famiglia e della società tra i barbari. Il rispetto di cui gode la donna europea è dovuto al Cattolicesimo. Distinzione tra Cristianesimo e Cattolicesimo: perché è necessaria.

CAPITOLO XXVIII La coscienza pubblica. Sua definizione. Cause che la formano. Confronto tra la coscienza pubblica delle società moderne e quella delle antiche. La coscienza pubblica è dovuta all’influenza del Cattolicesimo. Mezzi di cui si servì il Cattolicesimo per formarla.

CAPITOLO XXIX Analisi della teoria di Montesquieu sui princìpi su cui si fondano le varie forme di governo. Gli antichi censori. Perché le società moderne non li hanno. Cause che fecero fuorviare Montesquieu su questo punto. Equivoco del medesimo sull’onore. Quest’onore, se bene analizzato, è il rispetto per la coscienza pubblica. Illustrazione della materia con episodi storici.

CAPITOLO XXX Due maniere di considerare il Cristianesimo: come dottrina, e come istituzione. Necessità che ha un’idea qualunque di personificarsi in una istituzione. Vizio radicale del Protestantesimo sotto questo aspetto. La predicazione. Il sacramento della Penitenza. Influenza della confessione auricolare sulla conservazione e purificazione della moralità. Osservazione sui moralisti cattolici. Forza delle idee. Fenomeni che esse presentano. Necessità delle istituzioni: non solo per insegnare, ma anche per applicare le dottrine. Influenza della stampa. Intuizione e discorso.

CAPITOLO XXXI Delicatezza dei costumi: in che consiste. Differenza tra i costumi delicati ed i costumi rilassati. Influenza della Chiesa cattolica nel temperare i costumi. Confronto tra le società pagane e le cristiane. Schiavitù. Patria potestà. Giochi pubblici. Una riflessione sui tori di Spagna.

CAPITOLO XXXII Elementi che contribuirono al protrarsi della durezza dei costumi nelle società moderne. Condotta della Chiesa su questo punto. Canoni e fatti degni di nota. S. Ambrogio e l’Imperatore Teodosio. La tregua di Dio. Disposizioni molto importanti dell’autorità ecclesiastica su questo punto.

CAPITOLO XXXIII Beneficenza pubblica. Differenze tra il Protestantesimo e il Cattolicesimo riguardo ad essa. Paradosso di Montesquieu. Regole fondamentali in questo campo. Danni causati dal Protestantesimo in questo campo. Ciò che vale la filantropia.

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CAPITOLO XXXIV Intolleranza. Malafede su questo argomento. Definizione della tolleranza. Tolleranza d’opinioni e tolleranza di errori. Tolleranza nei confronti dell’individuo. Tolleranza negli uomini religiosi e negli increduli. Da dove nasce negli uni e negli altri. Due classi di uomini religiosi e di increduli. Tolleranza nella società: da dove nasce. Origine della tolleranza che regna nella società attuale.

CAPITOLO XXXV L’intolleranza è un fatto universale nella storia. Dialogo con i sostenitori della tolleranza universale. Considerazioni sull’esistenza e l’origine del diritto di condannare le dottrine. Soluzione di questa questione. Funesta influenza del Protestantesimo e dell’ateismo in questa materia. Giustificazioni dell’importanza data dal Cattolicesimo al peccato d’eresia. Incoerenza degli ignobili volterriani. Un’altra osservazione sul diritto di condannare le dottrine. Epilogo.

CAPITOLO XXXVI L’Inquisizione. Istituzioni e legislazioni d’intolleranza. Cause del rigore usato nei primi secoli dall’Inquisizione. Tre epoche dell’Inquisizione di Spagna: contro gli Ebrei e i Mori, contro i Protestanti, e contro gl’increduli. Ebrei: motivo dell’odio con cui erano guardati. Rigori dell’Inquisizione, sue cause. Condotta dei Papi in questo faccenda. Delicatezza dell’Inquisizione di Roma. Princìpi intolleranti di Lutero riguardo agli Ebrei. Mori e Moreschi.

CAPITOLO XXXVII Nuova Inquisizione attribuita a Filippo II. Il padre Lacordaire. Pregiudizi contro Filippo II. Un’osservazione sull’opera intitolata “l’Inquisizione senza maschera”. Rapida occhiata su quell’epoca. Causa di Carranza: considerazioni sulla stessa e sulle qualità personali del celebre reo. Origine della parzialità contro Filippo II. Riflessioni sulla politica di questo sovrano. Curioso aneddoto di un predicatore obbligato a ritrattarsi. Riflessioni sull’influsso dello spirito del secolo.

NOTE

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PREFAZIONE

L’opera di D. Giacomo Balmes, di cui questo è il primo di due volumi, è di tale interesse, per ampiezza di vedute, erudizione sostanziale e insieme originale, varietà di argomenti, incalzante vigoria della forma, ordine e lucidità di esposizione, che al suo apparire riscosse subito in tutta Europa il consenso e il plauso universale degli uomini colti. Nei soli primi quattro anni l’opera fu ristampata tre volte in Spagna; fu tradotta in Italiano, in Francese e in Inglese, e ovunque le più importanti riviste che trattano queste materie ne parlarono in modo molto favorevole. Attualmente essa è riconosciuta come uno dei più autorevoli lavori scientifico-religiosi di questo secolo.

Sarebbe quindi inutile soffermarsi a segnalare dettagliatamente i rari pregi che il lettore rileverà da sé, nel leggere l’opera, con ben maggiore precisione ed evidenza. Ciò che invece ci sembra opportuno far notare è che il Balmes, sacerdote spagnolo, cominciò a comporre questo suo lavoro nel 1842, in quel periodo calamitoso in cui si trovava la Spagna a causa delle ostilità tra i partiti, e minacciata, nello stesso tempo, dal crescente influsso del Protestantesimo e da una rivolta sociale. Pur tuttavia il nostro autore, come osservò avvedutamente il suo erudito connazionale D. Gregorio Alvarez-Perez, con le sue nobilissime qualità, cioè con la sua indipendenza, imparzialità, forza dei ragionamenti, seppe procedere in modo tale che gli stessi nemici finirono col portargli rispetto, tributandogli perfino la loro ammirazione. Passato ora già da qualche anno a godere in cielo il premio delle sue sapienti e religiose fatiche, lasciò vari altri scritti degni di considerazione, tra i quali ci limitiamo a segnalare le Osservazioni sociali, politiche ed economiche intorno ai beni del Clero, e l’opuscoletto ricco di contenuti: La religione dimostrata all’intelligenza dei fanciulli.

Nel ristampare in questa Biblioteca l’opera dell’insigne scrittore spagnolo facciamo uso della nitida, tersa ed accreditata versione dell’Em.mo Cardinale Orioli, il quale alcuni mesi or sono ci concesse formalmente, con espressioni di squisita cortesia, il suo consenso e gradimento per questa edizione.

Poiché recentemente, poco dopo averci concesso questo favore, il pio, dotto e benemerito porporato fu anch’egli dalla morte sottratto alla Chiesa e alle lettere, stimiamo far cosa gradita stilare i seguenti brevi cenni biografici.

Anton Francesco Orioli nacque a Bagnacavallo nella Diocesi di Faenza il 10 dicembre 1778. Appena quindicenne si consacrò a Dio nell’ordine dei Minori Conventuali, presso i quali coltivò i molti talenti di cui era fornito, e si rese modello di scrupolosa osservanza. Superati con somma lode gli studi di

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filosofia e di dogmatica nelle città di Bologna e di Parma, ottenne la laurea a Roma nella facoltà teologica del collegio di S. Bonaventura, con i più favorevoli auspici di una brillante carriera. Nella stessa facoltà dopo pochi anni, nel 1806, fu nominato lettore dei Ss. Canoni, ed in breve si rivelò teologo ed oratore di fama veramente onorata e distinta.

Quando gli eserciti stranieri invasero lo Stato pontificio l’Orioli accompagnò in Francia il Rev.mo Padre de Bonis, ministro generale dell’Ordine, e negli anni in cui vi soggiornò diede mostra di uno zelo ammirevole nell’esercitare il santo ministero, oltre che di un continuo impegno di perfezionamento nelle scienze filosofiche e teologiche, e nello studio delle lingue straniere.

Ritornato a Roma con la restaurazione dell’autorità pontificia, riprese alacremente le sue occupazioni nella quiete del Chiostro, e nel 1818 fu insignito del prestigioso incarico di Reggente e Rettore nel collegio di S. Bonaventura. Nel 1832 venne eletto Vicario generale Apostolico dell’Ordine dei minori Conventuali, e nel 1833 fu promosso alla Sede Vescovile di Orvieto da Gregorio XVI. Dopo appena cinque anni da quando l’Orioli reggeva in modo esemplare la Diocesi di Orvieto, lo stesso Supremo Pontefice, che conosceva a fondo la dottrina e le virtù di sì grande uomo, ed apprezzava altamente i servigi da lui resi alla S. Sede sotto altri Pontefici e soprattutto nel pontificato di Leone XII, nel 1838 lo innalzò alla dignità della porpora cardinalizia. La sua vita fu tutta dedicata ai sacri interessi della Chiesa.

Prima di essere innalzato a quel grado luminoso e sublime, fu esaminatore dei Vescovi e del Clero Romano, Consultore dell’Indice, accademico ordinario di Archeologia, segretario dell’Accademia di religione Cattolica, socio e censore di varie accademie letterarie a Roma e all’estero.

Come membro del Sacro Collegio, lo divenne anche delle sacre Congregazioni del S. Uffizio, di Propaganda, dell’Indice, degli affari Ecclesiastici straordinari, e di quelli particolari nella Cina e regni adiacenti. Membro di dieci Congregazioni, egli lavorava con tale assiduità che la sua debole salute ne risentì. Infine, a coronamento dei suoi meriti oltremodo pregevoli, il regnante Sommo Pontefice Pio IX lo destinò a Prefetto della sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari. E questo fu l’incarico più spinoso che tuttavia il nuovo Prefetto svolse con successo. Nei tempi difficili che precedettero la rivoluzione del 16 novembre 1848, il S. Padre fece appello alla devozione del Cardinale Orioli, e lo pregò di occupare provvisoriamente il postò di Segretario di Stato. Nonostante l’avversione che egli aveva per la politica, si ritenne in dovere di obbedire. E quando nell’anno 1848 lo stesso Sommo Pontefice, costretto ad abbandonare gli Stati della Chiesa, riparò nel

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Regno delle Due Sicilie, l’Orioli non volle allontanarsi dal suo fianco e continuò a prestargli la sua opera in tutto ciò che gli veniva richiesto. Tornato il Sommo Pontefice alla Sede del Vaticano, anche l’Orioli ritornò a Roma, occupandosi nuovamente della Prefettura della sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, e in tale onorevolissima carica conduceva una vita sommamente lodevole di religioso, di Vescovo e di Cardinale.

Dotato di un cuore eccellente, egli si faceva tutto a tutti. La beneficenza era la sua virtù prediletta. Ad un grande sapere univa una squisita modestia; alloggiato nel Convento dei Ss. Apostoli, tutt’altro che da Cardinale vi viveva da semplice religioso: accessibile a tutti, affabile, si conquistava la stima di tutti quelli che trattavano con lui. Numerose sono le opere uscite dalla sua dotta ed erudita penna: dotato della conoscenza di varie lingue, oltre che di altri pregevoli lavori fece dono all’Italia anche dell’importantissima opera che ora viene qui ripubblicata. Torna all’indice

CAPITOLO I Natura e nome del Protestantesimo

Tra i tanti fenomeni sorti all’interno della civiltà occidentale ve n’è uno molto inquietante per la natura degli elementi che lo caratterizzano; eccezionale per la quantità, varietà e rilevanza delle relazioni che abbraccia; importante perché collegato ai principali avvenimenti della storia moderna. Questo fenomeno è il Protestantesimo.

Originatosi in modo così sensazionale, Il Protestantesimo si impose subito all’attenzione dell’intera Europa suscitando allarme in certi paesi e la più viva simpatia in altri. La sua espansione fu talmente rapida che non diede ai suoi avversari il tempo di poterlo soffocare sul nascere: era appena nato che già lasciava poche speranze che si riuscisse a contrastare o rallentare il suo diffondersi. Reso audace dal consenso che raccoglieva e dal disorientamento che procurava, andava man mano crescendo di forza. Inasprito dai mezzi repressivi, vi si opponeva apertamente o si ritirava momentaneamente per poi riprendere gli attacchi con maggiore violenza. Le stesse discussioni, critiche, ricerche, e tutto quell’apparato erudito e scientifico che venne allestito in seguito per difenderlo o per combatterlo, furono utilizzati per propagare il suo spirito e diffondere i suoi princìpi.

Creando nuovi e pingui interessi si procurò l’appoggio di potenti protettori nel mentre che, stimolando con le più accattivanti lusinghe ogni

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genere di passioni, le sfruttava in suo favore, alimentando così l’incendio a cui aveva dato origine. Sfruttando le occasioni che gli si presentavano e adattandosi alle varie circostanze, impiegava l’astuzia o la forza, la seduzione o la violenza; cercando di avanzare ovunque frantumando le difese o aggirandole, si affrettava a gettare nei luoghi conquistati le radici necessarie per assicurarsi solidità e durata. E giunse infine allo scopo che aveva stabilito: infatti oltre ai vasti territori che conquistò e conserva tuttora in Europa, si propagò in altre parti del mondo diffondendosi anche tra le popolazioni più semplici e poco avvedute.

Per inquadrare un fenomeno nella sua giusta dimensione, e comprendere bene i rapporti ad esso relativi distinguendoli convenientemente, stabilendone l’origine e indicandone infine la maggiore o minore importanza, è necessario esaminare se sia possibile scoprire il principio costitutivo del fenomeno stesso, o almeno se di esso si possa conoscere qualche segno caratteristico che, impresso per così dire nella sua fisionomia, ce ne riveli l’intima natura.

È veramente un’impresa disagevole trattare un tema dell’importanza e della natura di quello di cui ci stiamo occupando, sia per la molteplicità degli aspetti che si presentano che per la quantità dei rapporti che s’intrecciano e si confondono. In tali materie col passar del tempo si vanno a formare numerose opinioni le quali, come è logico, avranno tutte trovato argomenti su cui poggiarsi: e così l’osservatore incontra numerosi e diversi elementi che l’annebbiano, l’opprimono e lo confondono. E se cerca di collocarsi su di una prospettiva più conveniente trova davanti a sè una tal quantità di ostacoli, che ne è impedito dal procedere, oppure celandogli il giusto percorso lo fanno deviare dal sentiero.

Se al Protestantesimo, considerato allo stato attuale o nelle varie fasi della sua storia, rivolgiamo una prima occhiata, cogliamo subito l’enorme difficoltà di trovare in esso qualche cosa di costante che possa indicarne il principio costitutivo. Giacché, incerto nelle sue credenze, le modifica continuamente in mille maniere; vago nei suoi scopi e mutevole nei suoi desideri, prova tutte le forme e tenta tutte le vie; e senza mai giungere ad un assetto ben determinato segue sempre con passo incerto nuovi sentieri, non facendo altro che aggirarsi in labirinti sempre più intricati.

I Controversisti cattolici lo hanno incalzato ed assalito da tutte le parti; ma se chiedete loro con quale esito vi risponderanno che hanno avuto a che fare con un nuovo Proteo che, mentre sta per ricevere un colpo, lo schiva col cambiar forma. Ed infatti se si vuole attaccare il Protestantesimo per le sue dottrine non si sa quale direzione prendere perché non si sa mai quali siano, ed esso stesso lo ignora. Possiamo quindi dire che sotto questo aspetto il

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Protestantesimo è invulnerabile, perché invulnerabile è chi non ha corpo. Questa è la ragione per cui non si è mai trovata, per combatterlo, arma più appropriata di quella che adoperò l’illustre Vescovo di Meaux: «tu muti, e ciò che muta non è verità». Arma molto temuta dal Protestantesimo, e a giusta ragione, poiché tutte le trasformazioni che adopera per schivare il colpo ad altro non servono che a renderlo più sicuro e più forte. Che profondo pensiero fu mai quello di quest’uomo illustre! Il solo titolo dell’opera dovette far tremare i Protestanti: è la storia delle variazioni; e una storia di variazioni è la storia dell’errore (1).

Questa mutevolezza (che non deve essere vista come estranea al Protestantesimo bensì ad esso connaturato e tutta sua propria), nel momento in cui ci dimostra che esso non è in possesso della verità ci rivela altresì che il principio che lo muove e lo agita non è un principio di vita ma un elemento dissolutore. Finora gli è sempre stato chiesto invano che fermasse il piede in un punto e presentasse un corpo uniforme e compatto; ed invano pure gli si potrà chiedere in avvenire perché è vano chiedere una posizione fissa a chi sta fluttuando nel vago spazio dell’aria. E male potrà formarsi un corpo, se si cerca di unirlo per mezzo di un elemento che tende continuamente a separarne le parti, riducendone sempre più la reciproca affinità e trasmettendo loro delle forze vive per respingersi e rigettarsi. Da quanto detto si può già capire che sto parlando del libero esame in materia di fede, sia che per giungere ad essa si conti sul solo lume della ragione, che su particolari ispirazioni del cielo. Se si può riscontrare qualcosa di costante nel Protestantesimo, questo è lo spirito di esame, il sostituire alla pubblica e legittima autorità il giudizio privato. Questo è ciò che si trova sempre col Protestantesimo, o per meglio dire nella sua parte più intima; ed è l’unico punto di contatto di tutti i Protestanti, il fondamento della loro somiglianza. E si può anche osservare che ciò si verifica a volte senza che loro stessi se ne rendano conto, altre volte contro la loro stessa volontà.

Per quanto pessimo e funesto sia un tale principio, se i promotori del Protestantesimo l’avessero almeno proclamato come vessillo delle loro battaglie, sostenendolo sempre con la dottrina e con la prassi, sarebbero stati coerenti nel loro errore; e vedendoli cadere di precipizio in precipizio, si sarebbe detto che ciò era la conseguenza di un cattivo sistema, e buono o cattivo che fosse, era pur sempre un sistema. Ma in realtà non era neanche questo: esaminando le parole e i fatti dei primi novatori, si osserva che se introdussero questo funesto principio fu per opporsi all’autorità cui erano soggetti; ma di fatto non pensarono mai di stabilirlo compiutamente. Agirono bensì per togliere di mezzo l’autorità legittima, col fine però di usurpare essi

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stessi il potere. Vale a dire che seguirono il modo d’agire dei rivoluzionari di tutte le classi, di tutti i tempi e di tutti i paesi, i quali vogliono rovesciare il potere esistente per collocarvisi loro stessi. Ognuno sa fino a qual punto Lutero spingeva la sua frenetica intolleranza non permettendo ai suoi discepoli, né ad alcun altro, la minima obiezione sulle sue decisioni, senza abbandonarsi al più pazzo furore e prorompere nei più vili vituperi. Enrico VIII, fondatore in Inghilterra di ciò che vien detta Libertà di pensiero, mandava al patibolo chiunque non pensava come lui; e su richiesta di Calvino fu bruciato vivo a Ginevra Michele Serveto.

Ritengo opportuno richiamare l’attenzione su questo punto che è di grande importanza. L’uomo è molto orgoglioso, e sentendo che i novatori del sedicesimo secolo proclamarono la libertà di pensiero, potrebbe capitare che in alcuni sconsiderati nasca un segreto interesse per quei settari, portandoli ad ammirarne le violente invettive come l’espressione di un impeto generoso, e considerando i loro sforzi come diretti a rivendicare i diritti dell’intelletto. Si sappia allora, per non dimenticarlo mai, che quegli uomini proclamavano il principio del libero esame unicamente per farsi scudo contro l’autorità legittima; ma che poi intendevano imporre agli altri il giogo delle dottrine che essi si erano fabbricate. Si proponevano di distruggere l’autorità emanata da Dio per stabilire la propria sopra le sue rovine. È doloroso vedersi costretto a fornire le prove di questa affermazione: non perché non si presentino in abbondanza, ma perché se si mette mano alle più sicure ed inconfutabili bisogna riportare parole e fatti i quali, sebbene coprano di obbrobrio i fondatori del Protestantesimo, non è però piacevole richiamarli alla memoria, perché nel riferirle viene da arrossire, e nel metterle per iscritto pare che ne resti macchiata la carta (2).

Considerando il Protestantesimo nel suo complesso vi si distingue un informe aggregato d’innumerevoli sétte, tutte discordi fra loro e concordi solo su un punto: nel protestare contro l’autorità della Chiesa. Questa è la causa per cui si sentono fra di esse solamente nomi personali ed esclusivi, derivati per lo più dal fondatore della setta. E per quanti sforzi abbiano fatto non sono mai riusciti a darsi un nome che le comprenda tutte e che esprima nello stesso tempo un’idea positiva; tanto che fino ad oggi si sono chiamate solamente alla maniera delle sétte filosofiche: luterani, calvinisti, zuingliani, anglicani, sociniani, arminiani, anabattisti… in una interminabile serie che potremmo anche riportare qui. Sono nomi che mostrano tutta la ristrettezza e la meschinità della cerchia in cui sono rinchiuse le sétte, e basta pronunciarli per osservare che in esse nulla c’è di universale e nulla di grande. Ciò dovrebbe essere sufficiente, a chi conosce in una certa misura la religione cristiana, per

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convincersi che queste sétte non sono veramente cristiane. Ma la cosa più singolare e notevole è quanto accaduto riguardo a questo fatto, quello cioè di trovare un nome che tutte le accomunasse. Percorrendone la storia si vedrà che furono fatti parecchi tentativi ma nessuno di questi riuscì a metterle d’accordo in quanto non contenevano alcunché di positivo e di cristiano. Infine, per provarne uno come raccolto per caso nella Dieta di Spira, uno che porta proprio in sé la sua condanna perché ripugna all’origine, allo spirito, ai princìpi, all’intera storia della religione cristiana; un nome che niente esprime di unità, né di unione, niente insomma di ciò che è inseparabile dal nome cristiano; che non contiene alcuna idea positiva, che nulla spiega, nulla determina; nell’assumerlo, dunque, questo nome gli si confece tanto perfettamente che tutti lo approvarono unanimemente per acclamazione, e proprio perché era il suo: Protestantesimo (3).

Nello spazio indeterminato rappresentato da questo nome tutte le sétte hanno modo d’inserirsi, tutti gli errori vi trovano posto. Negate con i luterani il libero arbitrio, rinnovate con gli arminiani gli errori di Pelagio, ammettete la presenza reale con alcuni, rigettatela con gli zuingliani e i calvinisti; se vi fa piacere, negate con i sociniani la divinità di Gesù Cristo, aderite agli episcopali o ai puritani; abbandonatevi, se mai vi cogliesse il desiderio, alle stravaganze dei quacqueri: tutto questo nulla importa, non lascerete per questo di essere Protestante, perché protestate sempre contro l’autorità della Chiesa. Questo è uno spazio di tale estensione, che sempre potrete introdurvi per quanto grandi possano essere i vostri errori; esso è tutto il vasto terreno che scoprite nell’uscir fuori delle porte della Città Santa (4). Torna all’indice

CAPITOLO II Indagine sulle cause del Protestantesimo. Valutazione dell’influenza dei suoi fondatori. Varie cause, che qui si accennano. Equivoci nati su questo punto. Opinioni di Guizot e di Bossuet. Si dimostra la vera causa del fenomeno, fondata sul medesimo stato sociale dei popoli europei.

Ma quali furono le cause che in Europa portarono alla comparsa del Protestantesimo e che lo fecero diffondere e sviluppare così enormemente? È necessario che tale questione sia esaminata con molta ponderatezza, sia per l’importanza che racchiude in sé, sia perché, portandoci ad investigare l’origine di una tale calamità, ci conduce al punto più conveniente per poterci formare una giusta opinione sulla natura e sulle relazioni di questo fenomeno tanto male esaminato e definito.

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Quando si tratta di indicare le cause riguardanti l’origine e l’estensione del Protestantesimo, la ragione suggerisce che non si ricorra a fatti di poca importanza, siano tali in se stessi o perché circoscritti a determinati luoghi e circostanze. È un errore supporre che da cause molto piccole potessero derivare conseguenze così grandi; perché sebbene sia vero che cose grandi ebbero talvolta inizio dalle piccole, è anche vero che inizio e causa non sono la stessa cosa, e iniziare una cosa per via di un’altra, o l’essere prodotta da quella, sono espressioni dal significato assai differente. Una leggera scintilla produce talvolta un incendio terribile; ma ciò avviene perché incontra una grande quantità di materiale infiammabile. Ciò che è generale deve avere cause generali; così come ciò che è di grande durata e ha gettato forti radici deve avere cause durevoli e profonde. Questa è una legge costante tanto nell’ordine fisico che in quello morale. Legge però di difficile interpretazione particolarmente nell’ordine morale, perché alcune volte le grandi cose sono riposte sotto veli così discreti, ed ogni effetto è intrecciato con così tante cause, con fibre così delicate e con una tessitura così complicata, che all’occhio più attento e perspicace sfugge del tutto; oppure è percepito come cosa inconsistente e di poco conto ciò che talvolta ha la più grande importanza e il più grande influsso. Al contrario, le piccole cose sono tanto appariscenti, tanto rilucenti ed ornate, e accompagnate da un tale chiassoso sèguito, che molto facilmente l’uomo, già di per sé tanto propenso a giudicare sulla semplice apparenza, ne viene ingannato.

Basandomi sui princìpi appena esposti, non posso considerare di grande importanza né la contesa suscitata dalla predicazione delle indulgenze, né gli eccessi eventualmente commessi, riguardo a questa materia, da alcuni subalterni. Tutto questo poté, è vero, servire di pretesto, di occasione, di segnale di battaglia; ma era in sé ben piccola cosa per innescare un simile incendio. Individuare le cause della nascita e diffusione del Protestantesimo nel carattere e nelle vicende dei primi novatori non è conforme alla ragione, anche se talvolta appare plausibile. Si esamini attentamente la violenza degli scritti e delle parole di Lutero e si faccia notare quanto fossero adatti ad infiammare gli animi dei popoli, trascinarli dietro ai nuovi errori e ispirar loro un odio viscerale contro la Chiesa di Roma; si apprezzino pure allo stesso modo l’astuzia cavillosa, lo stile metodico, 1’elegante fraseggio di Calvino, qualità molto utili per dare una qualche apparente regolarità all’informe massa di errori insegnati dai nuovi settari, disponendola in modo da essere accettata da persone di gusti raffinati; e continuando così, si facciano pure descrizioni più o meno veritiere dei talenti e delle qualità di altri uomini. Né a Lutero, né a Calvino, né ad altri dei principali fondatori del Protestantesimo voglio negare i

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titoli con cui acquistarono la loro funesta celebrità; tuttavia mi pare che insistere molto sulle qualità personali e attribuire a queste la principale influenza nello sviluppo del male vuol dire non conoscerlo in tutta la sua estensione, non valutarne tutta la gravità e dimenticare, soprattutto, quanto ci ha insegnato la storia di tutti i tempi.

Difatti, se consideriamo obiettivamente codesti uomini, non troveremo in essi nulla di così singolare che non si trovi ugualmente, se non di più, in quasi tutti i fondatori di sétte. Il loro talento, l’erudizione, il sapere, tutto è già passato al vaglio della critica: e sia tra i Cattolici che tra i Protestanti non si trova persona, che sia istruita ed obiettiva, che non consideri esagerazioni faziose le sconfinate lodi che sono state tributate loro. Sotto ogni aspetto essi vengono considerati nella categoria di quegli uomini turbolenti che approfittano di ogni circostanza per provocare tumulti. Disgraziatamente la storia di tutti i tempi e di tutti i paesi, come anche l’esperienza di tutti i giorni, insegnano che questi uomini sono molto comuni e sbucano ovunque una funesta combinazione di circostanze ne presenti l’occasione propizia.

Quando si è voluto cercare altre giustificazioni, che per la loro estensione ed importanza corrispondessero meglio al Protestantesimo, generalmente ne sono state indicate due: la necessità di una riforma e lo spirito di libertà. «Vi erano molti abusi – hanno detto alcuni, – si trascurò la riforma legittima, e tale trascuratezza provocò la rivoluzione». «L’intelletto umano era ridotto in catene – hanno detto altri, – e volle spezzarle: il Protestantesimo non fu altro che uno sforzo straordinario in nome della libertà, un volo audace dell’umano pensiero». Indubbiamente non si può dire che tali opinioni si riferiscano a piccole cause la cui influenza possa restare circoscritta in un breve spazio; ed ambedue si presentano in modo adatto ad attirare proseliti. Esaminandone una, la necessità cioè di una riforma, si apre un campo vastissimo di censura sull’inosservanza delle leggi e il rilassamento dei costumi: la qual cosa eccita sempre il consenso nel cuore dell’uomo, indulgente quando si tratta delle proprie colpe, ma severo ed inflessibile per quelle degli altri. L’altra poi, pronunziando le parole seducenti di libertà, di volo audace dello spirito, sarà sempre sicura di trovare quel largo consenso che non manca mai alla parola che lusinga l’orgoglio.

Naturalmente non si tratta di negare che in quei tempi si rendesse necessaria una riforma: riconosco senz’altro che era necessaria; mi è sufficiente, per riconoscerlo, dare un’occhiata alla storia, porgere l’orecchio ai dolorosi lamenti di uomini illustri che la Chiesa colloca tra i suoi figli prediletti. Ed inoltre mi basta leggere nel primo decreto del Concilio di Trento che uno degli oggetti del Concilio medesimo era la riforma del clero e del

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popolo cristiano; così come mi basta sentire dallo stesso Papa Pio IV, nella proclamazione di quel Concilio, che uno dei motivi per cui fu celebrato era la correzione dei costumi e il ristabilimento della disciplina. Eppure, e malgrado tutto ciò, io non posso accettare che a questi abusi sia attribuita tanta influenza sull’origine del Protestantesimo come molti affermano. E per dire la verità a me pare molto mal posta la questione qualora, per indicare la vera causa del male, s’insiste molto sulle conseguenze funeste alle quali avrebbero portato gli abusi, così come in un’altra parte non mi hanno soddisfatto le parole di libertà, e di audace volo del pensiero. Dirò apertamente che per quanto rispetto meritino alcuni uomini che hanno data tanta importanza agli abusi, e per quanta stima io abbia del talento di altri che hanno messo in campo lo spirito di libertà, né in questi né in quelli io trovo quell’analisi filosofica e storica insieme che, mentre non si allontana dalla sostanza dei fatti, allo stesso tempo li esamina e li chiarisce, mostrando l’intima natura di ciascuno di essi senza trascurarne l’intreccio e la connessione.

Troppo si è divagato nel definire il Protestantesimo e nell’indicarne le cause, perché non si è capito che si tratta niente di più che di un fatto comune a tutti i secoli della storia ecclesiastica, che trasse però la sua importanza e il suo carattere particolare dal tempo in cui nacque. Con questa sola riflessione, fondata sulla testimonianza costante della storia e confermata dalla ragione e dall’esperienza, tutto si ricompone, tutto si chiarisce e si spiega. Nulla di straordinario e di singolare si ottiene studiando le sue dottrine e i suoi fondatori perché, quanto in esso c’è di caratteristico, proviene tutto dall’essere nato in Europa e nel sedicesimo secolo. Andrò svolgendo questa mia tesi senza utilizzare concetti elevati che poggiano unicamente su affermazioni gratuite, ma riferendomi a fatti che nessuno potrà contraddire.

È innegabile che il principio di sottomissione all’Autorità in materia di fede ha incontrato sempre molta resistenza da parte dello spirito umano. Non è questo il momento di indicare le cause di tale resistenza, cause che mi propongo di analizzare nel corso dell’opera. Mi limito per ora a segnalare questo fatto, e ricordare a chiunque lo metta in dubbio che la storia della Chiesa va sempre accompagnata dalla storia delle eresie. Secondo il mutare dei tempi e dei luoghi questo fenomeno ha presentato diverse fasi: ora facendo entrare in turpe mescolanza il Giudaismo ed il Cristianesimo; ora combinando con la dottrina di Gesù Cristo i sogni degli Orientali; ora inquinando la purezza del dogma cattolico con le sottigliezze e i cavilli del sofista greco: presentando cioè differenti aspetti secondo le diverse condizioni in cui si è trovato lo spirito umano. Tutte queste diversità hanno però in comune due caratteristiche generali che hanno mostrato molto chiaramente come l’origine sia la stessa

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nonostante poi si differenzino nella natura e nell’oggetto. Queste caratteristiche sono: l’odio verso l’autorità della Chiesa, e lo spirito di setta.

È abbastanza chiaro che, se in ogni secolo si è avuta la comparsa di qualche setta che si opponeva all’autorità della Chiesa ed elevava a dogma le opinioni dei suoi fondatori, non fu un fatto eccezionale che accadesse la stessa cosa nel sedicesimo secolo. E considerato il carattere dello spirito umano, sono dell’opinione che se il sedicesimo secolo avesse costituito un’eccezione alla regola generale (se cioè non fosse sorta alcuna setta), attualmente avremmo una questione ben seria e difficile da risolvere: come fu possibile, ci chiederemmo, che in quel secolo non sia apparsa alcuna setta? Orbene, una volta nato nel sedicesimo secolo un errore qualunque (qualunque sia stata l’origine, l’occasione e il pretesto), appena intorno alla nuova bandiera si sia riunito un certo numero di proseliti, già vedo il Protestantesimo in tutta la sua estensione, in tutta la sua trascendenza, con tutte le sue divisioni e suddivisioni, con tutta la sua audacia ed energia per portare un attacco frontale contro tutti gli articoli di dottrina e di morale che vengono insegnati ed osservati nella Chiesa. Invece di Lutero, Zuinglio, Calvino, mettete, se così preferite, Ario, Nestorio, Pelagio; e in luogo degli errori dei primi insegnate, se volete, quelli dei secondi: non cambierà nulla e si avrà lo stesso risultato. L’errore fin dal primo momento susciterà simpatie, troverà difensori, infiammerà gli esaltati; si allargherà, si propagherà con la rapidità di un incendio, si sparpaglierà subito e le sue scintille prenderanno direzioni molto differenti. Si prepareranno le difese basate sull’erudizione e sul sapere, varieranno continuamente le credenze, si formeranno mille professioni di fede, si cambierà o si sopprimerà la liturgia, e i precetti della morale andranno in mille pezzi: in una parola, avrete il Protestantesimo. E come mai nel sedicesimo secolo il male era destinato a divenire così grave, e diffondersi in un modo così straordinario? Perché la società di allora era diversa da tutte le antecedenti, e ciò che in altri tempi poteva provocare un incendio parziale, in questo doveva portare ad una spaventevole conflagrazione. L’Europa era formata da un insieme di grandi società, le quali, essendosi tutte formate come in una stessa matrice, avevano molto in comune nelle idee, nei costumi, nelle leggi ed istituzioni. Di conseguenza si era costituito fra esse un forte rapporto, turbato a volte da rivalità, altre volte consolidato dai comuni interessi. L’universalità della lingua latina costituiva un mezzo che facilitava la circolazione di ogni tipo di cognizioni, e più di tutto si andava diffondendo un rapido mezzo di divulgazione che permetteva di trarre profitto da tutti i pensieri e sentimenti, di moltiplicarli e diffonderli ovunque; un mezzo che da poco era stato generato dalla mente di un uomo come un lampo prodigioso pregno di grandiosi destini:

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la Stampa. Tale è lo spirito umano, tale di esso è la volubilità e la tendenza ad attaccarsi facilmente ad ogni genere di novità; tale il piacere che prova nell’abbandonare gli antichi sentieri per seguirne di nuovi, che una volta innalzata la bandiera dell’errore, era impossibile che non vi si raggruppassero intorno molti proseliti. Scosso il giogo dell’autorità in paesi dove era tanto attivo lo spirito di ricerca, dove fermentavano tante discussioni, ribollivano tante idee e germogliavano tutte le scienze, non era possibile allo spirito errante dell’uomo mantenersi fermo in un punto qualunque, e doveva necessariamente giungere a formare una miriade di sétte, camminando ciascuno per la sua strada in balìa delle proprie illusioni e dei capricci personali. Qui non c’è via di mezzo: le nazioni civili o saranno cattoliche, o percorreranno tutte le fasi dell’errore; o staranno strettamente avvinte all’àncora dell’autorità, o muoveranno contro di essa un attacco generale, combattendola sia in se stessa, sia in ciò che insegna e prescrive. L’uomo di mente limpida e indipendente, o vive tranquillo nelle regioni pacifiche della verità, oppure la cerca altrove torbido e inquieto. E quando appoggiandosi su falsi princìpi sente il terreno instabile sotto i suoi piedi e il passo incerto e vacillante, cambia luogo continuamente, saltando di errore in errore, di abisso in abisso. Vivere in mezzo agli errori, rimanerne soddisfatto e trasmetterli di generazione in generazione senza modificarli o cambiarli, è proprio di quei popoli che vegetano nell’avvilimento e nell’ignoranza. Qui lo spirito non si muove perché dorme.

Collocatosi l’osservatore su questa prospettiva, scopre il Protestantesimo esattamente com’è in sé. Dalla sua posizione egli domina perfettamente la situazione, vede ogni cosa e può quindi apprezzarne la vera misura, scoprirne le relazioni, stimarne l’influsso e spiegarne le anomalie. E allora, collocati i personaggi al loro giusto posto e confrontati col vasto insieme di fatti, nel quadro rappresentato essi appaiono come figure molto piccole alle quali si potrebbe benissimo sostituirne altre, poco importando che stiano un poco più in qua o più in là, ed essendo indifferente che abbiano questa o quella forma, questo o quel colore. Inoltre risulta evidente che soffermarsi troppo a considerare la forza del carattere, l’audacia ardente di Lutero, l’abilità letteraria di Melantone, il talento cavilloso di Calvino ed altre simili cose, non è altro che una perdita di tempo che non porta ad alcuna spiegazione. Cos’erano infatti questi uomini, e tutti gli altri fautori del Protestantesimo? Avevano per caso qualcosa di straordinario? Non erano forse come se ne trovano di frequente dappertutto? Alcuni di essi probabilmente non andarono oltre la mediocrità, e di quasi tutti si può dire che se non avessero avuta una celebrità funesta l’avrebbero avuta scarsissima. Ma perché riuscirono a tanto? Perché trovarono

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una quantità di combustibile e vi appiccarono il fuoco. Ora capite che ciò non è molto difficile, e qui sta tutto il mistero. Quando vedo Lutero, reso pazzo dall’orgoglio, precipitarsi delirando in quelle stravaganze di cui tanto si lamentavano i suoi stessi amici; quando lo vedo insultare con modi villani coloro che lo contraddicono, sdegnarsi contro tutto ciò che non si umilia alla sua presenza; quando lo sento vomitare torrenti di battute volgari e di parole sconce, tutto questo non mi suscita altra impressione al di fuori della compassione.

Quest’uomo, che ha il singolare capriccio di definirsi Notarius Dei, vaneggia ed ha perso metà del suo senno. Né può destare meraviglia perché ha soffiato e col suo soffio si è sviluppato un terribile incendio; poiché vi era un magazzino di polveri, ed il suo soffio ne ha avvicinato una scintilla. L’insensato, che nella sua cecità non ci ha fatto caso, dice nel suo delirio: mirate quanto sono potente, il mio soffio brucia e manda a fuoco il mondo.

Parlando poi degli abusi, quale influenza ebbero effettivamente? Se non abbandoniamo quella prospettiva sulla quale ci siamo posti, vedremo che fornirono talvolta qualche occasione, che dettero qualche alimento, ma che sono ben lontani dall’avere esercitata quell’influenza che ad essi viene attribuita. E non già perché io intenda negarli o scusarli, né perché non tenga nella dovuta considerazione i lamenti degli uomini illustri; ma non è la stessa cosa piangere un male, e segnalare o analizzare il suo effetto. L’uomo giusto che alza la voce contro il vizio, il ministro del Santuario divorato dallo zelo per la Casa del Signore, si esprimono con accenti così alti e forti che non sempre i loro lamenti e i loro gemiti possono essere presi come prova certa per valutare i fatti secondo il loro giusto valore. Essi pronunciano una parola che vien fuori dal profondo del loro cuore, ed esce infuocata perché nei loro petti arde l’amore e lo zelo per la giustizia: ma dietro ad essi segue la malafede che interpreta con cattive intenzioni le loro espressioni e tutto esagera e deforma.

Checché ne sia di tutto questo è evidente che, attenendoci a quanto abbiamo fermamente stabilito riguardo all’origine e alla natura del Protestantesimo, gli abusi non possono essere considerati come causa principale: se proprio si vuole possono essere indicati come occasioni e pretesti. Se così non fosse si dovrebbe dire che nella Chiesa fin dall’origine, ed anche al tempo del fervore iniziale e della sua proverbiale purezza tanto esaltata dagli avversari, erano molti gli abusi, perché anche allora pullulavano di continuo le sétte che si opponevano ai suoi dogmi, ne scuotevano l’autorità e chiamavano se stesse la vera Chiesa. Qui non c’è dubbio: il caso è lo stesso. E se gli avversari portassero a sostegno della loro causa la diffusione che ha avuto il Protestantesimo e la rapidità con cui si è propagato, ricorderei che

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anche questo può essere affermato per altre sétte; e richiamerei ciò che diceva S. Girolamo riguardo ai danni provocati dall’arianesimo: ne gemé il mondo intero, e si meravigliò di vedersi ariano. Che se si volesse dire qualcosa di più riguardo al Protestantesimo, sarebbe già sufficientemente dimostrato che quanto esso ha di caratteristico lo deve tutto non agli abusi, ma al tempo in cui nacque.

Quanto detto finora è sufficiente per poterci formare un’idea riguardo all’importanza che gli abusi poterono avere sull’origine del Protestantesimo. Siccome però questo tema ha fatto parlare tanto e ha dato origine a molti equivoci sarà bene, prima di passare oltre, fermarci ancora un poco su di esso per fissare le idee dove necessario e separare il vero dal falso, il certo dall’incerto.

Che nei secoli precedenti fossero sorti deplorevoli abusi, che la corruzione dei costumi fosse grande e quindi necessaria una riforma, è cosa certa e indiscutibile. Per ciò che riguarda i secoli undicesimo e dodicesimo abbiamo, di una tale dolorosissima realtà, testimoni assolutamente degni di fede, quali S. Pier Damiani, S. Gregorio VII e S. Bernardo. Alcuni secoli dopo, sebbene molti abusi fossero stati eliminati, ce n’erano tuttavia ancora di grande evidenza bastandoci, per esserne convinti, le lamentele di tanti degni uomini che desideravano una riforma, fra i quali si distinse particolarmente il Cardinale Giuliano che, nel descrivere al Papa Eugenio IV i disordini del clero, e sopratutto di quello di Germania, proferì delle parole molto dure. Confessata sinceramente la verità, poiché non credo che la causa del Cattolicesimo abbia bisogno a sua difesa di equivoci e menzogne, liquiderò in poche parole alcune importanti questioni.

Di chi fu la causa che si fossero introdotti tanti disordini? Forse della corte di Roma? Dei Vescovi? Io credo che sia da addebitare solamente alla calamità dei tempi. Ad un uomo di senno basterà ricordare che in Europa si erano verificati i seguenti fatti: la dissoluzione del vecchio e corrotto impero romano, le scorrerie e invasioni dei barbari del Nord, la loro instabilità e le loro continue guerre durante lunghi secoli sia fra di loro che contro altri popoli, l’istituzione e il predominio del feudalesimo con tutti i suoi mali ed inconvenienti, con tutte le sue turbolenze e disastri, ed infine l’invasione dei Saraceni che occuparono una parte considerevole dell’Europa. L’ignoranza, la corruzione, il rilassamento della morale non dovevano forse essere la conseguenza naturale e inevitabile di tutti questi sconvolgimenti? Poteva la società ecclesiastica evitare di essere profondamente influenzata dalla dissoluzione è dall’annientamento della società civile? Poteva non essere toccata dai mali derivanti da quel caos orribile in cui si trovava immersa

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l’Europa? Nonostante ciò, mancò forse mai nella Chiesa lo spirito, il desiderio, la

viva ansia di riforma da quegli abusi? Si può dimostrare di no. Non voglio parlare dei tanti santi che in quei tempi calamitosi furono generati dalla Chiesa: la storia ce ne conta un numero così elevato, e di virtù così pure che mentre rappresentavano un contrasto con la corruzione dalla quale erano circondati, mostravano che il fuoco divino (quello stesso delle lingue di fuoco del cenacolo) non si era spento nel seno della Chiesa cattolica. Già questo fatto da solo dice molto; ma io voglio metterlo da parte per richiamare l’attenzione su di un altro più importante, meno soggetto a controversie, meno imputabile di esagerazione, e che non può dirsi limitato a questo o quell’individuo, ma che è la vera espressione dello spirito del quale era animato il corpo della Chiesa. Parlo del continuo riunirsi dei Concili, nei quali si biasimavano e si condannavano gli abusi, s’insegnava la santità dei costumi e l’osservanza della disciplina. Per fortuna questo fatto confortante è fuori di ogni dubbio ed è evidente agli occhi di tutto il mondo bastando, per esserne convinti, l’avere aperto almeno una volta qualche libro di storia ecclesiastica, o sulla storia dei Concili. È importante, più di quanto si possa credere, richiamare l’attenzione su questo fatto; e aggiungo che forse non è stata ancora avvertita tutta l’importanza che contiene in sé. Difatti se osserviamo le altre società troveremo che col cambiare delle idee o dei costumi si vanno modificando rapidamente anche le leggi; e se quelle in vigore sono contrarie ai cambiamenti, in breve tempo cessano di essere applicate, non sono più seguite e vengono poste in disuso. Ma nella Chiesa non è successo così: la corruzione si era estesa ovunque in una maniera da giustificare le lamentele, e i ministri della religione si lasciavano trascinare dalla corrente e dimenticavano la santità del loro ministero; ma il fuoco sacro ardeva sempre nel Santuario, si pubblicava e s’inculcava incessantemente la legge. E quei medesimi uomini (cosa mirabile!), quei medesimi uomini che la violavano, si riunivano frequentemente per condannare se stessi, per biasimare la propria condotta, rendendo così più sensibile e più manifesto il contrasto tra il loro insegnamento e le loro opere. La simonia e l’incontinenza erano i vizi più frequenti; ma se leggete la storia dei Concili, ovunque vogliate, li troverete colpiti dall’anatema. Non si vide mai una così prolungata, costante e tenace lotta del diritto contro il fatto. Mai si vide, come allora, per lo spazio di lunghi secoli la legge porsi faccia a faccia contro le passioni scatenate e mantenersi ferma ed immobile su questo punto senza fare un sol passo indietro e senza dare tregua e riposo fino ad averle sottomesse.

Non fu inutile questa costanza, questa santa tenacia. E possiamo vedere

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all’inizio del sedicesimo secolo, cioè quando nacque il Protestantesimo, che gli abusi erano notevolmente diminuiti, che i costumi erano molto migliorati e la disciplina aveva ripreso vigore e veniva osservata in modo abbastanza regolare. Il tempo delle arringhe di Lutero non era più quello disastroso deplorato da S. Pier Damiani e da S. Bernardo; il caos era già diminuito molto e la luce, l’ordine e la normalità si andavano diffondendo rapidamente. Come prova indiscutibile che la Chiesa non era sepolta sotto tanta ignoranza e corruzione come vien detto esagerando, essa poteva presentare una schiera di uomini eccellenti, tanto distinti nella santità, che fecero rifulgere in quello stesso secolo, quanto eminenti nella dottrina, nella quale ebbero modo di segnalarsi durante il Concilio di Trento. È importante non dimenticare la situazione in cui si trovava la Chiesa, ed è necessario non perdere di vista che le grandi riforme richiedono molto tempo, che queste riforme incontravano resistenza negli ecclesiastici e nei laici, e che si giunse a tacciare di temerario Gregorio VII per aver egli voluto intraprenderle con fermezza e costanza. Non dobbiamo giudicare gli uomini fuori dal loro contesto di luogo e di tempo, né pretendere che tutto si aggiusti secondo gli schemi ristretti che ci fabbrichiamo nella nostra mente. I secoli girano in un’orbita immensa, e il mutare delle circostanze produce situazioni tanto straordinarie e complicate, che arriviamo appena a intuirle.

Bossuet nella sua Storia delle variazioni, dopo aver fatto una descrizione dei princìpi diversi da cui erano guidati gli uomini che avevano tentato una riforma prima del sedicesimo secolo, e dopo aver citato le terribili parole del Cardinale Giuliano, dice: «È così che nel quindicesimo secolo questo Cardinale, il più grande uomo dei suoi tempi, deplorava i mali prevedendone le conseguenze funeste, in modo tale che sembra aver pronosticato quelli che Lutero stava per procurare a tutto il mondo cristiano, cominciando dalla Germania. Né s’ingannò nel prevedere che il mancato interesse per la riforma e l’aumento dell’odio contro il clero avrebbero originato una setta più temibile per la Chiesa di quella dei Boemi». Da queste parole si deduce che l’illustre Vescovo di Meaux individuava una delle principali cause del Protestantesimo nel non essere stata fatta in tempo una riforma legittima. Non si pensi comunque che Bossuet giustifichi anche se in minima parte i fondatori del Protestantesimo, né che proponga di salvare le loro intenzioni. Perché anzi, al contrario, li pone nella categoria di quei torbidi riformatori i quali, lungi dal favorire una vera riforma desiderata dalle persone sagge e prudenti, contribuivano solamente a renderla più difficile, introducendo con le loro dottrine scellerate lo spirito di disubbidienza, di scisma e di eresia.

Pur riconoscendo l’autorità di Bossuet, non posso convincermi di dare

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tanta importanza agli abusi al punto di considerarli una delle principali cause del Protestantesimo; e non è necessario ripetere quanto ho detto prima a sostegno della mia opinione. Sarà tuttavia utile precisare che coloro che tentano di giustificare le intenzioni dei primi riformatori non potranno giovarsi dell’autorità di Bossuet. Infatti l’illustre Prelato è il primo a considerarli fortemente colpevoli e a riconoscere che, sebbene gli abusi esistessero, i novatori non ebbero mai l’intenzione di correggerli, ma bensì di servirsene come pretesto per separarsi dalla fede della Chiesa, sottrarsi al giogo dell’autorità legittima, rompere i vincoli della disciplina e introdurre con il disordine la smodatezza.

E in verità, come potremmo attribuire ai primi riformatori del sedicesimo secolo l’ispirazione di una vera riforma, quando quasi tutti cercarono di smentirla col loro vergognoso comportamento? Se almeno si fossero imposti un rigoroso ascetismo; se con l’austerità dei costumi avessero condannato il rilassamento di cui si dolevano, potremmo allora pensare che il loro stesso traviamento fosse stato causato da uno zelo esagerato, e che si precipitarono nel male per un eccesso di amore per il bene. Ma successe qualcosa del genere? Sentiamo cosa dice su questo punto un testimone oculare, un uomo che non può passare certo per fanatico e che ebbe tanti riguardi per i primi fautori del Protestantesimo, i quali da non poche persone furono considerati colpevoli. Mi riferisco ad Erasmo, il quale parlando con la sua solita piacevolezza e malizia dice: «A quanto pare la riforma va a terminare nella secolarizzazione di alcuni frati e nel matrimonio di alcuni preti. E questa grande tragedia si conclude infine con un fatto assai comico, poiché tutto si risolve come avviene nelle commedie: con un matrimonio».

Questo dimostra in modo evidente qual era lo spirito vero dei novatori del sedicesimo secolo; i quali, ben lungi dal tentare di correggere gli abusi, si proponevano di peggiorarli ulteriormente. A tale conclusione giunse il Signor Guizot, guidato sulla strada della verità dalla semplice considerazione dei fatti, quando respinse l’opinione di coloro i quali pretendevano che «la riforma sia stata un tentativo concepito e messo in esecuzione al solo fine di ricostruire una Chiesa pura: la Chiesa primitiva. Non fu un semplice proposito di religioso miglioramento, né il frutto di un’utopia umanitaria e di verità» (Storia generale della civiltà Europea, lezione 12).

Ora però, non sarà meno facile apprezzare secondo il suo giusto valore anche il merito della spiegazione che ha dato di questo fenomeno lo scrittore appena citato. «La riforma – dice il Signor Guizot – fu uno sforzo straordinario in nome della libertà, un’insurrezione dell’intelligenza Umana».

Questo sforzo nacque, secondo l’autore, dalla vivissima attività che

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svolgeva lo spirito umano e dallo stato d’inerzia in cui si era ridotta la Chiesa romana, poiché in quell’epoca lo spirito umano procedeva con movimento deciso ed impetuoso mentre la Chiesa rimaneva stazionaria. Questa è una di quelle spiegazioni che tornano molto utili per procurarsi ammiratori e seguaci perché, posti i concetti su un terreno così generale ed elevato, la maggior parte dei lettori non è in grado di esaminarli da vicino; ed essendo gli stessi concetti presentati con l’ausilio di un’immagine brillante, abbagliano la vista e influenzano il giudizio.

Siccome ciò che limita la libertà di pensiero, secondo come l’intende il Signor Guizot e come l’intendono anche i Protestanti, è l’autorità in materia di fede, ne consegue che l’intelligenza dovette necessariamente ribellarsi a questa autorità. Vale a dire che l’intelletto si ribellò perché camminava, mentre la Chiesa restava ferma ai suoi dogmi; o, per usare l’espressione di Guizot, «la Chiesa rimaneva stazionaria».

Qualunque fosse la disposizione dell’animo del Signor Guizot riguardo ai dogmi della Chiesa cattolica, almeno come filosofo avrebbe dovuto accorgersi che sbagliava clamorosamente nell’indicare come particolare ad una certa epoca ciò che per la Chiesa era una caratteristica di cui si è gloriata in ogni epoca. In realtà è da più di diciotto secoli che la Chiesa si può dire stazionaria nei suoi dogmi, e questa è una prova non equivoca che essa sola è in possesso della verità: perché la verità è invariabile in quanto è una.

Se poi l’insorgere dell’intelligenza fu causato da questo motivo, niente ebbe la Chiesa in quel secolo che non avesse in tutti quelli precedenti e che non abbia conservato anche in quelli successivi. Nulla ebbe di particolare, nulla di caratteristico; e di conseguenza non ci fu alcun progresso riguardo alla spiegazione delle cause del fenomeno. Che se per caso il Signor Guizot paragona la Chiesa ai governi vecchi, questa è una vecchiaia che essa ebbe fin dalla culla. Come se il Signor Guizot avesse avvertito la debolezza dei suoi stessi ragionamenti, presenta i concetti rapidamente, alla rinfusa e tutti insieme, facendo scorrere sotto l’occhio del lettore differenti ordini d’idee, senza curarsi di classificarle con precisione e chiarezza, affinché la varietà distragga e la mescolanza confonda. Infatti a giudicare dal contesto del suo discorso non pare che intenda applicare alla Chiesa gli attributi d’inerte e di stazionaria in riferimento ai dogmi, ma lascia bensì supporre che intenda riferirli a certe pretese sotto l’aspetto politico ed economico; mentre per quanto riguarda la tirannia e l’intolleranza che alcuni hanno attribuito alla corte di Roma, il Sig. Guizot le rigetta come calunnie.

Assodato che in questa parte della sua opera il Signor Guizot mostra una certa incoerenza di idee, incoerenza che non ci si dovrebbe aspettare da una

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mente così chiara e che a molti sarebbe doloroso l’ammettere, non posso esimermi dal copiare letteralmente le sue stesse parole, dalle quali impareremo che non vi è incoerenza più grande di quella dei grandi talenti quando si avviano per una falsa strada.

«La Chiesa – egli dice – era caduta in uno stato d’inerzia, e si trovava stazionaria; la reputazione politica della corte di Roma si era notevolmente ridotta; la guida della società europea non le apparteneva più perché era passata al governo civile. Tuttavia il potere spirituale aveva le stesse pretese di prima, manteneva ancora tutta la sua pompa e tutta l’importanza esteriore. Le accadde ciò che è successo più di una volta ai governi vecchi che hanno perduto la loro influenza: contro di essa venivano indirizzate continue lamentele, in gran parte fondate». Com’è possibile che il Signor Guizot non avvertisse (dal momento che non vi fa riferimento) che tutto ciò non avesse alcuna relazione con la libertà di pensiero, e fosse invece di un genere molto diverso? La diminuzione dell’influsso politico della corte di Roma, il conservare essa ancora le proprie pretese, il non avere più la direzione della società europea e il mantenere ancora la pompa e l’importanza esteriore: cos’altro riguarda tutto ciò se non le rivalità che poterono insorgere su questioni di carattere politico? E come poté dimenticare il Signor Guizot quanto aveva detto poco prima: che indicare cioè come causa del Protestantesimo la rivalità dei sovrani col potere ecclesiastico non gli sembrava cosa fondata, né molto filosofica, né proporzionato all’estensione ed importanza di un tale avvenimento?

Se qualcuno dovesse pensare che la rivolta dell’intelletto, sebbene tutto ciò non avesse relazione diretta con la libertà di pensiero, fu tuttavia provocata dall’intolleranza che manifestava in quel tempo la corte di Roma: «Non è vero – risponderà il Sig. Guizot – che nel sedicesimo secolo la corte di Roma fosse molto tirannica; come non è vero che gli abusi propriamente detti fossero allora in maggior numero e più gravi di quello che fossero stati fino a quell’epoca. Al contrario, il Governo Ecclesiastico non si era forse mostrato mai tanto condiscendente e tollerante, né tanto disposto a lasciar andare le cose purché non fosse messa in gioco la sua autorità, fossero riconosciuti i diritti che aveva (anche quando non venivano esercitati), si garantisse la sua esistenza e gli si pagassero gli stessi tributi. In tal modo il governo ecclesiastico avrebbe lasciato in pace lo spirito umano, qualora lo spirito umano avesse fatto altrettanto al suo riguardo». È lo stesso che dire, a quanto pare, che il Signor Guizot si dimenticò completamente di stabilire tutte queste premesse quando afferma che la riforma protestante era stata uno sforzo grande in nome della libertà, un’insurrezione dell’intelligenza umana: infatti egli non cita e non ricorda alcuna cosa che si opponesse ad una tale libertà. Che anzi se alcuna cosa poteva provocare

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l’insurrezione, come per esempio l’intolleranza, la crudeltà, il non lasciare in pace lo spirito umano, il Sig. Guizot ci ha appena detto che il governo ecclesiastico nel sedicesimo secolo non era tirannico ma bensì condiscendente, tollerante, e che per parte sua avrebbe lasciato in pace lo spirito umano.

Considerando tutti questi elementi è evidente che lo sforzo straordinario in nome della libertà di pensiero è per il Signor Guizot un’espressione vaga e indefinibile, e sembra che nel pronunciarla ebbe l’intenzione di coprire con uno splendido velo la culla del Protestantesimo, anche a spese della coerenza delle sue opinioni. Escluse i motivi politici, e ricorse subito ai medesimi; non dà alcuna importanza all’influenza degli abusi non giudicandoli una vera causa, e si dimentica che nella lezione precedente aveva affermato che se si fosse fatta in tempo una riforma legittima tanto opportuna e necessaria, si sarebbe così impedita la rivoluzione religiosa. Infine descrive un quadro in cui si propone di presentare i punti di contrasto con questa libertà, vuole innalzarsi a considerazioni generali ed elevate che abbraccino la posizione e le relazioni dell’intelligenza, ma si ferma sulla pompa ed apparato esteriore; ricorda le rivalità politiche e, calando il velo, scende fino al terreno dei tributi.

Questa incoerenza di idee, questa debolezza di giudizio e dimenticanza delle proprie affermazioni potranno sembrare strane solamente a chi è abituato più ad ammirare il volo dei grandi talenti che a studiare la storia delle loro aberrazioni. Il Sig. Guizot si trovava precisamente in una situazione nella quale è molto difficile non prendere equivoci e abbagli. Perché è vero che il procedere lentamente sui singoli fatti porta con sè l’inconveniente di limitare il campo visivo e di condurre l’osservatore alla raccolta di una serie di fatti isolati invece che alla formazione di un oggetto di conoscenza; ma è altresì vero che vagando l’intelletto per un immenso spazio, in cui si trova a scrutare molti fatti in tutti i loro aspetti e relazioni, corre ogni momento il pericolo di confondersi. Allo stesso modo, è indubbio che l’eccessiva generalizzazione è solita degenerare divenendo ipotetica e fantasiosa; anzi non poche volte il desiderio di scoprire meglio il collegamento degli elementi, nel sollevarsi eccessivamente in volo giunge a non vederli come sono in se stessi e finisce anche col perderli completamente di vista. È opportuno dunque che gli osservatori più eminenti ricordino continuamente il detto di Bacone: «non ali senza piombo».

Il Sig. Guizot non era fazioso al punto di non rilevare l’esagerazione con la quale erano stati ingranditi gli abusi, così come era troppo saggio per non riconoscere che essi non erano causa sufficiente per produrre un effetto tanto grande; ed infine, il sentimento della propria dignità e del proprio decoro non gli permise di unirsi a quella schiera tumultuante e sconsiderata che grida

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continuamente contro la crudeltà ed intolleranza della Chiesa romana. Pertanto in questa parte della sua opera egli si fece obbligo di renderle giustizia. Disgraziatamente però la prevenzione nei confronti della Chiesa non gli permise di vedere le cose come sono in se stesse. Pensò che l’origine del Protestantesimo doveva cercarsi nel medesimo spirito umano ma, conoscitore del secolo in cui viveva e soprattutto dell’epoca in cui parlava, ritenne conveniente, affinché i suoi discorsi fossero bene accolti, lusingare l’uditorio gridando: libertà! Con alcune amabili parole temperò l’amarezza delle accuse contro la Chiesa, ma facendo subito in modo che tutto il bello, il grande e il generoso stesse dalla parte del pensiero generatore della riforma, e sulla Chiesa ricadessero tutte le ombre che dovevano oscurare il quadro.

Se così non fosse egli avrebbe certamente compreso che, sebbene la causa principale del Protestantesimo si trovi nello spirito umano, non era necessario ricorrere a raffronti inconsistenti; non sarebbe caduto nell’incoerenza che abbiamo appena rilevato, ed avrebbe trovata la radice del fenomeno nel carattere proprio dello spirito umano. Ne avrebbe allora spiegata la gravità e la trascendenza semplicemente col richiamare la natura, le condizioni e le circostanze delle società in mezzo alle quali apparve. E avrebbe anche notato che non ci fu affatto un impegno straordinario, ma una semplice ripetizione di quanto era accaduto in ogni secolo; un fenomeno comune che assunse un carattere suo proprio a causa del particolare momento e del clima che lo circondava.

Questa impostazione, di considerare il Protestantesimo come un fenomeno comune, ampliato però e propagato dalle circostanze della società in cui nacque, ci sembra altrettanto razionale quanto poco seguita: presenterò quindi un’altra riflessione che ci fornirà allo stesso tempo cause ed esempi.

La situazione delle moderne società è tale, da tre secoli a questa parte, che tutti i fatti che in esse si verificano assumono inevitabilmente un carattere di universalità, e quindi d’importanza, che li distingue dagli stessi fatti verificatisi in tempi precedenti, nei quali la condizione delle società era diversa. Dando un’occhiata alla storia antica osserveremo che tutti i fatti erano in un certo modo isolati, per cui non erano tanto vantaggiosi quando erano buoni, né tanto dannosi quando erano cattivi. Cartagine, Roma, Sparta e Atene, e tutti gli altri popoli antichi più o meno avanzati sulla via della civiltà, percorrevano ognuno il proprio sentiero, ma sempre separatamente. Pur rinnovandosi col tempo le idee, i costumi e le forme politiche, tuttavia non risulta che tra i popoli antichi ci fosse stato uno scambio reciproco, un vicendevole influsso sulle idee e sui costumi, e neanche quello spirito propagatore che tendesse ad uniformarli tutti su uno stesso modello. In questo

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modo, escludendo il caso di una unificazione forzata, si capisce benissimo che i popoli antichi avrebbero potuto restare lungo tempo vicini fra loro e conservare ciascuno il proprio carattere senza che avvenissero, nonostante la vicinanza reciproca, cambiamenti sostanziali.

Osserviamo invece come diversamente vadano ora le cose in Europa. Una rivoluzione che avvenga in un paese produce i suoi effetti anche in tutti gli altri; un’idea generata in una scuola mette in agitazione i popoli e in allarme i governi; non vi è nulla di circoscritto, tutto si generalizza, tutto si propaga, acquistando con l’espandersi una forza terribile. Ecco perché non è possibile studiare la storia di un popolo senza che sulla scena si presentino tutti i popoli; non è possibile studiare la storia di una scienza e di un’arte senza che appaiano immediatamente mille relazioni con altri oggetti che non sono né scientifici né artistici. Ciò dipende appunto dal fatto che tutti i popoli si equiparano, tutti gli oggetti s’intrecciano e tutte le relazioni si allacciano e si aggrovigliano. Ecco perché non vi è materia o argomento che sorga in un paese, in cui non prendono interesse, e se possibile anche parte, tutti gli altri. E passando concretamente alla politica, è e sarà sempre un’idea utopistica quella del non intervento; non essendosi mai visto che uno, chiunque sia, non cerchi d’intervenire in tutte le faccende che lo riguardano. Questi esempi presi dagli ambienti politici, letterari ed artistici mi sembrano adatti a far comprendere il mio pensiero su quanto è successo riguardo a quello religioso. Che se si toglie al Protestantesimo quella copertura filosofica sotto la quale si è voluto ripararlo fin dalla culla; se gli si nega il diritto di considerarsi un’ideale ricco di prospettive e di contenuti grandiosi che racchiude in sè grandi destini, nulla si toglie alla sua rilevanza e alla propagazione che ha avuto; non si vuole sminuire il fenomeno, ma bensì mostrare la vera causa per cui si è verificato in un modo così imponente.

Dalla prospettiva nella quale ci siamo posti tutto appare nel suo vero aspetto. Gli uomini si notano appena, e quasi spariscono; gli abusi si presentano per quel che sono, occasioni e pretesti; i vasti progetti, le idee elevate e generose, le sollecitazioni all’indipendenza si riducono a presupposti arbitrari; l’incentivo dei saccheggi, l’ambizione, le rivalità dei sovrani appaiono cause più o meno influenti, ma sempre di un ordine secondario. Non si esclude nessuna causa, purché siano tutte sistemate al loro posto. Non è possibile esagerarne l’importanza, anche se nell’indicare una causa principale non si nega che il fenomeno fu di natura tale che alla sua nascita e sviluppo dovettero contribuire numerosi fattori. E quando si giunge ad una questione fondamentale, quando si domanda la causa dell’odio e dell’inasprimento che i settari hanno manifestato contro Roma; quando si chiede se questo non rivela

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l’esistenza di alcuni grandi abusi, altrimenti si dovrebbe sospettare un agire senza motivo; si può tranquillamente rispondere che si è sempre visto che nella tempesta le onde vanno a flagellare con furore il baluardo che saldamente resiste loro.

Sono così lontano dall’attribuire agli abusi quell’influenza sulla nascita e la diffusione del Protestantesimo da molti sostenute, da essere convinto che, per quante riforme legittime si fossero fatte, per quanta condiscendenza l’autorità ecclesiastica avesse mostrata nell’acconsentire alle richieste e alle pretese di tutte le classi, sarebbe accaduta più o meno la stessa sciagura.

Bisogna non avere ben considerata l’incostanza e la grande mutevolezza dello spirito umano, e avere poca conoscenza della storia, per non sapere che questa è stata una di quelle grandi calamità che soltanto Dio avrebbe potuto impedire con un Suo speciale intervento (5). Torna all’indice

CAPITOLO III Nuova dimostrazione della divinità della Chiesa cattolica ottenuta dall’esame delle sue relazioni con lo spirito umano. Fenomeno straordinario che si presenta nella cattedra di Roma. Superiorità del Cattolicesimo sul Protestantesimo. Importante confessione di Guizot: sue conseguenze.

La frase con la quale ho chiuso il capitolo precedente mi suggerisce una riflessione aggiuntiva che, se ben condotta, presenterà una nuova dimostrazione della divinità della Chiesa cattolica.

La durata per diciotto secoli della Chiesa cattolica nonostante l’esistenza di tanti e potenti nemici ha sempre destato grande meraviglia; ma forse non si è mai riflettuto abbastanza sul fatto che, considerando l’indole dello spirito umano, uno dei grandi prodigi che costantemente presenta la Chiesa è l’unità della sua dottrina in mezzo ad ogni genere di insegnamenti, ed il continuo formarsi nel suo seno di un numero considerevole di uomini dotti.

Richiamo in modo particolare su questo punto l’attenzione degli studiosi; e sono sicuro che anche se non riuscirò a sviluppare adeguatamente questo ragionamento, essi vi troveranno il germe di importanti riflessioni; e forse questo modo di considerare la Chiesa sarà apprezzato anche da certi lettori. Tuttavia io prescinderò del tutto dalle caratteristiche legate alla rivelazione e considererò il Cattolicesimo non come religione divina, ma come scuola filosofica.

Chiunque abbia una preparazione anche non molto approfondita nella storia delle lettere, non potrà negare che in tutti i tempi la Chiesa abbia avuto

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nel suo seno uomini illustri per la loro dottrina. Nei primi secoli la storia dei padri della Chiesa è la storia dei dotti più illustri in Europa, in Africa e in Asia. Dopo le invasioni dei barbari, l’elenco degli uomini che conservarono qualcosa dell’antico sapere non è che un elenco di ecclesiastici; e per ciò che riguarda i tempi moderni non è possibile indicare un solo ramo del sapere in cui non sia posto in evidenza un numero considerevole di Cattolici. Si può dunque dire che da diciotto secoli a questa parte vi è una serie ininterrotta di uomini dotti appartenenti alla Chiesa cattolica, o che concorrono in un corpo di dottrina costituito dall’insieme delle verità insegnate dalla Chiesa cattolica. Ora, prescindendo dal carattere divino che la contraddistingue, e considerandola soltanto come una scuola o una setta qualunque, è certo che nel fatto da me poc’anzi citato è presente un fenomeno tanto straordinario che non se ne possono trovare di simili altrove, né può essere spiegato come qualcosa che appartiene all’ordine naturale delle cose.

Per la verità non è cosa nuova nella storia dello spirito umano che una dottrina più o meno saggia sia stata professata per qualche tempo da un certo numero di uomini illustri e dotti: questo l’abbiamo visto nelle sétte filosofiche antiche e moderne. Ma che una dottrina si sia sostenuta per lo spazio di molti secoli attirando a sè dotti di tutti i tempi e di tutti i paesi; dotti, oltre tutto, molto dissimili tra loro nelle opinioni personali, diversi nei costumi e talvolta addirittura in contrasto negli interessi ed anche divisi da rivalità: un tal fenomeno è unico, è nuovo e non si trova che nella Chiesa cattolica. Esigere fede e unità nella dottrina, stimolare sempre l’insegnamento e suscitare il dibattito su ogni genere di argomenti; sollecitare l’esame delle stesse fondamenta su cui poggia la fede interrogando a tal fine le lingue antiche, le testimonianze dei tempi più remoti, i documenti della storia, le scoperte delle scienze orientate alla ricerca, le lezioni più sublimi e minuziose; presentarsi sempre con generosa fiducia in quei grandi licei dove una società ricca di talenti e di sapere riunisce, come fari che rischiarano la mente, tutto ciò che le hanno trasmesso i tempi precedenti oltre a quello che essa stessa ha potuto raccogliere con le sue fatiche: ecco ciò che ha sempre fatto e fa tuttora la Chiesa. Ciò nonostante la vediamo perseverare stabile nella fede e nell’unità della dottrina, circondata da uomini illustri che, con la fronte cinta di serti letterari acquisiti in mille prove, le si umiliano sereni e tranquilli senza reputarlo disonorevole e per niente timorosi di offuscare le lucenti aureole che risplendono sul loro capo.

Coloro che guardano al Cattolicesimo come ad una delle tante sétte che sono apparse sulla terra saranno costretti a mostrare qualche caso simile a questo. Dovranno spiegarci come può la Chiesa presentarci continuamente un

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tale fenomeno così in contrasto con l’innata volubilità dello spirito umano; dovranno dirci come ha potuto la Chiesa romana realizzare questo prodigio, e quale calamita nascosta ha in mano il sommo Pontefice per poter fare ciò che nessun altro uomo ha mai potuto fare. Quelli che chinano rispettosamente la fronte all’udire la parola uscita dal Vaticano, e che abbandonano il proprio parere per assoggettarsi a quello che detta loro un uomo che si chiama Papa, non sono solamente i semplici e gl’ignoranti.

Osservateli bene: nella loro fronte superba scoprirete il sentimento della propria forza, e nei loro occhi vivi e penetranti vedrete risplendere la fiamma del genio che si agita nelle loro menti. Riconoscerete in loro quegli stessi che hanno occupato i primi posti delle accademie europee, che hanno riempito il mondo con la celebrità dei loro nomi, nomi trasmessi alle generazioni future come più preziosi dell’oro. Scorrete la storia di tutti i tempi, viaggiate per tutti i paesi del mondo, e se incontrate in qualche punto del pianeta un legame così straordinario: il sapere unito con la fede, il genio sottomesso all’autorità, la discussione affratellata con l’unità; fatecelo vedere. Avrete fatto una scoperta importante; avrete offerto alla scienza un nuovo fenomeno da spiegare. Ma questo vi sarà impossibile, lo sapete bene! E perciò ricorrerete a nuovi sotterfugi e cercherete di oscurare con dei cavilli l’evidenza di una riflessione che suggerisce ad una mente obiettiva, e perfino al senso comune, la legittima conseguenza che nella Chiesa Cattolica vi è qualcosa che non si trova in nessun’altra parte.

«Questi fatti – diranno gli avversari – sono evidenti; le riflessioni su di essi sono certamente interessanti. Ma se esaminiamo bene la questione verranno meno tutte le difficoltà, le quali hanno origine dalla singolarità di un fenomeno verificatosi soltanto nella Chiesa e mai in nessun’altra setta. Se si osserva bene, quanto è stato descritto finora prova solo che nella Chiesa vi è sempre stato un certo sistema ben determinato il quale, poggiato su una solida base, ha potuto sussistere con uniforme regolarità. Nella Chiesa si è compreso che l’origine della forza sta nell’unione, che per questa unione era necessario stabilire una unità nella dottrina, e per conservare quest’unità era necessaria la sottomissione all’autorità. Una volta capito questo si è stabilito il principio di sottomissione, e lo si è conservato stabilmente. Ecco spiegato il fenomeno, e non negheremo che nella Chiesa vi sia un profondo sapere, un vasto progetto, un sistema particolare; ma da questo non potrete ricavare nulla a favore della divinità del Cattolicesimo».

Questo è ciò che vi si risponderà, perché è l’unica risposta che vi si può dare. Ma è facile osservare che ad onta di questa risposta rimane la difficoltà in tutto il suo vigore; resta sempre, in tutta la sua chiarezza, il fatto che vi è una

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società sulla terra che per diciotto secoli è stata diretta da una regola fissa e costante; regola alla quale hanno aderito uomini eminenti di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Rimane pertanto in piedi tutto l’imbarazzo in cui gli avversari sono posti dalle seguenti domande. Come mai la sola Chiesa ha avuto questa regola? Come mai a lei sola è venuto una simile idea? Perché, se è venuta ad altre sétte, nessuna di queste ha potuto metterla in pratica? Come mai tutte le sétte filosofiche sono scomparse una dopo l’altra e la Chiesa no? Come mai le altre religioni, se hanno voluto conservare qualche unità, hanno dovuto sempre sottrarsi alla luce, evitare la discussione ed avvolgersi in buie tenebre, quando invece la Chiesa ha sempre conservato l’unità cercando la luce, non occultando i suoi libri, non diminuendo l’insegnamento, ma fondando ovunque collegi, università ed altri istituti dove potessero unirsi e concentrarsi i massimi esponenti dell’erudizione e del sapere?

Non basta dire che vi è un sistema, un progetto: la difficoltà sta nell’esistenza medesima di questo sistema e di questo progetto; sta nello spiegare come si è potuto concepirli e porli in esecuzione. Se si trattasse di pochi uomini riuniti in certe circostanze in determinati tempi e luoghi per l’esecuzione di un progetto limitato ad un breve periodo, non vi sarebbe nulla di particolare. Ma si tratta di diciotto secoli, si tratta di tutti i paesi, delle circostanze più varie, più differenti, più contrastanti; si tratta di uomini che non hanno potuto incontrarsi né accordarsi. Tutto questo come si spiega? Se si tratta solo di un sistema e un progetto umano, cosa c’è di misterioso in quella città di Roma che in tutti i tempi e da ogni paese ha richiamato a sé tanti uomini illustri? Se il Pontefice di Roma non è che il capo di una setta, per quale motivo riesce ad affascinare in tale misura il mondo intero? Si è mai visto un mago portare ad effetto una prodigio più stupefacente? Non è forse da molto tempo che si predica contro il suo dispotismo religioso? Perché non vi è mai stato un altro uomo che gli abbia tolto di mano lo scettro? Perché non si è innalzata un’altra cattedra che contrastasse la preminenza a quella di Roma, e si mantenesse in eguale splendore e potenza? Sarebbe forse per il suo potere materiale? Ma questo è limitatissimo, e il suo esercito non può certo misurarsi con quello di nessuna potenza in Europa. Forse per il carattere, la scienza, le virtù delle persone che hanno occupato il soglio pontificio? Ma come è possibile, se nello spazio di diciotto secoli si è avuta nei Papi un’infinita varietà di caratteri, e gradazioni molto differenti nella loro scienza e nelle virtù? Per chi non è Cattolico, per chi cioè non vede nel Pontefice romano il Vicario di Gesù Cristo, quella pietra sopra la quale Gesù Cristo edificò la Chiesa, la durata della sua autorità deve sembrare il più straordinario di tutti i fenomeni; e tra i quesiti più meritevoli di essere affrontati dalla scienza che si occupa della

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storia dello spirito umano, gli si dovrebbe presentare il seguente: come è possibile che per lo spazio di tanti secoli abbia potuto esistere una serie ininterrotta di uomini dotti che non si sono allontanati dalla dottrina e dalla cattedra di Roma?

Sembra che la forza di questa verità esercitasse una certa impressione sulla mente del Sig. Guizot, e che i raggi di questa luce portassero nelle sue riflessioni un certo sconcerto quando mise a confronto il Protestantesimo e la Chiesa romana. Torniamo a sentire questo scrittore il cui talento e la cui fama in tali materie hanno attirato quel tipo di lettori che forse non si soffermano ad esaminare la solidità delle prove quando esse vengono presentate con immagini seducenti, ed elogiano ogni genere di concetti quando se li vedono scorrere davanti nel profluvio di un’eloquenza incantatrice; ed infine, entusiasmati dai meriti di quella persona, l’ascoltano come un infallibile oracolo. E mentre si vantano della loro indipendenza intellettuale, sottoscrivono senza alcuna verifica le decisioni di chi li guida, ne ascoltano con devozione le sentenze, e non osano alzare la testa per chiedergli di esibire i titoli della sua autorità. Dalle parole del Sig. Guizot noterete come, al pari di tutti i grandi uomini del Protestantesimo, sentì il vuoto immenso che si trova in queste sétte, e di contro la robustezza e la forza che nutre in seno la religione cattolica. Egli non poté sfuggire alla regola generale dei grandi ingegni, regola di cui costituiscono prova le più esplicite testimonianze contenute negli scritti dei più eminenti uomini della riforma protestante. Il Sig. Guizot, dopo aver notato l’incoerenza con cui procedette il Protestantesimo, e la mancanza di un certo ordine nella classe intellettuale, così continua: «Non si è saputo conciliare tutti i diritti e le necessità della tradizione con le pretese della libertà. E questo deriva senza dubbio dal non avere la riforma compreso pienamente ed accettato né i suoi princìpi né i suoi effetti». Che religione sarà mai questa, che non comprende e non accetta pienamente i suoi princìpi ed i suoi effetti? Fu mai pronunciata una condanna più definitiva della riforma? Come potrà essa pretendere di avere il diritto di guidare l’uomo e la società? Poté mai dirsi altrettanto delle sétte filosofiche antiche e moderne? «Quindi quest’aria di incoerenza – continua il Sig. Guizot – che ha mantenuto la riforma, e lo spirito limitato che ha manifestato, sono le condizioni che hanno fornito armi e vantaggi ai suoi avversari. I quali sapevano ciò che volevano e ciò che facevano. Partivano dai loro fermi princìpi e giungevano alle loro conseguenze ultime. Non vi è mai stato un governo più conseguente e più sistematico di quello della Chiesa Romana». E da dove mai trarrà origine questo sistema così conseguente? Se tanta è l’incostanza e la volubilità dello spirito dell’uomo, questo sistema, questa conseguenza, questi fermi princìpi, nulla dicono alla filosofia e al buon

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senso? Nel considerare questi funesti clementi di dissoluzione che hanno la loro

origine nello spirito dell’uomo e che tanta forza hanno acquistato nelle società moderne; e nel riflettere come essi disgregano e polverizzano tutte le scuole filosofiche, tutte le istituzioni religiose, sociali e politiche, ma senza mai giungere a far breccia nelle dottrine cattoliche e senza mai alterare un sistema così solido e coerente: nel valutare tutto ciò nulla dunque si potrà dire a favore della religione cattolica? Dire che la Chiesa ha fatto ciò che mai poté fare nessuna scuola, nessun governo, nessuna società o religione, non vuol dire confessare che essa è più saggia dell’intera umanità? E non è questa una prova che non può aver avuto origine dall’intelletto umano, ma che è discesa dal seno stesso del Creatore dell’universo? In una società formata da uomini e in un governo diretto da uomini, il quale conta diciotto secoli di vita; che si estende a tutti i paesi e si rivolge al selvaggio dei boschi, al barbaro sotto le tende e all’uomo civile delle più popolose città; che conta tra i suoi figli il pastore che si copre con pelli di pecora, il rude lavoratore e il personaggio influente; che fa risuonare la sua parola indifferentemente all’orecchio dell’uomo semplice occupato nei suoi impegni materiali e a quello del dotto che, rinchiuso nel suo laboratorio, è assorto in profondi studi: come può un governo come questo mantenere, a dire del Sig. Guizot, sempre un’idea fissa, una volontà perfetta, ed avere sempre una condotta regolare e coerente? Non è questa l’apologia più riuscita, il panegirico più eloquente e la prova che esso racchiude in sé qualcosa di misterioso?

Mille volte ho contemplato con meraviglia questo prodigio stupendo, e mille volte ho fissato lo sguardo su quest’albero immenso che stende i suoi rami dall’Oriente all’Occidente, dal Settentrione al Mezzogiorno; e ho visto tanti e diversi popoli al riparo della sua ombra, e riposare tranquillamente sotto di essa l’inquieta fronte del genio.

Pensando a quando nei primi secoli apparve sulla terra questa religione divina in mezzo alla dissoluzione che aveva invase tutte le sétte, vedo in Oriente accorrere numerosi i più illustri filosofi per ascoltarne la parola; vedo in Grecia, in Asia, sulle sponde del Nilo, in tutti quei paesi dove poco prima pullulava una moltitudine di sétte, levarsi di colpo una generazione di uomini illustri, ricchi di erudizione, di sapere e di eloquenza, e tutti concordi nell’unità della dottrina cattolica. Vedo in Occidente, quando una moltitudine di barbari provenienti da terre lontane sta per rovesciarsi sull’instabile impero, e come nube minacciosa portatrice di sventure e disastri piomba in mezzo ad un popolo immerso nella corruzione dei costumi e del tutto dimentico dell’antica grandezza, vedo quegli uomini, che solo possono chiamarsi degni eredi del

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nome romano, cercare un asilo nell’austerità dei costumi e nel ritiro dei sacri templi, chiedendo alla religione le ispirazioni per conservare l’antico sapere, arricchirlo e farlo più grande. Mi riempie di ammirazione e stupore l’incontro del sublime talento, degno erede del genio di Platone, il quale dopo avere interrogato, ricercando la verità, tutte le scuole e le sétte; dopo aver percorso tutti gli errori con vigorosa baldanza e con indomabile indipendenza; si sente infine conquistare dall’autorità della Chiesa, e il libero filosofo si trasforma nel gran Vescovo d’Ippona. Nei tempi moderni mi scorre davanti quella schiera di uomini grandi che rifulsero nei secoli di Leone X e di Luigi XIV. Vedo perpetuarne la stirpe illustre perfino nel funesto diciottesimo secolo, ed anche nel diciannovesimo vedo sorgere nuovi campioni i quali, dopo aver dato la caccia all’errore inseguendolo in ogni direzione, vanno a depositare i loro trofei alle porte della Chiesa cattolica.

Che prodigio è questo! Dove si è mai vista una scuola, una setta, una religione simile a questa? Studiano tutto, a tutto rispondono e tutto sanno, ma sempre restando concordi nell’unità della dottrina, sempre soggetti all’autorità, sempre chinando rispettosamente la fronte e sempre umiliandola in ossequio alla fede: quella fronte dove brilla il sapere, dove appare l’impronta di un sentimento di nobile indipendenza da cui hanno origine slanci così generosi. E non vi sembra di scoprire una nuova galassia nella quale mondi luminosi ruotano in vaste orbite per l’immensità dello spazio, attratti da una misteriosa forza verso il centro di tutto il sistema? Forza che non li lascia deviare dal sentiero, nulla togliendo loro, né della loro dimensione né della grandiosità del moto, anzi inondandoli di luce ed imprimendo al loro cammino una regolarità maestosa (6). Torna all’indice

CAPITOLO IV Il Protestantesimo porta in sé un principio dissolutore. Per sua natura tende ad annientare tutte le credenze. Direzione pericolosa che dà all’intelletto. Descrizione dello spirito umano.

Questa idea costante, questa volontà totale, questo progetto così saggio e immutabile, questo sistema così solido, questa condotta così regolare e coerente, questo procedere sempre con passo sicuro verso l’oggetto ed il fine stabiliti, questa mirabile unione riconosciuta e ammessa dal Sig. Guizot, e che tanto onora la Chiesa cattolica mostrandone il profondo sapere e rilevandone la sublimità dell’origine: tutte queste cose non sono mai state imitate dal Protestantesimo né nel bene né nel male. Esso, come ho già dimostrato, non

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può presentare un solo principio di cui abbia il diritto di dire: questo è mio. Ha voluto appropriarsi del principio del libero esame in materia di fede, e alcuni tra i suoi avversari forse non hanno avuto molta difficoltà ad accordarglielo perché non riconoscevano in esso alcun elemento che potesse definirsi costitutivo, ed ancor più per la considerazione che, volendosi gloriare di aver creato questo principio, si è reso simile a quei padri insensati che mostrano la propria ignominia col vantarsi di avere figli di pessima indole e ribelli nella condotta. È falso però che questo principio ne sia il figlio. Al contrario: potrebbe dirsi con maggior ragione che il principio del libero esame ha generato il Protestantesimo. Infatti questo principio si trova già in tutte le sétte e viene riconosciuto come origine di tutti gli errori; per cui i Protestanti nel diffondere la dottrina del libero esame altro non fecero che cedere ad una necessità che accomuna tutte le sétte separate dalla Chiesa.

Questo non avvenne per un deliberato progetto o previsione o sistema. La semplice resistenza all’autorità della Chiesa portava alla necessità di un libero esame senza limiti, e all’elezione dell’intelletto a giudice unico; e così furono del tutto inutili fin da principio i tentativi che i fondatori del Protestantesimo fecero per opporsi alle conseguenze e all’applicazione di un tale esame. Rotto l’argine non fu più possibile contenere le acque.

«Il diritto di esaminare ciò che deve credersi – dice una celebre gentildonna protestante (Dell’Alemagna di Madame de Staël, parte 4, cap. 2) – è il principio fondamentale del Protestantesimo. Non l’intendevano così i primi riformatori, i quali credevano di poter fissare i fondamenti dello spirito umano entro i confini delle loro proprie cognizioni; invano però potevano sperare che le loro decisioni fossero accolte come infallibili dal momento che negavano questa stessa autorità alla religione cattolica». Una tale resistenza da parte loro non fece altro che dimostrare che in essi non trovava asilo nessuna di quelle idee le quali, se fanno fuorviare l’intelletto, mostrano tuttavia in un certo modo la generosità e nobiltà del cuore; pertanto l’intelletto umano non potrà neanche dire di loro che lo fecero uscire di strada con l’intenzione di lasciarlo andare con maggior libertà. «La rivoluzione religiosa del sedicesimo secolo – dice il Sig. Guizot – non conobbe i veri princìpi di libertà intellettuale: emancipava il pensiero, e s’impegnava tuttavia a governarlo per mezzo della legge».

Ma l’uomo invano può lottare contro la forza prodotta dalla natura medesima delle cose; e fu invano che il Protestantesimo cercò di porre un argine all’estensione del principio del libero esame, e invano levò talvolta tanto alta la voce e intervenne addirittura con la forza a tal punto che sembrava perfino che intendesse annientarlo. Lo spirito del libero esame covava nel seno medesimo della riforma, vi perseverava, vi si sviluppava e vi operava a dispetto

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della medesima. Il Protestantesimo non aveva via di mezzo: o rifugiarsi sotto l’ala dell’autorità, cioè riconoscere i suoi traviamenti, o lasciare che il principio dissolutore esercitasse la sua azione facendo scomparire dalle sétte separate ogni parvenza della religione di Gesù Cristo e relegando il Cristianesimo tra le scuole filosofiche. Una volta lanciato il grido di ribellione all’autorità della Chiesa si poterono misurare i funesti risultati; e fin da allora fu ben facile prevedere che, sviluppatosi il germe maligno, esso avrebbe portato con sé la rovina di tutte le verità cristiane. E com’era possibile che non si sviluppasse rapidamente un tal germe in un terreno di così vivi fermenti? I Cattolici si sgolarono per far conoscere la gravità dell’imminente pericolo, e per rispetto della verità devo ammettere che questo pericolo fu previsto anche da alcuni Protestanti. Chi non conosce le esplicite confessioni che furono fatte fin da principio, ed anche in seguito, da uomini tra i più distinti fra essi? I grandi talenti non si sono mai trovati bene col Protestantesimo: vi hanno sempre incontrato un immenso vuoto, e per questo motivo finirono col dirigersi o verso l’irreligione, o verso l’unità cattolica.

Il tempo, che sottopone a giudizio tutte le opinioni, ha confermato la ragionevolezza di queste tristi previsioni; e attualmente le cose sono già giunte a tali estremi che bisogna avere conoscenze molto scarse, o qualità assai limitate per non sapere che la religione cristiana, come viene spiegata dai Protestanti, è niente di più che un’opinione, un sistema composto di mille parti incoerenti che mette il Cristianesimo al livello delle scuole filosofiche. A nessuno deve sembrare strano che mostri qualche vantaggio su queste scuole, e che conservi alcuni aspetti contenenti qualcosa che non derivi unicamente dall’intelletto umano. Sapete da dove ha origine questo fatto? Da quella sublimità di dottrina e da quella santità di morale che, sebbene più o meno sfigurate, risplendono però sempre in tutto ciò che conserva qualche richiamo alla parola di Gesù Cristo. Ma la debole luce che l’astro luminoso lottando con le ombre lascia dopo essere scomparso dall’orizzonte, non può confrontarsi con la luce del giorno: le ombre vengono su, si dilatano spegnendo quel debole riflesso e finiscono con l’immergere la terra in un’oscurità tenebrosa.

Tale è la dottrina cristiana tra i Protestanti. Basta dare un’occhiata alle loro sétte per capire subito che non sono puramente filosofiche, né hanno i caratteri della vera religione. Siccome tra esse il Cristianesimo rimane senza un’autorità, così pare un vivente separato dal suo elemento vitale, un albero disseccato alla radice; e presenta la fisonomia pallida e sfigurata di un volto non più animato dal soffio di vita. Il Protestantesimo parla di fede, e il suo principio fondamentale la ferisce a morte. Fa l’elogio del Vangelo, e lo stesso principio ne fa vacillare l’autorità, perché lo lascia all’arbitrio del

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discernimento dell’uomo. Se si considera la santità della morale di Gesù Cristo viene subito in mente che alcune fra le sétte dissidenti lo spogliano della sua divinità, e tutte potrebbero fare altrettanto senza mancare al principio unico che a loro serve di punto d’appoggio. Negata poi che sia o messa in dubbio la divinità di Gesù Cristo, Egli resta tutt’al più collocato nella categoria dei grandi filosofi e legislatori, perde l’autorità necessaria per dare alle sue leggi quella divina conferma che le rende così stimabili ai miseri mortali, e non può più imprimere loro quel sigillo che le solleva tanto al di sopra di tutti i pensieri umani. Come anche i suoi sublimi consigli non si presentano più come altrettanti insegnamenti che sgorgano dalle labbra dell’increata Sapienza.

Quando allo spirito umano si fa mancare il punto d’appoggio di un’autorità, dove potrà mai trovare sicurezza? Non resta egli abbandonato in balìa dei suoi sogni e dei suoi deliri? Non gli si apre di nuovo il tenebroso e intricato sentiero di quelle interminabili dispute che condusse al caos i filosofi delle antiche scuole? In queste condizioni non ci sono risposte, e in ciò sono d’accordo la ragione e l’esperienza: una volta che il libero esame dei Protestanti abbia sostituito l’autorità della Chiesa, tutte le grandi questioni intorno alla divinità e riguardo all’uomo restano senza soluzione; tutte le difficoltà rimangono in piedi e l’intelletto umano, barcollando nelle tenebre senza scoprire una luce che possa servirgli di guida sicura, oppresso dalle grida confuse di cento scuole che disputano di continuo senza chiarire nulla, cade in quella specie di deliquio e di prostrazione in cui il Cristianesimo lo aveva trovato, e da cui lo aveva fatto uscire a costo di grandi sforzi. Il dubbio, il pirronismo, l’indifferenza, saranno allora il patrimonio dei migliori talenti; le vane teorie, i sistemi ipotetici, i sogni, costituiranno il passatempo del circolo dei dotti; la superstizione e le mostruosità saranno il pascolo degl’ignoranti.

In questo modo, quali progressi avrebbe fatto l’umanità? Cosa avrebbe prodotto il Cristianesimo sulla terra? Fortunatamente per il genere umano la religione cristiana non è rimasta abbandonata in balìa delle sétte protestanti, e nell’autorità della Chiesa cattolica ha avuto sempre una base larghissima dove poggiarsi saldamente in modo da resistete agli urti dei sofismi e degli errori. Se così non fosse stato dove sarebbe andata a finire la sublimità dei suoi dogmi, la sapienza dei suoi precetti, la perfezione dei suoi consigli? Non sarebbero forse nient’altro che bei sogni raccontati da un dotto filosofo con un linguaggio da incantatore? Sì, conviene ripeterlo: senza l’autorità della Chiesa non vi è più nulla di sicuro nella fede; il dubbio s’abbatte sulla divinità di Gesù Cristo; la sua missione risulta discutibile: in una parola la religione cristiana sparisce completamente. Infatti, non potendo essa presentarci i suoi titoli divini, e non potendo darci la completa certezza che sia discesa dal seno dell’Eterno, che le

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sue parole sono parole dello stesso Dio che si degnò di apparire sulla terra per la salvezza degli uomini, non ha più il diritto di esigere da noi venerazione e rispetto. Posta nella categoria delle idee puramente umane, dovrà sottomettersi al nostro giudizio come le altre opinioni degli uomini. Nel tribunale della filosofia potrà sostenere le sue dottrine come più o meno ragionevoli, ma avrà sempre lo svantaggio di aver voluto ingannarci e di essersi presentata a noi come divina quando non era che umana; e quando si vorrà iniziare una discussione sulla verità del sistema delle sue dottrine, ella avrà sempre contro di sé un insopportabile pregiudizio: quello, cioè, che riguardo alla sua origine si è presentata come un’impostura.

I Protestanti si gloriano dell’indipendenza del loro intelletto ed accusano la religione cattolica di violare i più sacri diritti perché, esigendo la sottomissione, oltraggia la dignità dell’uomo. Quando si parla in questo modo vengono molto a proposito le esagerazioni sulla forza del nostro intelletto, e c’è solo da aspettarsi che si ricorra ad alcune immagini seduttrici, pronunciando parole come volo audace, belle ali e altre simili per lasciare completamente frastornati i comuni lettori.

Si goda pure lo spirito umano i suoi diritti, si vanti di possedere la scintilla divina che chiamiamo intelletto, percorra superbo tutta la natura, ed osservando gli altri esseri che lo circondano si compiaccia pure nel notare l’immensa altezza a cui si trova innalzato sopra tutti gli altri. Si metta l’uomo al centro delle opere con cui ha abbellito la sua dimora e mostri come testimoni della sua grandezza e del suo potere le trasformazioni che si eseguono ovunque egli appaia, giungendo con la sua intelligenza e con grande ardimento a dirigere e padroneggiare la natura. Ma lo faccia per riconoscere la dignità e sublimità del nostro spirito, mostrandosi grato al beneficio che ci ha accordato il Creatore. E come possiamo andare tanto oltre da dimenticare i nostri difetti e la nostra debolezza? A che fine ingannarci da noi stessi cercando di persuaderci di sapere ciò che in realtà ignoriamo? Perché dimenticare l’incostanza e la volubilità del nostro spirito? Perché dissimulare a noi stessi che in molte materie, anche nelle scienze umane, il nostro intelletto si perde e si confonde, che nelle nostre conoscenze vi è molto d’illusorio e che nell’apprezzare i progressi delle nostre cognizioni vi è molto d’iperbolico? Non capita forse oggi di smentire ciò che avevamo stabilito ieri? Il trascorrere del tempo non viene a burlarsi di tutte le nostre previsioni, a disfare i nostri sistemi, a manifestare quanto vi è di aleatorio nei nostri progetti?

Cosa ci hanno insegnato in tutti i tempi quei superiori ingegni a cui fu concesso di scendere fino alle fondamenta delle nostre scienze, di sollevarsi con volo audace fino alle più sublimi regioni del pensiero e di toccare, per così

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dire, gli estremi confini dello spazio che può percorrere l’umano intelletto? Sì, i sommi dotti di tutti i tempi, dopo aver esplorato i sentieri più occulti della scienza, dopo aver avuto il coraggio di seguire le vie più rischiose, sotto l’aspetto fisico e morale, che si presentavano alla loro attività e al loro ardimento nel vastissimo mare dell’investigazione, infine tutti son tornati dai loro viaggi mostrando i segni di quella delusione che è il frutto naturale dei più vivi disinganni. Tutti ci dicono anche che alla loro vista si è come sfaldata una bella illusione; che la vezzosa immagine che tanto li seduceva è svanita come un fantasma. E dicono ancora che nel momento in cui sembrava loro che stessero per entrare in un paradiso inondato di luce, hanno scoperto con raccapriccio una regione di tenebre e si sono resi conto non senza terrore di essersi ritrovati in una nuova ignoranza. Per questo tutti i grandi uomini guardano con tanta diffidenza le forze dell’intelletto, essi che hanno l’intima convinzione (e su questo non c’è da dubitare) della grande superiorità delle forze del loro intelletto su quelle degli uomini comuni. «Le scienze – dice sapientemente Pascal – hanno due estremi che sì toccano: la pura ignoranza naturale, in cui sono gli uomini al loro nascere; e quella in cui si trovano le anime grandi, che avendo esaminato tutto ciò che si può sapere dagli uomini, conoscono che nulla sanno».

Il Cattolicesimo dice all’uomo: «il tuo intelletto è molto debole, e in molte cose ha bisogno di un appoggio e di una guida»; e invece il Protestantesimo gli dice: «ti circonda la luce, cammina ovunque tu voglia, non c’è per te guida migliore di te stesso». Quale delle due religioni va d’accordo con le lezioni della più alta filosofia?

E allora non deve sembrare strano che tutti i più grandi talenti che ha avuto il Protestantesimo abbiano sentito una certa inclinazione verso la religione cattolica. Essi non hanno potuto fare a meno di constatare la profonda sapienza contenuta nel principio di sottomissione, in alcune materie, dell’intelletto umano al giudizio di un’autorità irrefragabile. Quando si trova un’autorità che, riguardo alla sua origine, alla sua costituzione, conservazione, dottrina e morale, riunisce in sé tutti i titoli che possono accreditarla per divina, cosa ci guadagna l’intelletto nel non volersi assoggettare a lei? Che progressi può ottenere vagando in balìa delle sue illusioni su materie particolarmente gravi, percorrendo quei sentieri dove ci si può imbattere soltanto in rievocazioni di traviamenti, pentimenti e disinganni?

Se lo spirito dell’uomo ha un concetto troppo alto di sé, studi la propria storia e si renderà conto che abbandonato alle sue sole forze ben poco può fidarsi di se stesso. Fecondo nel formulare teorie, inesauribile nelle sottigliezze, tanto rapido nel concepire un’idea quanto poco incline a perfezionarla; vivaio

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d’idee che nascono, brulicano e si annullano a vicenda come gl’insetti che si muovono sulle acque di un lago, innalzandosi talvolta sulle ali di una sublime ispirazione per poi subito ritrovarsi a strisciare al suolo come il rettile che col petto solca la polvere; tanto abile e impetuoso nel distruggere le opere altrui, e incapace tuttavia di dare alle proprie una struttura solida e durevole; spinto dalla violenza delle passioni, stordito dall’orgoglio, annebbiato e confuso per tanta varietà di oggetti che gli si presentano da tutte le parti; abbagliato da falsi lumi e da apparenze ingannevoli e abbandonato interamente a se stesso, lo spirito umano presenta l’immagine di una scintilla inquieta e vivace che senza alcuna direzione prestabilita percorre l’immensità dei cieli, traccia nella sua mutevole e veloce traiettoria mille strane figure, semina miriadi di faville luminose che punteggiano le sue orme, incanta per un momento la vista con la sua lucentezza, l’agilità e i suoi capricci, quindi sparisce ben presto nell’oscurità senza lasciare nell’immensa estensione del suo cammino un benché minimo barbaglio di luce che rischiari le tenebre della notte.

Qui sta la storia delle nostre conoscenze. In questo immenso deposito dove si trovano confuse e mescolate le verità e gli errori, la sapienza e l’ignoranza, il giudizio e la stoltezza, si trovano numerose prove di quanto ho affermato finora. Queste serviranno a giustificarmi se altri volessero accusarmi di aver ecceduto nella descrizione (7). Torna all’indice

CAPITOLO V Istinto di fede. Si estende anche alle scienze. Newton. Cartesio. Osservazioni sulla storia della Filosofia. Proselitismo. Stato attuale dell’intelletto.

È tanto vero ciò che ho detto finora sulla debolezza dell’intelletto umano che, anche prescindendo dall’aspetto religioso, possiamo osservare che la provvida mano del Creatore ha collocato nel fondo della nostra anima una difesa contro l’eccessiva volubilità del nostro spirito: difesa tale che, senza di essa, sarebbero andate in frantumi tutte le più eccellenti istituzioni, o per dir meglio, non sarebbero state neppure fondate; senza di essa le stesse scienze non avrebbero mai fatto un passo. E se questa difesa scomparisse dal cuore dell’uomo l’individuo e la società rimarrebbero sommersi dal caos. Parlo di una certa inclinazione a deferire all’autorità, cioè dell’istinto di fede: istinto che merita di essere esaminato molto seriamente se si vuole conoscere qualcosa dello spirito dell’uomo, studiare con profitto la storia del suo sviluppo e dei suoi progressi, rintracciare le cause di molti fenomeni straordinari, scoprire

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eccellenti punti di vista che la religione cattolica ci presenta sotto questo aspetto e infine toccare con mano quanto è limitato e poco filosofico il pensiero che guida il Protestantesimo.

Già molte volte è stato osservato che non è possibile accudire alle prime necessità, né perseguire i più comuni interessi, senza riferirsi all’autorità di altri, cioè senza la fede; e si capisce facilmente che senza questa fede sparirebbe tutto il patrimonio della storia e dell’esperienza, vale a dire che si distruggerebbe il fondamento di ogni sapere.

Per quanto importanti ed opportune siano queste osservazioni per dimostrare che è errata l’accusa rivolta alla religione cattolica, quella cioè di esigere la fede, ciò nonostante non intendo servirmi di esse, intendendo invece trattare l’argomento sotto un altro aspetto, spostando la questione su un altro terreno dove la verità trarrà maggior profitto ed interesse senza nulla perdere della sua inalterabile solidità.

Se ripercorriamo la storia delle conoscenze umane e gettiamo un’occhiata sulle opinioni dei nostri contemporanei, osserviamo immancabilmente che le convinzioni di coloro che più si vantano di possedere spirito critico e libertà di pensiero altro non sono che l’eco di opinioni altrui. Se esaminiamo attentamente questo grande sistema che si chiama scienza e tanto scalpore suscita nel mondo, constateremo che in fondo in esso vi e contenuta una notevole quantità di autorità; e nel momento in cui vi s’introducesse uno spirito critico completamente libero anche rispetto a quei punti che appartengono al solo raziocinio, l’edificio scientifico crollerebbe in gran parte. E ben pochi sarebbero coloro che rimarrebbero in possesso dei suoi misteri. Nessuna branca della conoscenza umana, per grande che sia la chiarezza e la precisione di cui possa vantarsi, può sfuggire a questa regola generale. Le scienze naturali ed esatte, per quanto siano eccellenti nell’evidenza dei princìpi, rigorose nelle deduzioni, ricche di osservazioni ed esperienze, non fondano forse gran parte delle loro verità su altre verità superiori, per conoscer le quali è stata necessaria quella finezza di osservazione, quella perfezione di calcolo, quell’occhiata perspicace e penetrante a cui giunge soltanto un numero ben limitato di uomini?

Quando Newton mostrò al mondo scientifico il frutto delle sue profonde considerazioni, quanti erano tra i suoi discepoli quelli che potevano lusingarsi di fare assegnamento sulla propria opinione, includendo anche quelli che con molta fatica erano giunti a comprendere qualcosa del grande genio? Avevano seguito il matematico nei suoi calcoli, si erano serviti del cumulo di dati ed esperimenti che il naturalista esponeva alle loro osservazioni ed avevano ascoltato le riflessioni con cui il filosofo appoggiava le proprie affermazioni e

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congetture. Credevano così di essere pienamente convinti e di non dovere il proprio consenso per nulla all’autorità ma unicamente alla forza dell’evidenza e dei ragionamenti. Ma è davvero così? Ebbene, fate ora che sparisca il nome di Newton, fate che l’animo si spogli di quella profonda impressione determinata dalla parola di un uomo che si presenta con una straordinaria scoperta e per confermarla espone un tesoro di conoscenze, che mostra un ingegno prodigioso; togliete, ripeto, l’ombra di Newton, e vedrete che nella mente del suo discepolo i princìpi vacillano, i ragionamenti perdono molto della loro congruenza ed esattezza, e le osservazioni non si accordano più così bene con i fatti. L’uomo che talvolta crede di essere un esaminatore del tutto libero da ogni preconcetto, un pensatore del tutto indipendente, si accorge e sente quanto egli fosse soggiogato dalla forza dell’autorità del genio; si accorge ad un tratto che in molti punti dava l’assenso, ma non ne era convinto, e che invece di essere un filosofo interamente libero, era un discepolo docile e interessato.

Facciamo appello con fiducia alla testimonianza, non degl’ignoranti, né di coloro che hanno sfiorato appena lo studio delle scienze, ma dei veri dotti, di quelli che hanno consacrato lunghe notti ai vari rami del sapere. Invitiamoli a concentrarsi in se stessi e ad esaminare ciò che chiamano le loro convinzioni scientifiche; invitiamoli a chiedersi, con tutta calma e senza farsi fuorviare dalla passione, se anche in quelle materie in cui si credono più esperti non sentono che l’intelletto più volte sia stato sottomesso all’ascendente di qualche autore illustre; e se non debbano confessare che se a molte questioni (di quelle che conoscono meglio) applicassero con rigore il metodo di Cartesio, si troverebbero infine con un maggior numero di credenze piuttosto che di convinzioni.

Così è sempre stato e così continuerà ad essere, perché questo fatto è profondamente radicato nell’intima natura del nostro spirito e non vi è quindi rimedio. E forse conviene che non vi sia; forse in questo entra molto di quell’istinto di conservazione che Dio con ammirabile sapienza ha donato alla società, e che probabilmente serve da correttivo a tanti elementi di dissoluzione ch’essa racchiude in sé.

Per la verità molte volte è un gran male che l’uomo segua le orme di un altro uomo, e non è raro assistere, per questo motivo, a dolorosi traviamenti. Sarebbe però ancora peggio se l’uomo fosse sempre in contrasto nei confronti di ogni altro uomo nel timore che lo possa ingannare, e che si diffondesse nel mondo la manìa cavillosa di voler sottoporre tutto ad un esame rigoroso. Povera società sarebbe allora, povero uomo, povere scienze, se in tutti i campi si propagasse lo spirito di esame rigoroso, scrupoloso e indipendente!

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Io ammiro l’ingegno di Cartesio e riconosco i grandi benefìci che ha dispensato alle scienze; ma ho pensato più di una volta che se per un certo tempo dovesse divenire usuale il suo metodo di dubbio, la società andrebbe subito in rovina. Il mio parere è che ciò provocherebbe gran danno anche tra i dotti, tra i filosofi immuni da ogni condizionamento, o almeno è certo che nel mondo scientifico crescerebbe di gran lunga il numero dei mentecatti.

Per fortuna non vi è pericolo che ciò accada. Se l’uomo ha una certa tendenza più o meno accentuata alla stoltezza, possiede anche un fondo di buon senso di cui non è possibile che rimanga privo. E quando si presentano alcuni individui dalle idee vulcaniche che si propongono di far delirare la società, questa si oppone loro con un sorriso sdegnoso; oppure se si lascia traviare per un momento ritorna presto in se stessa e respinge con indignazione coloro che l’avevano fatta uscire di strada.

Per chiunque conosca a fondo lo spirito umano, riusciranno sempre volgari è spregevoli le veementi diatribe contro i pregiudizi sul volgo, contro la docilità di tener dietro ad un altro uomo, la facilità di credere tutto senza avere esaminato nulla. Forse che, se vogliamo parlare di pregiudizi e di acconsentire a tutto senza prima aver esaminato, si trovano molti uomini che in questo non meritino di essere considerati di appartenere al volgo? Forse che le scienze non sono piene di supposizioni gratuite, e in esse non si trovano punti debolissimi ai quali ci sorreggiamo così alla buona come se fosse invece un sostegno solidissimo ed immutabile?

Il diritto di possesso e di prescrizione è un’altra singolarità che presentano le scienze; e qui è utile notare che, pur senza aver fatto mai uso di questi termini, tale diritto è riconosciuto con tacito ma unanime consenso. Chiederete: come è possibile questo? Studiate la storia delle scienze ed incontrerete ad ogni passo la conferma di tale verità. Nelle continue dispute, fonte di eterna divisione tra filosofi, qual è il motivo per cui una dottrina antica ha opposto una resistenza tanto tenace ad una nuova, e ne abbia ritardato per molto tempo e talvolta anche impedito che prendesse completamente piede? Ciò accade perché l’antica dottrina esercitava già il possesso ed era rinforzata dal diritto di prescrizione: e poco importa che non fossero in uso i nomi (di possesso e di prescrizione) se il risultato è stato il medesimo. Per questo motivo molti inventori sono stati disprezzati o contraddetti, e magari anche perseguitati.

E’doveroso confessarlo, per quanto ripugni al nostro orgoglio e per quanto possa provocare scandalo per alcuni ammiratori del progresso delle scienze: molti sono stati questi progressi, vastissimo il campo dove ha indagato l’intelletto umano, ampi gli spazi che ha percorso e mirabili le opere con cui ha

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dato prova delle sue capacità. In tutte queste cose però vi è sempre una buona dose di esagerazione, vi è molto da eliminare, soprattutto quando la scienza intende riferirsi alle verità morali. Da simili osservazioni non si può giungere ad alcuna conclusione per dimostrare che il nostro intelletto sia capace di procedere in ogni direzione con la stessa agilità e sveltezza; o per contraddire ciò che abbiamo affermato, cioè che l’intelletto dell’uomo è soggetto, anche se non se ne accorge, all’autorità di un altro uomo.

In ogni epoca nasce un numero esiguo di intelletti privilegiati che, elevandosi al disopra di tutti gli altri, sono di guida nei diversi campi. Dietro ad essi procede una numerosa schiera che viene definita dotta, che con gli occhi fissi sulla bandiera inalberata, segue affannata i passi dell’avventuroso capitano. E, cosa singolare! nella marcia tutti si proclamano indipendenti, tutti si vantano di seguire la nuova strada come se l’avessero scoperta essi stessi, come se procedessero sulla medesima guidati unicamente dai propri lumi ed ispirazioni. La necessità, la predisposizione od altre circostanze ci portano a dedicarci a questo o a quel ramo di conoscenze; la nostra debolezza ci suggerisce continuamente che a noi non è concessa la forza creatrice. Poiché non possiamo offrire nulla di nostro e siamo nell’impossibilità di aprirci una nuova strada, ci lusinghiamo che tocchi a noi una parte di gloria nel seguire la bandiera di qualche illustre capitano. In mezzo a tali sogni arriviamo talvolta a persuaderci di non militare sotto lo stendardo di altri e rendiamo omaggio a queste nostre convinzioni, mentre in realtà non siamo altro che proseliti delle dottrine altrui.

Su questo punto il senso comune ha più giudizio della nostra malferma ragione. Ne consegue che il linguaggio (questo modo misterioso di esprimere le cose, dove s’incontra tanto fondo di verità e di esattezza senza sapere chi gliel’abbia trasmesso) ci fa un severo rimprovero per una così orgogliosa verità; e nostro malgrado chiama le cose col loro nome, classificando noi stessi e le nostre opinioni conformemente all’autore che abbiamo seguito come capo. La storia delle scienze è forse diversa dalla storia delle battaglie di alcuni capitani di ventura? Passiamo in rassegna i tempi antichi e moderni, posiamo lo sguardo sui vari rami delle nostre conoscenze e vedremo un certo numero di scuole fondate da qualche dotto di prim’ordine, dirette poi da un altro che per le sue qualità sia stato degno di succedergli e così via finché, mutate le circostanze, venendo meno lo spirito che la mantiene in vita la scuola muore in modo naturale. Oppure presentandosi qualche uomo intraprendente animato dallo spirito indomabile d’indipendenza, l’attacca e la distrugge per stabilire sulle sue rovine la nuova cattedra nel modo in cui riterrà opportuno.

Quando Cartesio sbalzò dal trono Aristotele, non vi si mise egli subito al

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suo posto? La turba dei filosofi che sbandieravano la loro indipendenza (indipendenza che però era smentita dal nome che portavano di Cartesiani), richiama alla mente quei popoli che durante una rivoluzione gridano libertà e rovesciano dal trono l’antico monarca per assoggettarsi poi all’uomo che abbia coraggio sufficiente per raccogliere lo scettro e il diadema che giacciono abbandonati ai piedi dell’antico trono.

Nel nostro secolo si crede, come già si credette nel precedente, che l’intelletto umano procede con assoluta indipendenza; e a furia di gridare contro l’autorità nel campo delle materie scientifiche, e di esaltare la libertà di pensiero, si è giunti a creare l’opinione che siano trascorsi i tempi nei quali l’autorità di un nome aveva qualche valore, e che adesso ogni saggio non ubbidisce che alle proprie ed intime convinzioni. A prova di questo si afferma che, screditati i sistemi e le ipotesi, ne ha preso il posto l’attitudine all’esame e all’analisi dei fatti: la qual cosa ha fatto sì che molti ritengono che non solo sia scomparsa interamente l’autorità nelle scienze, ma che siamo giunti ad un punto tale che non possa farvi più ritorno.

A prima vista potrebbe sembrare che questa sia una verità; ma se ci guardiamo attentamente intorno ci accorgeremo che l’unico risultato è stato quello di aumentare alquanto il numero dei capi e ridurre la durata del loro comando. Questa in cui viviamo è un’epoca di rivoluzioni letterarie e scientifiche del tutto simili a quelle politiche nelle quali i popoli immaginano di godere maggiore libertà soltanto perché vedono distribuito il comando in un maggior numero di persone, e perché hanno maggiori possibilità di disfarsi sovente dei governanti, distruggendo come tiranni quelli che prima chiamavano padri e liberatori; ma placato il primo furore lasciano il campo libero ad altri uomini che pongono loro un freno, talvolta un poco più scintillante, ma non meno forte e molesto. A parte i numerosi esempi che ci offre la storia delle lettere da un secolo a questa parte, non vediamo anche adesso nomi sostituiti da altri nomi, guide dell’intelletto umano sostituiti da altre guide?

Nel campo della politica dove può sembrare che domini soprattutto lo spirito di libertà, non valutiamo noi gli uomini che si affrontano vicendevolmente? E non li distinguiamo chiaramente come i generali di un esercito in una vera guerra? Nell’arena politica, non vediamo forse due o tre schieramenti di belligeranti che fanno le loro evoluzioni sotto gli ordini dei rispettivi capi nel più perfetto ordine e disciplina? Costoro, che si ergono a tali altezze, comprenderanno certamente molto bene questa verità! Ad essi che conoscono la nostra debolezza, che sanno bene come per ingannare gli uomini siano sufficienti le parole, mille volte saranno spuntate sulle labbra il sorriso quando, contemplando insuperbiti il campo dei loro trionfi, mentre si vedevano

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attorniati da una folla che si considera intelligente, che li ammira e li acclama con entusiasmo, avranno sentito alcuni dei più ferventi e devoti proseliti vantarsi di libertà illimitata e di assoluta indipendenza nelle proprie opinioni e nei voti.

Così è l’uomo: la storia e l’esperienza quotidiana ce lo mostrano così. L’ispirazione del genio, quella forza sublime che innalza l’intelletto di alcuni esseri privilegiati, eserciterà sempre non solamente sui semplici ed ignoranti, ma anche sulla massa comune dei dotti, un’azione incantatrice. Dove sta dunque l’oltraggio che la religione cattolica fa alla ragione umana quando nel momento stesso in cui le presenta i titoli che provano la sua divinità, ne esige la fede? Questa fede che l’uomo dispensa con tanta facilità ad un altro uomo in tutti i campi, ed anche in quelli che ritiene delle scienze più elevate, non potrà conferirla alla Chiesa cattolica senza che la propria dignità ne risulti diminuita? Sarà forse un’offesa alla ragione dell’uomo, indicargli una norma stabile che lo rassicuri riguardo ai punti più importanti, lasciandogli poi ampia libertà di pensare come più gli piaccia intorno a quel mondo che Dio ha lasciato alle dispute degli uomini? In tutto questo, cosa fa la Chiesa di diverso dall’andare in perfetto accordo con le lezioni della più alta filosofia, manifestare una conoscenza profonda dello spirito umano e liberarlo dai tanti mali che gli attirano la volubilità, l’incostanza e la velleità orgogliosa combinata in un modo così strano con questa facilità incredibile di affidarsi alla parola di un altro uomo? Chi non vede che con questo sistema la religione cattolica pose un argine allo spirito di proselitismo che tanti danni ha causato alla società? Dal momento che l’uomo ha questa irresistibile tendenza a seguire le orme di un altro uomo, non concede la Chiesa cattolica un grande beneficio all’umanità indicandole in modo sicuro la strada per cui deve andare se vuol seguire le orme di un Uomo-Dio? Non fornisce in tal modo essa un riparo alla dignità umana, salvando al momento opportuno da un terribile naufragio le conoscenze più necessarie all’individuo ed alla società (8)? Torna all’indice

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CAPITOLO VI Differenti necessità religiose dei popoli in relazione alle varie fasi della loro civiltà. Tenebre che si incontrano nell’applicarsi ai princìpi primi delle scienze. Scienze matematiche. Caratteri particolari delle scienze morali. Illusioni di alcuni ideologi moderni. Errore commesso dal Protestantesimo nella direzione religiosa dello spirito umano.

Contro l’autorità che esercita il suo giudizio sull’intelletto verranno senza dubbio opposte le ragioni del progresso della società e l’alto grado di civiltà e cultura a cui sono arrivate le nazioni moderne; esse verranno prodotte come attestato di giustizia in favore di ciò che viene detta emancipazione dell’intelletto. A mio giudizio questa risposta è tanto lontana dall’avere una qualche solidità, ed è tanto male appoggiata su ciò che essa pretende di avere per base, che invece del maggior progresso della società dovrebbe esprimere una più urgente necessità di una regola viva, così come è giudicata indispensabile dai Cattolici.

Dire che le società nella loro infanzia e adolescenza abbiano avuto bisogno di questa autorità come di un freno salutare, ma che questo freno è diventato inutile e degradante quando l’intelletto umano è giunto ad un maggiore sviluppo, vuol dire non conoscere bene le relazioni che intercorrono tra gli oggetti sui quali agisce tale autorità e le differenti condizioni del nostro intelletto.

La vera idea di Dio, l’origine, il destino e le norme di comportamento dell’uomo, e tutto l’insieme dei mezzi che Dio gli ha concesso per giungere al suo fine supremo: ecco gli oggetti sui quali interviene la fede e sui quali i Cattolici pretendono la necessità di una regola infallibile, sostenendo che se così non fosse non si potrebbero evitare i più tristi pervertimenti, né porre la verità al riparo dei sofismi umani.

Questa semplice considerazione dovrebbe essere sufficiente per convincere che il libero esame sarebbe assai meno pericoloso tra i popoli meno evoluti di quel che sia tra quelli che abbiano raggiunto un livello più avanzato di civiltà. In un popolo vicino all’infanzia si coglie naturalmente una notevole presenza di semplicità e purezza, disposizioni molto favorevoli per ricevere docilmente le lezioni contenute nel sacro Testo, assaporando quelle di facile comprensione e chinando la fronte dinanzi alla sublime oscurità di quelle zone che Dio ha voluto coprire col velo del mistero. Lo stato medesimo di questo popolo creerebbe in un certo modo un’autorità, perché non essendo ancora tentato dall’orgoglio e dalla smania di sapere, a ben pochi tra loro sarebbe dato il compito di esaminare il senso delle rivelazioni fatte da Dio all’uomo; e

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questo fatto costituirebbe in modo naturale il punto di partenza da cui diffondere l’insegnamento.

Accade invece tutt’altra cosa in un popolo già avanzato sulla strada del sapere. Perché l’estensione delle conoscenze ad un maggior numero d’individui, aumentando l’orgoglio e la volubilità, moltiplica le sétte in innumerevoli suddivisioni, e finisce col sovvertire tutti i princìpi e corrompere le tradizioni più pure. Essendo quel popolo meno evoluto, esente dalla vanità scientifica, impegnato in occupazioni semplici ed attaccato agli antichi costumi, ascolta con docilità e rispetto l’anziano venerabile, il quale circondato dai suoi figli e nipoti espone con tenera commozione le storie e i consigli che a sua volta aveva ricevuto dai suoi avi. Quando però la società è giunta ad un grande sviluppo; quando si è indebolito il rispetto verso i padri di famiglia, si è perduta la venerazione per la canizie; quando nomi pomposi, apparati scientifici, grandi biblioteche conducono l’uomo ad una grande opinione della forza del proprio intelletto; quando la diffusione e le attività delle comunicazioni spargono a grandi distanze le idee, e facendole fermentare col calore del movimento dànno loro quella forza magica che domina gli spiriti; allora sì, che per davvero è indispensabile un’autorità, la quale sempre attiva, sempre presente, sempre disposta ad accorrere dove la necessità lo richieda, copra col suo scudo tenace il sacro deposito delle verità immutabili nel variare dei tempi e dei paesi, senza la conoscenza delle quali l’uomo oscilla continuamente in balìa dei suoi errori e dei suoi capricci e procede con passo vacillante dalla culla al sepolcro. Su queste verità la società è poggiata come su solidissime fondamenta, rimuovendo le quali l’edificio perde la sua stabilità, oscilla, crolla e vien giù in pezzi. La storia letteraria e politica dell’Europa, da tre secoli in qua, ci fornisce fin troppe testimonianze di quanto ho appena affermato, dovendoci dolere che la rivoluzione religiosa scoppiò proprio nel momento più critico, perché trovando la società agitata da quelle attività dello spirito umano, ruppe l’argine proprio nel momento in cui c’era bisogno di rinforzarlo maggiormente.

Non è certo utile umiliare il nostro spirito addebitandogli i difetti che non ha o esagerando quelli che effettivamente gli appartengono, ma non conviene neanche insuperbirlo troppo apprezzando più del dovuto le sue qualità. Facendolo, a parte che sarebbe dannoso per diversi motivi, nuocerebbe anche allo stesso progresso; e se ben si osservi, è anche poco conforme al carattere rigoroso e cauto che deve essere il distintivo della vera scienza. La quale, se degna di questo nome, non deve essere tanto immatura da mostrarsi superba e vana per le cose che non le appartengono realmente, considerandole come se fossero di sua proprietà; ed è necessario che riconosca i limiti in cui è

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rinchiusa e sia tanto generosa e leale da ammettere la propria debolezza. La storia delle scienze evidenzia una particolarità che, nel momento in

cui manifesta la debolezza intrinseca dell’intelletto, fa toccare con mano quanta adulazione è contenuta negli elogi esagerati che alle volte gli vengono dispensati, e da qui si capisce il pericolo che si corre nell’abbandonarlo completamente a se stesso senza alcuna sorta di guida. Questo pericolo consiste nella presenza delle zone oscure che si vanno incontrando quando ci si muove ad investigare i segreti che circondano i princìpi primi delle scienze (comprese quelle che godono maggior fama per le loro verità, la loro evidenza ed esattezza), in modo tale che, nell’addentrarsi sino alle loro fondamenta, pare che si giunga infine su un terreno così poco solido e tanto pericoloso per cui l’intelletto, sentendosi poco sicuro e vacillante, torna indietro nel timore di scoprire qualcosa che getti l’incertezza e il dubbio su quelle verità, dell’evidenza delle quali si era compiaciuto.

Io non condivido certamente l’insofferenza di Hobbes per le scienze matematiche. Anzi, entusiasta come sono dei loro progressi, e profondamente convinto dei vantaggi che il loro studio arreca alle altre scienze e alla società, non potrei mai giungere a sminuirne il merito o a negar loro qualcuno dei titoli che le nobilitano. Ma chi arriverebbe a dire che esse sfuggono alla regola generale? Mancano forse in esse punti deboli e sentieri tenebrosi?

Certamente nell’esporre i princìpi di queste scienze considerate in tutta la loro astrazione, e nel trarre le proposizioni più elementari, l’intelletto procede su un terreno piano e libero da impedimenti, dove non s’immagina neppure che vi si possa incontrare il più lieve ostacolo. Ora voglio ignorare le ombre che l’ideologia e la metafisica potrebbero creare anche su questo cammino se si presentassero a disputare su alcuni punti basandosi sugli scritti di filosofi sconsiderati. Restando dunque nei confini entro i quali per loro natura sono contenute le matematiche: chi mai, fra gli esperti di queste scienze, non sa che avanzando nelle teorie s’incontrano certi punti in cui l’intelletto finisce in una zona d’ombra dove nonostante abbia sotto gli occhi la dimostrazione e ne abbia fatto uso in tutte le sue parti, si trova come vacillante e sente un non so che d’incerto di cui a mala pena giunge a rendersi conto? Chi non ha provato talvolta per esperienza che dopo lunghissimi ragionamenti nel tentativo di giungere alla verità, si ritrova come chi abbia scorta all’improvviso la luce del giorno dopo aver percorso per un lungo tratto un sentiero immerso nell’oscurità? Fissando allora l’attenzione su quei pensieri che passano per la mente come delle intuizioni istantanee, su quei movimenti quasi impercettibili che in simili casi nascono e muoiono continuamente nell’anima nostra, si osserva che l’intelletto in mezzo alle sue incertezze tende la mano

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istintivamente all’àncora che gli offre l’autorità di altri. E per rassicurarsi ulteriormente si fa sfilare davanti agli occhi le immagini di alcuni matematici illustri: e quanto si rallegra il cuore nel rendersi conto che l’intelletto si è liberato dal dubbio constatando che un certo numero di uomini illustri ha visto la cosa nella stessa maniera! Forse l’ignoranza e l’orgoglio si ribelleranno contro simili riflessioni? Studiate queste scienze, o almeno leggetene la storia, e vi convincerete che anche in queste s’incontrano molte prove della debolezza dell’intelletto dell’uomo.

La portentosa scoperta di Newton e di Leibnitz non trovò in Europa un gran numero di avversari? Non vi fu bisogno per confermarla che passasse del tempo e che la verità dei princìpi e l’esattezza dei ragionamenti venissero dimostrate dalle applicazioni pratiche? E credete forse che se adesso si presentasse di nuovo quest’invenzione nel campo delle scienze, come se fosse la prima volta ma munita di tutte le prove con cui è stata rinforzata, e circondata dalla luce di tanti riconoscimenti da cui è stata rischiarata; credete forse – ripeto – che non ci sarebbe bisogno ugualmente di un certo tempo affinché, convalidata (diciamo così) dal diritto di prescrizione, acquisti nei suoi domìni la tranquillità e la pace di cui attualmente gode?

Non c’è dubbio che anche le altre scienze vengono toccate in una certa misura da questa incertezza che trae origine dalla debolezza dello stesso spirito umano; e poiché mi sembra probabile che riguardo ad esse ci sia chi abbia da contraddirmi, passerò a presentare alcune riflessioni sul carattere particolare delle scienze morali.

Forse non si è osservato abbastanza che non c’è studio più ingannevole di quello delle verità morali; dico ingannevole, perché lusingando l’investigatore nel mostrargli una facilità illusoria, lo spinge su sentieri difficili da percorrere. Sono come quelle acque tranquille ma ingannevoli che sembrano poco profonde e nascondono invece un abisso profondissimo. Abituati come siamo alla loro terminologia fin dalla più tenera infanzia, vedendone intorno a noi le continue applicazioni, presentandosi in modo familiare, e trovandoci a parlarne in ogni momento con una certa semplicità su molti punti delle medesime, ci persuadiamo facilmente che debba riuscirci ugualmente facile uno studio profondo dei loro più alti princìpi e delle loro più delicate connessioni. Mirabile cosa! Appena usciamo dalla sfera del senso comune e ci allontaniamo da quelle stesse semplici espressioni che balbettando pronunciavamo in grembo a nostra madre, ecco che ci troviamo nel più intricato labirinto. Allora, se l’intelletto si abbandona ai propri sofismi, se non ascolta la voce del cuore che gli parla con tanta semplicità ed eloquenza, se non modera quel fuoco che gli comunica l’orgoglio, se con folle vanità non bada a

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ciò che gli prescrive saggiamente la prudenza, giunge perfino all’eccesso di disprezzare il deposito di quelle salutari e necessarie verità che la società conserva per trasmetterle di generazione in generazione; e camminando solo a tentoni in mezzo alle più dense tenebre finisce col gettarsi in quei precipizi di stravaganze e di deliri di cui la storia. delle scienze ci presenta tanti deplorevoli esempi.

Se si osserva bene qualcosa di simile si può notare in tutte le scienze. Perché il Creatore ha voluto che non ci mancassero quelle conoscenze necessarie per la nostra sopravvivenza e per giungere al nostro destino, ma non ha voluto soddisfare la nostra curiosità col rivelarci delle verità che non erano a noi necessarie. Tuttavia per alcune materie ha concesso all’intelletto una certa disposizione che lo rende capace di arricchire continuamente le sue conoscenze; ma riguardo alle verità morali lo ha lasciato in una completa sterilità. Quanto era necessario conoscere, o lo ha scolpito con caratteri semplicissimi ed intelligibili nel fondo del cuore, oppure l’ha consegnato in un modo assai chiaro e preciso nel sacro Testo, indicando l’autorità della Chiesa come regola fissa a cui rivolgersi per chiarire i propri dubbi. Tutto il resto poi lo ha lasciato in modo tale che l’intelletto, se si dispone a fantasticare e muoversi a capriccio, percorre continuamente la stessa strada, fa e disfa mille volte, incontrandovi ad un estremo lo scetticismo, ed all’altro la verità pura. Alcuni ideologi moderni forse contesteranno queste riflessioni, e contro la mia affermazione mostreranno i risultati dei loro lavori analitici. «Quando non si era giunti all’analisi dei fatti – essi diranno, – quando si andava errando tra sistemi vaghi e si accettavano le definizioni senza sottoporle ad esame e senza discernimento, allora tutto questo poteva essere vero. Ma adesso che abbiamo chiarito del tutto in senso morale le idee del bene e del male, che abbiamo spiegato quanto in esse vi fosse del pregiudizio e quanto di filosofico, che abbiamo fondato l’intero sistema morale su princìpi tanto semplici quali il piacere e il dolore, che abbiamo dato in queste materie idee tanto limpide come quelle delle varie sensazioni che un’arancia produce in noi; dire ora tutto questo è un segno d’ingratitudine nei confronti delle scienze, è un non voler riconoscere il frutto delle nostre fatiche». A me non sono ignote le fatiche di alcuni nuovi ideologi-moralisti, allo stesso modo che non mi è ignota l’ingannevole semplicità con cui vanno svolgendo le loro teorie dando alle materie più difficili un tale aspetto di facilità e di linearità perché secondo loro tutto deve risultare alla portata delle più limitate intelligenze. Non è questo il luogo opportuno per sottoporre ad esame codeste teorie e indagini analitiche; osserverò soltanto che nonostante tutta questa semplicità non sembra che la società e la scienza tenga loro dietro, e che le loro opinioni, nonostante siano

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recenti, sono già vecchie. E non è cosa strana, perché si vede facilmente che ad onta del loro positivismo, se mi è permesso di fare uso di questa parola, tali ideologi si fermano alle ipotesi, come accadeva a molti dei loro predecessori che essi sbeffeggiano e disprezzano. Scuola piccola e di spirito limitato, la quale senza essere in possesso della verità non ha neanche quella bellezza con cui i brillanti sogni di grandi uomini adornano le altre. Scuola orgogliosa e visionaria, che crede di conoscere a fondo un fatto quando invece l’oscura, e di fornire le prove solo perché l’afferma; e trattandosi di connessioni morali, immagina di analizzare il cuore solo perché lo scompone e lo seziona.

Se tale è il nostro intelletto, se tanta è l’apertura nei confronti di tutte le scienze, e la sterilità nelle cognizioni di ordine morale nelle quali non ha potuto progredire minimamente oltre ciò che gli ha insegnato l’amorevole Provvidenza, che beneficio ha fatto il Protestantesimo alle società moderne rifiutando l’autorità, l’unica in grado di porre un argine ai dolorosi traviamenti? (9) Torna all’indice

CAPITOLO VII Indifferenza e fanatismo: due estremi opposti introdotti in Europa dal Protestantesimo. Origine del fanatismo. Servizio importante prestato dalla Chiesa alla storia dello spirito umano. La Bibbia abbandonata al libero esame; sistema erroneo e funesto del Protestantesimo. Importante testo di O’Callaghan. Rappresentazione della Bibbia.

Rigettata che ebbe il Protestantesimo l’autorità della Chiesa, e appoggiatosi su questo suo principio come unico fondamento, ha dovuto cercare nell’uomo tutto il suo sostegno. E lo spirito umano del quale aveva così scarse cognizioni, così come del suo vero carattere e delle sue relazioni con le verità religiose e morali, gli ha aperto ampi spazi per precipitarsi, secondo le diverse circostanze, verso due estremi tanto opposti fra loro quanto lo sono il fanatismo e l’indifferenza.

Sembrerà forse strano un simile accostamento, e che traviamenti così opposti possano avere la medesima origine, eppure non vi è cosa più certa perché le testimonianze della storia sono lì a confermare le lezioni della filosofia. Poiché il Protestantesimo nelle materie religiose fa appello esclusivamente all’uomo, non aveva che due mezzi per farlo: o supporlo, nel raggiungere la verità, ispirato dal cielo, o assoggettare tutte le verità religiose all’esame della ragione. Vale a dire: o l’ispirazione, o la filosofia. Il sottomettere le verità religiose al giudizio della ragione doveva produrre presto

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o tardi l’indifferenza; viceversa l’ispirazione personale, o lo spirito privato, doveva necessariamente portare al fanatismo.

Nella storia dello spirito umano si riscontra un ricorrente fenomeno universale: si tratta della forte inclinazione dello spirito ad immaginare sistemi che, prescindendo del tutto dalla realtà delle cose, presentino solamente l’opera d’un ingegno che si è proposto di uscire dal sentiero comune per seguire senza alcun vincolo l’impulso delle proprie ispirazioni. La storia della filosofia presenta raramente altre situazioni che non siano una ripetizione costante di questo fenomeno; e per quanto riguarda le altre materie lo spirito umano non ha tralasciato di riprodurlo sotto una o l’altra forma. L’intelletto, una volta concepita una propria idea, la guarda con quella predilezione esclusiva e cieca con cui un padre contempla i suoi figli; e sviluppandola con tale apprensione, adatta ad essa tutti i casi e le conforma tutte le riflessioni. Ciò che all’inizio non era altro che un pensiero ingegnoso e stravagante si trasforma ben presto in un germe dal quale nascono vasti corpi di dottrina. E se quella dove è sorto tale pensiero è una testa calda guidata da un cuore ardente, il calore provoca la fermentazione, e questa il fanatismo propagatore di tutti i deliri.

Questo pericolo è più grave soprattutto quando il nuovo sistema viene applicato su materie religiose od altre che con esse hanno un rapporto diretto. In tal caso le stravaganze dello spirito allucinato si trasformano in ispirazioni del cielo, la fermentazione del delirio in una fiamma divina, e la mania di distinguersi dalla massa in vocazione straordinaria. Non potendo l’orgoglio accettare che qualcosa gli si opponga, si scaglia furioso contro tutto ciò che trova di già stabilito; e insultando l’autorità, attaccando tutte le istituzioni e disprezzando le persone, nasconde la più grossolana violenza sotto il manto dello zelo e dissimula l’ambizione mascherandola in apostolato. Il miserabile maniaco, talvolta più visionario che seduttore, giunge sventuratamente ad essere profondamente persuaso che le sue dottrine sono vere e che a lui fosse stato concesso di udire il verbo divino; e presentando nel suo linguaggio demente qualcosa di singolare e di straordinario, trasmette negli uditori una parte della sua pazzia e acquista in breve tempo un numero considerevole di proseliti. In verità non sono molti ad essere capaci di rappresentare la parte principale in questa scena di pazzia, ma disgraziatamente gli nomini sono talmente insensati da lasciarsi trascinare dal primo che si lanci audacemente in una simile impresa. Infatti la storia e l’esperienza ci hanno sufficientemente insegnato che per attirare un gran numero di uomini basta una parola; e per formare un partito, per quanto malvagio, stravagante e ridicolo, è sufficiente alzarne la bandiera.

È ora il caso di segnalare un fatto che non so se altri abbiano osservato:

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che la Chiesa nelle sue lotte contro l’eresia ha prestato un servizio eminente alla scienza che indaga sul vero carattere, le inclinazioni e la capacità dello spirito umano. Gelosa depositaria qual è di tutte le grandi verità, la Chiesa ha sempre agito per conservarle intatte; e conoscendo a fondo la debolezza dell’intelletto umano e la sua grande propensione per le follie e le stravaganze, ne ha seguito sempre da vicino i passi, l’ha tenuto d’occhio in tutti i suoi movimenti, respingendone con energia i tentativi impotenti quando esso ha cercato di corrompere la sorgente purissima di cui la Chiesa è in possesso. Nelle forti e lunghe lotte sostenute contro di esso, ne ha svelata l’incurabile pazzia, ne ha messo in luce tutti i risvolti, lo ha mostrato in tutte le sue fasi raccogliendo nella storia delle eresie un ricchissimo patrimonio di fatti, un quadro interessantissimo dove appare il ritratto dello spirito umano nelle sue vere dimensioni, nel suo aspetto caratteristico e nelle sue sfumature. Quadro di cui approfitterà senza dubbio quel genio a cui è riservata l’opera meritoria (che tuttavia è ancora da farsi): la vera storia dello spirito umano (10).

In quanto alle stravaganze e ai deliri del fanatismo, da tre secoli a questa parte la storia d’Europa non ne è per niente scarsa. Lo confermano le numerose testimonianze: ovunque ci volgiamo troveremo che le sétte fanatiche nate in seno al Protestantesimo, derivate dal principio fondamentale di esso, hanno lasciate impresse orme di sangue. Contro il torrente devastatore nulla poterono né la violenza del carattere di Lutero né i furibondi sforzi con cui egli si opponeva a quanti insegnavano dottrine diverse dalle sue. Alle empietà seguirono ben presto altre empietà, alle stravaganze altre stravaganze, al fanatismo altro fanatismo, avvenendo così che la falsa riforma fu subito infranta e divisa in tante sétte, tutte più o meno violente quanto lo furono le teste di coloro che unirono alla scellerata creatività nel generare un sistema, un carattere sufficientemente risoluto per alzarne la bandiera. E non poteva accadere diversamente, proprio perché oltre al pericolo derivante dal lasciare solo lo spirito umano al cospetto di tutte le questioni religiose, c’era anche una circostanza che doveva produrre tragici risultati: l’interpretazione del Sacro Testo affidata allo spirito privato.

Si mostrò allora in tutta la sua evidenza che il più grande abuso è quello che vien fatto su ciò che esiste di più sublime: questo Libro ineffabile, in cui è diffusa tanta luce per l’intelletto e tante consolazioni per il cuore umano, è altamente dannoso allo spirito superbo. Il quale unisce all’ostinata volontà di resistere ad ogni autorità in materia di fede l’illusoria convinzione che la Sacra Scrittura sia un libro comprensibile in tutte le sue parti, e che in ogni caso non mancherà l’ispirazione del cielo per dissipare i dubbi che potrebbero insorgere; oppure ne scorre le pagine spinto dalla voglia d’incontrare qualche passo che,

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forzandone più o meno il significato, possa servire di sostegno a sottigliezze, cavilli, o progetti insensati.

Non c’è errore peggiore di quello che commisero i fondatori del Protestantesimo mettendo la Bibbia in mano a tutti, infondendo nello stesso tempo l’illusione che ogni Cristiano sia in grado d’interpretarla: non vi è modo migliore per far dimenticare cosa sia la Sacra Scrittura. È ben vero che al Protestantesimo non restava altro mezzo, e che tutti gli ostacoli che esso stesso poneva alla completa libertà d’interpretazione del Sacro Testo costituivano una fastidiosa incoerenza, un’apostasia dei suoi stessi princìpi, una deliberata ignoranza della propria origine; ma proprio per questo ne è anche la più decisa condanna. Infatti, quali sono i titoli di verità e di santità che potrà mai presentarci una religione che racchiude nel suo principio fondamentale il germe delle più fanatiche sétte dannose alla società?

Sarebbe difficile mettere insieme in breve spazio tanti fatti, riflessioni e prove convincenti contro quest’errore fondamentale del Protestantesimo, così come ha fatto un autore protestante. Si tratta di O’Callaghan, e non dubito che il lettore sarà ben lieto che ne riporti le parole.

«Guidati – egli dice – i primi riformatori dal loro spirito di opposizione alla Chiesa romana, reclamarono ad alta voce il diritto d’interpretare le Scritture secondo il giudizio personale di ciascuno… Ma, ansiosi di affrancare il popolo dall’autorità del romano Pontefice, proclamarono questo diritto senza spiegazioni e senza restrizioni, e le conseguenze furono terribili . Impazienti di minare alla base la giurisdizione papale sostennero, senza porre limitazioni, che ogni individuo ha il diritto incontrastabile d’interpretare da se stesso la Sacra Scrittura. E siccome questo principio preso alla lettera non era sostenibile decise, per renderlo più saldo, di rinforzarlo con un altro principio, quello cioè che la Bibbia è un libro facile e alla portata di tutti e che ciò che vi è di più inscindibile dalla divina rivelazione è di grande comprensione. Questi due princìpi, sia che si considerino separatamente, che collegati tra loro, sono inadatti a reggere un serio attacco.

«Il giudizio privato di Muncero scoprì nella Scrittura che i titoli nobiliari e le grandi proprietà sono un’usurpazione empia e contraria all’uguaglianza naturale dei fedeli, ed invitò i suoi seguaci ad esaminare se questo fatto corrispondeva o meno alla verità. I settari esaminarono la cosa, lodarono Dio e si misero quindi ad estirpare gli empi col ferro e col fuoco, impossessandosi dei loro beni. Il giudizio privato credette anche di aver scoperto nella Bibbia che le leggi stabilite erano una restrizione permanente della libertà cristiana. Ed ecco Giovanni di Leyde gettare via gli attrezzi del mestiere, porsi alla testa di un plebaglia fanatica, conquistare la città di Münster, autoproclamarsi re di Sion e

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prendersi quattordici mogli in un sol colpo assicurando che la poligamia era una delle libertà cristiane e il privilegio dei santi. Ma se la pazzia criminale dei cittadini di altre nazioni rattrista chi è dotato di umanità e di un comune senso della pietà, non lo consolerà certo la storia d’Inghilterra durante un lungo tratto del diciassettesimo secolo. In questo periodo si levò una moltitudine di fanatici ora tutt’insieme, ora gli uni che seguivano gli altri, infiammati da dottrine stravaganti e da insane passioni: dal feroce delirio di Fox fino alla pazzia metodica di Barclay; dal formidabile fanatismo di Cromwel fino alla sciocca empietà di PraiseGod-Barebones. La pietà, la ragione e il buon senso parvero esiliati dal mondo, e vi si erano posti in loro vece una stravagante confusione di voci, una frenesia religiosa ed uno zelo insensato. Tutti citavano la Scrittura, tutti pretendevano di avere avuto ispirazioni, visioni, estasi. E con lo stesso fondamento sia gli uni che gli altri lo reclamavano per vero.

«Si sosteneva con molto rigore che era necessario abolire il sacerdozio e la dignità reale perché i sacerdoti erano servi di Satana e i re i delegati della prostituta di Babilonia, e che l’esistenza degli uni e degli altri era incompatibile col regno del Redentore. Questi fanatici condannavano la scienza come invenzione pagana, e le università come seminari dell’empietà anticristiana. Il Vescovo non era garantito dalla santità delle sue funzioni, né il re dalla maestà del trono: l’uno e l’altro erano oggetto di disprezzo e di odio e venivano scannati senza pietà da quei fanatici, per i quali l’unico libro era la Bibbia senza note e senza commenti. In quel tempo erano molto vivi l’entusiasmo per l’orazione, la predicazione e la lettura dei libri santi: tutti pregavano, tutti predicavano, tutti leggevano, ma nessuno ascoltava. Per mezzo della Sacra Scrittura si giustificavano le maggiori atrocità; nei più normali impegni della vita si usava il linguaggio della Sacra Scrittura; negli affari interni della nazione e nei suoi rapporti esterni si trattava con frasi della Scrittura; con la Scrittura si tramavano cospirazioni, tradimenti, proscrizioni; e tutto veniva non solo giustificato, ma anche legittimato con citazioni della Sacra Scrittura. Questi fatti storici hanno spesso intimorito le persone oneste e sgomentato le anime pie; ma il lettore troppo imbevuto dei propri sentimenti dimentica la lezione contenuta in quest’esperienza terribile, cioè che la Bibbia senza spiegazione e senza commenti non deve essere letta da uomini grossolani ed ignoranti.

«La maggior parte del genere umano deve accontentarsi di ricevere da altri l’insegnamento, non essendole possibile avvicinarsi alle fonti della scienza. Quanto alle verità più importanti in medicina, in giurisprudenza, in fisica, in matematica, deve riceverle da coloro che le attingono alle prime fonti; e per quanto riguarda il Cristianesimo generalmente è sempre stato seguìto lo

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stesso metodo. Ogniqualvolta si è trascurato di attenervisi, la società è stata scossa fin dalle sue fondamenta».

Queste parole di O’Callaghan, che certamente non potranno essere tacciate d’iperboliche o magniloquenti, non hanno bisogno di commenti, non essendo altro che un semplice ed obiettivo resoconto di fatti abbastanza noti. Il solo ricordarli dovrebbe bastare per convincerci dei pericoli che comporta mettere nelle mani di chiunque la Sacra Scrittura senza note e senza commenti, come fa il Protestantesimo accreditando l’errore di ritenere che per l’intelligenza del sacro testo sia inutile l’autorità della Chiesa e che ogni Cristiano non ha bisogno d’altro che di ascoltare ciò che gli dettano insistentemente le sue passioni e i suoi deliri. Anche se il Protestantesimo non avesse commesso altro errore che questo, sarebbe già sufficiente per condannarsi e biasimarsi da sè: altro non può dirsi di una religione che stabilisce un principio che provoca la sua stessa dissoluzione.

Per valutare adeguatamente l’imprudenza con cui procede il Protestantesimo e la posizione falsa e pericolosa nella quale si è messo nei confronti dello spirito umano non è necessario essere teologi, né Cattolici: basta aver letto la Sacra Scrittura anche soltanto con l’atteggiamento di un letterato o di un filosofo. La Bibbia: un libro che racchiudendo in un breve quadro l’enorme spazio di quattromila anni e avanzando fino alla profondità del più lontano avvenire comprende l’origine e i destini dell’uomo e dell’universo; che presentando la storia particolare di un popolo eletto rievoca nelle sue narrazioni e profezie gli sconvolgimenti dei grandi imperi; un libro in cui, accanto ai magnifici ritratti nei quali sono descritti la potenza, il lusso e lo splendore dei monarchi d’Oriente, vi è la sobria pennellata con la quale è descritta la semplicità dei costumi domestici, il candore e l’innocenza di un popolo nella sua infanzia; dove lo storico narra, il dotto pronuncia serenamente le sue sentenze, l’apostolo predica e il dottore insegna e dibatte; un libro dove un profeta dominato dallo Spirito divino tuona contro la corruzione e i traviamenti di un popolo, annuncia le terribili vendette del Dio del Sinai, piange inconsolabile la schiavitù dei suoi fratelli, la devastazione e la lontananza della sua patria, racconta in un insolito e sublime linguaggio i magnifici spettacoli che nei momenti di estasi gli scorrevano davanti agli occhi attraverso foschi veli, misteriose figure, simboli oscuri e apparizioni enigmatiche che rappresentavano i grandi eventi della società e le catastrofi della natura. Un libro, o piuttosto un insieme di libri, dove si rintracciano tutti gli stili e le più diverse sfumature, si scorgono sparse o mescolate insieme la maestà epica e la semplicità pastorale, l’ardore lirico e l’equilibrio didattico, il passo grave e sostenuto della narrazione storica e la rapidità e vivacità del

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dramma. Un insieme di libri scritti in diversi tempi e luoghi, in varie lingue e nelle circostanze più singolari e straordinarie: come potrà non sconvolgere da capo a fondo la mente orgogliosa di chi ne scorre a tentoni le pagine ignorando i climi, i tempi, le leggi, gli usi e i costumi; oppressa da illusioni che la confondono, da immagini che la sorprendono, da espressioni linguistiche scritte in secoli molto remoti e quindi incomprensibili per chi conosce l’Ebreo e il Greco moderni? Che effetto possono produrre tutti questi aspetti qualora il lettore ritenga che la Sacra Scrittura sia un libro facilissimo che si presta all’intelligenza di chiunque senza alcun problema; e che al presentarsi di qualche difficoltà non sia necessario leggere i chiarimenti di qualcuno, bastandogli le proprie riflessioni oppure il raccogliersi in se stesso per dare attentamente ascolto all’ispirazione divina che gli solleverà il velo che cela i più alti misteri? Chi potrà meravigliarsi che tra i Protestanti si siano visti dei visionari così ridicoli e dei fanatici così furiosi? (11) Torna all’indice

CAPITOLO VIII Il fanatismo. Sua definizione. Sue relazioni col sentimento religioso. Impossibilità di distruggerlo. Mezzi per ridurlo. Il Cattolicesimo ha posto in pratica questi mezzi con molta prudenza. Osservazioni sui presunti fanatici cattolici. Veri caratteri dell’esaltazione religiosa dei fondatori di ordini religiosi.

Sarebbe ingiusto chiamare falsa una religione solamente perché tra i suoi seguaci ci sono dei fanatici. Significherebbe demolirle tutte, non essendo possibile trovarne una che sia esente da questa piaga. Non è qui il male, che cioè da una religione vengano fuori dei fanatici; ma piuttosto nel fatto che essa li formi, li ecciti al fanatismo o spalanchi loro una porta attraverso la quale giungere ad esso. Se si osserva bene, nel fondo del cuore umano c’è un principio di fanatismo, e la storia dell’uomo ci fornisce tante di quelle prove che difficilmente si troverà un’altra realtà più evidente di questa. Inventate una qualunque fantasticheria, raccontate la visione più stravagante, elaborate il più astruso sistema, abbiate però cura di dargli subito una parvenza religiosa. Allora potrete star sicuri che non vi mancheranno proseliti entusiasti che si prenderanno cura di sostenere i vostri dogmi e di divulgarli, e sposeranno la vostra causa con mente cieca e cuore ardente: questo significa che avrete sotto la vostra bandiera un gruppo di fanatici.

Alcuni filosofi hanno scritto molte pagine di invettive contro il fanatismo

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e si sono impegnati a bandirlo dal mondo, ora dando agli uomini noiose lezioni filosofiche, ora impiegando contro il mostro tutta la forza di una micidiale oratoria. È ben vero peraltro che alla parola fanatismo hanno dato un’estensione così ampia che in tale denominazione comprendono ogni tipo di religione.

Ciononostante io credo che anche quando si fossero limitati a combattere il vero fanatismo, avrebbero fatto molto meglio, senza tanto affaticarsi, a dedicare un po’di tempo a questa materia per esaminarla con spirito analitico, illustrandola dopo un attento esame senza pregiudizio, con equilibrio e moderazione.

Se fossero stati filosofi giudiziosi e prudenti, vedendo che si trattava di un vizio inerente allo spirito umano avrebbero capito di avere ben poca speranza di bandire dal mondo il disgraziato mostro con i ragionamenti e l’eloquenza, perché finora non s’è mai visto che la filosofia sia riuscita a guarire alcuna di quelle gravi infermità che appartengono al patrimonio della stirpe umana. Fra tanti errori che ha commesso la filosofia del diciottesimo secolo uno dei più gravi è stata la mania dei tipi. Della natura dell’uomo, della società, di tutto insomma si è immaginata un tipo nella sua mente, e tutto ha dovuto adattarsi a quel tipo; e tutto ciò che non ha potuto ripiegarsi ed adattarsi a quella forma ha ricevuto dalla filosofia una punizione tale che, come minimo, ha dovuto soffrire la pena della sua scarsa flessibilità.

Ma allora: si può negare che nel mondo vi sia del fanatismo? E molto pure! Potrà negarsi che sia un male? E grave assai! Come si potrebbe estirpare? In nessuna maniera. Come si potrà diminuirne la diffusione, ridurne la forza, frenarne la violenza? Fornendo all’uomo una buona guida. E allora, non sarà con la filosofia? Ora lo vedremo!

Qual è l’origine del fanatismo? Per prima cosa bisogna stabilire il vero significato di questa parola. Per fanatismo, se si prende nel senso più comune, s’intende una viva esaltazione dell’animo fortemente dominato da un’opinione falsa o esagerata. Se l’opinione è vera e contenuta nei suoi giusti limiti non si giunge al fanatismo, e se talvolta vi si giungesse sarebbe per via dei mezzi che si adoperano nel difenderla; in tal caso s’incorrerà in un giudizio sbagliato dovuto al fatto che, trattandosi di un’opinione vera, ci si sentirebbe autorizzati a far uso di quei mezzi, e questo porterà ad un errore o ad una esagerazione. Ma se l’opinione è vera, se i mezzi per difenderla sono legittimi e l’occasione opportuna, in tal caso non si ha fanatismo per quanto grande sia l’esaltazione dell’animo, per viva che ne sia l’esuberanza, vigorose le forze che s’impiegano e gravosi i sacrifici cui si va incontro. In questo caso vi sarà entusiasmo nell’animo, eroismo nell’azione, ma mai fanatismo; altrimenti gli eroi di tutti i

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tempi e di tutti i paesi sarebbero bollati col nome infamante di fanatici. Inteso così nella sua generalità, il fanatismo si estende a tutti gli oggetti

di cui si occupa lo spirito umano; e così vi sono fanatici in materia di religione, nella politica, e perfino nelle scienze e nella letteratura. Tuttavia il significato più pertinente della parola fanatismo, non solo in senso etimologico, ma anche nell’uso comune, è quando si applica a materie religiose. Per questo motivo il solo nome di fanatico, senza alcuna aggiunta, esprime un fanatico in religione; quando invece si applica ad altre materie deve essere accompagnato da ciò che lo qualifica: così si dice fanatici politici, fanatici in letteratura, ed altre simili espressioni.

Non c’è dubbio che riguardo alla religione l’uomo abbia una notevole propensione a lasciarsi dominare da un’idea, ad esaltarsi nell’animo in favore di essa, a trasmetterla a quanti gli stanno intorno, a propagarla ovunque, giungendo spesso ad impegnarsi nel comunicarla agli altri anche con i mezzi più violenti.

Pur se in minor misura ciò avviene anche nelle materie non religiose; ma è innegabile che in quelle religiose il fenomeno acquista un carattere che lo distingue da quanto accade in altri campi. Nelle cose di religione l’anima dell’uomo acquista una nuova forza, un’energia terribile, un’espansione senza limiti: per lui non vi sono difficoltà, non vi sono ostacoli o imbarazzi di alcun genere. Gl’interessi materiali spariscono del tutto, i maggiori patimenti diventano attraenti, sono nulla i tormenti e la stessa morte costituisce un evento che non ripugna.

Il fenomeno assume varie forme secondo le persone nelle quali si verifica e secondo le idee e i costumi del popolo in mezzo al quale avviene, ma fondamentalmente rimane lo stesso; e se esaminiamo la cosa alla sua radice troveremo che, tanto le violenze dei settari di Maometto, quanto le stravaganze dei discepoli di Fox hanno la stessa origine.

Qui accade ciò che avviene nelle altre passioni, le quali se producono i peggiori mali è perché deviano dall’oggetto legittimo o vi si dirigono con mezzi che non sono conformi a ciò che la ragione e la prudenza suggeriscono. Se si osserva bene, il fanatismo non è altro che il sentimento religioso deviato; sentimento che l’uomo porta con sé dalla culla al sepolcro ed è diffuso nella società in tutti i periodi della sua esistenza. Finora è stato sempre vano l’impegno di rendere irreligioso l’uomo: ora l’uno ora l’altro individuo si è lasciato andare ai deliri d’una completa irreligione, ma la gente ha sempre protestato contro quell’individuo che affoga nel cuore il sentimento religioso. Poiché questo sentimento è tanto forte, vivo, potente nell’esercitare sull’uomo un’influenza illimitata, che appena si allontana dal suo legittimo oggetto,

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appena fuorvia dal giusto sentiero produce subito risultati funesti: conseguenza immediata del combinarsi di due cause atte a provocare i più grandi disastri: la cecità assoluta dell’intelletto, ed una irresistibile energia nella volontà.

Quando si è incominciato a predicare contro il fanatismo una buona parte dei Protestanti e dei filosofi non si è fatta scrupolo di attribuire alla Chiesa cattolica questa fama, benché avrebbe dovuto certamente parlarne con maggiore circospezione, almeno in ossequio alla buona filosofia. Senza dubbio la Chiesa non si glorierà di aver potuto curare tutte le follie degli uomini; come non pretenderà certo di aver bandito del tutto il fanatismo di mezzo ai suoi figli in modo tale da non essersi più visti di quando in quando alcuni fanatici nel suo seno. Si può gloriare però, come nessun’altra religione, di essersi impegnata al massimo per curare questo vizio dello spirito umano. È certo inoltre che essa ha preso le sue misure in modo da bloccare sul nascere un principio di fanatismo, circoscrivendolo in modo tale che potrà delirare per qualche tempo, ma non produrrà mai conseguenze disastrose.

Questi traviamenti dell’intelletto, questi sogni di delirio che col passar del tempo, se allevati e rinvigoriti, trascinano l’uomo alle peggiori stravaganze e perfino ai più orribili delitti, si spengono normalmente sul nascere quando nel fondo dell’anima risiede la saggia persuasione della propria debolezza e il rispetto e la sottomissione ad un’autorità infallibile. E sebbene talvolta non si giunge a soffocare il delirio sul nascere, almeno rimane isolato e circoscritto a certi fenomeni più o meno verosimili, lasciando però intatto il deposito della vera dottrina e senza rompere quei vincoli che uniscono strettamente tutti i fedeli come membra del medesimo corpo. Si tratta di rivelazioni, di visioni, di profezie, di estasi? Finché tutto questo mantiene un carattere privato e non si estende alle verità della fede, generalmente la Chiesa dissimula, si astiene dal prendervi parte e tace, lasciando ai critici la discussione dei fatti e ai comuni fedeli ampia libertà di pensare ciò che più loro aggrada. Ma se le cose assumono un aspetto più grave, se il visionario fa delle dichiarazioni su alcuni punti della dottrina, vedrete immediatamente scendere in campo lo spirito di vigilanza. La Chiesa tende attentamente l’orecchio per ascoltare se vi s’inserisce qualche voce che faccia deviare dall’insegnamento del divino Maestro; fissa un’occhiata osservatrice sul nuovo predicatore per vedere se in lui si manifesta l’uomo allucinato ed errante in materia di dogma, o si cela il lupo coperto con pelle di pecora. In tal caso alza subito il grido, avverte tutti i fedeli dell’errore o del pericolo, e chiama con la voce del pastore la pecorella smarrita. Se questa non ascolta, se vuole seguire i suoi capricci allora la separa dal gregge, la dichiara come lupo, e d’allora in poi l’errore e il fanatismo saranno lontani da chiunque voglia perseverare nel seno della Chiesa.

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I Protestanti non mancheranno certamente di rinfacciare ai Cattolici la moltitudine di visionari che ha avuto la Chiesa, ricordando le rivelazioni e le visioni di molti santi che veneriamo sugli altari. Allo stesso modo ci rinfacceranno il fanatismo che non ha riguardato solo una cerchia limitata perché secondo loro è stato sufficiente a produrre i più notevoli effetti. «I soli fondatori degli ordini religiosi – diranno essi – non presentano forse lo spettacolo di un gruppo di fanatici che, esaltati essi stessi, esercitavano sugli altri con la loro parola e il loro esempio l’influenza più seduttrice che mai si sia vista»? Siccome non è questo il luogo per trattare diffusamente il fenomeno delle comunità religiose, cosa che mi propongo comunque di fare in un’altra parte di quest’opera, mi limiterò ad osservare che anche ammettendo che tutte le visioni e rivelazioni dei nostri santi e le ispirazioni del cielo di cui si credevano favoriti i fondatori degli ordini religiosi altro non fossero che pura illusione, gli avversari non avrebbero per questo maggior ragione d’imputare alla Chiesa cattolica l’accusa di fanatismo. Già abbiamo visto poc’anzi che per quanto riguarda le visioni di una persona, finché sono limitate alla sfera individuale, vi potrà essere illusione e, se proprio si vuole, anche fanatismo; ma sarà un fanatismo che non farà danno a nessuno e non giungerà mai a produrre disastri nella società. Che una povera donnicciola si creda favorita con particolari benefìci dal cielo; che si figuri di ascoltare con frequenza la parola della Vergine; che s’immagini di parlare con gli angeli e che questi le portino ambasciate da parte di Dio: tutto questo potrà eccitare la credulità degli uni e il sarcasmo degli altri, ma senza alcun dubbio non costerà alla società né una goccia di sangue, né una sola lacrima.

E i fondatori degli ordini religiosi, quali segnali ci dànno di fanatismo? Anche se prescindessimo dal profondo rispetto che meritano le loro virtù e dalla gratitudine che l’umanità deve loro per gl’inestimabili benefìci che le hanno dispensato; anche se volessimo supporre che s’ingannarono in tutte le loro ispirazioni: potremmo chiamarli illusi, ma non fanatici. Difatti non troviamo in loro né frenesia, né violenza: sono uomini che diffidano di se stessi, che invece di credersi chiamati dal cielo per qualche grande impresa non ardiscono di dare inizio all’opera senza essersi prostrati ai piedi del Sommo Pontefice, sottomettendo al suo giudizio le regole con cui pensavano di fondare il nuovo ordine, chiedendogli istruzione, assoggettandosi docilmente al suo giudizio, e nulla intraprendendo senz’averne da lui ottenuta licenza. E poi, che somiglianza vi è mai tra i fondatori degli ordini religiosi e quei fanatici che si trascinano dietro una moltitudine di furibondi, i quali ammazzano e distruggono dappertutto lasciando ovunque tracce di sangue e di cenere? In un fondatore di ordini religiosi vediamo un uomo dominato fortemente da un’idea

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che s’impegna di condurre a termine a costo anche dei maggiori sacrifici: ma vediamo comunque un’idea ferma portata avanti in un sistema ordinato in vista di un fine altamente religioso e sociale. Vediamo soprattutto questo sistema assoggettato al giudizio di un’autorità, esaminato con discussione ponderata e corretto o ritoccato nel modo più conforme alla prudenza. Un filosofo imparziale, qualunque siano le sue opinioni religiose, in tutto questo potrà vedervi più o meno illusione, più o meno prevenzione, più o meno prudenza e consiglio, ma non fanatismo, in nessun modo, perché qui non vi è nulla che presenti una simile caratteristica (12). Torna all’indice

CAPITOLO IX Incredulità e indifferenza religiosa introdotte in Europa dal Protestantesimo. Sintomi fatali che li manifestarono subito. Grande crisi religiosa avvenuta nell’ultima parte del diciassettesimo secolo. Bossuet e Leibnitz. I Giansenisti: loro influenza. Dizionario di Bayle: osservazioni sull’epoca di tale pubblicazione. Condizione deplorevole delle credenze tra i Protestanti.

Il fanatismo settario, nutrito e ravvivato in Europa dal Protestantesimo con l’ispirazione privata, è sicuramente una piaga profonda e molto grave; nonostante ciò la sua natura non è altrettanto maligna e spaventosa quanto quella dell’incredulità e dell’indifferenza religiosa: mali funesti nelle società moderne derivanti in gran parte dalla pretesa riforma. Radicati nel principio medesimo che forma la base del Protestantesimo, generati o provocati dallo scandalo di tante e così stravaganti sétte che si definiscono cristiane, questi mali cominciarono già a manifestarsi con gravi sintomi nello stesso sedicesimo secolo. Con l’andar del tempo giunsero a diffondersi grandemente infiltrandosi in tutti gli ambienti scientifici e letterari, trasmettendo al parlare comune le loro espressioni e significati e mettendo in pericolo tutte le conquiste che il genere umano aveva fatte nell’arco di molti secoli a vantaggio della civiltà e della cultura.

Nello stesso sedicesimo secolo, nel fervore delle guerre religiose e delle dispute accese dal Protestantesimo, l’incredulità prendeva sempre più piede in modo da creare forti preoccupazioni, ed è probabile che fosse ancora più diffusa di quanto sembrava, perché non le parve opportuno levarsi subito la maschera quando la fede religiosa era ancora così profondamente radicata. È molto probabile che l’incredulità si coprisse col manto della riforma e che, ora mettendosi sotto la bandiera di una setta, ora passando a quella d’un’altra, concertasse d’indebolirle tutte per innalzare il suo trono sulla distruzione totale

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delle credenze. Non c’è bisogno di molta logica per passare dal Protestantesimo al

Deismo; e da questo all’Ateismo non vi è che un passo. E c’è da credere che quando apparvero i nuovi errori non fossero poche le persone coerenti che percorsero il cammino fino alle estreme conseguenze. La religione cristiana, così come la concepiscono i Protestanti, è una specie di sistema filosofico più o meno ragionevole, per cui esaminata a fondo perde il carattere divino: in tal caso, come potrà proporsi a guida di un animo che alla riflessione ed alla meditazione unisca lo spirito d’indipendenza? E in verità, un solo sguardo all’origine del Protestantesimo era sufficiente per spingere fino allo scetticismo religioso tutti quegli uomini che, non essendo fanatici, non erano neanche strettamente ancorati all’autorità della Chiesa. In realtà il linguaggio e la condotta dei fondatori delle sétte era tale da far nascere istintivamente un forte sospetto: che costoro cioè si burlassero di tutte le fedi cristiane e che camuffassero il loro ateismo o indifferenza con il diffondere strane dottrine che servissero di pretesto per procurarsi proseliti; e che infine compilassero i loro scritti con la più grande malafede mascherando la loro perfida intenzione di alimentare nell’animo dei loro seguaci il fanatismo di setta.

Questo è ciò che il semplice buon senso suggerì al padre del celebre Montagne, il quale sebbene accettasse solamente i primi princìpi della riforma diceva: «questo inizio d’infermità va a degenerare in un esecrabile ateismo». Testimonianza importantissima custodita da uno scrittore che per certo non era né debole né fanatico, cioè suo figlio Montagne (Saggi di Montagne libro 2°, capo 12). Quest’uomo, che con tanto criterio giudicava la vera inclinazione del Protestantesimo non previde tuttavia che suo figlio avrebbe costituito una conferma di tali predizioni. Tutti sanno infatti che Montagne fu uno dei primi scettici di grande fama che si distinsero in Europa. In quei tempi bisognava guardarsi dal manifestarsi ateo o indifferente pure fra gli stessi Protestanti; ma anche se è facile sospettare che non tutti gl’increduli ebbero la temerità di Gruet, non deve certo costare molta fatica dar fede al celebre Toletano Chacon, quando alcuni anni oltre la metà del sedicesimo secolo diceva che «l’eresia degli atei, di coloro che nulla credono, era molto forte in Francia, ed anche in altre parti».

Le controversie religiose continuavano a richiamare l’attenzione di tutti i dotti d’Europa, e intanto la cancrena dell’incredulità avanzava in un modo spaventoso che circa alla metà del diciassettesimo secolo il male si presentava sotto un aspetto terribile. Chi non ha letto con orrore i profondi pensieri di Pascal sull’indifferenza in materia di religione? Chi non ha conosciuto in essi quell’accento commosso che nasce dalla viva impressione provocata

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nell’animo dalla presenza di un male terribile? Sappiamo che a quel tempo le cose erano già molto avanzate e che

l’incredulità si presentava quasi come una scuola da porsi accanto alle altre che in Europa si disputavano la preminenza. Già da molto tempo, più o meno camuffata, si era presentata nel Socinianismo: ma questo ancora non bastava, perché il Socinianismo portava pur sempre il nome di una setta religiosa, mentre l’irreligione cominciava a sentirsi troppo forte per non pretendere di farsi già chiamare col proprio nome.

Gli ultimi decenni del diciassettesimo secolo ci presentano una forte crisi riguardo alla religione: crisi che forse non è stata bene analizzata ma che si può riconoscere attraverso fatti molto evidenti. Questa crisi si manifestò come una stanchezza per le dispute religiose: stanchezza che mostrò due tendenze diametralmente opposte e tuttavia del tutto naturali: l’una, di dirigersi verso il Cattolicesimo, e l’altra verso l’ateismo.

Tutti sanno quanto si fosse disputato sulla religione fino a quei tempi. Le controversie religiose erano diventate di moda: basti dire che non formavano solamente l’occupazione preferita degli ecclesiastici sia cattolici che protestanti, ma anche dei dotti laici; e questa smania era penetrata perfino nei palazzi di principi e re. Tante controversie naturalmente mettevano in luce il vizio radicale del Protestantesimo; e non potendo l’intelletto mantenersi fermo su un terreno così sdrucciolevole, doveva fare ogni sforzo per uscirne: o chiamando in aiuto il principio dell’autorità, o abbandonandosi all’ateismo o ad una indifferenza totale. Queste due tendenze si fecero sentire in una maniera non equivoca. Quindi Bayle credette l’Europa abbastanza pronta per poter aprirvi una cattedra d’incredulità e di scetticismo; dalla parte opposta intanto si era avviata una seria e vivace corrispondenza per favorire il ritorno dei dissidenti di Germania nel grembo della Chiesa cattolica.

Gli studiosi conoscono le controversie che ebbero luogo tra il luterano Molano, Abate di Lockum, e Cristoforo, Vescovo di Tyna e poi di Neustadt. E perché non mancasse una testimonianza sull’importanza che avevano assunto le trattative si conserva ancora la corrispondenza, originata da queste trattative, tra due dei più grandi uomini che contasse allora l’Europa nelle due confessioni: Bossuet e Leibnitz. Ma il momento favorevole non era ancora giunto, e cautele di natura politica, che in vista d’interessi tanto grandi avrebbero dovuto dileguarsi, esercitarono invece una cattiva influenza sulla grande anima di Leibnitz, se è vero che egli non poté conservare nel corso della discussione e delle trattative quella sincerità e buona fede, e quella elevatezza di princìpi, con le quali sembrava che avesse cominciato. Comunque, sebbene la trattativa non sortisse buon esito, il solo averla intavolata indica già

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abbastanza riguardo al grande vuoto scoperto nel Protestantesimo, considerando che i due uomini più celebri della sua confessione, Molano e Leibnitz, avevano avuto il coraggio di fare dei passi così avanzati. Certamente essi dovevano aver scorto nella società che li circondava una forte disposizione a rientrare nel seno della Chiesa, altrimenti non si sarebbero compromessi in una trattativa di tale importanza.

Si aggiunga a tutto questo la dichiarazione dell’università luterana di Helmstad in favore della religione cattolica e i nuovi tentativi fatti per la riunificazione da parte di un principe protestante che si rivolse al Papa Clemente XI, ed avremo indizi fortissimi che la riforma già si sentiva ferita a morte e che, se Dio avesse voluto che un’opera così grande fosse dipesa almeno in parte dall’uomo, non sarebbe stato impossibile che, grazie alla convinzione che i dotti più illustri si erano formata di quanto vi è di dannoso nel sistema protestante, si procedesse speditamente per sanare le piaghe aperte all’unità religiosa dai sovvertitori del sedicesimo secolo.

Ma l’Eterno nei Suoi sommi pensieri aveva deciso diversamente; e permettendo che la corrente degli spiriti prendesse la direzione più traviata e perversa volle castigare l’uomo col frutto del suo stesso orgoglio. E così non fu la propensione all’unità a dominare nel secolo successivo, bensì il gusto per una filosofia scettica e indifferente riguardo a tutte le religioni, e nemica soprattutto della cattolica. In quei tempi si combinavano tra loro troppe funeste influenze, perché la propensione all’unità potesse raggiungere lo scopo. Il numero in cui si erano divise e suddivise le sétte protestanti era già enorme; e quantunque sia vero che in questo modo il Protestantesimo s’indeboliva, tuttavia essendo esso diffuso nella maggior parte d’Europa aveva inoculato il germe del dubbio religioso nella società europea. E siccome non rimaneva più alcuna verità che non avesse subìto attacchi, e non v’era più da immaginare errore o capriccio che non avesse i suoi apostoli e i suoi proseliti, fu molto pericoloso che si diffondesse negli animi quello spossamento e languore che sopravviene sempre dopo grandi sforzi fatti inutilmente per conseguire un fine, e quella noia che viene prodotta da interminabili dispute e scandali disgustosi.

Per colmo di sventura, perché la spossatezza e la noia fossero portate al più alto grado sopravvenne una nuova sciagura che produsse i più funesti effetti. I capi del Cattolicesimo combattevano con grande valore e notevole successo contro le riforme religiose dei Protestanti. In questa grande palestra le lingue, la storia, la critica, la filosofia: tutto ciò che l’umano sapere contiene di più prezioso, di più ricco e brillante, era stato messo in campo senza riserve; e i grandi uomini che si vedevano accorrere da ogni parte nei posti più avanzati tra i difensori della Chiesa cattolica sembrava che la confortassero alquanto delle

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dolorose perdite che le agitazioni del sedicesimo secolo le avevano fatto sopportare. Ma ecco che, mentre stringeva al suo seno tanti figli prediletti che di tale nome si gloriavano, notò con sorpresa dolorosissima che alcuni di questi le si presentavano in atto ostile benché mascherato; e attraverso parole mal dissimulate e una condotta mal camuffata, non le fu difficile accorgersi che cercavano di assestarle un colpo mortale. Questi ribelli, professando sempre sottomissione e obbedienza, ma senza mai sottomettersi né obbedire; resistendo sempre all’autorità della Chiesa, esaltando tuttavia continuamente questa medesima autorità e lodandone l’origine divina; nascondendo sagacemente sotto l’aspetto dello zelo nel ristabilire l’antica disciplina, l’odio a tutte le leggi e insegnamenti esistenti; erodendo i fondamenti della morale mentre ne lodavano con entusiasmo la purezza; mascherando con falsa umiltà ed ostentata modestia l’ipocrisia e l’orgoglio, chiamando fermezza l’ostinazione e integrità di coscienza l’ostinata cecità; questi ribelli – dicevo – presentavano l’aspetto più pericoloso che avesse mai mostrato alcuna eresia. Le loro parole mielate, la simulata sincerità, il gusto per le cose antiche, la ricchezza di erudizione e di conoscenze avrebbero contribuito ad ingannare i più cauti, se fin da principio i novatori non si fossero distinti per il carattere indelebile e inconfondibile di ogni setta originata dall’errore: l’odio all’autorità.

Lottavano tuttavia di tanto in tanto contro i nemici dichiarati della Chiesa, difendevano con molto sfoggio di dottrina la verità dei sacri dogmi, citavano con rispetto e deferenza gli scritti dei santi padri, mostravano di apprezzare le tradizioni e venerare le decisioni conciliari e pontificie; e avendo sempre la strana pretesa di chiamarsi Cattolici quantunque lo smentissero con le parole e con la condotta, non abbandonando mai il singolare ripiego che adottarono fin dal principio, cioè di negare l’esistenza della loro setta, mostravano agl’incauti lo scandalo di un’opposizione di carattere dogmatico che aveva così l’apparenza di risiedere nel seno stesso del Cattolicesimo. Il Capo della Chiesa li dichiarò eretici: tutti i veri Cattolici venerarono la decisione del Vicario di Gesù Cristo e da ogni angolo del mondo cattolico si levò unanime il grido di anatema contro chiunque non avesse ascoltato il Successore di Pietro; essi però, ostinati nel negare tutto, tutto eludere e tergiversare in tutto, presentavano se stessi come un gruppo di Cattolici perseguitati dallo spirito di rilassamento, di abusi ed intrigo.

Mancava questo nuovo scandalo perché il traviamento degli animi fosse completo e la cancrena inesorabile, che andava aumentando sempre più, si diffondesse nella società europea con la massima rapidità presentando le teorie più terribili e spaventose. Tutto quel disputare sulla religione, la miriade e varietà delle sétte, l’ostilità tra i contendenti che disputavano su questo terreno

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dovettero infine provocare il disgusto per la religione stessa in coloro che non erano saldamente afferrati all’àncora dell’autorità. E perché l’indifferenza potesse elevarsi a sistema, l’ateismo a dogma e l’empietà divenisse moda, mancava solo un uomo abbastanza efficiente per raccogliere, unire e presentare insieme l’abbondantissimo materiale che giaceva disperso in tante opere; e che sapesse passarvi sopra una mano di vernice filosofica secondo il gusto che cominciava a diffondersi allora, comunicando al sofisma e alla declamazione quella fisionomia seduttrice, quella svolta illusoria, quello splendore abbagliante che anche in mezzo ai maggiori traviamenti s’incontrano sempre nelle produzioni del genio. Quest’uomo apparve: era Bayle; e il clamore che suscitò nel mondo il suo celebre dizionario, e il successo che ebbe fin da principio, mostrarono in modo eminente che l’autore aveva saputo comprendere l’opportunità del momento.

Il dizionario di Bayle è una di quelle opere che, anche prescindendo dal maggiore o minore merito scientifico e letterario, contribuiscono a formare un’epoca; perché vi si raccoglie il frutto del passato e vi si tracciano con molta chiarezza le linee di un lungo ed esteso avvenire. In tali casi l’autore non appare tanto per il proprio merito quanto per aver saputo trovarsi nel punto ideale per poter figurare come il rappresentate delle idee che anteriormente erano già molto diffuse nella società anche se andavano fluttuando senza una direzione stabilita, e procedendo come a caso. E allora il solo nome dell’autore ricorda un vasto periodo storico perché egli ne è la personificazione. La pubblicazione dell’opera di Bayle può considerarsi come la solenne inaugurazione della cattedra dell’incredulità in Europa. I filosofi del diciottesimo secolo ebbero così a portata di mano un abbondante repertorio che li fornisse di ogni genere di fatti ed argomenti. E perché non mancasse nulla, perché potessero restaurare i vecchi quadri, ravvivare i colori sbiaditi e spargere ovunque i prodigi dell’immaginazione e le sottigliezze dell’ingegno; perché infine non mancasse alla società una guida che la conducesse per un sentiero coperto di fiori sino all’orlo del precipizio, ecco che appena sceso Bayle nella tomba già brillava all’orizzonte letterario un giovinetto, il cui grande talento andava di pari passo con la temerità e la malizia: costui era Voltaire.

È stato necessario condurre il lettore fino all’epoca da me ora indicata perché altrimenti non avrebbe potuto immaginare l’influenza che ebbe il Protestantesimo nel generare e radicare in Europa l’irreligione, l’ateismo e quell’indifferenza fatale che tanti danni arreca alle società moderne. Non è mia intenzione tacciare di empietà tutti i Protestanti, e riconosco con vero piacere la fermezza e la costanza con cui alcuni dei loro più illustri dotti si sono opposti

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al progredire dell’empietà. Non ignoro che gli uomini talvolta adottano un principio e ne rigettano le conseguenze, e in tal caso sarebbe un’ingiustizia collocarli nella stessa classe di quelli che difendono apertamente queste conseguenze; ma so pure che per quanto i Protestanti non vogliano confessare che il loro sistema conduce all’ateismo, non per questo la cosa cessa di essere certissima. Possono esigere da me che non critichi le loro intenzioni, ma non lamentarsi che io abbia svolto fino alle estreme conseguenze il loro principio fondamentale senza mai allontanarmi da ciò che ci insegnano concordemente la filosofia e la storia.

Abbozzare, anche se rapidamente, ciò che accadde in Europa da quando apparve Voltaire sarebbe certamente fatica inutile, perché i fatti sono molto recenti e gli scritti su questa materia abbastanza noti, per cui se volessi parlarne difficilmente potrei evitare l’accusa di copiare da altri. Mi riferirò meglio e più esattamente all’oggetto propostomi presentando alcune riflessioni sullo stato attuale della religione nell’àmbito della pretesa riforma.

Tra tanti sussulti e sconvolgimenti, nello stordimento trasmesso a tante teste quando le fondamenta di tutte le società hanno vacillato e le più robuste e ben solide istituzioni sono state smosse fin dalle fondamenta, e la stessa verità cattolica ha potuto sostenersi solo grazie al manifesto aiuto della mano dell’Onnipotente, è facile capire quanto debba trovarsi a mal partito il debole edificio del Protestantesimo esposto a tanto forti e durevoli attacchi.

Nessuno ignora il fenomeno delle innumerevoli sétte che proliferano in Gran Bretagna, e la situazione deplorevole delle credenze tra i Protestanti della Svizzera anche sulle questioni fondamentali. E perché non rimanga alcun dubbio sul vero stato della religione protestante in Germania, che è il suo paese natio dove si era stabilita come nel suo retaggio, il ministro protestante barone di Starch si è preoccupato di farci sapere che in Alemagna non vi è un sol punto della fede cristiana che non si veda attaccato apertamente dagli stessi ministri protestanti. Per la qual cosa l’effettiva condizione del Protestantesimo mi sembra rappresentata fedelmente in concreto dal caso stravagante del ministro protestante J. Keyer, il quale nel 1818 pubblicò un’opera intitolata: Sguardo sulle confessioni di fede. Non sapendo come levarsi da quell’imbarazzo che per i Protestanti è causato dall’adozione d’un unico simbolo che li riunisca, propone un espediente semplicissimo che appiana certamente tutte le difficoltà, e che consiste nel rigettarli tutti.

L’unico mezzo che ha il Protestantesimo di sostenersi e di snaturare, per quanto possibile, il suo principio fondamentale, è quello di allontanare la gente dalla via del libero esame, facendo sì che resti attaccata alle credenze trasmesse con l’educazione, e non lasciando intuire la contraddizione in cui incorrono

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quando si assoggettano all’autorità di un semplice uomo, mentre rifiutano l’autorità della Chiesa cattolica. Ma non è precisamente questa la via che prendono le cose, anche se forse alcuni dei Protestanti si propongono di seguirla; e soltanto le società bibliche, che con un ardore degno di miglior causa si affannano per diffondere in tutte le classi sociali la lettura della Bibbia, sono un forte ostacolo a che l’animo dei popoli non si assopisca. Ma questa diffusione della Bibbia è un appello perenne al libero esame e allo spirito privato e finirà certamente col dissolvere quanto ancora resta del Protestantesimo; benché forse, quando ciò avverrà, per la società si preparino giorni di lutto e di pianto. Tutto questo non è ignoto ai Protestanti, ed alcuni dei più distinti tra loro hanno già alzata la voce per segnalarne il pericolo (13). Torna all’indice

CAPITOLO X Si risolve una questione importante sulla durata del Protestantesimo. Rapporti dell’individuo e della società con l’indifferentismo religioso. Le società europee rispetto all’Islamismo e al Paganesimo. Confronto tra il Cattolicesimo ed il Protestantesimo nella difesa della verità. Intima unione del Cristianesimo con la civiltà europea.

Dimostrata in modo così evidente l’intrinseca debolezza del Protestantesimo sorge spontanea una domanda: come mai pur essendo così debole a causa del difetto che sta alla base della sua stessa natura, il Protestantesimo non si è dissolto completamente? Portando nel proprio seno un germe di morte, come ha potuto resistere ad avversari tanto potenti come la religione cattolica da una parte, e l’irreligione e l’ateismo dall’altra? Per soddisfare completamente tale domanda è necessario considerare il Protestantesimo sotto due aspetti: in quanto rappresenta una determinata credenza; oppure in quanto costituente un insieme di sétte che, pur essendo molto diverse fra loro, sono però concordi nel definirsi cristiane, conservando qualche parvenza di cristianesimo e rifiutando tuttavia l’autorità della Chiesa. Il Protestantesimo va considerato sotto questi due aspetti perché si sa bene che i suoi fondatori non solo s’impegnarono a distruggere l’autorità e i dogmi della Chiesa romana, ma procurarono anche di formare un sistema di dottrine che potesse servire come segno distintivo ai loro proseliti.

Per ciò che riguarda il primo aspetto, il Protestantesimo è sparito quasi completamente, o per meglio dire sparì già sul nascere, se pure si può dire che sia nato. Questa verità rimane sufficientemente dimostrata con gli argomenti

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che ho esposto sulle divisioni avvenute al suo interno e sul suo stato attuale nei vari paesi d’Europa; e col passar del tempo si è avuta la conferma di quanto abbiano equivocato i pretesi riformatori allorché s’immaginarono di poter fissare le colonne d’Ercole dello spirito umano, per citare l’espressione di una letterata protestante, cioè Madame de Staël.

E infatti, chi difende oggi le dottrine di Lutero e di Calvino? Chi rispetta i confini ch’essi fissarono? Fra tutte le chiese protestanti, ce n’è una che si distingua dalle altre per lo zelo che pone nel conservare alcuni di quei dogmi? Qual è il Protestante che non si faccia beffe della divina missione di Lutero, o creda che il Papa sia l’Anticristo? Chi tra loro veglia per la purezza della dottrina, chi definisce gli errori, chi si oppone al proliferare delle sétte? Chi riesce a percepire nei loro scritti o dai pulpiti l’accento energico della persuasione e lo zelo della verità? Quale notevole differenza quando le chiese protestanti vengono paragonate alla Chiesa cattolica! Interrogatela, la Chiesa cattolica, sulle sue credenze e sentirete dalla bocca del successore di Pietro, Gregorio XVI, quello stesso che udì Lutero dalla bocca di Leone X; fate il confronto della dottrina di Leone X con quella dei suoi predecessori, e vi troverete condotti in linea retta e sempre per la stessa strada fino agli Apostoli, e fino a Gesù Cristo. Tentate d’impugnare un dogma? Intorbidate la purità della morale? La voce degli antichi padri tuonerà contro i vostri traviamenti; e benché stiamo nel diciannovesimo secolo vi sembrerà che siano sorti dalle loro tombe gli antichi Leoni e Gregori. Se la vostra volontà è debole, troverete indulgenza; se il vostro merito è grande, vi si tributeranno con profusione gli ossequi; se la vostra posizione sociale è elevata, sarete trattati con tutti i riguardi. Ma se abusando dei vostri talenti volete introdurre qualche novità nella dottrina; se approfittando del vostro prestigio esigete qualche rinuncia in materia di dogma; e se per evitare disordini, prevenire scissioni, conciliare gli animi, chiedete un compromesso o almeno un’interpretazione ambigua: questo non sia mai, vi risponderà il Successore di San Pietro, questo non sia mai; la fede è un deposito sacro che noi non possiamo alterare; la verità è immutabile, è una. E alla parola del Vicario di Gesù Cristo svaniranno tutte le vostre speranze, e ad essa si uniranno le voci di nuovi Atanasi, Ambrogi, Girolami ed Agostini. Sempre la medesima fermezza nella medesima fede, sempre la stessa immutabilità, sempre la stessa energia per conservare intatto il sacro deposito, per difenderlo contro gli attacchi degli errori, per insegnarlo in tutta la sua purezza ai fedeli, per trasmetterlo senza macchia alle generazioni future. Sarà cecità o fanatismo questa ostinazione? Ah! Diciotto secoli già trascorsi, il crollo degli imperi, i più spaventosi sconvolgimenti, la più grande diversità d’idee e di costumi, le persecuzioni delle potenze della terra, le tenebre

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dell’ignoranza, gli urli delle passioni, la luce delle scienze: tutte queste cose non sarebbero bastate per illuminare questa cecità, per indebolire questa ostinazione, per raffreddare questo fanatismo? Senza dubbio uno studioso protestante, uno di quelli che sappiano elevarsi al di sopra dei pregiudizi derivanti dalla sua educazione, trovandosi a riflettere su questo confronto (del quale non potrà fare a meno di riconoscere la verità e l’esattezza), se ha qualche conoscenza della materia avrà forti dubbi riguardo alla verità dell’insegnamento che ha ricevuto, e certamente gli verrà il desiderio di esaminare da vicino questo grande prodigio che si riscontra nella Chiesa cattolica. Ma ritorniamo all’argomento.

Nonostante la dissoluzione che si è estesa in un modo così grave fra le sétte protestanti e che andrà estendendosi sempre più, non desta alcuna meraviglia che, fino a quando non sarà giunto il momento del ritorno dei dissidenti alla Chiesa cattolica, non sparisca del tutto il Protestantesimo considerato come un’unione di sétte che conservano il nome di cristiane e qualche elemento di Cristianesimo. Perché ciò non accada occorrerebbe: o che i popoli protestanti si perdessero completamente nella irreligione e nell’ateismo; oppure che si affermasse al loro interno qualche altra religione di quelle che vengono professate in altre parti della terra. Questi due estremi sono impossibili: ed ecco il motivo per cui si conserva, e si conserverà sotto una o l’altra forma, il falso Cristianesimo dei Protestanti, finché non ritornino all’ovile della Chiesa.

Sviluppiamo più ampiamente questi concetti. Perché i popoli protestanti non si perderanno per intero nella irreligione e nell’ateismo, oppure nell’indifferenza? Perché tutto questo può accadere a un individuo, ma non ad un intero popolo. A forza di letture corrotte, di meditazioni stravaganti, di ostinazione continua, un individuo può soffocare i più vivi sentimenti del cuore, far tacere gli avvertimenti della coscienza e sottrarsi alle preziose ammonizioni del senso comune; ma un popolo no. Un popolo conserva sempre quel fondo di purezza e docilità che in mezzo ai più funesti traviamenti ed anche ai delitti più atroci gli fa porgere l’orecchio alle ispirazioni della natura. Per quanto gli uomini siano corrotti nei loro costumi, e stravaganti le loro opinioni, sono sempre pochi coloro che di proposito lottino con se stessi per strappare dal loro cuore quel germe rigoglioso di buoni sentimenti, quel prezioso vivaio di buoni princìpi con cui la mano soccorritrice del Creatore ha voluto arricchire le nostre anime. È vero che il fuoco delle passioni nel suo propagarsi produce tristi disordini, e forse anche terribili deflagrazioni; ma passato che sia il calore della passione l’uomo rientra in se stesso, e già l’anima sua è di nuovo accessibile agli accenti della ragione e della virtù. Studiando

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attentamente la società si osserva che per fortuna è poco numerosa quella categoria di uomini insensibili agli appelli della verità e del bene, che rispondono con futili sottigliezze ai richiami del buon senso, che oppongono un freddo stoicismo alle più dolci e generose ispirazioni della natura e che ostentano come modello di filosofia, di fermezza e di elevazione dell’anima l’ignoranza, l’ostinazione e l’aridità di un gelido cuore. Il tipo comune degli uomini è più semplice, più schietto, più naturale; e perciò mal si confà con un sistema di ateismo o d’indifferenza. Un sistema del genere potrà impadronirsi dell’anima orgogliosa di qualche dotto sognatore, potrà diffondersi come un’opinione conveniente nella dissipatezza della gioventù, potrà in periodi di disordini estendersi ad una certa cerchia di teste impulsive; ma non succederà mai che si possa stabilire pacificamente in una società e diventarne la normale condizione.

No, mille volte no: un individuo può essere irreligioso, la famiglia e la società non lo saranno mai. Senza una base sulla quale possa poggiare l’edificio sociale, senza un grande principio originario da cui nascono le idee di ragione, virtù, giustizia, dovere, diritto (idee tanto necessarie all’esistenza e conservazione della società come il sangue e il cibo lo sono alla vita dell’individuo), sparirebbe la società. Senza i dolcissimi vincoli con cui i componenti della famiglia sono uniti insieme dalle idee religiose, senza la celeste armonia che queste spargono in tutto il complesso delle sue relazioni, la famiglia cessa di esistere o tutt’al più è un groviglio grossolano, momentaneo, del tutto simile alla convivenza tra animali. Fortunatamente il Signore ha dotato tutti gli esseri di un istinto meraviglioso di conservazione, guidate dal quale la famiglia e la società rigettano con sdegno quelle idee abiette che, inaridendo col suo alito pestifero la linfa vitale, spezzando tutti i vincoli e sconvolgendo tutto il sistema, le farebbero retrocedere ben presto fino alla più spregevole barbarie, e finirebbero col disperderne le membra come al soffio del vento si disperdono i granelli di sabbia, finendo per non avere più tra loro alcun legame né relazione.

E se non si riesce con le considerazioni fatte riguardo all’uomo e alla società, almeno i continui insegnamenti dell’esperienza dovrebbero disingannare certi filosofi sul fatto che le idee ed i sentimenti scolpiti nel cuore dal dito dell’Autore della natura non vengono sradicati dai discorsi retorici e dai sofismi. Che se alcuni effimeri trionfi hanno potuto talvolta insuperbirli infondendo esagerate speranze sulla riuscita dei loro sforzi, il corso delle idee e degli avvenimenti ha sùbito mostrato che, quando esaltavano con folle allegria il loro trionfo, erano simili ad un insensato che si lusinga di aver espulso dal mondo l’amore materno solo perché è riuscito a pervertire il cuore di alcune

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madri. La società (e badate che non dico il popolo o la plebe, ma la società) se

non è religiosa, sarà superstiziosa; se non crede in cose ragionevoli, crederà in altre cose stravaganti; se non ha una religione discesa dal cielo, ne avrà una fabbricata dagli uomini. Pretendere il contrario è da insensati; lottare contro questa inclinazione significa lottare contro una legge eterna. Sforzarsi di fermarla è lo stesso che opporre una debole mano per fermare l’avanzare di un corpo che si muove con una forza immensa: la mano sparisce e il corpo prosegue il suo percorso. Si chiami pure superstizione, fanatismo, seduzione, che tutto potrà servire a dare sfogo al dispetto di vedersi beffato: non è altro che accumulare nomi e percuotere il vento.

Essendo la religione, come di fatto è, una reale necessità, abbiamo già la spiegazione di un fenomeno che ci viene presentato dalla storia e dall’esperienza: che la religione cioè non sparisce mai completamente. Nel caso di un mutamento, le due religioni rivali lottano per un certo tempo sullo stesso terreno, occupando una delle due i territori che va progressivamente conquistando all’altra. Dedurremo quindi che per far scomparire del tutto il Protestantesimo sarebbe necessario che si presentasse al suo posto qualche altra religione; e non essendo questo possibile, almeno nell’attuale società, a meno che non si tratti della cattolica, le sétte protestanti continueranno ad occupare, con alcune eventuali variazioni, i paesi che hanno conquistato.

Ma nello stato attuale della civiltà delle società protestanti, potrà mai accadere che le sciocchezze del Corano o le vigliaccherie dell’idolatria guadagnino terreno?

Diffuso com’è lo spirito del Cristianesimo nel tessuto delle società moderne; avendo impresso il proprio sigillo in tutte le legislazioni e sparse le sue luci in ogni campo della conoscenza umana; unito il proprio linguaggio a quello di tutti gli idiomi; regolati i costumi delle società con le sue norme, e perfino la foggia degli abiti e i comportamenti; contrassegnato con le sue ispirazioni tutte le opere del genio comunicandone il gusto a tutte le belle arti: in una parola, avendo il Cristianesimo permeato di sè tutti gli aspetti e manifestazioni di quella civiltà così grande, varia e feconda di cui si gloriano le società moderne, come potrebbe sparire perfino il nome di una religione che alla sua venerabile autorità unisce tanti motivi di gratitudine, tanti obblighi, tante memorie? Com’è possibile che nelle società cristiane venga ben accolta una di quelle altre religioni che già a prima vista rivelano la loro origine umana, che manifestano subito come loro distintivo un marchio grossolano dove è scritto abiezione ed avvilimento? Benché il principio fondamentale del Protestantesimo corroda le fondamenta della religione cristiana, per quanto ne

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sfiguri la bellezza e ne deprima la sublime maestà, ciò nonostante purché siano conservate alcune vestigia del Cristianesimo, l’idea di Dio e qualche precetto della sua morale, queste vestigia valgono di più, e si elevano ad altezze molto superiori a quelle di tutti i sistemi filosofici e di tutte le altre religioni della terra.

Ecco perché il Protestantesimo ha conservato qualche parvenza di religione cristiana: per nessun altro motivo che quello dell’impossibilità, considerato lo stato delle nazioni che presero parte allo scisma, che sparisse del tutto il nome Cristiano. Ed è perciò che non dobbiamo cercarne la ragione in nessun principio vitale appartenente alla pretesa riforma. A tutto ciò si aggiungano gli interessi politici, l’attaccamento naturale dei ministri ai loro propri interessi, la forza con cui l’orgoglio è lusingato dalla mancanza di ogni autorità, i resti di antichi pregiudizi, l’influenza dell’educazione ed altre simili cause, e avremo una spiegazione completa della questione. Non sembrerà quindi strano che il Protestantesimo continui ad occupare molti di quei paesi in cui, per delle fatali circostanze, giunse a stabilirsi e a piantarvi le radici. Torna all’indice

CAPITOLO XI Dottrine del Protestantesimo. Loro classificazione in positive e negative. Fenomeno singolarissimo: la civiltà europea ha rigettato uno dei dogmi più importanti dei fondatori del Protestantesimo. Importante servizio svolto dal Cattolicesimo per la civiltà europea con la difesa del libero arbitrio. Carattere dell’errore. Carattere della verità.

Non c’è miglior prova della profonda debolezza insita nel Protestantesimo, considerato come corpo di dottrina, quanto la poca influenza che le sue dottrine positive hanno esercitato sulla civiltà europea. Chiamo dottrine positive quelle in cui ha cercato di formare un proprio dogma, e che distinguo dalle altre che potremo chiamare negative perché non consistono in altro che nella negazione dell’autorità. Queste ultime hanno trovato accoglienza in quanto adattate all’incostanza e volubilità dello spirito umano, ma le dottrine positive no: di esse tutto è sparito con i suoi autori, ed è rimasto sepolto nell’oblio. Se alcunché di Cristianesimo si è conservato tra i Protestanti, è solamente qualcosa di indispensabile per non far perdere completamente alla civiltà europea la sua natura e il suo carattere; infatti quelle dottrine che tendevano troppo apertamente a snaturare questa civiltà sono state rigettate, o per meglio dire disprezzate, dalla stessa civiltà.

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A questo proposito si può richiamare l’attenzione su un fatto degno di essere riportato come esempio, sul quale forse non si è riflettuto quanto merita: si tratta della dottrina sulla libertà umana elaborata dai primi novatori. Tutti sanno che uno dei primi e più gravi errori di Lutero e di Calvino consistette nel negare il libero arbitrio, trovandosi contenuto questo funesto insegnamento nelle loro opere che ci sono giunte. Sembrava che questa dottrina dovesse diffondersi tra i Protestanti col massimo credito, e che dovesse mantenersi per sempre; perché normalmente accade così per quegli errori che costituiscono il primo nucleo nella fondazione di una setta. E sembrava anche che, essendosi il Protestantesimo diffuso grandemente dopo aver gettate le radici in molte nazioni d’Europa, questa dottrina fatalista dovesse anche influire fortemente nella legislazione delle nazioni protestanti. Eppure, cosa mirabile! nulla è accaduto di tutto questo. I costumi europei l’hanno disprezzata, la legislazione non ha voluto accoglierla come principio basilare, e la società non si è lasciata dominare né regolare da un principio che minava tutte le fondamenta della morale e che, se fosse stato accolto dalla legislazione e dai costumi, avrebbe sostituito alla civiltà e alla dignità europea la barbarie e l’abiezione musulmana.

Indubbiamente non sono mancati individui corrotti da questa funesta dottrina, né sétte più o meno numerose che l’abbiano accolta; e non si può neppure negare che le piaghe da essa aperte alla moralità di alcuni popoli siano molto gravi. Ma è altrettanto certo che nella generalità della grande famiglia europea i governi, i tribunali, l’amministrazione, la legislazione, le scienze, i costumi non hanno dato ascolto all’insegnamento orribile di Lutero col quale spoglia l’uomo del libero arbitrio, fa Dio autore del peccato e riversa sul Creatore tutta la responsabilità dei delitti della creatura umana. In esso Dio viene presentato come un tiranno poiché si afferma che i Suoi precetti sono impossibili da seguire; si confondono scelleratamente le idee del bene e del male e si elimina lo stimolo di ogni virtù, assicurando che per salvarsi è sufficiente la sola fede e che tutte le opere dei giusti sono peccati.

A questo punto la ragione comune, il buon senso e i costumi si misero dalla parte del Cattolicesimo, e gli stessi popoli che per la loro religione abbracciavano in teoria queste funeste dottrine, generalmente nella pratica le rigettarono: perché era troppo profondo il marchio che l’insegnamento cattolico aveva lasciato su questi punti fondamentali, era troppo vivo l’istinto di civiltà che le dottrine cattoliche avevano innestato nella società europea. Da ciò deriva che la Chiesa cattolica, rigettando i funesti errori diffusi dal Protestantesimo, preservò la società dall’avvilimento al quale portano i princìpi fatalisti; si costituì barriera contro il dispotismo, che sempre sorge tra i popoli

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che hanno perduto il sentimento della loro dignità; si pose come argine contro la corruzione che si diffonde inevitabilmente quando l’uomo si crede trascinato da una cieca fatalità come da una catena di ferro; e in tal modo sollevò lo spirito da quell’abbattimento in cui l’uomo cade quando si sente privato della guida della propria condotta e della propria influenza nel corso degli avvenimenti. Il Papa, condannando gli errori di Lutero che formavano il nucleo del nascente Protestantesimo, diede l’allarme contro l’imbarbarimento nel piano delle idee, salvando in tal modo la morale, le leggi, l’ordine pubblico e la società. Per cui il Vaticano, col tutelare all’uomo il nobile sentimento della libertà nel santuario della sua coscienza, ne preservò la dignità; e la cattedra di Roma, lottando contro le idee protestanti e difendendo il sacro deposito affidatole dal Divino Maestro, fece nello stesso tempo da nume tutelare del futuro progresso della civiltà.

Voi che parlate delle dispute religiose con fredda indifferenza o con atteggiamenti di scherno e di compassione come se non si trattasse d’altro che di stravaganze di scuole filosofiche, riflettete su queste grandi verità, e comprendetele bene. I popoli non vivono di solo pane, ma anche d’idee e di precetti i quali, convertiti in prassi, o trasmettono ai popoli stessi la loro grandezza, il vigore e la gagliardia, o li indeboliscono, li prostrano e li condannano alla nullità e alla condizione di bruti. Volgete lo sguardo sul mondo, scorrete le epoche della storia dell’umanità, mettete a confronto epoca con epoca e nazione con nazione e vedrete che la Chiesa, dando tanta importanza alla conservazione della verità nelle materie più trascendentali, e non transigendo mai su questo punto, ha compreso e seguìto meglio di chiunque altro la sublime e salutare regola che la verità è la regina del mondo, che dall’ordine delle idee dipende l’ordine dei fatti, e che quando si agitano questioni sulle grandi verità entrano in gioco i destini e gli interessi dell’umanità.

Ricapitoliamo quanto si è detto. Il principio essenziale del Protestantesimo è un principio dissolutore: qui sta la causa del suo continuo variare, della sua decadenza e annientamento. Come religione particolare il Protestantesimo già non esiste perché non ha nessun dogma proprio, nessun carattere positivo, nessuna struttura, nulla di quanto è necessario a costituire un organismo vitale: è una negazione totale. Quanto in esso si trova che si possa chiamare positivo altro non è che vestigia e rovine; manca qualunque principio di forza, di azione, di spirito, di vita. Non si può mostrare un edificio che sia stato da esso innalzato, non può mettersi fra quelle opere immense tra le quali può invece situarsi con tanta gloria il Cattolicesimo e dire: questo è mio. Il Protestantesimo può solamente collocarsi in mezzo a spaventose rovine e di

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queste sì, che può dire senza mentire: le ho accumulate io. Finché durò il fanatismo di questa setta, fintanto cioè che ardeva la

fiamma alimentata da focose invettive e ravvivata da circostanze funeste, ostentò una certa forza la quale, sebbene non consistesse in una effettiva robustezza, mostrava almeno la convulsiva energia del delirio. Ma trascorso quel periodo l’azione del tempo ha disperso gli elementi che davano alimento all’incendio; e per quanto si sia fatto per accreditare la riforma come opera di Dio non si è potuto nascondere ciò ch’era in realtà: l’opera delle passioni dell’uomo. Né devono illudere i tentativi attualmente in atto: essi non sono portati da un Protestantesimo ancora vitale, ma dalla falsa filosofia, eventualmente dalla politica o dal meschino interesse, che del Protestantesimo prendono il nome e il manto per mascherarsi; e sapendo quanto ciò sia utile per suscitare scompigli, provocare scissioni e disgregare le società, vanno raccogliendo l’acqua dalle pozzanghere che sono rimaste contaminate dalle sue impure rovine, nella certezza che questa sarà un potentissimo veleno che darà la morte a quei popoli incauti che vorranno bere dalla coppa dorata che vien loro perfidamente offerta.

Ma invano il debole mortale si sforza di lottare con la destra dell’Onnipotente: Dio non abbandonerà l’opera sua. E per quanto l’uomo tenti, per quanto si sforzi d’imitare l’opera dell’Altissimo, non potrà mai cancellare i caratteri eterni che distinguono l’errore dalla verità. La verità è forte e robusta in sé stessa, e siccome è l’insieme delle stesse relazioni degli esseri, si allaccia e si stringe fortemente con essi: né l’impegno degli uomini, né i tumulti dei tempi possono riuscire a disunirla. L’errore, falsa immagine dei grandi vincoli che legano la massa compatta dell’universo, si distende sui suoi domini usurpati come un informe insieme di sterpi mal connessi che non ricevono mai il nutrimento della terra, e che non producono vegetazione né frescura, ma servono solamente da rete ingannatrice tesa sul cammino del viandante.

Popoli incauti! Non lasciatevi sedurre da splendidi ornamenti o da parole ampollose, né da un agire menzognero. La verità è candida, modesta e piena di fiducia, perché è pura e forte; l’errore è ipocrita e pieno di ostentazione, perché è debole e falso. La verità è una bella Signora che disprezza gli ostentati ornamenti perché conosce la propria bellezza; l’errore si raffazzona, s’imbelletta, ritocca la propria statura perché è deforme, senza colorito, senza espressione di vita nel volto, senza grazia e dignità nelle forme. Ne ammirate l’attività e l’impegno? Sappiate che è forte solo quando serve a costituire il nucleo di una fazione, o rappresenta la bandiera di un partito: allora sì che è rapido nell’azione e violento nei mezzi, meteora funesta che risplende, tuona e sparisce lasciando dietro di sé l’oscurità, la distruzione e la morte. La verità

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invece è l’astro del giorno che sparge pacificamente la sua luce vivissima e salutare, fecondando con soave calore la natura e diffondendo ovunque allegria, vita e bellezza. Torna all’indice

CAPITOLO XII Analisi degli effetti che produrrebbe in Spagna il Protestantesimo. Stato attuale delle idee irreligiose. Trionfo della religione. Stato attuale della scienza e della letteratura. Situazione delle società moderne. Riflessioni sull’avvenire e sulla futura influenza del Cattolicesimo. Sulla probabilità dell’introduzione del Protestantesimo in Spagna. L’Inghilterra: sue relazioni con la Spagna. Pitt. Carattere delle idee religiose in Spagna. Situazione della Spagna. Suoi elementi di rigenerazione.

Per valutare convenientemente gli effetti che le dottrine protestanti possono produrre sulla società spagnola sarà bene dare un’occhiata allo stato attuale delle idee religiose in Europa. Nonostante lo scombussolamento intellettuale costituisca uno dei caratteri dominanti del tempo, è un fatto certo che lo spirito d’incredulità e d’irreligione ha perso molto della sua forza; e che in ciò che disgraziatamente gli resta ancora di vivo, quel carattere sistematico di cui era fornito nel secolo precedente, si è piuttosto trasformato in indifferentismo. Col tempo vengono a terminare tutte le invettive, i nomignoli sarcastici vengono a noia, le continue ripetizioni stancano, gli animi si irritano per l’intolleranza e la malafede delle fazioni; appare chiaramente la vacuità dei sistemi, la falsità delle opinioni, l’impulsività dei giudizi, l’inesattezza dei ragionamenti. Con l’andar del tempo si vanno pubblicando testimonianze che rivelano le intenzioni segrete, l’inganno delle parole, la meschinità degli obiettivi, la malvagità e criminalità dei progetti. E infine la verità riprende il suo posto, le cose riprendono i propri nomi, lo spirito pubblico cambia direzione: ciò che prima sembrava innocente e generoso ora si presenta come colpevole e sfacciato, e tolte di mezzo le contraffazioni ingannevoli la menzogna si mostra circondata da quel discredito che avrebbe sempre dovuto essere l’unico suo patrimonio.

Le idee irreligiose che pullulavano nelle società molto avanzate non vollero, né poterono, mantenersi nel recinto della speculazione, e penetrando nei confini della pratica vollero dominare tutti i rami dell’amministrazione e della politica. La confusione che produssero nella società finì con l’essere fatale a loro stesse, perché non c’è cosa che metta più allo scoperto i difetti e i vizi di un sistema, e soprattutto che maggiormente disinganni gli uomini,

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quanto la pietra di paragone dell’esperienza. Non so da dove derivino la facilità del nostro intelletto di concepire un oggetto sotto aspetti diversi, e quella fecondità funesta che lo spinge a sostenere con innumerevoli sofismi le più grandi stravaganze; perché quando si tratta di ricorrere ad una disputa la ragione a mala pena riesce a liberarsi dai cavilli del sofisma. Ma quando sopraggiunge l’esperienza tutto cambia: l’ingegno resta muto e parlano solo i fatti. E se l’esperienza ha raggiunto gradi elevati su oggetti di grande interesse e importanza, è ben difficile che con ragionamenti illusori si possa contraddire l’incontestabile eloquenza dei fatti. Perciò possiamo facilmente osservare che un uomo che abbia acquistato una grande esperienza è dotato di una sensibilità talmente fine e sicura, che alla sola esposizione di un sistema ne indica tutti i punti deboli. L’inesperienza impetuosa e fiduciosa si appella ai ragionamenti ed ai sistemi di dottrine; ma il buon senso – il prezioso, raro e impareggiabile buon senso – scuote prudentemente il capo, si stringe tranquillamente nelle spalle, e lasciando sfuggire un leggero sorriso si affida alla prova del tempo, sicuro delle sue previsioni.

Non è necessario considerare qui gli effetti che hanno avuto in pratica queste dottrine il cui emblema era l’incredulità. È stato già detto tanto su questo argomento che chiunque si accinga a riprenderlo verrà facilmente tacciato d’insulso predicatore. Basterà dire che anche quegli uomini che per i loro princìpi, interessi, ricordi od altri motivi appartengono comunque al secolo passato, si sono visti nella necessità di cambiare le loro dottrine, ridurre i princìpi, modificare le proposizioni, ritoccare i sistemi, temperare il calore e l’impeto delle invettive; e volendo dare una prova di stima e venerazione a quegli scrittori che formarono le delizie della loro gioventù, dicono in tono indulgente «che quegli uomini erano grandi in dottrina, ma erano dotti di tavolino»: come se quando si tratta di fatti e di pratica, ciò che viene chiamato sapere di mero tavolino non si riferisca ad una pericolosa ignoranza.

Comunque sia, da queste indagini è derivato il vantaggio che l’irreligione ne è uscita screditata come sistema, e che i popoli la considerano, se non con orrore, almeno con disprezzo e diffidenza. I lavori scientifici che in tutti i campi erano stati contaminati dall’irreligione (la quale con folle speranza aveva creduto che i cieli avrebbero cessato di cantare la gloria del Signore, la terra avrebbe rinnegato Colui che ad essa diede il fondamento, e tutta la natura avrebbe portato testimonianza contro quel Dio che le diede l’essere e l’animò con la vita) hanno rinnegato la scissione che con grave scandalo si stava attuando tra la religione e le scienze, e si è riconosciuto che gli accenti dell’antico uomo della terra di Hus potevano riecheggiare, senza ignominia per la scienza, sulla bocca dei dotti del diciannovesimo secolo. E che dire del

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trionfo della religione in tutto ciò che c’è di bello, di amorevole, di sublime sulla terra? Quanto chiaramente appare in questo trionfo l’intervento della divina Provvidenza! Mirabile cosa! in tutte le grandi crisi della società quella mano misteriosa che regola i destini dell’universo tiene come in serbo un uomo straordinario: giunge il momento, l’uomo si presenta, avanza senza sapere egli stesso verso dove, ma avanza sempre con passo fermo per compiere l’alto destino che l’Eterno ha predisposto per lui.

L’ateismo sommergeva la Francia in un mare di sangue e di lacrime, e un uomo sconosciuto attraversa in silenzio i mari. Mentre il soffio della tempesta squarcia le vele della nave egli ascolta assorto l’infuriare dell’uragano e contempla rapito la maestà del firmamento. Errante per le solitudini d’America domanda alle meraviglie della creazione il nome del loro Autore: e il tuono glielo svela sul confine del deserto, le selve gli rispondono con sordo muggito e la leggiadra natura con cantici d’armonia e di amore. La vista d’una croce solitaria gli rivela misteriosi segreti, l’orma di un missionario sconosciuto gli risveglia grandi memorie che uniscono il nuovo con l’antico mondo; un monumento in rovina, una capanna selvaggia gl’ispirano quei sublimi pensieri che penetrano sino al fondo della società e del cuore dell’uomo. Inebriato dai sentimenti che gli ha ispirato la grandezza di tali spettacoli, colma la mente d’elevati pensieri e riboccante il petto della dolcezza prodotta in lui dagl’incanti di tanta bellezza, torna a calcare il suolo della sua patria. E che v’incontra? L’orma insanguinata dell’ateismo, le rovine e le ceneri degli antichi templi divorati dal fuoco o sconquassati dai colpi di barbari martelli, numerosi sepolcri che racchiudono i resti di tante vittime innocenti, e che poco prima presentavano nella loro oscurità un asilo nascosto al Cristiano perseguitato. Osserva tuttavia un movimento: vede, come in un’immagine di consolazione, che la religione vuole scendere di nuovo sulla Francia per rianimarne il cadavere. Ode giungere da ogni parte un concerto di celeste armonia. In quell’anima generosa si agitano e ribollono le ispirazioni della meditazione e della solitudine; estraniato ed estatico esalta con parole ardenti le bellezze della religione, rivela le graziose e delicate relazioni che essa ha con la natura, e parlando un linguaggio elevato e divino mostra agli attoniti mortali la misteriosa catena d’oro che unisce il cielo con la terra. Quest’uomo è Chateaubriand.

Ciò nonostante, bisogna dirlo, non si può in breve tempo porre rimedio ad uno sconvolgimento prodottosi nelle idee, e non è facile che sparisca senza grandi sforzi la profonda impronta che l’irreligione ha lasciato con le sue rovine. Gli animi sono veramente stanchi del sistema d’irreligione; un profondo disgusto agita la società che non ha più il suo equilibrio, la famiglia

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ha sentito allentare i suoi vincoli e l’individuo sospira per un raggio di luce, una goccia di consolazione e di speranza. Ma dove il mondo troverà il sostegno che gli manca? Potrà solo mettersi sulla buona strada, sull’unica, che è di entrare nuovamente nell’ovile della Chiesa cattolica. Ah! Dio solo è il padrone dei misteri dell’avvenire, Egli solo vede con la massima chiarezza i grandi avvenimenti che senza dubbio si preparano per l’umanità. Egli solo sa quali saranno gli effetti di quell’attività ed energia che torna ad impossessarsi degli spiriti nell’esame delle grandi questioni sociali e religiose, e quale sarà il frutto che le generazioni future raccoglieranno dai trionfi della religione nelle arti, nella letteratura, nelle scienze, nella politica, in tutti i rami su cui si diffonde l’umano intelletto.

Noialtri deboli mortali, che trascinati vorticosamente dal corso impetuoso delle rivoluzioni e dei tumulti abbiamo appena il tempo necessario per dare di sfuggita un’occhiata al caos nel quale è immerso il paese in cui viviamo, cosa mai possiamo dire che abbia qualche apparenza di una felice previsione? Noi possiamo soltanto affermare che la nostra è un’epoca d’inquietudini, di agitazione, di cambiamenti; che numerosi avvertimenti e ripetuti disinganni, frutti di spaventosi scompigli e d’inaudite catastrofi, hanno diffuso ovunque il discredito delle dottrine irreligiose e sovvertitrici, senza però che la vera religione abbia ripreso per questo il dovuto ascendente, senza che il cuore stanco per tanti guai si apra di buon grado alla speranza, e che l’intelletto cessi di fissare con grande incertezza l’avvenire e di presagire l’eventualità di una nuova serie di calamità. Grazie alle rivoluzioni, al progresso frenetico dell’industria, all’attività ed estensione del commercio, al prodigioso sviluppo ed espansione della stampa, ai progressi scientifici, alla facilità, rapidità ed ampiezza delle comunicazioni, al piacere dei viaggi, all’azione disgregante del Protestantesimo, all’incredulità ed allo scetticismo: grazie a tutto questo, lo spirito umano attualmente presenta una di quelle fasi singolari che fanno epoca nella storia.

L’intelletto, la fantasia, il cuore si trovano in uno stato di grande agitazione, d’instabilità, di sviluppo, presentando nello stesso tempo i più singolari contrasti, le stravaganze più ridicole e perfino le contraddizioni più assurde.

Se osserviamo le scienze, non noteremo più nello studio di esse quelle lunghe fatiche, quell’inesauribile pazienza, quel progredire lento e ponderato che caratterizzavano gli studi di altri tempi; vi scopriremo tuttavia uno spirito di osservazione, un desiderio di generalizzare, di sollevare le questioni ad un punto di vista sublime e trascendente, e soprattutto una smania di trattare tutte le scienze sotto l’aspetto in cui s’intravedono i punti di contatto che hanno fra

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loro i legami che le uniscono, e i canali attraverso i quali si trasmettono reciprocamente la luce.

Le questioni di religione, di politica, di morale, di diritto, di economia procedono tutte con lo stesso passo, camminano tutte insieme dando all’orizzonte scientifico una grandezza, un’immensità a cui non era mai giunto. Questo progresso, quest’abuso, o, se si vuole, questo caos è una testimonianza da non disprezzare quando si studia lo spirito del tempo o quando si esamina la situazione religiosa, perché non si tratta dell’opera di un uomo isolato, non è un effetto casuale, bensì il risultato di numerose cause che hanno condotta la società a questo punto. È un fenomeno straordinario frutto di altri fenomeni; è un’espressione dell’attuale stato dell’intelletto, un sintomo di forza e d’infermità, un annuncio di transizione e di cambiamento, forse un segno consolatore o forse un presagio funesto. Chi non ha osservato il cammino che va prendendo la fantasia, e la prodigiosa dilatazione del cuore in questa letteratura così varia, irregolare, incostante, ma nello stesso tempo così ricca di bellissime descrizioni, sovrabbondante di sentimenti delicatissimi e traboccante di audaci e generosi pensieri? Si dica pure ciò che si vuole sul declino delle scienze e sulla decadenza degli studi, si nominino in tono di scherno le luci del secolo, si dia un’occhiata dolente verso i tempi più dediti agli studi, più dotti, più eruditi: in tutto questo ci saranno delle verità, delle falsità, delle esagerazioni come sempre accade in tali prediche. Ma non potrà negarsi, qualunque sia l’utilità degli sforzi profusi, che forse mai come ora lo spirito umano ha impiegato una simile attività ed energia, che forse mai è stato visto agitarsi con movimento così vivo, così universale e vario, e forse mai come adesso ci fu il desiderio, la comprensibile curiosità e l’impazienza di sollevare un’estremità del velo che ricopre un immenso avvenire.

Chi dominerà elementi così opposti e così poderosi? Chi potrà ristabilire la calma in questo mare agitato da tante burrasche? Chi potrà dare unione, amalgama, consistenza per formare un insieme compatto capace di resistere all’azione dei tempi, a questi elementi che si respingono con tanta forza, che lottano incessantemente esplodendo con orribile fragore? Forse il Protestantesimo col suo principio fondamentale? O con l’imporre, diffondere ed accreditare il principio dissolutore dello spirito privato in materie religiose, e portando ad effetto questo progetto con la distribuzione degli esemplari della Bibbia in tutte le classi della società?

Società immense, orgogliose per le loro ricchezze, insuperbite per il loro sapere, distratte nei loro piaceri, raffinate nel lusso, esposte continuamente alla potente azione della stampa, detentrici di quei mezzi di comunicazione che sarebbero sembrati portentosi ai nostri antenati; società dove tutte le grandi

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passioni trovano il loro oggetto, ogni intrigo la complice ombra, ogni corruzione un velo, ogni delitto una qualifica, ogni errore un interprete, ogni interesse un pascolo; dove sono stati cambiati i nomi e minate tutte le fondamenta; società piene di ammonizioni e disinganni, che ondeggiano tra la verità e la menzogna con orribile incertezza dando di tanto in tanto un’occhiata alla divina fiamma per seguirne lo splendore, e accontentandosi però soltanto dei fugaci barlumi, facendo un sforzo per dominare la tempesta ma abbandonandosi subito in balìa dei venti e delle onde: queste sono le società moderne, che presentano un quadro straordinario e di grande interesse, dove le speranze e i timori, i pronostici e le congetture possono apparire in tutta libertà e ampiezza, ma senza potersi lusingare di prevedere ciò che accadrà, senza che l’uomo di senno possa prendere una decisione più prudente di quella di aspettare in silenzio lo svelamento di ciò che è segnato negli arcani del Signore, ai cui occhi sono presenti con tutta chiarezza gli avvenimenti di ogni tempo e i futuri destini di tutti i popoli.

Detto questo si giunge facilmente a capire che, essendo il Protestantesimo disgregante per sua stessa natura, non può produrre nulla, nell’ordine morale e religioso, che torni a vantaggio della felicità dei popoli, perché questa felicità non può esistere quando gli intelletti sono in continua lotta sulle più eminenti ed importanti questioni che si presentano allo spirito umano.

Quando in mezzo a questo tenebroso caos (in cui girano vagando elementi tanto diversi, opposti e tenaci, che lottando continuamente si urtano, si frantumano e si confondono), quando in questo caos l’osservatore va in cerca di una luce da cui possa venire un raggio che illumini il mondo, un’idea forte che frenando ogni disordine ed anarchia si renda padrona degl’intelletti e li riconduca sul sentiero della verità, gli si presenta immediatamente il Cattolicesimo come unica sorgente di tutti i beni. E vedendo come si sostiene tuttora con splendore e potenza nonostante gli inauditi sforzi che ancora oggi si fanno quotidianamente per annientarlo, il cuore gli si riempie di sollievo, e vi nasce la speranza che sembra invitarlo ad ossequiare questa religione divina rallegrandosi per il nuovo trionfo che andrà a conseguire sulla terra.

Vi fu un tempo in cui l’Europa, invasa da una sterminata moltitudine di barbari, vide in un sol colpo gettare a terra tutti le testimonianze dell’antica civiltà e cultura, i legislatori con le loro leggi, l’impero col suo splendore e la sua potenza, i dotti con le scienze, le arti insieme con i monumenti: tutto venne calpestato. E queste immense regioni, dove poco prima fioriva quella civiltà e cultura che i popoli avevano prodotto nell’arco di molti secoli, si videro di colpo immerse nell’ignoranza e nella barbarie. Ma la viva scintilla di quella

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luce proiettata dalla Palestina su tutta la terra continuava a brillare in mezzo al caos, e invano si alzò una densa nube per minacciarla di avvolgerla nelle tenebre. Alimentata dal soffio dell’Eterno continuava a risplendere: passarono i secoli ed essa andò allargando la sua brillante orbita e i popoli, che forse non pensavano che potesse più servir loro da guida per camminare senza inciampo nell’oscurità, la videro presentarsi come un sole sfolgorante che effonde ovunque la luce e la vita.

Chissà che negli arcani dell’Eterno non sia riservato alla Chiesa un altro trionfo più difficile e non meno salutare e sfolgorante! Insegnando all’ignoranza, incivilendo la barbarie, correggendo la rozzezza, ammansendo la ferocia, preservò la società dall’essere vittima, forse per sempre, della più atroce brutalità e della più umiliante stupidità. Ma qual più gloriosa impresa sarebbe per essa se, correggendo le idee, riordinando e purificando i sentimenti, fissando stabilmente gli eterni princìpi di ogni società, frenando le passioni, temperando gli odî, riducendo gli eccessi e padroneggiando tutti gl’intelletti e le volontà, potesse ergersi come regolatrice universale, che stimolando ogni genere di cognizioni e progressi ispirasse la giusta moderazione a questa società agitata con tanta furia da così poderosi elementi che, privi di un punto centrale d’attrazione, stanno continuamente minacciando di disgregarla e gettarla nel caos?

All’uomo non è dato di penetrare l’avvenire; ma il mondo materiale si dissolverebbe in una spaventosa catastrofe se solo per un momento venisse meno il principio fondamentale che dà unità, ordine e armonia ai vari movimenti di tutti i sistemi. E se la società, piena com’è di movimento, di comunicazione e di vita, non entra sotto la direzione di un principio regolatore universale e costante, nel fissare lo sguardo sulla sorte delle generazioni future il cuore si agita e si offusca la mente.

Vi è tuttavia un motivo di grande consolazione consistente nel progresso che il Cattolicesimo va facendo in vari paesi: in Francia e in Belgio si rinvigorisce; nel Nord dell’Europa, dal modo con cui è combattuto, sembra assai temuto; in Inghilterra in meno di mezzo secolo ha progredito tanto che, se non vi fossero prove incontestabili a riguardo, non si crederebbe; e nelle missioni torna a mostrarsi tanto intraprendente e fecondo da farci ricordare i tempi della sua massima influenza e potenza.

E quando gli altri popoli tendono all’unità, potremmo noi commettere l’errore d’incamminarci verso lo scisma? Quando gli altri popoli si rallegrerebbero grandemente se vedessero sussistere in loro qualche principio vitale che potesse ristabilire le forze che l’incredulità ha loro tolto, la Spagna che conserva solo il Cattolicesimo, ancora potente, vorrà forse accogliere nel

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suo seno questo germe di morte, grazie al quale non risorgerebbe mai più dalla sua infermità, e sarebbe anzi certa oltre ogni dubbio di andare incontro alla sua completa rovina? In questa rigenerazione morale alla quale aspirano i popoli che anelano ad uscire dalla situazione che li affligge, situazione in cui li hanno posti le dottrine irreligiose, sarà mai possibile che non si voglia riflettere sull’immenso vantaggio che trae la Spagna dall’essere una delle meno danneggiate dalla cancrena dell’irreligione, e dal conservare tuttora l’unità religiosa, inestimabile eredità di una lunga fila di secoli? Sarà mai possibile che non si avverta ciò che può essere quest’unità se l’apprezziamo come merita: quest’unità che si confonde con tutte le nostre glorie, che risveglia tante belle memorie e che potrebbe servire meravigliosamente da elemento di rinnovamento nell’ordine sociale?

Se mi dovessero chiedere cosa penso io riguardo all’imminenza del pericolo, se i tentativi che i Protestanti stanno facendo per produrre questo effetto abbiano qualche probabilità di riuscire, risponderò con dei distinguo. Il Protestantesimo è debolissimo, oltre che per natura, anche perché vecchio e instabile. Se intendono introdurlo in Spagna dovrà lottare con un avversario pieno di vita e di forza, e che ha nel paese profonde radici: per questo motivo e sotto questo aspetto non se ne può temere l’azione. Ma chi gl’impedirebbe, se arrivasse a stabilirsi sul nostro suolo per quanto ristretto ne fosse il dominio, di causare mali terribili?

Salta subito agli occhi che avremmo così un’altro pomo di discordia, e non è difficile prevedere i conflitti che provocherebbe in ogni momento. Siccome il Protestantesimo in Spagna, oltre l’intrinseca sua debolezza, avrebbe quella derivante dal nuovo clima in cui si troverebbe essendo fuori dal proprio elemento, si vedrebbe costretto a cercare alleati unendosi a chiunque gli porgesse la mano. È molto evidente quindi che servirebbe da elemento d’unione degli scontenti; e per quanto si allontanasse dal suo scopo originale, costituirebbe tuttavia il nucleo di nuove fazioni, la bandiera di qualche partito. Scandali, rancori, corruzione di costumi, tumulti e forse catastrofi: ecco l’effetto immediato e certo dell’introduzione del Protestantesimo tra noi. Faccio appello, per confermare questo mio parere, alla buonafede di chiunque conosca sufficientemente il popolo spagnolo.

Ma non è tutto. Il problema si aggrava e acquista un’importanza incalcolabile quando lo si osservi nelle sue relazioni con la politica degli altri Stati. Quali armi avrebbe allora questa politica per provocare sommosse di ogni genere nella nostra sventurata patria! Come avidamente se ne servirebbe! E come forse sta già lavorando per cercare un punto d’appoggio!

Vi è una nazione in Europa, terribile per l’immensa potenza,

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ragguardevole per i molti progressi nelle scienze e nelle arti, che essendo in possesso di enormi mezzi coi quali poter agire in tutto l’orbe terrestre, sa metterli in opera con una sagacia ed un’astuzia veramente stupefacenti. Essendo stata la prima tra le nazioni moderne a percorrere tutte le fasi di una rivoluzione religiosa e politica, e avendo osservate in mezzo a terribili disordini le passioni in tutta la loro spontaneità e il delitto in tutte le forme, ha sulle altre il vantaggio di conoscere tutti i modi d’agire al punto che, annoiata dei nomi ingannevoli con cui in questi periodi si è soliti coprire le passioni più vili e i più meschini interessi, ha indebolito la sua sensibilità in maniera tale che molto difficilmente al suo interno si potrebbero suscitare quelle tempeste che inondano gli altri paesi di sangue e di lacrime. La pace interiore non viene meno in mezzo all’agitazione e al calore delle dispute; e sebbene non manchino, in un avvenire più o meno lontano, le previsioni di situazioni difficili che potrebbero arrecarle gravissimi mali, gode intanto di quella calma che le viene assicurata dalla costituzione, dalle abitudini, dalle ricchezze e soprattutto dall’oceano che la circonda. Essendo in una situazione così vantaggiosa, osserva attentamente le sorti degli altri popoli per unirli al suo carro con catene dorate, se sono abbastanza ingenue da dare ascolto alle loro lusinghiere parole; oppure cerca di ostacolarne il cammino e impedirne il progresso se con spirito d’indipendenza cercano di svincolarsi dalla sua influenza. Intenta ad ingrandirsi sempre più per mezzo delle arti e del commercio, e soprattutto con un’eccellente politica mercantile, maschera tuttavia la materialità degl’interessi con ogni genere di coperture. E sebbene, quando si tratta degli altri popoli, sia del tutto indifferente riguardo alla religione e alle idee politiche, tuttavia si serve abilmente di queste potenti armi per procurarsi amici, abbattere nemici, e avvolgere gli uni e gli altri nella sua rete mercantile che tiene continuamente tesa ai quattro angoli della terra.

Non è possibile che sfugga alla sua sagacia il vantaggio che ricaverebbe se riuscisse ad includere la Spagna nel numero delle sue colonie, se potesse giungere a fraternizzare con essa nelle idee religiose: non tanto per la buona corrispondenza che simile fratellanza promuoverebbe tra i due popoli, quanto perché sarebbe questo il mezzo più sicuro per far perdere completamente allo Spagnolo quel carattere singolare, quel tratto austero che lo distingue tra tutti gli altri popoli, e fargli dimenticare l’unica idea nazionale e rigeneratrice che in mezzo a tanto spaventosi sconvolgimenti gli è sempre rimasta presente, in modo da renderlo esposto ad ogni tipo di idee estranee, docile e cedevole in tutti i sensi come meglio convenga alle interessate mire degli astuti protettori.

È opportuno ricordare che non vi è altra nazione in Europa che concepisca i suoi progetti con tanto intuito, li prepari con tanta astuzia, li

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esegua con tanta abilità e li porti a termine con pari tenacia. Siccome dopo le terribili rivoluzioni che la travagliarono è rimasta in uno stato di normalità fin dagli ultimi decenni del diciassettesimo secolo, e quindi del tutto esclusa dagli sconvolgimenti sofferti nello stesso periodo dagli altri popoli europei, ha potuto condurre un sistema ben regolato di politica sia interna che esterna. In tal modo i suoi uomini di stato hanno potuto formarsi con maggior accuratezza ereditando i documenti e gli obiettivi che servirono di guida ai loro predecessori. I suoi governanti conoscono bene quanto sia conveniente essere preparati ad ogni evento, e perciò non trascurano di osservare attentamente in ogni nazione se vi sia qualcosa che possa dar loro un vantaggio o se invece si mostri incline ad opporre resistenza. E fuori dall’àmbito politico, essi penetrano nel cuore della società sulla quale si propongono dominare; e qui vanno individuando quali siano le condizioni di vita, quale il principio vitale e quali le cause della forza e dell’efficienza. Nell’autunno del 1805 Pitt stava dando un pranzo in campagna, a cui partecipavano diversi suoi amici. Durante il pranzo giunse un dispaccio in cui gli si dava notizia della resa di Mack in Ulma con quarantamila uomini, e della marcia di Napoleone su Vienna. Comunicata che ebbe la funesta notizia agli amici, questi esclamarono: «tutto è perduto, contro Napoleone non c’è alcun rimedio». «Eppure un rimedio c’è – replicò Pitt – e il rimedio è nel sollevare contro di lui una guerra nazionale in Europa, e questa guerra deve cominciare in Spagna». «Sì signori – soggiunse poi – la Spagna sarà la prima nazione nella quale inizierà questa guerra patriottica, la sola che può liberare l’Europa».

Tanta era l’importanza che questo acuto uomo di stato dava alla forza di una idea nazionale, che in essa poneva una grande speranza: quella che riuscisse laddove gli sforzi riuniti di tutti i governi europei non potevano: abbattere Napoleone e liberare l’Europa. Non è raro che l’andamento delle cose portino con sé di questi casi: che quelle stesse idee nazionali che servirono un giorno di poderoso aiuto alle mire di un governo, gli riescano contrarie in un’altra occasione e gli siano di forte ostacolo; e allora, lungi dal provocarle e ravvivarle, gli conviene soffocarle. Ciò che può salvare una nazione, liberandola da protezioni interessate e garantendole la vera indipendenza, sono le idee grandi e generose radicate profondamente nei popoli; sono i sentimenti scolpiti nel cuore dall’azione del tempo, dall’influenza di forti istituzioni, dall’antichità dei costumi; è infine l’unità del pensiero religioso, che di un popolo fa un solo uomo. Allora il passato s’intreccia col presente e il presente si estende all’avvenire; sorgono nel petto quegli slanci d’entusiasmo che sono la sorgente di grandi gesta; fanno mostra si sé il disinteresse, l’energia, la costanza, perché vi è nelle idee fermezza e nobiltà, e generosità e grandezza nei

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cuori. Non è impossibile che, in una di quelle vicende che travagliano questa

nostra sventurata nazione, ci capiti la disgrazia di vedere uomini tanto ciechi da fare l’insensato tentativo d’introdurre nella nostra patria la religione protestante. Siamo troppo bene informati per dormire sonni tranquilli, e non abbiamo dimenticato i vari casi che mostrano chiaramente dove saremmo arrivati più di una volta se l’audacia di certi uomini non fosse stata soffocata dal forte malcontento della grande maggioranza del popolo. Non già che si ritengano possibili le violenze avvenute durante il regno di Enrico VIII, ma potrebbe succedere che approfittando di una forte rottura con la Santa Sede a causa della caparbietà ed ambizione di alcuni ecclesiastici, oppure con il pretesto di rendere effettivo nel nostro pese lo spirito di tolleranza, o per altri motivi, si tentasse con questa o quella scusa d’introdurre tra noi le dottrine protestanti.

E non sarebbe certo la tolleranza ad essere introdotta dai paesi stranieri, perché essa esiste già di fatto, ed è tanto estesa che sicuramente nessuno può lamentarsi di esser perseguitato o molestato per le sue opinioni religiose. Quello che ci verrebbe portato, e si farebbe ogni sforzo per trapiantarlo qui, sarebbe un nuovo sistema religioso al quale verrebbe fornito tutto il necessario per acquistare predominio e per indebolire o distruggere, se possibile, il Cattolicesimo. M’ingannerei di molto se il nuovo sistema religioso, una volta che lo avessero introdotto, non trovasse nell’ottusità e nel rancore manifestato da alcuni di quei nostri uomini di governo, o che tali si definiscono, una decisa difesa. Qualora lo si introducesse, è probabile che il nuovo sistema si presenterebbe in atteggiamento modesto chiedendo soltanto un posto dove essere accolto in nome della tolleranza e dell’ospitalità; ma ben presto lo vedremmo aumentare di audacia, reclamare diritti, aumentare le pretese e contrastare palmo a palmo il terreno alla religione cattolica. Torneranno allora a udirsi sempre più forte quelle invettive virulente e piene di rancore che tanto ci hanno stancato per molti anni; quelle cose ripetute continuamente da una scuola che delira perché sta per scomparire. Il disprezzo con cui i popoli guarderebbero la pretesa riforma sarebbe indubbiamente tacciato di ribellione, le pastorali dei Vescovi sarebbero qualificate come condizionamenti pericolosi, lo zelo fervente dei sacerdoti cattolici verrebbe tacciato di provocazione sediziosa, e l’unione dei fedeli per preservarsi dall’infezione sarebbe denunciata come una congiura diabolica ordita dall’intolleranza e dallo spirito di parte, ed affidata all’azione dell’ignoranza e del fanatismo.

Tra gli sforzi degli uni e la resistenza degli altri, vedremmo più o meno le stesse scene già accadute in tempi passati. E sebbene lo spirito di

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moderazione, che è uno dei caratteri del secolo, impedirebbe il ripetersi di quegli eccessi che macchiarono col sangue l’onore di altre nazioni, non per questo quelle scene mancherebbero di essere imitate. Giacché non bisogna dimenticare che, trattandosi di religione, in Spagna non si può confidare sulla stessa freddezza e indifferenza che in caso di un conflitto manifesterebbero attualmente altri popoli fra i quali i sentimenti religiosi hanno perso molto della loro forza. In Spagna questi sentimenti sono ancora molto profondi, vivi e forti, e il giorno in cui fossero attaccati apertamente e senza sotterfugi ci sarebbe una forte reazione popolare. Finora, quantunque sia vero che in materia religiosa ci siano stati degli scandali dolorosi ed anche terribili catastrofi, non è mancato mai un velo, più o meno trasparente, che copriva però alquanto la perversità delle intenzioni. Talvolta è stato un attacco contro questa o quella persona alla quale avevano addebitato trame politiche; altre volte contro alcune determinate classi accusate di delitti immaginari; altre ancora è scoppiata la rivoluzione, ed è stato detto che era impossibile contenerla e che gli oltraggi, gl’insulti e i sarcasmi, rivolti su quanto c’è di più sacro in cielo e in terra, erano cose inevitabili trattandosi di una plebaglia senza freni. In questi casi almeno veniva fornita una giustificazione che, poco o molto, qualcosa copre: ma qualora venissero attaccati di proposito, a sangue freddo, tutti i dogmi del Cattolicesimo, disprezzati i punti fondamentali della morale, messi in ridicolo i misteri più venerabili, schernite le cerimonie più sacre; quando si vedesse sorgere una chiesa contro una Chiesa, una cattedra contro una Cattedra, cosa succederebbe? È innegabile che gli animi s’inasprirebbero fino all’eccesso, ed anche se non si arrivasse a clamorosi conflitti (come pur tuttavia è da temere) almeno le controversie religiose assumerebbero un carattere così violento che ci sembrerebbe di tornare al sedicesimo secolo.

Essendo normale in Spagna che i princìpi dominanti nell’ordine politico siano del tutto opposti a quelli che governano la società, succederebbe che il principio religioso protestante rigettato dalla società verrebbe sostenuto dagli uomini che influiscono sull’ordine politico, ripetendo in circostanze aggravate il triste fenomeno che per tanti anni abbiamo dovuto constatare: cioè la volontà dei governanti di sviare a viva forza il cammino della società. Questa è una delle principali differenze tra la nostra rivoluzione e quella degli altri paesi, ed è la chiave per spiegare tante incresciose anomalie. In altri paesi l’idea di rivoluzione si impossessò della società e solo successivamente conquistò la sfera politica; da noi invece s’impadronì prima della sfera politica e solo in seguito s’abbassò alla sfera sociale. La società era ben lontana dal trovarsi pronta per simili novità, e perciò sono stati necessari scontri così forti e ripetuti.

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Da questa mancanza di concordia è risultato che il governo in Spagna esercita ben poca influenza sul popolo, volendo intendere per influenza quell’autorità morale che non ha bisogno di essere accompagnata dall’idea della forza. Indubbiamente questo è un male, perché tende a indebolire il potere, tanto necessario per qualunque società da non poterne prescindere. Ma non sono mancate occasioni in cui è stato anche un gran bene, perché non è fortuna da poco che ad un governo inconsistente e insensato faccia riscontro una società equilibrata e prudente la quale, mentre quello corre verso il precipizio senza riflettere, questa proceda camminando con passo cauto e solenne. Si può sperare molto dal buon istinto della nazione spagnola, dalla sua proverbiale serietà, accresciuta ancor più da tante vicende dolorose; da quel buon senso che le fa distinguere così bene la vera strada della sua felicità, e la rende sorda alle influenze insidiose con cui si è cercato di traviarla. Se è vero che già da molti anni per una funesta combinazione di circostanze e per la mancanza di armonia tra l’ordine sociale e quello politico, questa nazione non riesce a darsi un governo che ne sia la vera espressione, ne comprenda le inclinazioni, ne segua le tendenze e la conduca per il sentiero della prosperità; nutriamo tuttavia la speranza che un tale giorno arriverà, e che dal seno di questa società ricca di vita e di avvenire germoglierà quella stessa armonia che le manca e quell’equilibrio che ha perduto. Frattanto è della massima importanza che tutti gli uomini che si sentono battere in petto un cuore spagnolo e che non provano piacere nel vedere lacerate le viscere della patria, si uniscano, si mettano d’accordo, operino insieme per impedire che, prevalendo il genio del male, non giunga a spargere sul nostro suolo un seme di perenne discordia, non aggiunga questa calamità a tante altre e non affoghi i preziosi germogli da cui può risorgere vigorosa e brillante la nostra civiltà ringiovanita, sollevandosi dall’abbattimento e dalla prostrazione in cui fu sommersa da infelici circostanze.

L’anima si sente oppressa da un peso angoscioso al solo pensare che potrebbe venire un giorno in cui si dileguasse quell’unità religiosa che regna tra noi, che s’identifica con le nostre abitudini, con i nostri usi e costumi, con le nostre leggi; che guarda la culla della nostra monarchia nella grotta di Covadonga, che è l’insegna della nostra bandiera nella lotta contro il formidabile potere della Mezzaluna durata otto secoli; che mostra splendidamente la nostra civiltà in mezzo a tempi così funesti, accompagna le nostre temute legioni quando impongono silenzio all’Europa, conduce i nostri navigatori alla scoperta di nuovi mondi circumnavigando per primi il globo, incita i nostri guerrieri a completare eroiche conquiste e, in tempi a noi più vicini, suggella l’insieme di tante e così grandiose imprese col gettare

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Napoleone nella polvere. Voi che con tanta leggerezza vi affrettate a condannare le opere compiute in tanti secoli, che con tanta temerità insultate la nazione spagnola, che tacciate di barbarie e di oscurantismo il principio che presiedette alla nostra civiltà, sapete chi insultate? sapete chi ispirò il genio del gran Gonzalo, di Ferdinando Cortes, di Pizarro, del vincitore di Lepanto? Le ombre di Garcilasso, di Herrera, di Ercilla, di fra’Luigi di Leone, di Cervantes, di Lope de Vega, non v’ispirano rispetto? Osereste dunque spezzare il vincolo che ci lega a loro rendendoci indegna prole di così fulgidi eroi? E separare con un abisso la nostra fede dalla loro, i nostri costumi dai loro, rinnegando così tutte le nostre tradizioni, dimenticando le più stupende e gloriose memorie, e permettendo che le grandiose e venerabili testimonianze che la religiosità dei nostri antenati ci lasciò in eredità rimangano tra noi solamente come il più eloquente e severo rimprovero? Consentireste che si dissecchino le ricche sorgenti a cui possiamo attingere per ispirare la letteratura, rinvigorire la scienza, riordinare la legislazione, ristabilire lo spirito nazionale, restaurare la nostra gloria e collocare nuovamente questa sventurata nazione in quell’alto posto che meritano le sue virtù, dandole la prosperità e il benessere che con tanto affanno insegue e che si augura con tutto il cuore? Torna all’indice

CAPITOLO XIII Comincia il confronto tra il Protestantesimo e il Cattolicesimo nelle loro relazioni col progresso sociale dei popoli. Libertà: senso vago di questa parola. La civiltà europea è dovuta principalmente al Cattolicesimo. Confronto dell’Oriente con l’Occidente. Congetture sui destini del Cattolicesimo nelle catastrofi che possono minacciare l’Europa. Riflessioni sugli studi storico-filosofici. Fatalismo di certa scuola storica moderna.

Dopo aver fatto nel quadro che ho appena finito di comporre il confronto tra il Cattolicesimo e il Protestantesimo sotto l’aspetto religioso, e dimostrata in modo lampante la superiorità del primo sul secondo non solo riguardo all’attendibilità, ma anche in tutto ciò che si riferisce agli istinti, ai sentimenti, alle idee, al carattere dello spirito umano, sarà bene passare ora ad un’altra questione, non di maggiore importanza ma meno approfondita, nella quale sarà necessario lottare contro forti antipatie, e spazzar via un gran numero di pregiudizi e di errori. Se nel lavoro che sto per iniziare non mancano le difficoltà, traggo coraggio proprio dall’importanza della materia e dalla sua conformità al gusto scientifico del secolo, che dovrebbe sollecitare a leggere. Il che dovrebbe costituire un argine al pericolo che minaccia solitamente chi

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scrive in favore della religione cattolica: pericolo cioè di essere giudicati senza essere ascoltati. Ecco dunque la questione nei suoi termini precisi: «Facendo un confronto tra il Cattolicesimo e il Protestantesimo, quale dei due è più confacente alla vera libertà, al vero progresso dei popoli, alla causa della civiltà?»

Libertà: questa è una di quelle parole di cui generalmente si fa tanto uso quanto poco se ne intende il senso: parole che, rappresentando una certa idea, vaga ma molto facile a percepirsi, presentano l’apparenza ingannatrice di una assoluta chiarezza quando invece, per il gran numero e la varietà degli oggetti ai quali vengono attribuite, possono intendersi in mille sensi diversi, per cui si rende estremamente difficile comprenderne il vero senso. Chi mai potrà formare l’intero catalogo delle applicazioni alle quali viene data la parola libertà? Salvando tra queste un’idea che potremmo chiamare basilare, infinite sono le modificazioni e gradazioni a cui va soggetta. L’aria circola con libertà; si fa una radura intorno alla pianta perché cresca e si espanda in libertà; si ripuliscono i tubi d’irrigazione perché l’acqua scorra con libertà; al pesce preso nella rete, all’uccellino rinchiuso in gabbia, affrancandoli si dà loro la libertà; un amico è trattato con libertà; vi sono maniere libere, pensieri liberi, espressioni, eredità, volontà, azioni libere; il carcerato non ha libertà, privo di libertà è il figlio di famiglia, ha poca libertà una fanciulla, una persona accasata non è più libera, un uomo in terra straniera si comporta con più libertà, il soldato non ha libertà; vi sono uomini liberi dal reclutamento, liberi dai tributi; vi sono votazioni libere, discorsi liberi, interpretazioni libere, versi liberi; libertà di commercio, d’insegnamento, di stampa, di coscienza; libertà civile, libertà politica, libertà giusta, ingiusta, ragionevole, irragionevole, moderata, eccessiva, regolata, licenziosa, opportuna, inopportuna. Ma a che scopo affaticarsi oltre nel fare questa elencazione, se è quasi impossibile portare a termine una tanto noiosa faccenda? Era però necessario intrattenersi un poco anche a rischio di annoiare il lettore. Forse il ricordo di questa noia potrà contribuire a scolpire profondamente nella memoria la salutare verità che quando in una conversazione, negli scritti, nelle discussioni pubbliche, nelle leggi, si usa tanto spesso questa parola applicandola ad oggetti della maggiore importanza, è opportuno riflettere con grande saggezza sul numero e sulla natura delle idee che racchiude nel caso considerato, sul senso che convenga alla materia, sulle variazioni richieste dalle circostanze, sulle cautele e sul giudizio che si richiedono nell’applicarla.

Qualunque sia il significato col quale si adopera la parola libertà, possiamo notare che comprende sempre in sé la non esistenza di una causa che impedisca o limiti l’esercizio di qualche facoltà. Ne consegue che, per fissare

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in ciascun caso il vero senso di questa parola, è indispensabile badare alla natura e alle circostanze della facoltà di cui si vuole impedire o limitare l’uso, senza perdere di vista i vari oggetti sui quali si aggira, le condizioni con cui si esercita, come anche il carattere, l’efficacia e l’estensione della causa che s’impiegherebbe per l’effetto. Per chiarire la materia proviamo a formare il giudizio su questa proposizione: l’uomo deve avere la libertà di pensare. Qui si afferma che all’uomo non si deve limitare il pensiero. Orbene: parlate voi di un limite materiale esercitato direttamente sul pensiero stesso? Ma allora la proposizione è del tutto inutile, perché essendo impossibile una tale restrizione è vano dire che non si debba fare. O forse intendete che non si deve limitare l’espressione del pensiero, cioè non si deve impedire né restringere la libertà di manifestare ciò che si pensa? In tal caso avete fatto un notevole progresso, avendo portata la questione su un terreno molto diverso. E se poi non volete intendere che ogni uomo in ogni momento e ovunque si trovi possa dire su qualunque materia tutto ciò che gli venga in mente e nel modo che più gli piaccia, dovrete distinguere cose, persone, luoghi, tempi, modi, condizioni: in una parola pensare a numerosissime circostanze: impedire del tutto in certi casi, limitare in altri, ampliare in questi, restringere in quelli, e così avrete da fare tanta di quella fatica che a nulla vi sarà servito aver posta quella proposizione così generica in favore della libertà di pensare, con tutta la sua apparenza di semplicità e chiarezza.

Ma penetrando ancor più nel santuario medesimo del pensiero; in quella regione dove lo sguardo di un altro uomo non può giungere e che è manifesta solo agli occhi di Dio: che significa la libertà di pensare? Forse il pensiero non ha le sue leggi alle quali deve assoggettarsi per necessità se non vuole immergersi nel caos? Può disprezzare la norma di una sana ragione? Può non ascoltare i consigli del buon senso? Dimenticare che ha per oggetto la verità? Prescindere dagli eterni princìpi della morale?

Ecco allora come nell’esaminare ciò che significa la parola libertà e nell’applicarla a ciò che vi è sicuramente di più libero nell’uomo, cioè il pensiero, andiamo incontro ad una tale moltitudine e varietà di significati per cui siamo costretti a fare un’infinità di distinzioni e a restringere la proposizione generale, se vogliamo esprimere qualcosa che non sia in contraddizione con i princìpi della religione e del buon senso, con le prescrizioni delle leggi eterne della morale e con quanto richiedono gli stessi interessi dell’individuo, e il buon ordine e la conservazione della società. Il che non potrebbe dirsi per tante altre libertà, che si invocano continuamente con nomi imprecisati e vaghi, coperti opportunamente dall’equivoco e dalle tenebre.

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Pongo questi esempi al solo scopo di non confondere le idee, e perché nel difendere, come sto facendo, la causa del Cattolicesimo, non ho bisogno di fare l’avvocato dell’oppressione, né d’invocare sugli uomini una mano di ferro, né di approvare coloro che reprimono i loro sacri diritti. Sacri, sì, sacri, perché secondo l’insegnamento della divina religione di Gesù Cristo un uomo è sacro agli occhi dell’altro uomo per la sua nobile origine, per la sua destinazione, per l’immagine di Dio che in lui risplende, e per essere stato redento con ineffabile degnazione ed amore dal Figlio stesso dell’Eterno. Questa religione divina dichiara sacri i diritti dell’uomo quando il divino Fondatore minaccia un eterno supplizio non solamente a chi lo uccida, non solamente a chi lo ferisca o lo derubi ma, cosa mirabile! perfino a chi arrivi ad offenderlo soltanto a parole: «Chi chiamerà sciocco il suo fratello, sarà reo del fuoco dell’inferno» (cfr Matteo 5, 22). Così parlava il divino Maestro.

Viene da fremere per l’indignazione quando si sente che alla religione di Gesù Cristo viene attribuita l’inclinazione a ridurre in schiavitù. Certo, se si confonde lo spirito della vera libertà con lo spirito dei demagoghi, nel Cattolicesimo la loro libertà non si trova; ma se non si vuole cambiare mostruosamente i nomi, se si dà alla parola libertà il suo senso più ragionevole, il più giusto, il più utile, il più amabile, in tal caso la religione cattolica può reclamare la gratitudine del genere umano: essa ha portato la civiltà nelle nazioni che l’hanno professata, e la civiltà è la vera libertà.

È un fatto riconosciuto universalmente e ammesso da tutti che il Cristianesimo ha esercitato un’influenza molto forte e salutare nello sviluppo della civiltà europea; tuttavia alcuni non dànno a questo fatto l’importanza che merita perché non l’hanno sufficientemente valutato. Riguardo alla civiltà talvolta viene distinto l’influsso del Cristianesimo da quello del Cattolicesimo, esagerando l’eccellenza di quello e sminuendo i meriti di questo, senza riflettere che quando si tratta della civiltà europea il Cattolicesimo può chiedere sempre per sé una considerazione prevalente e per molto tempo anche esclusiva, poiché per molti secoli si trovò completamente solo ad affaticarsi per questa grande opera. Non si è voluto notare che all’apparire del Protestantesimo l’opera stava già per essere portata a termine; e con un’ingiustizia ed un’ingratitudine non altrimenti qualificabili, si è attribuita al Cattolicesimo la fama di spirito di barbarie, di oscurantismo, di oppressione, nel momento stesso che si faceva sfoggio ed ostentazione della ricca civiltà, delle conoscenze e della libertà che al Cattolicesimo erano principalmente dovute.

Se non si voleva esaminare a fondo le intime relazioni del Cattolicesimo con la civiltà europea, se faceva difetto la pazienza necessaria per le lunghe

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ricerche a cui obbliga un tal esame, sarebbe stato opportuno almeno dare un’occhiata allo stato dei paesi dove in secoli sventurati la religione cattolica non esercitò tutta la sua influenza, e paragonarli con gli altri nei quali essa fu il principio dominante. L’Oriente e l’Occidente avrebbero presentato due punti di riferimento molto appropriati per valutare ciò che vale il Cristianesimo senza il Cattolicesimo quando si tratta di salvare la civiltà e l’esistenza delle nazioni. Entrambi infatti professavano il Cristianesimo (in modo però che in Oriente il principio cattolico era debole e vacillante mentre si mantenne vigoroso e profondamente radicato in Occidente), ed entrambi furono soggetti a grandi sconvolgimenti. In Occidente gli sconvolgimenti furono molti e terrificanti e il caos giunse al massimo: eppure nonostante il caos vi hanno germogliato la luce e la vita. Né la barbarie dei popoli che invasero queste regioni e se ne impossessarono, né le violente scorrerie dell’Islamismo quando questo era al culmine della sua potenza, furono capaci di soffocare il germe di una civiltà ricca e feconda. In Oriente invece tutto andava invecchiando e diveniva instabile, niente si rinnovava; e ai colpi dell’ariete, il quale nulla aveva potuto contro di noi, tutto cadde. Il potere spirituale di Roma, l’influsso che ebbe nelle cose temporali, diedero certamente frutti molto diversi da quelli che produsse nelle stesse circostanze il rancore dei suoi rivali.

Un domani l’Europa potrebbe essere destinata a soffrire nuovamente per qualche spaventoso sconvolgimento generale: per esempio per il diffondersi delle idee rivoluzionarie; o per qualche violenta aggressione del pauperismo sui poteri sociali e sulla proprietà; oppure ancora per le mire di quel colosso che si eleva nel Nord su di un trono posato fra eterne nevi. Questo colosso, con l’intelligenza nella mente e la forza cieca nel braccio, e disponendo dei mezzi sia della civiltà che della barbarie, scruta continuamente l’Oriente, il Mezzogiorno e l’Occidente con quello sguardo avido e astuto che, come ci mostra la storia, è il segno caratteristico di tutti gl’imperi conquistatori. Se dunque il colosso, spiando il momento opportuno, si accingesse a un tentativo contro l’indipendenza dell’Europa, allora forse si avrebbe una prova di ciò che vale nelle grandi sofferenze il principio cattolico; allora si toccherebbe con mano il potere di quell’unità che il Cattolicesimo invoca e sostiene; allora ci si renderebbe conto (andando con la mente ai secoli del Medioevo) in cosa consistette una delle principali cause della debolezza dell’Oriente e della solidità dell’Occidente; allora si rammenterebbe un fatto che, sebbene sia recente, comincia però ad essere dimenticato, cioè che il popolo che col suo intrepido valore fece argine alla forza di Napoleone fu quel popolo proverbialmente cattolico. E chi sa che gli attentati commessi in Russia contro il Cattolicesimo, attentati deplorati dal Vicario di Gesù Cristo con accenti

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dolenti, non siano stati ispirati dal segreto presentimento o forse dall’intuizione della necessità d’indebolire quel sublime potere che quando sono in gioco le sorti dell’umanità è stato in ogni epoca il centro d’incrollabile resistenza? Ma torniamo a noi.

Non si può negare che fin dal sedicesimo secolo la civiltà europea si è dimostrata molto vigorosa e brillante; ma è un errore attribuire questo fatto al Protestantesimo. Per esaminare l’influenza e l’efficacia di un fatto non si devono osservare solamente i successi venuti dopo, occorre anche considerare se questi successi erano già stati preparati, se non sono altro che il risultato conseguente ad un fatto anteriore. Non è valido quel ragionamento tacciato di sofistico dai dialettici: dopo di questo, dunque per questo; post hoc, ergo propter hoc. Senza il Protestantesimo e prima di esso la civiltà europea era già molto avanzata per gli sforzi e l’influsso della religione cattolica; e la grandezza e lo splendore successivi non si ebbero grazie al Protestantesimo, ma nonostante esso.

A confondere non poco le idee su questo fatto ha contribuito lo studio poco approfondito che si è fatto sul Cristianesimo, e l’essersi spesso accontentati di un’occhiata superficiale sul principio di fratellanza che esso raccomanda tanto, senza fermarsi a studiare diligentemente la storia della Chiesa. Per comprendere a fondo un’istituzione non basta soffermarsi sulle idee principali, è necessario altresì seguirne i passi: come le stesse idee vanno ad effetto, e come trionfa sugli ostacoli che gli si frappongono. Non si avrà mai l’esatta conoscenza di un fatto storico se non se ne studia la storia con serietà. E lo studio della storia della Chiesa cattolica nelle sue relazioni con la civiltà lascia purtroppo molto a desiderare; non perché sulla storia della Chiesa non siano stati fatti studi approfonditi; ma perché da quando si è diffusa la smania per l’analisi sociale non è stata più vista come l’oggetto di quelle meravigliose fatiche che tanto lustro le diedero sotto l’aspetto dogmatico e critico.

Un altro impedimento si oppone alla possibilità d’illustrare convenientemente questa materia, impedimento che consiste nel dare eccessiva importanza alle intenzioni degli uomini, evitando poi di considerare l’avanzare grave e maestoso delle cose. La grandezza e la natura degli avvenimenti vengono valutati in base ai motivi immediati che li determinarono ed ai fini proposti dagli uomini che in essi intervennero. Questo è un errore gravissimo, perché lo sguardo deve abbracciare uno spazio più ampio, osservare il successivo sviluppo delle idee, l’influenza che queste esercitarono sugli avvenimenti, le istituzioni che con essi andavano sorgendo; e considerando il tutto in un unico, immenso quadro, senza fermarsi a contemplare i singoli fatti isolatamente e nella loro limitatezza. Gli stessi uomini che intervennero come

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protagonisti in quei grandi avvenimenti che cambiarono le sorti di una parte del genere umano, raramente compresero quanto sia necessario incidere profondamente nell’animo questa importante verità. Il corso dell’umanità è un grande dramma, si distribuiscono le parti tra gli uomini che passano e spariscono: l’uomo è ben piccolo, Dio solo è grande. Né gli attori delle Sirene degli antichi imperi d’Oriente, né Alessandro che irruppe in Asia sottomettendo numerose nazioni, né i Romani che assoggettarono il mondo, né i barbari che abbatterono e frantumarono l’impero romano, né i musulmani che dominarono l’Asia e l’Africa e minacciarono l’indipendenza dell’Europa pensarono mai, né potevano pensarlo, di essere semplici strumenti per la realizzazione dei destini di cui ammiriamo il compimento.

Voglio dire con questo che quando si parla della civiltà cristiana e si vanno annotando e analizzando i fatti che ne seguono lo sviluppo non è necessario, e molte volte neanche conveniente, supporre che gli uomini che vi svolsero un ruolo primario conoscessero tutti i risvolti derivanti dall’esito della loro opera. Alla gloria di un uomo deve bastare che sia segnalato come strumento scelto dalla Provvidenza, senza che sia necessario fermarsi troppo sulle sue conoscenze o intenzioni personali. Basta riconoscere che un raggio di luce è sceso dal cielo ad illuminargli la mente; ma non è necessario sapere se egli stesso pretendeva che questo raggio si spandesse anche sulle generazioni future. Gli uomini piccoli sono generalmente più piccoli di quello che credono; ma gli uomini grandi sono talvolta più grandi di quello che pensano, e non conoscono tutta la loro grandezza proprio perché non sanno di essere strumenti degli alti disegni della Provvidenza.

Un’altra osservazione c’è da fare riguardo allo studio dei grandi avvenimenti, ed è che non si deve mai indagare con l’illusione di trovare un sistema di cui la struttura e l’armonia si rivelino a prima vista. È necessario rassegnarsi a dover vedere alcune irregolarità ed alcuni oggetti poco gradevoli, e cautelarsi contro l’impazienza sconsiderata di voler prevenire il tempo; è indispensabile spogliarsi di quella smania (sempre presente, in modo più o meno accentuato) di trovare questo sistema tutto formato secondo le nostre idee, di vederlo procedere nel modo che più ci aggrada. Non vedete la natura così grande, così varia e ricca come elargisce con tanto disordine i suoi prodotti: nascondendo pietre preziose e ricche miniere sotto masse enormi di terra grezza, e mostrando immense montagne, rupi inaccessibili, orridi e scoscesi precipizi, che contrastano con amene ed estese pianure? Non vedete quest’apparente disordine, questa prodigalità in mezzo a cui stanno lavorando in segreto accordo innumerevoli elementi per produrre quell’unione meravigliosa che incanta i nostri occhi e forma le meraviglie del naturalista?

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Ecco dunque la società: i fatti sono divisi e sparpagliati qua e là spesso senza presentare alcuna apparenza di ordine e di corrispondenza: si succedono gli avvenimenti, si urtano l’un l’altro senza che se ne scorga un piano; gli uomini si riuniscono, si separano, si aiutano e si combattono; passa però il tempo e quest’elemento indispensabile prepara la realizzazione di grandi opere, e tutto va procedendo verso il fine segnato negli arcani dell’Eterno.

Ecco come deve essere inteso il cammino dell’umanità, ecco la norma dello studio filosofico della storia, il modo di comprendere l’influsso di quelle idee feconde, di quelle istituzioni forti e potenti che appaiono di quando in quando in mezzo agli uomini per cambiare la faccia della terra. In questi studi, quando scavando nel fondo delle cose si scopre un’idea feconda, un’istituzione forte, l’animo, lungi dallo spaventarsi nell’incontrare qualche irregolarità, si compiace e si conforta: perché è un segno evidente che l’idea è piena di verità e l’istituzione è sovrabbondante di vita; perché si vedono attraversare il caos dei secoli ed uscire indenni dai più orribili sconvolgimenti. Che questi o quegli uomini non si siano lasciati guidare dall’idea e non abbiano corrisposto all’oggetto dell’istituzione, non ha alcuna importanza dal momento che l’istituzione è sopravvissuta ai disordini e l’idea è rimasta a galla sulla superficie del mare burrascoso delle passioni. E allora, il rammentare le debolezze, le miserie, la colpa, i delitti degli uomini, è il più frequente elogio dell’idea e dell’istituzione.

Considerati così, gli uomini non vengono tolti dalla loro scena, né si pretende da loro ciò che ragionevolmente non si può pretendere. Incastrati, per così dire, nel profondo alveo del gran torrente degli avvenimenti, non si deve attribuisce alla loro intelligenza e volontà una maggiore grandezza di quella che realmente fu; e senza per questo mancare di apprezzare nel giusto modo la grandezza e la natura delle opere alle quali presero parte, non è opportuno dare un’importanza eccessiva alle loro persone onorandoli con elogi che non meritano o dando a questi elogi delle ingiuste motivazioni. In questo modo non verranno confusi tempi e circostanze; e l’osservatore potrà esaminare con saggezza ed equilibrio gli avvenimenti che gli si vanno parando davanti agli occhi; non parlerà dell’impero di Carlo Magno come potrebbe parlare dell’impero di Napoleone, né proromperà in aspre invettive contro Gregorio VII perché nella sua politica non tenne la stessa condotta di Gregorio XVI.

E sia chiaro che io non esigo dallo storico filosofo un’impassibile indifferenza per il bene e per il male, per il giusto e per l’ingiusto; non chiedo indulgenza per il vizio e non pretendo che si trascuri di elogiare la virtù. Non ho simpatia per quella scuola storica fatalista che ci presenta in modo nuovo il destino degli antichi sulla terra, scuola che se ampliasse alquanto la sua

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influenza porterebbe alla rovina la parte migliore dei lavori storici ed estinguerebbe la scintilla delle più generose ispirazioni. Nel cammino della società vedo un progetto, vedo una relazione, ma non una cieca necessità; non credo che gli avvenimenti confusamente mischiati si agitino e si sovrappongano nell’urna buia del destino, né che i fati abbiano rinchiuso il mondo in un cerchio di ferro.

Vedo bensì una meravigliosa catena tesa sopra il corso dei secoli; una catena che non impedisce l’agire degl’individui e delle nazioni, che oscillando dolcemente si adatta al flusso e riflusso stabilito dalla stessa natura delle cose; che col suo contatto fa germogliare nella mente degli uomini grandiosi pensieri: catena d’oro che pende dalla mano del Fattore supremo, lavorata con infinita diligenza, e retta con ineffabile amore. Torna all’indice

CAPITOLO XIV Stato religioso, sociale e scientifico del mondo all’epoca in cui apparve il Cristianesimo. Diritto romano. Riflessioni sull’influenza esercitata dalle idee cristiane sul diritto romano. Vizi del sistema politico dell’impero. Sistema del Cristianesimo per rigenerare la società: il suo primo passo fu diretto al cambiamento delle idee. Confronto tra il Cristianesimo e il paganesimo nell’insegnamento delle buone dottrine. Osservazioni sul pulpito dei Protestanti.

In che stato fu trovato il mondo dal Cristianesimo? Questa è una domanda sulla quale dobbiamo fermare la nostra attenzione se vogliamo valutare adeguatamente i benefìci portati da questa religione divina all’individuo e alla società, e capire il vero carattere della civiltà cristiana.

Il quadro che presentava la società in cui nacque il Cristianesimo era certamente fosco. Bella all’apparenza, ma ferita al cuore da una malattia mortale, la società presentava l’immagine della più ripugnante corruzione coperta dallo splendido manto dell’ostentazione e dell’opulenza. La morale senza fondamenti, i costumi senza pudore, le passioni senza freni, le leggi senza castighi, la religione senza Dio; le idee fluttuavano in balìa dei pregiudizi, del fanatismo religioso e delle sottigliezze filosofiche. L’uomo era per se stesso un profondo mistero, e non aveva alcuna stima per la propria dignità perché si lasciava abbassare fino al livello degli animali. E quando si disponeva a considerarla, non riusciva a contenerla entro i limiti stabiliti dalla ragione e dalla natura tanto da porre sugli altari come dèi gli eroi e perfino i più

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abominevoli mostri, mentre la maggior parte del genere umano gemeva nella più abietta schiavitù.

In questa situazione presto o tardi doveva inevitabilmente diffondersi la dissoluzione sociale; e anche se non fosse sopraggiunta la violenta invasione dei barbari quella società prima o poi sarebbe andata a soqquadro, perché non aveva in sé un’idea feconda, un pensiero incoraggiante, un barlume di speranza che potessero preservarla dalla rovina.

L’idolatria aveva perduto la sua forza: logorata dal tempo e dall’uso spudorato che ne avevano fatto le passioni; con la sua fragile struttura esposta al fuoco divorante dell’osservazione filosofica, era in uno stato di estremo discredito. E se per effetto di abitudini radicate nel tempo esercitava sull’animo dei popoli qualche effettiva influenza, non era però capace né di ristabilire l’armonia nella società, né di produrre quel caldo entusiasmo che ispira grandi gesta: entusiasmo che in cuori integri portava peraltro fino alla superstizione più irragionevole ed assurda. Giudicando dal rilassamento dei costumi, dalla debolezza degli animi, dall’effeminatezza e dal lusso, dal completo abbandono ai più ripugnanti svaghi e disgustosi piaceri, si vede chiaramente che le idee religiose non conservavano nulla di quella gravità che osserviamo nei tempi eroici, e per mancanza di efficacia avevano ben poco ascendente sull’animo dei popoli, mentre servivano penosamente da strumenti di dissoluzione. E tutto ciò era inevitabile. Non era possibile che popoli che si erano elevati ad un alto grado di cultura, quali i Greci ed i Romani che avevano sentito disputare i loro dotti sulle grandi questioni intorno a Dio e all’uomo, si mantenessero in quella semplicità necessaria per credere in buona fede alle intollerabili assurdità di cui era colmo il paganesimo. E qualunque fosse la disposizione d’animo della parte più ignorante del popolo, non lo credevano certamente coloro che si elevavano un po’al di sopra del livello comune, soprattutto coloro che ascoltavano saggi filosofi come Cicerone, o che si deliziavano dei motti maliziosi dei loro poeti satirici.

Se la religione era impotente, restava tuttavia un punto su cui appoggiarsi: la scienza. Prima di esaminare ciò che da essa si poteva sperare è opportuno osservare che la scienza non fondò mai una società, né fu mai capace di restituirle il perduto equilibrio. Si consulti la storia dei tempi antichi, e si troveranno alla guida di alcuni popoli uomini eminenti che, esercitando un enorme influsso sul cuore dei loro simili, dettano leggi, reprimono abusi, rettificano le idee, correggono i costumi e stabiliscono un governo fondandolo su savie istituzioni, determinando più o meno vantaggiosamente la sorte e la prosperità dei popoli che si sottoposero alla loro guida. Ma s’ingannerebbe non poco chi ritenesse che questi uomini agissero in conseguenza di ciò che noi

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chiamiamo combinazioni scientifiche. Questi uomini, generalmente semplici, ed anche mediocri e rozzi, agivano dietro gl’impulsi del loro cuore generoso, e guidati dal buon senso e da quella giudiziosa prudenza che guidano il padre di famiglia nel disbrigo degli affari domestici, non seguirono mai come regola quelle miserabili sottigliezze che noi chiamiamo teorie, e quella confusione indigesta d’idee che noi mascheriamo col nome pomposo di scienza. Furono forse in Grecia i migliori tempi quelli nei quali fiorirono Platone e Aristotele? Quei fieri Romani che soggiogarono il mondo, non possedevano sicuramente l’estensione e la varietà di cognizioni che ammiriamo nel secolo di Augusto: ciò nonostante chi vorrà cambiare questi tempi con quelli, questi uomini con quegli altri?

Anche i secoli moderni potrebbero fornirci prove abbondanti dell’inefficacia della scienza nelle istituzioni sociali: la qual cosa è molto facile da provare in quanto i risultati pratici ottenuti dalle scienze naturali sono evidenti. In queste si direbbe che è stato concesso all’uomo ciò che in quella, cioè la scienza delle istituzioni sociali, gli fu negato sebbene, considerata a fondo la cosa, non vi è tanta differenza come a prima vista potrebbe sembrare. Quando l’uomo cerca di applicare le cognizioni che ha acquisito sulla natura, si vede costretto a rispettarla; e siccome, anche se lo volesse, non arriverebbe mai con la sua debole mano a causarle un grande stravolgimento, nei suoi esperimenti si limita a tentativi di poca importanza, mosso (dallo stesso desiderio di raggiungere il successo) ad operare conformemente alle leggi cui vanno soggetti i corpi sui quali si esercita. Nell’applicazione delle scienze sociali succede ben altro. L’uomo può agire direttamente e immediatamente sulla società, può sconvolgerla con la sua mano; non si vede limitato dalla necessità a praticare i suoi esperimenti in oggetti di poca entità e a rispettare le leggi eterne della società, e può immaginarle a suo disposizione, procedere in modo conforme alle sue sottigliezze e accumulare disastri di cui l’umanità debba lamentarsi. Si pensi alle stravaganze che nelle scuole filosofiche antiche e moderne sono state teorizzate sulla natura, e a ciò che sarebbe successo alla meravigliosa macchina dell’universo se i filosofi avessero potuto maneggiarla a loro piacere. Disgraziatamente nella società non ci si ferma alle teorie: si fanno prove su lei stessa e sugli eterni suoi fondamenti, e così ne risultano mali gravissimi, mali che mostrano in modo evidente la debolezza della scienza dell’uomo. Non bisogna dimenticarlo: la scienza propriamente detta vale poco per dare ordine alla società; e nei tempi moderni nei quali si presenta con tanto orgoglio per la sua pretesa fecondità sarà bene ricordarle che essa attribuisce alle sue fatiche quello che è frutto del corso dei secoli, del sano istinto dei popoli, e talvolta delle ispirazioni di un genio. Né l’istinto dei popoli, né il

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genio hanno in sé qualcosa che assomigli alla scienza. Ma uscendo da queste considerazioni generali, sempre molto utili perché

portano alla conoscenza dell’uomo, cosa mai si poteva sperare dal falso barlume di scienza ancora vivo tra le rovine delle antiche scuole dei tempi di cui parliamo? Scarse com’erano in tali materie le conoscenze dei filosofi antichi, ed anche dei più illustri, non si può tuttavia negare che i nomi di Socrate, di Platone e di Aristotele rammentano qualcosa d’importante, e che in mezzo alle incertezze e alle aberrazioni presentano concetti degni dell’elevatezza del loro ingegno. Ma quando apparve il Cristianesimo i germi del sapere diffuso da quei grandi uomini erano ormai diventati inefficaci: i sogni avevano preso il posto dei pensieri alti e fecondi, il prurito della disputa quello dell’amore della sapienza, e i sofismi e le sottigliezze erano subentrati alla maturità del giudizio e alla severità del raziocinio. Cadute le mitiche scuole, e sulle loro rovine essendone sorte altre tanto sterili quanto strane, germogliava da ogni parte una gran quantità di sofisti come quegli insetti immondi che annunciano la corruzione di un cadavere. La Chiesa ci ha conservato un documento preziosissimo per poter giudicare la scienza di quei tempi, cioè la storia delle prime eresie. Prescindendo dalla loro profonda immoralità e da quanto in esse muove a sdegno, può esserci cosa più vuota, più insulsa, più degna di compassione? (14).

La legislazione romana, tanto degna di lode per la giustizia ed equità che contiene e per il giudizio e la saggezza che vi risplendono, sebbene possa essere considerata uno dei più preziosi ornamenti della civiltà antica, non aveva tuttavia la forza di prevenire la dissoluzione che minacciava la società, che per la propria salvezza non fu mai debitrice nei confronti dei giuristi: un’opera così grande non è nelle possibilità della giurisprudenza. Siano pure le leggi perfette quanto si voglia, la giurisprudenza elevata al più alto grado e i giuristi animati dai più puri sentimenti e guidati dalle più rette intenzioni: a che gioverà tutto questo se il cuore della società è corrotto, i princìpi morali hanno perduto il loro valore e i costumi sono in perpetua lotta con le leggi?

Questa era la condizione dei costumi romani che ci hanno descritto i loro stessi storici, e si veda se in essa sono individuabili l’equità, la giustizia, il buon senso, che hanno meritatamente conferito alle leggi romane la definizione di ragione scritta. Affinché non acquisti la fama di chi cerca di denigrare tutto ciò che non è opera del Cristianesimo, come prova d’imparzialità ometto appositamente di evidenziare gli aspetti negativi dai quali non va esente il diritto romano. Non posso però passare sotto silenzio che non è vero che il Cristianesimo non abbia avuta parte alcuna nel perfezionamento del diritto romano: non solo durante il

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periodo degl’imperatori cristiani, il che è fuor di dubbio, ma anche di quelli precedenti. È certo che prima della venuta di Gesù Cristo il numero delle leggi romane era molto aumentato, e che il loro studio e ordinamento richiamava l’attenzione dei personaggi più illustri. Sappiamo da Svetonio (in Caes., 44) che Giulio Cesare aveva intenzione di iniziare l’utilissima opera di ridurre a pochi libri quanto di meglio e di più necessario era sparso nell’immensa quantità di leggi. Lo stesso pensiero era venuto a Cicerone, il quale scrisse un libro sulla compilazione metodica del diritto civile (De jure civili in artem redigendo) come attestano Gellio (Noct. Att. libro 1. cap. 22); e Tacito (Ann. libro 3. cap. 28). La necessità dell’iniziativa aveva attirata anche l’attenzione dell’imperatore Augusto. Questi progetti rivelano certamente che la legislazione non era agli inizi; ma con questo non cessa di esser vero che il diritto romano, così come l’abbiamo noi, è quasi tutto un prodotto di secoli posteriori. Parecchi giuristi di grande fama, di cui le sentenze formano una buona parte del diritto, vissero molto tempo dopo la venuta di Gesù Cristo, e le costituzioni degl’imperatori portano col proprio nome il ricordo dell’epoca.

Stabiliti questi fatti, osserverò che se gl’imperatori e i giuristi erano pagani, non per questo le idee cristiane non ebbero influsso sulle loro opere. Il numero dei Cristiani era immenso; la stessa crudeltà con cui erano perseguitati e l’eroica forza d’animo con cui affrontavano i tormenti e la morte dovevano aver richiamata l’attenzione di tutto il mondo. Ed è impossibile che tra gli uomini di pensiero non si destasse la curiosità di esaminare qual era l’insegnamento che la nuova religione comunicava ai suoi proseliti. La lettura delle apologie del Cristianesimo scritte già nei primi secoli con tanta forza di logica ed eloquenza, le opere di vario genere pubblicate dai primi Padri della Chiesa, le omelie dei Vescovi dirette ai popoli, racchiudono un patrimonio così grande di sapienza, emanano tanto amore per la verità e per la giustizia, proclamano con tanta forza gli eterni princìpi della morale, che era impossibile non estenderne l’influsso anche a quelli che condannavano la religione del Crocifisso.

Quando si vanno diffondendo dottrine che hanno per oggetto quelle grandi questioni che maggiormente interessano l’uomo, se queste dottrine sono propagate con fervoroso zelo, accettate con ardore da un numero grande di discepoli e sostenute col talento e con la scienza di uomini illustri, lasciano ovunque tracce profonde e colpiscono anche quegli stessi che le combattono aspramente. Il loro influsso in simili casi è impercettibile, ma non per questo meno reale. Come quelle esalazioni di cui l’atmosfera è imbevuta: con l’aria che respiriamo talvolta assorbiamo la morte, altre volte è un aroma balsamico che ci purifica e ci conforta.

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Lo stesso fenomeno non poteva fare a meno di verificarsi riguardo ad una dottrina predicata in un modo così straordinario, propagata con tanta rapidità, testimoniata come vera con fiumi di sangue e difesa da scrittori tanto illustri come Giustino, Clemente d’Alessandria, Ireneo e Tertulliano. La profonda sapienza, la sorprendente bellezza delle dottrine esposte dai dottori cristiani dovevano richiamare l’attenzione verso le sorgenti da cui venivano attinte; e va da sè che questa stimolante curiosità ponesse in mano a molti filosofi e giuristi i libri della Sacra Scrittura. Cosa ci sarebbe di strano che Epitteto avesse assaporato a lungo la lettura del discorso della montagna, e che le sentenze della giurisprudenza ricevessero senza rendersi conto le ispirazioni di una religione che crescendo straordinariamente in estensione e forza andava conquistando tutte le classi della società? L’ardente amore per la verità e la giustizia, lo spirito di fratellanza, le grandiose idee sulla dignità dell’uomo, temi costanti nell’insegnamento cristiano, erano destinati a non rimanere confinati nella comunità dei credenti cristiani. Essi andavano gradatamente penetrando in tutte le classi; e quando con la conversione di Costantino acquistarono un’influenza politica, un predominio pubblico, non si fece altro che ripetere il fenomeno di un sistema che, avendo un grande ascendente nell’ordine sociale, passa ad esercitare un dominio o almeno un’influenza nell’ordine politico. Lascio con grande fiducia queste riflessioni al giudizio degli uomini di pensiero, sicuro che qualora non le condividano, non per questo le giudicheranno spregevoli. Viviamo in un’epoca feconda di avvenimenti e madre di rivoluzioni profonde, e perciò siamo più portati a comprendere gli immensi effetti delle influenze indirette e lente, il predominio potente delle idee e la forza irresistibile con cui le dottrine si fanno largo.

Alla mancanza di principi vitali necessari per rigenerare la società, e alla presenza di forti elementi di dissoluzione che essa covava in seno, si aggiungeva un altro male dalle gravi conseguenze consistente nella debolezza dell’ordine politico. Sottomesso tutto il mondo al potere di Roma, si vedeva una moltitudine di popoli, molto diversi negli usi e nei costumi, ammassati confusamente come il bottino in un campo di battaglia, costretti a formare un corpo fittizio, come trofei infilzati nel manico di una lancia.

La centralità del governo per i vari popoli non era un vantaggio, perché era violenta. E siccome questa centralità era per di più dispotica, dalla sede dell’impero fino agli ultimi dignitari, non poteva produrre altro effetto che l’avvilimento e l’abiezione dei popoli; e così era impossibile che si facessero luce quell’elevazione e quella forza d’animo che sono i frutti preziosi del sentimento della propria dignità e dell’attaccamento all’indipendenza della patria. Se Roma avesse almeno conservato gli antichi costumi, se avesse ancora

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allevati nel suo seno quei guerrieri celebri sia per la fama delle loro vittorie che per la semplicità e austerità dei costumi, si sarebbe potuto concepire la speranza che nei popoli vinti passasse qualcosa delle doti dei vincitori, come un cuore giovane e robusto rianima col suo vigore un corpo estenuato dalle più ostinate malattie. Ma per disgrazia non era così. I Fabii, i Camilli, gli Scipioni non avrebbero riconosciuto la loro indegna prole; e Roma, Signora del Mondo, giaceva schiava sotto i piedi di alcuni mostri che salivano al trono per mezzo della seduzione e della violenza, macchiavano lo scettro con la loro corruzione e crudeltà, e terminavano la vita per le mani di un assassino. L’autorità del Senato e del popolo si era dispersa: ne restavano solamente alcuni vani simulacri, vestigia morientis libertatis, come li chiama Tacito, vestigia della libertà spirante. Il popolo re che prima distribuiva l’impero, i fasci, le legioni e tutto, si ridusse ora a desiderare ansiosamente soltanto due cose: pane e spettacoli: «Qui dabat olim «Imperium, fasces, legiones, omnia; nunc se «Continet, atque duas tantum res anxius optat, «Panem, et circenses. (Juvenalis Satyra, 10).

Venne finalmente la pienezza dei tempi: il Cristianesimo apparve, e senza proclamare alcun mutamento nelle forme politiche, senza macchinare contro alcun governo, senza ingerirsi in cose che sapessero di mondano e terreno, portò agli uomini una doppia salvezza: chiamandoli sul sentiero di una felicità eterna; e spargendo a piene mani l’unica difesa contro la dissoluzione sociale, il germe di una rigenerazione lenta e pacifica, ma immensa e durevole attraverso gli sconvolgimenti dei secoli. Questa difesa contro la dissoluzione sociale, questo germe di inestimabili sviluppi era un insegnamento sublime e puro rivolto a tutti gli uomini senza eccezione di età, di sesso, di condizione, come una pioggia benefica che si scioglie in deliziosi ruscelletti sulla terra arsa e languente.

Non c’è religione che come il Cristianesimo sia stata capace di conoscere il segreto per guidare un uomo, e che nel guidarlo abbia mostrato in modo eccellente di riconoscere l’alta dignità umana. Il Cristianesimo è partito sempre da questo principio: che il primo passo per conquistare tutto l’uomo è quello di conquistare il suo intelletto; che quando si tratta di estirpare un male o di produrre un bene è necessario prendere di mira soprattutto le idee, dando così un colpo mortale ai sistemi violenti tanto adoperati dove il Cristianesimo non

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esiste, e proclamando la verità che salva; e che quando si tratta di governare gli uomini, il mezzo più indegno e insieme il meno efficace è la forza. La verità benefica e feconda apriva all’umanità un nuovo e prosperoso avvenire.

Soltanto col Cristianesimo si propagano le scuole della più sublime filosofia, aperte sempre e ovunque per tutte le classi del popolo. Le più alte verità intorno a Dio e all’uomo, le norme della morale più pura non vengono presentate esclusivamente ad un numero limitato di discepoli con insegnamenti misteriosi e segreti. La sublime filosofia del Cristianesimo è stata più determinata, ed ha avuto il coraggio di dire agli uomini la pura e intera verità, in pubblico, a voce alta, e con quel generoso ardimento che è il compagno inseparabile della verità.

«Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti». Così parlava Gesù Cristo ai discepoli (S. Matteo 10, 27).

Appena il Cristianesimo si trovò a confrontarsi col paganesimo risultò subito evidente la sua superiorità: non solo per le dottrine, ma anche per il modo di diffonderle. Si capì subito che una religione con un insegnamento così dotto e puro, e che per diffonderlo procedeva senza tanti giri di parole appellandosi direttamente alla mente e al cuore, doveva ben presto prendere il posto dell’altra religione d’impostura e di menzogna. Infatti, che faceva mai il paganesimo per il bene degli uomini? Qual era l’insegnamento sulle verità morali? Quale argine opponeva alla corruzione dei costumi? «Per quello che riguarda i costumi – dice a questo proposito S. Agostino, – come mai gli dèi non avevano cura che i loro adoratori non fossero così depravati? Il vero Dio, che essi non adoravano, li rigettò, e giustamente; ma gli dèi di cui questi uomini ingrati si lamentano che venga loro proibito il culto, perché non aiutarono i loro adoratori con qualche legge a vivere rettamente? Giacché gli uomini avevano a cuore il culto, era ben giusto che gli dèi non dimenticassero di avere a cuore la vita e i costumi. Mi si dirà che nessuno è cattivo se non per propria volontà: e chi lo nega? Gli dèi però erano tenuti a non tenere nascosti ai loro adoratori i precetti della morale, ma semmai a proclamarli a chiare note; a rimproverare per mezzo dei profeti i colpevoli, minacciare pubblicamente la pena a coloro che operavano il male, e promettere premi a quelli che agivano bene. Quando mai nei templi degli dèi risuonò con voce alta e vigorosa una tale proclamazione?» (De Civitate Dei libro 2, cap. 4). Il santo dottore continua facendo una fosca descrizione delle turpitudini ed abominazioni che si commettevano negli spettacoli e nei giochi sacri celebrati in ossequio agli dèi, ai quali egli stesso dice di avere assistito in gioventù, quindi prosegue: «Da ciò si comprende che quegli dèi non si curavano della vita e dei costumi delle città

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e nazioni da cui erano adorati, lasciando che si abbandonassero a così orrendi e detestabili mali con tanto danno non solo dei loro campi e vigne, non solo della loro casa ed averi, non solo del corpo che è soggetto alla mente, ma della stessa mente, dello stesso spirito che domina il corpo. E se si pretende che vietavano tali malvagità, ci venga dimostrato, se ne dia una prova. Si vantano di non so quali bisbigli sussurrati agli orecchi di pochissimi, con i quali sotto un velo misterioso si insegnavano i precetti di una vita onorata e pura. Ci mostrino allora i luoghi destinati a simili riunioni, e non i luoghi ove gl’istrioni rappresentavano i giuochi con discorsi ed azioni oscene, non dove si celebravano le feste delle fughe con la più sfrenata licenza, ma piuttosto quelli dove i popoli potessero ascoltare i precetti degli dèi onde reprimere la cupidigia, spezzare l’ambizione e frenare i piaceri; dove gli infelici potessero apprendere quell’insegnamento che con severo linguaggio raccomandava Persio (Satyr. 3), quando diceva: “Imparate, o infelici, a conoscere la ragione delle cose: ciò che siamo, per quale fine nasciamo, quale deve essere la nostra condotta, quanto fugace è il termine della nostra vita, quale deve essere l’uso moderato della ricchezza, qual è la sua vera utilità, quale il limite della nostra generosità verso la patria, i parenti e gli amici, a quale destino ci ha chiamati Dio, e qual è il posto che occupiamo tra gli uomini”. Si dica in quali luoghi venivano proclamati da parte degli dèi simili precetti dove potessero essere ascoltati dai loro adoratori: ci si mostrino questi luoghi, come noi mostriamo le chiese istituite a tal fine ovunque sia stata diffusa la religione cristiana» (De Civitate Dei libro 2, cap. 6).

Questa religione divina, profonda conoscitrice dell’uomo, non ha mai dimenticato che la debolezza e l’incostanza influenzano il suo carattere; per questo motivo ha stabilito come regola invariabile di condotta d’inculcargli incessantemente, con instancabile costanza e pazienza, le salutari verità da cui dipendono sia il benessere temporale dell’uomo, che la sua eterna felicità. Trattandosi di verità morali l’uomo dimentica facilmente ciò che non gli risuona continuamente all’orecchio; e se i buoni precetti gli si conservano nell’intelletto, restano però come sterile semenza che non giunge a fecondare il cuore. È cosa buona e molto vantaggiosa che i padri comunichino questo insegnamento ai figli; che sia un oggetto di preferenza nell’educazione privata; ma è ancor più necessario che vi sia un insegnamento pubblico che non lo perda mai di vista, che si estenda a tutte le classi sociali e a tutte le età, supplisca alla trascuratezza delle famiglie, ravvivi i ricordi e le impressioni che le passioni e il tempo vanno continuamente cancellando.

Questo sistema di predicazione continua e d’insegnamento praticato dalla Chiesa cattolica in ogni tempo e in tutti i luoghi, è di tale importanza per

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l’istruzione e la moralità dei popoli che si deve considerare un gran bene il fatto che i primi Protestanti, nella smania da cui furono presi di distruggere tutte le usanze della Chiesa, conservassero tuttavia quella della predicazione. Non che dicendo questo intendiamo chiudere gli occhi sui danni che in certi tempi derivarono dalle predicazioni violente di alcuni loro ministri pericolosi o fanatici; ma considerando la rottura dell’unità, e che i popoli sono stati sviati sul triste sentiero dello scisma, non c’è dubbio che la conservazione delle idee principali intorno a Dio e all’uomo, e delle massime fondamentali della morale, è stata favorita non poco dalla continua predicazione di queste verità da parte di chi le aveva precedentemente studiate nella Sacra Scrittura. Senza dubbio il colpo mortale dato alla gerarchia dal sistema protestante, e la successiva degradazione del sacerdozio, fa sì che la cattedra della predicazione non abbia per i Protestanti il sacro carattere di cattedra dello Spirito Santo. Senza dubbio è un ostacolo grande alla predicazione, perché possa far frutto, che un ministro protestante non possa più presentarsi come il consacrato del Signore, ma piuttosto, come ha detto uno scrittore di talento, solamente come un uomo vestito di nero che sale ogni domenica sul pulpito per parlare di cose ragionevoli. Ma almeno la gente ascolta alcuni brani degli eccellenti insegnamenti morali che si trovano nel sacro Testo, ha spesso sotto gli occhi gli edificanti esempi sparsi nel Vecchio e nel Nuovo Testamento; e soprattutto sono sovente presentati i passi della vita di Gesù Cristo, di quella vita mirabile che è il modello di ogni perfezione. La quale vita per ammissione di tutti, anche quando la si guardi con occhio umano, è la pura santità per eccellenza, il più bel vincolo morale che si sia mai visto, la realtà di un ideale sotto forma umana che mai la filosofia concepì nei suoi alti pensieri, né mai produsse la poesia nei suoi voli più arditi. Questa è una cosa molto utile e salutare perché l’anima dei popoli viene nutrita con l’alimento sostanzioso delle verità morali, ed incitata alla virtù con lo stimolo di esempi così sublimi. Torna all’indice

CAPITOLO XV La Chiesa non offre solamente un insegnamento grande e fecondo, ma costituisce anche un’associazione rigeneratrice. Temi di cui dovette occuparsi. Difficoltà che dovette vincere. La schiavitù. Chi abolì la schiavitù. Opinione di Guizot. Numero immenso di schiavi. Con che giudizio si procedette nell’abolire la schiavitù. L’abolizione istantanea era impossibile. S’impugna l’opinione di Guizot.

Per quanto la diffusione della verità fosse per la Chiesa della massima

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importanza, ed essa fosse convinta che per combattere l’enorme massa d’immoralità e degradazione che le si presentava agli occhi doveva per prima cosa sottoporre l’errore al fuoco dissolvente delle vere dottrine, non si limitò tuttavia solo a questo, ma procedendo con i fatti e seguendo un sistema improntato a saggezza e prudenza, fece in modo che l’umanità potesse gustare quei preziosi frutti che le dottrine di Gesù Cristo producono anche nelle cose terrene. La Chiesa non fu solamente una scuola grande e feconda, fu pure una società rigeneratrice: non diffuse le sue dottrine universali quasi affidandole al caso con la speranza che col tempo avrebbero dato i loro frutti, ma le espose con grande impegno, le applicò in ogni circostanza, si preoccupò d’introdurle nei costumi e nelle leggi e di metterle in pratica attraverso istituzioni che svolgessero un sereno, ma facondo insegnamento alle generazioni future. La dignità dell’uomo non era conosciuta perché ovunque regnava la schiavitù: la donna degradata, contaminata dalla corruzione dei costumi e sottomessa alla tirannia dell’uomo; i rapporti famigliari snaturati, concedendo la legge al padre alcune facoltà che non gli erano state date dalla natura; considerati vili i sentimenti di umanità verso l’infanzia abbandonata, i poveri e gli infermi trascurati; la barbarie e la crudeltà del diritto di guerra portate al più alto grado. Si vedeva l’odiosa tirannia attorniata dai suoi seguaci e coperta di ferro, guardare con sdegnoso disprezzo dall’alto della struttura sociale i popoli infelici che gli giacevano ai piedi avvinti con salde catene.

In una situazione così grave non era piccola impresa quella di scacciare l’errore, riformare e moderare i costumi, abolire la schiavitù, correggere i difetti della legislazione, frenare il potere e armonizzarlo con gli interessi pubblici, dare una nuova vita all’individuo, riordinare la famiglia e la società. Eppure è proprio questo che fece la Chiesa.

Cominciamo dalla schiavitù. Questa è una materia che occorre esaminare a fondo, dal momento che riguarda una di quelle questioni che maggiormente stimolano la curiosità della scienza e coinvolgono i sentimenti del cuore. Chi ha abolito tra i popoli cristiani la schiavitù? Il Cristianesimo, con le sue grandiose idee sulla dignità dell’uomo, con i suoi precetti, con lo spirito di fratellanza e carità; ed anche con la sua condotta prudente, serena e benefica. Mi lusingo di poterlo dimostrare.

In realtà non c’è chi ponga in dubbio che la Chiesa cattolica ha avuto una potente influenza nell’abolire la schiavitù. Questa è una verità lampante, che salta agli occhi con troppa evidenza perché si possa contraddirla. Il Signor Guizot riconoscendo l’impegno e l’efficacia con cui agì la Chiesa per migliorare lo stato sociale, dice: «Tutti sanno con quanta ostinazione combatté i grandi vizi di quello stato, la schiavitù per esempio»: ma nel rigo seguente,

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come se gli dispiacesse affermare senza alcuna riserva un fatto che doveva necessariamente risvegliare a favore della Chiesa cattolica la simpatia dell’intera umanità, continua: «Mille volte si è detto e ripetuto che l’abolizione della schiavitù nei tempi moderni è dovuta esclusivamente ai precetti del Cristianesimo. Questo a parer mio è un po’eccessivo perché la schiavitù continuò ancora per molto tempo all’interno della società cristiana senza che questo la turbasse o la irritasse molto». S’inganna di molto il Signor Guizot quando afferma che l’abolizione della schiavitù non si debba esclusivamente attribuire al Cristianesimo per il fatto che tale condizione fosse continuata per molto tempo nella società cristiana. Se avesse proceduto con buona logica avrebbe dovuto prima verificare se fosse stata possibile l’abolizione istantanea della schiavitù; e se lo spirito di ordine e di pace, di cui è animata la Chiesa, avrebbe permesso di accingersi ad un’impresa con la quale avrebbe sconvolto il mondo senza arrivare al fine cui tendeva. Il numero degli schiavi era immenso; la schiavitù profondamente radicata nelle idee, nei costumi, nelle leggi e negli interessi individuali e sociali. Sistema funesto, senza dubbio, ma che era imprudente pretendere di abolire in un sol colpo, perché le sue radici erano molto profonde e si estendevano per un lungo tratto nel sottosuolo.

In un censimento degli abitanti di Atene risultarono ventimila cittadini e quarantamila schiavi; nella guerra del Peloponneso ne passarono ai nemici nientemeno che ventimila, come riferisce Tucidide. Lo stesso autore ci dice che in Chio era grandissimo il numero degli schiavi, e che la diserzione di costoro nel passare agli ateniesi mise in difficoltà i loro padroni. Quasi ovunque il numero di schiavi era così grande che non poche volte per causa loro la tranquillità pubblica veniva messa in pericolo. Per questo motivo era necessario prendere delle precauzioni perché non si mettessero d’accordo tra loro. «È molto conveniente – dice Platone (Dialogo 6 delle leggi) – che gli schiavi non siano dello stesso paese e che, per quanto possibile, ne siano diversi i costumi e i desideri; poiché ripetute esperienze ci hanno insegnato, nelle frequenti diserzioni avvenute tra i Messeni e nelle altre città che hanno molti schiavi che parlano la stessa lingua, quanti danni ne derivino».

Aristotele nella sua Economia (libro 1, c. 5) dà varie regole sulla maniera di trattare gli schiavi e, d’accordo con Platone, avverte espressamente: «che non si devono tenere molti schiavi dello stesso paese». Nella Politica (libro 2, c. 7) ci dice che i Tessali si videro in notevoli difficoltà per la gran massa dei loro penesti (una specie di schiavi); lo stesso accadde agli Spartani a causa degli iloti. «Spesso è accaduto, dice, che i penesti si sono sollevati in Tessaglia, e gli Spartani ogni volta che hanno sofferto qualche sciagura si sono visti minacciare dalle cospirazioni degli iloti». Questa era una difficoltà che

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occupava seriamente l’attenzione dei politici, i quali non sapevano come premunirsi contro gli inconvenienti che derivavano da questa immensa moltitudine di schiavi. È risaputo che questa è una materia che dava molto da pensare e lo stesso Aristotele si lamentava della grande difficoltà di riuscire a trovare un modo idoneo di trattare gli schiavi; queste sono le sue stesse parole: «In verità il modo con cui si deve trattare questa categoria di uomini è una faccenda difficile che crea molto imbarazzo; perché se si usa amabilità diventano petulanti e vogliono farsi uguali ai loro padroni, e se si trattano con durezza concepiscono odio e tramano insidie».

Era tale la moltitudine degli schiavi a Roma, che essendo stata fatta la proposta di far loro indossare una veste particolare in modo che si distinguessero, il Senato si oppose nel timore che costoro, rendendosi conto del loro numero, creassero pericoli per l’ordine pubblico. Ed è certo che questi timori non erano infondati, perché molto tempo prima gli schiavi avevano già provocato in Italia gravi tumulti. Platone a conferma di ciò rammenta che «gli schiavi avevano devastata l’Italia molte volte con la pirateria e il ladrocinio»; e in tempi più recenti Spartaco, alla testa di un esercito di schiavi, fu per un certo periodo il terrore d’Italia, dando molto da fare ai migliori generali romani.

A Roma vi era un tale eccesso di schiavi che molti padroni ne avevano a centinaia. Quando fu assassinato il prefetto di Roma Pedanio Secondo, quattrocento suoi schiavi furono condannati a morte (Tacito Ann. libro 14); Pudentilla, moglie di Apulejo, ne aveva talmente tanti che ne diede ai figli non meno di quattrocento. Il possesso degli schiavi era diventato un oggetto di lusso, e i Romani facevano a gara nell’avere il maggior numero di schiavi. Nel domandarsi l’un l’altro, secondo la frase di Giovenale (Satyr. 3. v. 140), «quot pascit servos, quanti schiavi mantiene?», intendevano fare mostra di grandi quantità. Secondo Plinio la cosa giunse a tali eccessi che più che la scorta di una famiglia sembrava un esercito vero e proprio.

Il numero degli schiavi non solo in Grecia e in Italia era cresciuto a dismisura, perché a Tiro si sollevarono contro i loro padroni, e grazie al loro numero immenso lo fecero con tale successo da ucciderli tutti. Passando ai popoli barbari, e prescindendo dagli altri più conosciuti, riferisce Erodoto (libro 3) che ritornando gli Sciti dalla Media trovarono che i loro schiavi si erano sollevati, e da padroni che erano si videro costretti a cedere terreno ed abbandonare la propria patria. E Cesare nei suoi commentari (De Bello Gallico libro 6) ci informa della grandissima quantità di schiavi che erano nelle Gallie.

Essendo dappertutto così grande il numero degli schiavi, si vede bene che era del tutto impossibile proclamarne la libertà senza che ciò causasse un enorme incendio in tutto il mondo. Disgraziatamente nei tempi moderni resta

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un punto di paragone che, sebbene sia in una proporzione molto inferiore, non manca per questo di fare al nostro caso. In una colonia dove gli schiavi negri sono numerosi, chi si accingerebbe a metterli di colpo in libertà? E se dovesse trattarsi non di una colonia ma di tutto l’universo, di quanto aumenterebbero le difficoltà, e quali enormi dimensioni raggiungerebbe il pericolo? Lo stato intellettuale e morale degli schiavi li rendeva incapaci di trarre guadagno da un tale beneficio, sia per loro stessi che per la società. Nella loro insensata brutalità eccitata dal rancore e dal desiderio di vendetta che nutrivano in petto per i cattivi trattamenti subiti, avrebbero ripetuto in grande le scene sanguinose che avevano già in tempi precedenti sporcate le pagine della storia. Che sarebbe accaduto allora? Che la società, minacciata da un pericolo così spaventoso, si sarebbe messa in guardia contro i princìpi favorevoli alla libertà, li avrebbe poi guardati con pregiudizio e sospettosa diffidenza; e ben lungi dall’indebolire le catene degli schiavi, le avrebbe rinforzate ulteriormente. Da quella massa immensa di uomini furibondi e brutali posti in libertà senza esservi preparati era impossibile che spuntasse un ordine sociale, perché un ordine sociale non s’improvvisa, e ancor meno poi con tali elementi. In questo caso, dovendosi scegliere tra la schiavitù e la rovina dell’ordine sociale, l’istinto di conservazione di cui è animata la società come tutti gli esseri, avrebbe infallibilmente prodotto la durata della schiavitù dove ancora sussisteva, e la restaurazione della stessa dove fosse già stata abolita.

Coloro che si sono lamentati che il Cristianesimo non sia stato più sollecito nell’abolire la schiavitù avrebbero dovuto ricordarsi che, anche volendo supporre possibile un’emancipazione istantanea o in tempi brevi, e prescindere dai sanguinosi disordini che inevitabilmente sarebbero derivati, la sola forza delle cose, sopravvenendo con i suoi ostacoli insuperabili, avrebbe fatto andare a vuoto una simile risoluzione. Mettendo da parte tutte le valutazioni sociali e politiche, consideriamo unicamente quelle economiche. Prima di tutto sarebbe stato necessario alterare tutte le relazioni della proprietà, perché figurando in essa gli schiavi come elemento fondamentale (per la coltivazione dei terreni, l’esercizio delle opere meccaniche: in una parola tutto ciò che riguarda il lavoro e la fatica), eliminato questo elemento ne sarebbe derivato un tale scollegamento, che la mente non giunge a comprenderne le estreme conseguenze.

Posso immaginare che ne sarebbero derivate violente spoliazioni; che si sarebbe proceduto ad un censimento e ad una ripartizione delle proprietà, che si sarebbero distribuiti i terreni agli emancipati e che i ricchi signori si sarebbero visti costretti a maneggiare la zappa e l’aratro: voglio supporre che avvenissero realmente tutte queste assurdità, tutti questi sogni deliranti. Neanche così

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sarebbero state eliminate le difficoltà, perché non bisogna dimenticare che la produzione dei mezzi di sussistenza deve essere in proporzione ai bisogni di quelli che hanno da sussistere: e questo, con l’emancipazione degli schiavi, sarebbe stato impossibile. La produzione era regolata non in proporzione al semplice numero degli individui che allora vivevano, ma anche in considerazione del fatto che la maggior parte di essi erano schiavi; ed i bisogni di un uomo libero sono qualcosa di più di quelli di uno schiavo.

Se oggi dopo diciotto secoli, precisate le idee, mitigati i costumi, migliorate le leggi, educati i popoli e i governi, fondate tante istituzioni pubbliche per soccorrere l’indigenza, sperimentati tanti sistemi per una giusta ripartizione del lavoro, distribuite più equamente le ricchezze: se dopo tutto questo vi sono ancora tante difficoltà per evitare che un numero immenso di uomini non cada vittima di una spaventosa miseria, che è il male terribile che tormenta la società e pesa sull’avvenire come un sogno funesto, che sarebbe mai accaduto se fosse stata realizzata la totale emancipazione all’inizio del Cristianesimo, quando gli schiavi non erano riconosciuti nel diritto come persone ma come cose, quando la loro unione coniugale non era giudicata matrimonio, quando l’autorità sui frutti di questa unione era imposta con le stesse regole che vigono tra gli animali, quando il misero schiavo era maltrattato, tormentato, venduto e anche ucciso, secondo i capricci del suo padrone? Non appare evidente che per curare questi mali era necessaria l’opera di secoli? Non è questo l’insegnamento che riceviamo conducendo le nostre analisi sui risvolti umani, politici ed economici?

Se fossero state prese iniziative così insensate, gli stessi schiavi non avrebbero tardato molto a protestare contro di esse reclamando una schiavitù che almeno assicurava loro il pane e un ricovero, e non apprezzando una libertà incompatibile con la loro esistenza. Questo è l’ordine della natura: l’uomo ha bisogno prima di tutto di avere il necessario per vivere, e se gli mancano i mezzi di sussistenza neppure la libertà lo lusinga. Non è necessario ricorrere ad esempi particolari che ci si presenterebbero in abbondanza: intere popolazioni costituiscono la prova evidente di questa verità. Quando la miseria è estrema è difficile che non sia accompagnata dall’avvilimento che soffoca i più generosi sentimenti e distrugge il fascino che esercitano sul nostro cuore le parole d’indipendenza e di libertà. «La plebe – dice Cesare parlando dei Galli (De Bello Gallico, libro 6) – è quasi al livello degli schiavi; nulla osa da se medesima, e non partecipa alle assemblee; vi sono poi molti che, aggravati da debiti e tributi, e oppressi dai potenti, si danno per schiavi ai nobili, i quali dopo un tale impegno hanno sopra di loro tutti gli stessi diritti che hanno sugli schiavi». Nei tempi moderni non mancano simili esempi, essendo noto che tra i

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Cinesi la schiavitù è molto diffusa, ed è originata dal fatto che chi vi è soggetto, o i suoi padri, furono incapaci di provvedere al proprio sostentamento.

Queste riflessioni basate su testimonianze incontestabili mostrano con grande evidenza la profonda saggezza del Cristianesimo che procedette con tanta cautela nell’abolire la schiavitù. Si fece quanto era possibile in favore della libertà dell’uomo: non si andò avanti più rapidamente perché non era possibile farlo senza correre il rischio di rovinare l’opera e che si presentassero seri ostacoli alla voluta emancipazione. Ecco come vanno sempre a finire le accuse che vengono rivolte al modo di procedere della Chiesa. Si esaminano col lume della ragione, si confrontano con i fatti e si viene finalmente a riconoscere che la maniera di procedere, della quale viene incolpata la Chiesa, è del tutto conforme alle norme della più squisita prudenza.

E allora, cosa vuole dirci il Sig. Guizot quando, dopo aver ammesso che il Cristianesimo si impegnò con tutte le sue forze per abolire la schiavitù, gli rinfaccia di aver acconsentito che si mantenesse per lungo tempo? Con che logica pretende di affermare che non è vero che di questo immenso beneficio dispensato all’umanità siamo debitori esclusivamente al Cristianesimo? Che la schiavitù continuò per secoli anche col Cristianesimo è vero, ma andò sempre più diminuendo. E il suo durare fu necessario solamente perché il beneficio giungesse ad effetto senza violenze e senza disordini, assicurandone la realizzazione totale e definitiva. E dai secoli nei quali durò la schiavitù se ne deve anche sottrarre una parte consistente; perché nei primi tre secoli la Chiesa si trovò spesse volte e per molti anni esiliata, e sempre poi guardata con avversione e completamente priva d’influenza diretta nell’ordine sociale. Si deve inoltre levare molto anche dai secoli successivi perché era passato poco tempo dacché la Chiesa iniziò ad esercitare la sua influenza diretta e pubblica, quando sopravvenne l’invasione dei barbari del Nord, la quale insieme alla dissoluzione dalla quale era già attaccato l’impero, e che si diffondeva in modo spaventoso, arrecò un tale scompiglio e una mescolanza così informe di lingue, di usi, di costumi, di leggi, che non era quasi possibile esercitare proficuamente un’azione moderatrice. Se in tempi a noi più vicini è costata tanta fatica la distruzione del feudalesimo e dopo secoli di lotte ne restano tuttavia in piedi molti resti, se la tratta dei negri, anche se limitata a determinati paesi e a particolari circostanze, sta resistendo al grido universale di riprovazione che si alza contro simile infamia dai quattro angoli della terra; come può esserci qualcuno che si meravigli e incolpi il Cristianesimo perché la schiavitù durò alcuni secoli dopo di essere stata proclamata la fratellanza tra tutti gli uomini e la loro uguaglianza al cospetto di Dio? Torna all’indice

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CAPITOLO XVI La Chiesa cattolica adoperò, per abolire la schiavitù, non solo un sistema di dottrine, i suoi princìpi e lo spirito di carità, ma anche un insieme di mezzi pratici. Punto di vista dal quale si deve guardare a questo fatto storico. Idee erronee degli antichi sulla schiavitù. Omero, Platone, Aristotele. Il Cristianesimo iniziò subito a combattere questi errori. Dottrine cristiane sulle relazioni tra schiavi e padroni. L’impegno della Chiesa per mitigare i trattamenti crudeli verso gli schiavi.

Fortunatamente la Chiesa cattolica fu più saggia dei filosofi e seppe dispensare all’umanità il beneficio dell’emancipazione senza ingiustizie e senza sconvolgimenti. Essa infatti, nel rigenerare la società, non lo fa con bagni di sangue. Vediamo allora quali iniziative prese per abolire la schiavitù.

Abbiamo già parlato ampiamente, facendone gli elogi, dello spirito di amore e di fratellanza che anima il Cristianesimo; e ciò che se n’è detto dovrebbe aver dimostrato a sufficienza il grande influsso che ebbe nell’opera eminente di cui stiamo parlando. Tuttavia forse non si è indagato abbastanza sui mezzi positivi e concreti, per così dire, che utilizzò per raggiungere il successo. Sarà possibile investigare, tra le tenebre dei secoli e in mezzo a tanti impedimenti e complessità di circostanze, su alcuni fatti che, come orme su un sentiero, ci mostrino il cammino percorso dalla Chiesa cattolica per liberare un’immensa parte del genere umano dalla schiavitù in cui gemeva? Sarà possibile esprimere qualcosa di più che alcuni generici elogi alla carità cristiana? Individuare una norma, un sistema, e dimostrarne l’esistenza e lo sviluppo poggiandosi non tanto su espressioni chiare, su alti pensieri, su sentimenti generosi, su azioni isolate di alcuni uomini illustri; bensì su fatti concreti, su documenti storici che mostrino qual era lo spirito e la direzione del corpo medesimo della Chiesa? Credo di sì: e non dubito che sarò portato al successo di quest’impresa da quanto può esservi di più convincente e decisivo in questo campo, cioè dalle testimonianze della legislazione ecclesiastica.

Innanzi tutto sarà utile ricordare ciò che è stato già detto precedentemente: che quando, riguardo alla Chiesa, si parla di iniziative, di progetti, di intenzioni, non è necessario supporre che questi progetti fossero contenuti in tutta la loro estensione nella mente di qualche individuo particolare, né che tutto il significato e l’effetto di simili iniziative fossero ben capiti da qualcuno di quelli che vi prendevano parte. E si può ancora dire che non necessariamente bisogna supporre che i primi Cristiani conoscessero quanto fosse determinata l’intenzione del Cristianesimo di abolire la schiavitù. Ciò che è utile dimostrare è che lo scopo fu raggiunto per mezzo delle dottrine

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e dell’iniziativa della Chiesa: perché tra i Cattolici, per quanto si stimino i meriti e la grandezza degli individui secondo il loro valore, quando si parla di Chiesa gl’individui spariscono, i loro pensieri e la loro volontà sono nulla in quanto non si conformano più allo spirito dell’uomo, ma allo Spirito di Dio che anima, vivifica e guida la Chiesa. Coloro che non appartengono alla nostra fede chiameranno le cose con altri nomi, ma con loro saremo d’accordo su questo: che considerando i fatti prescindendo dal pensiero e dalla volontà dell’individuo, essi conservano molto meglio le loro reali dimensioni, e nello studio della storia non viene interrotta l’infinita catena degli avvenimenti. Che l’iniziativa della Chiesa sia detta ispirata e diretta da Dio, oppure conseguenza di un istinto, o che fu lo sviluppo di una inclinazione derivante dalle sue dottrine: che si usino queste o quelle frasi parlando come Cattolico o come filosofo, su questo per il momento non è necessario soffermarsi. Ciò che invece è opportuno dimostrare adesso è che questo istinto fu generoso e prudente, che questa inclinazione era diretta ad un grande scopo, e lo raggiunse.

La prima cosa che il fece Cristianesimo riguardo al problema degli schiavi fu quella di disperdere gli errori che si opponevano non solamente alla loro emancipazione, ma anche a migliorarne lo stato: vale a dire che la prima forza che impiegò nell’attacco fu, come è suo costume, la forza delle idee. Era questo il primo passo fondamentale da compiere per curare il male, poiché in questo male capitava ciò che capita in tutti i mali, i quali sono sempre accompagnati da qualche errore che li produce o li provoca. La questione non riguardava solamente l’oppressione e l’avvilimento di una gran parte dell’umanità, ma anche il fatto che era molto diffusa un’opinione erronea che causava ulteriori umiliazioni a questa porzione dell’umanità. Secondo tale opinione gli schiavi appartenevano ad una razza vile che non poteva elevarsi al livello di quella degli uomini liberi; era una razza declassata dallo stesso Giove, marcata con un sigillo umiliante dalla natura stessa, una razza predestinata a questo stato di abiezione e di viltà. Dottrina indubbiamente spregevole smentita dalla natura umana, dalla storia, dall’esperienza ma non per questo priva di difensori ragguardevoli; dottrina che, facendo oltraggio all’umanità e con scandalo della ragione, vediamo proclamata pubblicamente per lunghi secoli, fino a che il Cristianesimo non venne a disperderla, essendosi assunto l’incarico di vendicare i diritti dell’uomo.

Omero ci dice (Odissea, 17) che «Giove portò via agli schiavi la metà della mente». In Platone troviamo la stessa dottrina; infatti, seppure per bocca di altri come è suo costume, non si sottrae dall’avventurarsi in ciò che segue: «Si dice che nell’animo degli schiavi non c’è nulla di sano né di integro, e che un uomo prudente non deve fidarsi di questa casta di uomini, come testimonia

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anche il più dotto dei nostri poeti», e segue la citazione del passo di Omero sopra indicato (Platone, libro delle Leggi). Ma dove questa degradante dottrina è esposta in tutta la sua malvagità e schiettezza, è nella Politica di Aristotele. Non manca chi cerchi di difenderlo, ma invano; perché le sue parole lo condannano senza rimedio. Egli, spiegando nel primo capitolo della sua opera la costituzione della famiglia, e proponendosi di fissare le relazioni tra il marito e la moglie, e tra il signore e lo schiavo, stabilisce che come la femmina è naturalmente diversa dal maschio, così lo schiavo lo è dal padrone. Queste sono le parole: «E così la femmina e lo schiavo sono distinti per la stessa natura». Questa espressione non fu detta di sfuggita dal filosofo, ma con piena cognizione, e non è altro che il compendio della sua teoria. Nel capitolo 3 continua a fare l’analisi degli elementi che compongono la famiglia, e dopo aver stabilito che «una famiglia perfetta è composta di liberi e di schiavi» concentra il discorso su questi ultimi, cominciando a combattere un’opinione che sembrava favorirli troppo. «Vi sono alcuni – egli dice – i quali pensano che la schiavitù sia una cosa fuori dell’ordine della natura poiché soltanto dalla legge viene stabilito che quest’uomo sia schiavo e quello sia libero, mentre la natura non conosce questa distinzione». Prima di ribattere questa opinione, spiega le relazioni tra padrone e schiavo servendosi del paragone dell’artefice e dello strumento, e poi dell’anima e del corpo. Quindi continua così: «Se si paragonano il maschio e la femmina, quello è superiore e perciò comanda, questa è inferiore e per questo obbedisce; e lo stesso è giusto che succeda fra tutti gli uomini: e così coloro che sono tanto inferiori quanto lo è il corpo rispetto all’anima e l’animale rispetto all’uomo, le facoltà dei quali consistono principalmente nell’uso del corpo, essendo quest’uso il maggior profitto che da essi si trae, questi sono schiavi per natura». A prima vista da queste parole potrebbe sembrare che il filosofo parli unicamente dei fatui, ma vedremo in seguito dal contesto che non è questa la sua intenzione. Risulta evidente che se parlasse dei fatui, non porterebbe alcuna prova contro l’opinione che intende confutare, essendo il numero di questi tanto scarso che è quasi nulla a confronto con tutti gli uomini. E inoltre, se volesse riferirsi solo ai fatui, a cosa servirebbe la sua teoria fondandola unicamente su un’anomalia mostruosa e rarissima?

Ma non ci perderemo in congetture sulla vera intenzione del filosofo in quanto ce la illustra lui stesso, rivelandoci nello stesso tempo perché abbia usato espressioni così forti che mostrano d’invertire i termini della questione. Egli infatti attribuisce alla natura nientemeno che l’espresso disegno di produrre uomini di due classi: gli uni nati per la libertà, gli altri per la schiavitù. Il passo è troppo importante e singolare per non riportarne le parole.

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Che sono le seguenti: «La natura vuole procreare corpi diversi per gli uomini liberi e per gli schiavi: in modo che i corpi di questi siano robusti e adatti agli usi necessari, e quelli dei liberi siano ben formati, non adatti ai lavori servili ma piuttosto alla vita civile che consiste nel dirigere gli affari della guerra e della pace. Anche se talvolta succede il contrario, e agli uni tocca il corpo di schiavo e agli altri l’anima di libero Non c’è dubbio che se nella conformazione del corpo alcuni sono tanto privilegiati da assomigliare alle immagini degli dèi, tutti sono dell’idea che dovrebbero essere serviti da coloro che non hanno raggiunto simile leggiadria. Se questo è vero riguardo al corpo lo è molto di più riguardo all’anima, benché non sia così facile vedere la bellezza dell’anima come invece si vede quella del corpo. E così non può esserci dubbio sul fatto che vi sono degli uomini nati per la libertà ed altri per la schiavitù: schiavitù che, oltre essere vantaggiosa agli stessi schiavi, è anche giusta».

Povera filosofia! che per giustificare la condizione degradante della schiavitù aveva bisogno di fare ricorso a tanti cavilli e di attribuire alla natura l’intenzione di procreare caste diverse: una per dominare, e l’altra per servire. Crudele filosofia! che spezzava con questa giustificazione i vincoli di fratellanza con cui l’Autore della natura ha voluto unire la stirpe umana, alzando così una barriera tra uomo e uomo, e ideava teorie per sostenere la disuguaglianza. E non già quella disuguaglianza che necessariamente esiste tra i vari ordini sociali, ma una disuguaglianza tanto terribile e degradante, qual è quella della schiavitù.

Il Cristianesimo alza la voce e dichiara gli schiavi uguali agli altri uomini, sia per quanto riguarda la dignità della loro natura, che nella partecipazione alla grazia che lo Spirito Divino diffonde sulla terra. È da notare la premura con cui l’apostolo S. Paolo insiste su questo punto: pare che non avesse a cuore che le degradanti disuguaglianze stabilitesi per una funesta violazione della dignità dell’uomo ripetendo continuamente che tra lo schiavo e l’uomo libero non corre alcuna differenza. «Tutti siamo stati battezzati in uno spirito; per formare un medesimo corpo, Giudei o Gentili, schiavi o liberi») (1 Cor 12, 13). «Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 26-28). «Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Col 3, 11).

Si allarga il cuore udendo proclamare apertamente questi elevati princìpi di fraternità e di santa uguaglianza. Non sentendo più gli oracoli del

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paganesimo promulgare dottrine per opprimere sempre più i miseri schiavi ci sembra di svegliarci da un cupo sogno per passare alla luce di una stupenda realtà. La mente si compiace nell’immaginare tanti milioni di uomini che, curvi sotto il peso della degradazione e dell’ignominia, alzano gli occhi al cielo e mandano un sospiro di speranza.

A questo insegnamento del Cristianesimo accadde ciò che avviene per tutte le dottrine generose e feconde. Le quali penetrano nel cuore della società rimanendovi depositate come un seme prezioso; col tempo poi si sviluppano come un immenso albero che copre con la sua ombra le famiglie e le nazioni. Una volta diffuse tra gli uomini, queste dottrine non furono però esenti dall’essere male interpretate, oppure esagerate; e non mancò chi sostenne che la libertà cristiana fosse l’annuncio della libertà universale. Sentendosi risuonare negli orecchi le dolci parole del Cristianesimo, udendo che venivano dichiarati figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo, e che non c’era alcuna distinzione tra loro e i padroni, fossero anche i più potenti signori della terra, non deve sembrare strano che gli schiavi, avvezzi soltanto alle catene, al lavoro e ad ogni sorta di sofferenze e di avvilimento, interpretassero a modo loro i princìpi della dottrina cristiana e li applicassero in maniera ingiusta, e neanche idonea ad essere messi in pratica.

Sappiamo da S. Girolamo che molti schiavi, sentendosi chiamare alla libertà cristiana, pensarono che con questa si desse loro la libertà. Forse S. Paolo alludeva a questo errore quando nella prima lettera a Timoteo (6,1) diceva: «Quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù, trattino con ogni rispetto i loro padroni, perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina». Questo errore aveva fatto tanto scalpore che dopo tre secoli era ancora vivo, e il Concilio di Gangres celebrato nell’anno 324, si vide costretto a scomunicare coloro i quali con giustificazioni umanitarie sollecitavano gli schiavi ad abbandonare i padroni e a ritirarsi dal loro servizio. Non era questo che insegnava il Cristianesimo, a parte che è stato già abbastanza dimostrato che non sarebbe stata questa la vera strada per giungere all’emancipazione universale.

È lo stesso apostolo, dunque, che abbiamo inteso tenere a favore degli schiavi un linguaggio così nobile, che li esorta ripetutamente ad ubbidire ai loro padroni. Bisogna notare però che mentre compie questo dovere imposto dallo spirito di pace e di giustizia che anima il Cristianesimo spiegando i motivi sui quali si deve fondare l’ubbidienza degli schiavi, nello stesso tempo ricorda con vive e forti parole gli obblighi che gravano sui padroni. Stabilisce quindi in termini così precisi e chiari l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio, che ben si comprende quale compassione avesse nei confronti di questa

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parte derelitta dell’umanità, e quanto diverse su questo particolare fossero le sue idee da quelle di un mondo spietato e cieco.

Nel cuore dell’uomo alberga un sentimento di nobile indipendenza che non gli permette di assoggettarsi alla volontà di un altro uomo se non gli vengono mostrati i titoli legittimi sui quali si sostiene tale pretesa. Se questi titoli sono fondati sulla ragione e sulla giustizia, e ancor di più se sono radicati in altri sistemi che l’uomo venera e ama, la ragione si convince, il cuore si acquieta e l’uomo cede. Ma se il motivo della pretesa è solo la volontà di un altro uomo, se si trovano a faccia a faccia, per così dire, uomo contro uomo, allora ribollono nella mente i pensieri di uguaglianza, arde nel cuore quel sentimento d’indipendenza, monta l’orgoglio e infuriano le passioni. Per questo motivo quando si tratta di ottenere ubbidienza convinta e duratura, è necessario che in chi comanda sia tolto di mezzo l’uomo e si mostri soltanto il rappresentante di un potere superiore, o la personificazione dei motivi che manifestano al suddito la ragione e l’utilità della sottomissione. In tal modo non si ubbidisce alla volontà altrui per quello che l’altro è in sé, ma perché rappresenta un potere superiore, o perché è l’interprete della ragione e della giustizia: e così l’uomo non vede oltraggiata la sua dignità e l’ubbidienza gli diventa soave e leggera.

Non c’è bisogno di dire se fossero tali i titoli su cui si fondava l’ubbidienza degli schiavi prima del Cristianesimo: i costumi li facevano uguali agli animali e le leggi venivano, se mai, a calcare ancor più la mano, usando termini che non si possono leggere senza provare indignazione. Il padrone comandava perché tale era la sua volontà, e lo schiavo si vedeva costretto ad ubbidire non in forza di motivi superiori o di obblighi morali, ma perché era sotto il dominio di chi comandava, era un cavallo regolato dal freno, una macchina che doveva rispondere all’impulso del manubrio. Quale meraviglia dunque se quegl’infelici oppressi dalle sventure e dall’ignominia covavano in petto quel profondo rancore, quell’ira violenta, quella terribile sete di vendetta che alla prima occasione scoppiava con una spaventosa esplosione? L’orribile massacro di Tiro, esempio e terrore per il mondo intero secondo l’espressione di Giustino, le ripetute ribellioni dei penesti in Tessaglia e degli iloti in Laconia, le diserzioni di quelli di Chio e di Atene, l’insurrezione guidata da Erdonio e il terrore che ne derivò per tutte le famiglie di Roma, i sanguinosi episodi e la tenace e disperata resistenza delle truppe di Spartaco: tutti questi episodi cos’altro erano se non la conseguenza naturale del sistema di violenza, di oltraggio e di disprezzo con cui erano trattati gli schiavi? E non abbiamo noi visto avvenire le stesse cose in tempi recenti con le catastrofi dei negri delle colonie? Tale è la natura dell’uomo: chi semina disprezzo ed oltraggio,

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raccoglie furore e vendetta. Queste verità non erano ignote al Cristianesimo, e per questo si predicò

l’ubbidienza e ci si preoccupò di fondarla su titoli divini; si conservarono ai padroni i loro diritti ma insegnando loro quali e quanti fossero i loro obblighi; e dove prevalsero le dottrine cristiane gli schiavi poterono dire: «Siamo infelici, è vero, siamo condannati ad una tale disgrazia o per nascita o a causa della povertà, o per esser stati sconfitti in guerra, ma finalmente siamo riconosciuti come uomini e come fratelli; tra noi e i nostri padroni vi sono obblighi e diritti reciproci». Ma ascoltiamo ancora ciò che dice l’apostolo: «Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo, e non servendo per essere visti, come per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, compiendo la volontà di Dio di cuore, prestando servizio di buona voglia come al Signore e non come a uomini. Voi sapete infatti che ciascuno, sia schiavo sia libero, riceverà dal Signore secondo quello che avrà fatto di bene. Anche voi, padroni, comportatevi allo stesso modo verso di loro, mettendo da parte le minacce, sapendo che per loro come per voi c’è un solo Signore nel cielo, e che non v’è preferenza di persone presso di lui». (Ef 6, 5-9).

Nella lettera ai Colossesi (cap. 3) insegna la stessa dottrina dell’ubbidienza, fondandola sugli stessi motivi; e per consolare i miseri schiavi, dice loro: «… sapendo che come ricompensa riceverete dal Signore l’eredità. Servite a Cristo Signore. Chi commette ingiustizia infatti subirà le conseguenze del torto commesso, e non v’è parzialità per nessuno» (Col 3, 24-25). E più avanti, rivolgendosi ai padroni aggiunge: «Voi, padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo» (Col 4,1).

Non c’è dubbio che dalla diffusione di dottrine così salutari già derivò un grande miglioramento della condizione degli schiavi, ottenendo come effetto immediato la mitigazione di quell’eccessivo rigore e di quella crudeltà che non riusciremmo a comprendere se non ci fossero attestate da testimoni degni di fede. Si sa che il padrone aveva il diritto di vita e di morte e che abusava di tale facoltà fino ad uccidere uno schiavo per un capriccio, come fece Quinzio Flaminio durante un convito, o fino a gettare alle murene uno di quegli infelici che ebbe la disgrazia di rompere un vaso, come ci è riferito da Vellio Epolione. E tanta crudeltà non era limitata ad alcune famiglie con un padrone senza cuore, ma era eretta a sistema: conseguenza funesta ma inevitabile del traviamento delle idee su questa questione e della dimenticanza dei sentimenti umani; sistema violento che si sosteneva solo col tenere sempre il piede sulla testa dello schiavo, e non sollevarlo mai se non quando, potendo questi

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ribellarsi, si scagliava sul padrone e lo faceva a pezzi. Un antico proverbio diceva: «Tanti nemici quanti schiavi».

Abbiamo già visto i danni che provocavano questi uomini furibondi e accecati dalla sete di vendetta ogni volta che tentavano di spezzare le catene che li opprimevano; ma i padroni non erano da meno quando si trattava d’ispirare terrore agli schiavi. Una volta a Sparta, temendo il risentimento degl’iloti, li riunirono vicino al tempio di Giove e li uccisero tutti (Tucidide libro 4); e a Roma c’era il barbaro costume che qualora fosse assassinato un padrone, tutti i suoi schiavi dovevano essere uccisi. Si stringe il cuore nel leggere in Tacito (annali, libro 14, 43) la scena terribile avvenuta dopo l’assassinio del prefetto della città Pedanio Secondo per opera di un suo schiavo. Gli schiavi del defunto, non meno di 400, secondo l’antico costume stavano per esser condotti tutti al supplizio. Uno spettacolo tanto crudele e degno di compassione, quello di uccidere tanti innocenti, che mosse a pietà il popolo, il quale giunse al punto di ammutinarsi per impedire tale carneficina. Il Senato nel discutere la questione si mostrava perplesso, quando un oratore di nome Cassio, prendendo la parola, sostenne energicamente la necessità di condurre ad effetto la sanguinosa esecuzione: non solo perché l’antico costume lo prescriveva, ma anche perché non era possibile tutelarsi in altro modo dall’ostilità degli schiavi. In queste parole si scorgono solo l’ingiustizia e la tirannia che vedono pericoli e insidie da ogni parte, e oltre alla forza e al terrore non sa immaginare altri sistemi di prevenzione. Ed è da riflettere sulla conclusione del discorso, che ci fa capire quali fossero le idee ed i costumi degli antichi su questo punto: «L’indole degli schiavi fu sempre sospetta ai nostri antenati, perfino per quelli che essendo nati nelle loro case e poderi potevano fin da piccoli essersi affezionati ai padroni; a maggior ragione ora, che abbiamo schiavi di nazionalità straniera di usanze differenti e di diversa religione, per contenere questa teppaglia non c’è altro mezzo che il terrore». Prevalse quindi la crudeltà, fu repressa l’audacia del popolo, e presidiata dai soldati tutta la strada i 400 infelici furono condotti al supplizio.

Il primo frutto delle dottrine cristiane fu il freno posto su queste norme crudeli e la cessazione di queste orribili atrocità; e si può essere certi che la Chiesa non perdette mai di vista un fatto di tale importanza, facendo invece che la condizione degli schiavi migliorasse per quanto era possibile, che riguardo ai castighi si sostituisse l’indulgenza alla crudeltà e, ciò che è più importante, fece ogni sforzo perché il capriccio cedesse il posto alla ragione, e alla tirannia dei padroni succedesse il giudizio dei tribunali. Ciò contribuì ad avvicinare gli schiavi al mondo degli uomini liberi, facendo sì che anche per loro divenisse operante il diritto piuttosto che il fatto compiuto.

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La Chiesa non ha mai dimenticato il bell’insegnamento di S. Paolo, quando scrivendo a Filemone perorò la causa di uno schiavo fuggiasco di nome Onesimo. Intercedendo per questo schiavo usò parole che non si erano mai udite in favore di questa sventurata categoria di uomini. «Ti prego – gli scrisse – per il mio figlio Onesimo; te l’ho rimandato indietro; ricevilo come viscere mie, non come uno schiavo, ma come fratello carissimo: se mi ami, ricevilo come me stesso. Se ti ha danneggiato in qualche cosa o ti è debitore, me ne faccio io garante» (cfr Fil 1, 10-18). No, la Chiesa non ha dimenticato questa lezione di fratellanza e di amore, e il mitigare la sorte degli schiavi fu uno dei suoi principali impegni.

Il Concilio di Elvira, celebrato all’inizio del quarto secolo, prescrive una penitenza per quella donna che abbia battuto la sua schiava provocandole grave danno. Quello di Orleans, tenuto nel 549, stabilisce che se uno schiavo si rifugia in una chiesa per aver commesso qualche mancanza, faccia ritorno al padrone, il quale però dovrà prima giurare che, uscendo lo schiavo dalla chiesa, non gli farà alcun male; e se il padrone violando il giuramento lo maltrattasse, sia separato dalla comunione e dalla mensa dei Cattolici (Can. 22). Questo canone ci manifesta due cose: l’abituale crudeltà dei padroni, e lo zelo della Chiesa per rendere meno duro il trattamento degli schiavi. Per mettere un freno alla crudeltà era necessario esigere addirittura un giuramento; e la Chiesa, sebbene di sua natura tanto restia riguardo ai giuramenti, giudicava tuttavia la cosa tanto importante da ritenere che si potesse e dovesse far uso del Nome santo di Dio.

La protezione e la benevolenza della Chiesa nei confronti degli schiavi si andava estendendo rapidamente; e pare che dovette introdursi in alcuni luoghi l’uso di esigere il giuramento, non soltanto perché lo schiavo rifugiatosi in chiesa non fosse maltrattato fisicamente, ma anche perché non gli s’imponesse una aggravio delle sue fatiche, né gli fosse imposto qualche distintivo che lo facesse riconoscere dagli altri. Tuttavia questo uso, introdotto certamente per il bene dell’umanità, portò anche degli inconvenienti che ben presto allentarono i vincoli di ubbidienza e causarono intemperanze da parte degli schiavi, come si deduce da una disposizione del Concilio di Eppaona celebrato nel 511 nel quale, per bloccare questi inconvenienti, fu prescritta una prudente moderazione, senza però venir meno alla protezione. Il canone 39 di questo Concilio stabilisce che se uno schiavo reo di qualche atroce delitto si rifugia in chiesa, gli si eviti solamente le pene corporali, ma non si obblighi il padrone a giurare di non imporgli un lavoro straordinario, o di non radergli i capelli per farlo riconoscere. Si noti bene che tale restrizione è prevista quando lo schiavo abbia commesso un delitto atroce, e che in tal caso la facoltà che si lascia al

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padrone è solo quella di imporgli un lavoro straordinario o di radergli i capelli per distinguerlo dagli altri.

Forse non mancherà chi consideri eccessiva una tale benevolenza; ma è il caso di far notare che quando gli abusi sono gravi e ben radicati il colpo per sradicarli deve essere forte. E talvolta, anche se sembra a prima vista di esagerare nella prudenza, questo eccesso apparente non è altro che la necessaria oscillazione nel senso contrario, alla quale vanno soggette le cose prima di raggiungere il loro giusto equilibrio. Qui la Chiesa non intendeva proteggere il delitto, non chiedeva indulgenza per chi non la meritasse. Aveva per scopo, invece, di mettere un limite alla violenza ed al capriccio dei padroni; e non voleva acconsentire che un uomo soffrisse i tormenti e la morte perché tale era la volontà di un altro uomo. L’attuazione di giuste leggi e l’azione legittima dei tribunali sono cose a cui la Chiesa non si è mai opposta; ma mai ha acconsentito alle violenze private.

Di questo spirito di opposizione alle violenze private, spirito che finì col penetrare nell’ordine sociale, troviamo una prova nel canone 15 del Concilio di Merida tenuto nell’anno 666. Si sa, e l’ho già detto, che gli schiavi erano una parte fondamentale del patrimonio, e che, essendo la distribuzione del lavoro regolata su questa parte, non era possibile fare a meno, per chiunque avesse delle proprietà sopratutto se abbastanza estese, di possedere schiavi. Questa era di fatto la situazione in cui ci si trovava; e siccome non era facoltà della Chiesa cambiare l’ordine sociale tutto in una volta, dovette adattarsi a questa necessità, anzi dovette anch’essa tenere degli schiavi. E siccome cercava di migliorarne la condizione, pensò bene d’incominciasse a dare l’esempio. Questo esempio lo troviamo nel canone del Concilio che ho appena citato: in esso, dopo aver proibito ai Vescovi e ai sacerdoti di maltrattare i servi della Chiesa mutilandoli, dispone che se commettono qualche delitto siano consegnati ai giudici secolari, in modo però che i Vescovi moderino la pena a cui venissero condannati. Vale la pena osservare che da questo canone si rileva l’usanza del diritto di mutilazione da parte del padrone; usanza che evidentemente era ancora molto radicata se vediamo che il Concilio si limita a proibirla agli ecclesiastici e nulla dice riguardo ai laici.

In questo divieto influiva senza dubbio la considerazione che lo spargimento di sangue umano rendeva gli ecclesiastici sconvenienti ad esercitare quel ministero sublime di cui l’azione principale è il Divino Sacrificio nel quale si offre una vittima di pace e di amore. Ma ciò nulla toglie al suo merito, né diminuisce l’influenza nel migliorare la sorte degli schiavi. Era anche questo un sostituire la vendetta pubblica a quella personale; un proclamare l’eguaglianza degli schiavi e degli uomini liberi; e quanto

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all’effusione di sangue, era un dichiarare che le mani che spargono il sangue di uno schiavo rimanevano contaminate come se avessero versato il sangue di un uomo libero. Ed era necessario inculcare in tutti i modi e manifestamente queste verità salutari in contraddizione con le idee e i costumi antichi; e sforzarsi continuamente affinché si dileguassero le vergognose e crudeli degenerazioni che privavano dei diritti umani la maggior parte degli uomini.

Nel canone citato vi è una particolarità che manifesta la premura della Chiesa per restituire agli schiavi la dignità e la stima di cui erano privi. Il taglio dei capelli era tra i Goti una pena molto ignominiosa: secondo quanto dice Luca di Tuy, era per loro quasi più dolorosa della morte. È chiaro che qualunque fosse il pregiudizio su questo punto, la Chiesa avrebbe potuto permettere il taglio dei capelli senza incorrere nella cattiva nomea in cui sarebbe incorsa se avesse acconsentito allo spargimento di sangue, ma ugualmente non volle farlo; e questo dimostra che ci teneva a cancellare il marchio di umiliazione scolpito in fronte allo schiavo. Dopo aver imposto ai sacerdoti e ai Vescovi di consegnare al giudice i colpevoli, dispone, che «non permettano che siano rasati con ignominia».

In questa materia non c’era sollecitudine che bastasse: era necessario cogliere tutte le occasioni favorevoli per far sì che sparissero le odiose scelleratezze che affliggevano gli schiavi. Questa necessità si manifesta chiaramente da come si esprime l’undicesimo Concilio di Toledo celebrato nel 675. Nel canone sesto proibisce ai Vescovi di giudicare da sé i delitti soggetti alla pena capitale e di ordinare la mutilazione delle membra; si noti anche che ritenne necessario specificare che non ammetteva eccezione, infatti aggiunge: «neanche contro i servi della propria chiesa». Il male era grave, e non poteva essere curato se non con una sollecitudine continua; tanto che, riferendoci ancora al diritto più crudele di tutti, il diritto di vita e di morte, possiamo constatare quanta fatica sia costata estirparlo, se ancora al principio del sesto secolo non mancavano esempi di eccessi talmente gravi che il concilio di Eppaona nel canone 34 dispone «che sia privo per due anni della comunione della Chiesa il padrone che di sua propria autorità faccia uccidere uno schiavo». Si giunse a metà del nono secolo, e troviamo ancora simili delitti che il Concilio di Worms, celebrato nell’anno 868, si occupò di reprimere sottoponendo ad una penitenza di due anni il padrone che avesse dato la morte al suo schiavo. Torna all’indice

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CAPITOLO XVII La Chiesa difende con zelo la libertà dei manomessi (schiavi affrancati). Manomissione (atto di affrancamento) nelle chiese. Benéfici effetti di tale pratica. Riscatto degli schiavi. Zelo della Chiesa nel praticare e promuovere quest’opera. Prevenzione dei Romani su questo punto. Influenza che ebbe lo zelo della Chiesa nell’abolire la schiavitù per la redenzione degli schiavi. La Chiesa protegge la libertà degli schiavi riscattati.

Mentre migliorava il trattamento degli schiavi e questi, per quanto possibile, si avvicinavano alla condizione degli uomini liberi, bisognava non trascurare l’opera di emancipazione totale; perché non bastava migliorane lo stato di schiavitù, ma occorreva abolirlo del tutto. L’influsso delle dottrine cristiane, e lo spirito di carità che insieme con esse si andava diffondendo su tutta la terra, attaccavano energicamente la schiavitù in modo che, presto o tardi, doveva riuscire ad abolirla completamente, essendo impossibile che la società rimanga per lungo tempo in un situazione opposta alle idee di cui è imbevuta. Secondo le dottrine cristiane tutti gli uomini hanno la stessa origine e la stessa destinazione, tutti sono fratelli in Gesù Cristo, tutti sono tenuti ad amarsi con tutto il cuore, a soccorrersi nelle necessità, a non offendersi neanche a parole, tutti sono uguali davanti a Dio, e per questo saranno giudicati senza parzialità. Il Cristianesimo si andava diffondendo, mettendo radice ovunque, diventando influente in tutte le classi e in tutti i rami della società: com’era dunque possibile che potesse perdurare quello stato degradante in cui l’uomo è proprietà di un altro uomo, è venduto come si vendono gli animali, è privato dei teneri affetti della famiglia e non prende parte a nessuno dei benefìci della società? Cose tanto opposte tra loro potevano stare insieme?

Le leggi erano ormai favorevoli alla schiavitù, è vero. Possiamo dire di più: anche se il Cristianesimo non portò un attacco diretto contro queste leggi, fece però in modo di prendere il dominio delle idee e dei costumi, impresse loro un nuovo impulso, diede una direzione diversa. E a questo punto cosa potevano fare le leggi? Se ne indebolì il rigore, se ne trascurò l’osservanza, s’incominciò a dubitare della loro equità, si disputò sulla loro convenienza e si riconobbero i loro effetti negativi. Fu quindi inevitabile che andassero gradatamente in disuso al punto che a volte non fu neanche necessario assestar loro un colpo per annientarle. Furono messe da parte come inutili oppure, se fu necessaria un’abolizione ufficialmente espressa, lo si fece per pura formalità: erano ormai come un cadavere che si seppellisce con onore.

Da quanto detto finora non si deduca però che, nel dare tanta importanza alle idee ed ai costumi cristiani, io intenda dire che il buon esito sia stato

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determinato esclusivamente da questi, senza dare il giusto merito al fatto che, al momento opportuno, la Chiesa si preoccupasse di prendere le adatte misure secondo quanto richiedevano i tempi e le circostanze. Nulla di tutto questo perché anzi, come già detto, la Chiesa utilizzò vari mezzi che meglio si adattavano, secondo i casi, per raggiungere l’effetto desiderato.

Se si voleva garantire l’opera di emancipazione conveniva per prima cosa mettere al sicuro da ogni attacco la libertà dei manomessi (schiavi affrancati); libertà che, disgraziatamente, non cessava di essere ostacolata continuamente e di correre gravi pericoli. Le cause di questo spiacevole fenomeno possono essere facilmente rintracciate in ciò che restava delle idee e dei costumi antichi, nella cupidigia dei potenti, nel sistema di violenza divenuto generale con l’invasione dei barbari, nella povertà e nella completa mancanza di educazione e moralità in cui si trovavano quegli infelici che andavano uscendo dallo stato di schiavitù. Per cui è da supporre che molti non conoscessero l’effettivo valore della libertà, che non sempre si comportassero nel nuovo stato secondo i dettami della ragione e della giustizia, e che, entrati da poco in possesso dei diritti dell’uomo libero, non sapessero adempiere agli obblighi relativi al loro nuovo stato. Ma tutti questi inconvenienti, connessi alla natura delle cose, non potevano impedire di portare ad effetto un’opera voluta dalla religione e dall’umanità: bisognava rassegnarsi a sopportarli riflettendo che, riguardo alle colpe dei manomessi, erano molte le attenuanti, perché lo stato da cui erano usciti impediva lo sviluppo delle facoltà intellettuali e morali.

La libertà dei nuovi emancipati veniva messa al riparo dagli attacchi dell’ingiustizia e rimaneva in un certo modo rivestita di una sacra inviolabilità quando l’emancipazione era collegata alle istituzioni che a quei tempi esercitavano il più poderoso ascendente: e cioè la Chiesa e quanto vi era di sua pertinenza. E per questo fu senza dubbio conveniente che s’introducesse l’uso di compiere nelle chiese l’atto di affrancamento (detto Manomissione). Quest’atto, mentre subentrava alle antiche usanze facendole scendere nell’oblio, assumeva il significato di una implicita attestazione di quanto fosse gradita a Dio la libertà degli uomini, una concreta proclamazione della loro uguaglianza davanti a Dio. Perché è nelle chiese che si eseguiva la manomissione, dove in genere veniva letto che davanti a Dio non vi è preferenza di persone, dove sparivano tutte le differenze sociali e tutti gli uomini restavano uniti con teneri legami di fratellanza e di amore. Verificato in tal modo l’atto di affrancamento, la Chiesa aveva un diritto più facilmente esercitabile per difendere la libertà del manomesso, perché essendo stata testimone dell’atto, poteva valersi della sua disponibilità e delle altre

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circostanze per garantirne la validità. Poteva altresì pretenderne l’osservanza, poggiandosi sulla considerazione che il mancare a lei era in certo qual modo una profanazione del luogo sacro, un mancare alla promessa fatta in presenza dello stesso Dio.

La Chiesa non dimenticava di mettere a profitto simili circostanze a favore dei manomessi: e così vediamo che il primo concilio di Orange, celebrato nel 441, nel canone 7 dispone di reprimere con censure ecclesiastiche coloro che sottopongono a qualche forma di servitù gli schiavi a cui sia stata data in chiesa la libertà. E un secolo dopo, nel canone 7 del quinto concilio di Orleans tenuto nell’anno 549, troviamo confermata la stessa proibizione.

La protezione accordata dalla Chiesa ai manomessi era tanto diffusa e nota a tutti, che si introdusse il costume di raccomandarli particolarmente ad essa. Talvolta questa raccomandazione veniva fatta per testamento, come ci mostra il Concilio d’Orange sopra citato, il quale ordina che per mezzo delle censure ecclesiastiche s’impedisca che siano sottomessi a qualunque genere di servitù i manomessi raccomandati per testamento alla Chiesa. Non sempre tale raccomandazione si faceva però per testamento, come si deduce dal canone 6 del concilio di Toledo tenuto nel 589 dove si dispone che quando siano raccomandati alla Chiesa alcuni manomessi, non si privino della protezione della medesima né loro, né i loro figli. Qui si parla in generale senza limitarsi al caso in cui vi sia di mezzo il testamento. Lo stesso può vedersi in un altro concilio di Toledo dell’anno 633, dove si dice che la Chiesa piglierà sotto la sua protezione unicamente i manomessi delle persone che le si siano state raccomandate.

Tuttavia, anche qualora la manomissione non fosse stata fatta in chiesa, e non vi fosse stata di mezzo una raccomandazione particolare, la Chiesa non lasciava per questo di prendere la difesa dei manomessi quando vedeva in pericolo la loro libertà. Chiunque abbia una minima stima della dignità dell’uomo, chiunque nutra qualche sentimento di umanità sicuramente non si lamenterà che la Chiesa s’intromettesse in affari di questo genere, anche senza considerare altri motivi al di fuori di quello che obbliga l’uomo generoso a proteggere l’abbandonato; e non gli dispiacerà di trovare nel canone 29 del Concilio di Agde in Linguadoca celebrato nel 506 la disposizione che la Chiesa, in caso di necessità, prenda la difesa di coloro a cui i loro padroni hanno dato legittimamente la libertà.

Nella grande opera dell’abolizione della schiavitù ha avuto non piccola parte lo zelo che in tutti i tempi e luoghi ha profuso la Chiesa per la liberazione degli schiavi. Si sa bene che una parte considerevole degli schiavi doveva la sua sorte ai casi di guerra. Sarebbe sembrato incredibile agli antichi il carattere

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moderato delle guerre moderne. Guai ai vinti! si poteva gridare in ossequio al significato letterale dell’espressione: non c’era via di mezzo tra la morte e la schiavitù. Il male era aggravato da una funesto preconcetto contro il riscatto dei prigionieri: preconcetto che aveva origine da un atto di fulgido eroismo. Ammirevole è senza dubbio l’eroico coraggio di Attilio Regolo, e si drizzano i capelli nel leggere le forti pennellate con cui Orazio ne fa il ritratto (libro 3, ode 5), e sfugge il libro di mano nel giungere al passo terribile in cui «Fertur pudicae coniugis osculum, Parvosque natos, ut capitis minor A se removisse, et virilem Torvus humi posuisse vultum». («si dice che, nella sua morte civile, rifiutasse il bacio pudico della sposa, e quello dei figlioli, e a terra tenesse chino con fierezza il suo volto virile»). Superando però la profonda impressione suscitataci da tanto eroismo, e l’entusiasmo che risveglia in petto tutto ciò che manifesta un’anima generosa, non potremo fare a meno di ammettere che quella virtù aveva un carattere di ferocia; e che dietro al terribile discorso pronunciato da Regolo si scorge la realtà di una politica crudele contro la quale i sentimenti di umanità si ribellerebbero, se l’anima nostra non fosse trattenuta e quasi atterrita dal sublime sacrificio dell’uomo che sta parlando.

Il Cristianesimo non poteva accettare tali dottrine; non volle che si sostenesse il principio che per formare uomini valorosi in guerra era necessario lasciarli senza speranza. Le ammirevoli gesta di eroismo, le stupende scene di sereno coraggio e di fermezza che ovunque adornano le pagine della storia delle nazioni moderne, sono una testimonianza eloquente della prudenza della religione cristiana nel proclamare che la moderazione dei costumi non è nemica dell’eroismo. Gli antichi andavano sempre a finire in uno dei due estremi: la debolezza o la ferocia. Tra questi estremi c’è una via di mezzo, e questa è la via che la religione cristiana ha insegnato agli uomini.

Il Cristianesimo dunque, coerente ai suoi princìpi di fratellanza e di amore, ritenne il riscatto degli schiavi uno degli obiettivi più degni del suo zelo caritatevole. Sia che ci riferiamo ai begli esempi di imprese particolari che ci ha conservato la storia, sia che poniamo mente allo spirito da cui la Chiesa è stata guidata nel suo cammino, aggiungeremo un nuovo e bellissimo titolo col quale la religione cristiana ha meritato la gratitudine del genere umano.

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Un celebre scrittore moderno, il Sig. de Chateaubriand, ci ha presentato nei boschi dei Franchi un sacerdote schiavo: schiavo perché si era offerto spontaneamente in schiavitù per riscattare un soldato cristiano prigioniero che aveva lasciata la moglie nell’afflizione e i figli nella povertà. Il sublime spettacolo che ci presenta questo sacerdote, Zaccaria, nel sopportare con calma serena la schiavitù per amore di Gesù Cristo e di quel meschino che aveva liberato, non è una mera finzione del poeta. Nei primi secoli della Chiesa si videro in quantità simili esempi, e chiunque si sia commosso nel leggere l’eroico sacrificio e la straordinaria carità di Zaccaria, può star sicuro che con la sua commozione ha pagato un tributo alla verità. «Abbiamo conosciuto molti dei nostri – dice il Papa S. Clemente – che da se stessi si son dati in schiavitù per riscattare altri» (1 Cor 53). Il riscatto dei prigionieri era una cosa tanto desiderata che da antichissimi canoni era stato già previsto come comportarsi, ordinando che in caso di bisogno si vendessero le suppellettili delle chiese e perfino i vasi sacri. Trattandosi dei poveri prigionieri la carità non aveva limiti, lo zelo superava tutti gli ostacoli fino al punto di dare ordine che per quanto gli affari di una chiesa fossero in cattivo stato, prima di pensare a mettervi riparo si dovesse badare al riscatto degli schiavi (Causa 12, Quest. 2). In mezzo ai tumulti che i barbari provocavano con le loro invasioni, vediamo che la Chiesa, sempre ferma nei suoi propositi, non cessa la generosa condotta che aveva tenuta fin da principio. Non furono dimenticate né abbandonate le benefiche disposizioni degli antichi canoni; e le generose parole del santo Vescovo di Milano in favore degli schiavi furono ripetute continuamente a dispetto del caos dei tempi (Vedi S. Ambrogio de Officiis, libro 2, cap. 15). Dal canone 5 del Concilio di Macon tenuto nel 585 sappiamo che i sacerdoti si occupavano del riscatto dei prigioni impiegandovi i beni ecclesiastici. Quello di Reims celebrato nell’anno 625 impone la pena di sospensione dalle sue funzioni al Vescovo che disfacesse i vasi sacri; aggiungendo però generosamente: «per qualunque altro motivo che non sia quello di riscattare gli schiavi». E dopo molto tempo apprendiamo ancora, nel canone 12 del Concilio di Verneuil celebrato nell’anno 844, che i beni della Chiesa servivano per il riscatto degli schiavi.

Una volta restituiti gli schiavi alla libertà, la Chiesa non li lasciava senza difesa; anzi continuava premurosamente a proteggerli dando loro lettere di raccomandazione: sia per preservarli da nuove vessazioni durante il viaggio, sia per non fare mancar loro i mezzi per rifarsi dalle miserie sofferte durante la schiavitù. Di questo genere di protezione abbiamo una testimonianza nel canone 2 del Concilio di Lione del 583, nel quale si prescrive ai Vescovi di segnare la data e il prezzo di riscatto sulle lettere di raccomandazione che

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consegnavano agli schiavi riscattati. Lo zelo per la liberazione degli schiavi si diffuse talmente nella Chiesa

che si giunse a commettere delle imprudenze che l’autorità ecclesiastica si vide costretta a reprimere. Ma questi stessi eccessi ci mostrano sufficientemente a che punto arrivasse lo zelo, se per il troppo desiderio giungeva a fuorviarsi. Sappiamo da un Concilio d’Irlanda detto di S. Patrizio, che si tenne tra il 454 e il 456, che alcuni preti procuravano la libertà agli schiavi facendoli fuggire: il quale eccesso fu represso con molta prudenza dal Concilio con il canone 32, col quale si dispose che l’ecclesiastico che volesse riscattare gli schiavi lo facesse con i propri denari, perché rapirli per farli fuggire dava occasione di guardare ai chierici come a dei ladri, e ciò per la Chiesa era motivo di disonore. Documento importante che manifesta lo spirito di ordine e di giustizia da cui è diretta la Chiesa, e nello stesso tempo ci mostra quanto profondamente era scolpito negli animi un’opera santa, meritoria e generosa come quella di dare la libertà agli schiavi, tanto da far giungere alcuni all’eccesso di persuadersi che la bontà dell’opera autorizzasse la violenza.

Degno di lode è anche il disinteresse della Chiesa per questo impegno. Una volta convertiti i suoi beni nel riscatto di uno schiavo, non voleva riceverne alcuna ricompensa, nemmeno quando le possibilità economiche del redento gli permettessero di farlo. Ne abbiamo una chiara testimonianza nelle lettere del Papa S. Gregorio, le quali ci rivelano che, essendo alcune persone (che erano state liberate dalla schiavitù col denaro della Chiesa) nel timore che col tempo si chiedesse loro la somma di danaro spesa per il riscatto, il Papa le rassicura che ciò non avverrà; e comanda che nessuno ardisca molestarle, né loro né i loro eredi, in nessun momento, considerando che i sacri canoni permettono d’impiegare i beni ecclesiastici nella redenzione degli schiavi (lib. 7. epist. 14).

Questo zelo della Chiesa per un’opera così santa contribuì molto a ridurre il numero degli schiavi. E la sua influenza fu tanto più proficua, in quanto fu esercitata proprio nelle epoche di maggiore necessità, cioè quando per il disfacimento dell’impero romano, l’invasione dei barbari, l’instabilità dei popoli (che in Europa durò per molti secoli), la ferocia delle nazioni conquistatrici: per tutti questi motivi erano molto frequenti le guerre e gli sconvolgimenti, e ovunque ormai regnava la legge del più forte. Se non fosse intervenuta l’azione benefica e liberatrice del Cristianesimo, invece di ridursi, l’immenso numero degli schiavi lasciato dalla vecchia società in eredità alla nuova sarebbe sempre più aumentato. Perché ovunque prevalga il diritto brutale della forza, se non sorge nello stesso tempo qualche potente istituzione per trattenerla e moderarla, la stirpe umana si avvia rapidamente verso

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l’avvilimento, essendo inevitabile che la schiavitù guadagni terreno. Questa triste condizione di instabilità e di violenza tendeva per sua

natura a rendere inutili gli sforzi che la Chiesa faceva per abolire la schiavitù, e non poca fatica costava far sì che non si perdesse da una parte quello che si cercava d’ottenere da un’altra. La mancanza di un potere centrale e la definizione dei rapporti sociali (pochi ben precisati, molti violenti, e tutti senza alcuna garanzia di stabilità e di consistenza), facevano sì che le proprietà e le persone fossero poco sicure; e come le prime erano minacciate da invasione, così le seconde lo erano della perdita della loro libertà. Era quindi necessario evitare che la violenza dei singoli non facesse ciò che prima facevano la legislazione e i costumi. E allora vediamo che nel canone 3 del Concilio di Lione, celebrato nel 566, sono scomunicati quelli che detengono ingiustamente in schiavitù persone libere; nel canone 17 di quello di Reims del 625 si proibisce sotto pena di scomunica di perseguitare persone libere per ridurle in schiavitù; nel canone 21 di quello di Londra dell’anno 1102 si proibisce il barbaro costume di fare commercio di uomini come se fossero animali; e nel Capitolo 7 del Concilio di Coblenza tenuto nell’anno 922 si dichiara reo di omicidio chi attira un Cristiano per metterlo in vendita: dichiarazione molto importante, perché la libertà è tenuta in tanta stima da equipararla alla vita.

Un altro mezzo di cui si servì la Chiesa per abolire la schiavitù fu quello di mostrare a coloro che erano caduti in tale stato per la loro povertà, la via per uscirne. Ho già detto più sopra che l’indigenza era una delle origini della schiavitù, e abbiamo letto il passo in cui Giulio Cesare ci dice quanto comune fosse quest’usanza tra i Galli. Si sa anche che secondo il diritto antico chi era caduto in schiavitù non poteva ricuperare la libertà se non per volontà del padrone, perché essendo lo schiavo una proprietà vera e propria, senza il consenso del padrone nessuno poteva disporne, e meno ancora lo stesso schiavo. A causa delle dottrine pagane questa norma era molto in uso. Ma il Cristianesimo vedeva la cosa in altro modo, perché se lo schiavo era una proprietà non cessava per questo di essere uomo; e la Chiesa non voleva che si seguisse rigidamente, su questo punto, le regole sulle altre proprietà. E quando c’era di mezzo qualche dubbio, o si presentava qualche opportunità, si metteva sempre dalla parte dello schiavo. Fatte queste considerazioni, si potrà apprezzare in giusta misura il nuovo diritto introdotto dalla Chiesa, il quale stabilisce che le persone libere, che fossero state vendute o impegnate per necessità economiche, ritornassero allo stato libero con la restituzione della somma di danaro che avevano ricevuto.

Questo diritto, che si trova espressamente formulato in un Concilio tenuto in Francia nell’anno 616, probabilmente a Boneuil, spalancava una porta

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per recuperare la libertà, perché oltre a lasciare nel cuore dello schiavo la speranza di poter trattare e usare mezzi per ottenere il riscatto, faceva dipendere la libertà dalla volontà di chiunque fosse mosso a compassione per la sorte di uno sventurato, e pagasse o anticipasse la somma necessaria. Si ricordi quanto è stato già detto sull’ardente zelo diffuso in tanti cuori per questo genere di opere, e che i beni della Chiesa erano considerati molto bene impiegati ogni qualvolta lo si faceva per aiutare un infelice, e ci si renderà conto dell’influenza incalcolabile che dovette avere la menzionata disposizione. Si ammetterà allora che questo equivaleva a disseccare una delle più abbondanti sorgenti della schiavitù e ad aprire alla libertà una larga strada. Torna all’indice

CAPITOLO XVIII Modo d’agire della Chiesa riguardo agli schiavi degli Ebrei. Motivi che spingevano la Chiesa alla manomissione dei suoi schiavi. Sua benevolenza riguardo a questo. Sua generosità verso i propri liberti. Gli schiavi della Chiesa erano considerati come consacrati a Dio. Effetti benèfici di tale considerazione. Si concede la libertà agli schiavi che vogliono abbracciare la vita monastica. Effetti di tale pratica. Condotta della Chiesa nell’ordinazione sacerdotale degli schiavi. Repressione degli abusi che s’introdussero su questo punto. Disciplina della Chiesa di Spagna su questo particolare.

Anche col suo comportamento nei confronti degli Ebrei la Chiesa contribuì all’abolizione della schiavitù. Questo popolo singolare che porta in fronte il marchio di proscrizione, che è disperso tra tutte le nazioni senza confondersi con loro così come le particelle di una sostanza insolubile galleggiano separate in un liquido, cerca di mitigare la sua disgrazia con l’accumulare tesori; e sembra che si vendichi dello sprezzante isolamento in cui lo lasciano gli altri popoli col succhiar loro il sangue per via di forti usure. Nei tempi di grandi sconvolgimenti e calamità che inevitabilmente portavano con sé la miseria, poteva dar sfogo apertamente al deplorevole vizio di una cupidigia crudele e disumana. E siccome erano ancora fresche la durezza e la crudeltà delle leggi antiche e delle usanze sulla sorte dei debitori, e non mancando esempi di alcuni che vendevano la propria libertà per uscire dalle ristrettezze(non essendo ancora apprezzato quanto merita tutto il valore della libertà), era indispensabile evitare il pericolo di fare aumentare eccessivamente le ricchezze dei Giudei a spese della libertà dei Cristiani.

Che il pericolo fosse reale lo dimostra la cattiva fama che fin

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dall’antichità accompagna gli Ebrei su questo punto, e lo confermano i fatti che ancora accadono ai nostri tempi. Il celebre Herder nella sua Adrastea prevede addirittura che i figli d’Israele arriveranno col tempo, grazie al loro modo di fare sistematico e scaltro, a ridurre i Cristiani in schiavitù. Se dunque uomini di prestigio come Herder manifestano questi timori in condizioni poco favorevoli agli Ebrei, quanto più doveva temersi la spietata cupidigia degli Ebrei ai tempi infelici ai quali ci riferiamo?

Con queste riflessioni un osservatore imparziale che non sia dominato dal miserabile prurito di farsi difensore di una qualunque setta purché possa avere il piacere, anche a danno degli interessi dell’umanità, di calunniare la Chiesa cattolica; un osservatore che non appartenga alla categoria di coloro che non si spaventerebbero tanto per un’invasione di Cafri quanto per una disposizione in cui l’autorità ecclesiastica mostri di allargare un poco l’àmbito delle sue competenze; un osservatore che non abbia tanto rancore, non sia tanto meschino né tanto miserabile, constaterà senza scandalizzarsi, anzi con molto piacere, che la Chiesa seguiva le mosse degli Ebrei con prudente vigilanza, approfittando delle occasioni che si presentavano per aiutare gli schiavi cristiani, e ottenendo finalmente il risultato cui mirava, cioè di proibir loro di tenere schiavi cristiani.

Il terzo Concilio d’Orleans celebrato nel 538, nel canone 13 proibisce agli Ebrei di obbligare gli schiavi cristiani a fare cose in contrasto con la religione di Gesù Cristo. Questa disposizione, che assicurava allo schiavo la libertà nel santuario della coscienza, lo rendeva degno di rispetto agli occhi del suo stesso padrone ed era una dichiarazione solenne della dignità dell’uomo, in quanto si prescriveva che la schiavitù non poteva estendere il dominio alla sacra regione dello spirito. Questo tuttavia non bastava, in quanto era necessario aiutare gli schiavi degli Ebrei a recuperare la libertà. Erano passati solo tre anni quando si tenne il quarto Concilio d’Orleans, e possiamo notare quanto si andò più avanti rispetto al precedente. Infatti il canone 30 consente di riscattare gli schiavi cristiani che si rifugiano in chiesa, purché si paghi ai padroni ebrei il prezzo corrispondente. Una tale disposizione dovette produrre frutti abbondanti in favore della libertà perché permetteva agli schiavi cristiani di rifugiarsi in chiesa, avendo così maggiori possibilità di implorare la carità dei loro fratelli e di essere soccorsi col ricevere il prezzo del riscatto.

Lo stesso Concilio nel canone 31 dispone che l’ebreo, il quale converta uno schiavo cristiano, sia condannato a perdere tutti i suoi schiavi: nuova sanzione a favore della libertà di coscienza dello schiavo, e nuova strada aperta verso la libertà totale.

La Chiesa procedeva con quell’uniformità di princìpi e quella

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ammirevole costanza che le hanno riconosciuto gli stessi suoi avversari; e nel breve spazio che passa tra l’epoca accennata e l’ultima parte dello stesso secolo il progresso è considerevole, poiché nelle disposizioni canoniche si percepisce un impegno maggiore e, se così possiamo esprimerci, maggiore ardimento. Nel Concilio di Macon celebrato nel 581 o nel seguente, il canone 16 arriva a proibire espressamente agli Ebrei di tenere schiavi cristiani; e permette di riscattare quei Cristiani che erano già schiavi con una somma di 12 soldi. La stessa proibizione è contenuta nel canone 14 del Concilio di Toledo del 589, così che la Chiesa in quel periodo manifestò apertamente la propria volontà che un Cristiano non fosse schiavo di un Ebreo.

Perseverante nel suo proposito frenava il male con tutti i mezzi possibili, limitando secondo le circostanze la facoltà di vendere gli schiavi, se correvano pericolo di cadere in mano agli Ebrei. Così vediamo che nel canone 9 del Concilio di Chalons dell’anno 650 si proibisce di vendere schiavi cristiani fuori del regno di Clodoveo, affinché non cadano in potere degli Ebrei. Non tutti comprendevano bene lo spirito con cui la Chiesa procedeva in queste cose, e per questo non ne facilitavano le mosse nel modo dovuto; ma essa non si stancava mai di ripeterle ed insegnarle. Circa nella metà del settimo secolo si osserva che nella Spagna non mancavano secolari, ed anche ecclesiastici, che vendevano schiavi cristiani agli Ebrei; ma intervenne immediatamente a reprimerne l’abuso il decimo Concilio di Toledo nel 656, proibendo (canone 7) ai Cristiani e soprattutto agli ecclesiastici, di vendere schiavi agli Ebrei: «perché – aggiunge con finezza il Concilio – non si può ignorare che questi schiavi furono redenti col sangue di Gesù Cristo, per cui si dovrebbero piuttosto comprare che vendere».

L’ineffabile degnazione di un Dio fatto uomo, che versa il suo sangue per la redenzione di tutti gli uomini, era il più forte motivo che induceva la Chiesa ad impegnarsi con tanto zelo nella manomissione degli schiavi. Infatti per concepire avversione contro una disuguaglianza così ignominiosa, bastava pensare come quegli stessi uomini degradati fino al livello degli animali erano stati anch’essi oggetto dei decreti salutari dell’Altissimo come i loro padroni e al pari dei sovrani più potenti della terra. «Il nostro Redentore e Creatore di tutte le cose – diceva il Papa S. Gregorio – si degnò benignamente di assumere un corpo umano affinché, spezzato con la grazia della sua divinità il vincolo di servitù che ci teneva schiavi, ci restituisse alla libertà originaria. Per questo è opera benefica restituire agli uomini con la manomissione la libertà con la quale la natura creò in principio liberi tutti gli uomini, i quali furono soggetti al giogo della servitù unicamente per via delle leggi degli uomini» (lib. 5 epist. 12).

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La Chiesa stimò sempre necessario limitare per quanto possibile l’alienazione dei suoi beni; ed è certo che la sua regola generale fu quella di affidare molto poco all’arbitrio di qualunque dei suoi ministri. Così facendo aveva per scopo di evitare gli sprechi che senza questa condotta sarebbero stati senz’altro frequenti, perché questi beni erano distribuiti dappertutto ed erano affidati a ministri scelti da tutte le classi del popolo; e per questo erano esposti ai diversi condizionamenti derivanti dalle relazioni di parentela, di amicizia, e da mille altre situazioni connesse alle diversità di indole, di istruzione, di prudenza ed anche di tempi, climi e luoghi. Perciò la Chiesa mostrò sempre una certa diffidenza nell’accordare la facoltà di cedere i beni; e se si presentava il caso, sapeva mostrare un giusto rigore contro i ministri che trascuravano il loro dovere dilapidando i beni affidati alla loro cura. Nonostante ciò abbiamo già visto che la Chiesa abbandonava questa diffidenza quando si trattava del riscatto degli schiavi: e si può anche dire che riguardo alla proprietà consistente in schiavi, guardava la cosa con altri occhi e mutava il rigore in indulgenza.

Bastava infatti che gli schiavi avessero servito bene la Chiesa perché i Vescovi potessero concedere loro la libertà, donando per di più qualcosa per il loro mantenimento. Pare che questo giudizio sul merito degli schiavi venisse lasciato alla discrezione del Vescovo; e già si vede come una simile disposizione aprisse una porta alla carità dei prelati, mentre d’altra parte invogliava gli schiavi a tenere una condotta meritevole di una così preziosa ricompensa. Siccome poteva accadere che il Vescovo subentrante avanzasse dubbi sulla sufficienza dei motivi che avevano indotto il predecessore a dare la libertà ad uno schiavo e volesse quindi ostacolarla, era stato ordinato che i Vescovi rispettassero in questa materia le disposizioni dei predecessori, non solo col lasciare in libertà i manomessi, ma anche lasciando loro quanto avesse assegnato il Vescovo precedente in terre, vigne, o abitazioni. Così prescrive il canone 7 del Concilio di Agde in Linguadoca celebrato nell’anno 506; né risulta che in altri luoghi sia stata proibita la manomissione perché vi si parla in senso generale, e non per determinati casi, purché gli schiavi fossero meritevoli.

Se un Vescovo dopo avere ceduto o impegnato i beni ecclesiastici moriva senza lasciare propri beni, i contratti dovevano essere annullati; e abbiamo già detto che questa stessa disposizione chiarisce che si tratta dei casi in cui il Vescovo avesse agito in violazione ai canoni. Ma nonostante questo se ne mitigava il rigore se il Vescovo aveva dato la libertà ad alcuni schiavi, presumendo con ciò che i manomessi continuassero a godere della libertà. Così ordinò il Concilio di Orleans tenuto nell’anno 541 nel canone 9, lasciando solamente ai manomessi l’incarico di prestare servizio alla Chiesa; servizio

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che, come è risaputo, non era altro che quello dei liberti, e che d’altronde era ricompensato dalla protezione che la Chiesa accordava alle persone di questa classe.

Come ulteriore indizio dell’indulgenza riguardo agli schiavi può citarsi altresì il Canone 10 del Concilio di Celchite (Celichytense) in Inghilterra nell’anno 816, dal quale risulta addirittura la disposizione di rendere liberi in pochi anni tutti i servi inglesi delle Chiese nei paesi dove era stato celebrato il Concilio; infatti disponeva che alla morte di un Vescovo si desse la libertà a tutti i suoi servi inglesi, aggiungendo che ciascuno degli altri Vescovi e Abati dovessero manomettere tre servi e dare a ciascuno tre soldi. Simili disposizioni andavano spianando la strada per avanzare sempre più nell’opera intrapresa, e preparavano le cose e gli animi in modo tale che, passato del tempo, si assistette a scene tanto generose quale quella del Concilio di Armach del 1171, in cui fu concessa la libertà a tutti gli inglesi che erano schiavi in Irlanda.

Tali condizioni vantaggiose di cui godevano gli schiavi della Chiesa acquistavano ancor più valore per il fatto che, per una norma della disciplina della quale abbiamo già parlato, questi diritti non si potevano più perdere. Se gli schiavi della Chiesa avessero potuto passare ad altri padroni, si sarebbero trovati senza avere più diritto ai benefìci che ricevevano quelli che continuavano a stare sotto la potestà ecclesiastica; ma per fortuna ciò non era possibile perché era proibito permutare gli schiavi della Chiesa con altri; e se venivano liberati dalla Chiesa rimanevano liberi. Di questa disciplina abbiamo un’espressa testimonianza nelle decretali di Gregorio IX (lib. 3, tit. 19, can, 3 e 4). Ed è da considerare che nel documento appena citato gli schiavi della Chiesa erano visti come consacrati a Dio, fondandosi appunto su questo la disposizione per cui non potevano passare in proprietà di altri e non uscivano dalla Chiesa se non per restare liberi. Si apprende anche, sempre da quel documento, che i fedeli avevano l’usanza di offrire a Dio e ai suoi Santi gli schiavi in suffragio della loro anima, e questi passando alla Chiesa rimanevano fuori del commercio comune senza poter più ritornare a schiavitù profana. Non c’è bisogno di richiamare l’attenzione sull’effetto benefico che dovettero produrre questi princìpi e queste usanze in cui la religione era unita con la causa della solidarietà. Basta osservare che lo spirito del tempo era religioso al massimo grado, e quanto restava attaccato all’àncora della religione era sicuro di esser salvo.

La forza delle idee religiose che s’andavano sviluppando sempre più svolgeva, è vero, la sua azione in tutti i campi, ma in modo particolare era diretta a sottrarre con ogni mezzo possibile l’uomo dal giogo della schiavitù. A tale proposito è degna di considerazione una disposizione canonica del tempo

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di S. Gregorio Magno. In un Concilio di Roma celebrato nel 597, e presieduto da quel santo Papa, fu offerta agli schiavi una nuova possibilità per uscire dalla loro abbietta condizione, concedendo il recupero dalla libertà nel caso avessero desiderato abbracciare la vita monastica. Le parole del santo Pontefice meritano di essere lette, poiché vi si nota il prevalere dei motivi religiosi su tutte le considerazioni e gli interessi mondani. Questo importante documento si trova nelle lettere di S. Gregorio, ed è inserito tra le note alla fine di questo primo volume.

Avrebbe una errata conoscenza dello spirito di quei tempi chi ritenesse che simili disposizioni rimanessero senza frutto: non è così, perché producevano invece i più grandi effetti. Ce ne può dare un’idea ciò che leggiamo nel decreto di Graziano (Distin. 54, cap. 12), in cui si apprende che il passare degli schiavi alla vita monastica portò a tali eccessi che fu necessario reprimere severamente l’abuso col quale gli schiavi fuggivano dai loro padroni, chiudendosi nei monasteri sotto il pretesto di darsi alla vita religiosa. La qual cosa diede origine a molte lamentele provenienti da ogni parte. Comunque sia, e prescindendo anche da quanto ci mostrano certi abusi, è facile dedurre che non si finiva di raccogliere frutti abbondanti: sia perché si procurava la libertà a molti schiavi, sia perché agli occhi del mondo la considerazione nei loro confronti aumentava di molto, vedendoli passare ad uno stato che andò ben presto migliorando e conquistando un immenso prestigio e una grande influenza.

Fermiamoci un momento a considerare ciò che accadeva riguardo all’ordinazione sacerdotale degli schiavi: il che contribuirà non poco a darci un’idea del cambiamento profondo che con questi mezzi stava avvenendo nell’ordine sociale. La disciplina della Chiesa su questo punto si accordava molto con le sue dottrine. Lo schiavo era un uomo come gli altri e per questo poteva essere ordinato come il più nobile signore: ma finché era soggetto alla potestà del suo padrone era privo dell’indipendenza necessaria alla dignità del sacro ministero, e per questa ragione si disponeva che lo schiavo non potesse essere ordinato se prima non fosse stato messo in libertà. Non c’è niente di più ragionevole, di più giusto, né di più prudente di questa limitazione in una disciplina d’altronde tanto nobile e generosa che per se stessa era una proclamazione eloquente in favore della dignità dell’uomo; una solenne dichiarazione che, pur avendo la disgrazia di sopportare la schiavitù, lo schiavo non restava ad un livello più basso degli altri uomini, perché la Chiesa non reputava vergogna scegliere i suoi ministri tra coloro che erano stati soggetti alla schiavitù; disciplina, infine, del tutto umana e generosa, perché accogliendo in una categoria così rispettabile quelli che erano stati schiavi,

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tendeva a dissipare le prevenzioni contro questo stato, e favoriva relazioni forti e feconde tra quelli che appartenevano alla schiavitù e la classe più illustre degli uomini liberi.

A questo punto è opportuno attirare l’attenzione sull’abuso che si ebbe nell’ordinare degli schiavi senza il consenso dei loro padroni: abuso del tutto contrario in verità alle disposizioni dei sacri canoni, e che fu represso con lodevole zelo dalla Chiesa. Ciononostante questo fatto non manca di utilità per l’osservatore al fine di valutare nella giusta misura il notevole effetto che andavano producendo le idee e le istituzioni religiose. Senza pretendere minimamente di scusare ciò che vi era di colpevole, si può tuttavia ricavare un insegnamento dallo stesso abuso; poiché gli abusi molte volte non sono altro che le esagerazioni di un lodevole principio. Le idee religiose mal si confacevano con la schiavitù, la quale era sostenuta dalle leggi: da qui la lotta incessante che si presentava sotto diverse forme, ma sempre diretta al medesimo scopo: l’emancipazione universale. È con fiducia che facciamo uso di questo genere di argomenti, dopo aver sentito giustificare con la massima benevolenza i più orribili delitti delle rivoluzioni solo in grazia dei princìpi di cui erano imbevuti i rivoluzionari e del fine cui mirava la rivoluzione, che era quello di cambiare completamente l’ordine sociale.

È curiosa la lettura delle testimonianze che ci sono rimaste su quest’abuso (e che possono leggersi per esteso alla fine di questo volume), ricavati dal decreto di Graziano (Distin. 54: cap. 9, 10, 11 e 12). Esaminandoli attentamente si apprende: 1. Che il numero degli schiavi che con questo mezzo acquistavano la libertà era notevole, potendolo dedurre dalle lamentele contrarie che erano molto diffuse. 2. Che i Vescovi erano generalmente a favore degli schiavi, e che estendevano molto la loro protezione e procuravano in ogni maniera di tradurre in pratica le dottrine dell’uguaglianza, poiché nel decreto stesso si afferma che quasi nessun Vescovo era esente da questa riprovevole condiscendenza. 3. Che gli schiavi conoscendo questo spirito di protezione si affrettavano a sciogliere le catene e gettarsi nelle braccia della Chiesa. 4. Che quest’insieme di circostanze doveva produrre negli animi un movimento assai favorevole alla libertà, e che stabilita una corrispondenza così affettuosa tra gli schiavi e la Chiesa, allora tanto poderosa e influente, dovette venirne di conseguenza che la schiavitù si attenuasse rapidamente, procedendo i popoli verso quella libertà che alcuni secoli dopo vediamo giunta a compimento.

La Chiesa di Spagna, il cui influsso a vantaggio della civiltà è stato oggetto di molti elogi da parte di uomini certamente non molto favorevoli al Cattolicesimo, mostrò anch’essa su questo tema l’elevatezza delle sue vedute e

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la sua consumata prudenza. Essendo così grande, come abbiamo visto, lo zelo caritatevole a favore degli schiavi, e così decisa la propensione ad innalzarli al sacro ministero, era conveniente lasciare uno sbocco a questa generosa iniziativa, conciliandola il più possibile con ciò che richiedeva la santità del ministero. A questo doppio fine era senza dubbio diretta la disciplina introdotta in Spagna di permettere l’ordinazione degli schiavi della Chiesa, ordinazione che doveva essere preceduta dalla loro manomissione. Questo in base a ciò che dispone il canone 74 del quarto Concilio di Toledo celebrato nel 633, e come si deduce anche dal canone 11 del nono Concilio pure di Toledo tenuto nel 655, dove si dispone che i Vescovi non possono introdurre nel clero gli schiavi della Chiesa senza aver prima concessa loro la libertà.

È il caso di osservare che questa disposizione fu maggiormente estesa dal canone 18 del Concilio di Merida del 666, dove si concesse anche ai parroci di scegliere i chierici tra gli schiavi della loro chiesa, con l’obbligo tuttavia di mantenerli secondo le loro entrate. Con questa disciplina, senza commettere la minima ingiustizia, si evitavano tutti gl’inconvenienti che potevano derivare dall’ordinazione degli schiavi, e si ottenevano inoltre per una via più piana risultati molto vantaggiosi. Infatti, ordinando i servi della stessa chiesa, era più facile effettuare una giusta valutazione, scegliendo quelli che meritassero maggiormente per le loro qualità intellettuali e morali. E nello stesso tempo per la Chiesa si apriva un vasto campo d’azione per poter emancipare i suoi servi, facendolo in un modo tanto lodevole come quello di aggiungerli al numero dei suoi ministri. Infine si dava ai laici un esempio molto proficuo, perché se la Chiesa si privava con tanta generosità dei suoi schiavi, ed era tanto indulgente su questa materia che, non limitandosi ai Vescovi, ne estendeva la facoltà anche ai parroci, tanto meno doveva riuscire penoso ai laici fare qualche sacrificio dei propri interessi a favore della libertà di coloro che sembrassero chiamati ad un ministero così santo. Torna all’indice

CAPITOLO XIX Dottrine di S. Agostino sulla schiavitù. Importanza di tali dottrine per giungere all’abolizione della schiavitù. Dottrine di S. Tommaso sulla stessa materia. Si impugna Guizot. Matrimonio degli schiavi. Disposizioni del diritto canonico su questo matrimonio. Dottrina di S. Tommaso sullo stesso punto. Riepilogo dei mezzi adoperati dalla Chiesa per abolire la schiavitù. S’impugna ancora Guizot. Si dichiara che l’abolizione della schiavitù è dovuta esclusivamente al Cattolicesimo.

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La Chiesa andava così per mille strade sciogliendo la catena della schiavitù, senza tuttavia mai uscire dai limiti della giustizia e dalla prudenza; e faceva in modo che scomparisse tra i Cristiani questo stato di degradazione che tanto ripugnava ai suoi alti princìpi sulla dignità dell’uomo e ai nobili sentimenti di fratellanza e di amore. Ovunque verrà introdotto il Cristianesimo, le catene di ferro si cambieranno in dolci vincoli, e i disperati mortali potranno alzare con nobiltà la fronte. Si legge con molto piacere ciò che scriveva su questo punto S. Agostino, uno dei più grandi dottori della Chiesa, in De Civitate Dei (lib. 19. c. 14, 15, 16). Dopo essersi soffermato brevemente sul dovere di chi comanda (sia padre o marito o signore) di avere come fine il bene di quelli che gli sono sottoposti, trovando così nella stessa utilità di chi ubbidisce una delle basi dell’ubbidienza; dopo aver detto che i giusti non comandano né per capriccio né per superbia, ma per dovere e per il desiderio di fare del bene a chi è loro affidato («neque enim dominandi cupiditate imperant, sed officio consulendi, nec principandi superbia, sed providendi misericordia»); dopo aver rigettata con tanti nobili ragionamenti qualunque opinione tendente alla tirannia, o che fondasse l’ubbidienza su motivazioni umilianti, ad un certo punto, come se temesse qualche replica contro la dignità dell’uomo, la sua anima generosa s’infiamma di colpo, affronta la questione, la solleva alla più sublime altezza e dichiarando senza mezzi termini i nobili pensieri che gli agitano la mente invoca in suo favore l’ordine della natura e la volontà dello stesso Dio, esclamando: «Lo prescrive l’ordine naturale perché in questa forma Dio ha creato l’uomo. Infatti Egli disse: Sia il padrone dei pesci del mare e degli uccelli del cielo e di tutti i rettili che strisciano sulla terra. Volle che l’essere ragionevole, creato a Sua immagine, fosse il padrone soltanto degli esseri irragionevoli, non l’uomo dell’uomo, ma l’uomo del bestiame».

Questo passo di S. Agostino è una di quelle forti pennellate che s’incontrano negli scrittori di genio quando, tormentati dalla vista di un oggetto penoso, sciolgono il freno alla generosità delle loro idee e dei loro sentimenti esprimendoli con animosa audacia. Il lettore, colpito dalla forza dell’espressione, corre con l’animo sospeso e senza riprendere fiato a quanto sta scritto nelle righe successive, quasi temendo che l’autore sia uscito di strada fuorviato dalla generosità del suo cuore e trascinato dalla forza del genio. E prova un indicibile piacere quando si rende conto che non si è allontanato affatto dal cammino della sua dottrina, ma che semplicemente, qual valoroso campione, è uscito in campo aperto per difendere la causa della ragione, della giustizia e dell’umanità. Tale ci si presenta qui S. Agostino: la vista di tanti infelici gementi nella schiavitù, vittime della violenza e dei capricci dei loro

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padroni, tormentava quell’anima generosa. Guardando l’uomo col lume della ragione e delle dottrine cristiane non vedeva il motivo per cui una parte così numerosa del genere umano dovesse vivere in tanto avvilimento. Quindi, mentre proclama quelle dottrine sopra riferite, cerca di arrivare all’origine di tanta ignominia, e non vedendola nella natura dell’uomo la trova infine nel peccato e nella maledizione. «Per questo – egli dice – i giusti dell’antichità furono stabiliti come pastori degli armenti e non come re degli uomini, ed anche in questo modo Dio suggeriva che cosa richiede l’ordine delle creature, e che cosa esige la pena del peccato. Si deve capire che a buon diritto la condizione servile è stata imposta all’uomo peccatore. Perciò in nessun testo della Bibbia leggiamo il termine "schiavo" prima che il giusto Noè tacciasse con questo titolo il peccato del figlio. Quindi la colpa, e non la natura, ha meritato simile appellativo».

Questo atteggiamento, di guardare la schiavitù come figlia del peccato, come frutto della maledizione di Dio, era di grande importanza perché, lasciando salva la dignità della natura dell’uomo, attaccava alla radice tutti i pregiudizi di superiorità naturale che nella loro arroganza potessero attribuirsi gli uomini liberi. Inoltre la schiavitù rimaneva anche priva del valore che le si poteva dare considerandola come principio politico o come strumento di governo. Restava solo da considerarla come una delle tante piaghe con cui la collera dell’Altissimo ha punito l’umanità. In tal caso gli schiavi avevano un motivo di rassegnazione, l’arbitrio dei padroni incontrava un freno, e la compassione di tutti gli uomini liberi uno stimolo. Perché, essendo tutti nati nella colpa, tutti avrebbero potuto trovarsi in uno stato simile; e se i liberi si vantavano per non essere tra quelli che si trovavano in questo stato, non erano nel giusto più di coloro che in mezzo ad una epidemia si fossero vantati di essersi mantenuti sani, e per questo motivo avessero creduto di poter insultare i poveri infermi. In una parola, lo stato di schiavitù era una piaga e non altro; era come la peste, la guerra, la fame e altri simili flagelli; e perciò era dovere di tutti gli uomini di cercare subito di mitigarla, e poi d’impegnarsi per abolirla.

Simili princìpi non rimanevano sterili: proclamati apertamente, risuonavano vigorosamente ovunque ai quattro angoli del mondo cattolico; ed oltre ad essere messi in pratica come abbiamo visto in numerosi esempi, erano conservati come una preziosa dottrina in mezzo al caos dei tempi. Erano passati otto secoli, e li vediamo ripresi da un altro dei più grandi dottori della Chiesa cattolica: S. Tommaso d’Aquino (1. Part. Quaest. 96, art. 4). Anch’egli non vede nella schiavitù una differenza di razze, né una presunta inferiorità, né uno strumento di governo. Egli non riesce a spiegarla in altra maniera che considerandola come una piaga provocata all’umanità dal peccato del primo

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uomo. L’avversione che i Cristiani hanno avuto nei confronti della schiavitù è

tanto grande, quanto falsa è l’affermazione del Sig. Guizot: che cioè «questa condizione non turbasse né irritasse la società cristiana». Non vi fu per certo quel turbamento e quell’irritazione cieca che, saltando tutti gli ostacoli, e non considerando ciò che impone la giustizia e consiglia la prudenza, corrono senza giudizio a cancellare il marchio di oppressione e d’ignominia. Ma se si parla di quel turbamento ed irritazione che nascono dal vedere oppresso e oltraggiato l’uomo, che non si oppongono però ad una santa rassegnazione e longanimità, e che senza dare tregua ad uno zelo caritatevole non vogliono tuttavia comprometterne l’esito con l’affrettarne il compimento, anzi lo preparano con accortezza per ottenere il pieno effetto; se è di questa santo turbamento e irritazione che stiamo parlando, può esserci prova più convincente di quella dei fatti da noi citati, e delle dottrine che abbiamo ricordato? Può esserci protesta più eloquente contro la durata della schiavitù, di quella che sgorga dalla dottrina dei due insigni dottori, i quali come abbiamo visto definiscono la schiavitù frutto di maledizione e castigo per la prevaricazione della stirpe umana, e che la concepiscono come una delle grandi piaghe che affliggono l’umanità?

Le profonde ragioni che indussero la Chiesa a raccomandare agli schiavi l’ubbidienza, le ho sufficientemente illustrate, per cui non c’è nessuno, purché sia imparziale, che possa considerare questo comportamento una inosservanza dei diritti dell’uomo. Né si creda con questo che mancasse nella società cristiana la fermezza necessaria per dire tutta intera la verità, purché fosse verità salutare. Ne abbiamo una prova con ciò che accadde riguardo al matrimonio degli schiavi che, come è noto, non era neanche considerato come tale, e comunque non poteva essere contratto senza il consenso dei padroni sotto pena di essere considerato nullo. Vi era in questo una prevaricazione che contrastava apertamente con la ragione e con la giustizia. Cosa fece a questo punto la Chiesa cattolica? Rigettò senza mezzi termini questo abuso. Sentiamo intanto cosa diceva il Papa Adriano I: «Secondo le parole dell’Apostolo, siccome in Cristo Gesù non si deve allontanare dai sacramenti della Chiesa né il libero né lo schiavo, allo stesso modo tra gli schiavi non si devono in alcun modo proibire i matrimoni, e se li avessero contratti, contraddicendo e avversando i padroni, neanche per questo motivo si devono sciogliere» (De conjunctione servorum lib. t.. tomo 9, c. 1).

Questa disposizione, che assicurava la libertà degli schiavi riguardo ad uno dei punti più importanti, non si deve ritenere limitata a particolari circostanze, perché era qualcosa di più: era una proclamazione della libertà in

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questa materia; era che la Chiesa non voleva acconsentire che l’uomo fosse ridotto al livello degli animali vedendosi forzato a piegarsi al capriccio o all’interesse di un altro uomo, senza che siano consultati almeno i sentimenti del cuore. Così l’intendeva S. Tommaso, il quale sosteneva apertamente che per contrarre matrimonio gli schiavi non devono ubbidire ai padroni (2. 2. quaest. 104, art. 5).

Nel rapido abbozzo che ho fin qui tratteggiato credo di aver mantenuto fede a ciò che promisi all’inizio, cioè che non avrei presentata alcuna enunciazione che non fosse convalidata da documenti inoppugnabili, senza lasciarmi fuorviare dall’entusiasmo per il Cattolicesimo tanto da attribuirgli ciò che non gli compete. Abbiamo passato velocemente in rassegna il corso di secoli turbolenti, e molte testimonianze convincenti, provenienti da epoche e luoghi diversi, ci hanno confermato che è stato il Cattolicesimo ad abolire la schiavitù: lottando contro le idee, i costumi, gl’interessi e le leggi che sembravano costituire un ostacolo insuperabile. E per di più vi è riuscito senza ricorrere ad ingiustizie, violenze o sconvolgimenti, e tutto con la più squisita prudenza e con la più ammirevole moderazione. Abbiamo visto la Chiesa cattolica portare contro la schiavitù un assalto tanto vasto, diversificato ed efficace, che per spezzare l’infame catena non c’è stato neanche bisogno di un colpo violento; ma, sottoposta all’azione di vari ed idonei elementi, si è andata sempre più indebolendo e disfacendo fino a cadere in pezzi. Prima si è proceduto ad insegnare apertamente le vere dottrine sulla dignità dell’uomo; sono stati definiti gli obblighi dei padroni e degli schiavi; è stata proclamata l’uguaglianza di fronte a Dio, riducendo in frantumi le degradanti teorie che sviliscono le opere dei più grandi filosofi dell’antichità. Poi si è incominciato ad applicare le dottrine: provvedendo a rendere meno duro il trattamento degli schiavi; combattendo l’atroce principio del diritto di vita e di morte; disponendo le chiese come asilo per gli schiavi ed impedendo che, uscendone, venissero maltrattati; facendo sì che il giudizio dei tribunali sostituisse la vendetta privata. Al momento opportuno si è proceduto a garantire la libertà dei manomessi abbinandola a motivazioni di carattere religioso; si è difesa con molta fermezza e sollecitudine quella degli schiavi liberati; si è fatto in modo di disseccare le fonti della schiavitù (ora dispiegando un vivissimo zelo per l’emancipazione degli schiavi, ora opponendosi alla cupidigia dei Giudei, o escogitando sistemi per far recuperare speditamente la libertà ai venduti); con l’esempio della mansuetudine e del disprezzo per le ricchezze, e con altri mezzi che di volta in volta suggeriva la carità, è stata agevolata l’emancipazione introducendo gli schiavi nei monasteri e nello stato ecclesiastico. In questo modo, nonostante le profonde radici che la schiavitù aveva messo nella società

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antica, nonostante gli scompigli che le scorrerie dei barbari portavano ovunque, le tante guerre e le calamità d’ogni genere che spesso rendeva inutile l’effetto di ogni azione regolatrice e benefica: nonostante tutto ciò, si può constatare che la schiavitù, questa lebbra che deturpava le antiche civiltà, andò rapidamente riducendosi nelle nazioni cristiane e infine scomparve.

Questo sistema non si rivela certamente come concepito e coordinato dagli uomini; ma proprio per questo si può notare tanta unità d’inclinazioni, identità di vedute e affinità di mezzi; e tutto ciò è una prova sempre più evidente dello spirito di civiltà e di libertà che il Cattolicesimo diffonde. Gli osservatori imparziali si compiaceranno indubbiamente vedendo come nel quadro da me presentato concorrano meravigliosamente al medesimo scopo i tempi dell’impero, quelli dell’invasione dei barbari e quelli dell’epoca del feudalesimo; e si compiaceranno ancor di più (ripeto, gli osservatori imparziali) nel raccogliere, nella meschina normalità che caratterizza tutto ciò che è opera esclusiva dell’uomo, i fatti sparsi qua e là in apparente disordine: dai boschi della Germania fino alle pianure della Betica, dalle rive del Tamigi fino alle sponde del Tevere.

Questi fatti non li ho inventati io: ho precisato le epoche e citati i Concili; alla fine di questo volume il lettore troverà gli originali di cui ho trascritto per esteso i testi (che ho estratti e qui compendiati), e in essi potrà rendersi pienamente conto che non l’ho ingannato. Che se tale fosse stata la mia intenzione non sarei certamente sceso nell’arena dei fatti: avrei piuttosto girovagato tra le regioni delle teorie, avrei proferito parole pompose e seducenti, avrei adoperato i mezzi più convenienti per incantare la fantasia ed eccitare i sentimenti; mi sarei messo in una di quelle situazioni in cui uno scrittore può supporre a suo piacere cose che non sono mai esistite e con assai poca fatica esaltare le ricchezze della sua immaginazione e la fecondità del suo ingegno. Mi sono invece imposto un lavoro alquanto penoso, forse non molto brillante, ma certamente più fecondo.

Ed ora potremo domandare al Sig. Guizot quali sono state le altre cause, le altre idee, gli altri princìpi di civiltà di cui, com’egli dice, è stato necessario l’intero sviluppo perché la ragione trionfasse infine della più vergognosa delle iniquità. Queste cause, queste idee, questi princìpi di civiltà, che secondo lui aiutarono la Chiesa nell’abolire la schiavitù, occorreva spiegarle, o almeno indicarle; e così il lettore avrebbe potuto risparmiarsi la fatica di cercarle andando alla cieca. Se non germogliarono dal seno della Chiesa, dov’erano? Forse nei resti dell’antica civiltà? Ma i resti di una civiltà disgregata e quasi annientata potevano fare ciò che questa stessa civiltà non fece e non pensò mai di fare quando era nel pieno del suo vigore, della sua potenza e vitalità?

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Stavano forse nell’individualismo dei barbari, quando questo era inseparabile compagno della violenza, ed era necessariamente fonte di oppressione e di schiavitù? Stavano forse nella preminenza militare, introdotta secondo Guizot dagli stessi barbari, preminenza che gettò le fondamenta di quell’ordine aristocratico che più tardi si convertì in feudalesimo? Ma che aveva a che fare questa preminenza con l’abolizione della schiavitù, quando era la più propensa a perpetuarla sulle popolazioni dei paesi conquistati, ed estenderla anche ad una considerevole parte dei propri connazionali? Dove si può dunque trovare un’idea, un costume, un’istituzione che senza essere figlia del Cristianesimo abbia contribuito ad abolire la schiavitù? Si consideri l’epoca in cui iniziò il processo di abolizione e il tempo in cui si sviluppò, ci si mostri che non ebbe origine nel Cristianesimo, e allora ammetteremo che il Cristianesimo non può pretendere di avere in esclusiva l’onore di avere abolito uno stato così degradante. E non finiremo per questo di approvare e lodare quell’idea, costume od istituzione, che abbia preso parte alla bella e grandiosa impresa di liberare l’umanità.

Ed alle chiese protestanti, a queste figlie ingrate che dopo essersi separate dal seno della madre s’impegnano a calunniarla e a disonorarla, ora possiamo domandare: dove eravate quando la Chiesa cattolica andava predicando l’opera immensa dell’abolizione della schiavitù? Come potrete mai accusarla di avere in simpatia la schiavitù, e che si comporta in modo da avvilire l’uomo ed usurparne i diritti? Potete voi usurpare un titolo che vi meriti la gratitudine del genere umano, così come l’ha meritata la Chiesa cattolica con l’abolizione della schiavitù? Che parte avete avuto in questa grande opera che ha costituito il primo fondamento per lo sviluppo e la grandezza della civiltà europea? Soltanto il Cattolicesimo, senza il vostro aiuto, riuscì nell’impresa; e soltanto il Cattolicesimo avrebbe portato l’Europa ai suoi alti destini se voi non foste venute a stravolgere il maestoso cammino di queste grandi nazioni, deviandole sconsideratamente su un sentiero disseminato di rovine: sentiero il cui termine è celato da folte tenebre in mezzo alle quali Dio solo sa cosa le aspetta (15). Torna all’indice

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CAPITOLO XX Quadro della civiltà moderna. Abbozzo delle civiltà non cristiane. Tre elementi della civiltà: individuo, famiglia, società. La perfezione di questi tre elementi deriva dalle dottrine.

Abbiamo visto che della più bella impresa della civiltà europea, della conquista più preziosa a favore dell’umanità, cioè dell’abolizione della schiavitù, siamo debitori esclusivamente della Chiesa cattolica. La quale per mezzo delle sue dottrine tanto benefiche quanto sublimi, di un sistema nello stesso tempo efficace e prudente, con una generosità senza limiti, con uno zelo instancabile, con una invincibile fermezza, abolì la schiavitù in Europa. Fece cioè il primo passo obbligatorio per rigenerare l’umanità ponendo così la prima pietra delle profonde e spaziose fondamenta sulle quali sarebbe sorta la civiltà europea: l’emancipazione degli schiavi, l’abolizione per sempre di uno stato tanto degradante, la libertà universale. Se non si fosse provveduto per prima cosa a sollevare l’uomo da questa abbietta condizione, se non lo si fosse risollevato al di sopra del livello degli animali, non sarebbe stato possibile creare e organizzare una civiltà piena di dignità e di grandezza. Perché ovunque si veda un uomo prostrato ai piedi di un altro uomo aspettare con sguardo timoroso gli ordini del suo padrone e tremare di paura al solo movimento di una sferza; e ovunque capiti che l’uomo sia venduto come si fa con gli animali, e tutte le sue qualità e perfino la vita sono valutate al prezzo di alcune monete, non si svilupperà mai una vera civiltà: sarà sempre una civiltà fiacca, malaticcia, falsa, perché dove succede questo l’umanità porta in fronte un marchio di ignominia.

Avendo dunque dimostrato che fu il Cattolicesimo a togliere di mezzo il primo ostacolo a qualsiasi progresso sociale purificando per così dire l’Europa da questa ripugnante lebbra che l’infettava dalla testa ai piedi, passiamo ora ad indagare su ciò che fece il Cattolicesimo per costruire il grandioso edificio della civiltà europea. Perché se riflettiamo bene su quanto questa civiltà contiene di vitale e fecondo, scopriremo nuovi e grandi meriti che impongono la riconoscenza dei popoli nei confronti della Chiesa cattolica. E prima di tutto sarà bene dare un’occhiata al vasto e importante quadro che ci presenta la civiltà europea, riassumendo in poche parole le principali perfezioni a cui è arrivata, perché così potremo giustificare più facilmente a noi stessi l’ammirazione che ci suscita e l’entusiasmo che ci ispira. L’individuo che ha acquisito un vivo sentimento della propria dignità, una grande capacità di azione, di energia e di attitudine alla fatica, ed uno sviluppo simultaneo di tutte le sue facoltà; la donna innalzata al grado di compagna dell’uomo,

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compensando in tal modo il dovere di soggezione con la rispettosa stima che la circonda; la dolcezza e fermezza dei vincoli famigliari con forti garanzie di buon governo e di giustizia; un’ammirevole coscienza pubblica, ricca di sublimi princìpi morali, di regole di giustizia e di equità, di sentimenti d’onore e di decoro, coscienza che resta sempre viva anche quando fallisce la morale privata, e che non permette che la spudoratezza della corruzione giunga agli eccessi dei popoli antichi; una certa diffusa delicatezza dei costumi che in tempo di guerra evita le grandi stragi e in tempo di pace fa la vita più amabile e tranquilla; un profondo rispetto per l’uomo e per la proprietà che rende così rare le violenze dei singoli, e serve da freno salutare per chi governa in ogni tipo di regime politico; una viva ansia di perfezione in tutti i campi; un’inclinazione irresistibile, talvolta illusoria ma sempre viva, a migliorare lo stato delle classi popolari; un segreto impulso a proteggere i deboli e a soccorrere gli sventurati, impulso che alle volte si svolge con generoso zelo, e quando non accade rimane nel cuore della società provocandole il disagio e il tormento di un rimorso; uno spirito di universalità, di divulgazione, di cosmopolitismo; una riserva inesauribile di mezzi per rinnovarsi, per non soccombere nelle peggiori crisi; una generosa inquietudine rivolta all’avvenire, che produce un fermento e un movimento continuo, talvolta anche un po’pericolosi, ma che generalmente sono il germe di grandi benefìci e il segno di una sana vitalità. Ecco i grandi caratteri che distinguono la civiltà europea, ed ecco i motivi che la collocano in un posto immensamente superiore a tutte le altre civiltà antiche e moderne.

Leggete la storia, percorrete con lo sguardo tutto il mondo, e ovunque non regni il Cristianesimo, se non prevale la vita barbara o la selvaggia, troverete una civiltà che non assomiglia per nulla alla nostra, con la quale non può confrontarsi neanche alla lontana. In alcune di tali civiltà noterete un certo ordine e dei segni di stabilità perché durano da secoli. Ma come durano? Senza progredire, senza muoversi, perché mancano di vita. La loro regolarità e durata sono quelle di una statua di marmo che, immobile, si vede passare davanti numerose generazioni. Vi furono anche dei popoli con una civiltà traboccante di attività e movimento: ma quale attività e quale movimento? Gli uni dominati dallo spirito mercantile non riescono a fondare su una solida base la felicità interiore: sanno solamente approdare su nuovi lidi che presentino pascolo alla loro cupidigia, sbarazzandosi dell’eccesso di popolazione fondando colonie e stabilendo nei nuovi paesi un gran numero di fattorie. Gli altri disputando e combattendo continuamente per una maggiore o minore libertà politica dimenticano l’ordine sociale, non curano la libertà civile, e si aggirano turbolenti in un ristrettissimo limite di spazio e di tempo. Essi non

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meriterebbero neanche che la posterità ne ricordasse i nomi, se non brillasse tra loro con incredibile prodigio il genio del bello, se nelle testimonianze del loro sapere non riflettessero, come in un chiaro specchio, alcuni leggiadri segni della scienza tradizionale dell’Oriente. Altri ancora, veramente grandi e terribili, ma travagliati incessantemente da dissidi interni, portano scolpito in fronte il formidabile destino della conquista, l’eseguono dominando il mondo, e corrono quindi per una rapidissima china verso la rovina senza che niente possa fermarli. Altri infine, esaltati da un violento fanatismo, s’innalzano come le onde flagellate dall’uragano, si gettano su altri popoli come una mareggiata devastatrice, e minacciano di trascinare nella fragorosa corrente la stessa civiltà cristiana. Ma ogni loro sforzo è vano perché i marosi vanno ad infrangersi contro una resistenza incrollabile: raddoppiano gli assalti, ma sono sempre costretti a tornare indietro a ridistendersi con sordo fremito sul loro letto. E adesso eccoli là in Oriente, come in un torbido stagno già quasi disseccato dagli ardori del sole, eccoli là i figli e i successori di Maometto e di Omar, inginocchiati ai piedi della potenza europea mendicare una protezione che, per certi motivi, viene loro accordata ma con sdegnoso disprezzo.

Questo è il quadro che rappresenta tutte le civiltà antiche e moderne, eccetto quella europea, cioè la cristiana. La quale riunisce tutto ciò che vi è di grande e di bello nelle altre, ed è l’unica che passa senza soccombere attraverso le peggiori rivoluzioni, che si estende a tutte le razze, si adatta a tutti i climi, si accorda con le più svariate forme politiche e con ogni genere d’istituzioni affinché possa circolare come una linfa stimolante per il cuore, e produrre frutti gustosi e salutari per il bene dell’umanità.

E da dove mai la civiltà europea avrà ricevuto questa grande superiorità su tutte le altre? Da dove è uscita così forte, ricca, varia e feconda, con quel sigillo di dignità, di nobiltà, di superiorità senza caste, senza schiavi, senza eunuchi, senza quelle miserie che come una lebbra nauseante troviamo sparse tra gli altri popoli antichi e moderni? Ah! se noi europei ci lamentiamo così di frequente e con tanta forza, quanto mai deve farlo qualunque altro popolo! E non ci viene da pensare che siamo i figli prediletti della Provvidenza, e se è vero che soffriamo dei mali, patrimonio inseparabile dell’umanità, essi sono però molto leggeri e quasi nulla in confronto a quelli che soffrirono e soffrono gli altri popoli! È proprio in quanto abbiamo una grande fortuna che siamo più difficili ad accontentarci, e per così dire più delicati. Perché a noi accade come ad una persona di alta classe che è abituata a vivere circondata da stima e rispetto in mezzo alle comodità ed ai piaceri. Una parolina la sdegna, la più piccola molestia la mortifica e la disgusta, e non pensa che ci sono tanti uomini nudi e immersi nella miseria che non possono coprirsi se non con qualche

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cencio, né saziare la fame se non con qualche tozzo di pane raccolto tra mille sdegnosi rifiuti.

Nel contemplare la civiltà europea l’animo è colpito da tante e varie impressioni. Una gran quantità di oggetti si affollano alla mente come chiedendo di essere osservati per primi, che sebbene l’immaginazione si compiace per la magnificenza e bellezza del quadro, l’intelletto però rimane oppresso e non riesce a decidersi da che parte iniziare l’esame. In questi casi il migliore rimedio è quello di procedere in modo semplice, scomponendo l’oggetto complesso e riducendolo ai suoi più semplici elementi. L’individuo, la famiglia, la società: ecco ciò che dobbiamo esaminare a fondo. Questi saranno gli oggetti delle nostre ricerche, e se giungeremo a comprenderli bene così come sono in sé, e prescindendo dalle piccole differenze che non ne toccano l’essenza, vedremo la civiltà europea, con tutte le sue ricchezze e i suoi segreti, svilupparsi sotto i nostri occhi allo stesso modo che, uscendo dalle tenebre della notte, ai primi chiarori dell’aurora ci appare una vasta e lussureggiante campagna.

Ciò che la civiltà europea è, e ciò che ha, lo deve tutto alle principali verità sull’individuo, sulla famiglia e sulla società: verità di cui ha il possesso. In Europa meglio che in qualunque altra parte ne sono state comprese la vera natura, le vere relazioni e il vero fine, e se ne hanno idee, sentimenti e inclinazioni, che mancano alle altre civiltà. E queste idee e questi sentimenti sono impressi con forza nella fisionomia dei popoli europei, inoculati nelle leggi, nei costumi, nelle istituzioni, nel linguaggio, si respirano con l’aria perché la nostra atmosfera ne è impregnata come di un salubre aroma. Ed anche perché da lunghi secoli l’Europa nutre nel suo seno un saldo principio che li conserva, li propaga e li applica; e nelle epoche più sciagurate in cui, essendosi disgregata, la società dovette riformarsi da capo, fu precisamente allora che questo principio rigeneratore godette della maggiore influenza e della maggiore autorità. Passarono i tempi, sopravvennero grandi cambiamenti, il Cattolicesimo andò soggetto a vicende riguardanti il potere e l’influenza sull’Europa; ma la civiltà generata da questo principio era troppo solida perché venisse facilmente distrutta; l’impulso era troppo forte e sicuro perché si potesse facilmente perdere la strada. L’Europa era come un giovane nel fiore degli anni dotato di robusta costituzione, nelle cui vene fluiscono abbondanti la salute e la vita. Gli eccessi della fatica e della prodigalità possono abbatterlo per un breve tempo e farlo impallidire, ma ben presto il suo volto riacquista il colorito e il vigore, e le sue membra l’agilità e la forza. Torna all’indice

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CAPITOLO XXI Distinzione tra individuo e cittadino. Individualismo dei barbari secondo il Sig. Guizot. Se quest’individualismo appartenne esclusivamente ai barbari. Natura ed origine di questo sentimento. Sue modificazioni. Quadro della vita dei barbari. Vero carattere del loro individualismo. Ammissione del Sig. Guizot. Questo sentimento era in qualche modo comune a tutti i popoli antichi.

L’individuo: ecco il più semplice elemento della società, ecco ciò che per primo deve essere ben definito, quello che se viene percepito e valutato in modo non corretto sarà un continuo ostacolo al progresso della vera civiltà. Prima di tutto è necessario avvertire che qui stiamo parlando soltanto dell’individuo, dell’uomo quale è in sé, prescindendo dalle molteplici relazioni che lo riguardano non appena si passi a considerarlo come membro di una società. Ma non si creda per questo che s’intenda considerarlo in un perfetto isolamento, portandolo nel deserto, riducendolo allo stato selvaggio e analizzando l’individuo tal quale ce lo presentano alcune tribù nomadi, eccezione mostruosa che poteva venir fuori soltanto dalla degradazione della natura umana. Sarebbe lo stesso che riesumare il metodo di Rousseau: metodo puramente utopistico che non può condurre che all’errore e alla stravaganza. I componenti di una macchina possono essere esaminati a parte e isolatamente con lo scopo di capirne meglio la struttura particolare, ma non si deve mai dimenticare l’uso a cui sono destinati né perdere di vista l’insieme a cui appartengono; altrimenti il giudizio che se ne forma sarà inevitabilmente falso. Il più sublime e sorprendente dipinto non sarebbe altro che una mostruosità ridicola se si esaminassero isolandoli dall’insieme, o in combinazioni arbitrarie, i gruppi e le figure: con questo metodo si potrebbero convertire in sogni di un delirante i prodigi di Michelangelo o di Raffaello.

Ma senza dimenticare che l’uomo non è solo nel mondo e che non è nato per vivere solo; senza dimenticare che oltre a ciò che è in se stesso fa parte altresì del grande sistema dell’universo, e che al di là del destino che gli è riservato in quanto parte del vasto sistema della creazione è innalzato per bontà del Creatore ad una sfera più alta, superiore ad ogni concezione terrena: senza prescindere da tutto questo (ché nella buona filosofia non se ne può prescindere), rimane tuttavia spazio per lo studio dell’individuo e dell’individualismo. Nell’esaminare l’uomo lo vogliamo però astrarre dalla qualità di cittadino: astrazione che, ben lungi dal condurci a stravaganti paradossi, è molto opportuna per comprendere a fondo una particolarità molto importante presente nella civiltà europea; una certa caratteristica che, da sola, non permette di confondere questa civiltà con le altre.

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Che si debba fare una distinzione tra l’uomo e il cittadino, e che questi due aspetti diano luogo a considerazioni molto diverse, non c’è nessuno che non lo comprenda facilmente: la difficoltà sta nel chiarire con precisione fin dove si estendano gli effetti di una tale distinzione, fino a che punto sia lecito il sentimento dell’indipendenza personale, quale sia lo spazio che si debba assegnare allo sviluppo puramente individuale, particolarità che si trova nella nostra civiltà e non nelle altre. È un compito molto difficile quello di valutare correttamente questa differenza, assegnarne l’origine e il fine e ponderare accortamente quale sia stato il suo vero influsso nel cammino della civiltà. Compito, ripeto, difficilissimo, perché qui si racchiudono varie questioni, belle e importanti in verità, ma anche delicate e profonde dove è molto facile ingannarsi. Perché è quasi impossibile fissare con sicurezza l’obiettivo a causa di quegli elementi che hanno un che di vago, di indeterminato, d’impalpabile, e vanno come fluttuando, collegati fra loro solo attraverso impercettibili relazioni.

Qui andiamo a scontrarci col famoso individualismo, che secondo il Sig. Guizot ci fu portato dai barbari del Nord e fu qualcosa di talmente eccellente che dobbiamo considerarlo come uno dei primi e più fecondi princìpi della civiltà europea. Il celebre pubblicista, analizzando gli elementi di tale civiltà e assegnando la parte che a suo giudizio vi ebbe l’impero romano e la Chiesa, pretende di trovare qualche cosa di singolare e di molto fecondo nel sentimento d’individualismo che portarono con sé i Germani e che introdussero nei costumi europei.

Non sarà inutile spiegare qui l’opinione del Sig. Guizot su questa importante e delicata materia, perché mentre avremo il vantaggio di fissare meglio i termini della questione (il che è già molto difficile in oggetti tanto vaghi per loro natura), nello stesso tempo si dissolverà il grave equivoco in cui su questo punto incorrono alcuni a motivo dell’autorità del citato scrittore che, con gli espedienti del suo ingegno e con l’incanto della sua eloquenza, ha fatto apparire verosimile e plausibile ciò che, se si esamina a fondo, è un puro paradosso.

Siccome nel combattere le opinioni di uno scrittore il primo accorgimento deve essere quello di non alterarle con l’attribuirgli ciò che in realtà non ha detto, e considerando per di più che la materia di cui si tratta è molto soggetta ad equivoci, sarà bene riportare integralmente le parole del Sig. Guizot: «Lo stato generale della società tra i barbari è quello che a noi interessa conoscere; ed è precisamente qui la difficoltà, che non è piccola. Comprendiamo senza molta fatica il sistema municipale romano e la Chiesa cristiana; la loro influenza si è perpetuata fino ai giorni nostri; ne troviamo le

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vestigia in molte istituzioni e nelle opere che abbiamo sott’occhio, e questo ci facilita in mille modi nel riconoscerli e spiegarli. Nulla però è rimasto dei costumi e dello stato sociale dei barbari e ci vediamo costretti a indovinare: ora ricorrendo a remotissime testimonianze storiche, ora supplendo alla mancanza di testimonianze con un ardito sforzo d’immaginazione ».

Non negherò che sia ben poco quello che ci è rimasto dei costumi dei barbari, né starò a disputare col Sig. Guizot quanto possa valere un’osservazione che riguarda fatti nei quali sia necessario supplire con sforzi d’immaginazione al molto che di essi ci manca, o ci vediamo obbligati ad entrare nel pericoloso e sdrucciolevole sentiero d’indovinare. Conosco bene queste materie: nelle riflessioni da me fatte sulla questione che stiamo trattando, e nei termini con cui l’ho definita, si capisce bene che io non giudico possibile andare con la riga e col compasso; giudico però che sia possibile prevenire i lettori contro l’illusione che potrebbe procurare una dottrina la quale, se ben si esamini, non è altro, ripeto, che un brillante paradosso.

«Vi è un sentimento, un fatto – continua il Signor Guizot – che è opportuno analizzare e comprendere per descrivere in modo realistico un barbaro: questo sentimento è il piacere dell’indipendenza individuale, il piacere di slanciarsi con forza e libertà nelle vicende del mondo e della vita; il godimento di un’attività che non sia lavoro, l’inclinazione per una vita di avventure, priva di regole, colma di pericoli e senza prospettive. Questo era il sentimento dominante dello stato selvaggio, la necessità morale che metteva in perpetuo movimento quelle masse di uomini. Vivendo noi in mezzo ad una società così regolare ed uniforme ci riesce oltremodo difficile farci un’idea di questo sentimento con tutto l’impeto e la violenza che esercitava sui barbari nel quarto e quinto secolo. Conosco una sola opera in cui si trova perfettamente descritto questo carattere della barbarie: la storia della conquista d’Inghilterra da parte dei normanni, del Sig. Thierry, è il solo libro in cui si vedono riprodotti con una esattezza ed una naturalezza veramente straordinarie i motivi, le inclinazioni, gl’impulsi che muovevano e agitavano gli uomini in uno stato sociale prossimo alla barbarie. In nessun’altra parte ho compreso meglio, ho meglio sentito cos’è un barbaro e com’è la vita di un barbaro. Qualche cosa di simile si trova nelle novelle di Cooper sui selvaggi di America, quantunque a mio giudizio in un grado molto inferiore e in un modo meno semplice e meno vero. Nella vita dei selvaggi americani, nelle relazioni che li uniscono, nei sentimenti che nutrono in mezzo ai loro boschi, si nota qualche riflesso, qualche analogia che fino a un certo punto ricorda la vita e i costumi dei primitivi Germani. Queste descrizioni sono certamente un poco idealistiche, hanno qualcosa di poetico; la parte ripugnante dei costumi e della

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vita dei barbari non è qui presentata in tutta la sua crudezza; e non parlo solamente dei mali arrecati da questi costumi allo stato sociale, ma dello stato interiore e individuale dello stesso barbaro. In questa imperiosa necessità d’indipendenza personale vi era qualcosa di più materiale e di più grossolano di quanto si coglie e potrebbe dedursi dall’opera del Sig. Thierry. Nei barbari del Nord dominava un certo grado di brutalità, di ubriachezza, di apatia che non sempre si vedono fedelmente rappresentate in quelle narrazioni. Ciò nonostante, penetrando sempre più dentro le cose, ad onta di questa confusa mescolanza di brutalità, di materialismo e di stupido egoismo, si riconosce che quella passione per l’indipendenza individuale è un sentimento nobile la cui forza deriva tutta dalla parte più elevata, dalla natura morale dello stesso uomo: è il piacere di sentirsi uomo, il sentimento della personalità e della spontaneità umana nel suo libero sviluppo.

«La civiltà moderna è debitrice dei barbari germani per questo sentimento che era del tutto ignoto ai Romani, alla Chiesa e a quasi tutte le antiche civiltà. Quando in queste si nota una certa forma di libertà, si tratta della libertà politica, la libertà del cittadino. Questa era la libertà che muoveva l’uomo, che lo riempiva di entusiasmo, non già la libertà personale. Apparteneva alla società, si dava tutto alla società, e per la società era pronto a fare qualunque sacrificio. Lo stesso accadeva nella Chiesa cristiana: regnava tra i fedeli un vivo sentimento di affetto e un’unione affettiva alla comunità cristiana, un’ossequiosa venerazione e devozione alle sue leggi, un forte desiderio di estenderne il dominio. Altre volte il sentimento religioso portava l’uomo a reagire a se stesso e alla sua anima, a condurre una lotta interiore per soggiogare il libero arbitrio e sottometterlo all’ispirazione della fede. Ma il sentimento d’indipendenza personale, questa fame di libertà che si sviluppa senza altro fine o scopo che quello di soddisfare se stesso, non era conosciuto dai Romani, né dalla società cristiana. I barbari lo portarono con sè e lo depositarono nella culla della civiltà europea. Esso fu qualcosa di così eccellente, vi ha prodotto degli effetti così pregevoli, che è impossibile non ammirarlo come uno dei suoi principali elementi» (Storia della civiltà europea lez. 2).

Il sentimento dell’indipendenza personale attribuito esclusivamente a un popolo; questo sentimento vago, indefinibile, con una mescolanza curiosa di nobile e di brutale, di barbaro e di civile, ha qualche cosa di poetico, molto adatto per sedurre la fantasia; ma siccome lo stesso contrasto con cui si cerca di accrescere l’effetto della descrizione porta in sé qualcosa di straordinario e anche di contraddittorio, alla ragione rigorosa sorge il dubbio di qualche errore nascosto, e con tutta cautela si mette in guardia.

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Se è vero che un tale fenomeno sia esistito, da dove mai poté derivare? Fu forse un effetto del clima? Ma come si può mai concepire che i geli del Nord abbiano accolto ciò che non fu accolto dal calore del Mezzogiorno? Come mai, sviluppandosi con tanta forza nei paesi meridionali d’Europa il sentimento dell’indipendenza politica, non vi si trovava proprio il sentimento dell’indipendenza personale? Non sarà una stranezza, o dirò meglio un assurdità, che i climi si fossero suddivisi tra loro, come avviene per un patrimonio, i sentimenti delle due specie di libertà?

Forse si dirà che questo sentimento derivava dallo stato sociale. Ma in tal caso non c’era bisogno di attribuirlo come carattere distintivo di un popolo; bastava stabilire generalmente che questo sentimento era proprio dei popoli che si trovassero nello stato sociale dei Germani. Oltre a ciò, se questo era un effetto dello stato sociale, come poté diventare un germe e un principio fecondo di civiltà ciò che era proprio della barbarie? Questo sentimento doveva essere distrutto dalla civiltà, non già conservato, né poteva contribuire a svilupparla. E se doveva rimanervi sotto qualche forma, perché non accadde lo stesso nelle altre civiltà, dal momento che non furono per certo i Germani l’unico popolo che sia passato dalla barbarie alla civiltà?

Con questo non si vuole dire che i barbari del Nord non presentassero sotto quest’aspetto qualche particolarità interessante, e nemmeno che non ci sia nella civiltà europea un sentimento di personalità che non si trova nelle altre civiltà; si vuole invece dire che non è tanto da filosofo ricorrere a misteri ed enigmi per spiegare l’individualismo dei Germani, e che non è necessario andare a cercare nella barbarie dei Germani la ragione della superiorità che sotto questo aspetto appartiene alla civiltà europea. Se vogliamo formarci un’idea precisa di questa questione tanto complessa ed importante conviene prima di tutto fissare, per quanto possibile, la vera natura dell’individualità dei barbari. In un opuscolo che diedi alla luce qualche tempo fa, intitolato Osservazioni sociali, politiche ed economiche sui beni del clero, trattai incidentalmente di questa individualità e mi sforzai di chiarire le idee su questo punto. E siccome d’allora in poi non ho cambiato opinione, anzi mi son sempre più rafforzato in quella originaria, trascriverò qui ciò che allora dicevo: «Che cos’era questo sentimento? Era particolare di quei popoli? Era effetto delle influenze del clima e di una situazione sociale? Era forse un sentimento che si trova in tutti i luoghi e tempi, modificato però nelle varie epoche da circostanze particolari? Quale ne era la forza, quale l’inclinazione che aveva in sè per il giusto o l’ingiusto, per il nobile o il degradante, per il vantaggioso o il nocivo? Quali beni recò alla società, o quali mali? E questi ultimi come furono combattuti e da chi, con quali mezzi e con quale esito? Ho messe insieme

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molte domande, ma ciò non comporta maggiori difficoltà come potrebbe sembrare: chiarita un’idea fondamentale, si risolveranno molto facilmente le altre; e resa semplice la teoria, verrà subito in aiuto la storia per confermarla.

«Vi è nel fondo del cuore umano un sentimento forte, vivo, indelebile, che lo spinge a conservarsi, a schivare i mali e a procurarsi il benessere e la felicità. Si chiami pure amor proprio, istinto di conservazione, desiderio di felicità, smania di perfezione, egoismo, individualità: si chiami come si voglia, il sentimento esiste, lo teniamo dentro di noi e non possiamo dubitarne perché ci accompagna in tutti i nostri passi, in tutte le nostre azioni, dal momento in cui apriamo gli occhi alla luce fino a quello in cui scendiamo nella tomba. Questo sentimento, se ben se ne osservi l’origine, la natura e l’oggetto, non è altro che una legge fondamentale per tutti gli esseri viventi e quindi anche per l’uomo: legge che, essendo una garanzia per la conservazione e perfezione degl’individui, contribuisce in modo meraviglioso all’armonia dell’universo. È innegabile che un tale sentimento ci deve portare per via naturale ad aborrire l’oppressione e a provare un disgusto per tutto ciò che tende ad intralciare o restringere l’uso delle nostre facoltà. Il motivo è evidente: tutto questo ci provoca un malessere, e ad un tale stato si oppone la nostra natura; anche il più tenero bambino già non sopporta la fasciatura che gl’impedisce il libero movimento; e infatti si agita, fa degli sforzi e piange.

«Inoltre, se per un motivo o per l’altro l’individuo non è completamente privo della consapevolezza di sé stesso; se, per poco che sia, le sue facoltà intellettuali hanno ricevuto un certo sviluppo, nel fondo dell’anima gli nascerà un altro sentimento (che nulla ha in comune con l’istinto di conservazione che sollecita tutti gli esseri) che appartiene esclusivamente all’intelligenza. Parlo del sentimento di dignità, di valore, di stima di se stesso, di quel fuoco che si accende in cuore fin dalla più tenera infanzia, e che alimentato, dilatato e ravvivato dall’alimento che il tempo gli va fornendo, è capace di quella forza prodigiosa, di quella espansione che ci tiene così inquieti in tutti i periodi della nostra vita, così attivi e agitati. La sottomissione di un uomo a un altro uomo implica qualcosa che ferisce questo sentimento di dignità; perché, anche supponendo che tale sottomissione sia mitigata da tutta la libertà e dolcezza possibile, da tutti i riguardi per la persona sottomessa, ciononostante comporta per la persona almeno una certa debolezza, o necessità, che la obbliga a lasciarsi limitare alquanto il libero uso delle sue facoltà: ed ecco un’altra origine del sentimento d’indipendenza personale.

«Da quanto ho esposto fin qui ne consegue che l’uomo ha sempre vivo l’amore per l’indipendenza, che questo sentimento è comune a tutti i tempi e paesi, e che non può essere altrimenti perché ne abbiamo trovata la radice in

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due sentimenti così naturali all’uomo: il desiderio di star bene, e il sentimento della propria dignità.

«È evidente che nell’infinità di condizioni fisicamente e moralmente diverse in cui l’individuo può trovarsi, le variazioni di questi sentimenti potranno allo stesso modo risultare infinite. Senza uscire dai limiti assegnati dalla loro stessa natura, questi sentimenti hanno ampi spazi nei quali variare, sia rinforzandosi che indebolendosi, e quindi perché risultino morali o immorali, giusti o ingiusti, nobili o ignobili, vantaggiosi o nocivi; e di conseguenza perché possano trasmettere all’individuo su cui agiscono una notevole diversità d’inclinazioni, di abitudini e dì costumi, conferendo così alla fisionomia dei popoli aspetti molto diversi secondo il modo particolare e caratteristico con cui gl’individui che li costituiscono sono contrassegnati. Chiarite queste nozioni senza aver mai perduto di vista il cuore dell’uomo, resta chiaro anche come procedere per risolvere tutte le domande che si erano presentate riguardo al sentimento d’individualismo. Si è visto anche che non c’è bisogno di ricorrere a parole misteriose e a spiegazioni poetiche, perché non c’è questione che non si possa sottoporre ad una analisi rigorosa.

«Cos’è che regola la forza, determina la natura, fissa il carattere e segna l’inclinazione di tutti questi sentimenti? Sono le idee che l’uomo si forma del suo benessere e della sua dignità, e i mezzi di cui dispone per giungere a quello e conservare questa. In altre parole tutto dipende dallo stato materiale e morale in cui si trovano la società e l’individuo. Ora, supposte invariabili le altre circostanze, date all’uomo la vera idea del suo benessere e della sua dignità così come insegna la ragione, e sopratutto la religione cristiana, e formerete un buon cittadino. Datele equivoche, esagerate, assurde, così come le espongono scuole perverse e quali le propagano i tribuni di tutti i tempi e paesi, e avrete fatta un’abbondante semina di turbolenze e disastri.

«Resta ora da fare un esempio di questa dottrina, affinché limitandoci al tema di cui ci stiamo occupando, possiamo mostrare con la massima chiarezza il punto fondamentale che ci siamo proposti.

«Se fissiamo l’attenzione sui popoli che invasero e rovesciarono l’impero romano, e ci riferiamo alle descrizioni che ce ne fa la storia, alle circostanze stesse in cui si trovavano, e al contributo della moderna scienza con l’osservazione diretta di alcuni popoli d’America, potremo formarci un’idea abbastanza verosimile, riguardo ai barbari, dello stato in cui erano la società e l’individuo al tempo dell’invasione. Considerati nel loro paese natio in mezzo ai monti e ai boschi coperti di neve e di brina, avevano anch’essi i vincoli di famiglia, le relazioni di parentela, la religione, le tradizioni, gli abiti, i costumi, l’attaccamento al suolo natio, la dedizione per l’indipendenza della patria,

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l’entusiasmo per le gesta degli antenati, il desiderio di gloria da acquistare nelle battaglie, l’ambizione di perpetuare nei figli una razza robusta, valorosa e libera, le distinzioni tra famiglie, le divisioni in tribù, i sacerdoti, i capi, il governo. Senza entrare ora in questioni sulle loro forme di governo, e tralasciando ciò che si potrebbe dire sulla loro monarchia, sulle assemblee pubbliche e altri simili punti (questioni tutte che oltre ad essere estranee al nostro scopo portano sempre con sé molto d’immaginario e d’ipotetico), mi limiterò ad osservare un aspetto indiscutibile per chiunque, e cioè che presso di loro l’ordine della società era quale poteva essere derivando da idee rozze e superstiziose, usanze grossolane e costumi feroci: cioè che il loro stato sociale non si elevava al di sopra di quel livello al quale li avevano portati le impellenti necessità; come per esempio quella che i loro boschi non diventassero del tutto impraticabili, o che dovendo scendere in combattimento, le loro schiere non si trovassero nella confusione e senza un capo o una guida.

«Nati quei popoli in climi inclementi e rigidi, intralciandosi e scontrandosi tra di loro a causa del continuo accrescersi delle popolazioni che comportava anche la scarsità dei mezzi di sussistenza; e avendo sotto gli occhi l’abbondanza e le comodità delle spaziose e civili contrade dalle quali erano attratti, si sentivano sollecitati dalla necessità e nello tempo stesso fortemente stimolati dalla vicinanza della preda. E siccome non vedevano altro ostacolo che le deboli legioni di una civiltà infiacchita e decadente mentre loro si sentivano forti nel fisico e ardimentosi e vivaci di spirito, incoraggiati anche dal loro stesso numero lasciavano il paese natio con lo spirito pieno d’audacia e decisi a qualunque impresa, piombando con impeto sull’impero come un torrente che da un’alta rupe precipiti sulle vicine pianure inondandole.

«Per quanto rozzo fosse il loro stato sociale e grossolani i vincoli che lo sostenevano, tuttavia nel loro paese natio e per i loro primitivi costumi andavano bene così. E se fossero rimasti nei loro boschi sarebbero andati avanti ancora con quella forma di governo che era conveniente al loro modo di vivere essendo stata prodotta dalla stessa necessità adattata alle circostanze, radicata con le abitudini, sanzionata dagli anni e unita ad ogni genere di tradizioni e memorie.

«Ma questi vincoli sociali erano troppo deboli perché potessero essere portati in un’altra realtà senza che si spezzassero. Quelle forme di governo, come abbiamo appena visto, erano adatte allo stato barbaro, ed erano quindi tanto circoscritte e limitate che non si potevano adattare convenientemente alla nuova situazione in cui quei popoli si trovarono quasi all’improvviso.

«Immaginate ora i valorosi figli delle selve scagliarsi sul Mezzogiorno come un leone sulla preda, preceduti dai loro capi feroci e seguiti dallo sciame

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delle loro donne e dei loro figli, portandosi dietro i loro armenti e le rozze masserizie, facendo a pezzi numerose legioni, superando trincee, attraversando fossi, scalando bastioni e muraglie, devastando campagne, distruggendo selve, incendiando popolose città, trascinandosi appresso numerose torme di schiavi raccolti nel loro passaggio, rovesciando ogni ostacolo e spingendo avanti numerose bande di fuggitivi che corrono paurosi e tremanti per sfuggire al ferro e al fuoco. Ed ora immaginateli in un momento successivo, insuperbiti per la vittoria, orgogliosi per tanto bottino, inferociti per tanti combattimenti, incendi, saccheggi e stragi, trasportati come per incanto in un nuovo clima, sotto un altro cielo, nuotando nell’abbondanza, nei piaceri e in nuovi godimenti di ogni genere. Immaginateli ancora in una confusa mescolanza d’idolatria e di Cristianesimo, di menzogne e di verità, i loro principali capi morti in combattimento, confuse e in disordine le famiglie, mischiate le razze, alterati e perduti le antiche abitudini e i costumi, e infine dispersi in paesi immensi, in mezzo ad altri popoli di lingue diverse, di idee, usi e costumi diversi. Immaginate, se vi riesce, un tale disordine, una simile confusione, un simile caos e ditemi se in questo modo non vedete rotti e fatti in mille pezzi tutti i vincoli che formavano la società di questi popoli, e se non vedete scomparire di colpo la società civile con la società barbara, ed annientarsi tutto l’ordine antico prima che lo si potesse sostituire con qualcosa di nuovo.

«Fissate ora lo sguardo sul rozzo figlio del Nord, il quale sente allentarsi tutti in una volta i vincoli che l’univano alla sua società; che, spezzate tutte le catene che tenevano a freno la sua violenza, si vede solo, isolato, in uno stato così nuovo, così singolare e straordinario, conservando un oscuro ricordo del suo paese senza essersi tuttavia affezionato a quello che ha appena conquistato, senza rispetto per alcuna legge, senza timore per gli uomini e senza attaccamento ad alcuna usanza. Non lo vedete allora spinto da un’impetuosa ferocia lanciarsi senz’alcun freno ovunque lo portino l’abitudine di violenza, di saccheggio e di stragi? Fidando sempre nella forza del braccio e nell’agilità del piede, guidato dalle ispirazioni di un cuore pieno di esuberanza e di ardore e da una fantasia esaltata alla vista di tanti paesi così nuovi e diversi, dalle vicende di tanti viaggi e combattimenti, non lo vedete accingersi temerario a tutte le imprese, rigettare qualunque dipendenza, scuotere ogni freno e deliziarsi nei pericoli di nuove lotte e avventure? Non trovate qui la misteriosa individualità, il sentimento di indipendenza personale con tutta la sua realtà filosofica e con tutta la sua verità storica?

«Questa individualità brutale, questo feroce sentimento d’indipendenza che non poteva conciliarsi né col benessere né con la vera dignità dell’individuo e che aveva in sè un perenne principio di bellicosità e di vita

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errabonda, doveva necessariamente portare alla degradazione dell’uomo e alla completa dissoluzione della società. Questi sentimenti erano tanto lontani dal contenere un germe di civiltà che, viceversa, erano piuttosto i più appropriati a condurre l’Europa allo stato selvaggio, soffocando sul nascere ogni società, mandando a vuoto tutti i tentativi diretti a riordinarla, e cancellando completamente qualunque residuo potesse esser rimasto dell’antica civiltà».

Le riflessioni che ho esposto saranno più o meno fondate, più o meno felici, ma almeno non sono soggette ad un’inesplicabile incoerenza, per non dire contraddizione, di unire insieme la barbarie e la brutalità con la civiltà e la cultura; almeno non viene chiamato principio eccellente e fecondo nella civiltà europea quello stesso che un poco più in là viene indicato come uno dei più forti ostacoli che si opponevano ai tentativi di ordine sociale. Siccome il Sig. Guizot, mettendo in rilievo l’incoerenza della sua dottrina, concorda su questo punto con l’opinione da me manifestata, il lettore non si dispiacerà di sentire cosa egli stesso dice: «È chiaro che se gli uomini mancano d’idee che si estendono più in là della propria esistenza, se l’orizzonte intellettuale non arriva più in là dell’individualismo, se si lasciano trascinare dalla forza delle passioni e dell’interesse, se non posseggono una certa quantità di nozioni e di sentimenti comuni che servano come di vincolo tra tutte le membra della società; è chiaro, dicevo, che sarà impossibile che sorga tra loro qualche principio di società, ed è chiaro che ogni individuo sarà nella società di cui fa parte un principio di scompiglio e di disfacimento.

«Ovunque dòmini quasi esclusivamente l’individualità, ovunque l’uomo non consideri che se stesso, ovunque le sue idee non vadano più in là della sua persona e non obbedisca che alle sue passioni, la società (parlo di una società stabile e di una certa estensione) sarà poco meno che impossibile. Tale era al tempo di cui parliamo lo stato morale dei conquistatori dell’Europa. Feci già osservare nel nostro ultimo incontro che siamo debitori ai Germani del forte sentimento della libertà personale e della individualità umana. Ora, quando l’uomo si trova in uno stato di estrema barbarie ed ignoranza, allora questo sentimento è l’egoismo con tutta la sua brutalità antisociale, e in tale stato si trovavano i Germani dal quinto all’ottavo secolo. Non essendo assuefatti ad altro che ad aver cura del proprio interesse, a soddisfare le proprie passioni e ad imporre la propria volontà, come avrebbero potuto ritrovarsi in uno stato che presentasse un certo ordine! Si tentò più volte di farceli entrare, l’avevano tentato essi stessi: ma ne uscivano subito per un atto d’imprudenza, per uno sfogo di passione, per un capriccio della loro testa. Sembrava ogni volta che la società stesse per formarsi, ed ogni volta la si vedeva dissolversi per colpa dell’uomo e per la mancanza dei princìpi morali di cui essa ha bisogno per la

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propria esistenza. «Tali erano, o Signori, le due cause che mantenevano lo stato di barbarie.

Fino a tanto che sono durate, è durata pure la barbarie» (Storia generale della civiltà in Europa. Lez. 3).

Al Sig. Guizot col suo individualismo è accaduto ciò che suole accadere ai grandi talenti. Un fenomeno singolare fa loro una viva impressione, ispira un ardente desiderio di rintracciarne la causa, inciampano di frequente e cadono in errore trascinati da una inclinazione segreta ad attribuire un’origine nuova, inaspettata e sorprendente. Vi era tuttavia un altro motivo per farlo sviare. Con la sua vista penetrante ed ampia, nel confronto che fece tra la civiltà europea e le più famose civiltà antiche, scoprì una differenza molto rilevante tra l’individuo della prima e quello delle altre. Vide e sentì nell’uomo europeo un che di più nobile e di più indipendente che non nel Greco e nel Romano; bisognava allora stabilire l’origine di tale differenza, e il compito era alquanto difficile per la situazione in cui il filosofo storico si trovava. Nel dare un’occhiata ai vari elementi della civiltà europea, gli si era già presentata la Chiesa come uno dei più potenti e dei più influenti nell’ordine sociale e nell’impulso che diede al mondo per giungere a grandi e propizi progressi per l’avvenire. Già l’aveva riconosciuto espressamente egli stesso, rendendo omaggio alla verità con quelle magnifiche espressioni che sa stilare la sua eloquente penna. E ora vorreste che per spiegare il fenomeno che ne richiamava l’attenzione ricorresse ancora al Cristianesimo ed alla Chiesa? Questo sarebbe stato come lasciarla sola nella grande opera della civiltà, e il Sig. Guizot voleva ad ogni costo darle dei collaboratori, e per questo motivo fissa gli occhi sulle orde barbare; e nella fronte cupa, nella fisionomia feroce, nello sguardo inquieto e lampeggiante del figlio dei boschi pretende di scoprire il tipo, alquanto rozzo sì, ma non meno vero, della nobile indipendenza, dell’elevazione e dignità, che l’europeo porta impresse in fronte.

Chiarita così la natura del misterioso individualismo dei Germani, e dimostrato altresì che lungi dall’essere un elemento di civiltà lo era piuttosto di disordine e di barbarie, rimane adesso da esaminare qual è la differenza che passa tra la civiltà europea e le altre riguardo al sentimento di dignità e d’indipendenza che anima l’individuo; come possiamo determinare con precisione il modo in cui è andato modificandosi in Europa un sentimento che, come abbiamo già visto, considerato in se stesso è comune a tutti gli uomini.

In primo luogo non c’è alcun fondamento in ciò che afferma il Sig. Guizot, che cioè il sentimento d’indipendenza personale, quella brama di libertà che agita i cuori senza altro fine e senza altro oggetto che quello della propria soddisfazione, fosse caratteristico dei barbari, e fosse ignoto ai

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Romani. È chiaro che nel fare un simile paragone non si può intendere che quel sentimento corrisponda allo stato di prepotenza e di ferocia; perché sarebbe lo stesso che dire che i popoli civili non possono avere il carattere distintivo della barbarie. Ma se escludiamo questa interpretazione il sentimento d’indipendenza personale si trovava vivissimo non solo fra i Romani, ma anche tra i popoli più famosi dell’antichità.

«Quando nelle civiltà antiche – dice il Sig. Guizot – c’è qualcosa della libertà, si deve intendere la libertà politica, la libertà del cittadino; questa era quella che lo muoveva e lo riempiva di entusiasmo, non già la libertà personale; faceva parte di una società, e per una società era pronto a sacrificarsi». Senza voler qui negare, perché non è il caso, che vi fosse questo spirito di consacrarsi ad una società, e con alcune particolarità degne di nota che intendo descrivere più in là, si può ciò nonostante affermare che il desiderio della libertà personale col solo fine ed oggetto della propria soddisfazione era forse tra loro più vivo che tra noi oggi. Infatti, cosa cercavano i Fenici, i Greci delle isole e quelli dell’Asia, e i Cartaginesi quando intraprendevano le loro navigazioni, che nei tempi antichi erano più ardite e pericolose di quelle dei nostri più intrepidi navigatovi? Era forse per sacrificarsi ad una società, quando invece bramavano solamente di scoprire nuove terre onde potere accumulare argento e oro e cose preziose di ogni genere? Non erano forse guidati dal desiderio di acquistare e di compiacere a se stessi? Dov’è la società: forse dove vien fatta la scoperta? Vediamo forse qualcos’altro al di fuori dell’individuo, con le sue passioni, i suoi gusti e il desiderio di soddisfarli? E i Greci, quei Greci tanto molli e voluttuosi e così avidi di piaceri, non avevano essi vivissimo il sentimento della libertà personale, di poter vivere con ampia libertà col solo fine ed oggetto di soddisfare se stessi? Quando i loro poeti cantavano il nettare e gli amori, quando libere cortigiane ricevevano gli omaggi degli uomini più famosi e facevano dimenticare ai saggi il contegno e la gravità del filosofo, e quando il popolo celebrava le feste in mezzo alla più disgustosa dissolutezza, tutto questo era forse un sacrificio che si faceva sugli altari della società? E neanche qui c’era l’individualità e il desiderio di soddisfare se stessi?

Per quanto riguarda i Romani, se dovessimo parlare di quelli che vengono chiamati i bei tempi della repubblica forse non sarebbe tanto facile portare delle prove su ciò che stiamo dimostrando; ma qui si sta parlando precisamente dei Romani dell’impero, dei Romani che vivevano nell’epoca dell’invasione dei barbari, di quei Romani tanto avidi di soddisfare se stessi, e divorati da quella febbre di cui la storia ci conserva così fosche descrizioni. I loro superbi palazzi, le magnifiche ville, i bagni deliziosi, le splendide sale, le

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sontuose mense, le vesti di lusso, il voluttuoso sperpero, non mostrano per caso l’individuo che senza pensare alla società di cui fa parte, si preoccupa solamente di compiacere le proprie passioni e soddisfare i propri capricci vivendo tra i più grandi agi, magnificenze e splendori possibili; che non s’interessa di nulla fuorché di sollazzarsi con gli amici, vagare dolcemente tra i piaceri, soddisfare tutte le brame, saziare tutte le passioni; che infine tutto dimentica, e non pensa ad altro che al proprio cuore che arde del più vivo desiderio di godere e di soddisfare se stesso?

Non è facile indovinare neppure perché il Sig. Guizot attribuisca esclusivamente ai barbari il piacere di sentirsi uomo, il sentimento della personalità e della spontaneità umana nel suo libero sviluppo. Dovremo dunque credere che fossero privi di questi sentimenti i vincitori di Maratona e di Platea, popoli che hanno reso immortali i loro nomi con tante testimonianze che ci hanno lasciato in eredità? Quando nelle belle arti, nelle scienze, nell’oratoria e nella poesia brillavano ovunque fulgidi esempi di genio, non esisteva forse il piacere di sentirsi uomo, non si aveva forse il sentimento e la forza del libero sviluppo di tutte le facoltà? E in una società, come quella romana, dove con tanta passione si cercava la gloria, una società che può presentarci uomini come Cicerone e Virgilio, dove si poterono scrivere le forti pennellate di Tacito, quelle pennellate che dopo diciannove secoli fanno fremere ancora i cuori generosi: in questa società non c’era forse il piacere di sentirsi uomo, l’orgoglio di conoscere la propria dignità, il sentimento della spontaneità umana nel suo libero sviluppo? Come si può pensare che in queste cose i barbari del Nord fossero superiori ai Greci ed ai Romani?

A che pro questi paradossi? Perché tale sconvolgimento e confusione d’idee? A che servono le parole, per quanto brillanti, quando sono prive di senso? Cosa valgono le osservazioni per quanto fini, quando l’intelletto scopre subito l’inesattezza e il disorientamento, e se le esamina a fondo le trova piene di incoerenze e di assurdità? Torna all’indice

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CAPITOLO XXII Il rispetto all’uomo in quanto uomo non era conosciuto dagli antichi. Analogia di questa particolarità degli antichi con un fenomeno delle rivoluzioni moderne: tirannia del potere pubblico sugl’interessi privati. Spiegazione di un doppio fenomeno che ci si presenta nelle società antiche, e nelle moderne non cristiane. Opinioni di Aristotele. Carattere della democrazia moderna.

Se studiamo a fondo la questione che stiamo trattando, e se non ci lasciamo trascinare fino all’errore e alla stravaganza dalla voglia di passare per profondi pensatori ed osservatori molto acuti; se facciamo uso di una filosofia obiettiva ed equilibrata, e fondata sui fatti che ci presenta la storia, vedremo che la principale differenza tra la nostra civiltà e quelle antiche riguardo all’individuo consiste in questo: che l’uomo come uomo in quelle antiche non era stimato ciò che vale. Non che mancasse il sentimento d’indipendenza personale, o il desiderio della propria soddisfazione e dei piaceri, o un certo orgoglio di sentirsi uomo: il difetto non era nel cuore, bensì nella testa.

Ciò che mancava era la vera comprensione della dignità dell’uomo, era l’alto concetto che il Cristianesimo ci ha dato di noi stessi nello stesso tempo in cui una meravigliosa sapienza ci ha manifestato anche le nostre miserie. Quello che mancava alle società antiche, e quello che è mancato e mancherà sempre a tutte quelle nelle quali non regna il Cristianesimo, era quel rispetto, quella stima, con cui fra noi è considerato un individuo, con cui è considerato un uomo, soltanto perché è uomo. Fra i Greci, il Greco è tutto: gli stranieri, i barbari non sono niente. A Roma soltanto il titolo di cittadino romano costituisce l’uomo: chi ne è privo è un nulla. Nei paesi cristiani se una creatura nasce deforme o priva di qualche membro, eccita la compassione ed è l’oggetto della più tenera sollecitudine: per lei basta che sia uomo, e sopratutto uomo sventurato; presso gli antichi una tale creatura era considerata una cosa inutile, spregevole, e in certe città, come per esempio Sparta, era proibito darle da mangiare, e per ordine dei magistrati incaricati alle nascite (fa orrore dirlo!) la si gettava in un fossato. Era anch’essa un uomo: ma che importava? Era un uomo che non poteva servire a nulla, e una società senza compassione non voleva accollarsi l’onere di mantenerlo. Si legga Platone (lib. 5 de republica) e Aristotele ( Polit. lib. 7 cap. 15 e 16), e si conoscerà l’orrenda dottrina che professavano intorno all’aborto e all’infanticidio, e i mezzi crudeli che quei filosofi sapevano ideare per prevenire l’eccessivo aumento della popolazione. Si toccherà allora con mano l’immenso progresso raggiunto dalla società sotto l’influenza del Cristianesimo in tutto ciò che riguarda l’uomo.

I giuochi pubblici, scene orribili in cui morivano a centinaia gli uomini

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per divertire una cricca di snaturati, non sono forse una testimonianza eloquente del scarsa importanza che si dava all’uomo, se lo si sacrificava in modo tanto barbaro per così frivoli motivi?

Il diritto del più forte veniva esercitato dagli antichi in modo spietato, e questo è uno dei motivi che hanno portato all’annullamento, per così dire, dell’individuo nei confronti della società. La società era forte, l’individuo debole; e così la società assimilava l’individuo e si arrogava ogni diritto possibile e immaginabile su di lui; e se questi talvolta le causava imbarazzo, poteva essere ben certo di venirne schiacciato con una mano di ferro. Nel leggere la spiegazione che dà il Sig. Guizot di questa particolarità delle civiltà antiche, sembrerebbe che in esse vi fosse un patriottismo non conosciuto da noi, patriottismo che, portato fino all’esagerazione e non accompagnato dal sentimento d’indipendenza personale, produceva quella specie di assimilazione dell’individuo, quel suo annientamento davanti alla società. Se avesse esaminato la questione con maggiore cautela, il Sig. Guizot avrebbe capito facilmente che la differenza non consiste nel fatto che gli uni avevano dei sentimenti di cui erano privi gli altri; consiste invece nella grande rivoluzione avvenuta nel mondo delle idee, per cui l’individuo, l’uomo, ora è stimato molto, mentre allora non era tenuto in alcuna considerazione. Quindi non è difficile dedurre che le differenze che si osservavano nei diversi modi di sentirsi individuo dovevano avere la loro origine dalla diversità delle idee.

Infatti l’individuo, vedendo quanto poco fosse apprezzato per se stesso, vedendo il potere illimitato che la società si arrogava su di lui, e che se costituiva un intralcio veniva annientato, non è strano che si formasse della società e del potere pubblico un’idea esagerata, e che in cuor suo si umiliasse davanti a quel colosso che tanto l’intimoriva. Lungi dal considerarsi membro di una società che aveva per scopo la sicurezza e la felicità di tutti gl’individui e che per ottenerle era indispensabile che l’individuo si rassegnasse a fare qualche sacrificio, egli si considerava cosa consacrata alla società medesima e olocausto da offrire sui suoi altari senza riguardo al ceto cui apparteneva. Questa è la condizione dell’uomo: quando un potere agisce su di lui per molto tempo in modo illimitato, o s’indigna contro di esso e lo respinge con violenza, oppure si umilia, si perde d’animo e si annienta davanti a quel potere il cui dispotico agire lo piega e lo abbatte. Si osservi se non è questo il contrasto che le antiche società ci mostrano continuamente: la più cieca sottomissione e l’annullamento da una parte, e dall’altra lo spirito d’insubordinazione e di opposizione che si manifesta con terribili esplosioni. Soltanto così si può comprendere come alcune società, nelle quali l’agitazione e i tumulti erano, per così dire, lo stato naturale, ci presentano esempi tanto sublimi come quello di

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Leonida che con i suoi trecento Spartani si reca al passo delle Termopili, di Muzio Scevola con la mano nel braciere, di Attilio Regolo che ritorna a Cartagine per essere torturato e morire, e di Marco Curzio che si getta armato nella voragine che si era aperta nel Foro a Roma.

Tutto questo che a prima vista potrebbe sembrare incomprensibile si chiarisce del tutto se lo si paragona a quanto è accaduto nelle rivoluzioni dei tempi moderni. Terribili disordini hanno sconvolto alcune nazioni sin dalle fondamenta; la lotta delle idee e degli interessi, trascinandosi dietro il fuoco delle passioni, hanno fatto dimenticare per alcuni periodi più o meno lunghi le normali relazioni sociali. Cosa accadde? Che mentre si proclamava una libertà senza limiti e si studiavano senza sosta i diritti dell’individuo, nella società veniva elevato un potere terribile che, concentrando nella sua mano tutta la forza pubblica, la dirigeva sull’individuo nel modo più disumano. In quei tempi veniva riesumato il formidabile principio della salus popoli degli antichi, pretesto di tanti ed orrendi delitti; e dall’altra parte si vedeva rinascere quel patriottismo frenetico e feroce che gli sconsiderati ammirano nei cittadini delle antiche repubbliche.

Alcuni scrittori avevano fatto smisurati elogi agli antichi, e soprattutto ai Romani; sembrava che si desiderasse ardentemente che la civiltà moderna si modellasse sull’antica. Si fecero folli tentativi, si attaccò con violenza inaudita l’ordine sociale esistente, si fece ogni sforzo per distruggere o almeno soffocare le idee cristiane sull’individuo e sulla società e si chiesero ispirazioni agli spiriti degli antichi Romani. Nel brevissimo spazio di tempo in cui durò la prova si videro (come già s’erano viste nell’antica Roma) mirabili gesta di fortezza, di valore, di patriottismo fare orribile contrasto con indicibili crudeltà ed orrendi delitti; e si videro di nuovo apparire in una nazione grande e generosa, con sgomento dell’umanità, gl’insanguinati spettri di Mario e Silla. Com’è vero che l’uomo è sempre lo stesso, ovunque, e che lo stesso genere di idee finisce sempre per generare lo stesso genere di fenomeni! Spariscano le idee cristiane, recuperino la loro forza le antiche, e vedrete che il mondo nuovo somiglierà al vecchio.

Fortunatamente per l’umanità questo non è possibile; tutte le prove fatte finora per ottenere il funesto intento sono state di poca durata, com’era logico che fosse, e lo stesso succederà in avvenire. Ma le pagine insanguinate che tanti tentativi malvagi lasciano nella storia dell’umanità presentano all’analisi del filosofo un ricco patrimonio di riflessioni per conoscere a fondo le relazioni intime e sottili delle idee con i fatti, per contemplare nella sua nudità la vasta trama dell’ordine sociale e apprezzare secondo il giusto valore l’influenza benefica o nociva delle varie religioni e dei sistemi filosofici.

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I periodi rivoluzionari, quei periodi tempestosi in cui i governi si distruggono gli uni gli altri come edifici costruiti su di un terreno vulcanico, portano tutti il carattere distintivo del predominio degli interessi del pubblico potere su tutti gl’interessi privati. È sempre più debole questo potere, è sempre più precario; ma è anche sempre più violento e più frenetico. Sacrifica tutto alla propria sicurezza o alla propria vendetta; l’ombra stessa dei suoi nemici lo perseguita e lo fa tremare ad ogni momento; la coscienza lo tormenta e non gli lascia riposo; la debolezza della sua struttura e l’instabilità del suo stato lo avvertono continuamente che il crollo è vicino, e nella sua impotente disperazione si agita e si ravvolge convulsamente come un moribondo che spira tra atroci patimenti. E che sarà mai allora ai suoi occhi la vita dei cittadini, se questa vita può ispirargli il più leggero o il più lontano sospetto? Se col sangue di migliaia di vittime può acquistare alcuni momenti di sicurezza, se può prolungare di qualche giorno la sua esistenza: «muoiano – egli dice – muoiano i miei nemici, che così vuole la sicurezza dello stato, cioè la mia».

E da dove deriva tanta frenesia, tanta crudeltà? L’origine è questa: avendo rovesciato con la forza l’antico governo, e messo al suo posto un altro che mantiene il potere col solo appoggio della forza, è venuta meno l’idea del diritto, la legittimità non serve più da scudo, e questa stessa novità gli dice che vale poco e gli preannuncia una breve durata. Venendo meno la ragione e la giustizia, e vedendosi tuttavia costretto ad invocarle per sostenersi, le cerca nella necessità medesima di un potere, nella necessità sociale che è sempre indiscutibile; proclama che la salute del popolo è la legge suprema, e di conseguenza la proprietà e la vita dell’individuo sono niente. Proprietà e vita dell’individuo che si dileguano del tutto alla vista di uno spettro insanguinato che sorge dal grembo della società, e che armato della sua forza e circondato da sbirri e da patiboli dice: «io sono il pubblico potere; a me è stata affidata la salute del popolo; io sono quello che vigila per gl’interessi della società».

E sapete che accade allora con questa assoluta mancanza di rispetto per l’individuo, con questo totale annullamento dell’uomo davanti allo straordinario potere che pretende di essere il rappresentante della società? Succede che il sentimento di società rinasce, ma in senso diverso: non più un sentimento diretto dalla ragione per motivi benefici e con determinate finalità, ma un sentimento cieco ed istintivo che spinge gli uomini a non rimanere soli e senza difesa in mezzo ad un campo di battaglia pieno d’insidie in cui si è mutata la società. Questo sentimento li porta ad unirsi o per sostenere il potere se, trascinati dal turbine della rivoluzione, s’identificano con essa e la ritengono l’unico riparo e difesa contro i nemici da cui sono minacciati; oppure

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per rovesciarlo se, capitati per un motivo o per l’altro nelle schiere opposte, lo considerano il loro mortale nemico perché sentono la forza di cui dispone come una spada sempre pendente sulle loro teste. Allora si verifica che gli uomini fanno parte di una società, che ad essa si sono consacrati e per essa sono pronti a compiere qualunque sacrificio. Perché non possono vivere soli, perché sanno, o sentono almeno per istinto, che l’individuo è niente, perché rotti tutti gli argini che mantenevano l’ordine sociale, l’individuo è stato privato di quel rifugio tranquillo dove poteva vivere in pace, indipendente e sicuro. Perché non c’è più quel potere fondato sulla legittimità e guidato dalla ragione e dalla giustizia che vigilava sul mantenimento dell’ordine pubblico e sul rispetto dei diritti dell’individuo. Allora i timorosi tremano, si umiliano e incominciano a rappresentare la prima scena della schiavitù in cui l’oppresso bacia la mano dell’oppressore e la vittima onora il carnefice. I più coraggiosi invece resistono o combattono, oppure si cercano e si radunano nelle tenebre per preparare una terribile rivolta. Nessuno appartiene più a se stesso e l’individuo si sente assimilato da una parte o dall’altra: o dalla forza che opprime, o da quella che congiura. Perché solamente la giustizia è il nume tutelare degli individui, e quando questa viene meno essi non sono più che impercettibili granelli di sabbia trasportati dal vento o gocce d’acqua confuse tra le onde di una tempesta.

Immaginate ora una società dove non regni questa frenesia (che non può mai esser di lunga durata), ma che tuttavia non possegga le vere idee sui diritti e doveri, sia dell’individuo che del pubblico potere. Società dove si trovino fortuitamente alcune vaghe nozioni su questi punti essenziali, ma incerte, oscure, imperfette, quasi soffocate in una atmosfera di mille pregiudizi ed errori; dove sotto quest’influenza si sia costituito un potere pubblico con questa o quella forma che finalmente sia arrivata a consolidarsi grazie all’abitudine o per mancanza di altra forma migliore che soddisfi le necessità più urgenti. Avrete allora concepito le società antiche, cioè le società senza il Cristianesimo; e allora comprenderete anche l’annientamento dell’individuo davanti alla forza del potere pubblico, sia sotto il dispotismo asiatico, sia sotto la turbolenta democrazia delle antiche repubbliche. Avrete potuto osservare la stessa cosa nelle società moderne nei periodi delle rivoluzioni: con la differenza che in queste il male è passeggero e fragoroso come le scariche di una tempesta, mentre nelle antiche era uno stato permanente, come un’atmosfera corrotta che fa male e consuma continuamente coloro che in essa vivono.

Se esaminiamo la causa dei due fenomeni così opposti quali l’esaltazione patriottica degli antichi Greci e Romani e la prostrazione ed abbattimento

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politico in cui giacevano altri popoli, e in cui giacciono oggigiorno quelli dove non domina il Cristianesimo; se cerchiamo la radice di quel sacrificio dell’individualità che si rivela nel fondo dei due sentimenti così opposti fra loro; se andiamo a cercare dunque quali sono le cause per cui non si trova né negli uni né negli altri quello sviluppo individuale che si osserva in Europa, dove è accompagnato da un patriottismo ragionevole ma che non soffoca il sentimento di una legittima indipendenza personale, ne troveremo una validissima in questo: che l’uomo non conosceva se stesso, non aveva l’esatta cognizione del suo essere, e che le sue vere relazioni con la società erano viste attraverso mille pregiudizi ed errori, e per conseguenza non erano comprese bene.

Alla luce di queste osservazioni si vede chiaramente che l’ammirazione per il disinteresse patriottico e per l’eroica abnegazione degli antichi è andata forse troppo in là; e che tanto erano lontane queste qualità dal rivelare in essi una maggiore perfezione individuale ed una nobiltà d’animo superiore a quella degli uomini moderni, che potrebbero addirittura indicare idee meno elevate e sentimenti meno indipendenti dei nostri. Forse alcuni ciechi ammiratori degli antichi non riescono a capire come si possano sostenere asserzioni a loro giudizio così stravaganti. In tal caso dirò loro che ammirino allo stesso modo le donne indiane che vanno tranquillamente a gettarsi sul rogo in fiamme dopo la morte dei loro mariti e lo schiavo che si dà la morte perché non può sopravvivere al suo padrone. E allora capiranno che l’abnegazione personale non è sempre un infallibile segno di nobiltà d’animo, ma che può dipendere talvolta dalla scarsa conoscenza della propria dignità, dalla convinzione di essersi consacrato ad un altro essere, di essere stato da quello assimilato, e di guardare alla propria esistenza come ad una cosa secondaria senza alcun interesse che non sia quello di servire ad un altro essere.

Non è nostra intenzione diminuire il merito che spetta legittimamente agli antichi; svilire l’eroismo in ciò che ha di giusto e lodevole; né vogliamo attribuire agli uomini di oggi un’individualità egoista che impedisca loro di sacrificarsi generosamente per la patria: intendiamo solamente mettere ogni cosa al suo posto eliminando i pregiudizi, giustificabili fino ad un certo punto purché non giungano, per nostra disgrazia, a falsificare le principali idee sulla storia antica e moderna.

A questo annientamento dell’individuo nei popoli antichi contribuivano anche la limitatezza e l’imperfezione del suo sviluppo morale e la mancanza di regole nel guidare se stesso; per cui la società s’intrometteva in tutte le sue cose come se la ragione pubblica avesse voluto rimediare al difetto della ragione privata. Se si osserva bene si noterà che anche nei paesi dove era

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maggiormente esaltata la libertà pubblica, era piuttosto sconosciuta la libertà civile, in modo che, mentre i cittadini si lusingavano di essere molto liberi perché potevano prendere parte in piazza alle deliberazioni pubbliche, erano poi privi di quella libertà che maggiormente interessa l’uomo, qual è quella che ora si chiama appunto libertà civile.

Possiamo farci un concetto delle idee e dei costumi degli antichi su questo argomento leggendo Aristotele, uno dei loro più celebri scrittori politici. Si osserva, negli scritti di questo filosofo, che a mala appena egli riusciva a vedere altro motivo che quello di prendere parte al governo della repubblica, perché uno fosse degno del nome di cittadino. E queste idee, che potrebbero sembrare democratiche e molto appropriate per sviluppare i diritti della classe più numerosa, così come potrebbe sembrare che derivassero dall’accentuazione della dignità dell’uomo, si collegavano invece nella sua mente ad un profondo disprezzo dell’uomo stesso, ed all’idea di riservare ad un ristretto numero di persone tutti gli onori e tutta la stima condannando all’avvilimento e alla nullità addirittura tutti i lavoratori, gli artigiani e i mercanti (Pol. lib. 7, capo 9 e 12, lib. 8 capo 1 e 2, lib. 3 capo 1). Già si vede che questo fatto presumeva idee assai curiose sull’individuo e sulla società, e conferma ancor più quanto ho detto sopra intorno all’origine delle stravaganze, per non dire mostruosità, che noi ammiriamo nelle antiche repubbliche. Lo ripeterò perché è molto importante non dimenticarlo: una delle principali radici del male era la mancanza della conoscenza dell’uomo, la poca stima per la sua dignità in quanto uomo, perché l’individuo era molto scarso di regole per guidare se stesso e per procurare a se stesso la stima. In una parola: mancavano le conoscenze cristiane che dovevano chiarire il caos.

Questo sentimento della dignità dell’uomo è impresso tanto profondamente nel cuore della società moderna, questa verità è tenuta ovunque in tale considerazione che l’uomo, solo per il fatto di chiamarsi uomo, è considerato meritevole e degno di alta stima. Perché quelle scuole che si sono dedicate a rialzare l’individuo anche nell’imminente pericolo di uno spaventoso disordine nella società, nei loro insegnamenti hanno sempre per argomento la dignità e nobiltà dell’uomo. Esse, oltretutto, si distinguono da quelle degli antichi democratici, in quanto questi si agitavano in una misera cerchia ristretta non andando mai più in là di un certo ordine di cose e senza estendere il loro sguardo al di fuori dei confini del proprio paese; mentre invece nello spirito dei democratici moderni si osserva una smania d’invadere tutti i campi, uno slancio di divulgazione che abbraccia tutto il mondo. Non trattano mai temi poco importanti, ma temi come: l’uomo, la ragione dell’uomo, i suoi diritti imprescindibili. Chiedete loro cosa vogliono: vi

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risponderanno che vogliono livellare tutti gli uomini per difendere la santa causa dell’umanità. Questa esagerazione nelle idee, motivo e pretesto di tante agitazioni e tanti delitti, ci rivela tuttavia quel fatto prezioso che consiste nell’immenso progresso delle idee riguardo alla dignità della nostra natura, progresso determinato dal Cristianesimo. Ed è certo che quando si tratta di traviare la società, che della sua civiltà è debitrice al Cristianesimo, non si trova mezzo più adeguato che quello d’invocare la dignità della natura umana.

Siccome la religione cristiana è nemica dichiarata di tutto ciò che porta al delitto, e non poteva permettere che con il pretesto di difendere e risollevare la dignità dell’uomo si sconvolgesse la società, molti dei più ardenti democratici si sono scatenati in ingiurie e sarcasmi contro la religione. Ma poiché la storia afferma molto chiaramente che quanto si sa e si sente di vero, di giusto e di ragionevole su questo punto è dovuto tutto alla religione cristiana, si è tentato ultimamente di fare una mostruosa alleanza tra le idee cristiane e ciò che c’è di più stravagante nelle teorie democratiche. Un uomo molto celebre si è incaricato di questo progetto: ma il vero Cristianesimo, vale a dire il Cattolicesimo, rigetta queste mostruose alleanze e non riconosce i suoi stessi più insigni apologeti quando essi deviano dal cammino della verità eterna. L’Abate De Lamennais va ora vagando per le tenebre dell’errore aggrappandosi ad una falsa ombra di Cristianesimo, e il sommo Pastore della Chiesa ha già alzato l’augusta voce per mettere in guardia i fedeli contro le illusioni con cui un nome, illustre per tanti motivi, potrebbe fuorviarli. Torna all’indice

CAPITOLO XXIII Nella Chiesa primitiva i fedeli avevano il sentimento della vera indipendenza. Errore del Sig. Guizot su questo punto. Dignità della coscienza sostenuta dalla società cristiana. Sentimento del dovere. Sublimi parole di S. Cipriano. Sviluppo della vita interiore. Difesa del libero arbitrio da parte della Chiesa cattolica. Importanza di questo dogma per rialzare la dignità dell’uomo.

\Una volta che l’individualità sia stata compresa nel suo giusto senso, e il sentimento dell’indipendenza personale sia stato recepito in un modo che non ripugni alla perfezione dell’individuo e non contrasti con i princìpi costitutivi di ogni società, se vogliamo scoprire altre cause che abbiano influito sullo sviluppo di tale sentimento (lasciando da parte una delle principali già ricordata sopra, cioè la giusta idea dell’uomo e delle relazioni con i suoi simili), ne troveremo parecchie degne di richiamare la nostra attenzione all’interno del

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Cattolicesimo stesso. Il Sig. Guizot si è ingannato completamente quando ha preteso di paragonare i fedeli cristiani agli antichi Romani proprio per la mancanza del sentimento d’indipendenza personale. Egli ci descrive il credente come assimilato dalla società della Chiesa, come interamente consacrato ad essa e pronto a fare per lei qualunque sacrificio, e come se gl’interessi della società fossero quelli che farebbero agire il fedele. Questo è un errore: ma siccome forse questo errore è stato originato da una verità, è il caso di chiarire le cose con la massima diligenza.

Non c’è dubbio che fin dall’origine del Cristianesimo i fedeli furono molto attaccati alla Chiesa, e che ci fu sempre fra loro la comune convinzione che chiunque si separava dalla comunione della Chiesa cessava di essere compreso tra i veri discepoli di Gesù Cristo. È altresì indubbio, che «i fedeli – come dice il sig. Guizot – si mantenevano in stretta unione con la Chiesa, si sottomettevano con grande rispetto alle sue leggi e mostravano un forte impegno ad allargarne i confini». Ma non è vero che, ad esclusione dello sviluppo della vera individualità, la causa fondamentale che muoveva tutti questi sentimenti fosse solo lo spirito di società. Il fedele faceva parte di una società, ma la guardava come un mezzo per acquistare la felicità eterna, come una nave sulla quale egli si era imbarcato e che naviga in mezzo alle tempeste di questo mondo per arrivare salvo al porto dell’eternità; e per quanto credesse impossibile salvarsi fuori della Chiesa, non intendeva di essersi consacrato a lei, ma a Dio. Il Romano era pronto a sacrificarsi per la patria, il fedele per la fede; quando moriva, il Romano moriva per la patria, ma quando il fedele moriva non moriva per la Chiesa, bensì per il suo Dio. Si consultino le testimonianze della storia della Chiesa, si leggano gli atti dei martiri e si capirà ciò che succedeva in quei terribili momenti in cui il Cristiano mostrava ciò che egli era veramente, quando alla vista degli strumenti di tortura, dei roghi e dei più orrendi supplizi si manifestava in tutta la sua evidenza qual era la molla che agiva nel cuore del fedele. Il giudice chiede loro il nome: lo dichiarano, e manifestano che sono Cristiani. Li invita a sacrificare agli déi; rispondono: «Noi non supplichiamo che un solo Dio creatore del cielo e della terra». Il giudice rinfaccia loro che è una cosa ignominiosa seguire un uomo che fu crocifisso, ma essi (che hanno in grande onore l’ignominia della croce), protestano fortemente che quel Crocifisso è il loro Salvatore e il loro Dio. Il giudice li minaccia di torturarli ed essi disprezzano i tormenti perché sono transitori, e si rallegrano di poter soffrire qualcosa per Gesù Cristo. La croce del supplizio è già pronta, o il rogo è acceso sotto i loro occhi, o il carnefice ha già alzata la scure fatale per decapitarli: e che importa, se l’istante dopo viene una nuova vita e una felicità ineffabile e senza fine! Si vede bene che a

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muovere il cuore dei fedeli era l’amore di Dio e il possesso di un’eterna felicità; ed è quindi falso che il fedele fosse simile agli antichi repubblicani che annullavano la propria individualità al cospetto della società di cui facevano parte, e lasciando che essa assimilasse la loro persona come una goccia d’acqua nell’immensità dell’oceano. Il fedele faceva parte di una società che fissava la regola della sua fede e la norma della sua condotta, ed egli l’ammirava come società fondata e diretta dallo stesso Dio, ma con la mente e col cuore si sollevava fino allo stesso Dio; e quando ascoltava la voce della Chiesa credeva anche di fare il proprio interesse individuale, quello, cioè, della sua felicità eterna.

La distinzione che abbiamo fatta era necessaria in questo tema dove le relazioni sono tanto varie e sottili che la minima confusione può farci cadere in errori madornali, e può farci perdere di vista un elemento poco conosciuto e molto prezioso che fa apprezzare nel modo dovuto le cause dello sviluppo e della perfezione dell’individuo nella civiltà cristiana. Benché sia necessario un ordine sociale cui l’individuo vada soggetto, non è però conveniente che questi ne venga assimilato in modo tale che si consideri solamente come parte della società senza che abbia una propria sfera personale inaccessibile alla società. Se così non fosse non si svilupperebbe mai in un modo perfetto la vera civiltà; quella cioè che, perseguendo la perfezione simultanea dell’individuo e della società, non può essere realizzata se tanto la società quanto l’individuo non hanno i loro confini regolati in maniera tale che l’attività che si svolge nell’una non impedisca e non intralci quella dell’altro.

Fatte queste premesse, sulle quali richiamo in modo particolare l’attenzione di tutti gli uomini di pensiero, farò notare una cosa che forse non è stata ancora osservata, e cioè che il Cristianesimo contribuì moltissimo a creare questa sfera individuale in cui l’uomo, senza rompere i vincoli che lo legano alla società, esercita tutte le sue facoltà. Dalla bocca di un apostolo uscirono quelle generose parole che contengono una severa limitazione del potere politico, e proclamano che questo potere non deve essere riconosciuto dall’individuo quando pretende da lui cose contrarie alla sua coscienza: obedire oportet Deo magis quam hominibus («Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» – Atti 5, 29). I Cristiani furono i primi a dare il grandioso esempio di persone d’ogni paese, età, sesso e condizione che affrontavano la collera del potere pubblico e il furore delle passioni popolari senza pronunciare una sola parola contraria ai princìpi che professavano nel santuario della propria coscienza: e questo non già con le armi in pugno, né in sommosse popolari dove potessero risvegliarsi le ardenti passioni che comunicano all’anima un’energia transitoria; ma nella solitudine e nell’oscurità delle carceri, nella

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calma terribile dei tribunali, vale a dire in quelle situazioni in cui l’uomo si trova solo, isolato, e in cui la manifestazione di fortezza e dignità rivela l’azione delle idee, la nobiltà dei sentimenti, la fermezza di una coscienza inalterabile e la grandezza dell’anima.

Fu il Cristianesimo che incise nel cuore dell’uomo il principio che l’individuo ha i suoi doveri da compiere anche quando gli si solleva contro il mondo intero; che l’individuo ha un grande obiettivo da raggiungere, e che per lui questo è un interesse del tutto personale la cui responsabilità pesa tutta sul suo libero arbitrio. Questa importante verità insegnata continuamente dal Cristianesimo ad ogni età, sesso e condizione, ha contribuito fortemente a risvegliare nell’uomo il vivo sentimento della personalità in tutta la sua grandezza e il suo interesse. Questo sentimento unito alle altre ispirazioni del Cristianesimo, tutte pervase di grandezza e di dignità, ha sollevato l’anima umana dalla polvere in cui la tenevano sepolta l’ignoranza, le più grossolane superstizioni e i sistemi di violenza che l’opprimevano da ogni parte. Quanto mai stravaganti e sorprendenti dovevano senza dubbio risuonare all’orecchio dei pagani le energiche parole di Giustino (le quali altro non esprimevano che la disposizione d’animo della generalità dei fedeli) quando nell’apologia diretta ad Antonino Pio diceva: «Siccome non abbiamo riposte le nostre speranze nelle cose presenti, disprezziamo chi ci mette a morte, tanto più che la morte è una cosa che non può essere schivata da nessuno».

Questa fortezza ammirabile, questo eroico disprezzo della morte, questa presenza di spirito nell’uomo che, appoggiato alla testimonianza della sua coscienza, sfida tutte le potenze del mondo, doveva tanto più influire a sublimare lo spirito in quanto non derivava da quella fredda impassibilità stoica, che senza appoggiarsi ad alcun motivo solido si accingeva a lottare contro la natura stessa delle cose; ma traeva invece la sua origine da un sublime distacco da tutte le cose della terra, dalla profonda persuasione della santità del dovere; ed anche dal fatto che l’uomo, senza curarsi degli ostacoli che gli frappone il mondo, deve camminare con passo fermo verso il destino assegnatogli dal Creatore. Quest’insieme di idee e di sentimenti comunicava all’anima una forte e vigorosa tempra, la quale, senza degenerare nella durezza feroce degli antichi, lasciava l’uomo in tutta la sua dignità e in tutta la sua elevatezza e nobiltà. E conviene osservare che questi preziosi effetti non si limitavano a un ristretto numero di persone privilegiate, ma in piena conformità allo spirito della religione cristiana si estendevano a tutte le classi. Giacché la diffusione senza limiti di quanto ha di buono, il non riconoscere alcuna dipendenza da persone, il far sì che la sua voce risuoni fin nei luoghi più remoti della società, è una delle più belle caratteristiche di questa religione divina. Lo

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splendore dell’Africa, S. Cipriano, si rivolgeva non solamente alle classi elevate o ai soli filosofi, ma a tutti i fedeli, quando riassumeva in poche parole tutta la grandezza dell’uomo e delineava con frasi ardite l’alto grado di perfezione in cui deve mantenersi la nostra anima, senza mai allentare la guardia: «Mai ammirerebbe le opere umane chi si riconoscesse figlio di Dio. Precipita dall’alto della sua nobiltà chiunque può ammirare qualcosa che non sia Dio» (De spectaculis). Parole sublimi che fanno alzare la fronte con dignità e battere il cuore con generoso slancio, che diffondendosi su tutte le classi come un calore fecondo, facevano sì che l’ultimo degli uomini potesse dire ciò che prima sembrava riservato esclusivamente all’estro di un vate: O homini sublime dedit, caelunque tueri Jussit, et erectos ad sidera tollere vultus.

Lo sviluppo della vita morale, interiore, di quella vita in cui l’uomo è abituato a concentrarsi in se stesso e a rendersi conto di tutte le azioni nelle minime circostanze, dei motivi che le dirigono, della bontà o malizia che contengono e del fine a cui lo portano, è dovuto principalmente al Cristianesimo e al suo continuo influsso sull’uomo, in ogni condizione, in tutte le situazioni e in tutti i momenti della sua esistenza. Con un tale sviluppo della vita individuale in tutto ciò che c’è di più intimo, di più vivo e importante per il cuore dell’uomo, era incompatibile quell’assimilazione dell’individuo nella società, e quella cieca abnegazione in cui l’uomo dimenticava se stesso per non pensare ad altro che alla società di cui faceva parte. Questa vita morale e interiore era sconosciuta agli antichi perché erano privi dei princìpi su cui fondarla, delle regole per guidarla, delle ispirazioni con cui stimolarla e nutrirla. Così osserviamo che a Roma, appena l’elemento politico cominciò a perdere il dominio che aveva sulle anime e l’entusiasmo venne meno con i contrasti interni, ed ogni sentimento generoso fu spento dall’insopportabile dispotismo che succedette alle ultime agitazioni della repubblica, crebbe rapidamente la corruzione e la più orribile rilassatezza; perché l’attività dell’anima che prima si svolgeva nei dibattimenti del foro e nelle gloriose imprese di guerra, non trovando più sfogo nelle occupazioni precedenti si abbandonò miseramente ai piaceri materiali con una sfrenatezza tale che noi difficilmente riusciamo a farcene un’idea, nonostante la rilassatezza dei costumi di cui anche adesso ci lamentiamo a giusta ragione. Quindi presso gli antichi non vediamo che due estremi: o un patriottismo portato al più alto grado di esaltazione, o una prostrazione assoluta delle facoltà di un’anima che si abbandona senza misura a quanto le suggeriscono le sue passioni disordinate.

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In una parola, l’uomo era sempre schiavo: o delle proprie passioni, o d’un altro uomo, o della società.

A causa dell’affievolirsi della fede causato dall’individualismo intellettuale proclamato dalle dottrine religiose protestanti, e della rottura dei vincoli morali con cui l’unità cattolica manteneva uniti tra loro gli uomini, possiamo osservare nella civiltà europea alcuni esempi di ciò che doveva essere tra gli antichi l’uomo privo delle vere cognizioni su se stesso e sulla sua origine e scopo. Ma riservandomi di accennare più avanti le somiglianze tra la società antica e la moderna in quegli aspetti dove si è indebolito l’influsso delle idee cristiane, mi basta per ora osservare che se l’Europa giungesse a perdere completamente il Cristianesimo, come desiderano alcuni insensati, non passerebbe una generazione senza che l’individuo e la società non tornino ad essere come erano presso gli antichi, salvo le differenze relative alle diverse condizioni materiali dei popoli moderni rispetto agli antichi.

Il libero arbitrio così solennemente proclamato dal Cattolicesimo, e sostenuto con tanto rigore non solo contro l’antica dottrina pagana, ma più ancora contro i settari di tutti i tempi e specialmente contro i fondatori della pretesa riforma, è stato anch’esso una molla potente che ha contribuito più di quello che non si creda allo sviluppo e perfezione dell’individuo, e a rialzarne il sentimento d’indipendenza, la nobiltà e la dignità. Quando l’uomo arriva a considerarsi come trascinato dalla forza irresistibile del destino e soggetto ad una catena di avvenimenti nel corso dei quali egli non può influire; quando arriva ad immaginare che i moti dell’anima, che sembrano dargli una viva testimonianza della sua libertà, non sono altro che una vana illusione; fin da allora l’uomo si annulla, si sente simile agli animali, non è più il principe dei viventi, il dominatore della terra; non è altro che un ingranaggio montato al posto che gli spetta e che suo malgrado deve continuare a svolgere le sue funzioni nella grande macchina dell’universo. In questo caso l’ordine morale non esiste più: il merito e il demerito, la lode e il biasimo, il premio e la pena sono parole senza senso. L’uomo gode o patisce, è vero, ma come l’arbusto che ora è accarezzato dal dolce zefiro, ed ora flagellato dal furioso vento del Nord. Tutto l’opposto quando l’uomo si sente libero: egli è il padrone della propria sorte; ha davanti agli occhi il bene e il male, la vita e la morte; può scegliere, e nulla è capace di fargli violenza nel santuario della coscienza. Qui l’anima ha il suo trono dove siede con dignità, e il mondo intero con tutto il suo strepito, l’universo con tutta la sua mole piombando sul fragile corpo non possono forzarla a volere o non volere. L’ordine morale in tutta la sua grandezza e bellezza ci si presenta allo sguardo, il bene ci si svela con tutto il suo fascino e il male con tutta la sua sconcezza; il desiderio di meritare ci sprona, quello di

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demeritare ci trattiene; e il pensiero della ricompensa che possiamo conquistare con tutta la libera volontà e che è come sospesa alla fine del sentiero della virtù, ci rende questo sentiero più grato e giocondo e trasmette all’anima tutta l’attività e l’energia. Se l’uomo è libero conserva un non so che di più grandioso e terribile, anche in mezzo al delitto, anche in mezzo al castigo, anche in mezzo alla disperazione dell’inferno. E che cosa mai è un uomo che sia privo di libertà, e che tuttavia viene castigato? Che significa un tale assurdo che pure è il dogma capitale dei fondatori del Protestantesimo? Egli è una vittima miserabile e debole nei tormenti di cui si compiace un’onnipotenza crudele, un Dio che ha voluto crearla per vederla soffrire, un tiranno dotato di un potere infinito, vale a dire il più orribile dei mostri. Ma se l’uomo è libero quando soffre, soffre perché lo ha meritato; e se lo vediamo nella disperazione, immerso in un mare di orrori, egli porta in fronte il segno del castigo con cui giustamente lo ha colpito l’Eterno; e ci sembra di udirlo tuttavia con un gesto altero e uno sguardo superbo pronunciare quelle terribili parole: non serviam, non servirò.

Tanto nell’uomo che nell’universo tutto è meravigliosamente collegato, tutte le facoltà hanno le loro relazioni, le quali, per delicate che siano, non mancano di essere strette tra loro, e il movimento di una corda fa vibrare tutte le altre. È necessario richiamare l’attenzione su questa reciproca dipendenza delle nostre facoltà onde prevenire la risposta che forse alcuni darebbero, cioè che si è provato solamente che il Cattolicesimo ha contribuito a sviluppare l’individuo in senso mistico. Giammai! Le riflessioni che abbiamo fatte finora provano qualcosa di più: provano che dobbiamo al Cattolicesimo l’idea chiara e il sentimento vivo dell’ordine morale in tutta la sua grandezza e bellezza; provano che dobbiamo al Cattolicesimo ciò che propriamente si chiama coscienza; provano che dobbiamo al Cattolicesimo se l’uomo si crede chiamato ad un fine immenso che è in mano al suo libero arbitrio, e che spetta a lui averne tutta la cura; provano che al Cattolicesimo è dovuta la vera consapevolezza dell’uomo, il valore della sua dignità, la stima e il rispetto che si hanno per lui per il semplice motivo di chiamarsi uomo; provano che il Cattolicesimo ha sviluppato nella nostra anima i germi dei più nobili e generosi sentimenti, perché ha sollevata la mente ai più alti concetti, ci ha dilatato e sublimato il cuore col farci certi di una libertà che nessuno può levarci, e con l’allettarci con una ricompensa di eterna felicità, lasciando però nelle nostre mani la vita e la morte e facendoci in un certo modo arbitri della nostra sorte. Tutto questo è ben altro che un puro misticismo, è lo sviluppo dell’uomo completo, è la vera individualità, l’unica individualità nobile, giusta, ragionevole; è un’unione di forti impulsi per condurre l’individuo alla

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perfezione in tutti i sensi; è il primo, il più indispensabile e il più fecondo elemento della vera civiltà (16). Torna all’indice

CAPITOLO XXIV Nobilitazione della donna dovuta esclusivamente al Cattolicesimo. Mezzi adoperati dalla Chiesa per riabilitarla. Dottrina cristiana sulla dignità della donna. Monogamia. Diversa condotta del Cattolicesimo e del Protestantesimo su questo punto. Fermezza di Roma rispetto al matrimonio. Suoi effetti. Indissolubilità del matrimonio, Il divorzio tra i Protestanti. Effetto del dogma cattolico del matrimonio come vero Sacramento.

Abbiamo visto ciò che l’individuo deve al Cattolicesimo; vediamo ora cosa gli deve la famiglia. È chiaro che se il Cattolicesimo ha perfezionato l’individuo, essendo questo il primo elemento della famiglia, allo stesso modo si dovrà considerare opera del Cattolicesimo anche la perfezione della famiglia. Ma senza insistere con questa argomentazione voglio considerare lo stesso vincolo della famiglia, e per fare questo bisogna concentrare l’attenzione sulla donna. Non starò qui a ricordare che cosa era la donna presso gli antichi, né ciò che è tuttora tra i popoli che non sono cristiani. La storia, e soprattutto la letteratura della Grecia e di Roma, ci dànno testimonianze ben tristi e ancor più vergognose; e tutti i popoli della terra ci forniscono abbondanti prove sulla verità ed esattezza dell’osservazione di Buccanano, che ovunque non regna il Cristianesimo si va verso la degradazione della donna.

Forse il Protestantesimo non vorrà su questo punto cedere terreno al Cattolicesimo, pretendendo che per quanto riguarda la donna la riforma non ha recato alcun pregiudizio alla civiltà europea. Ma prescindendo per ora se il Protestantesimo abbia o no arrecato alcun male sotto questo aspetto, che su questo torneremo dopo, non si può tuttavia mettere in dubbio che quando esso comparve la religione cattolica aveva già finito la sua opera a vantaggio della donna; poiché tutti sanno che il rispetto e la stima che si hanno per le donne, e l’influenza che esse esercitano sulla società, hanno una data molto più antica degli inizi del sedicesimo secolo. Per cui il Cattolicesimo non ebbe, né poté avere, il Protestantesimo come collaboratore, e perciò agì interamente da solo in uno dei principali aspetti di ogni vera civiltà. Quindi quando generalmente vien detto che il Cristianesimo ha messo la donna al posto che le tocca, e che più si addice per il bene della famiglia e della società, questo elogio che si fa al Cristianesimo, per essere precisi va fatto al Cattolicesimo; poiché quando la donna veniva rialzata dall’abiezione e portata al grado di degna compagna

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dell’uomo, non esistevano le sétte dissidenti che vengono chiamate anch’esse cristiane, e non vi era altro Cristianesimo che la Chiesa cattolica.

Siccome il lettore avrà già osservato nel corso dell’opera che, se al Cattolicesimo vengono conferiti titoli e onori non lo si fa in base a riferimenti generici, ma esponendo attraverso le prove i fatti in modo ben dettagliato, naturalmente starà aspettando che si faccia lo stesso anche per questo punto, e che si dimostri quali sono i mezzi di cui si è servito il Cattolicesimo per procurare alla donna stima e dignità. Il lettore non rimarrà deluso.

Prima di passare ai particolari, è opportuno osservare subito che a migliorare lo stato della donna contribuirono moltissimo i nobili princìpi del Cristianesimo sull’umanità; princìpi che, considerando senza alcuna differenza il maschio e la femmina, protestavano con forza contro lo stato di avvilimento in cui era tenuta questa preziosa metà del genere umano. Con la dottrina cristiana svanivano per sempre i pregiudizi contro la donna: essa fu riconosciuta uguale all’uomo nell’unità di origine e di fine e nella partecipazione ai doni celesti, ammessa nella fratellanza universale degli uomini tra loro e con Gesù Cristo, considerata ugualmente come figlia di Dio e coerede di Gesù Cristo, e come compagna dell’uomo e non come schiava né come vile strumento di piacere. A questo punto quella filosofia che tanto l’aveva degradata finì col restar muta, e quella letteratura sfrontata, che con tanta insolenza si era scatenata contro le donne, trovò un freno nei precetti cristiani e un eloquente rimprovero nel modo pieno di dignità con cui parlavano di loro tutti gli scrittori ecclesiastici, prendendo esempio dalla Scrittura.

Ma nonostante il benefico influsso che per loro natura esercitavano le dottrine cristiane, non si sarebbe raggiunto completamente lo scopo se la Chiesa non si fosse impegnata ad affrontare la questione più importante e necessaria per il buon andamento della famiglia e della società: parlo della riforma del matrimonio. La dottrina cristiana è semplicissima su questo tema: uno con una, e per sempre. Questa dottrina però non sarebbe stata sufficiente se la Chiesa non si fosse assunta l’onere di metterla in pratica e di sostenerla con inalterabile fermezza; perché le passioni, e soprattutto quelle del maschio, si ribellano a tale dottrina, e l’avrebbero senza dubbio calpestata se non fossero venute ad infrangersi contro quel baluardo insuperabile che non lasciava loro intravedere alcuna speranza di vittoria. E vorrà il Protestantesimo vantarsi ugualmente di aver formato parte del baluardo, se con insensata esultanza applaudì allo scandalo di Enrico VIII, e con tanta villania si piegò alle esigenze del voluttuoso Langravio d’Assia-Cassel? Che notevole differenza! Per molti secoli e in mezzo alle più diverse e terribili circostanze la Chiesa cattolica

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combatte impavida contro le passioni dei potenti per conservare immacolata la santità del matrimonio: né le promesse, né le minacce possono ottenere da Roma ciò che è contrario alla dottrina del divino Maestro. E il Protestantesimo alla prima prova, o per dir meglio a un’ombra del più leggero imbarazzo, al solo timore di farsi malvolere da un principe (per quanto molto potente) cede, si umilia, permette la poligamia, tradisce la propria coscienza, apre una larga porta alle passioni, che in tal modo possono distruggere la santità del matrimonio, santità che è il più sicuro pegno per il bene della famiglia e la prima pietra sulla quale si deve fondare la vera civiltà.

La società protestante, più saggia riguardo a questo punto dei falsi riformatori che si sforzavano di regolamentarla, rigettò con ammirevole senno le conseguenze della loro condotta; e sebbene non conservasse le dottrine del Cattolicesimo, conservò almeno quel principio salutare che da esso aveva ricevuto; e così la poligamia non poté radicarsi in Europa. Ma la storia conserverà i fatti che mostrano la debolezza della pretesa riforma e la forza vivificante del Cattolicesimo. Essa dirà chi dobbiamo ringraziare se nel corso di secoli barbari, in mezzo alla più spaventevole corruzione, alla violenza e alla ferocia che dominavano dappertutto: sia ai tempi dell’invasione, quando i popoli vagavano qua e là; che in quelli del feudalesimo; o quando la forza dei re s’imponeva prepotentemente; essa dirà, ripeto, chi dobbiamo ringraziare se il matrimonio, il vero palladio della società, non finì con l’essere abbassato, travolto e ridotto in pezzi, e se la sfrenatezza della voluttà non emerse con tutto l’impeto e con tutti i capricci portandosi dietro il più profondo disordine, corrompendo il carattere della civiltà europea e precipitandola nella cupa voragine in cui giacciono da molti secoli i popoli dell’Asia.

Gli scrittori mossi da spirito di parte possono frugare gli annali della storia ecclesiastica per trovare dei dissensi tra i Papi e i prìncipi, e rinfacciare alla corte di Roma uno spirito di ostinata intolleranza riguardo alla santità del matrimonio. Ma se non fossero appunto accecati dallo spirito di parte comprenderebbero che se questa ostinata intolleranza si fosse allentata un istante, e se il Pontefice di Roma davanti all’impeto delle passioni avesse fatto indietro un solo passo, fatto il primo si sarebbe andati giù per un ripido pendio, e finito questo, in un abisso. E comprenderebbero lo spirito di verità, la persuasione profonda, la fede viva di cui è animata quell’augusta cattedra, poiché né riguardi né timori di alcun genere poterono mai farla tacere quando si è trattato di rammentare a tutto il mondo, e soprattutto ai potenti e ai re: saranno due in una sola carne; ciò che Dio unì non lo separi l’uomo. E, infine, comprenderebbero che se i Papi si sono dimostrati inflessibili su questa materia anche a rischio di attirarsi la collera dei re, a parte l’adempimento di un sacro

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dovere che imponeva loro il ruolo supremo di capi del Cristianesimo, fecero un’operazione magistrale in politica, e contribuirono in sommo grado alla tranquillità e al benessere dei popoli: «Perché i matrimoni dei principi – dice Voltaire – formano in Europa il destino dei popoli, e non si è mai vista una corte abbandonarsi liberamente alla disonestà, senza far nascere delle rivoluzioni e anche delle sedizioni» (Saggio sulla storia generale tomo 3. capo 101).

Questa osservazione così giusta di Voltaire basterebbe da sola per vendicare i Papi e con essi il Cattolicesimo dalle calunnie di miserabili detrattori; ma se non limitiamo questa riflessione all’ordine politico e la estendiamo all’ordine sociale, aumenta ancor più di valore e acquista un’importanza immensa. L’immaginazione si spaventa al pensare cosa mai sarebbe successo se quei re barbari, nei quali lo splendore della porpora non serviva a celare il figlio delle selve, se quei fieri signori rinchiusi nei loro castelli, ricoperti di ferro e attorniati da umili vassalli, non avessero incontrato un argine nell’autorità della Chiesa; se nel dare un’occhiata di fuoco a qualche bellezza, se provando (in seguito a questo nuovo ardore che si svegliava in petto) disgusto per la legittima sposa, non avessero trovato un fermo ostacolo nel rammentare quell’autorità inflessibile. Potevano in verità commettere vessazioni contro il Vescovo, o farlo tacere col timore o con le promesse; potevano forzare i voti di un concilio particolare, o formarsi un partito con le minacce o con l’intrigo o con la corruzione; ma là in fondo, in lontananza, vedevano confusamente la cupola del Vaticano, e l’ombra del sommo Pontefice appariva loro come una visione che li turbava. A questo punto perdevano la speranza, il più accanito combattimento non poteva dar loro la vittoria; i più artificiosi intrighi, le più umili preghiere non avrebbero avuto altra risposta che: uno con una, e per sempre.

La semplice lettura della storia del Medioevo (quel palcoscenico di violenze dove è mostrato con tanta vivacità l’uomo barbaro che si sforza di rompere i vincoli che la civiltà vuole imporgli), fa capire come la Chiesa dovesse stare sempre in guardia e vigilare continuamente, non solo per impedire che non fossero infranti i vincoli del matrimonio, ma anche per preservare dal rapimento e dalla violenza le fanciulle, comprese quelle che erano consacrate al Signore. Salta agli occhi che, se la Chiesa cattolica non si fosse opposta come un muro di bronzo agli eccessi della voluttà, i palazzi dei principi e i castelli dei signori si sarebbero ben presto visti col loro serraglio e col loro harem; e seguendo le altre classi lo stesso andazzo, la donna europea sarebbe rimasta nello stesso avvilimento in cui si trova la musulmana. E poiché ho fatto menzione ai settari di Maometto, ricorderò qui a coloro che pretendono

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di spiegare la monogamia e la poligamia ritenendo la pratica dell’una e dell’altra dipendente dalla differenza dei climi, che i Cristiani e i Maomettani si trovarono per lungo tempo negli stessi climi, e che con le vicende d’ambedue i popoli le rispettive religioni si sono introdotte ora in climi più rigidi ed ora in più temperati. Con tutto ciò non si è mai visto che le religioni si acconciassero ai climi, ma piuttosto che i climi hanno dovuto, per così dire, piegarsi alle religioni.

Le nazioni europee devono un’eterna riconoscenza al Cattolicesimo per aver loro conservata la monogamia; la qual cosa senza alcun dubbio è stata una dei motivi che hanno contribuito maggiormente al buon ordine della famiglia e alla nobilitazione della donna. Quale sarebbe ora la situazione dell’Europa, e quale stima vi godrebbe la donna se Lutero, fondatore del Protestantesimo, fosse giunto ad ispirare alla società la stessa indifferenza che su questo punto egli manifesta nel suo commentario sopra la Genesi? «Quanto al sapere – dice Lutero – se si possono avere molte mogli, l’autorità dei patriarchi ci lascia in piena libertà»; e soggiunge poi, che questo non si trova né permesso né proibito, e che in quanto a sé non decide nulla. Povera Europa, se tali parole uscite niente meno che dalla bocca di un uomo che trascinò nella sua setta tanti popoli fossero state proferite alcuni secoli prima, quando la civiltà non aveva ancora quell’impulso sufficiente a farle seguire nelle principali questioni una direzione sicura, anche in opposizione a dottrine depravate! Povera Europa, se all’epoca in cui scriveva Lutero non fossero già stati formati i costumi, e se il buon ordine dato dal Cattolicesimo alla famiglia non avesse avuto radici troppo profonde per essere divelte dalla mano dell’uomo! Lo scandalo del Langravio d’Assia-Cassel non sarebbe stato certamente un esempio isolato, e la condiscendenza colpevole dei dottori luterani avrebbe prodotto frutti troppo amari. A che potevano servire per contenere l’impeto feroce dei popoli barbari e corrotti quella fede vacillante, quell’incertezza, quella debolezza codarda con cui la chiesa protestante tremava alla sola domanda di un principe come il Langravio? Come avrebbe sostenuto una lotta di secoli chi alla prima minaccia della battaglia si arrende, e prima dell’urto si spezza?

Accanto alla monogamia possiamo dire che per la sua grande importanza va messa in rilievo l’indissolubilità del matrimonio. Coloro che allontanandosi dalla Chiesa sono di opinione che in certi casi è opportuno permettere il divorzio in modo che si consideri, come suol dirsi, sciolto il vincolo matrimoniale e ciascuno dei coniugi possa passare a seconde nozze, non potranno negare che guardano al divorzio come ad un rimedio pericoloso che il legislatore stabilisce mal volentieri sulla sola valutazione della malizia o della debolezza. Non potranno negare altresì che il notevole diffondersi dei divorzi

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apporterebbe mali gravissimi, e che in quei paesi dove le leggi civili permettono tali abusi, il permesso, al fine di prevenirli, deve essere accompagnato da tutte le cautele immaginabili. Di conseguenza, non potranno nemmeno negare che stabilire l’indissolubilità del matrimonio come principio morale, fondarla su motivi che abbiano grande ascendente sul cuore, controllare la forza delle passioni non lasciando mai cadere di mano la briglia per impedire che non vadano a precipitare per una pericolosa china, è un efficace antidoto contro la corruzione dei costumi, una garanzia per la tranquillità delle famiglie e un riparo sicuro contro i gravissimi mali che verrebbero a sommergere la società. E per questo un’opera simile è la più conveniente e la più degna di essere l’oggetto delle premure e dello zelo della vera religione. E quale religione ha adempiuto questo dovere, se non la cattolica? Chi ha eseguito con la più grande perfezione una così faticosa e salutare impresa? È stato forse il Protestantesimo, che non arrivò neanche a penetrare la profondità dei motivi che regolavano la condotta della Chiesa cattolica su questo tema?

I Protestanti, trascinati dall’odio contro la Chiesa romana, e spinti dalla smania di cambiare ogni cosa, credettero di fare una grande riforma col secolarizzare, per così dire, il matrimonio, e inveivano contro la dottrina cattolica che lo celebrava come vero sacramento. Non intendo entrare qui in una controversia dogmatica su questa questione, ma basta osservare che fu un errore madornale quello di spogliare il matrimonio del santo sigillo del sacramento, e che con una simile decisione il Protestantesimo mostrò di conoscere ben poco il cuore umano. Considerare il matrimonio non come un semplice contratto civile, ma come un vero sacramento, significava metterlo sotto la protezione della divina religione e sollevarlo al di sopra della torbida atmosfera delle passioni. E chi può dubitare che tutto questo sia di assoluta necessità quando si tratta di mettere un freno alla più viva, capricciosa e terribile passione del cuore dell’uomo? E a chi mai verrà il dubbio che per produrre un effetto simile non bastano le leggi civili, ma ci vogliono motivi che traendo origine dall’alto esercitino la più efficace influenza?

Con la dottrina protestante veniva calpestata l’autorità della Chiesa riguardo al matrimonio, per lasciarla esclusivamente in mano al potere civile. Forse non mancherà chi pensi che questa competenza, lasciata al solo potere secolare, doveva risultare vantaggiosa alla causa della civiltà, e che l’estromettere l’autorità ecclesiastica fu un magnifico trionfo su vecchi pregiudizi è una grande conquista a scapito di ingiuste prerogative. Disgraziati! Se la vostra mente coltivasse sublimi concetti, e se nei vostri petti vibrassero quelle corde armoniose che con tanta delicatezza e perfezione rendono

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manifeste le passioni dell’uomo e ispirano i mezzi più idonei a regolarle, allora vedreste e sentireste che mettere il matrimonio sotto il manto della religione sottraendolo il più possibile all’interferenza profana, voleva dire abbellirlo, purificarlo, ornarlo di un incanto soave. Perché quel prezioso tesoro (che si macchia anche solo con un’occhiata e si appanna con un leggerissimo soffio) veniva collocato sotto una inviolabile protezione. Tanto riprovevole vi sembra quel fitto velo tirato all’ingresso del talamo nuziale, e la religione che con atteggiamento severo si pone sulla soglia a guardia della sua intimità? Torna all’indice

CAPITOLO XXV Preteso rigore del Cattolicesimo nei confronti degli sventurati coniugi. Due sistemi per regolare le passioni: sistema protestante e sistema cattolico. Esempi. Passione per il gioco. Diffondersi delle passioni in tempi torbidi: la causa. L’amore: carattere di questa passione. Il matrimonio da sé solo non è un freno sufficiente. Quale debba essere il matrimonio perché serva da freno. Unità e fermezza delle dottrine e condotta del Cattolicesimo. Fatti storici: Alessandro, Cesare, Napoleone.

Ci potranno essere rivolte le seguenti domande: «Non trovate che le vostre dottrine sono troppo dure e rigorose? Non capite che non hanno alcun riguardo per la debolezza e l’incostanza del cuore umano, e che esigono sacrifici superiori alle forze dell’uomo? Non vi rendete conto quanto sia inumano sottoporre al rigore di un principio le affezioni più tenere, i sentimenti i più delicati, le più amorevoli ispirazioni? Riuscite ad afferrare tutta la durezza di una dottrina che si sforza di mantenere uniti e legati insieme con un laccio fatale due esseri che non si amano più, che già nutrono reciproco disgusto, che forse si detestano l’un l’altro con un odio profondo? Rispondere a questi esseri (che anelano a separarsi e vorrebbero darsi la morte piuttosto che rimanere uniti) con un eterno mai, mostrando nello stesso tempo il sigillo divino che fu impresso sul loro vincolo nel momento solenne di ricevere il sacramento del matrimonio: non è questo un dimenticare tutte le regole della prudenza, un atteggiamento che porta alla disperazione? E non ha maggior valore l’indulgenza del Protestantesimo che, piegandosi all’umana debolezza, è più sollecito a concedere quanto richiede il nostro capriccio o la nostra debolezza?».

È necessario rispondere a questa contestazione, e mettere in luce le insidie nascoste in tutti questi argomenti proposti al fine di indurre in errore il

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giudizio dopo aver prima sedotto il cuore. In primo luogo è un’esagerazione dire che col principio cattolico gli sventurati sposi vengano ridotti alla disperazione. Vi sono dei casi in cui la prudenza richiede la separazione dei coniugi, e qui non vi si oppongono né le dottrine, né la prassi della Chiesa cattolica. È vero che non si scioglie per questo il vincolo del matrimonio e quindi i due coniugi non restano liberi di passare a seconde nozze, ma è già abbastanza perché non possa considerarsi tiranneggiato nessuno dei due; non li si obbliga a vivere insieme, e quindi non soffrono più il tormento (effettivamente intollerabile per due persone che si detestano) di rimanere sempre unite.

«Tutto bene – ci verrà risposto, – una volta separati, i coniugi non sono più tormentati dalla coabitazione che era per essi tanto penosa; però impedisce che possano passare a seconde nozze. Si vieta così di soddisfare un’altra passione che possono nutrire in cuore e che forse fu la ragione del disgusto o del disprezzo da cui derivò la discordia e l’infelicità del primo matrimonio. E allora, perché non si considera questo matrimonio come del tutto annullato, lasciando completamente liberi i due coniugi? Perché non si permette loro di seguire gli affetti del loro cuore il quale, rivolto ormai su un altro oggetto, fa loro presagire giorni più felici?». Ed è proprio qui, dove la domanda appare più difficile e la forza dell’obiezione sembra metterlo ancor più alle strette, che il Cattolicesimo può riportare il trionfo più prestigioso; è proprio qui che può mostrare con maggior chiarezza come conosce a fondo il cuore dell’uomo, quanto savie siano le sue dottrine su questo punto, e quanto generosa e sagace la sua condotta. Ciò che sembra un rigore eccessivo non è altro che una severità necessaria, la quale è tanto lontana dal meritare la taccia di crudele, in quanto è per l’uomo una garanzia di riposo e di benessere. A prima vista non si capisce come possa essere così, e perciò sarà necessario sviscerare l’argomento andando, per quanto è possibile, ad esaminare a fondo i princìpi che giustificano al lume della ragione la condotta tenuta dal Cattolicesimo, non solo per ciò che riguarda il matrimonio, ma anche tutto ciò che ha relazione col cuore dell’uomo.

Riguardo alle passioni ci possono essere due sistemi di condotta. L’uno consiste nell’accondiscendere, l’altro nel resistere. Nel primo si retrocede di fronte alle passioni man mano che queste avanzano: non si oppone mai un vero ostacolo; non si lasciano mai senza speranza di poter avanzare; si fissa una linea oltre il quale non procedano, ma poi si fa capire che se andranno a forzarla, la linea si sposterà un po’più in là. In questo modo la condiscendenza è in proporzione all’energia e all’ostinazione della passione che la richiede. Anche nel secondo sistema viene indicata alle passioni una linea che non

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possono oltrepassare; ma questa linea è fissa, immobile, difesa in tutta la sua lunghezza da un muro di bronzo. Invano le passioni si agitano per superarla: non resta loro neanche un’ombra di speranza. Il principio che resiste loro non subirà mai variazioni e non accetterà mai compromessi di nessun genere. Non c’è nessuna possibilità di oltrepassare la linea, tranne quella di percorrere l’unica strada che non viene mai preclusa alla libertà umana: quella cioè della malvagità. Nel primo sistema si permette lo sfogo per prevenire l’esplosione; nel secondo non si permette che inizi l’incendio per non essere costretti a contenere il suo avanzare. In quello le passioni sono temute già quando sono sul nascere, e si spera di frenarle quando sono cresciute; in questo si è convinti che se non è facile contenerle quando sono piccole, lo sarà molto meno quando saranno grandi. Nell’uno si procede col supporre che le passioni svaniscano e perdano di forza se si permette di sfogarle; nell’altro si crede che non si saziano col soddisfarle, ma che anzi diventano ancora più sfrenate.

Generalmente parlando si può dire che il Cattolicesimo segue il secondo sistema; vale a dire che trattando con le passioni ha per regola costante di frenarle fin dai primi passi, lasciarle il più possibile senza speranza e soffocarle per quanto è possibile fin dal loro sorgere. Ed è necessario far notare che qui stiamo parlando di severità nei confronti delle passioni e non dell’uomo che le possiede; e che non c’è alcuna incompatibilità tra il non transigere con la passione ed essere indulgente con la persona che ne è soggetta, fra l’essere inesorabile con la colpa ed il sostenere con bontà il colpevole. Per quanto riguarda il matrimonio il Cattolicesimo ha seguito questo sistema con una fermezza che suscita ammirazione; il Protestantesimo invece ha preso la strada opposta. Ambedue convengono che il divorzio, che porta con sè lo scioglimento del vincolo, è un male gravissimo. Ma la differenza sta in questo: secondo il sistema cattolico non si lascia intravedere neanche un filo di speranza che possa avvenire un tale scioglimento, si proibisce indiscutibilmente senza alcuna possibilità di deroga e si dichiara quindi impossibile; mentre invece nel sistema protestante in certi casi ciò si può permettere. Il Protestantesimo non ha per il matrimonio un sigillo divino che ne garantisca la perpetuità e la renda inviolabile e sacra; il Cattolicesimo possiede questo sigillo, l’imprime sul misterioso nodo, e mette il matrimonio sotto la protezione di un sacro simbolo.

Quale delle due religioni si mostra più saggia? Quale procede con più senno? Sempre prescindendo dalle ragioni dogmatiche e dalla moralità intrinseca degli atti umani che formano l’oggetto delle leggi che stiamo esaminando, per risolvere la questione è necessario determinare quale dei due sistemi sia più appropriato a trattare e regolare le passioni. Meditando sulla

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natura del cuore umano, ed attenendoci a quanto c’insegna l’esperienza quotidiana, si può affermare con certezza che il mezzo più adattato per frenare la passione è quello di lasciarla senza speranza; e che l’essere invece condiscendenti accordandole continuamente di sfogarsi, significa infiammarla sempre di più; è un giocare col fuoco in mezzo a sostanze combustibili, lasciando che di tanto in tanto si riattizzi, con la folle fiducia che sarà sempre facile spegnere l’incendio.

Diamo rapidamente un’occhiata alle più violente passioni, ed osserviamo qual è il loro normale sviluppo secondo il sistema che viene adottato. Considerate il giocatore: un uomo dominato da un’indicibile inquietudine, che nutre in petto nello stesso tempo una insaziabile cupidigia ed una prodigalità senza limiti; non si accontenta di un immenso capitale ma non esita di esporlo alla fatalità di un momento; in mezzo alle più grandi sventure sogna tuttavia grandi tesori; corre affannato e bramoso dietro un oggetto che pare oro, e che peraltro non lo è, perché non è mai sazio di possedere. Osservatelo: il suo cuore inquieto non può vivere che in mezzo all’incertezza e al rischio, sospeso tra il timore e là speranza, e a quanto sembra si compiace di restare in questa rapida successione di forti sensazioni che lo scuotono continuamente e lo tormentano. Qual è il rimedio per guarirlo da questa infermità, da questa febbre divoratrice? Consigliategli un sistema di condiscendenza; ditegli che giochi, ma si limiti però ad una certa somma, a certe ore e a certi luoghi; cosa otterrete? Nulla, assolutamente nulla. Se questi mezzi potessero servire a qualche cosa non ci sarebbe giocatore al mondo che non fosse già guarito della sua passione, perché non c’è nessuno che non abbia fissato mille volte a se stesso questi limiti, che non si sia detto mille volte: «non giocherai oltre la tale ora, solo in questo e in quel luogo, non arrischierai più di una tal somma». Con questi palliativi, con queste precauzioni impotenti cosa avviene allo sciagurato giocatore? Che s’inganna miseramente, che la passione viene a patti per poi riacquistare forza e credersi più sicura della vittoria; essa non può che guadagnare terreno, ampliare i limiti fissati e tornare agli eccessi originari se non maggiori. Volete curare il male alla radice? Se resta ancora una possibilità per rimediare sarà senza dubbio quella di farlo astenere completamente dal gioco, senza perdere tempo. Questo rimedio all’inizio sarà il più doloroso, ma in pratica sarà il più facile: appena la passione vede svanire ogni speranza di venire soddisfatta comincerà a diventare più debole e infine sparirà. Non credo che chiunque abbia un po’d’esperienza mostri il minimo dubbio sull’esattezza di quanto ho detto, e non convenga con me che il miglior mezzo per soffocare questa fortissima passione è quello di impedire all’istante che venga alimentata e di lasciarla senza speranza.

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Passiamo ad un altro esempio più vicino al nostro tema. Immaginiamo un uomo dominato dalla passione d’amore. Credete che per guarirlo dal suo male convenga permettergli uno sfogo lasciandogli vedere la persona amata in certe occasioni, benché meno frequentemente? E vi pare che gli potrà essere di giovamento permettergli di continuare a vederla proibendogli però di frequentarla? Forse con una tale precauzione si spegnerà o brucerà di meno la fiamma che gli arde in petto? Certamente no: lo stesso confinamento di questa fiamma la farà crescere e ne moltiplicherà la forza. E siccome d’altronde si continua a concederle un qualche alimento, per quanto scarso, e le si lascia uno spiraglio attraverso il quale avere uno sfogo, andrà allargando ogni giorno di più questo spiraglio finché giungerà a liberarsi dell’ostacolo che le resiste. Togliete invece alla passione la speranza; obbligate l’amante ad un lungo viaggio, o interponetegli alcuni impedimenti che non gli consentano di vedere come probabile o possibile il raggiungimento del suo fine; e vedrete allora che, salvo alcune rarissime eccezioni, otterrete inizialmente di distogliere il pensiero dall’oggetto desiderato, e in seguito anche che sia dimenticato. E non è questo ciò che l’esperienza c’insegna continuamente? Non è questo il rimedio che la stessa necessità suggerisce quotidianamente ai padri di famiglia? Le passioni sono come il fuoco: se vi si getta dell’acqua in abbondanza si spegne; ma poche gocce non servono che a ravvivarlo di più e a farlo ardere con maggior forza.

Ma portiamoci ancora più su con le nostre riflessioni, ed allarghiamo il campo di osservazione per vedere come le passioni agiscono in campi più estesi ed elevati. Qual è il motivo per cui in tempi di maggiori sconvolgimenti si risvegliano tante e così forti passioni? Ciò dipende dal fatto che tutte le passioni concepiscono la speranza di essere soddisfatte; perché rovesciate le classi più alte e distrutte le istituzioni più antiche e autorevoli, e sostituite con altre che prima erano irrilevanti, tutte le passioni vedono la strada aperta verso il successo in mezzo alla confusione e al trambusto. Non esistono più le barriere che prima parevano insuperabili e che al solo vederle la passione non aveva la possibilità di nascere, o veniva soffocata sul nascere. Ma ora tutto è rimasto scoperto e senza difesa, ci vuole solo coraggio e costanza per saltare intrepido in mezzo ai rottami e alle rovine che si sono accumulate con la distruzione di quanto c’era di antico.

Vista in teoria, non c’è assurdità più evidente della monarchia ereditaria e della successione alla corona assicurata ad una famiglia, che può in qualunque momento mettere sul trono un bambino, un imbecille o un malvagio; ciò nonostante in pratica non c’è niente di più saggio, più prudente e più conveniente. Così ha insegnato l’esperienza di lunghi secoli, e così la

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ragione, basandosi su questa esperienza, lo vede ben chiaro; così, infine, con funesto disinganno l’hanno imparato quei popoli sventurati che hanno avuto la monarchia elettiva. E questo perché? Per gli stessi motivi che stiamo esaminando: perché con la monarchia ereditaria si chiude ogni varco alla speranza di un’ambizione smisurata; ma quando non è così la società cova in seno un eterno germe di agitazione e di rivolte promosse da tutti coloro che concepiscono la speranza di poter assumere per qualche tempo il comando supremo. In tempi tranquilli e in una monarchia ereditaria, è un’idea insensata che un individuo, per quanto ricco, nobile, saggio, valoroso e distinto possa essere, possa diventare re: è un’idea che probabilmente non sfiora neanche la mente di qualcuno; ma cambiate le circostanze, introducete la probabilità, anche una sola possibilità remota, e vedrete subito come non mancheranno entusiasti candidati.

Sarebbe facile, continuando a sviluppare un simile ragionamento, applicarlo a tutte le passioni dell’uomo; ma questi accenni sono sufficienti per rendersi conto che quando si tratta di sottomettere una passione la prima cosa da fare è quella di opporle una barriera insuperabile che non le lasci alcuna speranza di progredire. Allora la passione si agita per un po’, si ribella all’ostacolo che le fa resistenza, ma trovandolo irremovibile retrocede, perde coraggio, e come le onde del mare si adagia mormorando al di qua del livello che le è stato fissato.

Vi è nel cuore umano una passione formidabile che esercita un forte influsso sulla vita dell’uomo, e che con le sue illusioni ingannatrici e seducenti forma non raramente una lunga catena di dolore e di calamità. Questa passione che sorge dal bisogno innato che ha per oggetto fondamentale la conservazione della specie umana, si trova in un certo modo in tutti gli esseri viventi, ma prende tuttavia un carattere particolare quando risiede nell’anima di un essere intelligente qual è l’uomo. Negli animali l’istinto guida questo bisogno in un modo meraviglioso, limitandolo allo stretto necessario per la conservazione delle specie; ma nell’uomo diventa passione; e questa passione (alimentata e ravvivata dal fuoco della fantasia affinata dalla creatività dell’intelligenza, passione frivola e incostante perché sotto la guida di un libero arbitrio che può abbandonarsi a tanti capricci quante sono le impressioni che ricevono i sensi e il cuore) si converte in un sentimento vago, volubile, difficile a soddisfarsi, insaziabile; simile al malessere di un infermo febbricitante, alla frenesia di un delirante, che ora vaga per un ambiente fragrante di purissimi aromi, ora si agita convulso nelle angosce dell’agonia.

Chi può contare tutte le forme sotto le quali si presenta questa passione ingannatrice, e la quantità dei lacci che tende al piede dello sventurato mortale?

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Osservatela al suo nascere, tenetela d’occhio nel suo corso e finché giunge al suo termine spegnendosi come una lampada moribonda. Appena spunta la prima lanugine sulle guance del giovinetto e viene a dorargli graziosamente il roseo e delicato viso, già gli sorge in petto un misterioso sentimento che l’inquieta e lo turba senza che egli stesso ne conosca il motivo. Una dolce malinconia gli s’insinua nel cuore, pensieri non conosciuti gli vanno vagando per la mente, immagini seducenti gli passano per la fantasia, una segreta forza magnetica opera sull’anima, una serietà precoce gli si dipinge in viso, tutte le inclinazioni prendono un’altra direzione; non gli piacciono più i giochi dell’infanzia, tutto gli fa presagire una nuova vita meno innocente e meno tranquilla; la tempesta non urla ancora, il cielo non si è ancora incupito, ma screziato da rosee nuvolette mostra già un tristo presagio di ciò che avverrà. Giunge intanto l’adolescenza e quel sentimento che prima era vago, misterioso, incomprensibile ancora, si fa conoscere meglio; i particolari si chiariscono e si presentano come sono in se stessi, la passione li vede e s’incammina verso di loro. Non crediate però che per questo la passione sia costante, anzi è tanto vana, tanto volubile e capricciosa quanto sono gli oggetti che le si vanno presentando: corre dietro alle illusioni senza mai fermarsi, inseguendo ombre, cercando una soddisfazione che mai raggiunge, ed aspettando una fortuna che mai arriverà. Esaltata la fantasia, ardente il cuore, l’anima travolta e sottomessa in tutte le sue facoltà, il focoso giovane si procura le più splendide illusioni, le comunica a tutto ciò lo circonda, assegna alla luce uno splendore più vivo, riveste la superficie della terra di una vegetazione più ridente, di colori più vivi, spargendo per ogni dove il riflesso del suo proprio incanto.

Nell’età adulta i pensieri si fanno più gravi e profondi, il cuore ha perduto la sua incostanza, la volontà è più salda e più fermi i propositi, e il comportamento che dirige la vita è assoggettata ad un sistema di regole e procede come in un solco: nondimeno questa misteriosa passione si agita nel cuore dell’uomo, e lo tormenta con incessante inquietudine. Con lo sviluppo del corpo anche la passione diviene più robusta ed energica; e avviene che, con quell’orgoglio ispirato all’uomo dall’indipendenza di cui ora gode, dalla consapevolezza di maggiori energie e dall’abbondanza di mezzi, la passione si fa più decisa, più audace, più violenta; come anche a forza di delusioni e di lezioni avute dall’esperienza essa si fa più cauta, più prudente, più astuta. E non è più accompagnata dal candore dei primi anni ma sa unirsi al calcolo, sa dirigersi verso il suo scopo per vie più nascoste, sa impiegare mezzi più sicuri. Guai all’uomo che non si premunisce in tempo contro un simile nemico! Consumerà l’esistenza in un’agitazione febbrile, e d’inquietudine in inquietudine, di tormento in tormento, se non muore prima nel fiore degli anni,

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arriverà alla vecchiaia sempre schiavo della sua funesta passione. Questa lo accompagnerà fino alla tomba con quei tratti sgradevoli e ripugnanti che si scolpiscono in un viso raggrinzito dagli anni e negli occhi velati che avvertono già vicina la morte.

Qual è allora il sistema da impiegare per frenare questa passione, per trattenerla nei giusti limiti e per impedire che rechi danni all’individuo, disordine nelle famiglie e il caos nella società? La regola immutabile del Cattolicesimo sia nella morale che predica, che nelle disposizioni che stabilisce, è di reprimerla. Non permette neanche un desiderio, e dichiara colpevole agli occhi di Dio una sola occhiata unita ad un impuro pensiero. E questo perché? Perché oltre al principio morale contenuto nella proibizione vi è l’intento di soffocare il male sul nascere, essendo certo che è più facile impedire all’uomo di compiacersi in cattivi desideri di quanto non sia convincerlo ad astenersi dal soddisfarli dopo averli accolti in un cuore ardente. Vi è quindi la ragione profonda di procurare in questo modo la tranquillità dell’anima, non permettendole che come un assetato Tantalo soffra alla vista dell’acqua che non riesce a toccare con le labbra. Quid vis videre, quod non licet habere? Perché vuoi vedere ciò che non puoi ottenere? Dice saggiamente l’autore dello stupendo libro dell’Imitazione di Gesù Cristo, riepilogando così in poche parole la sapienza contenuta nella santa severità della dottrina cristiana.

Anche se alla passione viene assegnato uno scopo legittimo, tuttavia i vincoli del matrimonio non disseccano la sorgente dell’agitazione e della capricciosa inquietudine che alberga nel cuore. Il possesso rende insipido e porta alla noia, la bellezza viene meno ed avvizzisce, le illusioni si dileguano, l’incanto sparisce e l’uomo, trovandosi in realtà ben lontano da quei dolci sogni a cui la sua ardente immaginazione si abbandonava durante i suoi deliri, si sente nascere in petto nuovi desideri; e stanco dell’oggetto posseduto, dà alimento a nuove illusioni cercando da qualche altra parte quella felicità ideale che immaginava di aver trovato, fuggendo la triste realtà che inganna così le sue più belle speranze.

Sciogliete allora le briglie alle passioni dell’uomo, lasciate che in una maniera o nell’altra possa nutrire l’illusione di rendersi felice con altri vincoli, che non si consideri legato per sempre e senza rimedio alla compagna della vita, e vedrete come presto gli verrà la noia, come la discordia sarà più forte e tumultuosa, vedrete come i vincoli appena formati si allentano, come si guastano in poco tempo, si rompono al primo urto. Viceversa, proclamate la legge che non esclude né poveri né ricchi, né deboli né potenti, né sudditi né sovrani; che non bada a differenza di condizione, di indole, di salute, né a tanti

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altri motivi che, in balìa delle passioni e soprattutto tra i potenti, facilmente si convertono in pretesti; proclamate questa legge come discesa dal cielo, mostrate il vincolo del matrimonio come sigillato con un sigillo divino; e alle passioni che reclamano dite fortemente che se vogliono soddisfarsi non hanno altra strada che quella dell’immoralità, ma che l’autorità incaricata per l’osservanza di questa legge divina non si piegherà mai a colpevoli condiscendenze, che non permetterà mai che col velo della dispensa dal vincolo si copra la violazione del precetto divino; che non lascerà alla colpa altro che il solo rimorso. E allora vedrete che le passioni perdono coraggio e si rassegnano, che la legge si estende, si consolida e getta profonde radici nei costumi; e avrete assicurato per sempre il buon ordine e la tranquillità delle famiglie. E la società vi sarà debitrice di un immenso beneficio. Ecco precisamente ciò che ha fatto il Cattolicesimo con l’opera di molti secoli; ed ecco ciò che il Protestantesimo avrebbe distrutto se fossero stati generalmente adottati in Europa i suoi esempi e le sue dottrine, e se i popoli non fossero stati più saggi dei loro capi.

I Protestanti e i falsi filosofi, esaminando con i loro pregiudizi ed il loro rancore le dottrine e le disposizioni della Chiesa cattolica, non hanno mai saputo concepire a che servissero i due grandi princìpi che distinguono sempre e ovunque il pensiero e l’opera del Cattolicesimo, unità e fermezza (unità nelle dottrine, fermezza nella condotta), stabilendo con esse uno scopo e camminando verso questo scopo senza mai deviare. Questo è sembrato a loro uno scandalo: e dopo essersi scagliati contro l’unità della dottrina, eccoli inveire anche contro la fermezza della condotta. Se meditassero sull’uomo capirebbero che in questa fermezza c’è il segreto per educarlo, guidarlo, frenarne le passioni quando sia il caso, se necessario esaltarne l’anima rendendola capace dei più grandi sacrifici e delle più eroiche azioni. Non c’è di peggio per l’uomo quanto l’incertezza e l’indecisione, non c’è niente che lo isterilisca e l’indebolisca di più. Quello che lo scetticismo è per l’intelletto, l’indecisione è per la volontà. Prescrivete all’uomo uno scopo fisso e fate in modo che ad esso si dedichi: si dirigerà verso di esso e infine lo raggiungerà. Lasciatelo invece vacillare tra diversi scopi, fate che non abbia una regola fissa di condotta, che non sappia qual è per lui l’avvenire, che cammini senza sapere dove vada, e vedrete che la sua energia diminuisce, le forze si rilassano finché non cade a terra e si ferma. Sapete qual è il segreto con cui i grandi caratteri dominano il mondo? Sapete in che modo si rendono capaci essi stessi di azioni eroiche e come trasmettono questa capacità a quelli che li attorniano? Essi hanno un scopo fisso per sé e per gli altri: lo vedono con chiarezza, lo vogliono con tenacia e s’incamminano alla sua volta senza tentennamenti, senza tanti

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giri a vuoto, con ferma speranza, con fede viva, senza esitazioni in se stessi e senza permetterne agli altri. Alessandro Magno, Cesare, Napoleone, e gli altri eroi antichi e moderni esercitavano senza dubbio col loro genio una forza seduttrice; ma il segreto del loro predominio, della potenza, di quell’impulso che superava ogni ostacolo era l’unità nel pensiero e la fermezza nell’azione, per cui risultava in essi un carattere fermo, terribile, che dava loro sugli altri uomini un’immensa superiorità. Così Alessandro traversava il Granico e cominciava e concludeva la prodigiosa conquista dell’Asia; così Cesare traversava il Rubicone e metteva in fuga Pompeo, vinceva in Farsaglia e diveniva signore del mondo; così Napoleone disperdeva i ciarlatani che disputavano sul destino della Francia, vinceva a Marengo, cingeva il diadema di Carlo Magno, atterriva e spaventava il mondo coi trionfi di Austerlitz e di Jena.

Senza unità non c’è ordine, senza fermezza non c’è stabilità; e tanto nell’ordine morale come in quello materiale nessuna cosa può prosperare se non è ordinata e stabile. Quindi il Protestantesimo, che ha preteso di far progredire l’individuo e la società col distruggere l’unità religiosa e con l’introdurre nelle credenze e nelle istituzioni la molteplicità e la mobilità del pensiero privato, ha portato ovunque la confusione e il disordine, e ha snaturata la civiltà europea inoculando nelle sue vene un elemento distruttivo che le ha provocato, e le provocherà ancora, gravissimi mali. Il Cattolicesimo invece, con l’unità delle sue dottrine e la fermezza delle regole della sua condotta, non si è affatto messo in contrasto col progresso dei popoli; perché ciò che è uno può procedere ugualmente, così come il movimento entra anche in un sistema che abbia dei punti fissi. Questo universo, che ci rende attoniti per la sua immensità, che ci riempie di ammirazione con i suoi prodigi, che c’incanta con la sua varietà e bellezza, è soggetto all’unità ed è regolato da leggi fisse e costanti.

Ecco qui esposti alcuni motivi che giustificano la severità del Cattolicesimo; ecco perché il Cattolicesimo non ha potuto mostrarsi condiscendente con questa passione la quale, una volta rotti i freni, non rispetta più né limiti né rimedi, introduce il turbamento nei cuori, il disordine nelle famiglie e la corruzione nella società togliendo ai costumi ogni decoro, macchiando il pudore femminile e abbassando le donne dal livello che loro compete di degne compagne dell’uomo. Su questo punto il Cattolicesimo è severo, non lo nego; ma non poteva rinunciare ad una tale severità senza rinunciare nello stesso tempo alle sue alte funzioni di depositario della morale e di sentinella che vigila sui destini dell’umanità (17). Torna all’indice

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CAPITOLO XXVI La verginità. Dottrine e condotta del Cattolicesimo su questo punto. Idem del Protestantesimo. Idem della filosofia atea. Origine del principio fondamentale dell’economia politica inglese. Considerazioni sul carattere della donna. Relazioni della dottrina sulla verginità con la riabilitazione della donna.

Questa sollecitudine del Cattolicesimo di ricoprire con un fitto velo le intimità del pudore, e per rivestire di moralità e modestia la più violenta delle passioni, si manifesta in sommo grado nell’importanza che ha dato alla virtù contraria, la verginità, incoronando perfino con una splendente aureola la totale astinenza dai piaceri sensuali. Quanto abbia contribuito con questo il Cattolicesimo a rialzare la donna, non lo comprenderanno certamente i frivoli intelletti, tanto più se si lasciano guidare dalle ispirazioni di un cuore voluttuoso. Ma non potrà rimanere nascosto a chiunque sia in grado di riconoscere che ciò che tende a portare al più alto livello di delicatezza il sentimento del pudore; ciò che rafforza la moralità; ciò che presenta una considerevole parte del bel sesso come modello della più eroica virtù: tutto ciò, è diretto anche ad elevare la donna al di sopra della torbida atmosfera delle basse passioni, contribuisce ad impedire che si presenti agli occhi dell’uomo come puro strumento di piacere, e serve mirabilmente a far sì che senza alcuno svantaggio per le attrattive di cui è dotata dalla natura, la donna non passi rapidamente dallo stato di funesta vittima del libertinaggio ad oggetto di disprezzo e di disgusto.

La Chiesa cattolica conosceva a fondo queste verità e perciò, mentre spendeva il suo zelo per la santità delle relazioni coniugali e per creare nel seno delle famiglie la nobile dignità di una Signora, copriva con un misterioso velo il viso della vergine cristiana, e le spose del Signore erano guardate come un sacro deposito nell’augusta oscurità dei riposti del santuario. Era riservato a Lutero (il rozzo profanatore di Katharina von Bora) il non riconoscere neanche su questo punto la profonda e delicata sapienza della religione cattolica. Dopo avere infranto il sacro sigillo del talamo nuziale, fu degna impresa del frate apostata quella di passare temerariamente a lacerare con mano spudorata il sacro velo delle vergini consacrate al Signore. Fu degna impresa del cuore indurito del violento sovvertitore quella di eccitare la cupidigia dei prìncipi, i quali si precipitarono sui beni di fanciulle indifese, scacciandole dai loro chiostri; e di accendere d’un colpo la sensualità infrangendo tutte le barriere della morale affinché, come colombe prive di protezione, cadessero tra gli artigli dei libertini. Forse in questo modo si faceva crescere il rispetto dovuto al bel sesso? Forse in questo modo si purificava il sentimento del pudore? O

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l’umanità progrediva? O Lutero dava un forte impulso alle generazioni future? Vivacità allo spirito umano? Forza e vigore alla cultura e alla civiltà? Chiunque si senta battere in petto un cuore sensibile, potrà sopportare le sfacciate perorazioni di Lutero, tanto più se ha letto le bellissime pagine dei Cipriani, degli Ambrogi, dei Girolami e degli altri luminari della Chiesa cattolica sulle eminenti imprese di una vergine cristiana? Nel corso di quei secoli nei quali dominava senza freni la più feroce barbarie, chi non era contento di trovare quelle solitarie dimore che ospitavano le spose del Signore, preservando i loro cuori dalla corruzione del mondo e occupandosi costantemente a levare le mani al cielo onde attirare sulla terra la rugiada della divina misericordia? E in tempi e paesi assai più civili, come avviene invece che un asilo della virtù più pura e più sublime viene così contrastata da un immenso mare di dissipamento e libertinaggio? Erano forse anche quelle dimore una funesta eredità dell’ignoranza, una testimonianza di fanatismo? e i seguaci della riforma protestante distruggendole facevano forse un’opera degna? Ah, se così fosse, protestiamo allora contro quanto c’è d’importante e di bello, soffochiamo in cuor nostro ogni entusiasmo per la virtù, e non facciamo conoscere altra realtà che quella che è limitata alle più grossolane sensazioni; il pittore getti via il pennello e il cantore la lira, e rinunciando ad ogni nostra dignità e grandezza, simili ai bruti diciamo: mangiamo e beviamo che domani moriremo.

No, la vera civiltà non potrà mai perdonare al Protestantesimo quest’opera immorale ed empia; la vera civiltà non potrà perdonargli mai di aver violato il santuario del pudore e dell’innocenza, e di aver cercato con tutte le sue forze di far svanire ogni rispetto per la verginità, calpestando in tal modo un dogma professato da tutto il genere umano; di non aver rispettato ciò che rispettarono i Greci nelle sacerdotesse di Cerere, i Romani nelle vestali, i Galli nelle druidesse, i Germani nelle loro indovine; di aver spinto la sfrontatezza oltre quanto abbiano mai fatto i popoli dissoluti dell’Asia e i barbari del nuovo continente. È certamente una vergogna per l’Europa l’avere aggredito ciò che in tutte le parti del mondo fu rispettato, ed aver tacciato di spregevole pregiudizio una credenza universale dell’intero genere umano, per di più sanzionata dal Cristianesimo. Dove mai si è vista un’invasione di barbari paragonabile alla violenza del Protestantesimo contro quanto c’è di più inviolabile tra gli uomini? Chi ha dato il funesto esempio a coloro che hanno commesso simili delitti nelle moderne rivoluzioni?

Che in mezzo all’infuriare di una guerra la barbarie dei vincitori osi sciogliere il freno ad una soldatesca brutale nelle dimore delle vergini consacrate al Signore, si può anche capire; ma perseguitare regolarmente questi santi luoghi eccitando contro di essi la passione della plebaglia, e attaccandone

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in modo villano l’istituzione e nel principio e nel concreto, questa è una cosa più bestiale che brutale. È una cosa che non si sa più come definire quando viene fatta dagli stessi che si vantano di essere i riformatori e i sostenitori del puro Vangelo, e che si proclamano i discepoli di Colui che nei suoi sublimi consigli indicò la verginità come una delle più belle virtù che possono fregiare l’aureola di un Cristiano. E chi ignora che questa fu una delle opere che il Protestantesimo condusse col maggiore entusiasmo?

La donna senza pudore servirà sì di alimento alla voluttà, ma non attirerà mai l’anima col sentimento misterioso che si chiama amore. Cosa mirabile! Il desiderio più imperioso che si annidi nel cuore di una donna è quello di piacere, e appena essa si dimentica del pudore, disgusta ed offende; così è stato saggiamente disposto che ciò che desidera più fortemente sia castigo per la sua colpa. Per tale motivo tutto ciò che contribuisce ad elevare nella donna questo delicato sentimento, tutto innalza di lei stessa: l’abbellisce, le assicura un maggior predominio sul cuore dell’uomo e le assegna un ruolo più distinto sia nell’ambiente domestico che in quello sociale. Queste verità il Protestantesimo non le conosceva quando condannò la verginità. Certamente questa virtù non è una condizione necessaria al pudore; ma ne è il puro ideale, ne è il tipo di perfezione. Quindi bandire dal mondo questo modello, non volerne conoscere la bellezza, condannarlo come pregiudizio non era opportuno, se si voleva conservare un sentimento che è in continua lotta con la più forte passione del cuore umano, e che difficilmente si riesce a conservare in tutta la sua purezza se non è accompagnato dalle più squisite cautele. Fiore delicatissimo di vaghi colori e di soavissimo profumo, può reggere appena il soffio leggero di un amabile venticello; se ne offusca la bellezza con estrema facilità, e il profumo svanisce come una passeggera esalazione.

Ma per combattere la verginità forse mi si contesteranno i danni che essa provoca alla popolazione, considerando le offerte fatte sull’altare di questa virtù come tante frodi contro la riproduzione del genere umano. Fortunatamente le osservazioni dei più distinti economisti sono venute a dissipare quest’errore divulgato già dal Protestantesimo, e ripetuto dalla filosofia atea del diciottesimo secolo. I fatti hanno dimostrato in un modo molto convincente due verità di uguale importanza per rendere giustizia alle dottrine e alle disposizioni cattoliche: la prima, che la felicità dei popoli non è in proporzione diretta con l’aumento della popolazione; la seconda, che sia l’aumento che la diminuzione dipendono dal concorrere di tante cause, e che il celibato religioso, ammesso che sia fra queste, e da considerarsi tra le più insignificanti.

Una religione menzognera e una filosofia bastarda ed egoista si sono

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impegnate a equiparare i segreti della riproduzione umana a quella degli altri esseri viventi. Hanno messo da parte tutti i riferimenti religiosi e non hanno visto nell’umanità altro che un vasto semenzaio in cui non conveniva lasciar nulla d’infruttifero. Così si è spianata la strada verso un modo di concepire l’individuo alla stregua di una macchina con la quale si deve ottenere la massima produzione possibile; ma non si è pensato affatto alla carità, al sublime insegnamento della religione sulla dignità e sui destini dell’uomo. E così l’industria è diventata crudele e la distribuzione del lavoro, basata su princìpi esclusivamente materiali, accresce i vantaggi dell’attuale stato dei ricchi. Ma terribili minacce si prospettano per l’avvenire.

Disegni profondi della Provvidenza! La nazione che ha portato più avanti questi funesti princìpi attualmente si trova oppressa di uomini e di prodotti. Una spaventosa miseria sta divorando i ceti più numerosi e tutta l’abilità degli uomini che la dirigono non riuscirà ad allontanarla dagli scogli cui sta andando incontro, spinta dalla forza degli elementi ai quali si è incautamente abbandonata. I distinti professori dell’università di Oxford, che a quanto pare vanno studiando i vizi radicali del Protestantesimo, troveranno qui un’abbondante materia di meditazione per investigare fino a qual punto i pretesi riformatori del sedicesimo secolo contribuirono a preparare lo stato critico in cui, ad onta degli immensi progressi, si trova adesso l’Inghilterra.

Nel mondo materiale tutto è regolato con numero, peso e misura; le leggi dell’universo mostrano, per così dire, un calcolo infinito ed un’infinita geometria. Ma guardiamoci dal pensare di poter tutto esprimere con i nostri miseri segni, e di poter tutto rinchiudere nelle nostre limitate combinazioni. Guardiamoci soprattutto dall’insensata pretesa di equiparare troppo il mondo morale al mondo materiale, di applicare senza distinzione a quello ciò che appartiene solo a questo, e di confondere col nostro orgoglio la misteriosa armonia della creazione. L’uomo non è nato solamente per procreare, non è solamente una ruota messa là al suo posto per lavorare nella grande macchina del mondo. Egli è un essere ad immagine e somiglianza di Dio, un essere che ha il destino suo proprio, destino superiore a quanto gli sta intorno sulla terra. Non vogliate abbassarne l’altezza, né chinarne al suolo la fronte ispirandogli solamente pensieri terreni; non vogliate inaridirgli il cuore privandolo dei sentimenti virtuosi e sublimi e non lasciandogli altri piaceri al di fuori di quelli materiali. Se i suoi pensieri religiosi lo portano ad una vita austera, se il generoso impegno di sacrificare sugli altari del suo Dio i piaceri di questa vita gli domina il cuore, perché volete impedirglielo? con quale diritto lo insultate disprezzando un sentimento che richiede certamente una forza d’animo superiore a quella che occorre per abbandonarsi vilmente al godimento dei

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piaceri terreni? Queste considerazioni, da attribuire ad ambedue i sessi, acquistano

tuttavia maggiore importanza quando sono riferite alla donna. Con la fantasia esaltata, il cuore appassionato e lo spirito leggero, ha bisogno anche più dell’uomo di ispirazioni severe, di pensieri seri e gravi che bilancino per quanto è possibile quella volubilità con cui considera ogni cosa, ricevendo con estrema facilità le impressioni da tutto ciò che tocca e comunicandole come attraverso un fluido magnetico a quanti le stanno intorno. Lasciate dunque che una parte del bel sesso si consacri ad una vita di contemplazione e di austerità, lasciate che le fanciulle e le Signore abbiano sempre davanti agli occhi un modello di tutte le virtù, un tipo sublime del loro più bell’ornamento che è il pudore; ciò non sarà certamente inutile. Queste vergini non sono sottratte né alla famiglia né alla società; e l’una e l’altra ricupereranno con l’interesse ciò che voi vi immaginavate che avessero perduto.

Infatti, chi può valutare l’influenza che le celebrazioni sacre con cui la Chiesa cattolica solennizza la consacrazione di una vergine a Dio devono avere esercitato sui costumi della donna? Chi può calcolare i santi pensieri, le caste ispirazioni che saranno uscite da quelle taciturne case del pudore che ora s’innalzano in luoghi solitari, ora in mezzo a popolose città? Credete che la fanciulla nel cui petto si agita una forte passione, che la donna che abbia nel suo cuore inclinazioni pericolose non avranno trovato mille volte un freno alla loro passione col solo ricordarsi della sorella, della parente, dell’amica che là nella casa del silenzio innalzava al cielo un cuore puro, offrendo in olocausto al Figliuolo della Vergine tutti gl’incanti della gioventù e della bellezza? A questo non si pensa, è vero, ma è certo almeno che di là non esce alcun pensiero mondano, non viene suscitata alcuna inclinazione voluttuosa. A questo non si pensa, é vero, ma altrettanto poco si pensa alla salutare influenza che esercita sulle piante la rugiada della mattina, altrettanto poco si pensa all’azione vivificante della luce su tutta la natura, altrettanto poco si pensa all’acqua che s’infiltra nelle viscere della terra, la feconda e la rende fertile, facendo germogliare dal suo seno leggiadri fiori e frutta squisite.

Tante sono le cause di cui non si può mettere in dubbio né l’esistenza, né l’efficacia, e che ciò nonostante non si possono assoggettare ad un esame rigoroso. Che se cerchiamo la ragione dell’importanza che caratterizza qualunque opera che sia originata esclusivamente dalla mente dell’uomo, la troveremo in questo: che egli non è capace di abbracciare il complesso delle relazioni che s’intrecciano in questo genere di cose, e non può apprezzarne a dovere le influenze indirette, talvolta occulte, talvolta impercettibili, estremamente delicate. Per questo viene il tempo a dissipare tante illusioni, a

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smentire tante previsioni, a manifestare la debolezza di ciò che si credeva forte e la forza di ciò che si credeva debole. Ed è perché col tempo si vanno svolgendo mille relazioni di cui non se ne sospettava l’esistenza, si pongono in azione mille cause che non si conoscevano o addirittura si disprezzavano; gli effetti vanno crescendo, si vanno presentando con tutta chiarezza fino a tanto che si formi una nuova situazione dove non è possibile chiudere gli occhi all’evidenza dei fatti, né resistere alla forza delle cose.

Ed ecco uno degli equivoci che più infastidiscono negli argomenti dei nemici del Cattolicesimo: essi non riescono mai a considerare le cose se non sotto un unico aspetto. Non concepiscono infatti che una forza possa avere altra direzione che non sia quella in linea retta, e non si accorgono che sia il mondo morale, che quello materiale, sono un complesso di relazioni infinitamente diverse, d’influenze indirette che operano alle volte con più efficacia di quelle dirette, che il tutto forma un sistema di corrispondenze e di armonia dove non bisogna separare le parti se non in quanto è necessario per conoscere meglio i vincoli nascosti e delicati che le uniscono al tutto; dove infine conviene lasciare che operi il tempo, elemento indispensabile per il compimento di ogni sviluppo e di qualunque opera duratura.

Mi sia concessa questa breve digressione per ribadire delle verità che non sono mai sufficientemente tenute presenti quando si tratta di esaminare le grandi istituzioni fondate dal Cattolicesimo. La filosofia oggigiorno deve subire amare delusioni: si vede obbligata a ritrattare giudizi rilasciati con troppa leggerezza, modificare princìpi stabiliti con imprudente generalizzazione, E tutta questa fatica avrebbe potuto risparmiarsela se fosse stata un poco più prudente nei suoi giudizi e più misurata nel corso delle sue ricerche. Alleata al Protestantesimo nel condurre una guerra mortale ai grandi princìpi cattolici, essa fece molto rumore per le stravaganze morali e religiose, e intanto dai quattro angoli del mondo civile si alza una voce unanime ad invocare un principio di unità. L’istinto dei popoli lo cerca, i filosofi si addentrano nei segreti della scienza con l’intenzione di scoprirlo. Vani sforzi! Nessuno può stabilire un altro fondamento diverso da quello che è già stabilito. La sua durata risponde della sua solidità. Torna all’indice

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CAPITOLO XXVII Esame dell’influenza del feudalesimo nel rivalutare la donna europea. Opinione di M. Guizot. Origine del suo errore. L’amore del cavaliere. Spirito della cavalleria. Rispetto dei Germani per le donne. Analisi del famoso passo di Tacito. Considerazioni sopra questo storico. Testimonianza di Cesare sui barbari. Difficoltà di conoscere bene lo stato della famiglia e della società tra i barbari. Il rispetto di cui gode la donna europea è dovuto al Cattolicesimo. Distinzione tra Cristianesimo e Cattolicesimo: perché è necessaria.

Uno zelo instancabile per la santità del matrimonio, e un’estrema

sollecitudine di portare il sentimento del pudore al più alto grado di delicatezza sono i due grandi mezzi utilizzati dal Cattolicesimo per rivalutare la donna. Con questi mezzi riuscì infatti a raggiungere lo scopo, e di qui deriva il potere e l’importanza delle donne in Europa. Ed è ben lontano dal vero il Sig. Guizot quando dice, (Lez. 4) «che questa particolarità della civiltà europea è uscita dal seno del feudalesimo». Non starò qui a disputare sulla maggiore o minore influenza che il feudalesimo poté esercitare nello sviluppo dei costumi domestici, e non negherò che lo stato di solitudine in cui viveva il Signore feudale, il «trovarsi sempre nel suo castello con la moglie e con i figli, e mai con altri, l’essere quelli sempre la sua permanente compagnia, il partecipare solo essi ai suoi piaceri e ai suoi impegni, il dividere insieme gl’interessi e i destini, non abbia contribuito a sviluppare i costumi domestici, e che questi prendessero un grande e possente dominio sul capo famiglia». Ma chi fece sì che il signore nel ritornare al castello trovasse una sola moglie e non più di una? Chi gl’impedì che, abusando del suo potere, non convertisse la sua casa in un harem? Chi lo frenò perché non sciogliesse le briglie alle sue passioni, e non sacrificasse loro le più leggiadre fanciulle che vedeva nelle famiglie dei suoi timorosi vassalli? Nessuno potrà negare che a far questo furono le dottrine e i costumi rigorosi introdotti in Europa dalla Chiesa cattolica e le leggi severe con cui essa oppose un solido argine al traboccare delle passioni. E di conseguenza, ammesso pure che il feudalesimo abbia fatto il bene che si suppone, ne saremmo sempre debitori alla Chiesa cattolica.

Ciò che diede occasione ad esaltare più del dovuto l’influenza del feudalesimo sull’importanza che acquisirono le donne fu senza dubbio una particolarità di quei tempi che si presenta con grande risalto, e che effettivamente a prima vista porta a fuorviare. Questo fatto consiste nel gagliardo spirito di cavalleria che, germogliando nel seno del feudalesimo e diffondendosi rapidamente, produsse le azioni più eroiche, diede origine ad una letteratura ricca d’immaginazione e di sentimento, e contribuì non poco ad

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ammansire e moderare i feroci costumi dei Signori feudali. Quell’epoca si distinse in modo particolare per lo spirito di galanteria: non quella che anche oggi si usa nelle affettuose relazioni tra i due sessi; ma di una galanteria portata al più alto grado di esagerazione da parte dell’uomo, combinata in modo singolare col più eroico valore, col più sublime disinteresse, la più viva fede e la più ardente religiosità. Dio e la sua dama: ecco il pensiero eterno del cavaliere, quello che ne domina tutte le facoltà, ne occupa tutti i momenti e ne riempie tutta l’esistenza. Purché possa ottenere un trionfo sull’amata che non l’ama ancora, purché abbia in cuore la speranza di offrire ai piedi della sua Signora i trofei della vittoria, non c’è sacrificio che gli costi, viaggio che lo stanchi, pericolo che lo fermi, non impresa che lo scoraggi. L’immaginazione esaltata lo trasporta in un mondo fantastico, il cuore gli arde come una fucina, intraprende tutto e tutto conduce a termine; e quello stesso uomo che poco prima combatteva come un leone nei campi della Betica o della Palestina, si scioglie come cera al solo nome dell’idolo del suo cuore: volge amorosi sguardi verso la sua patria e s’inebria al solo pensare che un giorno, sospirando ai piedi del castello della sua Signora, potrà riceverne forse qualche segno d’amore, o qualche occhiata di sfuggita. Guai al temerario che osasse contrastargli il suo tesoro, guai a quell’indiscreto che fissasse gli occhi sui merli da cui il cavaliere spera un segno misterioso! Non è altrettanto terribile la leonessa cui hanno rapito i figli, e il bosco flagellato dal vento del Nord non è così agitato quanto lo è il cuore del fiero amante, non c’è chi possa trattenerne la vendetta: o dà la morte al rivale, o la riceve.

Esaminando questo informe miscuglio di delicatezza e di fierezza, di religione e di passioni, miscuglio sicuramente esagerato dal capriccio dei cronisti e dall’immaginazione dei trovatori, ma che non manca di contenere qualcosa di vero, si osserva che tutto questo era molto naturale in quell’epoca, e che non ha niente di quella contraddizione che a prima vista potrebbe apparire. Infatti non c’è cosa più naturale che fossero così violente le passioni di quegli uomini i cui progenitori non molto tempo prima erano venuti dalle selve del Nord a piantare le tende insanguinate sulle rovine delle città che avevano distrutte; nulla di più naturale che uomini che non esercitavano altra professione che la guerra non conoscessero altra legge che quella del loro braccio, e che per di più vivevano in una società che era ancora sul nascere e mancava di un potere pubblico abbastanza forte per tenere a freno le passioni individuali; nulla infine di più naturale che in questi uomini fosse così vivo il sentimento religioso, dal momento che la religione era l’unico potere da essi riconosciuto. La religione aveva avvinto la loro fantasia con lo splendore e la magnificenza dei templi, con la maestà e la fastosità del mistero, li aveva

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riempiti di ammirazione col presentare al loro sguardo lo spettacolo delle più sublimi virtù e facendo risuonare all’orecchio un linguaggio tanto sublime e nello stesso tempo tanto soave e penetrante. Linguaggio che, sebbene da loro non fosse ben compreso, non mancava tuttavia di convincerli della santità e divinità dei misteri e dei precetti della religione, imponendo loro una venerazione e un rispetto che, agendo su delle anime di una tempra così vigorosa, generava l’entusiasmo e produceva l’eroismo. Da quanto detto fin qui dobbiamo concludere che quanto vi era di buono in quella esaltazione dei sentimenti, derivava tutto dalla religione; e che se prescindiamo da essa vediamo solamente il barbaro che non conosce altra legge che la sua lancia, né altra guida per la sua condotta che le ispirazioni di un cuore pieno di ardore.

Inoltrandoci nello spirito della cavalleria, e fermandoci particolarmente sul carattere dei sentimenti nei riguardi della donna, risulta evidente che, lungi dal rialzarla, la si ritenga già rialzata e stimata: la cavalleria non le dà un posto nuovo, ma trova che dalla donna quel posto è stato già occupato. E in verità, se così non fosse, come è possibile concepire una galanteria così esagerata e tanto idealizzata? Immaginate invece la bellezza della vergine coperta dal velo del pudore cristiano, cosa che accresce l’immaginazione e l’incanto, e allora capirete il delirio del cavaliere; immaginatevi la virtuosa Signora, la compagna dell’uomo, la madre di famiglia, la donna unica in cui si concentrano tutti gli affetti del marito e dei figli, la sposa cristiana, e ancora capirete perché il cavaliere s’inebria al solo pensare che arriverà a tanta fortuna, e perché il suo amore è qualcosa più dell’amore, più di un impeto voluttuoso: è qualcosa che genera rispetto, venerazione, culto.

Alcuni hanno preteso di trovare l’origine di questa specie di culto nei costumi dei Germani, e rifacendosi a certe espressioni di Tacito hanno voluto spiegare il miglioramento sociale delle donne col rispetto con cui le trattavano quei barbari. Il Sig. Guizot rigetta quest’asserzione e la combatte con molto giudizio, facendo osservare che «quanto ci dice Tacito dei Germani non era una caratteristica esclusiva di quei popoli, perché le stesse espressioni, gli stessi sentimenti, le stesse usanze dei Germani, descritti da Tacito, si ritrovano nelle relazioni che molti storici hanno fatto su altri popoli barbari». Ciò nonostante anche dopo l’osservazione del Sig. Guizot questa opinione continua ad essere sostenuta, e quindi bisogna controbatterla di nuovo. Ecco il passo di Tacito: «Inesse quin etiam sanctum aliquid et providum putant: nec aut consilia earum aspernantur, aut responsa negligunt. Vidimus sub divo Vespasiano, Veledam diu apud plerosque numinis loco habitam». (De mor. Germ.). Cioè: «Giungono fino a credere che vi è nelle donne qualche cosa di santo e di profetico, e ne apprezzano i consigli, e ne ascoltano le predizioni. Al

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tempo del divino Vespasiano abbiamo visto che per lungo tempo Velleda fu da molti reputata come dea». A mio giudizio questo passo di Tacito viene frainteso anche qualora lo si voglia intendere come una rappresentazione idealistica delle relazioni coniugali. Se facciamo bene attenzione alle parole dello storico, vedremo che interpretandolo in questo modo siamo molto lontani dal suo pensiero, perché le sue parole si riferiscono soltanto alla superstizione di considerare alcune donne come profetesse. La verità e l’esattezza di questa osservazione è confermata dalla stessa citazione che fa di Velleda la quale, egli dice, da molti era reputata come dea. In un altro punto delle sue opere (Storie lib. 4). Tacito spiega il suo pensiero e, parlando della stessa Velleda, ci dice «che questa fanciulla della nazione dei Bructeri aveva un grande potere a motivo di quell’antico costume dei Germani che consideravano molte donne come profetesse, e crescendo via via la superstizione, arrivavano al punto di ritenerle delle dee» («Ea virgo nationis bructerae late imperitabat; vetere apud germanos more, quo plerasque foeminarum fatidicas, et augescente superstitione arbitrantur deas»). Questo passo prova con la massima evidenza che Tacito parla della superstizione e non dell’ordine famigliare, che è cosa ben diversa. Perché non c’è niente di strano che alcune donne siano ritenute semidee mentre il resto di esse occupa nella società quel posto che è ritenuto loro proprio. Ad Atene si dava grande importanza alle sacerdotesse di Cerere, a Roma alle vestali; ed inoltre le pitonesse e le storie delle famose sibille ci dimostrano che il ritenere per profetesse alcune donne non era cosa esclusiva dei Germani. Non devo ora spiegare la causa di questi fatti, mi basta segnalarli; forse la fisiologia potrebbe fornire lumi alla filosofia della storia su questo argomento.

Che l’ordine della superstizione e quello della famiglia fossero molto diversi lo si può osservare nella stessa opera di Tacito quando descrive la severità dei costumi dei Germani riguardo al matrimonio. Nulla vi è di quel sanctum et providum, ma solamente una austerità che manteneva ciascuno nella linea dei suoi doveri; e ben lungi la donna dall’esser tenuta come dea se, mai sia, mancava alla fedeltà: nel qual caso si lasciava al marito l’incarico di punirne la colpa. Il passo è curioso, perché mostra che tra i Germani non era poi tanto ristretta l’autorità dell’uomo sulla donna. «Accisis crini bus – dice – nudatam coram propinquis expellit domo maritus, ac per omnem vicum verbere agit» («Dopo averle rasato il capo il marito la caccia di casa in presenza dei parenti e, denudatala, la va frustando per tutto il borgo»). Questo castigo dà senza dubbio un’idea dell’ignominia con cui presso i Germani era accompagnato l’adulterio. Ma non va certo a favore della pubblica stima della donna: sarebbe stato meglio per questa l’essere sottoposta a lapidazione.

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Quando Tacito ci descrive lo stato sociale dei Germani non bisogna dimenticare che forse alcune caratteristiche riguardo ai costumi sono esagerate a bella posta, perché ciò è cosa naturale in uno scrittore della tempra di Tacito che era sconfortato e inasprito dalla spaventosa corruzione dei costumi che regnava in quei tempi a Roma. Egli ci descrive con stupende pennellate la santità del matrimonio dei Germani, è vero: ma chi non vede che mentre scrive ha in mente quelle matrone che, come dice Seneca, dovevano contare gli anni non mediante la successione del consoli, ma dal cambio dei mariti? Quelle matrone senz’ombra di pudore, in balìa della più sfrenata dissolutezza? Poca fatica costa capire dove mirava l’accigliato sguardo di Tacito quando scaglia come tante frecce le sue concise riflessioni: «Nemo enim illie vitia ridet, nee corrumpere et corrumpi saeculum vocatur» («Colà il vizio non fa ridere e la corruzione non si chiama moda»). Passo pieno di vigore che ci descrive tutto un secolo e che ci fa capire il segreto piacere che aveva Tacito nel rinfacciare alla corrotta cultura dei Romani la purezza dei costumi dei barbari. Quello stesso piacere che aguzzando l’arguto ingegno di Giovenale si riversava nel veleno della sua satira sferzante, eccitava lo sdegno di Tacito, facendolo erompere in severi rimproveri attraverso la sua austera filosofia.

Che le sue descrizioni siano alquanto esagerate in favore dei Germani, e che tra questi non fossero poi così puri i costumi com’egli vorrebbe persuaderci, lo ricaviamo da altre notizie che circolano su quei barbari. Può darsi che fossero molto rispettosi riguardo al matrimonio, ma è certo però che nei loro costumi non era ignota la poligamia. Cesare, come testimone oculare, riferisce che il re germano Ariovisto aveva due mogli (De bello, Gallico lib. 1); e questo non era un esempio unico, perché lo stesso Tacito ci dice che vi erano alcuni che avevano al tempo stesso più mogli, non per soddisfare la propria sensualità, ma per nobiltà: «exceptis admodum paucis, qui non libidine, sed ob nobilitatem pluribus nuptiis ambiuntur». Non è priva di grazia quella distinzione di non libidine, sed ob nobilitatem: ma in ogni modo risulta che i re e i nobili, sotto l’uno o l’altro pretesto, si prendevano maggiore libertà di quella che avrebbe voluto l’austero storico.

Chi sa poi quali princìpi morali vigevano in quelle foreste? Se volessimo tentare un’ipotesi fondandola sull’analogia, cioè sulla somiglianza che univa tra loro i popoli del Nord: cosa dovremmo pensare di quell’usanza dei Bretoni, i quali in gruppi di dieci o di dodici avevano in comune le mogli, e questo accadeva soprattutto tra fratelli o tra padri e figli, in modo che per distinguere le famiglie bisognava andare a tentoni, attribuendo i figli al primo sposo che aveva preso la fanciulla? Cesare è testimone oculare di questa usanza, e lo riporta nel De Bello Gallico (libro 5, XIV): «Uxores habent deni duodenique

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inter se communes et maxime fratres cum fratribus et parentes cum liberis; sed si qui sunt ex his nati, eorum habentur liberi quo primum virgo quaeque deducta est» («Riunendosi in gruppi di dieci o dodici, soprattutto fratelli con fratelli e padri con figli hanno mogli in comune; e i figli che nascono sono considerati figli di quello che per primo si è unito alla donna»).

Comunque, al di là di questo, è certo almeno che il principio della monogamia non era tanto rispettato fra i Germani come invece si supponeva: vi era un’eccezione in favore dei nobili, cioè dei potenti, e questo bastava per togliere tutta la forza al principio e prepararne la rovina. In queste cose limitare la legge con delle eccezioni in favore dei potenti è poco meno che abrogarla. Si dirà che al potente non mancano mai mezzi per infrangere la legge: ma non è la stessa cosa infrangerla o far sì che ceda il passo. Nel primo caso l’uso della forza non distrugge la legge, anzi lo stesso urto con cui la s’infrange ne fa sentire l’esistenza e mette in luce il torto e l’ingiustizia. Nel secondo caso è la stessa legge che, per così dire, si prostituisce: in questo caso le passioni non hanno bisogno della violenza per aprirsi il passo, è la legge stessa che apre loro spudoratamente la porta. Da quel momento essa resta avvilita e degradata; fa traballare lo stesso principio morale che le serve da fondamento; è come in pena per la sua complicità iniqua e diviene oggetto di rimprovero e di critica da parte di coloro che sono tuttavia costretti a rispettarla.

Riconosciuto allora che fra i Germani vigeva il privilegio di poligamia a favore dei potenti, questa usanza col tempo doveva passare anche alle altre classi del popolo: ed è molto probabile che ciò sia avvenuto quando l’occupazione di nuovi paesi più fertili e temperati, e un certo progresso nello stato sociale procurarono loro una maggiore abbondanza di mezzi per soddisfare le più urgenti necessità. Un male così grave si poté impedire soltanto grazie alla severità inflessibile della Chiesa cattolica. I nobili e i re conservavano tuttavia una forte inclinazione al privilegio di cui, come abbiamo visto, godettero i loro antenati prima di abbracciare la religione cristiana; ed è per questo che nei primi secoli dopo l’invasione la Chiesa ottenne a stento di trattenerli nelle loro violente inclinazioni. Coloro che si sono dedicati con tanto zelo a scoprire tra i Germani tanti elementi della civiltà moderna, non avrebbero forse avuto miglior successo se nei costumi da noi indicati sopra avessero trovato una delle cause che produssero tanti e così frequenti scontri tra i prìncipi e la Chiesa?

Non riesco a capire perché si debba andare a cercare nei boschi dei barbari l’origine di una delle più belle qualità che fanno onore alla nostra civiltà, o perché si voglia attribuire a loro delle virtù di cui certamente non mostrarono di essere molto provvisti quando piombarono sulle contrade del

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Mezzogiorno! Senza testimonianze, senza storia, e con pochissimi indizi sullo stato sociale di quei popoli, è ben difficile, per non dire impossibile. stabilire qualcosa di certo intorno ai loro costumi: ma cosa mai doveva essere la moralità in mezzo a tanta ignoranza, a tanta superstizione e barbarie?

Il poco che sappiamo di quei popoli abbiamo dovuto apprenderlo dagli storici romani; e sfortunatamente non è questa una delle migliori fonti per attingervi acqua pura. Accade quasi sempre che gli osservatori, particolarmente quando sono guerrieri che vanno a conquistare, possono semplicemente dare qualche ragguaglio dello stato politico dei popoli poco conosciuti che essi osservano, non dicendo poi quasi niente di ciò che riguarda lo stato sociale e la famiglia. Per formarsi un’idea su questi ultimi aspetti sarebbe necessario introdursi tra le popolazioni da osservare e mescolarsi intimamente con la loro gente, cosa che non è possibile dato il diverso livello di civiltà alla quale appartengono; tanto meno quando gli osservatori e gli osservati sono divisi da un odio tenace, conseguenza di lunghi anni di guerra mortale. Si aggiunga che in simili casi ciò che richiama maggiormente l’attenzione è quello che può favorire o contrastare i disegni dei conquistatori, ai quali in genere non interessano le condizioni morali. Ed ora vedremo perché si ha una conoscenza solo superficiale dei popoli che costituiscono l’oggetto di simili osservazioni, e quanto poco dobbiamo fidarci di tutti i racconti relativi alla religione e ai costumi.

Giudichi il lettore la fondatezza di queste considerazioni quando si tratta di valutare adeguatamente il valore dei racconti che i Romani ci fanno riguardo ai barbari. Basta fissare lo sguardo su quelle scene di sangue e quegli orrori protrattisi per secoli, nei quali si vedeva da una parte l’ambizione di Roma che, non contenta del dominio del mondo conosciuto voleva estenderlo fino al di là delle più recondite e insidiose selve del Nord, e dall’altra l’indomabile spirito d’indipendenza dei barbari che rompevano le catene e con violenti attacchi distruggevano le barriere con cui la maestria dei generali romani faceva ogni sforzo per rinchiuderli nei loro boschi.

Comunque sia, si corre sempre un grande rischio quando si va a cercare nella barbarie una delle più belle gemme della civiltà, e a spiegare per mezzo di sentimenti superstiziosi e vaghi ciò che per lo spazio di molti secoli ha formato, e forma tuttora, il modo di vivere di quell’insieme di popoli, i più progrediti che mai si fosse visto al mondo. Se questi nobili sentimenti (che ci vogliono convincere essere derivati dai barbari) esistevano realmente tra loro, come mai non vennero meno nel periodo delle invasioni e delle agitazioni? Se nulla è rimasto di quello stato sociale, saranno proprio questi sentimenti l’unica cosa che si sia conservata, non già in un modo qualunque, ma sfrondati della

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superstizione e della rozzezza, purificati, nobilitati e trasformati in un sentimento ragionevole, giusto, salutare, cavalleresco, degno dei popoli civili? Tali e tante asserzioni presentano a prima vista il carattere di arditi paradossi. Perciò quando è necessario spiegare grandi fenomeni nell’ordine sociale, una corretta impostazione filosofica è quella di cercare l’origine dei princìpi che hanno esercitato per lungo tempo una vigorosa influenza sulla società, nei costumi e nelle istituzioni derivati da tali princìpi, e nelle leggi riconosciute e venerate per molti secoli come stabilite da un’autorità divina.

E perché allora per spiegare la stima di cui godono le donne europee dobbiamo ricorrere alla venerazione superstiziosa tributata dai popoli barbari, là nei loro tuguri primitivi, a Velleda, ad Aurinia o a Gauna? La ragione, il semplice senno, ci dicono che non è questa la vera origine del meraviglioso fenomeno che andiamo esaminando; che è necessario cercare altrove l’insieme di cause che hanno concorso a produrlo. La storia ci rivela queste cause, o per meglio dire ce le rende tangibili, presentandocele con una grande abbondanza di prove che non lasciano il minimo dubbio sul principio da cui è derivata un’influenza così benefica e sublime. Prima del Cristianesimo la donna era oppressa sotto la tirannia dell’uomo, poco più su del grado di schiava: debole com’era, si vedeva condannata a cedere al più forte. Venne la religione cristiana, e con le sue dottrine di fratellanza in Gesù Cristo e di uguaglianza di fronte a Dio senza distinzione di condizioni o di sesso, distrusse il male fin dalla radice, insegnando all’uomo che la donna non deve essergli schiava, ma compagna. Da allora in poi la condizione della donna migliorò ovunque il Cristianesimo andava diffondendosi; e nonostante la resistenza che gli antichi costumi opponevano a questo cambiamento, la donna raccolse ben presto il frutto di un insegnamento che portò a cambiarne completamente la condizione, donandole, per così dire, una nuova esistenza. Ecco una delle prime cause del miglioramento dello stato della donna: causa tangibile, lampante, facile a stabilire senza ricorrere a supposizioni gratuite, che non si fonda su congetture e che salta agli occhi con uno solo sguardo che venga dato ai fatti più noti della storia.

Oltre a ciò il Cattolicesimo, con la severità della sua morale e con la rigida difesa a favore del delicato sentimento del pudore, corresse e purificò i costumi. In questo modo venne rivalutata la donna, la cui dignità è incompatibile con la corruzione e con la licenziosità. Finalmente lo stesso Cattolicesimo, ossia la Chiesa cattolica (e si noti bene che non diciamo il Cristianesimo), con la sua fermezza nello stabilire e conservare la monogamia e l’indissolubilità del matrimonio pose un freno ai capricci dell’uomo e ne convogliò i sentimenti sulla sposa unica e inseparabile. Così con questo

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insieme di cause la donna passò dalla condizione di schiava a quella di compagna dell’uomo, da strumento di piacere a degna madre di famiglia, fatta oggetto di stima e di rispetto da parte dei figli e dei famigliari. Così si creò nelle famiglie una corrispondenza d’interessi e fu garantita l’educazione dei figli risultandone quell’intimità che rende uniti marito e moglie, padre e figli senza l’atroce diritto di vita e di morte, e neanche la facoltà di eccedere nei castighi. Il tutto unito da legami forti ma soavi basati sui princìpi della sana morale, sostenuti dai costumi, rafforzati e custoditi dalle leggi, appoggiati sulla reciprocità degli interessi, assicurati col sigillo della continuità e raddolciti dall’amore. Ecco decifrato il mistero, ecco spiegata in modo del tutto soddisfacente l’origine della riabilitazione e della dignità della donna europea; ecco da dove nasce quel tipo dignitoso di famiglia che noi europei abbiamo senza apprezzarlo, senza conoscerlo abbastanza e senza provvedere, come dovremmo, alla sua conservazione.

Nel prospettare questa importante materia ho distinto a bella posta tra il Cristianesimo e il Cattolicesimo per evitare quella confusione di termini che ci avrebbe portato alla confusione delle conclusioni. Perché in realtà il vero ed unico Cristianesimo è il Cattolicesimo; ma adesso siamo nella dolorosa necessità di non poter far uso indistintamente di queste parole. E non è solamente a causa dei Protestanti, ma anche di quella mostruosa terminologia filosofico-cristiana che non dimentica mai di mettere il Cristianesimo tra le sétte filosofiche, come se questa religione divina non fosse altro che un sistema generato dalla mente dell’uomo. Siccome il principio di carità risalta subito ovunque si trovi la religione di Gesù Cristo, e si rende visibile anche agli occhi degli increduli, quei filosofi che hanno voluto rimanere nell’incredulità, senza però incorrere nella taccia di volterriani, si sono serviti delle parole di fratellanza ed umanità per usarle come argomento dei loro insegnamenti, attribuendo principalmente al Cristianesimo l’origine di queste idee sublimi e dei generosi sentimenti che ne derivano. Così fanno finta di non romperla del tutto con la storia del passato, come vagheggiava nei suoi vaneggiamenti la filosofia del secolo precedente, ma pretendono di adattare tutto al tempo presente e di preparare la strada ad un più grande e più prospero avvenire.

Non si creda però che il Cristianesimo di questi filosofi sia una religione divina. Nulla di ciò: è un’idea felice, grandiosa, produttiva di grandi effetti; ma non è che un’idea puramente umana. È il frutto di lunghe e faticose attività umane. Il politeismo, il giudaismo, la filosofia d’Oriente, quella d’Egitto; quella di Grecia: tutto questo fu una specie di lavoro preparatorio per la grande opera finale. Gesù Cristo, secondo loro, altro non fece che ordinare questo pensiero, il quale si muoveva come in embrione e si agitava in seno

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all’umanità: Egli ne fissò l’idea, la sviluppò, e facendola discendere sul terreno della pratica fece fare al genere umano un passo di enorme importanza nel cammino della perfezione verso la quale è diretto. Ma in ogni caso Gesù Cristo, agli occhi di questi filosofi, non è altro che un filosofo della Giudea, come Socrate è della Grecia e Seneca di Roma. Ed è già non poca fortuna se gli consentono di essere esistito come uomo, e non piaccia invece loro di trasformarlo piuttosto in un essere mitologico convertendo la narrazione del Vangelo in una pura allegoria!

Ai tempi d’oggi è quindi della massima importanza distinguere il Cattolicesimo dal Cristianesimo ogni volta che si debba chiarire questa materia e descrivere gli immensi benefìci di cui tutti i popoli sono debitori alla religione cristiana. Conviene dimostrare che ciò che ha rigenerato il mondo non è stata un’idea gettata a caso in mezzo a tante altre che si contrastavano la preferenza e il predominio, ma un insieme di verità e di precetti discesi dal cielo e trasmessi all’umanità da un Uomo-Dio per mezzo di una società formata e approvata da Lui stesso affinché permanesse fino alla consumazione dei secoli l’opera che Egli stabilì con la parola, sanzionò coi miracoli e sigillò col proprio sangue. È ragionevole, pertanto, presentare questa società, che è la Chiesa cattolica, la quale realizza con le sue leggi ed istituzioni le ispirazioni e gl’insegnamenti del divino Maestro, e compie nello steso tempo l’alto destino di guidare gli uomini all’eterna felicità e di migliorarne le condizioni, di consolarli e ridurne le pene in questa terra di miserie. Così si manifesta in concreto il Cristianesimo, o per meglio dire si mostra qual è effettivamente e non quale lo fa credere il vano ragionare dell’uomo.

E bisogna notare, per quanto riguarda la verità, che non dobbiamo mai temere un esame approfondito dei fatti storici. Perché se nel vasto campo in cui siamo portati da simili ricerche troviamo talvolta l’oscurità; se camminiamo per lunghi tratti in sentieri sotterranei dove non penetrano i raggi del sole e troviamo il terreno oscillante sotto i piedi che minaccia di sprofondare; non dobbiamo esitare di procedere con ancora maggior spirito e coraggio, perché svoltando ad un tratto dalla più terrificante curva scorgeremo in lontananza la luce che illumina l’estremità del cammino, e la Verità seduta sulla soglia che sorride serenamente come per consolarci dei nostri timori e delle nostre angosce.

Intanto però è necessario dirlo sia a questi filosofi che ai Protestanti: se il Cristianesimo non si fosse sviluppato in una società visibile che sia concretamente in contatto con gli uomini e che sia autorizzata ad ammaestrarli e dirigerli, altro non sarebbe che una teoria simile a tante altre che si son viste e si vedono ancora sulla terra; e di conseguenza sarebbe se non del tutto sterile,

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almeno impotente ad innalzare alcuna di quelle opere che nella loro immutabilità attraversano il corso dei secoli. E una di queste è senza dubbio il matrimonio cristiano e il tipo di famiglia che ne è stata la conseguenza immediata. Invano si sarebbero diffuse idee favorevoli alla dignità della donna e dirette a migliorarne la condizione se la santità del matrimonio non fosse stata garantita da una autorità da tutti riconosciuta e venerata. Le passioni, che ad onta di questa autorità facevano tuttavia ogni sforzo per farsi largo, cosa avrebbero mai fatto qualora non avessero trovato altro ostacolo che quello di una teoria filosofica, o di una idea religiosa portata da una società priva di quell’autorità che esige sottomissione e ubbidienza?

Non abbiamo dunque bisogno di ricorrere a questa filosofia stravagante che cerca la luce in mezzo alle tenebre, e che constatando che l’ordine è subentrato al caos, nel suo fantasticare si è appigliata al ripiego di affermare che l’ordine fu prodotto dal caos. Visto che noi troviamo nelle dottrine e nelle leggi della Chiesa cattolica l’origine della santità del matrimonio e della dignità della donna, perché dovremmo andare a cercarla nei costumi primitivi di alcuni barbari, che a mala pena avevano un velo di pudore nei segreti del talamo nuziale? Cesare, parlando dell’usanza dei Germani di ritenere vergognoso conoscere le donne prima di vent’anni, dice: «eppure non si nasconde nulla, poiché nei fiumi si bagnano promiscuamente, e si coprono solo con certe pelli che lasciano nuda gran parte del corpo» («Cuius rei nulla est occultatio, quod et promiscue in fluminibus perluuntur et pellibus aut paruis rhenorum tegumentis utuntur, magna corporis parte nuda» –De Bello Gallico lib. 6, XXI).

Mi sono visto obbligato a portare delle testimonianze per dissipare i castelli in aria fatti per il gusto di cavillare, e di andare in cerca di cause estranee, quando si tratta di spiegare dei fenomeni di cui si trova facilmente l’origine se soltanto si ricorra con sincerità e buona fede a ciò che c’insegnano di comune accordo la filosofia e la storia. E così era necessario fare, perché si trattava di chiarire uno dei punti più delicati della storia del genere umano, e di cercare la sorgente di uno dei più fecondi elementi della civiltà europea: si trattava niente meno che di comprendere bene l’ordine della famiglia, vale a dire di fissare uno dei poli su cui gira l’asse della società.

Si glori pure il Protestantesimo di avere introdotto il divorzio, di avere spogliato il matrimonio del bello e sublime carattere di sacramento, di aver sottratto dalle premure e dalla protezione della Chiesa l’atto più importante della vita dell’uomo; si rallegri pure di aver distrutto i sacri asili delle vergini consacrate al Signore e di aver tanto contrastato la più angelica e la più eroica delle virtù. Quanto a noi, dopo aver difeso la dottrina e la prassi della Chiesa cattolica al tribunale della filosofia e della storia, concluderemo invocando il

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giudizio, non proprio dell’alta filosofia, ma del semplice buon senso e delle ispirazioni del cuore (18). Torna all’indice

CAPITOLO XXVIII La coscienza pubblica. Sua definizione. Cause che la formano. Confronto tra la coscienza pubblica delle società moderne e quella delle antiche. La coscienza pubblica è dovuta all’influenza del Cattolicesimo. Mezzi di cui si servì il Cattolicesimo per formarla.

Avendo parlato nel capitolo XX delle principali caratteristiche che distinguono la civiltà europea, ho indicato tra queste «un’ammirevole coscienza pubblica, ricca di sublimi princìpi morali, di regole di giustizia e di equità, di sentimenti d’onore e di decoro, coscienza che resta sempre viva anche quando fallisce la morale privata, e che non permette che la spudoratezza della corruzione giunga agli eccessi dei popoli antichi». Ora sarà opportuno spiegare più estesamente in che consista questa coscienza pubblica, quale sia l’origine e quali gli effetti; esaminando nello stesso tempo quale parte abbia avuto il Protestantesimo nel formarla e quale il Cattolicesimo: questione importante e delicata, e che oserei dire tuttavia non ancora affrontata perché non credo che qualcuno se ne sia mai occupato. Si parla continuamente dell’eccellenza della morale cristiana, e su questo punto sono d’accordo tutte le sétte e le scuole d’Europa; ma non si bada abbastanza al modo con cui questa morale è giunta a dominare tutto, allontanando per prima cosa la corruzione del paganesimo, e poi continuando a sostenersi nonostante i danni causati dall’incredulità, e formando un’ammirevole coscienza pubblica alla quale sono dovuti tutti i benèfici effetti, che peraltro non vengono apprezzati quanto meritano, e forse senza neanche che di essi ci si avveda.

Potremo addentrarci meglio nella materia se prima di tutto ci formiamo un’idea ben chiara di ciò che s’intende per coscienza. Per coscienza, presa questa parola in senso generale, o meglio concettuale, s’intende la cognizione che ciascuno ha dei suoi propri atti. Così si dice che l’anima ha coscienza dei suoi pensieri, degli atti della sua volontà, delle sue sensazioni; in modo che, presa con questo significato, la parola coscienza esprime la percezione di ciò che stiamo facendo o sentendo.

Applicata all’ordine morale, questa parola esprime il giudizio che ci formiamo delle nostre azioni: se sono buone o cattive. Così, prima di fare un’azione, la coscienza ce la mostra come buona o cattiva, e di conseguenza come lecita o illecita, regolando in tal modo la nostra condotta. E dopo averla

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compiuta, la coscienza ci dice se abbiamo agito bene o male, giustificandoci o condannandoci, premiandoci con la pace del cuore o tormentandoci col rimorso. Premesse queste cose non sarà difficile capire cosa debba intendersi per coscienza pubblica, la quale non è altro che il giudizio formato dalla generalità degli uomini sulle azioni. Ne consegue allora che come la coscienza privata può essere retta o erronea, giusta o indebolita, lo stesso succede per quella pubblica; e che tra la generalità degli uomini di società diverse ci deve essere una differenza simile a quella che si nota tra gli individui: cioè che come in una stessa società si trovano uomini di una coscienza più o meno retta, più o meno erronea, più o meno giusta, più o meno indebolita, anche nelle società ce ne saranno alcune che superano le altre nel formare il giudizio più o meno giusto sulla moralità delle azioni, e che su questo aspetto sono più o meno sensibili.

Se si osserva bene, la coscienza dell’individuo è il risultato di varie cause molto diverse tra loro. È un errore credere che la coscienza risieda solamente nell’intelletto: essa ha le radici nel cuore. La coscienza è un giudizio, è vero: ma giudichiamo le cose in una maniera molto diversa secondo il modo con cui le sentiamo. E se a questo si aggiunge che, trattandosi di idee e di azioni morali, i sentimenti hanno un’influenza grandissima, ne risulta che la coscienza si forma sotto l’influsso di tutte le cause che agiscono con qualche efficacia sul nostro cuore. Comunicate a due fanciulli gli stessi princìpi morali, ammaestrandoli per mezzo dello stesso libro e dello stesso maestro; ma supponete che uno veda nella propria famiglia l’applicazione continua dell’istruzione che riceve, mentre l’altro non osserva nella propria che distacco o distrazione. Considerate ora questi due fanciulli una volta entrati nell’adolescenza con la stessa convinzione religiosa e morale, di modo che per quanto riguarda l’intelletto non si noti tra i due la minima differenza. Credete voi che nonostante ciò il loro giudizio sarà identico sulla moralità delle azioni che si vanno loro presentando? È certo che non lo è! E questo perché? Perché l’uno non ha che convincimenti, l’altro ha in più i sentimenti; nell’uno la dottrina illustrava la mente, nell’altro l’esempio continuo incideva la dottrina nel cuore. Ne deriva che ciò che il primo guarderà con indifferenza l’altro lo contemplerà con orrore; quello che il primo compierà svogliatamente il secondo lo eseguirà con molta attenzione; ciò che per uno sarà oggetto di mediocre interesse, per l’altro sarà di somma importanza.

La coscienza pubblica, che poi alla fin fine viene ad essere in certo qual modo la somma delle coscienze private, è soggetta alle stesse influenze di queste; e lo è a tal punto che neanche ad essa è sufficiente l’insegnamento, ma è necessario anche il concorso di altre cause che possono, non solamente

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educare l’intelletto, ma anche formare il cuore. Paragonando la società cristiana con la pagana si vede a colpo d’occhio che su questo punto la cristiana si trova molto al di sopra della pagana, sia per la purezza della sua morale e la forza dei princìpi e dei motivi che la distinguono, che per il saggio sistema che adotta: quello d’insistere continuamente con l’insegnamento della morale stessa, facendo sì che s’imprima sempre più profondamente nell’animo di coloro che l’imparano; e di richiamarla incessantemente affinché non sia dimenticata.

Con questo continuo ripetere le stesse verità il Cristianesimo ottiene quello che non possono ottenere le altre religioni, delle quali nessuna è riuscita ad organizzare e seguire un sistema di tale efficacia. Ma essendomi abbastanza dilungato su questo aspetto nel capitolo XIV, non starò qui a ripetere ciò che dissi allora e passerò a fare delle riflessioni particolari sulla coscienza pubblica europea.

Non si può negare che in questa coscienza dominano, generalmente parlando, la ragione e la giustizia. Scorrete i codici e osservate i fatti, e sia nelle leggi che nei costumi non troverete quelle disgustose ingiustizie e quelle ributtanti immoralità che s’incontrano negli altri popoli. Vi sono dei mali, certo, e molto gravi anche, ma almeno li conosce e li chiama tutti col loro nome: non viene certamente chiamato bene il male e male il bene. In certe cose insomma la società assomiglia a quegl’individui di buoni princìpi e di cattivi costumi, i quali sono i primi a riconoscere che la loro condotta è biasimevole e che vi è contraddizione tra le loro dottrine e il loro agire.

Ci lamentiamo frequentemente della corruzione dei costumi e della depravazione delle nostre grandi città; ma che sono mai la corruzione e la depravazione delle società moderne a paragone della sfrenatezza delle società antiche? Non può negarsi che in alcune capitali d’Europa non vi sia una corruzione che fa spavento: nei registri della polizia è segnato un numero terribile di donne di malaffare; nelle case di accoglienza un ugual numero di bambini esposti; e nelle classi più agiate l’infedeltà coniugale e ogni genere di dissolutezza e disordine producono danni dolorosi. Ciò nonostante gli eccessi sono ben lontani dal giungere a quelli dei popoli più evoluti dell’antichità, i Greci e i Romani, sì che la nostra società, così come noi stessi la vediamo con tanto nostro rammarico, a loro sarebbe parsa un modello di pudore e di decoro. Vi sarà forse bisogno di rammentare i vizi abominevoli tanto comuni e tanto diffusi allora e che adesso appena si nominano tra noi, o perché si commettono ben rare volte, o perché temendo lo sguardo della coscienza pubblica si nascondono tra le più dense tenebre, e per così dire nelle viscere della terra? Sarà forse necessario richiamare alla memoria le infamie di cui sono macchiati gli scritti degli antichi che ci descrivono i costumi del loro tempo? Nomi

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illustri nelle scienze e nelle armi sono passati alla posterità con macchie così nere che con grande difficoltà verrebbero oggi riportate in uno scritto: la qual cosa ci rivela la profonda corruzione in cui erano immerse tutte le classi di quell’epoca, quando era pubblicamente conosciuto, o almeno sospettato, il livello di degradazione al quale erano giunti quegli uomini che per il loro rango e per altri motivi erano le guide della società di allora.

Vogliamo parlare della cupidigia, di quella sete dell’oro presente ovunque e che tutto rovina? E allora considerate quegli usurai che dappertutto succhiavano il sangue del popolo, leggete i poeti satirici, e qui capirete quali erano le usanze riguardo a questo fenomeno; consultate gli annali della Chiesa e vedrete con quanta pena ha cercato di attenuare i mali causati da questa piaga. Leggete le testimonianze della storia romana e troverete la maledetta sete dell’oro, e gli spietati pretori che rubavano senza pudore portando a Roma in trionfo il frutto delle loro rapine, per vivere con uno sfarzo scandaloso e comprare i voti che dovevano procurar loro nuove cariche. No! Nella civiltà europea, nei popoli formati nel Cristianesimo non sarebbero a lungo tollerati mali così gravi. Si supponga pure il malgoverno, la tirannia, la corruzione dei costumi a qualunque grado si voglia; ma la coscienza pubblica alzerà la voce e guarderà con occhio torvo gli oppressori. Si potranno bensì commettere certe ingiustizie, ma la rapina non sarà mai elevata ad un sistema sfacciato, né mai diventerà una regola di governo. Le parole di giustizia, moralità e umanità che continuamente si ripetono tra noi, e non come parole vuote di senso, producono grandissimi effetti e impediscono grandi mali. L’atmosfera in cui viviamo è in un certo modo satura di queste idee, e con essa noi le respiriamo; e mille e mille volte la mano del colpevole ne viene trattenuta. Perché resistendo esse con forza incredibile alle dottrine materialiste e utilitaristiche, continuano ad esercitare sulla società un effetto incalcolabile. Vi è un sentimento di moralità che mitiga e domina tutto, sentimento la cui forza è tale che costringe il vizio a conservare le apparenze della virtù e a coprirsi con cento veli se non vuole essere oggetto della pubblica esecrazione.

Sarebbe logico pensare che la società moderna avrebbe dovuto ereditare da quella antica la corruzione, poiché è dai resti di questa che è stata formata, e proprio quando la corruzione dei costumi era giunta al più alto grado. È da notarsi inoltre che l’invasione dei barbari fu tanto lontana dal migliorare la situazione, che contribuì piuttosto a peggiorarla; e questo non solamente per la corruzione propria dei costumi brutali e feroci, ma anche per il disordine che introdussero nei popoli sottomessi abrogando le leggi, sconvolgendo gli usi e i costumi e annientando ogni autorità.

Da tutto questo risulta che tanto più è singolare il miglioramento della

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coscienza pubblica che contraddistingue i popoli europei, e che questo miglioramento non può attribuirsi ad altra causa che all’influenza di quel vitale e potente principio che per lunghi secoli operò in seno all’Europa.

È da notare in modo particolare la condotta tenuta dalla Chiesa riguardo a questo, essendo forse uno dei fatti più importanti della storia di quei tempi. Prendete un secolo qualunque, un secolo in cui la corruzione e l’ingiustizia erano più sfrenate, ed osserverete che per quanto ripugnanti ed immorali fossero i comportamenti, la legge rimaneva sempre pura: vale a dire che la ragione e la giustizia avevano sempre i loro banditori, anche quando sembrava che non dovessero essere ascoltati da nessuno. Le tenebre dell’ignoranza erano densissime, le passioni incontrollate non conoscevano più argine che bastasse a trattenerle, ma l’insegnamento e le ammonizioni della Chiesa non mancavano mai, come in tenebrosa notte brilla da lontano il faro che indica ai naviganti sperduti la speranza della salvezza.

Nel leggere la storia della Chiesa, quando si vedono riunirsi da ogni parte i Concili e proclamare le norme della morale evangelica e intanto si vedono dappertutto le cose più scandalose; quando si sente incessantemente insegnare il diritto, tanto violato e calpestato dal fatto, uno ovviamente si chiede: a che servono le parole, quando sono in pieno contrasto con i fatti? Ma nonostante ciò non si pensi che sia inutile una tale proclamazione, e non ci si scoraggi di dovere aspettare dei secoli per raccogliere il frutto della parola!

Quando in una società un principio viene proclamato per molto tempo, questo finisce sempre con l’acquistare un influsso; e se il principio è vero e contiene in sé un elemento vitale, prevale infine sugli altri che gli si oppongono, e diventa padrone di ciò che lo circonda. Lasciate dunque parlare la verità, lasciatela protestare, e protestare continuamente: solo questo impedirà che il vizio predomini, lo lascerà sempre col suo nome effettivo e impedirà all’uomo insensato di divinizzare le passioni e di metterle sugli altari dopo averle adorate nel suo cuore. Non dubitate che non sarà inutile questa protesta, e infine la verità uscirà vittoriosa e trionfante; perché la protesta della verità è la voce dello stesso Dio che condanna le usurpazioni della sua creatura.

E infatti così accadde: la morale cristiana, in lotta prima contro i dissoluti costumi dell’impero, e poi con la brutalità dei barbari, dovette attraversare molti secoli tra dure prove; ma finalmente trionfò su tutte e arrivò a dominare la legislazione e i costumi pubblici. Ed anche se non bisogna dire che portò quella e questi al grado di perfezione (il che richiederebbe la purezza della morale evangelica), tuttavia fece sparire le ingiustizie più ripugnanti, cacciò le usanze più feroci e mise un freno all’insolenza dei più sfacciati costumi. E ottenne per di più che il vizio fosse chiamato ovunque vizio, che non si

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mascherasse sotto mentite vesti e che non ottenesse con intollerabile sfacciataggine quelle apoteosi che ebbe presso gli antichi. Ed ora, nei tempi moderni, le tocca combattere contro quella scuola che stabilisce come unico principio della morale l’interesse personale: e sebbene sia vero che non riesca ad impedire i gravi danni conseguenti a questo insegnamento funesto, riesce però a ridurli. Guai al mondo se venisse un giorno in cui si potesse dire a viso aperto: la mia virtù è il mio interesse, il mio onore è il mio interesse, tutto è buono o cattivo secondo che mi procura una sensazione piacevole o sgradita! Guai al mondo il giorno in cui la coscienza pubblica non rigettasse con indignazione un linguaggio così spudorato!

L’occasione opportuna che mi si presenta, e il desiderio di chiarire ancora meglio una materia di tanta importanza, m’inducono a presentare alcune osservazioni intorno ad un’opinione di Montesquieu relativa ai censori della Grecia e di Roma. Se si tratterà di una digressione non sarà senza intenzione. Torna all’indice

CAPITOLO XXIX Analisi della teoria di Montesquieu sui princìpi su cui si fondano le varie forme di governo. Gli antichi censori. Perché le società moderne non li hanno. Cause che fecero fuorviare Montesquieu su questo punto. Equivoco del medesimo sull’onore. Quest’onore, se bene analizzato, è il rispetto alla [per la] coscienza pubblica. Illustrazione della materia con episodi storici.

Montesquieu ha affermato che le repubbliche si conservano con la virtù e le monarchie con l’onore; osservando inoltre che questo onore fa sì che non siano necessari tra noi i censori, come lo erano tra gli antichi. È senz’altro certo che nelle società moderne non esistono questi censori incaricati di vigilare sul mantenimento dei buoni costumi; ma non è altrettanto certo che la causa di tale differenza sia quella che viene assegnata dall’illustre pubblicista. Le società cristiane hanno i censori nati dei costumi nei ministri della religione. La Chiesa possiede la pienezza di questa magistratura, con questa differenza: che il potere censorio degli antichi era un’autorità puramente civile, mentre quello della Chiesa è un potere religioso, la cui origine e legittimazione discendono dall’autorità divina.

La religione dei Greci e dei Romani non esercitava, né poteva esercitare, questo potere censorio sui costumi. Per convincersi di tale verità basta leggere il celebre passo di S. Agostino da me inserito nel cap. XIV, passo di tanta importanza in questa materia che oserei pregare di rileggerlo. Questa è la

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ragione per cui in Grecia e a Roma troviamo i censori, che non si videro successivamente nei popoli cristiani. I censori erano un supplemento alla religione pagana, della quale mostravano chiaramente l’impotenza: infatti pur essendo essa padrona di tutta la società, non riusciva tuttavia a compiere uno dei primi doveri di ogni religione, quello cioè di vigilare sui costumi. È tanto vera questa mia osservazione che man mano che tra i popoli moderni è andata riducendosi l’influenza della religione e l’autorevolezza dei suoi ministri, sono comparsi nuovamente in certo qual modo gli antichi censori nell’istituzione che noi chiamiamo polizia. Quando mancano i mezzi morali è indispensabile usare quelli materiali: alla persuasione viene sostituita la violenza; e invece del missionario pieno di carità e di zelo, il colpevole si trova di fronte al ministro della forza pubblica. Molto è stato scritto sul pensiero di Montesquieu riguardo ai princìpi che sono alla base delle diverse forme di governo, ma forse non si e riflettuto abbastanza sul fenomeno osservato dal pubblicista, e che contribuì a fuorviarlo. Siccome questo è intimamente collegato al punto da me toccato sulle cause dell’esistenza dei censori, svilupperò con una certa ampiezza le osservazioni appena accennate.

Al tempo di Montesquieu la religione cristiana non era conosciuta a fondo come adesso per ciò che riguarda l’importanza sociale; e sebbene su questo punto l’autore dello Spirito delle leggi le tributò un elogio totale, non bisogna dimenticare quali siano stati negli anni della sua gioventù i pregiudizi anticristiani, e conviene aver presente che nello Spirito delle leggi egli è molto lontano dal rendere alla vera religione la giustizia che le è dovuta. Erano allora in gran voga le idee della filosofia irreligiosa che alcuni anni dopo sedussero tanti sciagurati ingegni; e Montesquieu non ebbe la forza sufficiente per dominare completamente quello spirito che tanto si estendeva, e che minacciava d’invadere e dominare tutto.

A questa causa se ne univa un’altra, che sebbene distinta dalla prima, mostrava peraltro la stessa origine; ed era il favore preconcetto per quanto c’è di antico, e un’ammirazione cieca per tutto ciò che era Greco o Romano. Ai filosofi di quel tempo sembrava che la perfezione sociale e politica fosse giunta al più alto grado presso quei popoli, che poco o nulla le si poteva aggiungere o levare; e che anche nella religione le loro leggende e le festività erano mille volte da preferirsi ai dogmi ed al culto della religione cristiana. Agli occhi dei nuovi filosofi il cielo dell’Apocalisse non poteva stare a paragone col cielo dei campi Elisi, la maestà di Jehovah era inferiore a quella di Giove; tutte le più sublimi istituzioni cristiane erano eredità dell’ignoranza e del fanatismo, le fondazioni più sante e benefiche dei luoghi pii erano opere dalle finalità sospette, nonché l’espressione e il mezzo di sordidi interessi; la pubblica

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autorità non era più che una atroce tirannia. Erano belle, giuste e benefiche solo le istituzioni pagane. In queste tutto era saggio, tutto conteneva profondi disegni, sommamente vantaggiosi per la società; solamente gli antichi avevano goduto dei vantaggi sociali, solo essi erano riusciti a dare ordine alla pubblica autorità con garanzia per la libertà dei cittadini. I popoli moderni dovrebbero piangere con lacrime di sangue per non poter far parte del via vai nel Foro, per non poter ascoltare oratori come Demostene e Cicerone, per essere privati dei giuochi olimpici, per non poter andare a vedere il pugilato degli atleti, per non avere la fortuna di professare una religione che quantunque piena d’illusioni e di menzogne, dava però a tutta la natura un interesse drammatico, animandone le fonti, i fiumi, le cascate, i mari, popolando i campi, le praterie e i boschi di ninfe leggiadre; dando all’uomo dei compagni del focolare domestico, e soprattutto rendendo la vita più sopportabile e gradita col togliere il freno alle passioni, che essa divinizzava sotto le forme più affascinanti.

In mezzo a tutti questi pregiudizi, com’era possibile comprendere bene le istituzioni dell’Europa moderna? Si capovolgeva tutto in modo deplorevole: era tutto da condannare senz’appello, e chiunque avesse osato prenderne le difese era considerato un uomo da niente o in malafede, e che non poteva ricevere altro aiuto che quello che gli veniva dai governi. Governi che erano a favore di una religione e di istituzioni che molto probabilmente (secondo questi filosofi) non dovevano tardare ad andare in rovina. Deplorevole sviamento dello spirito umano! Che direbbero adesso quegli scrittori se potessero sollevare il capo dalla tomba? Eppure non è ancora passato un secolo da quando la loro scuola cominciò ad avere influenza! E i loro discepoli sono stati per lungo tempo padroni di regolare il mondo come meglio pareva e piaceva loro; e non hanno fatto altro che far spargere fiumi di sangue, accumulando nuove esperienze e nuovi disinganni nella storia dell’umanità!

Ma torniamo a Montesquieu. Questo pubblicista, che tanto ha risentito dell’atmosfera in cui è vissuto, e che tra l’altro non mancò di avere qualche parte nel corromperla, comprese i fatti che agli occhi dell’osservatore si presentano con tanta evidenza, come anche comprese gli effetti della coscienza pubblica formatasi nei popoli europei grazie all’influsso del Cristianesimo; ma nel notare gli effetti non risalì alla vera causa, e si sforzò in ogni maniera di adattarli al sistema che aveva immaginato. Paragonando la società antica con la moderna scoprì una notevole differenza nella condotta degli uomini, ed osservò che tra noi si compiono le più eroiche e belle azioni, e si evitano anche molti vizi che contaminavano gli antichi. Ma si nota anche che gli uomini delle nostre società non hanno sempre quella forte tempra morale che dovrebbe caratterizzare in modo naturale la loro condotta. La cupidigia, l’ambizione,

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l’amore per i piaceri e le altre passioni regnano nel mondo, e basta dare un’occhiata intorno per riconoscerle ovunque. Ciò nonostante queste passioni non giungono mai a quegli eccessi che deploriamo negli antichi: vi è un freno misterioso che le trattiene prima di scagliarsi sulla preda che le lusinga, dànno sempre un’occhiata intorno per loro cautela, e non rischiano di abbandonarsi a certi eccessi se non son sicure di avere un fitto velo che le ricopra. Temono in modo particolare la vista degli uomini, e non possono vivere che nella solitudine e nelle tenebre. E qual è la ragione di questo fenomeno? Domandava a se stesso l’autore dello Spirito delle leggi: Gli uomini, avrà detto, molte volte agiscono non per virtù morale, ma per paura del giudizio che gli altri uomini daranno delle sue azioni: questo significa agire per onore. Questo è un fatto che si osserva in Francia e nelle altre monarchie di Europa: questo è dunque un carattere distintivo dei governi monarchici; e questa evidentemente è la base di tale forma politica; e qui è la differenza tra la repubblica e il governo assoluto.

Ascoltiamo l’autore stesso: «In che tipo di governo sono necessari i censori? In una repubblica dove il principio del governo è la virtù. Non sono solamente i delitti che distruggono la virtù, ma anche le negligenze, le mancanze, una certa indifferenza per l’amor di patria, gli esempi pericolosi, i semi di corruzione: le quali cose senza toccare le leggi, le eludono, e senza distruggerle le indeboliscono. Tutto questo deve esser corretto dai censori…

«Nelle monarchie non ce n’è bisogno perché sono fondate sull’onore, il quale di sua natura ha per censore tutto l’universo. Chiunque manca all’onore si trova esposto ai rimproveri di quegli stessi che non ne hanno» (Spirito delle leggi, lib. 5, c. XIX.). Ecco ciò che pensava questo pubblicista. Ciò nonostante se si riflette sulla cosa si rileva che egli prese un abbaglio portando sul piano politico e spiegando per mezzo di cause puramente politiche un fatto puramente sociale. Montesquieu assegna come tipico delle monarchie ciò che è comune a tutte le società moderne, e sembra che non abbia compresa la vera causa per cui in queste non è stata necessaria l’istituzione dei censori, come neanche indovinò il vero motivo di tale necessità nelle antiche repubbliche.

In Europa non ci sono state solo forme monarchiche di governo, se ne sono viste pure di repubblicane, ed anche potenti; e tuttora se ne trova qualcuna nient’affatto meschina. La monarchia stessa è andata soggetta a varie modificazioni, unendosi ora con la democrazia, ora con l’aristocrazia, ora esercitando un potere assoluto, ora agendo in un modo più o meno liberale. Con tutto ciò si trova dappertutto quel freno di cui parla Montesquieu, e che egli chiama onore; cioè quel potente stimolo a fare le azioni buone che è nello stesso tempo un forte ostacolo a fare le cattive, ostacolo costituito dal timore del giudizio che gli altri si formano di noi.

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«Nelle monarchie – dice Montesquieu – non c’è necessità di censori perché esse sono fondate sull’onore, e l’onore di sua natura fa avere per censore tutto l’universo». Parole interessanti perché ci svelano tutto il pensiero dello scrittore e allo stesso tempo ci mostrano l’origine del suo abbaglio. Parole che ci serviranno come chiave per decifrare l’enigma; e per farlo in modo conveniente all’importanza della materia e con la chiarezza necessaria ad un oggetto che per la complessità delle relazioni che abbraccia presenta qualche difficoltà, cercherò di esporre le idee con la maggiore precisione possibile.

Il rispetto per il giudizio degli altri è innato nell’uomo; e quindi è naturale che egli faccia o eviti di fare molte cose per riguardo a questo giudizio. Ciò si fonda su un fatto semplicissimo che consiste nell’amor proprio: non è altro che l’amore per la nostra buona reputazione, il desiderio che di noi si abbia un buon concetto, o il timore che invece se ne abbia uno cattivo da parte dei nostri simili. Queste sono cose troppo semplici e chiare perché ci sia bisogno di prove o commenti, o anche solo per richiederli.

L’onore è uno stimolo più o meno vivo, o un freno più o meno potente, secondo la maggiore o minore severità nel giudicare che supponiamo negli altri. Per questo motivo, quando si trova tra persone generose, l’avaro fa uno sforzo per sembrare splendido, così come lo scialacquatore si frena se si trova in compagnia di persone che amano l’economia. In una riunione dove i partecipanti siano in generale morigerati anche i libertini si mantengono entro i limiti del dovere; in un’altra invece, dove campeggi la licenziosità, giungono a prendersi certe libertà anche quelli che normalmente sono di costumi severi.

La società in cui viviamo va vista come una grande assemblea: se sappiamo che vi dominano norme severe; se udiamo proclamare ovunque le regole della sana morale; se ci formiamo il concetto che le persone con cui viviamo chiamano sempre ciascuna azione col suo nome senza che il giudizio su queste persone sia deformato dalla sregolatezza che talvolta possono avere nella loro condotta, in tal caso ci vedremo attorniati da ogni parte da testimoni e da giudici che non riusciremo a corrompere: e questo ci tratterrà in ogni momento dal desiderio di agire male, e ci servirà da sprone a comportarci sempre bene.

Accadrà invece il contrario se noi possiamo contare su molta indulgenza da parte della società nella quale ci troviamo: allora, anche ammettendo in noi lo stesso modo di pensare, il vizio non ci sembrerà più tanto brutto, né il delitto così detestabile, né la corruzione così ripugnante; i nostri pensieri saranno molto diversi rispetto alla moralità della nostra condotta, e coll’andar del tempo le nostre azioni arriveranno a sentire gli effetti della funesta influenza dell’atmosfera in cui viviamo.

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Ne deriva quindi che per formarci in cuore il sentimento dell’onore in modo tale che sia abbastanza efficace per evitare il male e produrre il bene, conviene che la società sia dominata dai princìpi di sana morale, così che questa sia una fede normalmente radicata. Se si ottiene questo si giungerà a formare certe abitudini sociali che moralizzeranno i costumi, e anche se non dovessero arrivare a prevenire la corruzione di molti individui, basteranno tuttavia per costringere il vizio a coprirsi di certe forme le quali, per quanto siano ipocrite, non mancheranno di contribuire al decoro dei costumi.

I benèfici effetti di queste abitudini dureranno anche dopo che si saranno considerevolmente indebolite le credenze che sono la base dei princìpi morali; e la società raccoglierà in abbondanza i frutti salutari di quello stesso albero che disprezza o che ignora. Questa è la storia della moralità delle società moderne, le quali quantunque corrotte in un modo deplorevole, non lo sono però quanto le antiche, e conservano ancora nella legislazione e nei costumi un fondo di moralità e di decoro che i guasti provocati dalle idee irreligiose non hanno potuto distruggere.

La coscienza pubblica è ancora viva: essa continua a censurare il vizio e ad esaltare la bellezza e i vantaggi della virtù; regna sui governi e sui popoli ed esercita il potente dominio di un elemento sparso ovunque e come diffuso nell’atmosfera che respiriamo.

«Oltre all’Areopago – dice Montesquieu – vi erano in Atene guardiani dei costumi e guardiani delle leggi: a Sparta tutti gli anziani erano censori; a Roma un magistrato particolare aveva l’incarico della censura. Come il Senato vigilava sul popolo, era ritenuto opportuno che vi fossero censori che rivolgessero l’attenzione sia sul popolo che sul Senato: questi censori avevano il compito di risanare nella repubblica quanto vi era di traviato, di constatare il disinteresse, giudicare le negligenze e correggere le mancanze, allo stesso modo che le leggi castigavano i delitti» (Spirito delle Leggi lib. 5 cap. VII). Pare che l’autore dello Spirito delle leggi nel descriverci i doveri degli antichi censori avesse in mente di fare un quadro delle funzioni di un potere religioso. Arrivare ove non giungono le leggi civili, correggere e, i un certo modo, castigare ciò che le leggi lasciano impunito; esercitare sulla società un’influenza più vicina e più minuziosa di quella che spetta al legislatore: ecco lo scopo dei censori. Chi non vede che tale potere è stato sostituito con efficacia dal potere religioso, e che il fatto che quello dei censori non è stato più necessario per la società moderna dipende dalla presenza di quello religioso o agli effetti dell’azione che questo ha esercitato per lunghi secoli?

Che questa influenza religiosa abbia guidato con grande autorità e per lungo tempo tutti gli intelletti e i cuori, è un fatto registrato in tutte le pagine

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della storia europea. Quale poi sia stato l’effetto di questa benefica influenza tanto calunniata e così male intesa, lo stiamo toccando con mano noi che ancora vediamo dominare nel pensiero e nella coscienza pubblica i princìpi di giustizia e di sana morale, nonostante i guasti che nelle coscienze individuali hanno provocato le dottrine irreligiose e immorali.

Per comprendere meglio il potente influsso di questa coscienza, sarà bene dimostrarlo con qualche esempio. Supponiamo che il personaggio più influente, o il più potente monarca si abbandoni ai detestabili eccessi ai quali si abbandonavano i Tiberi, i Neroni ed altri mostri che contaminarono il trono dell’impero. Ammesso ciò, che succederà? Non lo sappiamo: è certo però che ci sembra di sentire sollevarsi un grido di riprovazione e di orrore universale tanto forte; che ci pare di vedere il mostro tanto schiacciato sotto il peso della pubblica esecrazione, che sembra impossibile che un fatto del genere possa accadere. Ci sembra un anacronismo, un assurdità del tempo, non perché pensiamo che non vi siano uomini tanto immorali da commettere simili infamie, tanto perversi d’intelletto e di cuore per offrirci questi ignominiosi spettacoli; ma perché consideriamo che questo urta e s’infrange contro la morale universale, e che uno scandalo simile non potrebbe durare un solo istante agli occhi della coscienza pubblica.

Potrei presentare infiniti contrasti tra l’antica epoca e la moderna, ma mi accontenterò di uno solo il quale, ricordando un bel passo della storia antica e dipingendoci la virtù di un eroe, ci fa il ritratto dei costumi del tempo e della misera condizione della coscienza pubblica. Si supponga che un generale della nostra moderna Europa prenda d’assalto una piazzaforte dove una signora distinta, moglie di uno dei principali comandanti dell’esercito nemico, cada in potere della soldatesca. Condotta la bella prigioniera dal generale, quale sarà la condotta del vincitore? È chiaro che nessuno esiterà un momento a dire che la signora deve essere trattata con tutti i riguardi, che deve essere lasciata subito in libertà e che le debba essere permesso, se lo richiede, di raggiungere lo sposo. Questo comportamento lo troviamo così doveroso e naturale, e conforme a tutte le nostre idee e sentimenti, che sicuramente non riconosceremmo alcun merito particolare a chi agisca in questo modo. Diremmo che il generale vincitore compì un sacro dovere da cui era impossibile sottrarsi senza coprirsi d’obbrobrio e d’ignominia. Non raccomanderemmo certamente alla storia il compito di rendere immortale un fatto simile, e lo lasceremmo passare inosservato nel corso naturale dei normali avvenimenti. Orbene: questo è ciò che fece Scipione nella conquista di Cartagine con la moglie di Mardonio, e la storia antica ci racconta questa generosità come ad eterno ricordo delle virtù dell’eroe. Questo paragone spiega

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meglio di qualsiasi commento l’immenso progresso dei costumi e della coscienza pubblica sotto l’influenza cristiana.

E questo comportamento, che da noi è considerato del tutto naturale e obbligatorio, non trae origine dall’onore monarchico, come pretenderebbe Montesquieu, ma dalla maggiore elevazione di pensiero sulla dignità dell’uomo, da una conoscenza più chiara delle vere relazioni sociali, da una morale più pura e più forte perché è fondata su basi eterne. Questo, che si trova ovunque, che si fa sentire dappertutto, che esercita il suo dominio sui buoni ed impone rispetto anche ai cattivi, è il fortissimo ostacolo che ferma i passi dell’uomo immorale che ardisca allentare le briglie alla crudeltà o alle altre passioni.

La mente illustre dell’autore dello Spirito delle leggi sarebbe certamente arrivata a queste verità se non fosse stata prigioniera della sua concezione preferita, che stabilita fin dall’inizio dell’opera, la sottomette tutta ad un sistema inflessibile. Si sa cosa sono i sistemi quando, concepiti preventivamente, servono da modello per un’opera. Sono il vero letto di Procuste per le idee e per i fatti; per amore o per forza si deve adattare tutto al sistema: quello che sopravanza si tronca, quello che manca si aggiunge. Così vediamo che Montesquieu spiega lo stato di tutela delle donne romane con motivazioni politiche fondate sulla forma repubblicana; e pretende che l’atroce diritto dei padri sui figli, la patria potestà stabilita dalle leggi romane, che eccedevano oltre ogni limite, derivi ugualmente da ragioni politiche. Come se non fosse cosa evidente che l’origine di queste due disposizioni dell’antico diritto romano sia da ricercare in motivazioni puramente famigliari e sociali del tutto indipendenti dalla forma di governo (19). Torna all’indice

CAPITOLO XXX Due maniere di considerare il Cristianesimo: come dottrina, e come istituzione. Necessità che ha un’idea qualunque di personificarsi in una istituzione. Vizio radicale del Protestantesimo sotto questo aspetto. La predicazione. Il sacramento della Penitenza. Influenza della confessione auricolare sulla conservazione e purificazione della moralità. Osservazione sui moralisti cattolici. Forza delle idee. Fenomeni che esse presentano. Necessità delle istituzioni: non solo per insegnare, ma anche per applicare le dottrine. Influenza della stampa. Intuizione e discorso.

Definita la natura della coscienza pubblica, individuata la sua origine e mostratene gli effetti, ora ci resta da verificare se il Protestantesimo pretenderà

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di avere avuto parte nel formarla, e se si possa dire che abbia contribuito almeno in questo a perfezionare la civiltà europea.

È stato già dimostrato che l’origine della coscienza pubblica si trova nel Cristianesimo. Ora, il Cristianesimo può considerarsi sotto due aspetti: o come dottrina, o come istituzione destinata a mettere in pratica la dottrina stessa. Vale a dire che possiamo considerare la morale cristiana o in se stessa, o in quanto è insegnata e testimoniata dalla Chiesa. Per formare la coscienza pubblica facendovi prevalere la morale cristiana, non bastava che si mostrasse questa dottrina, ma era necessario che vi fosse una società la quale, non solamente la conservasse in tutta la sua purezza per trasmetterla di generazione in generazione, ma la predicasse incessantemente agli uomini affinché essi la mettessero in pratica in tutte le circostanze della vita. Conviene osservare che, per quanto sia grande la forza delle idee, esse tuttavia hanno sempre un’esistenza precaria fino a quando non giungano a realizzarsi in modo da rendersi, per così dire, visibili in qualche istituzione; la quale nel momento in cui ne riceve la vita e l’orientamento nell’agire, serve loro di riparo contro gli attacchi di altre idee o interessi. L’uomo è formato di anima e corpo, il mondo intero è un complesso di esseri spirituali e corporei, un’unione di relazioni morali e materiali; quindi un’idea, per quanto grande e sublime, se non è percepibile, se non ha un organismo mediante il quale farsi sentire e rispettare, comincia con l’essere dimenticata, poi rimane confusa e soffocata in mezzo ai rumori del mondo, e infine si estingue del tutto. Per questo motivo qualunque idea che vuole avere effetto sulla società e pretende di assicurarsi un avvenire, tende necessariamente a creare un’istituzione che la rappresenti e ne sia la personificazione. Non si accontenta di rivolgersi direttamente agli intelletti ed agire solo con mezzi indiretti, ma deve materializzarsi per comparire in modo tangibile agli occhi dell’umanità.

Queste riflessioni, che sottopongo con fiducia al giudizio degli studiosi avveduti, sono la condanna del sistema protestante. Perché mostrano chiaramente che la pretesa riforma è tanto lontana dal potersi attribuire una benché minima parte nella formazione della coscienza pubblica, che dobbiamo affermare, per i suoi princìpi e la sua prassi, che lo avrebbe piuttosto impedito, se l’Europa per sua fortuna nel secolo sedicesimo non avesse raggiunta la maturità ed era quindi pressoché incapace di abbandonare le dottrine, i sentimenti, i costumi e le tendenze che la Chiesa cattolica le aveva trasmesso con una educazione mai interrotta per la durata di tanti secoli.

Ed infatti la prima cosa che fece il Protestantesimo fu quella di attaccare l’autorità, non già con un semplice atto di opposizione, ma proclamando questa opposizione come un vero diritto, e innalzando a dogma il libero esame e lo

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spirito privato. Con questo solo passo la morale cristiana rimaneva senza sostegno perché non c’era più una società che potesse pretendere di avere il diritto di spiegarla o d’insegnarla: cioè questa morale veniva relegata nella categoria di quelle idee che non essendo rappresentate e sostenute da nessuna istituzione, e non avendo organismi autorizzati a farsi sentire, mancano di mezzi diretti per agire sulla società e non sanno a chi rivolgersi nel caso si vedano contestate.

Mi si obbietterà che anche il Protestantesimo ha conservato questa istituzione che converte in realtà l’idea, conservando i ministri, il culto, la predicazione: in una parola tutto il necessario perché la verità avesse i mezzi per giungere all’uomo e per comunicare continuamente con lui. Non negherò quello che c’è di vero in questa affermazione; anzi aggiungerò anche che nel capitolo XIV di quest’opera non ho avuto difficoltà ad affermare «che si deve considerare un gran bene il fatto che i primi Protestanti, nella smania da cui furono presi di distruggere tutte le usanze della Chiesa, conservassero tuttavia quella della predicazione». Si dice ancora nello stesso capitolo che senza «chiudere gli occhi sui danni che in certi tempi derivarono dalle predicazioni violente di alcuni loro ministri pericolosi o fanatici», e considerando tuttavia «la rottura dell’unità, e che i popoli sono stati sviati sul triste sentiero dello scisma, non c’è dubbio che la conservazione delle idee principali intorno a Dio e all’uomo, e delle massime fondamentali della morale, è stata favorita non poco dalla continua predicazione di queste verità da parte di chi le aveva precedentemente studiate nella Sacra Scrittura». Ripeto qui quanto dissi allora: l’usanza della predicazione, essendo stata conservata dai Protestanti, produsse senz’altro un grandissimo bene. Ma con questo non dico altro che il Protestantesimo, nonostante il molto male che ha fatto, non lo ha fatto però fino a quel punto estremo che poteva temersi considerando i suoi princìpi. Su questo punto fece come quegli uomini di cattivi princìpi i quali non sono tanto cattivi quanto lo sarebbero se il loro cuore fosse d’accordo con l’intelletto: ma hanno la fortuna di non essere coerenti con se stessi. Il Protestantesimo aveva proclamato l’abolizione dell’autorità e il diritto di esame senza restrizioni; aveva inoltre eretto a regola di fede e di condotta l’ispirazione privata. Ma in pratica si allontanò alquanto da queste dottrine, e così si applicò con tutto l’ardore a quella che esso chiamava predicazione evangelica, e i suoi ministri furono chiamati evangelici. E mentre stabiliva che ognuno aveva il diritto al libero esame, e che senza dare ascolto a qualsiasi autorità esterna doveva solamente ascoltare i consigli della sua ragione o della sua ispirazione privata, i ministri protestanti, che contrariamente ai loro princìpi pretendevano di essere i canali legittimi per comunicare ai popoli la divina parola, si sparpagliavano in

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tutte le direzioni. Sarà più chiara la stravaganza di questa contraddizione quando si porrà

mente alla dottrina di Lutero riguardo al sacerdozio. È risaputo che l’eresiarca, infastidito dalle gerarchie che costituiscono il ministero della Chiesa, pretese di annientarle tutte in una volta col pretesto che tutti i Cristiani sono sacerdoti, e che per esercitare il sacro ministero non c’era bisogno che di una semplice presentazione, la quale non aggiungeva nulla di essenziale né alcun carattere alla prerogativa di sacerdote, perché questa prerogativa era patrimonio di tutti i fedeli. Da tale dottrina consegue che il predicatore protestante manca di missione, non ha un carattere che lo distingua dagli altri Cristiani, e di conseguenza non può esercitare su di loro alcuna autorità, né può parlare ad imitazione di Gesù Cristo quasi potestatem habens: e perciò non è che un oratore che prende la parola in presenza di uditori con quel solo diritto che gli è dato dalla conoscenza della dottrina, dalla facondia e dall’eloquenza.

Questa predicazione senza autorità, predicazione che in sostanza e secondo gli stessi princìpi del predicatore non era che umana quantunque con evidente contraddizione venisse considerata divina, poteva sì contribuire alquanto a mantenere vive le sane norme morali che erano già state diffuse ovunque, ma sarebbe stata impotente per impiantarle in una società dove non fossero conosciute; specialmente se avesse avuto da lottare contro altre completamente opposte e sostenute da pregiudizi inveterati, da passioni ben radicate e da forti interessi. Sarebbe stata impotente per introdurre i suoi princìpi in una società come questa e conservarli poi intatti in mezzo alle rivoluzioni più spaventose e ai più inauditi sconvolgimenti; sarebbe stata impotente per comunicarli a popoli barbari, che insuperbiti dei loro trionfi non ascoltavano altra voce che quella dell’istinto della loro ferocia guidato dal sentimento della forza. Sarebbe stata impotente per far piegare il capo di fronte a questi princìpi tanto ai vincitori che ai vinti, fondendoli in un popolo solo, imprimendo lo stesso sigillo alle leggi, alle istituzioni, ai costumi, per formare quelle società mirabili, quel complesso di nazioni, o per dir meglio quella grande nazione, che si chiama Europa. In una parola il Protestantesimo per la sua stessa costituzione sarebbe stato incapace di effettuare quello che attuò la Chiesa cattolica.

Ma c’è dell’altro: questo simulacro di predicazione è in sostanza un tentativo di imitare la Chiesa, che il Protestantesimo ha mantenuto per non restare disarmato davanti ad un avversario da lui tanto temuto. Era necessario conservare un mezzo per influire sul popolo, una via per comunicargli le diverse interpretazioni della Bibbia, cioè le interpretazioni che agli usurpatori dell’autorità facesse comodo adottare; e per questo il Protestantesimo

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conservava la preziosa pratica della Chiesa romana ad onta delle furibonde prediche contro tutto ciò che proveniva dalla cattedra di S. Pietro.

Ma ciò che rende più evidente l’inferiorità del Protestantesimo, riguardo alla conoscenza e all’esatta comprensione dei mezzi più adatti a far crescere e consolidare la moralità affinché dòmini su tutti gli atti della vita, è l’aver eliminato ogni rapporto tra la coscienza del fedele e la guida del sacerdote, nel non aver lasciato a questo che una semplice direzione collettiva, la quale, estendendosi su tutti quanti contemporaneamente, non si esercita efficacemente su nessuno. Anche se vogliamo considerare l’abolizione tra i Protestanti del sacramento della Penitenza sotto quest’unico aspetto, possiamo assicurare che furono privati di un mezzo dei più legittimi, e insieme dei più potenti e soavi, per dare alla vita dell’uomo una direzione conforme ai princìpi della sana morale. Azione legittima, perché è legittima la comunicazione diretta ed intima della coscienza dell’uomo, che deve esser giudicata da Dio, con la coscienza di colui che rappresenta Dio in terra. Azione potente, perché stabilita che sia l’intima comunicazione tra uomo e uomo, tra anima e anima, s’identificano per così dire i pensieri e gli affetti, e non essendovi altro testimone che Dio, gli ammonimenti hanno più forza, i comandi più autorità, e gli stessi consigli giungono meglio fino in fondo all’anima, e con maggior persuasione e dolcezza. Azione soave, perché suppone la spontanea volontà della coscienza che vuole farsi guidare, volontà che trae origine da un precetto ma che non può essere forzata, dato che Dio è l’unico giudice della sua sincerità; soave, ancora, perché il ministro è obbligato al più stretto riserbo, ed essendo state adottate dalla Chiesa tutte le precauzioni immaginabili per impedirne la divulgazione, l’uomo può restare tranquillo con la certezza che i segreti della sua coscienza saranno rigorosamente mantenuti.

Forse si obietterà: credete per caso che tutto questo sia necessario per stabilire e conservare una sana moralità? Rispondo che se vogliamo che questa sia qualcosa di più di una rettitudine terrena soggetta a vanificarsi al primo apparire di un interesse, o a lasciarsi trascinare dalle seducenti lusinghe di passioni ingannatrici; se intendiamo una moralità delicata, severa, profonda, che si estenda a tutte le azioni della vita, che le diriga e le domini facendo del cuore umano quel sublime ideale che ammiriamo nei Cattolici consacrati alla vera osservanza e alle pratiche della religione; se è di questa moralità che parliamo, io dico che è necessario che sia sotto il controllo dell’autorità religiosa e che riceva la guida e le ispirazioni da un ministro della Chiesa, disponibile per una comprensione intima e sincera di tutti i più reconditi segreti del cuore e per le cadute a cui ci porta in ogni momento la debolezza della nostra natura umana. Questo è quello che insegna la religione cattolica, ed

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aggiungo: questo è quello che mostra l’esperienza e che insegna la buona filosofia. Non voglio dire con questo che solo tra i Cattolici sia possibile praticare azioni virtuose, che sarebbe un’esagerazione smentita dall’esperienza quotidiana; ma qui sto parlando unicamente dell’efficacia con cui opera un’istituzione cattolica disprezzata dai Protestanti; parlo della sua grande importanza per radicare e conservare una moralità ferma e intima che si estenda a tutti i moti della nostra anima.

Non c’è dubbio che nell’uomo è presente una mostruosa mescolanza di bene e di male, e che non è concesso all’uomo di giungere in questa vita a quella inesprimibile perfezione che consiste nella totale conformità alla verità e santità di Dio, e di cui non si può neanche avere un’idea se non quando l’uomo, spogliato del corpo mortale, avrà lo spirito immerso in un mare di purissima luce e di purissimo amore. Ma, allo stesso modo, non c’è dubbio che in questo soggiorno terreno, in questa realtà di miserie e di tenebre, l’uomo può arrivare al possesso di quella comune moralità delicata e profonda che abbiamo descritto. E qualunque sia la corruzione del mondo, di cui a ragione ci lamentiamo, è giusto anche affermare che si trova tuttavia un numero considerevole di rispettabili eccezioni nelle persone che si conformano nella condotta, nella volontà, e perfino nell’intimità dei loro pensieri ed affetti alla regola severa della morale evangelica. Per arrivare a questo grado di moralità (e notate che non diciamo di perfezione evangelica, ma di moralità) è necessario che il principio religioso sia vivamente presente agli occhi dell’anima, che agisca continuamente su di essa, incitandola o frenandola nell’infinita varietà di circostanze che si presentano nel corso della vita per allontanarci dal retto sentiero dei nostri doveri. La vita dell’uomo è una sequenza per così dire infinita di azioni che non possono andare sempre d’accordo con la ragione e con la legge eterna, a meno che non si stia incessantemente sotto una regola fissa e universale.

E non si dica che una simile moralità è solo un magnifico ideale, e che anche se esistesse porterebbe con sé una tale confusione nelle decisioni dell’anima, e di conseguenza una tale complicazione nell’intera vita, da finire col renderla insopportabile. Ebbene no, non è soltanto un magnifico ideale ciò che esiste in realtà e che si presenta frequentemente ai nostri occhi, non solamente nel ritiro dei chiostri e all’ombra del santuario, ma anche in mezzo ai rumori e alle distrazioni del mondo. E non porta neanche confusione nelle cose dell’anima, né complica le faccende della vita ciò che stabilisce una regola fissa. Al contrario, invece di confondere chiarisce e distingue, e invece di complicare ordina e semplifica. Stabilite questa regola e avrete la conformità di comportamento, e ad essa seguirà il più completo ordine.

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Il Cattolicesimo si è sempre distinto per la sua squisita vigilanza sulla morale e per la somma premura di regolare tutti gli atti della vita fino ai più segreti moti del cuore. Gli osservatori superficiali hanno sempre gridato contro il numero eccessivo di moralisti, contro lo studio minuto e prolisso delle azioni umane considerate sotto l’aspetto morale; ma avrebbero dovuto osservare che se il Cattolicesimo è la religione che ha generato il maggior numero di moralisti, e se tutte le azioni umane sono state analizzate tanto minutamente, è perché questa religione ha per scopo di moralizzare tutto l’uomo, per così dire, in tutti i sentimenti e nelle sue relazioni con Dio, con i suoi simili e con se stesso. È chiaro che un simile compito porta necessariamente ad un esame più profondo e minuto di quello che sarebbe necessario se si trattasse unicamente di dare all’uomo una moralità incompleta, che non penetri oltre la superficie degli atti per andare a scrutare nella parte più intima del cuore.

Giacché si è toccato il punto dei moralisti cattolici, e senza voler scusare quelli tra essi che eccedono ora esagerando nelle sottigliezze, ora per spirito di parte (eccesso che non si può mai imputare alla Chiesa cattolica, la quale anche quando non lo ha condannato espressamente ha sempre mostrato il fastidio che ne prova), si osserva che nonostante i detti eccessi quest’abbondanza, questo lusso, se preferite, di studi morali, ha contribuito forse più di quel che si creda a dirigere le menti allo studio dell’uomo, presentando una grande quantità di casi e di osservazioni a coloro che successivamente hanno voluto dedicarsi a questa importante scienza, che è senza dubbio uno dei più utili e più degni sostegni alle nostre fatiche. In un altra parte della presente opera ho intenzione di svolgere i rapporti del Cattolicesimo col progresso delle scienze e delle lettere, e così mi trovo nella necessità di accontentarmi per ora dei pochi cenni che ho qui dato. Mi si permetta inoltre di osservare che lo sviluppo dello spirito umano in Europa fu principalmente teologico; e che tanto per l’argomento che stiamo trattando quanto per molti altri, i filosofi sono debitori ai teologi molto più di quello che, a quanto pare, essi ritengano.

Tornando al confronto tra il Protestantesimo e il Cattolicesimo riguardo alla formazione e conservazione di una sana coscienza pubblica, resta dimostrato che avendo il Cattolicesimo sostenuto sempre il principio di autorità combattuto dal Protestantesimo, diede alle idee morali una forza e una direzione che non avrebbe potuto dar loro il Protestantesimo, il quale per la sua natura e per i suoi stessi princìpi fondamentali ha lasciato queste idee morali senza altro appoggio che quello che hanno le idee di una scuola filosofica.

«Orbene – mi si dirà – non conoscete forse la forza delle idee, forza intrinseca alla loro stessa natura, e che tanto spesso cambia la faccia dell’umanità decidendo della sua sorte? Non sapete che le idee si aprono il

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varco attraverso tutti gli ostacoli e nonostante tutte le resistenze? Avete voi dimenticato quanto ci insegna la storia? Pretendete forse di privare il pensiero dell’uomo della sua forza vitale e creatrice che lo fa superiore a quanto lo circonda?». Tale suole essere il panegirico della forza delle idee, così ce la presentano ogni volta come se avessero in mano la bacchetta magica per cambiare il mondo e trasformarlo tutto secondo i loro capricci. Rispettando più di chiunque altro il pensiero dell’uomo, e ammettendo che c’è molto di vero in quello che si chiama la forza di un’idea, gli entusiasti di questa forza mi permetteranno tuttavia di fare alcune osservazioni non per ribaltare la loro opinione, ma per modificarla in ciò che è necessario.

Innanzi tutto le idee, sotto l’aspetto con cui sono considerate adesso, si devono distinguere in due categorie: ci sono quelle che lusingano le nostre passioni, e quelle che le reprimono. Non si può negare che le prime hanno una forza espansiva, immensa. Circolando con moto proprio agiscono dappertutto, esercitano un’azione rapida e violenta, e pare che trabocchino di attività e di vita; le altre incontrano maggiore difficoltà per aprirsi la strada, progrediscono lentamente ed hanno bisogno di appoggiarsi a qualche istituzione che ne assicuri la stabilità. E questo perché? Perché nel primo caso non sono le idee che agiscono, ma le passioni che ne formano il corteo e ne prendono il nome, mascherando così ciò che a prima vista potrebbe apparire eccessivamente ripugnante. Nel secondo caso è la verità che parla, e la verità in questa terra di miserie viene ascoltata con molta difficoltà, perché essa conduce al bene, e il cuore dell’uomo, secondo l’espressione del sacro testo, è inclinato al male fin dall’adolescenza.

Quelli che esaltano tanto la forza intima delle idee dovrebbero indicarci nella storia antica e moderna un’idea, una sola, che rinchiusa nel proprio àmbito, cioè nell’ordine puramente filosofico, meriti la gloria di aver contribuito a migliorare sensibilmente l’individuo o la società.

Si sente dire di frequente che la forza delle idee è immensa, che le idee, una volta seminate tra gli uomini, presto o tardi portano il frutto, che deposte una volta nel seno dell’umanità si conservano a mo’di un prezioso deposito il quale, trasmesso di generazione in generazione, contribuisce mirabilmente a migliorare il mondo portandolo a quella perfezione cui è destinato il genere umano. Non c’è dubbio che in queste asserzioni vi sia una parte di verità; perché essendo l’uomo un essere intelligente, tutto ciò che produce un’impressione immediata sull’intelligenza non può fare a meno d’influire sulla sua sorte. Quindi non avverrà mai un grande cambiamento nella società se prima non sarà avvenuto sul piano delle idee; e quanto viene realizzato contro le idee o senza di esse è sempre debole e di poca durata. Ma tra questo e il

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supporre che ogni idea utile abbia in sé e per sé tanta forza da non aver bisogno di una istituzione che le serva di sostegno e di difesa, specialmente se deve farsi strada in tempi assai torbidi, c’è una tale immensa distanza, che non si può superare senza dare una smentita all’intera storia dell’umanità.

Non è come dicono questi filosofi. Perché l’umanità considerata in sé stessa e lasciata alle proprie forze, come essi vorrebbero, non è una depositaria tanto sicura quanto ci vogliono far supporre. Di tale verità abbiamo purtroppo delle ben tristi prove, poiché il genere umano, lungi dall’essere un depositario fedele, ha imitato piuttosto la condotta di un insensato scialacquatore. Nell’infanzia del genere umano troviamo le grandi idee sull’unità di Dio, sull’uomo e sulle sue relazioni con Dio e con i propri simili: e queste idee erano fuor di dubbio vere, salutari, feconde. Orbene, che ne fece il genere umano? Non le sprecò forse, modificandole, mutilandole e storpiandole in un modo deplorevole? Dove stavano queste idee quando venne al mondo Gesù Cristo? Che ne aveva fatto l’umanità? Un popolo, un solo popolo le conservava: ma in che modo? Fissate l’attenzione sul popolo eletto, sul popolo ebreo, e vedrete che in esso vi è stata sempre una lotta continua tra la verità e l’errore; vedrete che con una cecità inesplicabile tendeva continuamente all’idolatria e a sostituire alla legge sublime del Sinai le abominazioni dei pagani. E sapete come si conservò la verità in quel popolo? Perché sostenuta (si noti bene) dalle più forti istituzioni che mai si possa immaginare e munita di tutti i mezzi di difesa di cui la fornì il legislatore ispirato da Dio. Si dirà che quello era un popolo di dura cervice, come dice il sacro testo; disgraziatamente dalla caduta in poi del nostro progenitore questa durezza di cervice è un patrimonio dell’umanità; il cuore dell’uomo è inclinato al male fin dall’infanzia, e parecchi secoli prima che esistesse il popolo ebreo Dio aprì sul mondo le cateratte del cielo e cancellò l’uomo dalla faccia della terra, perché ogni carne aveva corrotto il suo cammino.

Da qui deriva la necessità di istituzioni forti per la conservazione delle grandi idee morali, e si vede chiaramente che non si devono abbandonare alla volubilità dello spirito umano sotto pena di essere sfigurate ed anche perdute.

Oltre a ciò le istituzioni sono necessarie non solo per insegnare, ma anche per mettere in pratica l’insegnamento. Le idee morali, soprattutto quelle che sono in aperta opposizione alle passioni, non giungono mai sul terreno della pratica se non attraverso grandi sforzi; e per questi sforzi non bastano le idee di per se stesse, ma ci vogliono mezzi d’azione per poter unire l’ordine delle idee con quello dei fatti. Ed ecco una delle ragioni dell’impotenza delle scuole filosofiche quando si tratta di costruire. Il fatto è che non poche volte queste scuole sono efficaci piuttosto nel distruggere, perché per distruggere

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basta l’azione di un momento, e quest’azione può facilmente compiersi in un accesso di un entusiasmo. Ma quando poi vogliono costruire per mettere in pratica i loro progetti, si trovano incapaci di agire, non avendo altri mezzi per farlo fuorché quello di richiamarsi alla forza delle idee. E variando o modificando continuamente queste idee, come ce ne dànno il maggiore esempio le stesse scuole, viene ridotto ad oggetto di pura curiosità quello che poco prima veniva propagandato come causa infallibile del progresso del genere umano.

Con queste ultime riflessioni prevengo l’obbiezione che mi si potrebbe fare e che si fonda sulla grande forza acquistata dalle idee per mezzo della stampa. È vero che questa propaga come verità e quindi moltiplica in modo straordinario la forza delle idee, ma lungi dal conservare, essa è piuttosto il miglior dissolvente di tutte le opinioni. Si osservi l’immenso cammino percorso dallo spirito umano dall’epoca di questa importante scoperta, e si vedrà che il consumo (mi si permetta l’espressione), il consumo delle opinioni è cresciuto in una proporzione che spaventa. Soprattutto da quando la stampa si è fatta periodica, la storia dello spirito umano sembra la rappresentazione di un rapidissimo dramma dove si cambiano in ogni momento le scene, che si susseguono una appresso all’altra senza lasciare allo spettatore neanche il tempo di udire dalla bocca degli attori una minima parola. Non siamo ancora alla metà del secolo presente, e tuttavia ci sembra di aver già trascorso più secoli. Tante sono le scuole che sono nate e morte, tante le fedi che si sono sollevate ben in alto per ricadere subito nell’oblio.

Questa rapida successione d’idee, invece di contribuire ad aumentare la loro forza, le porta inevitabilmente alla sterilità e alla debolezza. L’ordine naturale nella vita delle idee è il seguente: per prima cosa appaiono; quindi si diffondono per mezzo di qualche istituzione che le rappresenti; e infine esercitano la loro influenza sui fatti, agendo per mezzo dell’istituzione in cui si sono personificate. In tutte queste trasformazioni, che necessariamente richiedono un certo tempo, è essenziale che nei confronti di queste idee sia conservata la debita stima, se si vuole che producano qualche risultato vantaggioso. Questo tempo manca quando le idee si succedono le une alle altre con troppa rapidità, perché le nuove lavorano per screditare le vecchie, rendendole così inutili. Per la qual cosa forse mai come adesso è stata tanto legittima una profonda diffidenza nella forza delle idee, ossia nella filosofia, riguardo al fatto che possano produrre qualcosa di valido nell’ordine morale. E sotto questo aspetto c’è molto da obiettare sul bene che ha procurato la stampa alla società moderna. Si ha maggiori conoscenze, ma si è meno maturi: quello che guadagna l’intelletto in estensione lo perde in profondità, e lo splendore

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teorico contrasta in modo deplorevole con l’impotenza pratica. Che importa che i nostri antenati non fossero capaci come noi per improvvisare una discussione sulle più alte questioni sociali e politiche, se giunsero a fondare e organizzare gloriose istituzioni? Gli architetti che innalzarono quegli stupendi edifici dei secoli che vengono chiamati barbari non erano certamente né tanto eruditi né tanto colti come quelli della nostra epoca, eppure chi avrebbe la forza solamente d’incominciare quello che essi portarono a termine? Ecco l’immagine più esatta di ciò che sta avvenendo nell’ordine sociale e politico. Non conviene dimenticarlo: i grandi pensieri nascono più dall’intuizione che dal discorso, e in pratica la riuscita dipende più da quella qualità inestimabile che si chiama senno, che da una dotta riflessione. E l’esperienza insegna spesso che chi sa molto, vede poco. Il genio di Platone non sarebbe stato miglior consigliere del genio di Solone e di Licurgo, e tutta la scienza di Cicerone non sarebbe riuscita a fare quello che fecero il giudizio e il senno di due uomini rozzi come Romolo e Numa Pompilio (20). Torna all’indice

CAPITOLO XXXI Delicatezza dei costumi: in che consiste. Differenza tra i costumi delicati ed i costumi rilassati. Influenza della Chiesa cattolica nel temperare i costumi. Confronto tra le società pagane e le cristiane. Schiavitù. Patria potestà. Giochi pubblici. Una riflessione sui tori di Spagna.

Una certa diffusa delicatezza dei costumi che in tempo di guerra evita le grandi stragi e in tempo di pace fa la vita più amabile e tranquilla, è un’altra qualità preziosa che (nel cap. XX) ho definito come una delle caratteristiche della civiltà europea. Questo è un fatto che non ha bisogno di prove: se ci diamo un’occhiata intorno lo si vede ovunque, sia che guardiamo nei libri di storia, sia che mettiamo la nostra epoca a confronto con qualunque altra. In che consiste questa delicatezza dei costumi? Qual è l’origine? Da chi è stata favorita, e da chi contrariata? Ecco alcune questioni interessantissime che sono collegate in modo particolare con l’oggetto di cui ci stiamo occupando, perché ci portano subito a queste domande: il Cattolicesimo ha influito in qualche maniera a creare questa delicatezza dei costumi? Ha posto qualche ostacolo o ha provocato qualche ritardo? E il Protestantesimo c’entra almeno in parte, nel bene o nel male, in questa delicatezza dei costumi?

Prima di tutto è opportuno stabilire cosa s’intende per delicatezza dei costumi, perché anche se questa è una di quelle idee che tutti conoscono, o piuttosto percepiscono, ciò nonostante quando si tratta di chiarirla o di farne

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l’analisi è necessario darne una definizione per quanto possibile giusta e precisa. La delicatezza dei costumi consiste in questo: che non venga fatto uso della forza. E allora i costumi saranno più o meno delicati in quanto meno o più si fa uso della forza. Quindi costumi delicati non è lo stesso che costumi benèfici: questi includono il bene, quelli escludono la forza; costumi delicati non è neanche lo stesso che costumi casti o costumi conformi alla ragione e alla giustizia: non poche volte anche l’immoralità è delicata, perché si accompagna non con la forza ma con la seduzione e l’astuzia. Quindi la delicatezza dei costumi consiste nel guidare lo spirito dell’uomo non per mezzo di una violenza diretta al corpo, ma per mezzo di concetti diretti all’intelletto o di alimento offerto alle passioni. Perciò la delicatezza dei costumi non è sempre il regno della ragione, però è sempre il regno dello spirito, benché questo sia non poche volte schiavo delle passioni, stretto in quelle catene d’oro con le quali esso stesso si va vincolando.

Assodato che nei rapporti tra gli uomini la delicatezza dei costumi consiste nell’uso della convinzione, della persuasione o della seduzione, è chiaro che le società più avanzate, quelle cioè in cui l’intelletto è giunto ad un grande sviluppo, devono fare abbastanza uso di questa delicatezza. In esse l’intelletto domina perché è forte, mentre la forza materiale si dilegua perché il corpo s’infiacchisce. A parte ciò, nelle società molto avanzate dove s’intrattengono necessariamente un più alto numero di relazioni con maggiore complessità d’interessi, sono indispensabili quei mezzi sempre utilizzabili da chiunque, e applicabili in tutte le circostanze. Questi mezzi sono, senza alcun dubbio, intellettuali e morali: l’intelletto opera senza distruggere, mentre la forza va direttamente contro l’ostacolo: o lo rimuove o lo spezza; essa costituisce un’eterna sorgente di disordini che non può sussistere in una società dove intercorrono relazioni numerose e complesse senza che questa società corra il rischio di trasformarsi in un caos e di morire.

Al formarsi di una società, nella fase iniziale troviamo sempre un deplorevole abuso della forza. Nulla di più naturale: le passioni si alleano con essa perché le somigliano, sono energiche come la violenza e rudi come l’urto che essa provoca. Quando la società è giunta ad un forte sviluppo, le passioni si allontanano dalla forza e si uniscono all’intelligenza; cessano di essere violente e si fanno astute. Se sono i popoli a lottare tra loro, nel primo caso si fanno la guerra, si combattono e si distruggono; nel secondo si contrastano con le armi dell’industria, del commercio e del contrabbando. Se sono i governi, nel primo caso si attaccano con eserciti e con invasioni, nel secondo con note diplomatiche. In un caso i militari sono tutto, nell’altro non sono nulla: il loro compito non è più molto importante quando invece di combattere si negozia.

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Dando un’occhiata alle civiltà antiche si osserva subito una differenza particolare tra la nostra delicatezza dei costumi e la loro: né Greci, né Romani conseguirono mai questa preziosa qualità a quel grado che distingue la civiltà europea. Quei popoli s’infiacchirono piuttosto che raddolcirsi, e i loro costumi possono chiamarsi rilassati ma non delicati perché facevano uso della forza ogni volta che fosse possibile, ma senza più energia nell’anima e vigore nel corpo.

Questa particolarità della civiltà antica, specialmente romana, è da considerare bene, e questo fenomeno, che a prima vista può sembrarci strano, ha cause profonde. A parte la principale, che è la mancanza di un elemento di moderazione come la carità cristiana che hanno i popoli moderni, indagando sulle cause particolari troveremo i motivi del perché tra gli antichi non potesse svilupparsi la vera delicatezza dei costumi.

La schiavitù, che era allora uno degli elementi costitutivi dell’ordine sociale e domestico, rappresentava un ostacolo continuo allo sviluppo di questa preziosa qualità in quei popoli. L’uomo che può gettare un altro uomo in cibo alle murene castigando così con la morte la rottura di un vaso, colui che per un mero capriccio può togliere la vita ad un suo simile tra le acclamazioni dei convitati, che può stare coricato sul soffice letto tra i piaceri voluttuosi e lo splendore della più sontuosa magnificenza sapendo che centinaia d’uomini sono rinchiusi e ammucchiati in oscuri sotterranei per la sua cupidigia o i suoi piaceri; che può ascoltare i gemiti di tanti infelici che chiedono un pezzo di pane per sopportare una notte di angoscia che unirà le fatiche e i sudori del giorno seguente con le sofferenze di quello passato; costui potrà sì avere costumi rilassati, ma non delicati; potrà avere un cuore codardo, ma sempre crudele. Tale era precisamente lo stato dell’uomo libero nella società antica: questo modo di vivere era considerato naturale, e qualunque altro modo non era neanche concepibile.

Chi rimosse l’ostacolo? Non fu forse la Chiesa cattolica con l’abolire la schiavitù, dopo che aveva già mitigato il trattamento crudele che veniva imposto agli schiavi? Si vedano i capitoli XV, XVI, XVII, XVIII e XIX di quest’opera con le corrispondenti note dove viene dimostrata questa verità con ragioni e documenti incontestabili.

Il diritto di vita e di morte accordato dalle leggi alla patria potestà introduceva anche nella famiglia un elemento di durezza che doveva produrre gravissimi danni. Fortunatamente il cuore di padre era in continua lotta con la facoltà concessagli dalla legge; ma se questo non poté impedire alcuni fatti che fanno orrore a leggersi, non dobbiamo pensare che nel corso ordinario della vita succedessero frequentemente scene crudeli che ricordassero ai membri

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della famiglia questo atroce diritto di cui era investito il suo capo? Chi sa di avere il diritto di uccidere impunemente, non si lascerà trascinare ad esercitare un dispotismo crudele ed applicare senza pietà il castigo? Questa tirannica estensione della patria potestà a certi diritti che la natura non diede, andò man mano scomparendo grazie al mutare dei costumi e alla forza delle leggi, costumi e leggi fortemente influenzati dal Cristianesimo (vedi il capitolo XIV). A questo elemento se ne può unire un altro analogo che consiste nella tirannia che l’uomo esercitava sulla donna e nella poca stima di cui essa godeva.

Anche i giochi pubblici erano tra i Romani un altro elemento di durezza e di crudeltà. Che si può aspettare da un popolo il cui principale divertimento è quello di assistere ad uno spettacolo di omicidî a sangue freddo, che si compiace nel guardare come muoiono nell’arena centinaia di uomini, combattendo tra loro o dilaniati dalle zanne delle bestie feroci?

Essendo io Spagnolo non posso fare a meno d’inserire qui un paragrafo per dire due parole in risposta ad una difficoltà, che non mancherà di essere notata dal lettore quando vedrà quanto ho scritto sui combattimenti degli uomini con le fiere. Mi si chiederà infatti: «E i tori in Spagna? Non è la Spagna un paese cattolico dove si è conservato il costume di far combattere gli uomini con le fiere?» L’obiezione pare stringente, ma non tanto però che non lasci il modo di uscirne con soddisfazione. Prima di tutto, e per prevenire ogni malinteso, dichiaro che questo divertimento popolare a mio giudizio è barbaro e meriterebbe, se fosse possibile, di essere del tutto proibito. Ma dopo aver fatto questa dichiarazione tanto esplicita e categorica, mi si permetta di fare alcune osservazioni perché non ne venga pregiudizio al nome della mia patria. In primo luogo conviene notare che nel cuore dell’uomo vi è un certo piacere segreto per i rischi e i pericoli. Perché un’avventura ci faccia impressione, l’eroe deve trovarsi tra mille gravi pericoli; perché una storia ecciti fortemente la nostra curiosità non può essere una serie continua di fatti favorevoli e naturali. Vogliamo assistere di frequente a fatti straordinari e sorprendenti; e per quanto ci costi dirlo, il nostro cuore, in cui alberga la più tenera compassione per la disgrazia, nello stesso tempo pare che si annoi se tarda molto a vedere scene di dolore e di sangue. Da qui deriva il gusto per la tragedia, e quindi la passione per quelle scene, finte o reali, dove i protagonisti corrono qualche grave pericolo.

Non starò qui a spiegare l’origine di questo fenomeno: mi basta averlo accennato per far notare agli stranieri che ci accusano di barbarie che la passione del popolo spagnolo per la corrida non è altro che l’applicazione ad un caso particolare di un diletto che ha il suo fondamento nel cuore dell’uomo. Coloro che affettano tanta umanità quando si tratta di criticare il costume del

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popolo spagnolo dovrebbero dirci, però, come mai in un qualunque episodio che per un motivo o per l’altro sia pericoloso per chi vi è coinvolto si vede un grande accorrere di gente; come accade che tutti si troverebbero volentieri presenti ad una battaglia, per sanguinosa che fosse, se potessero trovarvisi senza pericolo; come mai c’è ovunque un grande accorrere di folla quando si tratta di assistere all’agonia e alle ultime convulsioni del reo sul patibolo; e per quale ragione, infine, gli stranieri, quando si trovano a Madrid, si fanno complici anch’essi della barbarie spagnola col recarsi anch’essi alla piazza dei tori.

Dico questo non già per scusare minimamente un costume che mi pare indegno di un popolo civile, ma per far intendere che c’è un’esagerazione in queste critiche, come quasi in tutte quelle che riguardano il popolo spagnolo, che conviene riportare nei giusti limiti. Oltre a ciò, rimane da aggiungere una riflessione importante che può benissimo servire da giustificazione a questo riprovevole divertimento.

Non si deve fissare l’attenzione sul divertimento stesso ma sui mali che arreca. Orbene, quanti sono gli uomini che muoiono in Spagna combattendo con i tori? Un numero scarsissimo, insignificante in proporzione al numero di spettacoli che avvengono; talmente che se si facesse un confronto tra le disgrazie che accadono in questo divertimento e quelle che accadono negli altri spettacoli, come nelle corse dei cavalli ed altri simili, forse risulterebbe chiaramente che la corrida, barbara quanto si voglia, non lo è però tanto da meritarsi quel profluvio di ipocriti anatemi con cui gli stranieri hanno pensato bene di compiacerci.

E per tornare allo scopo principale: come può paragonarsi un divertimento dove passano forse molti anni senza che si verifichi la morte di un uomo con quegli orribili spettacoli dove la morte era una condizione necessaria al divertimento degli spettatori? Dopo il trionfo di Traiano sui Daci gli spettacoli andarono avanti per centoventitré giorni, e vi perì lo spaventoso numero di diecimila gladiatori. Tali erano i pubblici spettacoli che costituivano il divertimento, non solo della plebaglia romana, ma anche delle classi alte. In questa ributtante carneficina prendeva piacere quel popolo corrotto che univa la crudeltà più atroce con la più raffinata voluttà. Ed ecco la prova convincente di quel che ho detto prima, cioè che i costumi possono essere rilassati senza esser delicati; che anzi la brutalità di una rilassatezza smodata si accorda benissimo con l’istinto feroce dello spargimento di sangue.

Nei popoli moderni, per quanto corrotti siano i costumi, non è possibile che siano tollerati simili spettacoli. Il principio della carità ha troppo esteso il suo dominio perché possano rinnovarsi così grandi eccessi. È vero che non

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ottiene che gli uomini si facciano scambievolmente tutto il bene che dovrebbero, ma perlomeno impedisce che si facciano il male a sangue freddo e che possano assistere tranquillamente alla morte dei loro simili soltanto per il piacere di provare una sensazione passeggera. Fin da quando apparve il cristianesimo si cominciò a spargere i semi di questa avversione per l’omicidio. È nota la ripugnanza dei Cristiani per gli spettacoli dei pagani, ripugnanza prescritta e ravvivata dalle sante ammonizioni dei primi pastori della Chiesa. Era cosa conosciuta da tutti i fedeli che la carità cristiana era incompatibile con l’assistere a spettacoli dove si presentava l’omicidio sotto le forme della più raffinata crudeltà. «Per noi – diceva giustamente un apologista dei primi secoli – c’è poca differenza tra l’uccidere un uomo e il vederlo uccidere» (21). Torna all’indice

CAPITOLO XXXII Elementi che contribuirono al protrarsi della durezza dei costumi nelle società moderne. Condotta della Chiesa su questo punto. Canoni e fatti degni di nota. S. Ambrogio e l’Imperatore Teodosio. La tregua di Dio. Disposizioni molto importanti dell’autorità ecclesiastica su questo punto.

La società moderna avrebbe dovuto, per logica, essere caratterizzata dalla durezza e crudeltà dei suoi costumi. Infatti, essendo stata originata dalla fusione della società romana con quella barbara, dovette ereditare da ambedue queste due caratteristiche. Chi ignora infatti la ferocia dei costumi dei barbari del Nord? Gli storici di quei tempi ce ne hanno lasciato terribili descrizioni, la cui lettura fa tremare. Si giunse a credere ch’era vicina la fine del mondo; e in realtà coloro che facevano simili presagi erano scusabilissimi nel credere che fosse assai vicina la maggiore di tutte le catastrofi, quando erano tante quelle che opprimevano la misera umanità. Non è possibile immaginare in quella crisi cosa sarebbe stato del mondo senza l’esistenza del Cristianesimo; ed ammesso pure che si fosse potuto arrivare a mettere di nuovo ordine nella società sotto una forma o l’altra, non c’è dubbio che i rapporti sia privati che pubblici sarebbero rimasti in una condizione deplorevole, ed inoltre la legislazione avrebbe avuto un andamento ingiusto ed inumano. Per questa ragione l’influenza della Chiesa nella legislazione civile fu un beneficio inestimabile, e lo stesso potere temporale del clero fu una delle prime garanzie a favore dei più alti interessi della società.

Molto è stato detto contro il potere temporale del clero e contro l’influsso della Chiesa nelle vicende terrene. Ma prima di tutto bisognava

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riflettere che questo potere e questo influsso furono portati dalla stessa natura delle cose, cioè che furono naturali; di conseguenza parlare contro di essi è uno sfogo inutile contro la forza degli avvenimenti che l’uomo non poteva impedire che avvenissero. Inoltre erano legittimi: perché quando la società affonda è nel rispetto di ogni legge che la salvi chi può; e ai tempi di cui stiamo parlando l’unica che poteva salvarla era la Chiesa. Questa, siccome non è un essere astratto, ma una società reale e sensibile, doveva operare sulla società civile con mezzi ugualmente reali e sensibili. Visto che si trattava degli interessi materiali della società, in un modo o nell’altro i ministri della Chiesa dovevano prender parte alla direzione di questi interessi. Queste riflessioni sono tanto ovvie e semplici che per esser convinti della loro verità e correttezza è sufficiente il semplice buon senso. Attualmente coloro che hanno una certa conoscenza della storia sono generalmente d’accordo su questo fatto; e se non sapessimo quanta fatica costa all’intelletto umano imboccare la giusta strada, e soprattutto quanta malafede sia stata diffusa in questo genere di questioni, sarebbe difficile spiegare come mai si è tardato tanto a mettersi d’accordo su di un fatto che appare evidente dalla semplice lettura della storia. Ma torniamo a noi.

Questa informe mescolanza della crudeltà di un popolo colto ma corrotto con l’atroce ferocia di un popolo barbaro, per di più orgoglioso per i suoi trionfi in tante continue guerre condotte per così lungo tempo ed ebbro del sangue dei nemici vinti, lasciò nella società europea un germe di quella ferocia e di quella crudeltà che per lunghi secoli furono causa di patimenti, e i cui residui ancora apparivano in epoche recenti. Il precetto della carità cristiana era impresso nella mente, ma la crudeltà dei Romani combinata con la ferocia dei barbari dominava tuttavia il cuore; le idee erano pure e benefiche perché derivate da una religione d’amore, ma incontravano una resistenza terribile nelle abitudini, nei costumi, nelle istituzioni, nelle leggi; perché tutto portava il sigillo più o meno sfigurato dei due princìpi, di cui abbiamo indicato la mescolanza.

Riflettendo sulla lotta continua e tenace che ebbe luogo tra la Chiesa cattolica e gli elementi che le resistevano, si capisce chiaramente che le idee cristiane non sarebbero mai arrivate a dominare la legislazione e i costumi se il Cristianesimo non fosse stato qualcosa di più che un’idea religiosa abbandonata al capriccio dell’individuo come la concepiscono i Protestanti, se non si fosse personificato in una istituzione robusta, in una società fortemente costituita qual è la Chiesa cattolica. Perché ci si formi un concetto degli sforzi fatti dalla Chiesa, indicherò alcune delle iniziative che prese per mitigare i costumi.

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Le inimicizie particolari avevano in quei tempi un carattere violento: il diritto era costituito dai fatti, e il mondo rischiava di diventare il patrimonio del più forte. Il potere pubblico non esisteva, o era come stordito nel turbinio delle violenze e dei disastri che non riusciva ad impedire o a reprimere a causa della sua debolezza, Esso era impotente a incanalare i costumi su una direzione pacifica e far sì che gli uomini si sottomettessero alla ragione e alla giustizia. Così vediamo che la Chiesa, oltre che fornire l’insegnamento e gli ammonimenti pubblici inseparabili dal suo divino ministero, adottava in quell’epoca certe misure concrete per opporsi al torrente devastatore della violenza che tutto tormentava e distruggeva.

Il Concilio di Arles, celebrato circa nella metà del secolo quinto e precisamente tra il 443 e il 452, dispone nel canone 50 che non si debba permettere l’accesso alla chiesa a coloro che mantengono pubbliche inimicizie, fin tanto che non si siano riconciliati con i loro nemici.

Il Concilio d’Angers celebrato nell’anno 453, proibisce nel canone 3 le violenze e le mutilazioni.

Il Concilio di Agde in Linguadoca tenuto nel 506, ordina nel canone 31 che i nemici che non vogliono riconciliarsi, siano immediatamente ammoniti dai sacerdoti, e se non vogliono seguirne le ammonizioni, siano scomunicati.

In quell’epoca i Galli avevano per costume di andare sempre armati, e con le armi entravano in chiesa. Si capì come un tale costume era destinato a produrre gravi inconvenienti e trasformare la casa di preghiera in un’arena di vendetta e di sangue. E allora verso la metà del settimo secolo vediamo che il Concilio di Chalons-sur-Saòne nel canone 17 stabilisce la scomunica per tutti coloro che procurano tumulti o sfoderano la spada per ferire qualcuno nelle chiese o nei loro recinti. Questo ci mostra la prudenza e l’intuizione con cui era stato dettato il canone 29 del terzo Concilio d’Orleans celebrato nel 538, dove si dispone che nessuno assista armato alla Messa e ai Vespri.

È curioso osservare l’uniformità dei mezzi e l’identità di vedute con cui procedeva la Chiesa. In paesi molto distanti, tra i quali la possibilità di comunicare non poteva esser tanto frequente, troviamo disposizioni analoghe a quelle che abbiamo indicato. Il Concilio di Lerida del 546 dispone nel canone 7 che chi giura di non riconciliarsi col suo nemico sia privato della Comunione del Corpo e Sangue di Gesù Cristo finché non abbia fatto penitenza del giuramento, e si sia riconciliato.

Passavano i secoli, continuavano le violenze, e il precetto di carità fraterna, che ci obbliga ad amare i nostri stessi nemici, incontrava ancora un’aperta resistenza dovuta al carattere violento e alle passioni feroci dei discendenti dei barbari; ma la Chiesa non si stancava d’insistere nella

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predicazione del comando divino, ribadendolo in ogni circostanza e provvedendo a renderlo efficace per mezzo di castighi spirituali. Erano trascorsi più di quattrocento anni dalla celebrazione del Concilio di Arles nel quale fu proibito di entrare in chiesa a coloro che avevano pubbliche inimicizie, e troviamo che il Concilio di Worms celebrato nell’anno 868 prescrive ancora, nel canone 4, che siano scomunicati coloro che non vogliono riconciliarsi con i nemici.

Basta conoscere il disordine di quei secoli per immaginare se in quel lungo periodo si fosse riusciti a ricomporre inimicizie tanto violente e radicate: potrebbe sembrare logico che la Chiesa ad un certo punto si stancasse di ripetere un precetto tanto poco considerato a causa di circostanze così funeste; eppure continuava a parlare come parla oggi, come parlava ieri, come parlava secoli prima, non perdendo mai la speranza che le sue parole giungessero a produrre qualcosa di buono sul momento, e portassero a qualcosa di fecondo per l’avvenire.

Questo è il suo sistema: pare che essa ascolti continuamente quelle parole: grida a piena voce, senza riguardo; come una tromba alza la voce (Is 58, 1). Così ottiene il trionfo abbattendo tutti gli ostacoli; così, quando non può esercitare il predominio sulla volontà di un popolo, fa risuonare di continuo la sua voce all’ombra del santuario; così riunisce settemila che non piegarono il ginocchio davanti a Baal (Rom 11, 4), e a misura che li conferma nella fede e nelle buone opere protesta in nome di Dio contro coloro che resistono allo Spirito Santo. Talvolta, in mezza agli sprechi e le gozzoviglie di una grande città, penetriamo in un sacro recinto dove regnano l’austerità e la meditazione immerse nella penombra e nel religioso silenzio. Un ministro del santuario, circondato da un limitato numero di fedeli, fa risuonare di tanto in tanto alcune parole gravi e solenni: ecco l’immagine della Chiesa in epoche disastrose a causa dell’indebolimento della fede o per la corruzione dei costumi.

Una delle regole di comportamento della Chiesa cattolica è sempre stata quella di non piegarsi mai davanti al potente. Quando ha proclamato una legge l’ha proclamata per tutti senza distinzioni di classe. Ai tempi delle prepotenze di piccoli tiranni che sotto diversi nomi vessavano i popoli, questa condotta contribuì mirabilmente a rendere popolari le leggi ecclesiastiche; perché non c’è mezzo migliore per rendere sopportabile al popolo un peso, che quello di vedervi soggetto anche il nobile e perfino il re. Nei tempi ai quali ci riferiamo si proibivano severamente le inimicizie e le violenze tra i plebei, ma la stessa legge si estendeva anche ai grandi e agli stessi re. Non era molto che il Cristianesimo si era stabilito in Inghilterra che, riguardo a questo fatto, troviamo un esempio curioso: addirittura tre prìncipi scomunicati nello stesso

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anno e nella medesima città, e obbligati a fare penitenza dei delitti commessi. Nella città di Llandaff nel Galles, e nella metropoli di Canterbury in Inghilterra, furono celebrati nel 560 tre Concili: nel primo fu scomunicato Monaco re di Clamargon per aver ucciso re Cinetha nonostante si fossero giurati la pace sulle sante reliquie; nel secondo fu scomunicato re Morcante che aveva ucciso Friaco suo zio dopo avergli giurato ugualmente la pace; nel terzo fu scomunicato re Guinerto per aver ucciso il fratello che gli contrastava la corona.

Non è senza importanza vedere i capi dei barbari (che trasformati in re si assassinavano l’un l’altro con tanta facilità e atrocità) obbligati a riconoscere l’autorità di un potere superiore che li metteva nella necessità di fare penitenza per essersi macchiate le mani col sangue dei loro parenti e per aver violata la santità dei patti; e da qui s’incominciarono a vedere i salutari effetti che ne sarebbero derivati col mitigare i costumi.

I nemici della Chiesa, quelli che si sforzano di ridurre il merito di tutte le sue opere, diranno: «Era facile proclamare la delicatezza dei costumi ed esigere l’osservanza dei precetti divini da capi di così scarso potere che del re avevano solo il nome. Era facile sistemare le cose con dei reucci barbari che, resi fanatici da una religione che non comprendevano, chinavano umilmente il capo davanti al primo sacerdote che si presentava ad intimidirli con delle minacce da parte di Dio. Ma che significa questo? Che influenza poteva avere nel corso dei grandi avvenimenti? La storia della civiltà europea offre un immenso palcoscenico dove i fatti devono essere studiati in un contesto più vasto, dove le scene devono esser grandiose, se vogliamo che esercitino una certa influenza sull’animo dei popoli».

Sorvoliamo su ciò che vi è di meschino in questo ragionamento; ma dal momento che vengono richieste grandi scene che abbiano influito sulla condanna dell’impiego brutale della forza e sull’opera svolta a mitigare i costumi, apriamo il libro della storia dei primi secoli della Chiesa e non tarderemo ad incontrare una pagina sublime, che rende onore eterno al Cattolicesimo.

Su tutto il mondo conosciuto regnava un imperatore il cui nome era venerato su tutta la terra, e la cui memoria è rispettata anche dalla posterità. In una importante città il popolo, che si era ammutinato, uccide il comandante della guarnigione e l’imperatore, preso da collera, comanda che il popolo sia sterminato. Ritornato in sé, l’imperatore revoca l’ordine fatale, ma era già tardi e l’ordine era stato eseguito, e migliaia di vittime dovettero soccombere in un’orribile carneficina. Al divulgarsi della notizia di questa atroce strage un santo Vescovo lascia la corte dell’imperatore, e dalla campagna, dove si è

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ritirato, gli scrive queste severe parole: «Io non oserò più offrire il sacrificio se voi pretendete di assistervi: se lo spargimento del sangue di un solo innocente basterebbe a proibirmelo, quanto più la strage di tanti innocenti?» L’imperatore, confidando nella sua autorità non si ferma per questo, e si dirige alla volta della chiesa. Arrivato al portico gli si presenta un uomo venerabile che con un contegno severo e grave lo ferma e gli vieta di entrare. «Tu hai imitato David nel delitto – gli dice, – imitalo nella penitenza». L’imperatore cede, si umilia, si sottomette alle disposizioni del santo prelato e la religione e l’umanità riportano un grande trionfo. La sventurata città si chiama Tessalonica, l’imperatore era Teodosio il grande, e il prelato era Sant’Ambrogio, Arcivescovo di Milano.

In questo atto sublime si vedono magnificamente personificate e si incontrano faccia a faccia la giustizia e la forza. E la giustizia trionfa sulla forza: ma perché? Perché chi rappresenta la giustizia la rappresenta in nome di Dio; perché le sacre vesti, l’atteggiamento solenne dell’uomo che ferma l’imperatore ricordano a questo la missione divina del santo Vescovo e il ministero che esercita nella sacra gerarchia della Chiesa. Mettete in luogo del Vescovo un filosofo e ditegli che vada a fermare l’imperatore e ad ammonirlo che faccia penitenza del suo delitto, e vedrete se l’umana sapienza può ottenere tanto quanto il sacerdozio che parla in nome di Dio; o metteteci, se preferite, un vescovo di una chiesa che abbia riconosciuta la supremazia spirituale nel potere civile, e vedrete se in bocca sua le parole hanno la forza per riportare un così grande trionfo.

Lo spirito della Chiesa restava immutato in tutti i tempi, le sue tendenze erano sempre rivolte verso lo stesso scopo, il linguaggio severo allo stesso modo, ugualmente forte, o parlasse ad un plebeo romano o ad un barbaro, sia che ammonisse un patrizio dell’impero che un nobile germano: non le incuteva timore né la porpora dei Cesari, né lo sguardo fulminante dei re dalla lunga capigliatura. Il potere di cui si trovò investita nel Medioevo non derivò unicamente dall’essere solo lei ad aver conservato qualche cognizione delle scienze e la conoscenza delle regole di governo, ma anche da quella immutabile fermezza che nessuna resistenza, nessun attacco era capace di rimuovere. Che avrebbe fatto allora il Protestantesimo per dominare una tale situazione tanto difficile e pericolosa? Mancante di autorità, senza un centro d’azione, senza sicurezza nella sua fede, senza fiducia nei mezzi: a quali espedienti avrebbe fatto ricorso per contenere l’impeto della forza che, signora del mondo, aveva già ridotto in frantumi gli avanzi dell’antica civiltà e opponeva un ostacolo pressoché insuperabile ad ogni tentativo di istituire un ordine sociale? Solo il Cattolicesimo, con la sua fede ardente, la sua forte

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autorità, l’unità indissolubile, l’unione gerarchica, poteva accingersi alla grande impresa di moderare i costumi con quella fiducia che viene ispirata dal sentimento delle proprie forze, e con quella vitalità che anima il cuore quando vi alberga la sicurezza del trionfo.

Con tutto ciò non si creda che la Chiesa cattolica arrivò a moderare i costumi soltanto attraverso aspri scontri contro la forza. La vediamo usare anche mezzi indiretti, contentandosi di prescrivere ciò che si poteva ottenere, ed esigendo di meno per preparare la via a conseguire di più.

In un capitolare di Carlo Magno redatto ad Aquisgrana nell’anno 813, che è composto di ventisei articoli e che non è altro che una specie di convalida e di riassunto di cinque Concili celebrati poco prima nelle Gallie, troviamo due articoli aggiunti, il secondo dei quali prescrive che si proceda contro coloro che, col pretesto del diritto chiamato Fayda, provocano trambusti e tumulti nelle domeniche ed altri giorni festivi, ed anche nei giorni di lavoro. Abbiamo già visto prima come le sacre reliquie venissero adoperate per conferire maggior valore al giuramento di pace ed amicizia che si scambiavano i re: atto sacro in cui si faceva intervenire il cielo per evitare lo spargimento di sangue e portare la pace in terra. Ora vediamo che anche le domeniche e le altre feste sono utilizzate al fine di fare un primo passo che portasse all’abolizione del barbaro costume di permettere ai parenti di un uomo ucciso di vendicarne la morte col darla all’uccisore.

Il deplorevole stato della società europea di quei tempi lo possiamo scorgere negli stessi mezzi che il potere ecclesiastico si vedeva obbligato ad usare per diminuire le sciagure provocate dalla violenza dei costumi. Il fatto di non avvicinare qualcuno per maltrattarlo, di non ricorrere alla forza per ottenere una soddisfazione o per fare una vendetta, a noi appare tanto giusto, tanto conforme alla ragione e tanto naturale, che difficilmente riusciamo a concepire che le cose possano andare diversamente. Se attualmente si promulgasse una legge che proibisse di aggredire il nemico in questo o quel giorno, in questa o quell’ora, ci sembrerebbe il colmo della ridicolaggine e della stravaganza. Non sembrava così a quei tempi; e simili proibizioni venivano fatte continuamente, e non in villaggi sperduti, ma in grandi città, in assemblee numerosissime, dove si contavano i Vescovi a centinaia, dove si recavano conti, duchi, prìncipi e re. Questa legge, che a noi sembrerebbe così stravagante e per la quale era evidente che l’autorità si credeva fortunata se poteva ottenere che i princìpi di giustizia fossero rispettati almeno in alcuni giorni, particolarmente nelle maggiori solennità; questa legge fu per lungo tempo uno dei punti principali del diritto pubblico e privato in Europa.

Si sarà già capito che sto parlando della Tregua di Dio. Tale legge

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doveva essere estremamente necessaria, se la vediamo ripetuta di volta in volta in paesi tanto lontani l’uno dall’altro. Delle molte cose che potrei rammentare su questa materia mi accontenterò di annotare alcune decisioni conciliari di quei tempi.

Il Concilio di Tubuza nella diocesi di Elna nel Rossiglione, celebrato da Goffredo Arcivescovo di Narbona l’anno 1041, stabilisce la Tregua di Dio, decretando che dalla sera del mercoledì fino alla mattina del lunedì nessuno si appropri di cosa alcuna con la forza, non si vendichi di alcuna ingiuria, e non esiga pegni di garanzia. Chi avesse trasgredito tale norma avrebbe dovuto pagare la conciliazione secondo le leggi come chi avesse meritato la morte, oppure essere scomunicato ed esiliato dal paese.

L’applicazione di questa disposizione fu considerata tanto provvidenziale che nello stesso anno furono tenuti in Francia molti altri Concili sulla stessa materia. Inoltre ci si preoccupava anche di ricordare frequentemente quest’obbligo, come si rileva dal Concilio di Sant-Gilles in Linguadoca celebrato nell’anno 1042 e da quello Narbona del 1045.

Nonostante s’insistesse continuamente sullo stesso principio non si otteneva però un completo successo, come mostra l’altalenare delle disposizioni della legge. Così vediamo che nell’anno 1047 la Tregua di Dio venne limitata ad un periodo più breve di quello che era nel 1041, perché il Concilio di Telugis della diocesi di Elna celebrato nel 1047 dispone che in tutta la contea del Rossiglione nessuno dovesse assalire il nemico dall’ora nona del sabato fino all’ora prima del lunedì: in modo che la legge era allora molto più permissiva che nel 1041, dove abbiamo visto che la Tregua di Dio si estendeva dalla sera del mercoledì fino alla mattina del lunedì.

Nello stesso Concilio si trova una disposizione interessante, perché vi è disposto che nessuno possa assalire un uomo che va in chiesa o ne ritorna, o che accompagna delle donne.

Nel 1054 la Tregua di Dio guadagna terreno, perché non solo torna a comprendere lo spazio di tempo dalla sera del mercoledì fino alla mattina del lunedì dopo il sorgere del sole, ma si estende ad intervalli ancora più lunghi. Così vediamo che il Concilio di Narbona celebrato dall’Arcivescovo Goffredo nel detto anno, oltre a comprendere la Tregua di Dio dalla sera del mercoledì fino alla mattina del lunedì, la dichiara obbligatoria anche per i periodi di tempo e per i giorni seguenti: dalla prima domenica d’Avvento fino all’ottava di Epifania; dalla domenica di Quinquagesima fino all’ottava di Pasqua; dalla domenica che precede l’Ascensione fino all’ottava di Pentecoste; nei giorni festivi di Nostra Signora, di S. Pietro, di S. Lorenzo, di S. Michele, d’Ognissanti, di S Martino e dei S.S. Giusto e Pastore titolari della chiesa di

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Narbona; e infine in tutti i giorni di digiuno. E questo sotto pena di scomunica e di esilio perpetuo.

Nello stesso Concilio si trovano tante altre belle disposizioni che non si può evitare di menzionare, trattandosi di mostrare e di far sentire quale fosse l’influenza della Chiesa Cattolica nel moderare i costumi. Nel canone 9 si proibisce di tag1iare gli olivi, e se ne dice il motivo, che se agli occhi dei giureconsulti non sembrerà abbastanza comune e pertinente, per la filosofia della storia è però un grazioso simbolo delle idee religiose che esercitano la loro benefica influenza sulla società. La ragione che ne dà il Concilio è che gli olivi somministrano la materia del Sacro Crisma e dell’illuminazione delle chiese. Una ragione simile faceva sicuramente più effetto di tutte quelle che si potevano ricavare da Ulpiano o da Giustiniano.

Nel canone 10 si dispone che i pastori con i loro greggi godano della sicurezza della Tregua in ogni tempo e luogo, e lo stesso dispone il canone 11 riguardo alle cose situate nel raggio di trenta passi intorno alle chiese. Nel canone 18 si proibisce ai litiganti di arrivare alle vie di fatto o di commettere alcuna violenza prima che la causa sia stata giudicata in presenza del Vescovo e del Signore del luogo. Negli altri canoni si proibisce di rubare a mercanti e pellegrini e di danneggiare chicchessia sotto pena, per i rei di tale delitto, di essere separati dalla Chiesa qualora avessero commesso il danno durante la Tregua.

Man mano che avanzava l’undicesimo secolo notiamo che s’insisteva sempre più sulla benefica azione della Tregua di Dio, anche con l’intervento dell’autorità dei Papi.

Nel Concilio di Girona celebrato dal Cardinale Ugo il Bianco nel 1068 fu confermata la Tregua di Dio per autorità di Alessandro II, sotto pena di scomunica; e nel 1080 il concilio di Lillebonne in Normandia considera già stabilita ovunque questa Tregua, poiché dispone nel primo canone che i Vescovi e i Signori abbiano cura di farla osservare, e di applicare ai contravventori le censure ed altre pene.

Nel 1093 il Concilio di Troia in Puglia, celebrato da Urbano II, conferma nuovamente la Tregua di Dio; ed è da notare l’estensione che andava prendendo questa disposizione ecclesiastica, perché a quel Concilio intervennero settantacinque Vescovi. Molto maggiore ne fu il numero nel Concilio di Clermont in Auvergne celebrato dallo stesso Urbano II nel 1095, poiché contava niente meno che tredici Arcivescovi, duecentoventi Vescovi e molti Abati. Nel primo canone vi si conferma la Tregua nei giorni di giovedì, venerdì, sabato e domenica; ma si vuole che si osservi tutti i giorni della settimana riguardo ai monaci, ai chierici e alle donne. Nei canoni 29 e 30 si

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dispone che se qualcuno inseguito dal suo nemico si rifugia presso una croce, deve essere considerato sicuro allo stesso modo che se avesse cercato asilo in chiesa. Questo sublime segno di redenzione, dopo aver recato la salvezza al genere umano bagnandosi del sangue del Figlio di Dio in cima al Calvario, è servita già di rifugio per coloro che nella presa di Roma ricorrevano a lei per sfuggire al furore dei barbari; e alcuni secoli dopo la troviamo che, innalzata lungo le strade, salva ancora lo sventurato che l’abbraccia per sfuggire ad un nemico assetato di vendetta.

Il Concilio di Rouen, celebrato nel 1096, estende ulteriormente il vigore della Tregua disponendo che sia osservata dalla domenica prima del mercoledì delle Ceneri fino al secondo giorno feriale dopo l’ottava di Pentecoste e dopo il tramontare del sole; dal mercoledì prima dell’Avvento fino all’ottava dell’Epifania; in ogni settimana dal tramontare del sole del mercoledì fino al levare del seguente lunedì; e infine in tutte le feste e vigilie della Vergine e degli apostoli.

Nel secondo canone si ordina che godano una pace perpetua tutti i chierici, i monaci e le religiose, le donne, i pellegrini, i mercanti e i loro servitori, i buoi e cavalli destinati ai lavori dei campi, i carrettieri, i lavoratori, e tutte le terre di pertinenza dei santi, con la proibizione di assalirli ed esercitare su di essi la minima violenza.

È evidente che in quei tempi la legge aveva maggiore autorità e quindi poteva esigere l’ubbidienza con un tono più fermo, perché vediamo che nel terzo canone dello stesso Concilio si prescrive che tutti i maschi che hanno compito i dodici anni prestino il giuramento di osservare la Tregua; e nel quarto canone si minaccia la scomunica contro coloro che rifiutassero di prestarlo, come pure alcuni anni dopo, cioè nel 1115, la Tregua comincia a comprendere non già certi determinati periodi di anno ma interi anni; e il Concilio di Troia in Puglia, tenuto nell’anno suddetto da Papa Pasquale, stabilisce la Tregua per tre anni.

I Papi continuavano con zelo l’opera incominciata, sanzionando con la loro autorità e diffondendo con la loro influenza, allora universale e potente in tutta Europa, l’osservanza della Tregua. Questa, quantunque in apparenza non fosse altro che un attestato di rispetto alla religione da parte delle passioni violente che sospendevano le ostilità per riguardo a lei, era però in sostanza il trionfo del diritto sul fatto ed uno dei più efficaci espedienti che si siano mai visti adoperare per moderare i costumi di un popolo barbaro. Chi si vedeva costretto a non fare uso della forza per quattro giorni della settimana e per lunghi periodi di tempo nell’anno, è chiaro che doveva tendere verso costumi più moderati, fino ad arrivare a non più adoperarla. Quello che costa fatica non

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è convincere l’uomo che opera il male, ma fargli perder l’abitudine ad operare il male; e ben si sa che qualunque abitudine si forma col ripetere le stesse azioni, e si perde quando si ottiene che queste cessino per qualche tempo.

Quindi è una grandissima soddisfazione constatare che i Papi sostenevano la diffusione di questa Tregua rinnovando in numerosi Concili la disposizione che essa venisse osservata, perché questo fatto dava un’efficacia maggiore ed universale alla disposizione stessa. Nel Concilio di Rheims inaugurato personalmente dallo stesso Pontefice Callisto II nel 1119, fu emanato un decreto a conferma della medesima Tregua. Assistettero al Concilio tredici Arcivescovi, più di 200 Vescovi, e un gran numero di Abati ed ecclesiastici distinti per dignità. Se ne ribadì l’osservanza nel nono Concilio ecumenico Laterano, indetto da Callisto II nel 1123. Erano più di 300 i prelati tra Arcivescovi e Vescovi, e il numero degli Abati oltrepassava i 600. Nel 1130 s’insistette per lo stesso fine nel Concilio di Clermont in Alvernia celebrato da Innocenzo II, dove furono rinnovati i regolamenti relativi all’osservanza della Tregua; e nel Concilio di Avignone del 1209, celebrato dal Vescovo Ugo di Riex, e Milone, notaio del Papa Innocenzo III, ambedue legati della Santa Sede, furono confermate le leggi emanate precedentemente per l’osservanza della pace e della Tregua, e si stabilì la condanna per coloro che la trasgredivano. Nel Concilio di Mompellier del 1215, indetto da Roberto di Courcon e presieduto dal Cardinale di Benavent come legato della provincia, fu rinnovato e confermato quanto precedentemente era stato regolamentato in tempi diversi sulla sicurezza pubblica, e più recentemente perché durasse la pace tra i Signori e tra i popoli.

A coloro che hanno considerato l’intervento dell’autorità ecclesiastica negli affari civili come un’usurpazione dei diritti del pubblico potere, si potrebbe domandare se si può usurpare quello che non esiste, e se un potere divenuto incapace di esercitare le sue stesse funzioni avesse motivo di lamentarsi che le esercitassero altri che ne avesse la capacità e la forza necessaria. A quei tempi l’autorità pubblica non si lamentava di queste pretese usurpazioni, e tanto i governi che i popoli le ritenevano legittime e giuste perché, come si è già detto, erano naturali, necessarie, prodotte dalla forza degli avvenimenti e derivate dallo stato delle cose. Certamente sarebbe ora una cosa curiosa che i Vescovi si occupassero della sicurezza delle strade, che pubblicassero editti contro gl’incendiari e i ladri, contro quelli che tagliano gli olivi o provocano altri simili danni; ma in quei tempi questo modo di procedere era considerato naturalissimo e molto necessario. Grazie a queste premure della Chiesa, a questa sollecita vigilanza alla quale con tanta leggerezza sono state fatte mille accuse in epoche successive, si poterono gettare le fondamenta di

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quell’edificio sociale di cui ora godiamo i vantaggi, e condurre infine un riordinamento che sarebbe stato impossibile senza l’influenza religiosa e senza l’azione dell’autorità ecclesiastica.

Ma qual è il concetto che ci si deve formare di un fatto, al fine di stabilire se deriva dalla natura stessa delle cose o se è il risultato di astute macchinazioni? Osservate il modo con cui si presenta, i luoghi dove nasce, i tempi in cui si effettua: e quando lo vedete riprodotto in epoche molto distanti tra loro, in luoghi molto lontani, tra uomini che non hanno potuto concordare tra loro, siate sicuri che quello che avviene non è stabilito dall’uomo, ma dalla forza stessa delle cose. Queste condizioni si sono verificate in modo tangibile nell’azione dell’autorità ecclesiastica sugli affari pubblici. Consultate i Concili di quei tempi, e in ognuno di essi compariranno gli stessi fatti. Così per esempio il Concilio di Palenza nel regno di Leone tenuto nel 1129, dispone nel canone 12 che siano esiliati o rinchiusi in un monastero coloro che attaccano chierici, monaci, mercanti, pellegrini e donne. Passate in Francia, e troverete il Concilio di Clermont in Auvergne tenuto nel 1130, che nel canone 13 scomunica gl’incendiari. Nel 1157 l’occhio si poserà sul Concilio di Rheims, il quale nel canone 3 stabilisce che durante la guerra non siano toccate le persone di chierici, monaci, donne, viandanti, lavoranti e vignaioli. Passate in Italia, e troverete l’undicesimo Concilio ecumenico Laterano convocato nel 1179, che nel canone 22 proibisce di maltrattare e minacciare i monaci, i chierici, i pellegrini, i mercanti, i contadini che viaggiano o sono occupati nell’agricoltura, e gli animali impiegati per il lavoro. Nel canone 24 si scomunicano coloro che fanno prigionieri o rapinano i Cristiani che navigano per il loro commercio o per altre legittime cause, e coloro che rubano ai naufraghi, qualora non restituiscano le cose rubate. Passando in Inghilterra, troviamo il Concilio di Oxford tenuto nel 1222 da Stefano Langton Arcivescovo ai Canterbury, che nel canone 20 proibisce a chicchessia di mantenere ladri al proprio servizio. In Svezia il Concilio di Arbogen celebrato nel 1396 da Enrico, Arcivescovo di Upsala, dispone nel canone 5 che non si conceda la sepoltura ecclesiastica ai pirati, ai rapitori, agli incendiari, ai ladri di strada, agli oppressori dei poveri e agli altri malfattori. Dunque in tutte le parti e in tutti i tempi s’incontra lo stesso fatto, cioè la Chiesa che lotta contro l’ingiustizia e contro la violenza, e si sforza di mettere al loro posto il regno della giustizia e della legge.

Io non so con quale spirito alcuni abbiano letta la storia ecclesiastica, per non aver percepita la bellezza del quadro che ci presenta nelle disposizioni insistentemente ripetute, che qui ho solo citato, tutte dirette a proteggere il debole contro il forte. Se al chierico e al monaco, deboli come sono perché

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appartengono ad una professione pacifica, si accorda una particolare protezione nei canoni citati, notiamo che la stessa protezione si dispensa alle donne, ai pellegrini, ai mercanti, ai contadini che sono in viaggio e si occupano dei lavori della terra, agli animali addetti alla coltivazione, in una parola a chiunque è debole. Da osservare che questa protezione non è un mero slancio di fugace generosità, ma un sistema mantenuto in luoghi molto diversi, ininterrotto per lo spazio di secoli, sviluppato e applicato con tutti i mezzi che suggerisce la carità, inesauribile in espedienti e artifici quando si tratta di fare il bene e di evitare il male. E non si può certo dire che la Chiesa agisse per interesse, perché quale profitto materiale poteva mai ottenere dall’impedire di rubare ad un ignoto viandante, di fare violenza a un povero contadino, di arrecare offesa a una donna indifesa? Lo spirito che lo animava allora (nonostante gli abusi a cui potevano portare la calamità dei tempi), lo spirito che l’animava allora come lo anima adesso, era lo Spirito di Dio: quello Spirito che le comunica costantemente una decisa inclinazione al buono e al giusto, e che la spinge a cercare sempre i mezzi più adatti per realizzarlo.

Giudichi ora, il lettore imparziale, se tanti continui sforzi da parte della Chiesa per eliminare dalla società il dominio della forza contribuirono o no a moderare i costumi. E questo limitandomi al solo tempo di pace; perché per quanto riguarda il tempo di guerra non è necessario neanche fermarsi a provarlo. Il vae victis degli antichi è scomparso dalla storia moderna grazie alla religione divina che ha ispirato agli uomini altre idee e altri sentimenti, grazie alla Chiesa cattolica che col suo zelo per la redenzione degli schiavi ha moderato le feroci massime dei Romani, i quali credevano necessario, per rendere valorosi gli uomini, di toglier loro ogni speranza di uscire dalla schiavitù nel caso che in schiavitù venissero ridotti per le vicende della guerra. Se il lettore vuole prendersi il fastidio di leggere i capitoli XVII e XVIII di quest’opera, ed il § III della nota (15), dove si trovano alcuni dei molti documenti che potrebbero essere citati su questo punto, si formerà una giusta idea della gratitudine che merita la Chiesa cattolica per la sua carità, per il distacco dai beni terreni, per il suo zelo instancabile in favore degli infelici che gemevano privi di libertà in potere dei loro nemici. A questo si deve aggiungere anche la riflessione che, una volta abolita la schiavitù, era inevitabile che il modo di combattere venisse a modificarsi, divenendo meno cruento. Perché se non era più lecito uccidere il nemico che si fosse arreso, né tantomeno ridurlo in schiavitù, tutto si riduceva a trattenerlo il tempo necessario perché non fosse pericoloso, o finché non se ne ricevesse il corrispondente riscatto. Ecco il sistema moderno, che consiste nel tenere i prigionieri finché sia terminata la guerra o si arrivi ad uno scambio.

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Quantunque, per quel che si è detto sopra, la delicatezza dei costumi consista, letteralmente parlando, nell’esclusione della forza, ciò nonostante, siccome in questo mondo tutto è concatenato, non si deve vedere quest’esclusione solo in se stessa, cioè in senso astratto considerando possibile che esista solo grazie al progresso conseguito dall’intelligenza. Una delle condizioni necessarie per una vera delicatezza dei costumi è che non solo si evitino per quanto è possibile i mezzi violenti, ma, di più, che si adoperino i mezzi benèfici. Se non avviene questo i costumi saranno più rilassati che delicati, e l’uso della forza non sarà bandito dalla società, ma vi si manterrà mascherato ad arte. Per queste ragioni bisogna dare un’occhiata al principio dal quale la civiltà europea ha preso quello spirito di beneficenza che la distingue, poiché così sarà del tutto chiaro che la nostra delicatezza dei costumi è dovuta soprattutto al Cattolicesimo. Oltre a ciò, anche prescindendo dal rapporto che la beneficenza ha col Cattolicesimo, essa, considerata a sé, è di tale importanza che non ci possiamo dispensare dal dedicarle alcune pagine, visto che stiamo facendo una rassegna analitica degli elementi della nostra civiltà (22). Torna all’indice

CAPITOLO XXXIII Beneficenza pubblica. Differenze tra il Protestantesimo e il Cattolicesimo riguardo ad essa. Paradosso di Montesquieu. Regole fondamentali in questo campo. Danni causati dal Protestantesimo in questo campo. Ciò che vale la filantropia.

I costumi non saranno mai delicati senza le opere di pubblica beneficenza. La delicatezza dei costumi e questa beneficenza, anche se non devono essere confuse tra loro sono però sorelle. La beneficenza pubblica propriamente detta non era conosciuta presso gli antichi. L’individuo poteva pur essere qualche volta benefico, ma la società era senza cuore, pertanto nel suo sistema di amministrazione non previde mai la fondazione di istituti di pubblica beneficenza. Ci si chiederà: che ne facevano dunque degli sventurati? E noi risponderemo con l’autore del Genio del Cristianesimo «che avevano due mezzi per liberarsene: l’infanticidio e la schiavitù».

Il Cristianesimo si era già diffuso ovunque, ma vediamo tuttavia che i resti degli atroci costumi davano ancora forti preoccupazioni alle autorità ecclesiastiche. Il Concilio di Vaison tenuto nell’anno 442, nello stabilire un regolamento sulla legittima acquisizione dei fanciulli esposti, dispone dei castighi mediante censure ecclesiastiche per coloro che disturbavano con

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inopportuni reclami le persone caritatevoli che avevano raccolto un bambino. Lo scopo del Concilio era quello di non scoraggiare le persone caritatevoli dal seguire questo costume benefico, perché in caso contrario, soggiunge il Concilio, i bambini restavano esposti, e quindi soggetti ad esser mangiati dai cani. Non mancavano tuttavia alcuni padri snaturati che uccidevano i loro figli; perché il Concilio di Lerida del 546 impone sette anni di penitenza a chi commetta simile delitto, e quello di Toledo del 589 dispone nel canone 17 che s’impedisca ai padri e alle madri di togliere la vita ai loro figli.

La difficoltà tuttavia non era nel correggere questi eccessi, i quali per la loro stessa contrapposizione ai princìpi fondamentali della morale e per la loro avversione ai sentimenti più naturali tendevano già ad essere sradicati ed estirpati spontaneamente. La difficoltà consisteva piuttosto nel trovare i mezzi per organizzare un vasto sistema di beneficenza che rendesse sempre disponibile l’assistenza, non soltanto ai bambini, ma anche ai vecchi e invalidi, agli infermi e ai poveri che non potessero vivere del loro lavoro: in breve, a tutti i bisognosi. Essendo noi abituati a questo sistema che troviamo già pronto e funzionante, una tale organizzazione può sembrarci tanto semplice e naturale che a mala pena riusciamo a concepire la minima parte del merito che le si deve riconoscere. Si supponga però per un momento che queste pie istituzioni non esistano, o trasferiamoci con l’immaginazione a quei tempi in cui non se ne concepiva neanche l’idea: quale e quanto faticoso e incessante lavoro sarebbe necessario per realizzarli e organizzarli?

È chiaro che, diffusasi nel mondo la carità cristiana, tutte le necessità umane (anche se l’esercizio della carità fosse rimasto limitato alla spontanea iniziativa individuale) erano destinate ad essere soccorse con maggiore frequenza ed efficacia di quanto non lo fossero nei tempi precedenti al Cristianesimo. Perché non sarebbe mai mancato un numero considerevole di fedeli che non avrebbero dimenticato le dottrine e l’esempio di Gesù Cristo. Il quale, mentre c’insegna l’obbligo di amare gli altri come noi stessi, e non già in modo sterile, ma col dare da mangiare all’affamato, da bere all’assetato, col vestire gl’ignudi, visitare gl’infermi e i carcerati; ci mostrava col Suo agire un modello pratico di questa virtù. Egli poteva mostrare in mille modi l’infinito potere che aveva in cielo e sulla terra: al comando della sua voce si sarebbero piegati docilmente tutti gli elementi, gli astri si sarebbero fermati nel loro corso e tutta la natura avrebbe sospeso le sue leggi. E invece dobbiamo constatare che Egli si compiacque di manifestare la sua onnipotenza e di attestare la sua divinità col fare quei miracoli che erano finalizzati a consolare gli infelici. La Sua vita è compendiata nella sublime semplicità di quelle due parole del sacro Testo: Pertransiit benefaciendo. Passò facendo il bene.

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Ciò nonostante, per quanto si potesse confidare nella carità cristiana lasciata all’iniziativa personale e operante in modo esclusivamente individuale, non era conveniente lasciarla in questo stato, ma era opportuno esercitarla attraverso istituzioni permanenti in modo da evitare che il soccorso ai bisognosi fosse soggetto a situazioni dipendenti dalla volontà dell’uomo e dalle circostanze del momento. Per questo motivo fu molto saggia e prudente l’idea di far sorgere un gran numero di istituti di beneficenza. La Chiesa fu quella che ebbe quest’idea e che la realizzò; e facendo ciò, altro non fece che applicare ad un caso particolare la regola generale del suo modo d’agire, cioè di non lasciar mai all’iniziativa individuale ciò che si può realizzare con una istituzione. Ed è opportuno osservare che questa è una delle ragioni della forza posseduta da tutto ciò che appartiene al Cattolicesimo; sicché, come il principio di autorità in materia di dogma conserva l’unità e la fermezza nella fede, così la regola di affidare tutte le opere a delle istituzioni assicura alle opere stesse la solidità e la durata che derivano dal Cattolicesimo. Questi due princìpi hanno tra loro una corrispondenza intima; perché, se si osserva bene, l’uno (il principio di autorità) suppone la diffidenza nell’intelletto dell’uomo, l’altro (quello di affidare le opere alle istituzioni) nella volontà di lui e nei suoi mezzi individuali. Il primo suppone che l’uomo non basta a se stesso per conoscere molte verità, e l’altro che egli è troppo incostante e debole per poter lasciare in balìa della sua incostanza e debolezza la cura di fare il bene. Né l’uno né l’altro fanno ingiuria all’uomo, né l’uno né l’altro ne deprimono la dignità, perché non fanno altro che mostrargli quanto egli sia in realtà soggetto all’errore, inclinato al male, incostante nei propositi e limitato nelle sue iniziative. Tragiche verità (e tuttavia confermate dall’esperienza quotidiana), di cui la religione cristiana trova la spiegazione nel dogma fondamentale della caduta del genere umano dovuta alla prevaricazione del progenitore della stirpe umana.

Il Protestantesimo, seguendo princìpi diametralmente opposti, applica alla volontà quello stesso spirito di individualismo che predica per l’intelletto, mostrandosi così per sua natura nemico delle istituzioni. Attenendoci all’oggetto di cui ci stiamo occupando, vediamo che la prima cosa che fece quando nacque fu quella di distruggere ciò che esisteva senza pensare al modo di sostituirlo con altre opere. Sembra incredibile che Montesquieu sia giunto al punto di approvare quest’opera di distruzione, e questa è un’altra prova della maligna influenza dell’atmosfera che il secolo passato esercitava sulle menti.

«Enrico VIII – dice il citato autore – volendo riformare l’Inghilterra, eliminò i religiosi, gente sfaccendata che stimolava la pigrizia anche negli altri perché, praticando l’ospitalità, faceva sì che un’infinità di persone oziose, sia nobili che della classe del popolo, trascorressero la vita passando di convento

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in convento. Abolì altresì gli ospizi, dove il basso popolo trovava assistenza come i nobili la trovavano nei monasteri: fin da quell’epoca si stabilì in Inghilterra lo spirito del commercio e dell’industria» (Spirito delle Leggi. Lib. 23, cap. 29). Che Montesquieu abbia lodato la condotta di Enrico VIII con la meschina motivazione che distruggendo i conventi venivano tolti agli oziosi l’espediente di trovarvi ospitalità, non desta alcuna meraviglia, perché simili trivialità erano tipiche del genere di filosofia che incominciava allora a predominare, la quale pretendeva di scoprire profonde motivazioni economiche e politiche in tutto ciò che si opponeva alle istituzioni del Cattolicesimo. Il che è molto facile, perché un animo prevenuto trova ciò che vuole sia nei libri che nei fatti. Si potrebbe tuttavia chiedere al Sig. Montesquieu dove siano andati a finire i beni dei conventi. Perché siccome una buona parte di questi pingui bottini toccò a quegli stessi nobili che qui avevano trovato ospitalità, si potrebbe forse contestare all’autore dello Spirito delle Leggi di aver preteso di diminuire l’oziosità di questi con un mezzo veramente singolare, quello cioè di dar loro i beni di quei religiosi dai quali avevano ricevuto ospitalità. E questo è giusto, perché mantenendo in casa propria quegli stessi beni che servivano a procurarsi l’ospitalità, si risparmiava ai nobili la fatica di passare di convento in convento. Quello però che non si può tollerare è che egli descriva come un colpo maestro in economia politica «l’aver abolito gli ospizi dove il basso popolo trovava assistenza». Ma è possibile che la vostra vista sia tanto corta, e la vostra filosofia talmente spietata da ritenere vantaggiosa per l’industria e il commercio l’abolizione degli asili per gl’infermi?

Ma il peggio è che il Sig. Montesquieu, tutto preso dalla voglia di fare ciò che vengono chiamate osservazioni nuove e stuzzicanti, arriva al punto di negare l’utilità degli ospizi e pretende che questo è il motivo per cui a Roma tutti fanno una vita comoda, eccetto quelli che lavorano. Se le nazioni sono povere, non occorrono ospizi; e se sono ricche neanche. Per sostenere questo paradosso disumano espone i motivi che il lettore apprenderà dalle seguenti parole: «Quando la nazione è povera – egli dice – la povertà individuale deriva dalla miseria generale e non è altro, per così dire, che la stessa miseria generale. Tutti gli ospizi non servono allora a rimediare a questa povertà particolare; al contrario, lo spirito di pigrizia che ispirano aumenta la povertà generale e di conseguenza anche quella individuale». Ecco gli ospizi presentati come dannosi per le nazioni povere, e perciò condannati. Sentiamolo adesso riguardo alle ricche. «Ho detto che le nazioni ricche hanno bisogno di ospizi perché tra esse i beni di fortuna vanno soggetti a mille imprevisti; ma abbiamo visto che sarebbe molto meglio fornire degli aiuti occasionali piuttosto che fondare delle istituzioni fisse. Il male è momentaneo, e di conseguenza è

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opportuno che gli aiuti siano della stessa natura, e applicabili nei casi particolari» (Spirito delle leggi lib. 23, cap. 29). È difficile trovare qualcosa di più insulso e di più ipocrita del passo citato; e se da tale passo si dovesse giudicare l’opera dalla quale è tratto, opera il cui merito è stato portato alle stelle, essa meriterebbe piuttosto un giudizio ancora più severo di quello che le ha dato il Sig. De Bonald quando l’ha definita «la più profonda delle opere superficiali».

Fortunatamente per i poveri e per il buon ordine della società, l’Europa in generale non ha adottato queste idee; e su questo punto, come in molti altri, sono stati messi da parte i pregiudizi contro il Cattolicesimo e si è seguito con qualche variante il sistema da esso insegnato.

Nella stessa Inghilterra esistono un numero considerevole di istituti di beneficenza, e neanche là si crede che per stimolare la diligenza del povero sia necessario esporlo al pericolo di morire di fame. Conviene tuttavia osservare che questo sistema di istituti di pubblica beneficenza attualmente comuni in tutta Europa, non esisterebbe senza il Cattolicesimo; e si può dar per certo che se lo scisma religioso protestante fosse avvenuto prima che si stabilisse e si organizzasse il detto sistema, la società europea non godrebbe di questi istituti che le fanno tanto onore, e che sono per di più un prezioso elemento di ordine pubblico e di pubblica tranquillità.

Non è la stessa cosa fondare e sostenere un istituto assistenziale di questo genere quando già ce ne sono molti altri simili, e quando i governi dispongono di mezzi illimitati e della forza occorrente a coprire tutte le necessità; e fondarne invece un gran numero quando non ne esiste neppure uno da cui prendere il modello, quando i mezzi devono essere, per così dire, improvvisati in mille modi diversi, quando il potere pubblico non ha né il prestigio né la forza per tenere a freno le passioni violente che fanno ogni sforzo per impadronirsi di tutto ciò che presenta loro qualche guadagno. Ora, gl’istituti che abbiamo descritti prima sono stati fatti nei tempi moderni da quando esiste il Protestantesimo, i secondi sono quelli che furono eretti dalla Chiesa cattolica parecchi secoli prima.

E si noti bene, che quanto è stato fatto nei paesi protestanti in favore degli istituti di beneficenza si riduce a semplici atti amministrativi dei governi, che gli stessi governi rilasciarono ben volentieri considerando i buoni effetti fino allora ottenuti da quegli istituti. Ma il Protestantesimo in sé, e considerato come chiesa separata, non ha fatto nulla. Né tampoco poteva fare, perché dove conserva qualche apparenza di ordinamento gerarchico, non è altro che un puro strumento del potere civile, e non può quindi agire per proprio conto. Ciò che lo rende del tutto sterile in questa materia, oltre al difetto della propria

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istituzione, sono i suoi pregiudizi contro gl’istituti religiosi sia maschili che femminili, restando così privo di uno dei più potenti mezzi che ha il Cattolicesimo per portare avanti le più difficili e pietose opere di carità. Per le grandi opere di carità è necessario il distacco da tutte le cose e anche da se stessi; ed è questo che in modo eminente si trova nelle persone consacrate alla beneficenza in un istituto religioso: qui s’incomincia da quel distacco che è la radice di tutti gli altri, quello cioè dalla propria volontà.

In queste opere la Chiesa cattolica, lungi dal procedere per mandato del potere civile, ha sempre considerato come una sua specifica missione quella di portare soccorso a tutte le necessità; e i Vescovi sono stati considerati come i protettori e i visitatori naturali dei pii istituti di beneficenza. Quindi nel diritto comune gli ospizi erano soggetti ai Vescovi, e nella legislazione canonica ai pii istituti di beneficenza è sempre stato riservata un’attenzione particolare.

Quella di fare delle leggi su questi pii istituti è cosa antichissima nella Chiesa; e infatti vediamo che il Concilio di Calcedonia, nell’ordinare che resti sotto l’autorità del Vescovo della città il chierico che è assegnato in pthochiis (cioè, secondo la spiegazione di Zonara, «in alcuni pii istituti destinati al vitto e alla cura dei poveri, come quelli dove sono ricevuti e mantenuti gli orfani, i vecchi e gl’infermi») usa la seguente espressione: secondo la tradizione dei S.S. Padri. Dimostrando in questo modo che su essi esistevano già antiche disposizioni della Chiesa, perché fin da allora si faceva ricorso alla tradizione quando si trattava di regolare qualche questione che riguardava questi istituti. Inoltre, da parte degli studiosi, si ha conoscenza delle antiche Diaconie dove erano ricoveravate vedove povere, orfani, vecchi ed altri bisognosi.

Quando con l’invasione dei barbari la legge del più forte s’introdusse ovunque, i beni già di proprietà degli ospizi o che furono acquisiti successivamente erano molto insicuri perché per loro natura attiravano fortemente la cupidigia. La Chiesa però non mancò di proteggerli con la sua autorità. La disposizione che proibiva di rapinarli o di appropriarsene era molto severa, e chi si rendeva colpevole di tale reato era punito come omicida dei poveri. Il Concilio d’Orleans dell’anno 549 nel canone 13 proibisce d’impossessarsi dei beni degli ospizi; e il canone 15, nel confermare la fondazione di un ospizio costruito a Lione dal re Childeberto e dalla regina Ultrogota, mirando alla sicurezza e alla buona amministrazione dei beni impone a chi contravviene alla suddetta proibizione la pena di scomunica come reo di omicidio dei poveri.

In alcuni Concili molto antichi troviamo certe disposizioni sui poveri che sono un insieme di beneficenza e di norme di sicurezza, e attualmente sono adottate in vari paesi. Citiamo per esempio la disposizione di formare una lista

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dei poveri della parrocchia e obbligare questa a mantenerli, ed altre simili. Così il Concilio di Tours celebrato nell’anno 566 o nel seguente, nel canone 5 prescrive che ogni città mantenga i suoi poveri, e che i sacerdoti delle campagne, insieme ai fedeli, mantengano quelli del loro circondario per evitare che i mendicanti vadano vagando per città e province. Per ciò che riguarda i lebbrosi, il canone 21 del Concilio di Orleans appena citato prescrive che i Vescovi abbiano una cura particolare per poveri e lebbrosi della loro diocesi, somministrando loro dai fondi della Chiesa vitto e vestiario; e il Concilio di Lione celebrato nell’anno 583 dispone nel canone 6 che i lebbrosi di ogni città e territorio circostante siano mantenuti a spese della Chiesa, e di questo se ne occupi il Vescovo.

La Chiesa conservava un libro-matricola dei poveri ai quali distribuiva parte dei suoi beni, ed era fatto assoluto divieto agli incaricati alla immatricolazione di ricevere alcun compenso da coloro che venivano registrati. Nel Concilio di Rhèims celebrato nell’anno 874 si proibisce, nel secondo dei suoi cinque articoli, di ricevere qualcosa dai poveri che si fanno registrare sul libro-matricola, e questo sotto pena di destituzione.

La premura per migliorare la sorte dei carcerati, che si è tanto diffusa nei tempi moderni, nella Chiesa è antichissima. È degno di nota che fin dal sesto secolo vi era già in essa la mansione del Visitatore delle carceri. L’arcidiacono o il preposto della chiesa avevano l’obbligo di visitare i carcerati tutte le domeniche. Questa sollecitudine si estendeva a tutti i carcerati senza eccezione. L’arcidiacono doveva informarsi delle loro necessità, e somministrare il vitto e tutto l’occorrente per mezzo di una persona di riguardo scelta dal Vescovo. Così si legge nel canone 20 del Concilio d’Orleans tenuto nel 549.

Sarebbe troppo lungo enumerare anche una piccola parte delle deliberazioni che testimoniano lo zelo messo in atto dalla Chiesa per consolare tutti gli sventurati e dare sollievo alle loro pene, e sarebbe anche fuori luogo; perché la mia intenzione è solamente quella di mettere a confronto lo spirito del Protestantesimo con quello del Cattolicesimo riguardo alle opere di beneficenza. Ma giacché lo stesso sviluppo del tema mi ha portato necessariamente a produrre alcune testimonianze storiche, non posso fare a meno di ricordare il capitolo 141 del Concilio di Aquisgrana dove si dà disposizione ai prelati di fondare, seguendo l’esempio dei loro predecessori, un ospizio per ricevere tanti poveri quanti se ne potevano mantenere con le entrate della Chiesa. I canonici dovevano dare all’ospizio la decima dei frutti, e uno di essi doveva avere l’incarico di ricevere i poveri e i pellegrini, e di amministrare l’ospizio. Questa era la regola per i canonici. Quanto alle badesse, lo stesso Concilio dispone che venga costruito un ospizio vicino al monastero, e che

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nell’interno del monastero medesimo vi sia un edificio destinato a ricevere le donne povere. Da questa usanza è derivato che molti secoli dopo in varie zone si vedevano degli ospizi adiacenti alla chiesa dei canonici.

Venendo a tempi a noi più vicini, gli istituti di beneficenza sono alquanto aumentati di numero. Desta stupore la fecondità con cui sorgevano ovunque i mezzi per portare soccorso alle varie necessità. Non è possibile fare un calcolo preciso di ciò che sarebbe successo se non fosse comparso il Protestantesimo; ma se vogliamo fare un discorso basato su quanto si era fatto fino allora, si può supporre che se lo sviluppo della civiltà europea fosse stato portato a compimento sotto l’unità religiosa e senza le rivoluzioni e reazioni continue in cui fu immersa l’Europa grazie alla pretesa riforma, dal seno della religione cattolica sarebbe senz’altro sorto un sistema universale di beneficenza. Il quale, con una grande organizzazione, e conformemente a ciò che richiedeva lo sviluppo della società moderna, avrebbe forse prevenuta o debellata la piaga del pauperismo, che è il cancro della società attuale. Non si poteva forse sperarlo, se con un lavoro congiunto di tutte le menti e di tutti i mezzi delle nazioni europee si fosse agito in modo coordinato per ottenere questo fine? Disgraziatamente fu rotta l’unità della fede, non si volle più riconoscere l’autorità che sarebbe stata il centro per l’avvenire come lo era stata fino a quel momento; e da allora in poi l’Europa, che era destinata a divenire in breve tempo un insieme di popoli fratelli, divenne un campo di battaglia dove si combatté con un accanimento inaudito. L’odio prodotto dal contrasto tra le religioni non permise che si mettessero insieme gli sforzi per far fronte alle nuove difficoltà e necessità che andavano sorgendo nell’ordinamento sociale e politico ottenuto dall’Europa col lavoro di tanti secoli. Invece di questo lavoro congiunto, divennero normali in Europa le dispute fomentate dall’odio, l’insurrezione e la guerra.

Non bisogna dimenticare che con lo scisma dei Protestanti non solo fu impedito che si giungesse ad un comune impegno per conseguire il fine indicato, ma si ebbe per di più un danno ancora maggiore, dovuto al fatto che il Cattolicesimo non poté più operare in modo normale negli stessi paesi dove mantenne un assoluto dominio o almeno una chiara prevalenza. Quasi sempre ha dovuto mantenersi sulla difensiva, e si è visto quasi costretto ad impiegare gran parte dei suoi mezzi per salvare la sua stessa esistenza. Da tutto questo derivò l’attuale situazione in Europa che è del tutto diversa da quella che molto probabilmente sarebbe stata nel caso supposto, che si fosse cioè giunti ad un’azione comune. E in questo caso non ci sarebbe stata la necessità di prodursi in vani sforzi contro un male che, secondo tutte le apparenze, se non si riuscirà ad escogitare qualche mezzo finora sconosciuto, è poco meno che

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incurabile. Mi si dirà che in questo caso la Chiesa avrebbe conservato un’autorità

eccessiva in ogni settore nel campo della beneficenza, la qual cosa sarebbe stata un’ingiusta limitazione delle prerogative del potere civile. Ma è sbagliato dire questo. Perché la Chiesa non pretende nulla di più che il suo titolo di protettrice di tutti gli sventurati, titolo del quale è molto degnamente investita. È vero che in certe epoche per tutto ciò che riguardava la beneficenza non si udiva altra voce né si vedeva altra azione che quella della Chiesa; ma conviene osservare che in quei secoli il potere civile era ben lontano dall’avere un’amministrazione ordinata e autorevole con la quale poter andare efficacemente in aiuto alla Chiesa. È tanto vero che da tutto questo alla Chiesa non è mai derivata alcuna ambizione che, al contrario, spinta dal suo zelo che non aveva confini, prese su di sé tutto il peso delle cure sia spirituali che temporali, non risparmiandosi nessun genere di sacrifici e di spese.

Sono già passati tre secoli dal funesto avvenimento che deploriamo; e l’Europa, che durante questo tempo è stata in gran parte sotto l’influsso del Protestantesimo, non ha fatto un solo passo rispetto a com’era in quell’epoca. Se questi tre secoli fossero trascorsi sotto il Cattolicesimo credo che qualche iniziativa caritatevole, tale da portare le organizzazioni di beneficenza a quell’alto livello che richiede la complessità delle nuove esigenze, sarebbe senz’altro sorta. Dando un’occhiata ai vari progetti di coloro che si occupano di questa importantissima questione, è sempre presente un’idea di associazione, sotto l’una o l’altra forma. Questo, per dire le cose come stanno, è sempre stato il principio fondamentale del Cattolicesimo, il quale predicando l’unità della fede, allo stesso modo predica l’unione in tutto. Ma c’è questa differenza: che molte di quelle associazioni che vengono progettate e realizzate adesso non sono altro che un insieme d’interessi, perché manca l’unione della volontà e l’ unità del fine; le quali, trovandosi solo mediante l’esercizio della carità cristiana, sono necessarie pure per condurre a buon fine le grandi opere di beneficenza, se vogliamo trovare in esse qualcosa di più che un semplice disbrigo di pubblica amministrazione. L’amministrazione civile non serve a nulla quando non è energica; e disgraziatamente quando arriva ad avere questa energia la sua azione ha un po’della durezza e della tensione delle molle d’acciaio. Per questo è necessaria la carità cristiana, la quale insinuandosi in tutte le parti come un balsamo, raddolcisce quanto c’è di duro nell’agire dell’uomo.

Guai a quegli sventurati che nelle loro necessità ricevono i soccorsi solamente per mezzo dell’amministrazione civile senza l’intervento della carità cristiana! Nelle relazioni che pubblicano, le amministrazioni civili descrivono

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in modo esagerato le loro attività filantropiche rivolte agli sventurati; ma in realtà le cose vanno in modo ben diverso. L’amore verso i nostri fratelli, se non è fondato sui princìpi religiosi è tanto abbondante di parole quanto è scarso di fatti. La vista del povero, dell’infermo, del vecchio privo di forze, è troppo sgradevole perché possiamo sopportarla per molto tempo quando ne siamo obbligati per gravi motivi. Ma si dovrebbe almeno sperare che le cure penose, umilianti, continue, necessarie per assistere questi infelici, siano prestate in modo conveniente per un vago sentimento d’umanità! E invece no: dove manca la carità cristiana ci potrà essere puntualità, precisione, tutto ciò che possono dare degli stipendiati per questo servizio, se l’istituto di beneficenza è sotto una buona amministrazione; mancherà però una cosa che non può essere sostituita da nessun’altra e non c’è denaro che la ripaghi, cioè l’amore. Ci si chiederà: non avete fede nella filantropia? No, rispondiamo, perché, come ha detto Chateaubriand, la filantropia è la falsa moneta della carità.

È dunque molto ragionevole che alla Chiesa fosse riconosciuto un intervento diretto in tutti i settori delle opere di beneficenza, perché essa è quella che meglio di ogni altro sa esercitare la carità cristiana, applicandola ad ogni genere di necessità e di miserie. Questo non è un voler soddisfare l’ambizione, ma dare via libera al suo zelo; non è pretendere un privilegio, ma far valere un diritto. Del resto se proprio volete chiamare ambizione questo desiderio, non potrete negarci almeno che si tratta di un’ambizione di nuovo genere: un’ambizione ben degna di gloria e di stima, che consiste nel reclamare il privilegio di soccorrere e consolare gli sventurati (23). Torna all’indice

CAPITOLO XXXIV Intolleranza. Malafede su questo argomento. Definizione della tolleranza. Tolleranza d’opinioni e tolleranza di errori. Tolleranza nei confronti dell’individuo. Tolleranza negli uomini religiosi e negli increduli. Da dove nasce negli uni e negli altri. Due classi di uomini religiosi e di increduli. Tolleranza nella società: da dove nasce. Origine della tolleranza che regna nella società attuale.

La questione sulla delicatezza dei costumi trattata nei capitoli precedenti mi porta in modo naturale ad un’altra questione già per sé stessa molto difficile, che per di più è divenuta estremamente spinosa a causa dei molti pregiudizi che l’accompagnano. Parlo della tolleranza in materia religiosa. Per certe persone la parola Cattolicesimo è sinonimo d’intolleranza; ed è tale la

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confusione delle idee su questo tema che non vi è cosa più impegnativa quanto l’accingersi a chiarirle. Basta proferire la parola intolleranza perché l’animo di certe persone si senta assalito da ogni genere d’idee tenebrose e terribili. La legislazione, le istituzioni, gli uomini del passato, tutto viene condannato senza appello al minimo accenno che si faccia sull’intolleranza. Varie sono le cause che vi contribuiscono, ma se si vuole indicare la principale bisognerebbe citare la saggia risposta di Catone, quando accusato all’età di ottantasei anni di non so quali delitti della vita passata in epoche molto remote, disse: «È difficile rendere conto della propria condotta a uomini di un secolo diverso da quello in cui uno ha vissuto».

Ci sono certe cose di cui non è possibile dare un giudizio sicuro se non si ha, non solo la conoscenza, ma anche un vivo sentimento dell’epoca in cui sono avvenute. E quanti sono gli uomini capaci di giungere fino a questo punto? Sono ben pochi coloro che riescono a far sì che il loro giudizio resti immune dall’influenza del clima che li circonda; e sono ancora meno quelli che da tale influenza riescono a rendere immune il loro cuore. Il secolo in cui viviamo è l’esatto contrario dei secoli dell’intolleranza, ed ecco la prima difficoltà che si presenta nel discutere questo genere di questioni.

Il rancore e la malafede di alcuni che esaminarono tali questioni ebbero peraltro un peso non indifferente nel fuorviare l’opinione della gente su di esse. Non vi è cosa al mondo che non possa subire discredito se la si guarda da un solo lato, perché le cose guardate così appaiono false, o per meglio dire non sono più le stesse. Ogni oggetto ha tre dimensioni: chi ne considera soltanto una non si forma l’idea dell’oggetto, ma di qualcosa che differisce molto dall’oggetto stesso. Prendete un’istituzione qualunque, la più giusta e la più utile che possiate immaginare; proponetevi di esaminarla sotto l’aspetto dei mali e degli inconvenienti che in essa sono nati facendo in modo di condensare in poche pagine ciò che in realtà si trova distribuito in molti secoli. Ne risulterà una storia ributtante, orrenda e degna di esecrazione. Fate che un fanatico della democrazia vi illustri in una breve descrizione e con fatti storici alla mano i mali e gli inconvenienti della monarchia, i vizi e i delitti dei re. Cosa vi sembrerà allora della monarchia? Ma lasciate che un fanatico della monarchia possa a sua volta descrivere, sempre con la testimonianza dei fatti storici, la democrazia e i partiti popolari. Che ne sarà allora della democrazia? Riunite tutti insieme i mali arrecati all’umanità dai molti progressi dello stato sociale dei popoli: la civiltà e la cultura vi sembreranno detestabili. Andando a spigolare tra le gloriose imprese dello spirito umano, dalla storia della scienza si può fare anche la storia della follia, e perfino del delitto. Accumulando i funesti incidenti causati dai professori dell’arte medica si può presentare questa

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benefica professione come il curriculum dell’omicidio. In una parola, procedendo in questa maniera, si può deformare tutto: Dio stesso potrà essere presentato come un mostro di crudeltà e tirannia se, facendo astrazione dalla Sua bontà, sapienza e giustizia, non si badasse che ai mali che vediamo diffusi in un mondo creato dalla Sua onnipotenza e soggetto alla Sua provvidenza.

Applichiamo ora questi princìpi all’argomento che c’interessa. Mettendo da parte lo spirito dei tempi, le circostanze particolari, un insieme di cose del tutto diverse dai tempi attuali, si può benissimo fare la storia dell’intolleranza religiosa dei Cattolici, con l’accortezza però di far sì che il rigore di Ferdinando e Isabella, di Filippo Il, della Regina Maria d’Inghilterra, di Luigi XIV e di quanto è accaduto nello spazio di tre secoli siano condensati in poche pagine e dipinti con i colori più foschi possibili. Il lettore che riceve in un breve spazio di tempo le impressioni di fatti che si svolsero in trecento anni, il lettore che (vivendo in una società in cui le carceri stanno convertendosi in case di ricreazione e in cui è fortemente avversata la pena di morte) si vede descrivere scene di oscure prigioni, strumenti di tortura, vesti d’infamia e roghi accesi, si sente battere vivamente il cuore, piange sulle disgrazie degl’infelici portati a morire e s’indigna contro gli autori di quelle che egli definisce orribili atrocità. Nulla è stato detto, al candido lettore, dei princìpi e della condotta dei Protestanti nell’epoca stessa; non gli è stata ricordata per nulla la crudeltà di Enrico VIII e di Elisabetta d’Inghilterra, e così tutto il suo odio si concentra sui Cattolici, e si abitua a considerare il Cattolicesimo come una religione di tirannia e di sangue. Ma il giudizio che si è formato in questo modo, sarà equo? Sarà questo un verdetto giusto e formulato con piena cognizione di causa? Vediamo: cosa faremmo noi se c’imbattessimo in un quadro fosco, così come l’ho accennato sopra, sulla monarchia, sulla democrazia, sulla civiltà, sulla scienza, sulle professioni più benefiche? Quello che faremmo, o almeno quello che sicuramente dovremmo fare, consiste nello spingere oltre le nostre indagini, nel rivoltare l’oggetto per osservarne i diversi lati, nel considerare gli aspetti positivi dopo aver appresi quelli negativi; dovremmo rimuovere il difetto derivante dal loro essere concentrati in breve arco di tempo, per considerarli piuttosto come furono in se stessi, cioè disseminati a grande distanza gli uni dagli altri nel corso dei secoli. In una parola: faremmo in modo di essere equilibrati, ponendo sulla bilancia il bene e il male per farne il confronto, come si dovrebbe fare sempre quando si tratta di valutare i fatti nella storia dell’umanità secondo il loro giusto valore. Lo stesso metodo dovrebbe essere seguìto nel nostro caso al fine di preservarci dall’errore a cui portano le false narrazioni e l’esagerazione di alcuni, il cui scopo evidente era quello di alterare i fatti col presentarceli da un solo lato. Adesso l’Inquisizione non esiste

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più, e non vi è certamente alcuna probabilità che sia ristabilita; né tampoco esistono le leggi severe che vigevano a quei tempi, essendo queste abrogate o cadute in disuso; nessuno dovrebbe quindi avere particolare interesse che siano osservati sotto una falsa visuale. Ben s’intende che alcuni avevano un tale interesse finché si trattò di far loro la guerra con lo scopo di distruggerle; ma una volta raggiunto lo scopo, l’Inquisizione e le leggi suaccennate sono un fatto storico che conviene esaminare con una prudenza priva di faziosità.

In realtà qui sono presenti due questioni: quella inerente al principio di tolleranza, e quella riguardante il modo di esercitarla. Non bisogna confondere queste due cose, che per quanto siano connesse sono tuttavia molto diverse. Comincerò ad esaminare la prima. Attualmente la tolleranza universale viene proclamata come un principio, e si condanna senza alcuna eccezione qualunque genere d’intolleranza. Ma chi si preoccupa di esaminare il vero senso di queste parole? Chi analizza col lume della ragione le idee che in esse sono contenute? O chi, per chiarirle, consulta la storia e l’esperienza? Ben pochi. Queste parole vengono sì pronunciate, se ne fa uso in ogni momento per formulare sentenze della massima importanza, ma senza nemmeno sospettare che in esse è contenuto un ordine di idee dalle quali, secondo quanto più o meno bene sono comprese ed applicate, dipende la salvaguardia della società. Ben pochi riflettono che queste parole riguardano questioni tanto profonde quanto delicate; che in esse è contenuta gran parte della storia; che secondo la soluzione che si dà ai problemi sulla tolleranza, si giunge a condannare il passato, a rovesciare tutto il presente, e non si lascia nulla che possa servire per la costruzione di un avvenire, al di fuori di un banco di sabbie mobili. È certamente più comodo, in questi casi, ricevere e adoperare queste parole così come circolano, allo stesso modo con cui si riceve e si dà una moneta corrente senza stare ad esaminare se sia o no di buona lega. Ma quello che è più comodo non è sempre il più utile. Per cui così come, avendo a che fare con monete di un certo valore, ci prendiamo il disturbo di esaminarle per evitare di essere ingannati, allo stesso modo dovremmo comportarci riguardo a quelle parole, il senso delle quali è della massima importanza.

Tolleranza: qual è il significato di questa parola? Propriamente parlando essa significa la pazienza con cui si sopporta qualcosa che si considera cattiva, ma che si ritiene conveniente lasciarla senza castigo. Così per esempio si tollera un certo tipo di scandali, si tollerano questi o quegli abusi, di modo che l’idea di tolleranza va sempre accompagnata con l’idea del male. Tollerare il bene, tollerare la virtù, sarebbero espressioni mostruose. Inoltre, quando la tolleranza è sul piano delle idee, suppone un male dell’intelletto, cioè l’errore. Nessuno dirà mai che tollera la verità.

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Tuttavia si può osservare che c’è un uso di questa parola che ha un significato contrario, e ciò accade se ci riferiamo al modo corrente di dire: tollerare le opinioni; e opinione è molto diversa da errore. A prima vista la difficoltà pare insolubile, ma considerata bene la cosa, non è per niente difficile da spiegare. Quando diciamo di tollerare un’opinione parliamo sempre di un’opinione contraria alla nostra. Quell’opinione in questo caso è a nostro giudizio anche un errore, perché non è possibile che abbiamo un’opinione su di un fatto che riteniamo certo, cioè che pensiamo una certa cosa essere o non essere oppure essere in questa maniera e non in un’altra, senza nello stesso tempo giudicare che quelli che non pensano come noi sono in errore. Se ciò che riteniamo vero non va più in là dell’opinione, cioè se il giudizio, quantunque fondato su ragioni che ci sembrano buone, non è completamente sicuro, allora il nostro giudizio sull’errore degli altri sarà a sua volta una semplice opinione; ma se ne siamo convinti al punto che il nostro giudizio sia del tutto fermo e saldo, cioè se arriviamo alla certezza, in tal caso saremo ugualmente certi che quelli che esprimono un giudizio opposto sono in errore. Ne consegue quindi che la parola tolleranza, se si riferisce alle opinioni, contiene sempre il significato di tolleranza di errori. Chi sta per il sì, ritiene errato il no, e chi per il no, errato il sì. Questo non è che una semplice applicazione di quel famoso principio: è impossibile che nello stesso tempo una cosa sia e non sia.

Ma allora, mi si obietterà, cosa vogliamo dire con l’espressione: rispettare le opinioni? S’intende forse che dobbiamo rispettare gli errori? No di certo! Rispettare le opinioni può avere due sensi ragionevolissimi. Il primo si fonda sulla debolezza del convincimento della persona che rispetta. Perché quando su di un punto qualunque siamo arrivati a formarci soltanto un’opinione s’intende che non siamo giunti alla certezza; e perciò riconosciamo che vi possano essere delle ragioni valide dalla parte opposta. In base a questo concetto possiamo dire benissimo che rispettiamo l’opinione altrui, volendo riconoscere in questo modo che il nostro giudizio potrebbe essere errato e forse la verità non sta dalla nostra parte. In secondo luogo rispettare le opinioni significa talvolta rispettare le persone che le professano, rispettarne la buona fede, rispettarne le intenzioni. Così si dice qualche volte: rispettare i pregiudizi, ed è chiaro allora che non si parla di un vero rispetto che abbiamo per essi.

È evidente dunque che l’espressione rispettare le opinioni altrui ha un significato molto diverso secondo che la persona che le rispetta è del tutto certa del senso contrario a quelle opinioni, oppure no.

Potremo capire meglio che cos’è la tolleranza, qual è la sua origine e

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quali gli effetti, se prima di esaminarla nella società, lo facciamo in modo tale che l’oggetto della nostra osservazione si riduca al suo più semplice elemento, che è la tolleranza considerata nell’individuo. Si chiama tollerante un individuo quando si trova abitualmente in una disposizione d’animo che gli permette di sopportare senza inquietarsi e senza alterarsi le opinioni contrarie alla sua. Questa tolleranza sarà chiamata con nomi diversi secondo le diverse materie sulle quali è esercitata. In materia di religione, tanto la tolleranza che l’intolleranza possono trovarsi sia in chi è religioso sia in chi non lo è; di modo che né l’una né l’altra di queste due situazioni (l’essere o non l’essere religioso) porta per diretta conseguenza ad essere tollerante o intollerante. Alcuni pensano che la tolleranza sia propria degli atei e l’intolleranza degli uomini religiosi: questo è un errore. Chi può essere più tollerante di S. Francesco di Sales? E chi più intollerante di Voltaire? La tolleranza in un uomo religioso, quella tolleranza che non deriva da una fede insicura, e che va benissimo insieme ad uno zelo ardente per la conservazione e la propagazione della fede, nasce da due princìpi: la carità e l’umiltà. La carità che ci fa amare tutti gli uomini compresi i nostri peggiori nemici; la carità che ci ispira la compassione per le loro mancanze e per i loro errori, che ci obbliga a guardarli come fratelli e ad usare tutti i mezzi che sono in nostro potere per farli uscire dal loro misero stato; la carità, infine, per cui non è lecito considerarli senza speranza di salvezza, finché sono ancora in vita. Rousseau ha detto che «è impossibile vivere in pace con gente che si crede condannata»; noi non crediamo né possiamo credere condannato nessuno, finche vive; poiché per quanto sia grande la sua iniquità sono sempre infinitamente più grandi la misericordia di Dio e il prezzo del sangue di Gesù Cristo. E siamo talmente lontani dal pensare ciò che dice il filosofo di Ginevra, cioè che «amare costoro sarebbe aver Dio in orrore», che chi sostenesse una tale dottrina sarebbe tutto l’opposto di ciò che è un Cattolico. L’altra sorgente della tolleranza è l’umiltà cristiana: l’umiltà che ci ispira una profonda consapevolezza della nostra debolezza, che ci fa ammirare tutto ciò che abbiamo in quanto proveniente da Dio, che non ci fa vedere ciò che possediamo di superiore sugli altri se non come un maggior titolo di gratitudine nei confronti della benefica mano della Provvidenza. L’umiltà, la quale non limitandosi alla sfera individuale, ma abbracciando l’intera umanità, ci fa sentire membra della grande famiglia del genere umano decaduto dalla dignità originale a causa del peccato del primo uomo, con cattive inclinazioni nel cuore, con tenebre nell’intelletto, e per tutto questo degno di compassione e d’indulgenza nei suoi traviamenti e nei suoi peccati. Questa virtù, sublime nel suo stesso annullarsi; questa virtù che, come ha detto mirabilmente S. Teresa, piace tanto a Dio perché l’umiltà è la verità:

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questa virtù ci incita ad essere indulgenti con tutti, e nello stesso tempo di non dimenticare mai che noi stessi, forse più di chiunque altro, siamo talvolta bisognevoli d’indulgenza.

Tuttavia per un uomo religioso non sarà sufficiente, per poter essere detto tollerante in tutta la pienezza del significato della parola, che sia umile e caritatevole: l’esperienza ce l’insegna e la ragione ce ne mostra i motivi. Al fine di chiarire un aspetto che gli intelletti malevoli usano quasi sempre per intralciare le questioni di questo genere presenterò un paragone tra due uomini religiosi, i princìpi dei quali saranno gli stessi, ma ben diversa la condotta. Si supponga due sacerdoti, ambedue distinti per la scienza ed eminenti nella virtù; dei quali uno abbia trascorso la vita nel ritiro, attorniato da persone pie e frequentando solo Cattolici; l’altro invece, impiegato nelle missioni in diversi paesi dove sono professate religioni diverse, si è visto nella necessità di parlare con persone di diverse credenze, di viverci insieme e di sopportare la presenza dell’altare di una falsa religione innalzato a poca distanza da quello della religione vera. I princìpi di carità cristiana saranno in ambedue gli stessi, sia l’uno che l’altro considereranno come dono di Dio la fede che ricevettero e che conservano; ma ad onta di tutto questo la loro condotta, immaginando che s’incontrino con un uomo di un’altra fede o che non ne professi alcuna, sarà molto diversa. Il primo, che ha avuto sempre contatti con Cattolici, che ha udito sempre parlar con rispetto della religione, fremerà e s’indignerà alla prima parola che gli capiti di sentire contro la fede o contro il culto della Chiesa, essendogli poco meno che impossibile sostenere con serenità una conversazione o una disputa che s’intavolasse su tale materia; il secondo invece, abituato a sentire simili cose, a vedere contrastata la sua fede, a discutere con uomini che ne hanno una diversa, si manterrà nella sua calma e tranquillità, entrando senza scomporsi nella questione, se fosse il caso, o schivandola con destrezza se così dovesse suggerire la prudenza. E da dove ha origine questa differenza di comportamento? Non è difficile capirlo: il secondo, col frequentare altri ambienti, con l’esperienza e con le contraddizioni, è giunto alla chiara conoscenza della vera situazione del mondo, ha un’idea della funesta combinazione di circostanze che hanno portato o mantengono nell’errore tanti infelici, sa in un certo modo mettersi nei panni di coloro tra cui si trova e così sente con maggior chiarezza il beneficio di cui va debitore alla Provvidenza, ed è più benigno e più indulgente con gli altri. L’altro invece, sia pur virtuoso, caritatevole ed umile quanto si voglia, come si potrà mai pretendere che non sia profondamente turbato, che non lasci trasparire i segni del suo sdegno quando sente negare per la prima volta ciò che ha creduto sempre con la più viva fede senz’aver mai incontrato la minima

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opposizione fuorché negli argomenti contenuti in alcuni libri? Non ignora certo che vi siano degli eretici e degli infedeli, gli manca però di essersi trovato a frequentarli, di avere udito l’esposizione di cento sistemi diversi, di aver visto persone fuorviate di diversi ceti, indoli e disposizioni d’animo. La delicatezza del suo spirito, non avendo mai avuto occasione di sopportare queste esperienze, non ha potuto assuefarsi; quindi pur con le stesse conoscenze dell’altro non è giunto ad avere quella penetrazione, quella limpidezza con cui una mente chiara e per di più esercitata con la pratica, scruta lo spirito di quelli con cui parla e vede le ragioni, i motivi e le passioni da cui sono accecati, e per cui non giungono alla conoscenza della verità.

Da qui si vede che la tolleranza in un individuo che sia religioso suppone una certa delicatezza d’animo che, nata dal dialogare e dalle abitudini che ne derivano, ciò nonostante si unisce ai più profondi sentimenti religiosi e col più puro e ardente zelo per la propagazione della verità. Nel campo morale, come in quello fisico, lo strofinamento pulisce, l’uso logora, e non è possibile che alcuna cosa si mantenga a lungo in un’attitudine di violenza. L’uomo si sdegnerà una, due e cento volte al sentire che viene contestato il suo modo di pensare, ma non può continuare per sempre a sdegnarsi, e finirà col rassegnarsi all’opinione contraria, si abituerà a sopportarla con moderazione, e per quanto sia sacra per lui la sua fede, si contenterà di difenderla e propagarla quando potrà farlo, e quando non potrà cercherà di conservarla nel fondo del cuore come un deposito prezioso, facendo in modo di preservarla dal vento devastatore che sente soffiare da ogni parte. La tolleranza dunque non suppone nell’individuo nuovi princìpi, ma bensì una qualità acquisita con la pratica, una disposizione d’animo che si va acquistando in modo impercettibile, un abitudine alla pazienza formatasi col continuo esercizio della stessa virtù.

Passando ora a considerare la tolleranza nell’uomo che non segue nessuna religione, osserveremo che sono da considerare due casi. Vi sono alcuni che non solo non hanno una religione, ma per di più le hanno in odio, o per un funesto traviamento delle loro idee, o perché vedono la religione come un ostacolo alle loro passioni o alle loro mire personali. Questi sono intolleranti all’eccesso: la loro intolleranza è la peggiore perché non è accompagnata da nessun principio morale che possa frenarla. L’uomo in simili circostanze si sente per così dire in guerra con se stesso e col genere umano: con se stesso perché deve soffocare le grida della propria coscienza; e col genere umano, il quale protesta contro la dottrina insensata che si sforza di bandire dalla terra il culto di Dio. Per questo motivo nelle persone di tal fatta si trova un fondo smisurato di rancore e di dispetto, per questo le loro parole stillano fiele e per questo si dànno al motteggio, all’insulto e alla calunnia.

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C’è però un’altra categoria di uomini i quali, sebbene non seguano nessuna religione, non hanno contro di essa un’opinione ben precisa, e vivono in una specie di scetticismo a cui sono stati condotti o per la lettura di libri dannosi, o per i princìpi di una filosofia superficiale e leggera. Questi dunque non sono per niente attaccati alla religione, ma non le sono neanche nemici; molti di loro ne riconoscono la grande importanza per il bene della società, e alcuni nutrono perfino un certo desiderio di tornare a possederla: in certi momenti di raccoglimento e di meditazione ricordano con piacere i giorni in cui offrivano a Dio un intelletto fedele e un cuore puro, e vedendo come volano rapidamente i momenti della vita forse conservano ancora la vaga speranza di riconciliarsi col Dio dei loro padri prima di scendere nella tomba. Questi uomini sono tolleranti; ma guardandoli bene, la tolleranza non è in loro né un principio né una virtù, ma è una semplice necessità che deriva dalla loro situazione. Difficilmente potrà sdegnarsi contro le altrui dottrine chi non ne ha per niente e per questo motivo non si oppone a nessuna; difficilmente potrà sdegnarsi contro la religione chi la considera come cosa necessaria al benessere della società; e difficilmente potrà nutrire contro di essa sentimenti di rancore chi la desidera nel fondo dell’anima, e la guarda come un raggio di speranza in mezzo ai timori di uno spaventoso avvenire. In questi casi la tolleranza non ha nulla di straordinario perché è naturale, è necessaria; al contrario, si mostrerebbe stravagante chi in queste situazioni si mostrasse intollerante, con un cuore cattivo.

Applicando alla società le riflessioni fatte sull’individuo, dobbiamo osservare che possiamo trovare e nel governo, e nella società, sia la tolleranza che l’intolleranza; perché accade talvolta che non siano concordi: e mentre il governo sostiene un principio nella società ne predomina un altro direttamente opposto. Siccome il governo è formato da un ristretto numero d’individui, si può adattargli quanto si è detto sulla tolleranza considerata nella sfera puramente individuale; benché si debba tener conto che gli uomini di governo non possono abbandonarsi senza misura allo stimolo delle loro opinioni e sentimenti, e spesso si vedono costretti a sacrificarli sull’altare della pubblica opinione. Per qualche tempo, e col favore di circostanze straordinarie, potranno contrastarla o snaturarla; ma ben presto la forza delle cose viene loro incontro e li obbliga a cambiare direzione.

Limitandoci dunque a considerare la tolleranza nella società, poiché finalmente, presto o tardi, il governo giunge ad essere l’espressione delle idee e dei sentimenti della società medesima, possiamo notare che la società segue la stessa strada per la quale procede l’individuo. E questo non dipende da un principio, ma da un’abitudine. Quando in una stessa società vivono per lungo

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tempo persone di diverse fedi religiose, arrivano finalmente a sopportarsi a vicenda e a tollerarsi, perché a ciò sono portati dalla stanchezza di ripetuti scontri e dal desiderio di un modo di vivere più tranquillo e pacifico. Ma quando si è all’inizio di questa discordanza di fedi, quando s’incontrano faccia a faccia per la prima volta persone di fede diversa lo scontro, più o meno forte, è inevitabile. I motivi si ritrovano nella stessa natura dell’uomo contro la quale si lotta invano.

Alcuni filosofi moderni hanno creduto che la società attuale sia a loro debitrice dello spirito di tolleranza che ora vi domina; ma non si sono accorti che questa tolleranza è qualcosa che si è compiuta lentamente in modo spontaneo, piuttosto che il frutto della dottrina da loro predicata. Infatti cosa hanno mai detto essi di nuovo? Hanno raccomandato la fratellanza universale: ma questa fratellanza è una delle dottrine del Cristianesimo. Hanno esortato gli uomini di tutte le religioni a vivere in pace: ma prima che essi aprissero bocca in molti paesi d’Europa già gli uomini cominciavano a fare questa scelta, perché disgraziatamente le religioni erano così tante e talmente differenti che non era più possibile ormai che qualcuna di esse giungesse ad un predominio esclusivo. Per la verità certi filosofi atei possono presentare una prova funesta in appoggio alle loro pretese sull’estensione della tolleranza; questa consiste nel fatto che, avendo seminato dappertutto l’incredulità e lo scetticismo, hanno resa generale tanto nei governi come nei popoli quella falsa tolleranza che non è per niente una virtù ma l’indifferenza verso tutte le religioni.

E in verità, perché è tanto diffusa la tolleranza nel nostro secolo? O per meglio dire, in che consiste questa tolleranza? Osservatela bene, e vedrete che non è altro che l’effetto di uno stato sociale in tutto conforme a quello che abbiamo descritto prima riguardo all’individuo che non ha alcuna religione, ma che non le rigetta, perché le considera come utilissime al bene pubblico, e nutre ancora una vaga speranza di tornare un giorno alla religione. In quel poco che vi è qui di buono i filosofi atei non hanno avuto alcuna parte, ed è anzi una protesta contro di loro. Essi finché non ebbero la forza d’impadronirsi del comando, scagliavano con profusione calunnie e sarcasmi contro quanto c’è di più sacro in cielo e sulla terra, e appena poterono arrivare al potere rovesciarono con indicibile furore tutto ciò che c’era, e fecero morire milioni di vittime in esilio e sui patiboli.

Il moltiplicarsi delle religioni, l’incredulità, l’indifferentismo, la delicatezza dei costumi, la stanchezza provocata dalle guerre, l’assetto industriale e commerciale verso il quale le società vanno sempre più propendendo, una maggiore comunicazione tra le persone per mezzo dei viaggi e delle idee attraverso la stampa: ecco le cause che hanno prodotto in Europa

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questa tolleranza universale che si è diffusa ovunque, stabilendosi di fatto dove non ha potuto farlo di diritto. Queste cause, come è facile osservare, sono di diverso genere, e nessuna dottrina può pretendere una parte esclusiva: sono l’effetto di mille influenze diverse che hanno agito simultaneamente nello sviluppo della civiltà. Torna all’indice

CAPITOLO XXXV L’intolleranza è un fatto universale nella storia. Dialogo con i sostenitori della tolleranza universale. Considerazioni sull’esistenza e l’origine del diritto di condannare le dottrine. Soluzione di questa questione. Funesta influenza del Protestantesimo e dell’ateismo in questa materia. Giustificazioni dell’importanza data dal Cattolicesimo al peccato d’eresia. Incoerenza degli ignobili volterriani. Un’altra osservazione sul diritto di condannare le dottrine. Epilogo.

Nel secolo scorso hanno gridato molto contro l’intolleranza; ma una filosofia meno superficiale di quella che spadroneggiava allora avrebbe riflettuto un po’di più su di un fatto che, qualunque sia il giudizio che se ne formi, non si può tuttavia negare che sia stato comune a tutti i luoghi e a tutti i tempi. Socrate in Grecia muore bevendo la cicuta. Roma, di cui si è tanto esaltata la tolleranza, non tollera gli dèi stranieri. Stranieri in realtà solo di nome, perché formando parte di quella specie di panteismo che era la sostanza della religione di Roma, non hanno bisogno per essere dichiarati dèi di Roma che di una mera formalità: che si accordi loro, per così dire, la cittadinanza romana. Non ammette però gli dèi egiziani, così come non accetta la religione dei Giudei né quella dei Cristiani; delle quali religioni per la verità aveva un’idea errata, bastante però a capire che tali religioni sono ben diverse dalla sua. La storia degli imperatori pagani è la storia della persecuzione della Chiesa; e appena gli imperatori si fecero Cristiani, comincia subito una legislazione penale contro coloro che seguono una religione diversa da quella che domina nello stato. Nei secoli successivi l’intolleranza continuò sotto varie forme, ed ha continuato così fino ai nostri tempi. Perché non è che ne siamo poi tanto liberi come vorrebbero farci credere: l’emancipazione dei Cattolici in Inghilterra è di freschissima data; le burrascose questioni del governo prussiano col Sommo Pontefice a causa di certi atti arbitrari di quel governo riguardo alla religione cattolica sono di ieri; la questione di Argovia in Svizzera è ancora pendente; e la persecuzione del governo russo contro il Cattolicesimo va avanti

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nella maniera più scandalosa che mai. Questo in quanto alla tolleranza di uomini di governo appartenenti a religioni differenti dalla nostra. In quanto poi alla tolleranza dei filosofi umanitari del diciottesimo secolo, bisogna riconoscere che sarebbe stata piacevolissima se non avesse ricevuto la sua degna sanzione dalla mano di Robespierre.

Ogni governo che professa una religione, è più o meno intollerante con le altre; e questa intolleranza si riduce o cessa del tutto solamente quando quelli che professano la religione odiata si fanno temere, essendo i più forti, o disprezzare se sono i più deboli. Applicate a tutti i tempi e luoghi questa regola, e ovunque la troverete esatta, essendo una sintesi della storia dei governi riguardo alle religioni. Il governo inglese è stato sempre intollerante nei confronti dei Cattolici, e continuerà ad esserlo più o meno secondo le circostanze; i governi di Prussia e di Russia proseguiranno come hanno fatto finora, con le debite variazioni che richiederà il mutare dei tempi. Allo stesso modo nei paesi dove predomina il principio cattolico si frapporranno ostacoli più o meno forti all’esercizio del culto protestante. Come prova contraria mi si citerà forse l’esempio della Francia dove, nonostante il Cattolicesimo sia la religione della stragrande maggioranza dei cittadini, sono tollerati però gli altri culti senza che s’intraveda il minimo segno di repressione o di molestia; e questo lo si attribuirà forse allo spirito universale. Io credo invece che questo derivi dallo stato di quella società, nella quale la filosofia del secolo passato ha lasciato profondi segni. Come anche dal fatto che nell’ambiente politico di quel paese non prevale nessun saldo principio, non essendo tutta la sua politica interna ed estera che un continuo compromesso per trarsi d’impaccio nel miglior modo possibile. Così parlano i fatti, e questo ci dicono le ben note opinioni del ristretto numero di uomini che da alcuni anni a questa parte dispongono dei destini della Francia.

Si è preteso di elevare a principio la tolleranza universale, negando ai governi il diritto di costringere le coscienze in materia di religione; ciò nonostante, e ad onta di quanto è stato detto, i filosofi non hanno saputo mettere bene in chiaro la loro affermazione, e ancor meno farla adottare universalmente come sistema di governo. E allora, per dimostrare che la cosa non è poi tanto semplice come si è voluto supporre, questi pretesi filosofi mi permetteranno che faccia loro alcune domande. Se viene a stabilirsi nel vostro paese una religione di cui il culto domandi sacrifici umani, la tollerereste voi?... No. E perché? Perché non possiamo tollerare simili delitti. Ma allora sarete intolleranti, violenterete le coscienze altrui, proibendo come delitto quello che agli occhi di questi uomini è un ossequio alla Divinità. Così la pensavano molti popoli antichi, e così la pensano ancora alcuni dei nostri tempi. Con quale

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diritto volete dunque che la vostra coscienza prevalga sulla loro? Non importa, saremo intolleranti, ma la nostra intolleranza sarà a pro dell’umanità. Applaudo alla vostra condotta; ma non potrete negarmi che si è presentato un caso in cui l’intolleranza nei confronti di una religione vi è sembrata un diritto e un dovere.

Ma se proibite l’esercizio di questo culto atroce, permetterete almeno d’insegnare la dottrina in cui si lodi come santa e salutare la pratica dei sacrifici umani? No, perché questo sarebbe lo stesso che permettere d’insegnare l’assassinio. Alla buon’ora, ma riconoscete nel tempo stesso, però, che vi si è presentata una dottrina con la quale vi siete creduti in diritto e in obbligo d’essere intolleranti.

Proseguiamo con le domande. Voi non ignorate certamente i sacrifici offerti dagli antichi alla dea dell’amore, e l’infame culto che si dava ai tempi di Babilonia e di Corinto. Se un culto simile rinascesse tra voi, lo tollerereste? No, perché contrario alle sacre leggi del pudore. Tollerereste almeno che si insegnasse la dottrina che gli serve d’appoggio e di prova? No, per la stessa ragione. Ed ecco un altro caso in cui vi credete in diritto e in obbligo di essere intolleranti, di violentare la coscienza altrui, e non potete addurre altra ragione se non quella che a ciò vi obbliga la vostra propria coscienza.

Andiamo oltre. Supponiamo che con la lettura della Bibbia alcune teste tornino a scaldarsi e decidano di fondare un nuovo Cristianesimo ad imitazione di quello di Mattia Harlem o di Giovanni di Leyde; che i settari comincino a diffondere le loro dottrine, a riunirsi in adunanze segrete, e con le loro perorazioni fanatiche attirino una parte del popolo: tollererete questa nuova religione? No, perché costoro potrebbero compiere oggi le sanguinose scene che si svolsero in Germania nel sedicesimo secolo quando in nome di Dio e per eseguire, come essi dicevano, gli ordini dell’Altissimo, gli anabattisti attaccavano le proprietà altrui, distruggevano ogni potere esistente e seminavano ovunque la desolazione e lo sterminio. Voi certo operereste con somma giustizia e prudenza, ma infine anche in questo caso non potete negare che esercitereste un atto d’intolleranza. Ma allora, cosa è rimasto di quella tolleranza universale, quel principio così chiaro e così certo, se ad ogni passo vi trovate voi stessi nella necessità di restringerlo, dirò meglio, di rifiutarlo e di agire in un senso diametralmente opposto? Mi direte che la sicurezza dello stato, il buon ordine della società, la morale pubblica vi obbligano a fare così. Ma allora, cosa diventa un principio che in certi casi si trova in opposizione con gl’interessi della morale pubblica, del bene sociale, e della sicurezza dello stato? E credete per caso che quelli contro i quali voi vi scagliate non pensassero ugualmente di mettere al sicuro questi interessi, quando erano

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intolleranti? In tutti i tempi e in tutti i paesi è stato riconosciuto come principio

incontestabile che l’autorità pubblica ha il diritto in alcuni casi di proibire certe azioni, nonostante che in questo modo si faccia una certa violenza alla coscienza degli individui che le compiono, o intendono compierle. Se non bastassero le testimonianze ricorrenti della storia dovrebbe essere sufficiente a convincerci di questa verità il breve dialogo che abbiamo appena letto; dal quale risulta che i più ardenti cantori della tolleranza potevano sentirsi in obbligo di essere intolleranti, vedendosi a ciò costretti in nome dell’umanità, del pudore, dell’ordine pubblico. Dunque la tolleranza universale di dottrine e religioni proclamata come dovere di ogni governo è un errore, è una regola senza applicazione, poiché abbiamo dimostrato in modo evidente che l’intolleranza è sempre stata ed è tuttora un principio riconosciuto da qualsiasi governo, e l’applicazione più o meno severa o indulgente di tale principio dipende dalla diversità delle circostanze, e soprattutto dall’aspetto sotto il quale il governo che deve esercitarla vede le cose.

Nasce qui un’importante questione di diritto che a prima vista sembra portare alla condanna di qualunque intolleranza che riguardi le dottrine e gli atti che vengono compiuti in obbedienza a tali dottrine. Ma considerata bene la cosa, non è così; e ammesso pure che l’intelletto non arrivi a dissipare del tutto la difficoltà mediante argomentazioni dirette, potremo ugualmente arrivare indirettamente alla verità (almeno fino al punto che possa servire da guida all’incerta prudenza umana) con la dimostrazione che vien detta ad absurdum. La questione è la seguente: « Con che diritto si può proibire ad un uomo di professare una dottrina e di agire conformemente ad essa, se è convinto che sia la vera dottrina, e che agendo conformemente ad essa soddisfa un suo obbligo o esercita un diritto? Se non si vuole che la proibizione sia ridicola e vana, occorre che abbia la sanzione della pena; e quando sarà applicata questa pena, verrà castigato un uomo che per la sua coscienza è innocente. La giustizia suppone il colpevole, e nessuno è colpevole se prima non lo è nella sua coscienza. La colpevolezza ha la radice nella coscienza stessa, e possiamo esser tenuti a render conto della violazione di una legge solo quando questa legge ha parlato attraverso la nostra coscienza. Se questa ci dice che un’azione è cattiva, non possiamo farla per quanto ce lo prescriva la legge, se invece ci dice che tale azione è un dovere, non possiamo tralasciare di compierla, per quanto sia proibita dalla legge». Ecco in poche parole, e col maggior rigore possibile, quanto si può argomentare contro l’intolleranza delle dottrine e delle azioni che ne derivano. Vediamo adesso che peso abbiano queste riflessioni, che a prima vista sembrano incontestabili.

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Salta subito all’occhio che, ritenendo valido questo ragionamento, si renderebbe impossibile qualunque castigo per i delitti politici. Bruto immergendo il pugnale nel petto di Cesare, Jacopo Clement nel dare la morte ad Enrico III, agivano sicuramente sotto l’impulso di un’esaltazione dell’animo che faceva loro considerare l’attentato come un atto di eroismo. Ma anche se ciò fosse, se fossero stati condotti in tribunale, sembrerebbe a voi ragionevole che venissero ritenuti esenti dalla pena, giustificando l’uno per l’amor di patria, e l’altro per lo zelo nei confronti della religione? La maggior parte dei delitti politici sono commessi con l’intima convinzione di agire bene, anche prescindendo dalle epoche rivoluzionarie in cui gli uomini dei diversi partiti sono intimamente convinti di avere ciascuno la ragione dalla sua parte. Le stesse congiure che si tramano contro un governo in tempi di pace sono comunemente opera di alcuni individui che ritengono il potere illegittimo o tirannico, e tentando di distruggerlo agiscono conformemente ai loro princìpi. Il giudice li castiga giustamente applicando la legge imposta dal legislatore: eppure né il legislatore nello stabilire la legge, né il giudice nell’applicarla ignorano, né possono ignorare, la disposizione d’animo in cui doveva trovarsi il delinquente quando la violava.

Si dirà che seguendo la logica rigorosa di questi ragionamenti non può che aumentare sempre più la compassione e l’indulgenza per i delitti politici; e io risponderò che se poniamo per principio che la giustizia umana non ha il diritto di castigare quando il delinquente ha agito in forza dei suoi princìpi, non solamente si dovrebbero mitigare le pene, ma abolirle del tutto. In questo caso la pena capitale sarebbe un vero assassinio, quella pecuniaria un furto e le altre un oltraggio. E qui dirò di sfuggita che non è vero che il rigore contro i delitti politici sia tanto diminuito: la storia d’Europa degli ultimi secoli ci fornirebbe alcune prove in contrario. Se non si vedono oggi quei terribili castighi che in altri tempi venivano inflitti ciò non dipende dal fatto che si guarda alla coscienza di chi ha commesso il delitto, ma per la delicatezza dei costumi che si va diffondendo ovunque e che non ha potuto fare a meno d’influire anche sul diritto penale. Quello che fa meraviglia è piuttosto la severità che nonostante ciò caratterizza le leggi relative ai delitti politici quando tantissimi tra gli stessi legislatori di varie nazioni di Europa sapevano benissimo che a suo tempo essi avevano commesso lo stesso delitto. Certamente non saranno pochi quelli che nel dibattere su una legge penale avranno mostrato indulgenza perché presentivano o prevedevano che quella stessa legge avrebbe potuto abbattersi un giorno sulla propria testa.

L’impunità dei delitti politici porterebbe alla rovina dell’ordine sociale, perché qualunque governo sarebbe impossibile. Ma lasciando pure da parte

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questo gravissimo male che, come abbiamo visto, deriva direttamente dalla dottrina che pretende di lasciare impunito il reo quando ha agito per impulso della sua coscienza, bisogna far notare che non sarebbero solamente i delitti politici a restare senza castigo, ma anche i delitti comuni. Di questi fanno parte gli attentati contro la proprietà altrui, e ben si sa che non sono mancati in altri tempi, e purtroppo non mancano nei nostri, molti uomini che vedono la proprietà come un’usurpazione e un’ingiustizia. Altri delitti comuni sono gli attentati contro la santità del matrimonio, e tuttavia si sono viste sétte che dichiaravano illecito il matrimonio, ed altri sono arrivati al punto d’immaginare una comunità di sole donne. Anche le sante leggi del pudore e il rispetto all’innocenza sono state considerate da alcune sétte come un’ingiusta limitazione alla libertà dell’uomo, e il violarle un’opera meritoria. E allora? Anche se non si potesse dubitare del pervertimento delle idee e del cieco fanatismo di coloro che hanno professato simili dottrine, chi avrebbe l’ardire di negare la convenienza del castigo, quando in ossequio a tali dottrine dovessero commettere un delitto, o quando avessero l’ardire di diffondere nella società il loro funesto insegnamento? Se fosse considerato ingiusto il castigo che si dà al reo che agisce in conformità alla sua coscienza, gli atei, i fatalisti, i partigiani della dottrina dell’interesse privato sarebbero liberi di commettere tutti i delitti che venissero loro in mente; perché distruggendo, come essi fanno, la base di ogni moralità, non agirebbero mai contro la propria coscienza, perché non ne hanno alcuna. Se si dovesse considerare valido l’argomento in questione, quante volte si potrebbe rinfacciare ai tribunali dei nostri tempi l’ingiustizia che commettono quando applicano la pena a questo genere di uomini? Allora potremmo dir loro: «Con che diritto castigate voi quest’uomo, il quale non ammettendo l’esistenza di Dio, non può riconoscersi reo ai propri occhi e di conseguenza neanche ai vostri? Voi avevate fatta la legge in base alla quale lo castigate, ma questa legge non aveva nessun valore nella sua coscienza, perché voi siete suoi pari, ed egli non riconosce l’esistenza di alcun essere superiore che abbia potuto concedervi il diritto di forzare la sua libertà. Con che giustizia castigate quell’altro il quale, convinto che tutte le sue azioni sono effetto di cause necessarie, che il libero arbitrio è una chimera, e che quando s’accinge a commettere l’azione che voi definite criminale crede di non essere più libero di trattenersi dal compierla di quel che non lo sia l’animale feroce quando si avventa sulla preda o su un’altro animale che l’abbia fatto infuriare? Con che giustizia castigate chi è persuaso che la morale è una menzogna, che non vi è altra morale che l’interesse privato, che il bene e il male altro non sono che questo stesso interesse inteso come bene o come male? Se gli assegnate una

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pena, sarà non perché sia colpevole secondo la sua coscienza, ma perché ha sbagliato i suoi calcoli, perché ha travisato le probabilità della riuscita the l’azione doveva avere». Ecco le conseguenze logiche ed inevitabili della dottrina che nega al pubblico potere la facoltà di castigare i delitti che sono commessi a causa di un errore d’intelletto.

Ma si dirà che il diritto di punire è lecito riguardo alle azioni e non alle dottrine, che le prime devono sottomettersi alla legge mentre le seconde devono avere una libertà illimitata. E allora, se si parla delle dottrine in quanto sono soltanto nella mente senza che vengano manifestate, è chiaro che non solo non si ha il diritto, ma neanche la possibilità di castigarle, perché solo Dio può conoscere i segreti della mente dell’uomo; ma se si tratta di dottrine manifestate allora il principio è falso, e noi abbiamo già dimostrato che neanche quelli che lo sostengono in teoria riescono ad attenervisi nella pratica. Infine si potrà obiettare che anche quando la dottrina che noi combattiamo porti a gravi eccessi, la difficoltà principale, che consiste nell’incompatibilità della liceità del castigo con l’azione dettata o permessa dalla coscienza di chi la commette, non cessa di restare valida. Come si scioglie questa difficoltà? Come si schiva un così grande ostacolo? Potrà mai essere lecito trattare come reo chi non lo è al tribunale della propria coscienza?

Si dovrebbe ritenere che i rappresentanti di ogni sistema filosofico e di tutte le religioni dovessero essere d’accordo sui punti principali della questione. Eppure non è così, perché tra i Cattolici da una parte e gli atei e i Protestanti dall’altra c’è un’enorme differenza. I primi hanno come principio indiscutibile che ci sono degli errori d’intelletto colpevoli; gli altri pensano, al contrario, che tutti gli errori d’intelletto sono innocenti. I Cattolici considerano l’errore sulle verità fondamentali religiose e morali come una delle principali offese che l’uomo può fare a Dio; i loro avversari giudicano questo genere di errori con maggiore indulgenza, e non possono fare altrimenti per non cadere in contraddizione. I Cattolici ammettono la possibilità dell’ignoranza invincibile di alcune verità molto gravi, ma le restringono a certe circostanze, fuori delle quali dichiarano l’uomo colpevole; i loro avversari invece, esaltando al massimo la libertà di pensiero non le interpongono altri ostacoli che quelli contrari alle proprie preferenze, ed affermano che ognuno è sempre libero di avere quelle opinioni che più gli piacciono, arrivando al punto di infondere in tutti i loro seguaci la persuasione che non vi sono opinioni né errori colpevoli, e che l’uomo non ha il dovere di indagare con la massima attenzione l’intimo del suo cuore per verificare se vi siano alcune cause nascoste che lo spingono ad allontanarsi dalla verità. E in tal modo giungono a confondere in modo mostruoso la libertà propria dell’intelletto con la libertà morale, hanno bandito

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dall’ordine delle opinioni le idee di lecito ed illecito facendo intendere che nel campo speculativo tali idee non erano più da considerare. Questo significa che, riguardo alle idee, hanno confuso il diritto col fatto, hanno dichiarato inutili e incompetenti tutte le leggi divine ed umane. Insensati! Come se quanto c’è di più sublime e di più nobile nella natura umana non vada soggetto ad alcuna regola! Come se quanto fa l’uomo, re della creazione, non debba influire sull’ineffabile armonia di tutte le parti dell’universo fra loro, e di queste con Dio! Come se quest’armonia possa o non esistere o non concepirsi nell’uomo, se non viene dichiarato che quello di mantenersi strettamente unito alla verità è un suo dovere fondamentale!

Ecco una ragione profonda che rende giustizia alla Chiesa cattolica quando considera il peccato di eresia come uno dei maggiori che l’uomo possa commettere. Voi che sorridete di compassione e disprezzo al solo nominare il peccato di eresia, voi che lo considerate un’invenzione dei preti per dominare le coscienze e restringere la libertà di pensiero, con qual diritto vi arrogate la facoltà di condannare le eresie che si oppongono alla vostra ortodossia? Con che diritto condannate quelle società dove sono insegnati princìpi contro la proprietà, l’ordine pubblico e l’esistenza del potere pubblico? Se il pensiero è libero, se chi pretende di forzarlo anche in minima parte viola i diritti più sacri, se la coscienza non deve andar soggetta ad alcun assurdo legame e quindi è una contraddizione pretendere che uno sia obbligato ad agire contro di essa o a disubbidire alle proprie ispirazioni: perché allora non permettete a coloro che vogliono distruggere tutto l’ordine sociale esistente, a quelle società segrete che di tanto in tanto spediscono alcuni dei loro membri a sparare il piombo omicida contro il petto dei re; perché non permettete loro di agire secondo i loro princìpi? Se a giustificazione della vostra idea che avete diffuso insieme ai vostri errori (quella cioè di considerare ingiusta e crudele l’intolleranza che è stata praticata in certi tempi), invocate le vostre convinzioni, non possono essi ugualmente invocare le loro? Voi dicevate che le dottrine della Chiesa erano invenzioni umane, ed essi dicono che le dottrine che regnano nella società sono ugualmente invenzioni umane. Voi dicevate che l’antico ordine sociale era un monopolio, ed essi dicono che è un monopolio l’ordine attuale. Voi dicevate che gli antichi governi erano tirannici, ed essi dicono che sono tirannici gli attuali. Voi dicevate di voler distruggere quanto esisteva per far sorgere nuove istituzioni che avrebbero formato la felicità del genere umano; ed essi dicono di voler distruggere quanto ora esiste ugualmente per far sorgere altre istituzioni che formeranno la felicità del genere umano. Voi dichiarate santa la guerra che si fa al potere antico; ed essi dichiarano santa la guerra che si fa al potere attuale. Voi ricorreste a quei mezzi di cui potevate disporre, e pretendeste che

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la necessità li rendeva legittimi; ed essi dichiarano ugualmente legittimo l’unico mezzo che hanno, e che consiste nell’organizzarsi e nel prepararsi per il momento opportuno, cercando di accelerarlo con l’assassinio dei reggitori delle nazioni. Avete preteso di far rispettare tutte le vostre opinioni, perfino l’ateismo, e avete insegnato che nessuno aveva il diritto d’impedirvi di agire in conformità dei vostri princìpi: benissimo, anche i fanatici, di cui stiamo parlando, hanno dei princìpi, e princìpi orribili! Hanno delle convinzioni, e convinzioni orrende! Che tra loro ci sia questa spaventosa convinzione, quale prova più convincente quanto il vederli introdursi pallidi e tetri in mezzo all’allegria e alle pubbliche feste tra la folla festante, scegliere il posto opportuno, e aspettare con grande imperturbabilità il momento fatale, per immergere nella desolazione una famiglia illustre e coprire di lutto un’intera nazione con la certezza di attirarsi la pubblica esecrazione e finire la vita sul patibolo? Ma ci diranno i nostri avversari che queste convinzioni non hanno scusa: l’avrebbero eccome invece, se le avessero anche le vostre! Con la differenza che voi elaboraste i vostri funesti ed ambiziosi sistemi in mezzo alle comodità e ai piaceri, e probabilmente in mezzo all’opulenza e all’ombra di quell’autorità che avversate; ed essi elaborano le loro abominevoli dottrine in mezzo all’oscurità, alla povertà, alla miseria e alla disperazione.

Per la verità il modo stravagante di agire di certi uomini urta estremamente. Burlarsi di tutte le religioni, negare la spiritualità ed immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio, rovesciare tutta la morale e minarne le più profonde fondamenta: tutto ciò per loro è stato una cosa molto scusabile ed anche, se si vuole, degna di lode. Gli scrittori che si sono addossati questo funesto incarico meritano l’apoteosi; bisogna cacciar via dai templi la Divinità per mettervi i nomi e le immagini dei capi di quelle scuole. Sotto le volte della grandiosa basilica, nei luoghi destinati al riposo delle ceneri del Cristiano che aspetta la risurrezione, è necessario elevare le tombe di Voltaire e di Rousseau affinché le generazioni future scendano in quelle tacite ed oscure dimore per passarvi alcuni momenti in raccoglimento per ricevere le ispirazioni di quei geni. E allora com’è possibile lamentarsi che si attacchi la proprietà, la famiglia, l’ordine sociale? La proprietà è sacra, ma è forse più sacra che lo stesso Dio? Per quanto si vogliano supporre di grande importanza le verità relative alla famiglia e alla società, sono esse forse di un ordine superiore agli eterni princìpi della morale? O per meglio dire, non sono forse l’applicazione medesima di questi eterni princìpi?

Ma riprendiamo il filo del discorso. Una volta confermato il principio che vi sono degli errori colpevoli (principio che se non in teoria almeno in pratica è ammesso da tutti, principio però che solo il Cattolicesimo sostiene

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integralmente in teoria), risulta ben chiara la ragione della giustizia con cui il potere pubblico condanna il propalare e l’insegnare certe dottrine, e gli atti che si commettono in conseguenza di esse, senza che tenga conto della convinzione che potrebbe avere dentro di sè il delinquente. La legge riconosce che quest’errore dell’intelligenza esiste o poté esistere; ma in questo caso dichiara colpevole lo stesso errore; e quando l’uomo invoca la testimonianza della propria coscienza la legge gli rammenta il dovere che egli aveva di correggerla. Ecco il fondamento della giustizia di una legislazione che tanto pareva ingiusta: fondamento che era necessario trovare se non si voleva ritenere colpevoli gran parte delle leggi umane; perché sarebbe infatti una grave colpa quella di arrogarsi il diritto di castigare chi non fosse veramente colpevole, diritto assurdo che è tanto lontano dall’appartenere alla giustizia umana, che non può riguardare neanche lo stesso Dio. La stessa giustizia infinita cesserebbe d’essere ciò che è se potesse castigare l’innocente.

Si potrebbe forse indicare un’altra origine al diritto che hanno i governi di castigare la propagazione di certe dottrine e le azioni che si commettono in base ai loro insegnamenti, anche nel caso in cui la convinzione di agire secondo coscienza dei criminali sia la più profonda. Si potrebbe dire che i governi agiscono in nome della società, la quale al pari di ogni essere ha diritto alla propria difesa. Vi sono delle dottrine che minacciano l’esistenza stessa della società, la quale si trova perciò nella necessità e in diritto di combatterne gli autori. Per quanto sembri accettabile un simile ragionamento, esso risente però dell’inconveniente molto grave di far scomparire di colpo l’idea di castigo e di giustizia. Chi si difende, chi colpisce l’assalitore, non lo castiga, ma lo respinge; e se si considera la società sotto questo aspetto il reo che viene condotto al patibolo non sarà più veramente reo, ma un disgraziato che soccombe in una lotta disuguale in cui temerariamente si era esposto. La voce del giudice che lo condanna, non sarà la voce solenne della giustizia. La sentenza non rappresenterà altro che l’azione della società, la quale si vendica di chi ha avuto la temerità di attaccarla. La parola pena acquista allora un senso molto diverso, e il graduarla dipende solo dal calcolo e non da un principio di giustizia. Bisogna averlo bene a mente: supponendo che la società per diritto di difesa imponga un castigo a colui che, se non fosse per questo (cioè per difendersi) essa riterrebbe del tutto innocente, la società non giudica, non castiga, ma combatte. E questo si addice perfettamente quando si tratta di società contro società, assai male però quando si tratta di società contro un individuo. Perché allora ci sembra di vedere la lotta impari di uno smisurato gigante contro un piccolissimo pigmeo. Il gigante lo prende in mano e lo sbatte contro una pietra.

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Da tutto ciò che abbiamo detto fin qui risulta evidente quanto valga il principio tanto esaltato della tolleranza universale! È stato dimostrato che tanto è impraticabile in concreto quanto è insostenibile in teoria; e quindi vengono a cadere tutte le accuse che sono state fatte al Cattolicesimo riguardo alla sua intolleranza. Resta dimostrato, inoltre, che l’intolleranza è in certo qual modo un diritto di ogni potere pubblico; diritto sempre riconosciuto, e così riconosciuto ancora adesso nonostante che, generalmente parlando, siano stati ammessi nelle stanze del potere dei filosofi sostenitori della tolleranza. Senza dubbio i governi hanno abusato tante volte di questo principio, e in loro nome è stata perseguitata anche la verità; ma di che non abusano gli uomini? Quello dunque che avrebbe dovuto fare la buona filosofia, non era di elaborare proposizioni insostenibili e per di più estremamente pericolose; non era di predicare fino alla noia contro gli uomini e le istituzioni dei secoli che ci hanno preceduto; ma di far sì che di quei secoli venissero divulgati i sentimenti delicati e indulgenti, e soprattutto di non contrastare le sublimi verità senza le quali la società non può sostenersi, e la cui mancanza lascerebbe il mondo in balìa della forza, e quindi dell’arbitrio e della tirannia.

Sono stati attaccati i dogmi, ma non si è riflettuto abbastanza che la morale è intimamente collegata al dogma, e che la morale stessa è un dogma. Col proclamare una libertà di pensiero senza alcun limite si è concessa l’impeccabilità all’intelletto, e l’errore ha cessato di comparire tra le mancanze di cui l’uomo può rendersi colpevole. Si sono dimenticati che per volere è necessario conoscere, e quindi per volere bene è indispensabile conoscere bene. Se si richiama alla mente la maggior parte dei traviamenti del nostro cuore si troverà che tutti hanno origine da un concetto erroneo: com’è possibile dunque che per l’uomo non sia un dovere il preservare l’intelletto dall’errore? Ma fin da quando è stato detto che le opinioni importavano poco, che l’uomo era libero di scegliere a suo piacimento senza alcun ostacolo, anche se imposto dalla religione e dalla morale, la verità ha perduto il suo gran pregio e non gode più agli occhi degli uomini di quel grande prestigio che aveva prima, sia per se stessa che per il suo valore intrinseco; e molti sono coloro che non si credono obbligati a fare il minimo sforzo per arrivare a conoscerla. Deplorevole condizione degli spiriti, che racchiude in sé uno dei più terribili mali che affliggono la società! (24). Torna all’indice

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CAPITOLO XXXVI L’Inquisizione. Istituzioni e legislazioni d’intolleranza. Cause del rigore usato nei primi secoli dall’Inquisizione. Tre epoche dell’Inquisizione di Spagna: contro gli Ebrei e i Mori, contro i Protestanti, e contro gl’increduli. Ebrei: motivo dell’odio con cui erano guardati. Rigori dell’Inquisizione, sue cause. Condotta dei Papi in questo faccenda. Delicatezza dell’Inquisizione di Roma. Princìpi intolleranti di Lutero riguardo agli Ebrei. Mori e Moreschi.

Mi trovo naturalmente portato a dire quattro parole sull’intolleranza di alcuni princìpi cattolici e sull’Inquisizione, particolarmente quella spagnola; e ad esaminare brevemente cos’è che si può rinfacciare al Cattolicesimo per la condotta tenuta negli ultimi secoli. Le prigioni e i roghi dell’Inquisizione, e l’intolleranza di alcuni sovrani cattolici sono stati uno degli argomenti di cui maggiormente si sono serviti i nemici della Chiesa per screditarla e renderla oggetto di condanna e di odio. E bisogna dire che in questo genere di attacchi i nemici della Chiesa avevano dalla loro parte molti vantaggi che rendevano assai plausibile il loro trionfo. Difatti, come ho già accennato prima, per la gran parte dei lettori (che non si preoccupano di esaminare a fondo le cose e con grande ingenuità si lasciano portare dovunque voglia il sagace autore; che hanno un cuore sensibile e disposto ad interessarsi degli eventi dolorosi), quale mezzo è più adatto ad eccitare la loro indignazione che quello di mostrar loro le carceri, gli strumenti di tortura, le vesti d’infamia e i roghi? Considerando la nostra tolleranza e delicatezza dei costumi, e la mitezza dei codici penali, qual effetto non produrrà il rievocare tutti insieme quei secoli col loro rigore e la loro durezza, esagerando il tutto e condensandolo in un sol quadro, con le disgustose scene che si verificarono in luoghi diversi e per lo spazio di un lungo periodo? Allora, usando l’espediente di mettere in rilievo che tutto questo si faceva in nome di un Dio di pace e di amore, il contrasto appare più vivo, l’immaginazione si esalta e il cuore s’indigna. Quindi il clero e i magistrati, i re e i Papi di quei tempi, sono considerati come una combriccola di carnefici che provano tutto il piacere nel tormentare e affliggere l’umanità. Gli scrittori che hanno battuto questa strada non si sono certo procurati la fama di essere delicati di coscienza, in quanto né l’oratore, né lo scrittore devono perdere mai di vista che, generalmente parlando, non è legittimo il sentimento che eccitano nell’animo, se prima l’animo non lo convincono, o non lo suppongono convinto. Oltre a ciò, trattare unicamente con argomenti che muovono i sentimenti materie che per loro natura devono essere analizzate alla luce della fredda ragione, se vogliamo esaminarle come conviene, è qualcosa che assomiglia alla malafede. Perché in questi casi non bisogna cominciare dal

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suscitare le sensazioni, ma dal convincere la mente: fare il contrario vuol dire ingannare il lettore.

Non è mia intenzione fare qui la storia dell’Inquisizione, o dei metodi usati nei vari paesi riguardo all’intolleranza in materie religiose; perché questo sarebbe impossibile a causa dei limiti ristretti entro i quali devo muovermi, e non sarebbe neanche necessario per lo scopo di quest’opera. Dall’Inquisizione in generale, da quella di Spagna in particolare, e dalla legislazione più o meno intollerante utilizzata nei diversi paesi, può venir fuori un’accusa contro il Cattolicesimo? Sotto questo aspetto può il Cattolicesimo sostenere un confronto col Protestantesimo? Queste sono le questioni che devo esaminare.

Tre argomenti si presentano subito all’osservatore: la legislazione e le istituzioni d’intolleranza; l’uso che se n’è fatto; e infine le azioni d’intolleranza commesse al di fuori delle regole di dette leggi ed istituzioni. Per ciò che riguarda quest’ultimo dirò subito che non ha nulla a che fare con la materia di cui ci occupiamo. La strage di San Bartolomeo e le altre atrocità commesse in nome della religione, non devono recare alcun imbarazzo ai suoi difensori, perché la religione non può farsi garante di tutto ciò che si fa in suo nome, e pretenderlo sarebbe un’evidente ingiustizia. L’uomo ha un sentimento così forte e così vivo dell’eccellenza della virtù, che col manto di essa s’ingegna per coprire i peggiori delitti: e sarebbe ragionevole bandire per questo motivo la virtù dalla terra? Nella storia dell’umanità vi sono state epoche terribili, in cui le menti sono state prese da una funesta vertigine. Il furore acceso dalla discordia acceca le menti e snatura i cuori; si chiama bene il male, e male il bene, e si commettono i più orrendi delitti pronunciando nomi sublimi. Quando lo storico o il filosofo esaminano simili epoche, hanno già chiaramente tracciata la condotta che devono tenere: assoluta verità nella narrazione dei fatti, guardandosi però dal giudicare da questi sia le idee che le istituzioni al potere. Le società in questi casi sono come un uomo in un accesso di delirio: e finché il delirante si trova in questo deplorevole stato si giudicherebbe male, da quanto egli dice e fa, delle sue idee, della sua indole e della sua condotta.

In tempi tanto funesti, quale partito può vantarsi di non aver commesso feroci delitti? Riferendoci all’epoca stessa che abbiamo nominata (quella della strage di San Bartolomeo), non vediamo forse i capi dei due partiti perfidamente assassinati a tradimento? L’ammiraglio Coligny muore per mano degli assassini che cominciano la strage degli Ugonotti, ma il duca di Guisa era stato ugualmente assassinato da Poltrot davanti ad Orleans. Enrico III muore assassinato da Jacopo Clement, ed è quello stesso Enrico che aveva fatto assassinare proditoriamente l’altro duca di Guisa nei corridoi del palazzo e il Cardinale, fratello del duca, nella torre di Moulins; e che aveva anche avuto

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parte nella strage di San Bartolomeo. Tra i Cattolici furono commesse delle atrocità, ma non le commisero forse anche i loro avversari? Si getti dunque un velo sopra queste catastrofi, sopra queste angoscianti testimonianze della miseria e perversità del cuore umano.

Il tribunale dell’Inquisizione, considerato in se stesso, non è altro che l’applicazione ad un caso particolare della dottrina di intolleranza la quale, in modo più o meno ampio, è la dottrina seguita da tutti i governi esistenti. Quindi ci rimane solo da esaminare le caratteristiche di questa applicazione, e vedere se le accuse mosse alla Chiesa dai suoi nemici sono giustificate. In primo luogo bisogna osservare, per coloro che amano tanto le cose antiche, che essi falsificano in modo deplorevole la storia se sostengono che l’intolleranza si fece vedere solamente nei tempi in cui, secondo loro, la Chiesa era degenerata dalla sua purezza originaria. Quello che io vedo è che fin dai secoli in cui la Chiesa cominciò ad avere un’influenza pubblica cominciò anche ad apparire nei codici l’eresia come delitto; e fino ai nostri giorni non son riuscito a trovare un’epoca di vera tolleranza.

C’è inoltre da fare un’altra importante osservazione, la quale mostra uno dei motivi del rigore esercitato nei secoli successivi. L’Inquisizione iniziò i suoi processi precisamente contro gli eretici manichei, cioè contro quei settari che in tutti i tempi erano stati trattati con la massima severità. Nell’undicesimo secolo, quando la pena del fuoco non veniva ancora inflitta agli eretici, erano esclusi da questa regola i manichei; e fin dai tempi degli imperatori pagani i manichei erano trattati con molto rigore, poiché nell’anno 296 Diocleziano e Massimiano pubblicarono un editto che condannava a diverse pene i manichei che non abiuravano i loro dogmi, e i capi della setta alla pena del fuoco. Questi settari sono sempre stati considerati come grandi colpevoli, e si è sempre ritenuto necessario castigarli, non solo per ciò che concerne la religione, ma anche per ciò che riguarda i costumi e l’ordine pubblico nella società. Questo fu uno dei motivi del rigore che fu introdotto in questo campo. E se si aggiunge il carattere turbolento delle sétte, che sotto vari nomi sorsero nei secoli undicesimo, dodicesimo e tredicesimo, si conoscerà un altro dei motivi che produssero scene tali che a noi adesso sembrano incredibili.

Studiando la storia di quei secoli, e fissando lo sguardo sulle agitazioni e le catastrofi che desolarono il mezzogiorno della Francia, si vede molto chiaramente che non solo si disputava su questo o quell’articolo del dogma, ma che tutto l’ordine sociale di allora correva seri pericoli. I settari di quei tempi erano i precursori di quelli del sedicesimo secolo; con la differenza però che questi ultimi in generale erano meno democratici, meno portati a rivolgersi alle masse, eccetto gli esaltati anabattisti. Nella rudezza dei costumi di quei tempi,

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quando dopo lunghi secoli di tumulti e di violenze la legge del più forte era giunta ad ottenere una predominio assoluto, cosa mai potevano aspettarsi i governi che si vedevano minacciati da un tal genere di pericolo? È chiaro che le leggi e la loro applicazione dovevano risentirne dello spirito del tempo.

Quanto all’Inquisizione di Spagna, che non fu altro che un’estensione di quella ch’era stata istituita in altre parti, è necessario suddividere la sua durata in tre grandi periodi, lasciando anche da parte il periodo in cui fu operante nel regno di Aragona, prima di essere introdotta in Castiglia. Il primo periodo comprende il tempo in cui fu rivolta principalmente contro i giudaizzanti e i Mori, dalla sua fondazione ai tempi dei re cattolici fino al regno ben inoltrato di Carlo V. Il secondo da quando incominciò a dirigere tutti i suoi sforzi per impedire l’introduzione del Protestantesimo in Spagna, e durò finché non si dileguò tale pericolo, comprendendo così la seconda metà del regno di Carlo V e quello dei suoi successori fino all’avvento dei Borboni. Infine l’ultimo periodo durò dal tempo in cui iniziò ad operare per reprimere i vizi nefandi e per sbarrare il passo alla filosofia di Voltaire, fino alla sua abolizione nei primi decenni di questo secolo. Si vede bene che, pur essendo nelle dette epoche sempre la stessa istituzione (benché andasse modificandosi secondo le circostanze), non si può fissare con precisione il punto in cui l’una finisce e l’altra incomincia; ciò nonostante resta vero il fatto che queste tre epoche sono distinte nella storia dell’Inquisizione e che presentano caratteristiche molto diverse.

Sono note a tutti le circostanze particolari in cui fu stabilita l’Inquisizione ai tempi dei re cattolici; ma sarà bene osservare che a pregare il Papa di emanare una bolla che istituisse l’Inquisizione fu la regina Isabella, vale a dire uno dei sovrani più eminenti nella nostra storia, che da tre secoli conserva il rispetto e la venerazione di tutti gli Spagnoli. La regina era tanto lontana dal mettersi con questo provvedimento in contrasto con la volontà del popolo che, al contrario, non fece altro che corrispondere al desiderio della nazione. L’Inquisizione fu istituita principalmente contro gli Ebrei; la bolla del Papa era stata emanata nel 1478, e prima che l’Inquisizione pubblicasse nel 1481il primo editto in Siviglia, le Cortes di Toledo del 1480 forzarono la mano riguardo a questo problema (onde impedire il danno che la dimestichezza degli Ebrei con i Cristiani poteva recare alla fede cattolica), disponendo che gli Ebrei non battezzati portassero un segno distintivo, abitassero in quartieri separati che si chiamavano giuderie, e si ritirassero prima di notte. Si rinnovarono gli antichi regolamenti contro gli Ebrei, e si proibì loro di esercitare le professioni di medico, chirurgo, mercante, barbiere e oste. Di qui si rileva che l’intolleranza in quel tempo era popolare; e che se rimane giustificata agli occhi

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dei sostenitori della monarchia, perché era conforme alla volontà dei re, per la stessa ragione doveva esserlo agli occhi dei partigiani della sovranità popolare.

Senza dubbio il cuore si rattrista nel leggere l’eccessivo rigore con cui allora erano perseguitati gli Ebrei; ma bisogna pure ammettere che ci furono delle cause gravissime che indussero a farne uso. La principale delle quali è ritenuto il pericolo incombente sulla monarchia spagnola, non ancora ben salda allora, se si fosse permesso agli Ebrei di agire in piena libertà, in quanto a quei tempi essi erano potentissimi per le loro ricchezze e per i vincoli che li univano alle famiglie più influenti. Inoltre era molto da temere l’alleanza di costoro con i Mori a danno dei Cristiani nei rispettivi rapporti tra i tre popoli. Quindi fu creduto indispensabile eliminare un pericolo che potesse nuovamente compromettere l’indipendenza dei Cristiani. È necessario anche far presente che quando l’Inquisizione fu istituita non era ancora terminata la guerra contro i Mori durata otto secoli. L’idea dell’Inquisizione nacque prima del 1478, e non fu mandata ad effetto fino al 1480, quando invece la conquista di Granata non avvenne che nell’anno 1492. l’Inquisizione fu dunque stabilita al tempo in cui la dura lotta era nel suo momento più critico e decisivo, e ancora non si sapeva se i Cristiani sarebbero rimasti padroni di tutta la penisola o se i Mori avrebbero conservato il possesso di una delle più amene e fertili province, che era anche in una posizione strategica ai fini dei collegamenti con l’Africa e per avere un centro e un punto d’appoggio per tutti i tentativi che il potere della Mezzaluna avesse deciso di provare in seguito contro la nostra indipendenza. Potere che a quel tempo era ancora molto forte, come dimostrarono le audaci imprese che condusse in seguito nel resto d’Europa. In simili critiche circostanze, nei momenti che possono decidere della vittoria finale dopo una guerra durata secoli, quando mai si è visto che i contendenti si comportino con moderazione e dolcezza?

Non si può negare che nel sistema di repressione contro gli Ebrei e i Mori poté influire molto l’istinto della propria conservazione; e che probabilmente i re cattolici avevano presente questo motivo quando decisero di chiedere per il loro regno il tribunale dell’Inquisizione. Il pericolo non era immaginario, ma effettivo e reale; e per farsi un’idea del punto in cui sarebbero potute giungere le cose qualora non fossero stati adottati dei rimedi, basta ricordare i gravi problemi che provocarono in tempi successivi le insurrezioni di ciò che restava dei Mori.

Con tutto ciò non conviene attribuire tutto questo alla politica dei re, e bisogna ben guardarsi dal desiderio di dare troppo peso alla lungimiranza e ai progetti degli uomini. Da parte mia sono propenso a credere che Ferdinando ed Isabella seguirono in modo naturale il comune sentire della nazione, la quale

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guardava con odio quegli Ebrei che rimanevano nella loro setta, e con sospettosa diffidenza quelli che avevano abbracciata la religione cristiana. Questo ebbe origine da due cause: il fervore dei sentimenti religiosi, comune in tutta Europa e particolarmente in Spagna a quei tempi, e la condotta degli stessi Ebrei che si erano tirati addosso il pubblico sdegno.

Da moltissimo tempo in Spagna si sentiva la necessità di porre un freno alla cupidigia degli Ebrei, temendo che finisse col portare all’oppressione dei Cristiani; e già le antiche assemblee di Toledo dovettero più volte occuparsene. Nei secoli seguenti il male era giunto al colmo: gran parte delle ricchezze della penisola iberica era passata in mano agli Ebrei, e quasi tutti i Cristiani erano diventati loro debitori. Da qui scaturì l’odio del popolo contro di essi; da qui i frequenti tumulti in molte città della penisola, tumulti che furono più di una volta funesti per gli Ebrei, dei quali si sparse molto sangue. Era ben difficile infatti che un popolo abituato per lunghi secoli a difendere i suoi averi con la forza delle armi si rassegnasse quieto e pacifico a un destino che gli andavano costruendo gli artifici e le esazioni di una razza straniera, la quale per di più col proprio nome faceva ricordare una terribile maledizione.

Nei secoli successivi si convertì alla religione cristiana un immenso numero di Ebrei; ma neanche con questo svanì la diffidenza, né si estinse l’odio del popolo. E in verità è assai probabile che molte di tali conversioni non fossero troppo sincere, dato che in parte erano determinate dal misero stato in cui si trovavano col rimanere nel giudaismo. Quand’anche la ragione non ci portasse a ipotizzarlo, basterebbe per convincerci a ciò il gran numero di giudaizzanti che furono scoperti quando vennero fatte indagini molto accurate per smascherare i rei di un tale delitto. Comunque fosse, è certo che fu introdotta la distinzione tra nuovi Cristiani e vecchi Cristiani; essendo quest’ultima denominazione un titolo di onore, e la prima una macchia d’ignominia; e i Giudei convertiti per disprezzo erano chiamati marranos (Maiale, scomunicato, maledetto).

Questi erano anche accusati, a ragione o a torto, di orribili delitti. Si diceva che nelle loro tenebrose adunanze segrete commettessero tali atrocità che difficilmente si potrebbe prestar fede, almeno per riguardo al senso di umanità. Si diceva per esempio che per disprezzo della religione e per vendicarsi dei Cristiani ne crocifiggevano i figli scegliendo per un tal sacrificio i giorni più solenni delle festività cristiane. È nota la storia che si raccontava di un cavaliere di casa Guzman il quale, innamorato di una fanciulla ebrea, una notte stette nascosto in casa di costei e vide con i propri occhi che gli Ebrei commettevano il delitto di crocifiggere un bambino cristiano nel momento in cui i Cristiani commemoravano l’istituzione del sacramento dell’Eucaristia.

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Oltre che di infanticidio, gli Ebrei venivano accusati di compiere sacrilegi, avvelenamenti, congiure ed altri simili misfatti. Che queste voci fossero considerate vere lo provano le leggi che proibivano agli Ebrei le professioni di medico, chirurgo, barbiere ed oste; dal che si comprende la diffidenza diffusa sulla loro moralità. Non occorre accertare la maggiore o minore fondatezza delle accuse. Sappiamo benissimo dove può arrivare la credulità popolare, soprattutto quando è dominata da forti sentimenti che le fanno vedere le cose tutte dello stesso colore. Ci basti sapere che queste voci circolavano ed erano credute per farci un’idea del punto a cui era arrivata l’indignazione popolare contro i Giudei e come, di conseguenza, fosse naturale che il potere, dietro la spinta dell’opinione pubblica, tendesse a trattarli con molto rigore.

Che gli Ebrei concertassero tra loro per organizzarsi contro i Cristiani risulta già abbastanza evidente dalla condizione in cui si trovavano; e ciò che fecero in occasione della morte di S. Pietro di Arbues mostra come avrebbero agito in altre occasioni. Il denaro necessario per commettere l’assassinio, pagarne gli autori e per le altre spese che comportarono l’organizzazione del delitto fu raccolto per mezzo di una contribuzione volontaria tra tutti gli aragonesi di razza ebrea. Questo mostra l’esistenza di una struttura ben organizzata che avrebbe potuto effettivamente essere fatale se il governo non avesse vigilato con grande scrupolo.

A proposito della morte di S. Pietro di Arbues, devo fare un’osservazione su quanto è stato detto da coloro che vorrebbero dimostrare, con questo tragico avvenimento, l’impopolarità dell’introduzione in Spagna dell’Inquisizione. Quale segno più evidente di questa impopolarità, dicono costoro, della morte procurata all’inquisitore? L’essersi spinto il popolo a un tale eccesso, non è una chiara dimostrazione che la sua indignazione nei confronti dell’Inquisizione era giunta al colmo, e che non la voleva assolutamente? Non negherò che, se intendiamo per popolo gli Ebrei e i loro discendenti, costoro sopportavano mal volentieri l’Inquisizione; ma non era così per il resto del popolo. E proprio l’assassinio di cui parliamo diede il via ad alcune conseguenze che provano tutto il contrario di ciò che pretendono gli avversari. Divulgatasi per la città la morte dell’inquisitore, ci fu un’insurrezione di popolo per vendicarne l’uccisione. Gl’insorti si erano sparsi per la città, e divisi in drappelli andavano perseguitando i nuovi Cristiani in maniera tale che sarebbe accaduta una carneficina se il giovane Arcivescovo di Saragozza, Alfonso d’Aragona, montato a cavallo, non fosse andato incontro al popolo per calmarlo, promettendo che i colpevoli sarebbero stati giudicati col massimo rigore. Questo episodio non dimostra certo che l’Inquisizione fosse

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tanto impopolare quanto viene sostenuto, né che i suoi nemici costituissero la maggioranza; soprattutto se si considera che questa insurrezione popolare non poté essere evitata nonostante tutte le precauzioni che a tal fine furono certamente messe in opera dai congiurati che a quel tempo erano molto potenti per le loro ricchezze e la loro influenza.

Riguardo al periodo in cui s’impiegò il massimo rigore contro i giudaizzanti, si può osservare un fatto degno di essere considerato. Quelli che erano colpiti dall’Inquisizione, o temevano di esserlo, cercavano in ogni maniera di sottrarsi al suo tribunale, e fuggendo dalla Spagna si rifugiavano a Roma. Per coloro che considerano Roma l’eterno focolaio dell’intolleranza e della persecuzione forse questo fatto può sembrare incredibile, eppure non vi è cosa più certa. Innumerevoli sono le cause avviate dall’Inquisizione spagnola che furono avocate a Roma nella prima metà del secolo in cui fu istituito il tribunale. E bisogna anche notare che Roma tendeva sempre verso l’indulgenza: non so se, riguardo a quel periodo, si possa citare un solo reo che ricorrendo a Roma non abbia migliorato la sua sorte. Gran parte della storia dell’Inquisizione di quel tempo si riferisce alle contese dei re con i Papi, nelle quali da parte di questi si rivela sempre il desiderio di contenere l’Inquisizione entro i limiti di umanità e di giustizia. Non sempre si seguì, come sarebbe stato doveroso fare, la linea di condotta prescritta dai Sommi Pontefici, e così vediamo che questi si videro costretti a ricevere un numero infinito di appelli e a mitigare la sorte che sarebbe toccata ai rei se la loro causa fosse stata decisa definitivamente in Spagna. Vediamo anche che, pregato dai re cattolici, i quali desideravano che le cause fossero definitivamente giudicate in Spagna, il Papa nomina un giudice di appello, il primo dei quali fu D. Inigo Manrique Arcivescovo di Siviglia. Con tutto ciò tali erano allora i tempi, e tanto urgente la necessità d’impedire che le teste esaltate non arrivassero a commettere ingiustizie o non si usassero mezzi eccessivamente severi, che dopo pochissimo tempo lo stesso Papa riferiva in un’altra bolla spedita il due di agosto del 1483, di aver continuato a ricevere gli appelli di molti Spagnoli di Siviglia, i quali non avevano osato presentarsi al giudice di appello per timore di essere messi in carcere. Aggiungeva, il Papa, che alcuni avevano già ricevuta l’assoluzione dalla penitenzieria apostolica, ed altri si disponevano a riceverla; quindi lamentava che a Siviglia non si tenesse il dovuto rispetto per le sentenze di grazia concesse di recente a parecchi rei. Ed infine, dopo alcuni avvertimenti, faceva notare ai sovrani Ferdinando e Isabella che la misericordia verso i rei era più accetta a Dio del rigore di cui si voleva fare uso, come prova l’esempio del buon Pastore che corre in cerca della pecora smarrita; e concludeva con l’esortare quei prìncipi a trattare benignamente coloro che

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confessavano spontaneamente le loro colpe, e permettessero loro di abitare a Siviglia od ovunque loro piacesse, lasciandoli godere il frutto dei loro beni come se non avessero mai commesso il peccato di eresia.

E non si creda che nei processi di appello che si svolgevano a Roma l’attenuazione della pena ai processati dipendesse sempre dallo scoprire nella causa in prima istanza difetti o ingiustizie nello stabilire la pena. Non sempre i rei ricorrevano a Roma per chiedere riparazione di un’ingiustizia, ma perché erano sicuri di trovarvi indulgenza. Ne abbiamo una prova incontestabile nel numero considerevole di rifugiati spagnoli per i quali era stato provato il ritorno al giudaismo. In una sola volta fu provato tale ritorno per non meno di duecentocinquanta persone, ma neppure una fu condannata a morte: furono imposte alcune penitenze, e quando queste furono assolte gl’imputati poterono tornare alle loro case senza alcun marchio d’infamia. Questo accadde a Roma nell’anno 1498.

È cosa davvero singolare quella che possiamo vedere nell’Inquisizione romana, che cioè non sia mai giunta ad infliggere la pena capitale, quantunque durante questo tempo abbiano occupato la sede apostolica Papi molto rigorosi e severi in ciò che riguarda l’amministrazione civile. In tutti i paesi d’Europa s’incontrano patiboli alzati per motivi di religione, e per ogni dove si presentano scene che angosciano l’animo, e intanto Roma costituisce un’eccezione alla regola generale: proprio quella Roma che ci vogliono dipingere come un mostro d’intolleranza e di crudeltà. Vero è che i Papi non hanno mai predicato la tolleranza universale, come invece hanno fatto i Protestanti e i filosofi, ma i fatti ci vengono a dire che differenza passa tra gli uni (i Papi) e gli altri (i Protestanti e i filosofi). I Papi con un tribunale d’intolleranza non versarono mai una goccia di sangue, e i Protestanti e i filosofi lo fecero versare a torrenti. Che importava alle vittime udire i carnefici proclamare la tolleranza? Non era altro che rendere, col sarcasmo, la pena ancora più amara.

La condotta di Roma nell’impiego del tribunale dell’Inquisizione è la migliore apologia del Cattolicesimo contro coloro che fanno ogni sforzo per farlo credere barbaro e sanguinario. Ed invero, cosa mai ha a che fare il Cattolicesimo con la severità sregolata che poté impiegarsi in questo o in quel luogo, per via di situazioni eccezionali, di rivalità tra razze, di pericoli che minacciavano una di esse, o dell’interesse da parte dei sovrani nell’assicurare la tranquillità dei loro stati e liberare da ogni pericolo le loro conquiste? Io non entrerò qui ad esaminare minutamente tutte le particolarità dell’Inquisizione di Spagna riguardo ai giudaizzanti; e sono ben lontano dal pensare che il rigore contro di essi sia da preferirsi alla benignità usata e raccomandata dai Papi. Ciò

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che desidero mettere in evidenza è che quel rigore fu l’effetto di circostanze straordinarie, dello spirito dei popoli, della durezza dei costumi peraltro comune in tutta l’Europa di quei secoli; e che non si possono in alcuna maniera rinfacciare al Cattolicesimo gli eccessi che si poterono commettere. Ma c’è di più: considerato lo spirito che domina in tutti i provvedimenti dei Papi relativi all’Inquisizione, e la loro manifesta tendenza a mettersi sempre dalla parte che poteva temperare il rigore e cancellare il marchio d’ignominia dei rei e delle loro famiglie, si può pensare che se i Papi non avessero temuto d’indisporre troppo i re e di provocare dissensi che potevano divenire funesti, avrebbero portato ancora più in là le loro misure di benevolenza. Per esserne convinti si rammentino le trattative sulla clamorosa faccenda dei reclami delle Cortes di Aragona, e si veda verso quale parte inclinava la corte di Roma.

Giacché stiamo parlando dell’intolleranza contro i giudaizzanti, sarà bene ricordare la disposizione d’animo di Lutero riguardo agli Ebrei. Parrebbe che il preteso riformatore, il fondatore della libertà di pensiero, il focoso declamatore contro l’oppressione e la tirannia dei Papi, dovesse essere animato dai sentimenti i più umani verso gli Ebrei; e così devono senza dubbio pensare gli encomiatori del corifeo del Protestantesimo. Ma per loro disgrazia la storia non parla così; e, secondo tutte le apparenze, se il frate apostata fosse stato al posto di Torquemada, i giudaizzanti non sarebbero stati trattati meglio. Ecco qual era il sistema consigliato da Lutero secondo quanto riferisce il suo stesso apologeta Seckendorff: «Si sarebbe dovuto distruggere le sinagoghe, abbattere le case, sequestrare i loro libri di orazioni, il Talmud ed i libri del vecchio Testamento, proibire ai rabbini d’insegnare e obbligarli a guadagnarsi da vivere con penose fatiche». Almeno l’Inquisizione di Spagna procedeva non contro i Giudei, ma contro i giudaizzanti, coloro cioè che dopo essersi convertiti al Cristianesimo ricadevano nei loro errori e univano il sacrilegio all’apostasia, professando in pubblico una fede che detestavano in segreto, e che per di più profanavano col professare la loro antica religione. Ma Lutero estendeva il rigore a tutti i Giudei in modo che, secondo le sue dottrine, non si può rinfacciare nulla ai re di Spagna, quando li espulsero dal loro regno.

In quei tempi l’Inquisizione spagnola dovette occuparsi anche dei Mori e dei Moreschi, e tranne qualche variante si può applicar loro quanto abbiamo detto riguardo agli Ebrei. Anche questa era una razza aborrita con la quale si era combattuto per la durata di otto secoli: se rimaneva ferma nella sua religione eccitava all’odio; se l’abiurava non ispirava fiducia. Anche per costoro i Papi furono molto solleciti, come si può osservare in una bolla emanata nel 1530 dove viene usato in loro favore un linguaggio tutto evangelico. Vi si dice che l’ignoranza di quei disgraziati era una delle cause

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principali delle loro colpe ed errori, e che per renderne le conversioni sincere e salde si doveva prima di tutto provvedere ad illuminarne la mente con la luce della sana dottrina.

Si dirà che il Papa concedette a Carlo V la bolla in cui l’assolveva dal giuramento prestato nelle Cortes di Saragozza del 1519 di non modificare nulla di ciò che era stato stabilito riguardo ai Mori, e che così l’imperatore poté portare ad effetto la loro espulsione. Ma è necessario far presente che il Papa vi resistette a lungo; e se condiscese poi alla volontà dell’imperatore fu perché questi giudicava che era indispensabile l’espulsione per assicurare la tranquillità dei suoi domìni. Se questo fosse vero o no, era l’imperatore che doveva saperlo e non il Papa, il quale si trovava molto distante da quei luoghi e senza una conoscenza precisa del vero stato delle cose. Del resto il sovrano spagnolo non era il solo che fosse di questa opinione, poiché si sa che Francesco I re di Francia, quando era prigioniero a Madrid, disse un giorno a Carlo V che la tranquillità non sarebbe mai stata garantita in Spagna finché non ne fossero espulsi i Mori e i Moreschi. Torna all’indice

CAPITOLO XXXVII Nuova Inquisizione attribuita a Filippo II. Il padre Lacordaire. Pregiudizi contro Filippo II. Un’osservazione sull’opera intitolata “l’Inquisizione senza maschera”. Rapida occhiata su quell’epoca. Causa di Carranza: considerazioni sulla stessa e sulle qualità personali del celebre reo. Origine della parzialità contro Filippo II. Riflessioni sulla politica di questo sovrano. Curioso aneddoto di un predicatore obbligato a ritrattarsi. Riflessioni sull’influsso dello spirito del secolo.

È stato detto che Filippo II fondò in Spagna una nuova Inquisizione più terribile di quella del tempo dei re cattolici, e che per questa seconda Inquisizione ci fu da parte del Papa una certa indulgenza, quale non si ebbe per quella precedente. Intanto risulta subito evidente un’inesattezza storica molto grave, perché Filippo II non fondò una nuova Inquisizione ma si servì di quella che gli avevano lasciato in eredità i re cattolici, e che in modo particolare suo padre e predecessore Carlo V gli aveva raccomandato per testamento. Il comitato delle Cortes di Cadice nel progetto di abolizione del detto tribunale, mentre giustifica la condotta dei re; biasima severamente quella di Filippo II, e cerca di far ricadere su questo principe tutta l’odiosità e tutta la colpa. Un illustre scrittore francese, che ha trattato recentemente quest’importante questione, si è lasciato coinvolgere in questa teoria con quell’ingenuità che non poche volte è patrimonio del genio. «Nell’Inquisizione di Spagna – dice

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l’illustre Lacordaire, – vi furono due momenti fondamentali che non bisogna confondere: uno sul finire del quindicesimo secolo sotto Ferdinando e Isabella, prima che i Mori fossero cacciati da Granata, loro ultimo rifugio; l’altro verso la metà del sedicesimo secolo, sotto Filippo II, quando il Protestantesimo minacciava d’introdursi in Spagna. Il comitato delle Cortes ha perfettamente distinte le due epoche, bollando d’ignominia l’Inquisizione di Filippo II, ed esprimendosi con molta moderazione per quella di Ferdinando e Isabella». Cita in seguito un testo in cui si afferma che Filippo II fu il vero fondatore dell’Inquisizione, e che se questa successivamente aumentò tanto il suo potere, ciò fu dovuto alla scaltra politica di quel principe. Il citato scrittore aggiunge un poco più sotto che Filippo II fu l’inventore degli autodafé, per scoraggiare chi volesse seguire l’eresia, e che il primo di questi fu celebrato a Siviglia nel 1559» (Memoria per il ristabilimento in Francia dell’ordine dei Frati Predicatori, dell’Abate Lacordaire, capo 6).

Sorvoliamo sull’inesattezza storica riguardante l’invenzione degli autodafé, poiché è noto a tutti che né il vestiario d’infamia (los sambenitos) né le cataste ardenti furono invenzioni di Filippo II. Queste inesattezze sfuggono facilmente a qualunque scrittore, soprattutto quando di un fatto ne parla incidentalmente; e quindi non è il caso che vi ci intratteniamo. Ma in queste parole è contenuta un’accusa ad un sovrano al quale già da molto tempo non si rende la giustizia che merita. Filippo II continuò l’opera cominciata dai suoi predecessori; e perciò se non se ne dà colpa a questi, non se ne deve dare neanche a lui. Ferdinando e Isabella si servirono dell’Inquisizione contro gli Ebrei apostatati; e perché Filippo II non avrebbe dovuto servirsene contro i Protestanti? Si dirà però che egli abusò del suo diritto e che portò il rigore all’eccesso; ma in verità ai tempi di Ferdinando ed Isabella non ci fu affatto maggiore indulgenza. Si sono forse dimenticate le numerose esecuzioni a Siviglia e altrove? Si è forse dimenticato quanto dice nella sua storia Padre Mariana? Si sono dimenticate forse le misure che presero i Papi per porre un limite a questo eccessivo rigore?

Le parole citate contro Filippo II sono state tratte dall’opera L’Inquisizione senza maschera, pubblicata in Spagna nel 1811. Chiunque potrà valutare facilmente quale autorevolezza possa avere l’opera, quando si sappia che il suo autore si distinse fino alla morte per un odio profondo contro i re di Spagna. La copertina dell’opera porta il nome di Natanaele Jomtob, ma il vero autore è uno Spagnolo ben noto che negli scritti pubblicati sul finire della sua vita mostra di non avere avuto altro scopo che quello di sostenere tra madornali eccessi e furibonde invettive i suoi precedenti attacchi. Egli è insopportabile nel linguaggio che tiene contro tutto ciò che gli capita davanti. Religione, re,

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patria, classi, individui, perfino quelli del suo stesso partito e delle sue stesse opinioni: tutto è occasione per insultare, tutto lo fa uscire dai gangheri come se fosse preso da un accesso di rabbia. Che meraviglia dunque che costui guardò Filippo II con quello stesso occhio con cui lo guardano i Protestanti e i filosofi, cioè come un principe capitato sulla terra per la vergogna e il tormento dell’umanità, come un mostro di machiavellismo che diffonde le tenebre per sguazzare a man salva nella crudeltà e nella tirannia?

Non sarò certo io ad assumere il compito di giustificare la politica di Filippo II in ogni sua parte, e non negherò che vi sia qualche esagerazione negli elogi che gli hanno tributato alcuni scrittori spagnoli; ma neanche si può mettere in dubbio che i Protestanti e i nemici politici di questo sovrano si sono sempre dati un gran da fare per screditarlo. E sapete perché i Protestanti ce l’hanno tanto con Filippo II? Perché fu egli ad impedire che il Protestantesimo penetrasse in Spagna, e fu egli che in quel secolo agitatissimo sostenne la causa della Chiesa cattolica. Lasciamo da parte i grandi avvenimenti in altre zone d’Europa, dei quali ognuno potrà giudicare a suo talento, e limitiamoci a ciò che avvenne in Spagna. Si può dar per certo che senza il sistema adottato da quel sovrano l’introduzione del Protestantesimo, già imminente, sarebbe stata inevitabile. Se in questo o in quel caso si servì dell’Inquisizione per la sua politica, non è una cosa che in tale contesto è utile esaminare; si deve però riconoscere che l’Inquisizione non fu un puro strumento di mire ambiziose, ma un’istituzione organizzata per far fronte ad un pericolo reale.

Dai processi fatti dall’Inquisizione in quell’epoca risulta con grande evidenza che il Protestantesimo si andava diffondendo in Spagna in un modo incredibile. Distinti ecclesiastici, religiosi, monache, uomini illustri: in una parola persone delle classi più influenti furono contagiati dai nuovi errori. È evidente che gli sforzi dei Protestanti per introdurre in Spagna le loro dottrine non erano infruttuosi: essi cercavano ogni modo per farvi giungere i libri che contenevano queste dottrine, usando perfino l’originale stratagemma di metterli in botti di vino di Sciampagna e di Borgogna con tale maestria che i doganieri non riuscivano a scoprire la frode, come ebbe a scrivere da Parigi l’ambasciatore di Spagna.

Anche se a mostrare incontestabilmente il pericolo che incombeva non fossero accaduti certi fatti, basta condurre un’attenta osservazione sugli stati d’animo in quell’epoca in Spagna per rendersene conto. I Protestanti ebbero gran premura di protestare contro gli abusi, presentandosi come riformatori e sforzandosi di guadagnare al loro partito quanti erano animati da un vivo desiderio di riforma. Questo desiderio esisteva già nella Chiesa da molto tempo; e quantunque sia vero che in alcuni lo spirito di riforma proveniva da

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una cattiva intenzione, o in altri termini mascheravano con questo nome il vero loro progetto che era quello di distruggere, è certo però che molti Cattolici sinceri nutrivano un desiderio così vivo di riforma, che degenerava in uno zelo imprudente e finiva in un fervore sregolato. È molto probabile che questo stesso zelo, portato a un livello eccessivo, si convertisse in vera acredine in alcuni, che in tal modo si prestavano più facilmente all’insidiosa influenza dei nemici della Chiesa. Forse non pochi furono coloro che incominciarono da uno zelo inopportuno per poi cadere nell’eccesso, passare successivamente all’ostilità e precipitarsi infine nell’eresia. Non mancava in Spagna questa disposizione di spirito che, aumentando via via nel corso degli avvenimenti avrebbe prodotto tristi conseguenze se il Protestantesimo avesse appena potuto prender piede. Si sa che nel Concilio di Trento gli Spagnoli si distinsero per lo zelo riformatore e per la fermezza nel manifestare le loro opinioni; ed è giusto far notare che una volta che in un paese si sia introdotta la discordia religiosa, gli animi vengono eccitati dalle dispute e irritati dai continui contrasti; e capita talvolta che uomini stimati giungono ad eccessi tali che essi stessi ne avrebbero poco prima provato orrore. È difficile dire precisamente ciò che sarebbe accaduto se a questo punto si fosse mollato il freno anche solo un poco. Quello che possiamo dire di certo è che quando si leggono certi passi di Lodovico Vives, di Arias Montano, di Carranza, della Consulta di Melchiorre Cano, sembra di sentire in quegli intelletti un’inquietudine ed un’agitazione tali da richiamare alla mente quei sordi tuoni che annunciano in lontananza il principio della tempesta.

La famosa causa dell’Arcivescovo di Toledo, fra’Bartolomeo di Carranza, è uno di quegli episodi citati tanto spesso per dimostrare quanto fosse arbitraria nel suo procedere l’Inquisizione di Spagna. Certo, fa una dolorosa impressione vedere gettato all’improvviso nella stretta cella di un carcere e mantenutoci per lunghi anni uno dei più dotti uomini d’Europa, Arcivescovo di Toledo, onorato dell’intima confidenza di Filippo II e della regina d’Inghilterra, unito da amicizia con i più distinti uomini del tempo e conosciuto in tutta la Cristianità per il brillante comportamento tenuto nel Concilio di Trento. Diciassette anni durò la causa, e nonostante fosse stata avocata a Roma, dove non mancavano all’Arcivescovo protettori potenti, non si riuscì tuttavia ad impedire che la sentenza lo dichiarasse colpevole. Prescindendo da ciò che poteva nascere da una causa così complessa ed estesa, e dai maggiori o minori motivi che poterono dare le parole e gli scritti del Carranza per far sospettare la sua fede, io tengo per certo che in coscienza e davanti a Dio egli era del tutto innocente. Ne abbiamo una prova che non ammette alcun dubbio, che è la seguente. Essendosi egli ammalato poco dopo

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la sentenza del processo, si seppe subito che la malattia era mortale, e gli furono amministrati i Sacramenti. Nell’atto di ricevere il Santo Viatico, in presenza di un gran numero di persone dichiarò nel modo più solenne che non si era mai allontanato dalla fede della Chiesa cattolica, che di nulla gli rimproverava la coscienza riguardo a tutte le accuse che gli erano state fatte, e a conferma di tale protesta invocò la testimonianza dello stesso Dio alla presenza del quale egli si trovava e che stava per ricevere sotto le specie sacramentali, e al tremendo tribunale davanti al quale stava per comparire. Questa scena commovente fece versare calde lacrime a tutti i presenti, fece svanire come un soffio i sospetti che gli si erano accumulati contro, e accrebbe quella compassione che già si era accesa nei cuori per la lunga durata della sua dolorosa sventura. Il Sommo Pontefice non dubitò affatto della sincerità della sua dichiarazione, come indica il magnifico necrologio posto sulla sua tomba, il quale non sarebbe certamente stato permesso se fosse rimasto il minimo dubbio sulla sincerità delle sue parole. E sarebbe stata di certo una vera temerità non prestar fede ad una dichiarazione così esplicita formulata da un uomo come Carranza, in punto di morte e alla presenza dello stesso Gesù Cristo.

Pagato questo tributo alla dottrina, alle virtù e alla sventura di Carranza, rimane ora da esaminare se, per quanto pura fosse la sua coscienza, si possa dire con ragione che la causa non fu altro che un perfido intrigo tramato dalla malvagità e dall’invidia. È evidente che qui non si tratta di esaminare l’immenso processo di quella causa; ma siccome si è soliti passarci sopra con leggerezza per procurare una cattiva fama a Filippo II e agli avversari del Carranza, mi sia permesso di fare alcune osservazioni sul processo per mettere le cose al loro giusto posto. Per prima cosa viene subito da chiedersi come mai il processo sia potuto durare un tempo così lungo. Oltretutto, se la causa si fosse tenuta sempre in Spagna non ci sarebbe tanto da meravigliarsi della sua lunga durata; ma non fu così, perché per molti anni fu pendente anche a Roma. Se la calunnia era tanto chiara ed evidente come si è voluto far credere, erano dunque tanto ciechi o malevoli i giudici, per non averla vista e non averla respinta?

A questo si può rispondere che gl’intrighi di Filippo II, il quale voleva assolutamente la rovina dell’Arcivescovo, impedivano che venisse a galla la verità, come dimostra l’indugio che pose nel rimandare a Roma l’illustre prelato nonostante le continue sollecitazioni del Papa. Pio V, a quanto si dice, si vide perfino costretto a minacciare di scomunica Filippo II se non avesse fatto trasferire a Roma il Carranza. Non negherò che Filippo II non abbia cercato di aggravare la situazione dell’Arcivescovo e non abbia desiderato che

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la causa avesse un esito sfavorevole all’illustre prelato, ma per sapere se la condotta del re era o no criminosa bisogna verificare se il motivo che lo spingeva ad agire così consisteva in un livore personale, oppure nell’intima persuasione, o nel sospetto, che l’Arcivescovo fosse luterano. Il Carranza prima della sua disgrazia era molto favorito e onorato da Filippo II, il quale dimostrò molte volte questo favore con l’affidargli vari incarichi in Inghilterra, e per ultimo con la nomina alla suprema dignità ecclesiastica in Spagna. Non possiamo quindi pensare che tanta benevolenza cambiasse ad un tratto in odio personale, quando poi la storia non ci fornisce alcun argomento su cui fondare questa congettura. Un tale argomento nella storia di Spagna io non lo trovo, né so che altri finora l’abbiano trovato. Stando così le cose, ne viene di conseguenza che se realmente Filippo II si mostrò tanto avverso all’Arcivescovo fu perché credeva, o almeno aveva un forte sospetto, che Carranza fosse eretico. In tal caso Filippo II poté essere imprudente, temerario, e tutto quel che si vuole; ma non si potrà mai dire che lo perseguitasse per spirito di vendetta, o per motivi personali.

In quel tempo furono accusate anche altre persone, tra le quali l’insigne Melchiorre Cano. A quanto pare lo stesso Carranza non se ne fidava e giunse anche a lamentarsi amaramente per aver saputo che Cano aveva avuto il coraggio di dire che l’Arcivescovo era eretico quanto Lutero. Ma Salazar di Mendoza, nel riferire questo fatto nella Vita di Carranza, assicura che Cano, avendolo saputo, lo smentì apertamente affermando che questa espressione non gli era mai uscita di bocca. E per la verità l’animo tende a prestar fede facilmente alle cose negative, poiché persone di una mente tanto eccelsa, quale fu Melchior Cano, hanno nella propria dignità una difesa troppo forte contro qualunque bassezza perché sia consentito sospettare che si abbassino all’infame mestiere del calunniatore.

Non credo che ci sia bisogno di cercare le cause della sventura di Carranza in rancori ed invidie particolari, ma piuttosto nelle circostanze avverse di quei tempi e nella stessa indole di quest’uomo illustre. I gravissimi sintomi osservati in Spagna; il Luteranismo che andava facendo proseliti; gli sforzi dei Protestanti per introdurvi i loro libri e i loro emissari; quello che accadeva negli altri paesi e in particolare nel confinante regno di Francia: tutto ciò metteva tanto in allarme gli animi, e li rendeva così timorosi e diffidenti, che il minimo indizio di errore soprattutto in persone di alto rango o distinte per il loro sapere, provocava inquietudine e spavento. È ben nota la clamorosa vicenda di Arias Montano intorno alla Poliglotta di Anversa, come ancora i patimenti del celebre fra’Luigi di Leone, e di altri uomini illustri di quei tempi. Un’altra congiuntura contribuì a portare le cose agli estremi, e fu la situazione

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politica di Spagna riguardo agli stranieri. Avendo la monarchia spagnola tanti nemici e rivali si temeva fondatamente che questi si servissero dell’eresia per introdurre nella nostra patria la discordia religiosa, e di conseguenza la guerra civile. Questo naturalmente faceva sì che Filippo II si mostrasse diffidente e sospettoso, e che combinandosi in lui l’odio per l’eresia e il desiderio della propria salvaguardia, si mostrasse severo ed inesorabile con tutto ciò che poteva contaminare nei suoi domìni la purezza della fede cattolica.

D’altronde bisogna ammettere pure che l’indole del Carranza non era la più adatta per vivere in tempi così critici senza urtare contro qualche scoglio pericoloso. Nel leggere i suoi Commentari sul Catechismo si capisce che egli era uomo di mente perspicacissima, di vasta erudizione, di profonda scienza, di carattere severo e di un cuore generoso e franco. Egli diceva tutto ciò che pensava senza star molto a riflettere sull’irritazione che le sue parole potevano causare a questo o a quello. Dove egli crede di scoprire un abuso subito lo rivela e lo condanna apertamente, tanto che non son pochi i punti di somiglianza che egli ha col suo supposto antagonista Melchior Cano. Nel processo gli furono fatte molte accuse, non solamente per quello che risultava dai suoi scritti, ma anche per alcuni sermoni e colloqui privati. Io non so fino a qual punto si sia ecceduto, ma non ho difficoltà di affermare che chiunque scriva nel modo come egli scriveva, non può che esprimersi a parole in modo molto energico e forse con troppa audacia.

Oltre a ciò bisogna aggiungere, per rispetto alla verità, che nei suoi Commentari sul Catechismo, trattando della giustificazione, non si spiega con quella chiarezza e limpidità che era logico aspettarsi soprattutto in considerazione delle funeste circostanze dei tempi. Le persone esperte di queste materie sanno quanto delicati siano certi punti che proprio in quel periodo costituivano l’argomento degli errori che si commettevano in Germania; e si comprende molto facilmente come le parole di un uomo come Carranza dovevano richiamare l’attenzione, qualora avessero mostrato un minimo di ambiguità. Certo è che a Roma non venne assolto da tutte le accuse, e che fu obbligato ad abiurare un certo numero di proposizioni che furono ritenute sospette, e che per questo gli furono imposte alcune penitenze. Carranza sul letto di morte proclamò la sua innocenza, aggiungendo però che non per questo riteneva ingiusta la sentenza del Papa. Questo spiega tutto l’enigma: non sempre l’innocenza del cuore è accompagnata dalla prudenza delle labbra.

Mi sono un po’soffermato su questa causa celebre: sia perché essa fa nascere certe riflessioni che mettono a nudo lo spirito di quel tempo, e inoltre servono a ristabilire la verità; sia per dimostrare che non tutto può essere

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spiegato con la misera giustificazione della perversità degli uomini. Disgraziatamente vi è una tendenza a spiegare tutto così, e certamente non è senza motivo che molte volte gli uomini sono indotti a pensare così. Ma finché non ci sia una evidente necessità di farlo noi dovremmo astenerci dall’attribuire a chiunque atti illeciti. Il quadro della storia dell’umanità è abbastanza fosco per se stesso perché possiamo avere il piacere di oscurarlo ancor più con altre macchie; ed è opportuno riflettere che talvolta accusiamo di atto illecito ciò che altro non era che ignoranza. L’uomo tende al male, ma è anche soggetto all’errore, e l’errore non è sempre colpevole.

Io credo che il rigore e la diffidenza che mostrò in quei tempi l’Inquisizione di Spagna siano da addebitare agli stessi Protestanti. I Protestanti sostennero una rivoluzione religiosa, ed è legge costante che ogni rivoluzione, o distrugge il potere che attacca, o lo rende più duro e severo. Quello che prima sarebbe stato giudicato irrilevante, ora si considera sospetto, e quello che in altre circostanze sarebbe stato ritenuto un semplice errore viene considerato un delitto. Si vive in un timore continuo che la libertà si tramuti in abuso; e siccome le rivoluzioni distruggono in nome della riforma, chi osa parlare di riforme corre il pericolo di passare per ribelle. La stessa prudenza nell’agire sarà denunciata come precauzione ipocrita; un linguaggio franco e sincero verrà definito insolente e soggetto a produrre cattive influenze, la ritrosia sarà considerata un’astuta reticenza e lo stesso silenzio un significativo indizio di terribile simulazione. Ai tempi nostri abbiamo tali conoscenze da essere in grado di comprendere molto facilmente tutte le fasi della storia dell’umanità.

La reazione che produsse in Spagna il Protestantesimo è un fatto di cui non c’è da dubitare. I suoi errori ei suoi eccessi fecero sì che tanto il potere ecclesiastico quanto quello civile concedessero a ciò che riguarda la religione assai meno di quello che prima era permesso. La Spagna iniziò a difendersi dalle dottrine protestanti quando si capì che in un modo o nell’altro queste sarebbero riuscite infine a contagiarla; ed è chiaro che tale difesa non poteva essere condotta con efficacia senza uno sforzo straordinario, perché la Spagna era come una piazza assediata da un poderoso esercito, dove i capi vigilano giorno e notte restando sempre in guardia contro gli attacchi esterni e contro i tradimenti interni.

A sostegno di queste osservazioni porterò un esempio scelto fra tanti altri. Voglio parlare di ciò che accadde riguardo alle Bibbie in lingua volgare, perché questo ci darà un’idea di cosa andava succedendo in altri casi. Ho giusto qui davanti una testimonianza autorevole e nello stesso tempo molto interessante, che si riferisce allo stesso Carranza di cui s’è parlato finora. Sentiamo cosa dice nel prologo dei suoi Commentari sul Cattolicesimo

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cristiano: «Prima che le eresie di Lutero dall’inferno uscissero alla luce del mondo, non mi risulta che in alcuna nazione fosse proibita la Sacra Scrittura in lingua volgare. In Spagna c’erano Bibbie tradotte in lingua volgare per ordine dei re cattolici in un tempo in cui si permetteva ai Mori e ai Giudei di vivere tra i Cristiani secondo le loro leggi. Dopo che i Giudei furono cacciati dalla Spagna, alcuni giudici della religione scoprirono che alcuni di quelli che si convertirono alla nostra santa fede allevavano i loro figli nel giudaismo, insegnando loro la liturgia della legge mosaica per mezzo di quelle Bibbie in volgare che essi stamparono poi in Italia nella città di Ferrara. Per questo motivo in Spagna furono giustamente proibite le Bibbie in volgare; ma si usava tuttavia un certo riguardo verso collegi e monasteri, e verso nobili persone che erano fuori d’ogni sospetto, concedendo loro il permesso di tenerle e di leggerle». Il Carranza prosegue facendo una breve storia di queste proibizioni in Germania, in Francia e altrove; quindi prosegue: «In Spagna, che per grazia e bontà di nostro Signore era ed è ancora pura e libera dalla zizzania, si ebbe l’avvertenza di proibire diffusamente tutte le traduzioni della Scrittura in lingua volgare onde impedire a gente di altri paesi che cogliessero l’occasione di avviare controversie con le persone semplici ed ignoranti, ed inoltre per l’esperienza che si ebbe in certi casi particolari di errori che incominciavano a circolare, errori provocati dall’aver lette alcune parti della Scrittura senza capirle. Questa è la vera storia di ciò che è accaduto; e questo è il motivo per cui fu proibita la Bibbia in lingua volgare».

Questo singolare passo del Carranza ci spiega in poche parole come stavano procedendo le cose. Prima non c’era alcuna proibizione, ma l’abuso degli Ebrei la provocò quantunque, come si legge nel passo riportato, non venisse applicata in modo molto rigoroso. Poi vennero i Protestanti, che stavano mettendo sottosopra l’Europa con le loro Bibbie, ed incominciò il pericolo che in Spagna venissero introdotti nuovi errori; si scoprì inoltre che alcuni erano stati traviati per aver male interpretato alcuni passi della Bibbia. Tutto questo rese necessario che s’impedisse l’uso di quest’arma a chi, entrando da fuori, intendesse sedurre le persone semplici; e così la proibizione divenne rigorosa e valida per tutti.

Ritornando a Filippo II, bisogna non perdere di vista che questo sovrano fu uno dei più fermi difensori della Chiesa cattolica e la personificazione della politica dei secoli fedeli in mezzo allo sconvolgimento che si era impadronito della politica europea a causa del Protestantesimo. In gran parte fu grazie a lui se in mezzo a tante agitazioni la Chiesa poté servirsi della poderosa protezione dei prìncipi della terra. Quella di Filippo II fu un’epoca critica e decisiva in Europa: e sebbene in verità non fu fortunato nelle Fiandre, ciò nonostante il suo

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potere e la sua abilità formarono un contrappeso alla politica protestante, alla quale non permise di farsi padrona dell’Europa come essa avrebbe desiderato. Quand’anche supponessimo che allora non si fece altro, rompendo il primo impeto della politica protestante, che guadagnar tempo, non fu certo un piccolo beneficio per la religione cattolica che era aggredita da ogni parte. Cosa sarebbe mai stato dell’Europa se si fosse introdotto in Spagna il Protestantesimo come lo fu in Francia, e se gli Ugonotti avessero potuto contare sull’appoggio della Penisola spagnola? E se il potere di Filippo II non avesse suscitato rispetto, cosa sarebbe potuto accadere in Italia? I settari della Germania non sarebbero forse riusciti ad introdurre qui le loro dottrine? Poteva benissimo accadere (e in questo sono certo di ottenere il consenso di coloro che conoscono la storia), poteva accadere che, qualora Filippo II avesse abbandonato la sua politica tanto diffamata, la religione cattolica all’inizio del diciassettesimo secolo si sarebbe trovata nella dura necessità di vivere appena tollerata nella maggior parte dei paesi europei. E quanto valga questa tolleranza, quando si tratta della Chiesa cattolica, ce lo dice già da molti secoli l’Inghilterra, e attualmente ce lo dice anche la Prussia, e la Russia infine in un modo ancora più doloroso.

Se, come è giusto, consideriamo Filippo II sotto questo aspetto, la sua figura sarà inevitabilmente riconosciuta come quella di uno dei più grandi personaggi della storia che hanno impresso più profondamente la loro impronta nella politica dei secoli successivi, avendo stabilito con la loro grande influenza una direzione ai futuri avvenimenti.

O voi tra gli Spagnoli che lanciate l’anatema contro il fondatore dell’Escurial, avete dunque dimenticata la nostra storia, o almeno non ne tenete alcun conto! Voi imprimete sulla fronte di Filippo II il marchio di odioso tiranno senza pensare che negando la sua gloria o volgendola in ignominia distruggete nello stesso momento anche tutta la nostra, e gettate nel fango la corona che cinse le fronti di Ferdinando e di Isabella. Se non potete perdonare a Filippo II di aver sostenuto l’Inquisizione, se solo per questo motivo non volete trasmetterne ai posteri il suo nome senza coprirlo di disprezzo, dovete fare lo stesso con quello del suo illustre padre Carlo V, e risalendo fino ad Isabella di Castiglia scrivete sulla lista dei tiranni e dei flagelli dell’umanità pure questo nome, che fu venerato dai due mondi, e fu l’emblema della gloria e della potenza della monarchia spagnola. Tutti ebbero parte in ciò che tanto solleva la vostra indignazione; non vogliate dunque condannare l’uno e giustificare gli altri con una indulgenza piena d’ipocrisia; indulgenza che usate per il solo motivo che il sentimento patrio che ferve nei vostri cuori vi spinge ad essere parziali e in contraddizione con voi stessi, per non vedervi costretti a

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cancellare con un sol colpo le glorie della Spagna, di inaridirne gli allori e di rinnegare la vostra patria. Giacché per nostra disgrazia non ci rimane altro che le grandi memorie del passato, guardiamoci almeno dal disprezzarle. Queste memorie in una nazione sono come in una famiglia i titoli dell’antica nobiltà, che nelle avversità sollevano lo spirito e dànno forza all’anima, e alimentando la speranza nel cuore servono a preparare un nuovo avvenire.

L’effetto immediato dell’introduzione del Protestantesimo in Spagna sarebbe stato, come negli altri paesi, la guerra civile. Per noi questa sarebbe stata più fatale perché ci trovavamo in circostanze molto più critiche. L’unità della monarchia spagnola non avrebbe potuto resistere alle agitazioni e alle scosse dei dissensi interni perché le sue componenti erano tanto dissimili e, per così dire, unite così male, che il minimo colpo ne avrebbe incrinata la saldatura. Le leggi e i costumi dei regni di Navarra e di Aragona erano molto diversi da quelli di Castiglia. Un vivo sentimento d’indipendenza mantenuto vivo dalle frequenti riunioni delle loro Cortes locali ribolliva nei petti di questi indomiti popoli, i quali avrebbero saputo sicuramente cogliere la prima occasione per scuotere il giogo che non gradiscono. Per questo motivo, e per le diverse fazioni che avrebbero lacerato il tessuto di tutte le altre province, la monarchia sarebbe miseramente caduta in frantumi proprio nel momento in cui doveva far fronte a tanti interessi in Europa, in Africa e in America. I Mori erano ancora in vista delle nostre spiagge, gli Ebrei non avevano dimenticata la Spagna, e sia gli uni che gli altri si sarebbero serviti della buona occasione per riemergere, approfittando delle nostre discordie. Dalla politica di Filippo II forse non dipendeva solamente la tranquillità, ma anche l’esistenza della monarchia spagnola. Adesso lo si accusa di tirannia; nel caso contrario l’avrebbero accusato d’incapacità e di debolezza.

Una delle maggiori ingiustizie dei nemici della religione, quando attaccano quelli che la sostengono, è di dichiararli in malafede, accusarli di essere ambigui nelle loro intenzioni, e di avere mire contorte ed interessate. Quando per esempio si parla del machiavellismo di Filippo II s’intende dire che l’Inquisizione, anche quando il suo scopo appariva puramente religioso, in realtà non era che un docile strumento politico nelle mani dell’astuto sovrano. Non c’è cosa più importante ed appariscente per chi ritiene che studiare la storia significhi presentare simili considerazioni pungenti e maligne, ma nello stesso tempo non c’è cosa più falsa di fronte alla testimonianza dei fatti.

Alcuni, vedendo nell’Inquisizione un tribunale straordinario, non riescono a concepire come potesse esistere, perché non sanno intuire, nel sovrano che la sosteneva e la spronava, le profondissime ragioni di stato e le mire che andavano molto al di là di quello che possa immaginare chi si fermi

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alla superficie delle cose. Non si è voluto vedere che ogni epoca ha il suo spirito, il suo modo particolare di vedere le cose e il suo sistema di agire, o per procurarsi il bene, o per evitare il male. In quei tempi, nei quali in tutti i regni d’Europa nelle questioni religiose si ricorreva al ferro e al fuoco, e sia i Protestanti che i Cattolici bruciavano i loro avversari, e l’Inghilterra, la Francia e la Germania mostravano le scene più crudeli, condannare al rogo un eretico era cosa tanto naturale e nell’ordine normale delle cose che non urtava affatto la mentalità corrente. Quanto a noi, trovandoci in una società in cui il sentimento religioso è così assopito, ci si rizzano i capelli alla sola idea di bruciare vivo un uomo; e assuefatti a vivere in mezzo a persone che praticano una religione diversa dalla nostra, e talvolta nessuna, non arriviamo a concepire che allora fosse ritenuta una cosa molto comune condurre al patibolo questo genere di uomini. Si leggano però gli scrittori di quei tempi, e si vedrà l’immensa differenza che passa tra i nostri costumi e i loro; e si osserverà che il nostro linguaggio moderato e tollerante sarebbe stato per loro incomprensibile. Lo stesso Carranza che ebbe a soffrire tanto da parte dell’Inquisizione, come pensate voi che ragionasse su queste cose? Nell’opera già citata ogni volta che si presenta l’opportunità di toccare questo punto esprime le stesse idee dei suoi tempi senza neanche soffermarsi per giustificarle e parlandone come di una cosa sulla quale non sia possibile avere qualche dubbio. Quando si trovava in Inghilterra alla corte della regina Maria, esprimeva senza alcuna remora le sue dottrine sul rigore col quale dovevano essere trattati gli eretici; ed è certo che lo facesse senza alcun sospetto sulla propria intolleranza, che tanto doveva servire al suo nome per appagare questa stessa intolleranza.

Re e popoli, ecclesiastici e laici, tutti erano d’accordo su questo punto. Che si direbbe adesso di un re che portasse con le sue stesse mani legna per bruciare vivo un eretico, o che imponesse la pena di forare col ferro la lingua ai bestemmiatori? Queste cose furono fatte, come si racconta, la prima da S. Ferdinando, e la seconda da S. Luigi di Francia. Adesso ci fa un certo sgomento vedere Filippo II assistere a un autodafé; ma se consideriamo che la corte, i grandi e tutto il fiore della società attorniava il re in simili occasioni, possiamo capire che se questo a noi pare orribile e insopportabile, non lo era però per quelle persone che avevano idee e sentimenti molto diversi. Non mi si dica che la volontà del sovrano intimava questo e che bisognava ubbidire: no, non era la volontà del sovrano quella che agiva, ma piuttosto lo spirito di quel tempo. Non vi è sovrano tanto potente che possa compiere una tale manifestazione, se fosse diametralmente opposta allo spirito del suo tempo; come, al contrario, non c’è sovrano tanto insensibile da non sentire gli effetti del secolo in cui regna. Supponete il sovrano più potente e più assoluto dei

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nostri tempi: Napoleone nel suo apogeo, o l’attuale imperatore di Russia, e vedete se con la sua volontà potrebbe arrivare a violare fino a questo punto i costumi del suo secolo.

A coloro che affermano che l’Inquisizione era uno strumento di Filippo II ci si può rivolgere con un aneddoto che non è certo molto adatto per farci abbracciare questa opinione. Lo voglio riferire perché, oltre ad essere curioso ed interessante, illustra le idee e i costumi di quei tempi. Durante un sermone pronunciato alla presenza di Federico II da un certo predicatore, questi ebbe ad affermare che i re avevano un potere assoluto sulle persone e sui beni dei loro vassalli. Non era certo un’affermazione che potesse dispiacere a un sovrano, poiché il buon predicatore lo liberava di colpo da tutti gli ostacoli nell’esercizio del suo potere. A quanto pare però a quel tempo in Spagna non erano tutti tanto succubi e sotto l’influenza di dottrine esaltanti la tirannia come si è voluto far credere, perché non mancò chi denunziasse all’Inquisizione le parole con cui il predicatore aveva cercato di lusingare l’arbitrio dei re. L’oratore non si era certo riparato sotto un debole tetto, e i nostri lettori avranno già supposto che la denuncia non fosse stata portata avanti dall’Inquisizione in quanto si scontrava col potere di Filippo II. Eppure non fu così: l’Inquisizione fece il processo e trovò la frase contraria alle sane dottrine; e il povero predicatore, che non si aspettava certamente una tale ricompensa, oltre ad essere sottoposto a varie penitenze, fu condannato a ritrattarsi pubblicamente nello stesso luogo dove fu pronunciata quella frase. E ciò fu fatto con tutte le formalità di un atto giuridico, e con la particolare circostanza di dover leggere da un foglio, come gli era stato ordinato, le seguenti importanti parole: «Perché, o signori, i re non hanno sui loro vassalli altro potere di quello che loro permette il diritto divino ed umano; e non già quello della loro libera e assoluta volontà». Così riferisce D. Antonio Perez, come si può leggere per intero nel passo riportato nella nota corrispondente a questo capitolo. E sappiamo che D. Antonio Perez, non era un fanatico sostenitore dell’Inquisizione. Questo fatto accadde proprio in quei tempi che alcuni non nominano mai senza che vi aggiungano il titolo di oscurantismo, di tirannia, di superstizione. Io dubito d’altra parte che in tempi a noi più vicini, nei quali si dice che in Spagna s’incominciò a intravedere l’aurora della cultura e della libertà, per esempio sotto il regno di Carlo III, si fosse potuto decretare una condanna pubblica e solenne del dispotismo. Questa condanna tanto faceva onore al tribunale che la stabiliva, quanto al sovrano che vi consentiva.

Sul fatto della cultura poi circola un’altra calunnia: quella che vi fu l’intento di stabilire e perpetuare l’ignoranza. Non lo mostrò certo Filippo II quando, oltre a sostenere la grande impresa della Poliglotta di Anversa,

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raccomandava ad Arias Montano che le somme che si fossero recuperate dallo stampatore Plantino, a cui il sovrano per la suddetta impresa aveva assegnato una cospicua quantità di danaro, si impiegassero nell’acquisto di libri scelti, sia stampati che manoscritti, da collocarsi nella libreria del monastero dell’Escurial allora in costruzione. Il sovrano aveva anche incaricato, come dice egli stesso nella lettera al Montano, D. Francesco De Alaba suo ambasciatore in Francia di procurare l’acquisto dei migliori libri che fosse possibile in quel regno.

No, la storia di Spagna, sotto l’aspetto dell’intolleranza religiosa, non è poi così nera come si è voluto supporre. Quando gli stranieri ci rinfacciano la crudeltà, possiamo rispondere che mentre l’Europa era inondata di sangue per le guerre di religione in Spagna regnava la pace; e in quanto al numero di coloro che morirono sul patibolo, o terminarono la vita in esilio, possiamo sfidare le due nazioni che pretendono di essere le più civili, la Francia e l’Inghilterra, affinché mostrino le loro statistiche di quei tempi sullo stesso fatto, e le confrontino con la nostra. Non abbiamo nulla da temere da un tale confronto. Man mano che andava scemando il pericolo dell’introduzione del Protestantesimo in Spagna, allo stesso modo diminuiva il rigore dell’Inquisizione. Possiamo anche osservare che la procedura di questo tribunale si moderava di pari passo con la tendenza del diritto penale negli altri paesi d’Europa. Così vediamo che gli autodafè si vanno facendo sempre più rari quanto più i tempi si avvicinano ai nostri, in modo che sul finire del secolo scorso l’Inquisizione non era più che una parvenza di quella che era stata. Non c’è bisogno di insistere su questo punto che è noto a tutti e sul quale sono d’accordo con noi anche i più acerrimi nemici del detto tribunale. E questa è la prova più convincente che dobbiamo cercare nelle idee e nei costumi di quell’epoca ciò che si è preteso di trovare nella crudeltà, nella malizia o nell’ambizione degli uomini. Se dovessero giungere ad effetto le dottrine di quelli che sostengono l’abolizione della pena di morte, i nostri posteri nel leggere le esecuzioni dei nostri tempi, proveranno quell’orrore che noi adesso proviamo riguardo ai tempi passati. La forca, il patibolo, la ghigliottina figurerebbero sulla stessa linea degli antichi quemaderos (25). Torna all’indice

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NOTE (1) La storia delle variazioni dei Protestanti di Bossuet è una di quelle opere che esauriscono l’argomento, non lasciano luogo ad alcuna replica e non ammettono aggiunte. Quest’opera immortale, letta e ben meditata, non lascia alcuna possibilità alla causa del Protestantesimo: la quale causa è perduta sotto l’aspetto dogmatico, e a quel punto non resta alcuna via di mezzo tra il Cattolicesimo e l’incredulità. Gibbon l’aveva letta in gioventù e si era fatto Cattolico, abbandonando la religione protestante nella quale era stato educato. Ritornò successivamente a separarsi dalla Chiesa cattolica, ma non per tornare al Protestantesimo, perché divenne ateo. Forse non dispiacerà ai lettori sentire dalla bocca di questo scrittore il giudizio che formulò sull’opera di Bossuet, e l’effetto che produsse in lui la lettura: «Nella Storia delle variazioni, assalto tanto vigoroso quanto ben diretto, l’autore smaschera, con una felicissima miscela di raziocinio e di narrazione, le mancanze, i traviamenti, le incertezze e le contraddizioni dei nostri primi riformatori, le variazioni dei quali, come egli sostiene con tanta abilità, portano il carattere dell’errore, mentre la non interrotta unità della Chiesa cattolica è il segno e la testimonianza dell’infallibile verità: lessi, approvai, credetti». (Gibbon, Memorie). (2) Lutero, che tuttavia alcuni si sforzano di presentarci come uomo di grande acutezza, di cuore nobile e generoso, e rivendicatore dei diritti dell’umanità, ci ha lasciato nei suoi scritti la più sicura ed evidente prova del suo carattere violento, dell’estrema villania e della più feroce intolleranza. Enrico VIII, re d’Inghilterra, aveva confutato il libro di Lutero intitolato De captivitate Babylonica, e costui incollerito per questo fatto scrive al re chiamandolo sacrilego, pazzo, insensato, il più grossolano di tutti i porci e di tutti gli asini: Se la maestà reale non ispirava a Lutero rispetto e venerazione, anche il merito era da lui per niente stimato. Erasmo, forse l’uomo più dotto del suo secolo, o almeno il più erudito, letterato e brillante, e che non fu certamente scarso d’indulgenza con Lutero e i suoi seguaci, nonostante ciò fu trattato con tanta violenza dal famoso eretico, quando questo capì che non poteva attirarlo alla nuova setta, che Erasmo, lamentandosi di questo fatto, diceva «che si vedeva obbligato in vecchiaia a combattere con una bestia feroce, o con un furioso cinghiale». Lutero non si limitava alle parole, ma passava ai fatti; ed è ben noto che per sua istigazione Carlostadio fu esiliato dagli stati del duca di Sassonia. A causa di questa persecuzione Carlostadio si trovò ridotto ad uno stato di miseria tale che si vide costretto a guadagnarsi il pane trasportando legna e facendo altri mestieri per niente conformi al suo ceto. Lutero, nelle sue rumorose dispute contro gli zuingliani, non smentiva il suo carattere, chiamandoli uomini condannati, insensati, bestemmiatori. Se trattava così i suoi compagni dissidenti, non c’è da meravigliarsi che chiamasse i dottori di Lovanio vere bestie, porci, pagani, epicurei, atei, e con altre espressioni che la decenza non permette di riferire; e che rotto ogni freno dicesse del Papa «che era un lupo rabbioso; che tutti dovevano armarsi contro di lui senza aspettare ordine alcuno dai magistrati; che a questo punto poteva pentirsi soltanto di non avergli trapassato il petto con la spada, e che tutti quelli che lo seguivano, dovevano essere perseguitati come soldati di un capo di assassini, fossero anche re o imperatori». Questo è lo spirito di tolleranza e di libertà da cui era animato Lutero; e potremmo facilmente portare molte altre prove.

Né si creda che questa intolleranza fosse esclusiva di Lutero, perché si estendeva a

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tutta la setta, e gli effetti si facevano sentire in un modo feroce. Fortunatamente abbiamo un testimone inconfutabile di questa verità. Si tratta di Melantone, l’amato discepolo di Lutero, uno degli uomini più distinti the abbia avuto il Protestantesimo: «Mi trovo in tale schiavitù – scriveva all’amico Camerario – come se stessi nella caverna dei ciclopi, al punto che a mala pena posso spiegarti le mie pene, venendomi in ogni momento la tentazione di fuggire». «Sono gente ignorante – diceva in un’altra lettera – che non conosce pietà né disciplina; guardate chi comanda, e vi renderete conto che io sono come Daniele nella fossa dei leoni». E nonostante ciò si dirà ancora che ad un’impresa così grande era di guida un pensiero generoso, e che si trattava di emancipare il pensiero umano? Riguardo poi all’intolleranza di Calvino, questa è notissima: oltre a risaltare nell’episodio indicato nel testo, essa si manifesta in ogni punto delle sue opere per come tratta gli avversari. Malvagi, vagabondi, ubriaconi, pazzi, furiosi, rabbiosi, bestie, tori, porci, asini, cani, vili schiavi di Satana: ecco le gentilezze che si trovano in ogni pagina negli scritti del celebre riformatore. Quante e quante altre potrei aggiungerne dello stesso tenore, se non temessi di annoiare i lettori! (3) Nella dieta di Spira era stato formulato un decreto che conteneva varie disposizioni relative al distacco dal Cattolicesimo e all’esercizio della nuova religione. Quattordici città dell’impero non vollero sottomettersi a questo decreto e presentarono una protesta: di qui venne che i dissidenti incominciarono ad essere chiamati Protestanti. Siccome questo nome condanna da sé le chiese separate, hanno cercato talvolta di attribuirsene altri, ma sempre invano. I nomi che si assegnavano erano falsi, e un nome falso non dura. Cosa infatti intendevano significare quando si definivano evangelici? Forse perché aderivano esclusivamente al Vangelo? In tal caso avrebbero piuttosto dovuto chiamarsi biblici, perché in realtà non intendevano aderire proprio al Vangelo, ma alla Bibbia. Altre volte si definivano riformati, e alcuni chiamano il Protestantesimo Riforma. Ma basta pronunciare questo nome per rendersi conto della sua improprietà. Rivoluzione religiosa gli starebbe molto meglio. (4) Il conte de Maistre nell’opera Del Papa ha sviluppato questo aspetto dei nomi in un modo inimitabile. Fra le molte altre osservazioni ve n’è una molto perspicace, e cioè che solo la Chiesa cattolica ha un nome positivo e appropriato col quale si chiama da se stessa, ma è chiamata anche dagli altri. Le chiese separate ne hanno immaginato parecchi, ma non hanno potuto attribuirseli. «Se ciascuno, egli dice, è libero di darsi il nome che gli piace, la stessa Laide in persona potrebbe scrivere sulla porta di casa: Palazzo di Artimisia. La difficoltà sta nell’obbligare gli altri a chiamarci col nome che abbiamo scelto».

Né si creda che sia stato il conte de Maistre ad usare per primo l’argomento dei nomi, perché prima di lui ne avevano già fatto uso S. Girolamo e S. Agostino. «Se udrai – dice S. Girolamo – che si chiamano marcionisti, valentitiniani, montanisti, sappi che non sono la Chiesa di Cristo; ma la sinagoga dell’Anticristo» (Hieronimus lib. adv. Luciferianos). «Mi tiene nella Chiesa – dice S. Agostino – lo stesso nome di cattolica, perché non senza ragione fra tante sétte solo lei lo conserva, e in modo tale che, volendosi chiamare cattolici tutti gli eretici, ciò nonostante se un pellegrino chiede loro dove sia il tempio cattolico, nessuno degli eretici ardisce mostrare la sua basilica e la sua casa» (S. Agostino). Quello che osservava S. Agostino ai suoi tempi, si è verificato anche con i Protestanti, come possono testimoniare coloro che hanno visitato i paesi in cui ci sono diverse confessioni. Un illustre Spagnolo del diciassettesimo secolo, che aveva trascorso molto tempo in Germania, ci dice: «Tutti vogliono chiamarsi cattolici e apostolici, ma gli altri li chiamano luterani e calvinisti»

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(Caramuel). «Ho abitato – continua lo stesso – in città di eretici, e ho visto con i miei occhi e udito con le mie orecchie una cosa che i Protestanti dovrebbero ponderare: che ad eccezione del predicatore protestante e di pochi altri, i quali pretendono sempre più di quello che è giusto, tutto il popolo degli eretici chiama cattolici soltanto i romani». Tanta è la forza della verità. Gli ideologi sanno benissimo che simili fenomeni derivano da cause profonde, e che questi argomenti sono qualcosa di più che sottigliezze. (5) Si è parlato tanto degli abusi, e si è tanto esagerata la loro influenza sulle sciagure che negli ultimi tempi hanno afflitto la Chiesa, facendo in modo, appena se ne presentava l’occasione, di esaltare con ipocrite lodi la purezza dei costumi e il rigore della disciplina dei primi secoli, che alcuni sono arrivati al punto di immaginare una linea divisoria tra i tempi antichi e quelli moderni, vedendo nei primi solo verità e santità, e nei secondi nient’altro che corruzione e menzogna. Come se nei primi secoli della Chiesa fossero stati tutti angeli, e come se in qualunque epoca la Chiesa non avesse avuto da correggere errori e frenare passioni. Storia alla mano sarebbe facile ridurre al giusto valore questi giudizi esagerati; della quale esagerazione ne fece parola lo stesso Erasmo, certamente poco incline a discolpare i contemporanei. Nel confrontare i suoi tempi con i primi secoli della Chiesa, mostra molto chiaramente quanto insussistente e puerile fosse il vezzo, che già allora si stava diffondendo, di esaltare tutto ciò che riguardava i tempi antichi per sminuire il presente. Un passo su questi confronti si trova nelle opere di Marchetti: le Osservazioni sulla storia di Fleury. Sarebbe anche curioso fare una rassegna delle disposizioni prese dalla Chiesa per frenare ogni genere di abusi. Le raccolte dei Concili potrebbero fornirci così abbondante materia a sostegno della mia affermazione, che non sarebbe facile contenerla in pochi volumi. Le stesse raccolte, con tutta la loro enorme mole, non sono altro, dall’inizio alla fine, che una prova evidente delle seguenti due verità. La prima: che in tutti i tempi ci sono stati molti abusi da correggere, cosa inevitabile considerando la debolezza e la corruzione umana. La seconda: che in tutte le epoche la Chiesa ha fatto in modo di correggere questi abusi, potendo esser certi che non è possibile indicarne uno senza che si presenti anche la corrispondente disposizione canonica che lo reprime o lo castiga. Queste osservazioni dimostrano chiaramente che non furono gli abusi la principale causa che originò il Protestantesimo, ma che la sua nascita fu una di quelle grandi calamità che, considerando la volubilità dello spirito umano e lo stato in cui si trovava la società in quel momento, si può dire che sono inevitabili. In questo stesso senso Gesù Cristo disse che era necessario che vi fossero scandali: non già perché uno sia costretto a procurarli, ma perché tale è la corruzione del cuore umano che, in base all’andamento normale delle cose, non si può evitare che ci siano. (6) Questo accordo, questa unità, che si rivelano nel Cattolicesimo, riempiono di ammirazione e di stupore ogni persona di giudizio, di qualunque idea sia riguardo alla religione. Se non supponiamo che qui ci sia il dito di Dio, come sarà possibile spiegare, anzi concepire, la durata del centro dell’unità, che è la cattedra di Roma? Si è detto già tanto sulla supremazia del Papa, che è molto difficile aggiungere qualcosa di nuovo; ma forse non dispiacerà ai lettori che presenti loro un passo importante di S. Francesco di Sales, in cui il Santo ha fatto un elenco dei vari e significativi titoli con i quali la Chiesa antica ha onorato i sommi Pontefici e la loro sede. Questo lavoro del santo Vescovo è apprezzabile non solo perché stimola la curiosità, ma anche perché dà occasione a riflessioni molto profonde che il lettore farà senz’altro da se stesso.

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NOMI ATTRIBUITI AL PAPA: Il molto Santo Vescovo della Chiesa Cattolica (nel Concilio di Soissons di 300 Vescovi); Il molto santo e molto felice Patriarca (ibid. tomo 7, Concil.); Il molto felice Signore (S. Agostino, Episotola 95); Il Patriarca universale (S. Leone Papa, Epistola 62); Il Capo della Chiesa del mondo (Innoc., ad Patres Concilii Milevit); Il Vescovo innalzato al colmo apostolico (S. Cipriano, Epist. 3 e 12); Il Padre dei Padri (Concil. di Calcedonia, Ses. 3); Il Sovrano Pontefice dei Vescovi (Ibid., in praef.); Il Sovrano Sacerdote (Concilio di Calcedonia, Ses. 16); Il Principe dei Sacerdoti (Stefano Vescovo di Cartagine); Il Prefetto della casa Dio, e il Custode e Guardiano della vigna del Signore (Concilio di Cartagine, Epistola ad Damasum); Il Vicario di Gesù Cristo, e il Confermatore della fede dei Cristiani (S. Girolamo, Praef. in Ev. ad Damasum); Il Sommo Sacerdote (Valentiniano e tutta l’antichità); Il Sovrano Pontefice (Concilio di Calcedonia in Epist. ad Theod. Imper.); Il Principe dei Vescovi (Ibid.); L’Erede degli apostoli (S. Bernard., lib. de Consid.); Abramo per il Patriarcato (S. Ambrogio in I. ad Tim. 3); Melchisedech per l’ordine (Concilio di Caledonia, Epistola ad Leon); Mosè per l’autorità (S. Bernardo, Epist. 190); Samuele per la giurisdizione (Ibid. et in lib. de Cons.); Pietro per il potere (Ibid.); Cristo per l’unzione (Ibid., lib. 2. Cons.); Il Pastore dell’ovile di Gesù Cristo (Ibid.); Il Clavigero della casa di Dio (Id., cap. 8); Il Pastore di tutti i pastori (Ibid.); Il Pontefice chiamato alla pienezza del potere (Ibid.); S. Pietro fu la bocca di Gesù Cristo (S. Crysost., Homilia 2. in divers. serm.); La Bocca e il capo dell’apostolato (Origene, hom. 55. in Matth.); La Cattedra e la Chiesa principale (S. Cipriano, Ep. 55. ad Corn.); L’Origine dell’unità sacerdotale (Id., Epist. 3. 2); Il Vincolo dell’unità (Ibid., 4. 2); La Chiesa ove risiede il potere principale (Ibid., 3. 8); La Chiesa radice e matrice di tutte le altre Chiese (S. Anacleto Pap., Epist. ad Omnes Episc. et fidel.); La Sede, sopra la quale il Signore ha edificato la Chiesa universale (S. Damaso, Epist. ad universos Episcopos); Il Punto Cardinale e il Capo di tutte le Chiese (S. Marcellino P., Epist. ad Episcopum Antioch.); Il Rifugio dei Vescovi (Concil. di Alessandria, Ep. ad Felicem P.); La Suprema Sede Apostolica (S. Atanasio); La Chiesa presidente (Imp. Justin., in primum 8. Cod. de SS. Trinitate); La Sede Suprema, che non può esser giudicata da altre (S. Leone in nativitate SS.

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Apostolorum.); La Chiesa anteposta e preferita a tutte le altre Chiese (Victor de Utica, in lib. de perfect.); La prima di tutte le Sedi (S. Prospero, lib. de Ingrat.); La fonte apostolica (S. Ignat., Epist. ad Romanos.); Il Porto sicurissimo di tutta la Comunione cattolica (Concilio Romano sotto San Gelasio). (7) Ho affermato che i più illustri tra i Protestanti sentivano il vuoto che racchiudevano in sé tutte le sétte separate dalla Chiesa cattolica; ora passo a presentare le prove di questa mia asserzione che forse alcuni avranno giudicato temeraria. Sentiamo lo stesso Lutero, il quale scrivendo a Zuinglio diceva: «Se il mondo durerà ancora per molto, per non perdere l’unità della fede a causa delle diverse interpretazioni della Scrittura che ora si fanno, sarà di nuovo necessario riaccogliere i decreti dei Concili, e riferirci ad essi».

Melantone, lamentandosi delle funeste conseguenze causate dalla mancanza di guida spirituale, diceva: «Ne risulterà una libertà di nessuna utilità per i posteri»; e in un’altra parte dice queste parole importantissime: «Nella Chiesa ci vogliono assolutamente degli ispettori per conservare l’ordine, esaminare attentamente quelli che sono chiamati al ministero ecclesiastico, vegliare sulla dottrina dei sacerdoti ed esercitare la giurisdizione ecclesiastica; e se non vi fossero Vescovi, bisognerebbe crearli. L’autorità suprema del Papa, inoltre, sarebbe molto utile per conservare l’uniformità nella dottrina tra tante diverse nazioni».

Sentiamo Calvino: «Iddio collocò la sede del suo culto nel centro della terra, mettendovi un Pontefice unico al quale tutti potessero fare riferimento per conservare meglio l’unità» (Calv. inst. 6 §. 11).

«Anche io – dice Beza – sono stato tormentato molto e per molto tempo da questi stessi pensieri che tu mi esponi: vedo i nostri vagare in balìa di ogni vento di dottrina, e sollevati in alto cadere ora da una parte, ora dall’altra. Cosa si pensi oggi della religione forse si può saperlo; cosa se ne penserà domani, no. Le chiese che hanno dichiarato guerra al Pontefice romano, su quale articolo della religione sono esse d’accordo? Passala tutta in rassegna, e forse non troverai una sola cosa che, affermata da uno, non sia subito condannata da un altro come empia». (Th. Beza Epist. ad Andream Duditium).

Grozio, uno degli uomini più dotti che abbia avuto il Protestantesimo, riconobbe anch’egli la debolezza delle basi su cui poggiano le sétte separate. Non sono pochi quelli che hanno creduto che sia morto Cattolico. I Protestanti lo accusavano che intendeva convertirsi al Cattolicesimo, e i Cattolici, che lo avevano frequentato a Parigi, pensavano la stessa cosa. Io non so se è vero ciò che si dice sul celebre padre Petavio, amico di Grozio; cioè che essendo venuto a conoscenza della sua morte, celebrò una Messa per lui; è certo però che Grozio nella sua opera de Anticristo non dimostra, come i Protestanti, di pensare che l’Anticristo sia il Papa. È certo anche che in un’altra opera, intitolata Votum pro pace Ecclesiae, dice chiaramente che senza il primato del Papa non è possibile definire le questioni, come infatti accade tra i Protestanti». Ed è anche certo, infine, che nell’opera postuma Rivetiani Apologetici discussio stabilisce apertamente il principio fondamentale del Cattolicesimo, cioè che «i dogmi della fede devono essere definiti attraverso la tradizione e l’autorità della Chiesa, e non della sola Sacra Scrittura».

La clamorosa conversione del celebre Protestante Papin è un’altra prova di quanto stiamo dimostrando. Papin rifletteva sul principio fondamentale del Protestantesimo e sulla contraddizione con questo principio in cui era caduta l’intolleranza dei Protestanti; i quali, affermando il libero esame privato, invocavano tuttavia l’aiuto dell’autorità per potersi

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conservare. Egli argomentava così: «Se la via dell’autorità a cui pretendono di sostenersi è innocente e legittima, essa condanna la loro origine perché non vollero assoggettarsi all’autorità della Chiesa Cattolica; ma se la via del libero esame che abbracciarono ai loro inizi fu retta e conforme, rimane allora da condannare la via dell’autorità che essi escogitarono per evitare gli eccessi, lasciando così aperta e appianata la strada ai maggiori disordini dell’empietà». uffendorf, che sicuramente non può essere tacciato di freddezza, quando si trattò di attaccare il Cattolicesimo non poté fare a meno di tributare omaggio alla verità, stampando una confessione che farà piacere a tutti i Cattolici: «La soppressione dell’autorità del Papa ha sparso nel mondo infiniti semi di discordia, poiché non essendoci più nessuna autorità sovrana per decidere le questioni che vengono suscitate da ogni parte, si sono visti i Protestanti dividersi tra loro stessi e lacerarsi le viscere con le loro stesse mani». (Puffendorf, de Monarchia Pontif. Rom.).

Leibnitz, quell’uomo insigne che secondo l’espressione di Fontanelle era in grado di affrontare tutte le scienze, riconobbe anche lui la debolezza del Protestantesimo e la fermezza dell’ordine interno della Chiesa cattolica. Si sa che, ben lungi dal condividere il rancore dei Protestanti contro il Papa, guardava alla sua supremazia religiosa col più grande favore. Ammetteva apertamente la superiorità delle missioni cattoliche sulle protestanti; e le stesse comunità religiose, oggetto di tanta avversione per molti Protestanti, erano per lui degne del massimo rispetto. Essendo già note queste cose, a testimonianza delle sue idee religiose venne un’ulteriore conferma da una sua opera postuma pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1819. Forse non dispiacerà ai lettori avere un breve ragguaglio su di un fatto così singolare. In quell’anno fu data alla luce in Parigi l’Esposizione della dottrina di Leibnitz sulla religione, seguita da pensieri estratti dalle opere dello stesso autore da M. Emery, antico superiore generale di S. Sulpizio. In questo libro di M. Emery è contenuta l’opera postuma di Leibnitz, che nel manoscritto originale ha come titolo Sistema teologico. L’inizio dell’opera è pregevole per la sua serietà e semplicità, degne certamente del grande spirito di Leibnitz. Scrive dunque l’autore: «Dopo lungo e profondo studio sulle controversie religiose, implorato il divino aiuto e deposto, per quanto almeno è possibile all’uomo, ogni spirito di parte, ho preso a considerare la materia come un neofita venuto dal Nuovo Mondo che non avesse mai condiviso alcuna opinione. E finalmente mi sono fermato su un punto che, tra tutte le opinioni che ho esaminato, mi pare quello che dovrebbe essere riconosciuto da chiunque non sia condizionato da alcun pregiudizio, come il più conforme alla Sacra Scrittura, alla veneranda antichità, ed anche alla retta ragione e ai fatti storici indiscutibili».

Fatta questa premessa Leibnitz passa al dimostrare l’esistenza di Dio, l’Incarnazione, la Trinità e gli altri dogmi del Cristianesimo, accogliendo senza difficoltà e difendendo con molta erudizione la dottrina della Chiesa cattolica sulla Tradizione, i Sacramenti, il Sacrificio della Messa, il culto delle reliquie e delle Sacre Immagini, la Gerarchia ecclesiastica e il primato del Romano Pontefice. «In tutti i casi – egli dice – che non consentono di poter aspettare che sia convocato un Concilio ecumenico. o che non meritano di esser trattati in esso, bisogna riconoscere che il primo tra i Vescovi, cioè il Sommo Pontefice, ha la stessa autorità che ha la Chiesa tutta intera». (8) Forse qualcuno potrebbe pensare che quando si è parlato sulla vanità delle scienze umane e sulla debolezza del nostro intelletto, sia stato fatto col solo scopo di esagerare la necessità di una regola in materia di fede. Sarebbe cosa facilissima esporre una lunga serie di

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testimonianze ricavate dagli scritti dei più dotti uomini antichi e moderni: mi accontenterò di citare uno dei più grandi uomini del sedicesimo secolo: Ludovico Vives. (Ludovicus Vives, de Concordia et Discordia, 1. 4. c. 3).

Questo grande uomo, oltre ad essere molto versato in ogni genere di erudizione, sia sacra che profana, aveva condotto profonde riflessioni sullo stesso intelletto umano, e aveva esaminato con occhio esperto l’andamento delle scienze in quanto aveva intenzione di aggiornarle, come ne dànno testimonianza i suoi scritti. Dispiace molto non poter ricopiare per esteso le sue parole, sia quelle del passo citato che quelle della sua opera immortale sulle cause della decadenza delle arti e delle scienze e sul modo d’insegnarle.

Comunque sia, a chi si ritenesse insoddisfatto perché sono state dette alcune verità sulla debolezza delle nostre facoltà, e temesse che in questo modo si rechi danno al progresso delle scienze perché così si limita l’intelletto, sarà bene ricordare che il miglior modo di far progredire il nostro spirito è quello di conoscere se stesso, potendosi a questo proposito citare la saggia massima di Seneca: «Penso che molti avrebbero potuto arrivare alla sapienza se non avessero avuto la presunzione di credere che ci fossero già arrivati. (Puto multos ad sapientiam potuisse pervenire, nisi se jam crederent pervenisse)». (9) È certo che nell’applicarsi ai primi princìpi delle scienze l’intelletto si trova circondato da folte tenebre. Ho affermato che da questa regola generale non si sottrae la stessa matematica, la cui certezza ed evidenza sono diventate proverbiali. La conoscenza del calcolo infinitesimale, per esempio, allo stato attuale si può dire che si fonda su alcune idee sui limiti , idee che finora nessuno ha potuto rendere ben chiare. E non è che io intenda mettere in dubbio la certezza e la verità: la mia unica intenzione è quella di far notare che se si volesse sottoporre all’esame della metafisica le idee che costituiscono gli elementi di questo calcolo, non mancherebbero di vedersi sparse su di esse alcune ombre. Ed anche considerando la parte più elementare di questa scienza, si potrebbero anche qui scoprire alcuni punti che non riuscirebbero a sostenere senza qualche danno una rigorosa analisi metafisica e concettuale; la qual cosa si potrebbe facilmente dimostrare se lo permettesse la natura di quest’opera. Intanto si può raccomandare ai lettori la preziosa lettera diretta da Ezimeno, celebre gesuita spagnolo, al suo amico Giovanni Andres: lettera nella quale si leggono osservazioni molto appropriate su questa materia, fatte da un uomo che nessuno potrà sicuramente contestare come giudice competente. Questa lettera è in latino ed ha per titolo: Epistola ad clarissimum virum Joannem Andresium.

In quanto alle altre scienze, non è necessario insistere nel dimostrare quanta oscurità s’incontri nell’applicarsi ai loro princìpi primi, potendosi affermare con certezza che i brillanti sogni degli uomini più illustri non hanno avuto altra origine. Spinti dal sentimento delle loro proprie forze, essi penetravano fin negli abissi in cerca della verità: quivi la torcia si spegneva nelle loro mani, per usare l’espressione di un illustre poeta contemporaneo, e fuorviati in un oscuro labirinto si lasciavano andare in balìa della loro fantasia e delle 1oro ispirazioni, prendendo per realtà i bei sogni del loro ingegno. (10) Per capire chiaramente e conoscere bene la debolezza innata dello spirito umano, non vi è mezzo più adatto di quello di ripassare la storia delle eresie, storia di cui siamo debitori alla Chiesa per la grande diligenza che ha avuto nel definirle e classificarle. Da Simon Mago, che si definiva il legislatore dei Giudei, il redentore del mondo, il paracleto, nel mentre che tributava alla sua

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amata Elena un culto d’idolatria sotto il nome di Minerva, fino ad Herman che predicava la strage di tutti i sacerdoti e magistrati del mondo e assicurava di essere il vero figlio di Dio, un osservatore può consultare questo vasto quadro il quale, sebbene sia molto sgradevole se non altro per la sua stravaganza, non lascia però di suggerire gravi e profonde riflessioni sul vero carattere dello spirito umano, dimostrando la sapienza del Cattolicesimo quando in certe materie si sforza di sottomettere questo spirito ad una regola. (11) Forse non tutti sono convinti che le illusioni e il fanatismo sono tra i Protestanti come nel loro elemento naturale, e sarà quindi necessario presentare la testimonianza indiscutibile dei fatti. Su questo particolare si potrebbero scrivere grossi volumi; ma dovrò accontentarmi di una rapidissima rassegna, cominciando da Lutero. Io non so se la follia di un uomo possa andare oltre la pretesa di essere stato ammaestrato dal diavolo, vantarsi di questo fatto, e sostenere con una tale autorità le nuove dottrine. Ed è proprio il fondatore del Protestantesimo, lo stesso Lutero, che farnetica così, lasciandoci nelle sue opere la testimonianza delle sue conversazioni col diavolo. Si può immaginare una più grande follia? Fosse reale l’apparizione, o fosse un sogno della sua testa esaltata, ci può essere un tipo di fanatismo superiore a quello che spinge a vantarsi di avere avuto un tale maestro? Furono parecchi i colloqui che, a quanto dice egli stesso, ebbe col diavolo; ma è degna di essere riferita la visione in cui, come ci dice con tutta serietà, Satanasso lo costrinse con i suoi argomenti a proibire la Messa privata. Egli ce ne fa una descrizione assai viva: Lutero si sveglia a mezzanotte, gli appare Satanasso; Lutero inorridisce, suda, trema e il cuore gli batte in un modo terribile. Ciò nonostante inizia a disputare col diavolo. Il quale, secondo le leggi del buon dialettico, lo incalza con i suoi argomenti in modo da non lasciargli la possibilità di replica. Lutero resta vinto: e non c’è sa meravigliarsi! Perché la logica del demonio era accompagnata da una voce tanto spaventosa che gelava il sangue. «Allora intesi – dice questo miserabile – come avviene che spesso molti muoiono all’improvviso sul far del giorno. Questo capita perché il demonio può ammazzare o soffocare gli uomini; o se non fa questo, con le sue dispute li opprime in modo tale che può arrivare al punto di provocare la morte, come io stesso ho sperimentato molte volte». Il passo è veramente raro.

Il fantasma di Zuinglio, fondatore del Protestantesimo in Svizzera, non lascia ugualmente di presentarci un esempio di ridicola stravaganza. L’eresiarca voleva negare la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, pretendendo che le specie consacrate non siano più che un segno. Siccome nella Sacra Scrittura si esprime il contrario con tanta chiarezza, l’autorità del sacro testo gli era di grande imbarazzo: ed ecco allora che, mentre sognava di star disputando col segretario della città, gli apparve un fantasma bianco o nero, come dice egli stesso, che gli suggerì un modo per uscirne fuori, liberandolo da tale angustia. Questo grazioso racconto lo apprendiamo dallo stesso Zuinglio.

Chi non si rattrista nel vedere un uomo come Melantone abbandonarsi a pregiudizi e manie della più ridicola superstizione? Nel vederlo scioccamente credulo riguardo ai sogni, ai fenomeni rari, ai pronostici degli astrologi? Eppure non c’è cosa più certa: si leggano le sue lettere e ad ogni passo ci s’imbatterà in simili miserie. Al tempo in cui si svolgeva la dieta di Augusta gli sembrarono presagi molto favorevoli al nuovo vangelo una inondazione del Tevere e che a Roma una mula avesse dato alla luce un mostro con un zampa simile a quella di una gru, e che nel territorio di Augusta fosse nato un vitello con due teste. Questi

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avvenimenti erano per lui indizi sicuri di un cambiamento del mondo e particolarmente della prossima rovina di Roma a causa dello scisma. Cosi scrisse egli a Lutero. Formulando egli stesso l’oroscopo di sua figlia, si preoccupò seriamente per lei perché Marte presentava un orribile aspetto, ed anche per la spaventosa coda fiammeggiante di una cometa situata molto a Nord. Gli astrologi avevano pronosticato che in autunno gli astri sarebbero stati più favorevoli alle dispute ecclesiastiche, e questo pronostico bastò per consolare il nostro buon uomo, preoccupato perché le conferenze di Augusta sulla religione andavano molto a rilento. E per di più i suoi amici, vale a dire i capi del partito, si lasciavano anch’essi influenzare da motivi così seri. Come se non soffrisse sufficienti pene, gli si pronosticò un naufragio nel Baltico, ed egli si guardò bene dal solcare quelle acque fatali. Un certo francescano, per una sua bizzarria, aveva profetizzato che il potere del Papa si sarebbe indebolito sempre più fino a cadere per sempre; e che nell’anno 1600 il Turco sarebbe stato padrone dell’Italia e della Germania: e quel sempliciotto di Melantone si gloriava di avere presso di sé la profezia originale, e per di più i terremoti che accaddero lo rafforzavano nella sua credenza.

Lo spirito privato era appena stato elevato a giudice unico, che già la Germania era inondata di sangue per le atrocità del più furioso fanatismo. Mattia Harlem, anabattista, messosi a capo di una turba feroce, ordina di mettere a sacco le chiese, fare a pezzi gli arredi e bruciare tutti i libri religiosi come empi o inutili, ad eccezione della Bibbia. Stabilitosi a Münster, che egli chiama la montagna di Sion, si fa consegnare dagli abitanti tutto l’oro, l’argento e i gioielli, li deposita in un tesoro comune e nomina dei diaconi che si occupassero della distribuzione. Obbliga tutti i suoi discepoli a mangiare in comune, a vivere in perfetta uguaglianza e a prepararsi alla guerra che dovevano intraprendere, uscendo dalla montagna di Sion, per assoggettare – come diceva – al suo potere tutte le nazioni della terra; e muore finalmente in uno scontro temerario in cui si riprometteva, qual nuovo Gedeone, di sterminare con un pugno di uomini l’esercito degli empî. Né mancò a Mattia un erede del suo fanatismo, presentandosi subito Becold, forse più conosciuto sotto il nome di Giovanni di Leyde. Questo fanatico, sarto di professione, si mise a correre nudo per le strade di Münster gridando: Il re di Sion viene. Entrò in casa sua, vi si rinchiuse per tre giorni, e quando il popolo si presentò per chiedere sue notizie fece finta di non poter parlare. Novello Zaccaria domandò a cenni l’occorrente per scrivere, e scrisse che Dio gli aveva rivelato che il popolo doveva essere governato da giudici, ad imitazione del popolo d’Israele. Nominò dodici giudici, scegliendo quelli che gli erano più fedeli, e finché non fu riconosciuta l’autorità dei nuovi magistrati ebbe la precauzione di non farsi vedere da nessuno. Era già in certo qual modo assicurata l’autorità del nuovo profeta; ma non fu contento del comando effettivo, perché ebbe l’ambizione di vederlo accompagnato da tutta la pompa e la maestà. Si mise addirittura in testa di farsi re, ed i settari fanatici erano presi da una insensatezza così deplorevole che non gli fu difficile riuscire nella sua pazza impresa. Non ci volle molto per rappresentare una grossolana commedia: un orefice, che era d’accordo con l’aspirante re e che era anch’egli iniziato nell’arte di profetare, si presenta ai giudici d’Israele e parla così: «Ecco ciò che dice il Signore Iddio, l’Eterno: come in altri tempi io costituii Saul sopra Israele, e dopo di lui David, benché non fosse più che un semplice pastore, così oggi costituisco Becold mio Profeta re di Sion». I giudici non intendevano rinunciare al loro potere, ma Becold assicurò di avere avuto anche lui la stessa rivelazione, e che l’aveva taciuta per umiltà, ma che avendo Dio parlato ad un altro profeta, era necessario per lui rassegnarsi a salire al trono, per adempiere gli ordini dell’Altissimo. I

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giudici insistettero che si convocasse il popolo, il quale si radunò quindi nella piazza del mercato. Qui, essendogli stata presentata per mezzo di un profeta da parte di Dio una spada nuda, come segno che doveva essere costituito giustiziere sopra tutta la terra per estendere l’impero di Sion per i quattro angoli del mondo, con assordante giubilo del popolo Becold fu acclamato re e incoronato solennemente il 24 giugno del 1534. Siccome si era sposato con la moglie del suo predecessore, sollevò anche lei alla dignità reale; ma quantunque a costei dedicasse le attenzioni dovute a una regina, non mancò di tenere fino a diciassette mogli, conformemente alla santa libertà che in questa materia aveva proclamato. È impossibile riferire gli stravizi, gli assassinî, le atrocità e i vaneggiamenti di ogni genere che si ebbero da quel momento, potendosi solamente affermare che sedici mesi di regno di questo fanatico non furono che una catena di delitti. I Cattolici gridarono contro tanti eccessi; per la verità gridarono anche i Protestanti; ma di chi era la colpa? Non era forse di coloro che avevano proclamato la ribellione all’autorità della Chiesa, e che avevano gettata la Bibbia nelle mani di quei miserabili, affinché desse loro di volta il cervello con l’interpretazione personale, e si abbandonassero poi a progetti tanto criminosi quanto insensati? Lo riconobbero gli stessi anabattisti, i quali s’indignarono soprattutto con Lutero che li condannava nei suoi scritti. E infatti: chi aveva stabilito il principio, che diritto aveva di deplorarne le conseguenze? Se Lutero trovava nella Bibbia che il Papa era l’Anticristo, e si accingeva egli stesso a distruggere il regno del Papa esortando tutti a congiurare contro di lui, perché non potevano gli anabattisti dire ugualmente che avevano parlato con Dio e che ne avevano ricevuto l’ordine di sterminare tutti gli empî e di costituire un nuovo mondo in cui vivessero solamente gli uomini innocenti, che sono i padroni di tutte le cose?

Herman, predicando la strage di tutti i sacerdoti e magistrati del mondo; David Jorge, proclamando che la sua dottrina era l’unica perfetta, essendo imperfetta anche quella dell’antico e del nuovo Testamento, e che egli era il vero Figlio di Dio; Nicolas, rigettando la fede e il culto come inutili, disprezzando i precetti fondamentali della morale e insegnando che era cosa buona perseverare nel peccato perché potesse abbondare la grazia; Hacket, pretendendo che su di lui era disceso lo spirito del Messia, e inviando due dei suoi discepoli, Arthington e Coppinger, a gridare per le strade di Londra che il Cristo veniva lì col suo vaso in mano, ed esclamando egli stesso alla vista del palco e nel terrore del supplizio: «Jehovah! Jehovah! non vedete aprirsi i cieli, e Gesù Cristo venire a liberarmi?»: questi spettacoli estremamente deplorevoli e mille e mille altri che potremmo ricordare sono prove troppo evidenti del terribile fanatismo alimentato e ravvivato dal sistema protestante. Venner, Fox, Villiam-Sympson, J. Naylor, il conte Tinzendorf, Wesley, il barone di Sweedenborg, e altri nomi simili bastano per rammentare una tal quantità di sétte di squilibrati, e una tal serie di stravaganze e delitti, che potrebbero costituire la materia per comporre grossi volumi nei quali rappresentare i più ridicoli e i più foschi episodi, le maggiori miserie e i traviamenti dello spirito umano. Questo non si chiama fingere, non è esagerare: si legga la storia, si consultino gli autori, non solo Cattolici ma anche Protestanti o quali siano, e ovunque si troverà una gran quantità di testimonianze a conferma della verità di questi fatti. Fatti clamorosi accaduti alla luce del sole, all’interno di grandi città e in tempi molto vicini ai nostri. E non si creda che con l’andar del tempo si sia disseccata questa fonte di allucinazioni e di fanatismo: a quanto pare non manca il modo di accecarsi, e l’Europa è condannata ad ascoltare ancora i racconti di altre visioni, come quella accaduta nella taverna di Londra al Barone di Sweedenborg, e a vedere passaporti per il cielo con i tre sigilli come

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quelli che vendeva Giovanna Soutchote. (12) Non c’è cosa più evidente della differenza che passa tra i Protestanti e i Cattolici su questo punto. In ambo le parti ci sono persone che dicono di avere visioni soprannaturali; ma da queste visioni i Protestanti escono orgogliosi, turbolenti e frenetici, mentre i Cattolici guadagnano in umiltà e in spirito di pace e di amore. Nello stesso sedicesimo secolo in cui il fanatismo dei Protestanti sconvolgeva l’intera Europa e l’inondava di sangue, vi era in Spagna una donna che, a giudizio dei Protestanti e degli increduli, è stata una di quelle che maggiormente hanno patito infermità di allucinazioni e fanatismo. Ma il preteso fanatismo di questa donna fece per caso versare una sola goccia di sangue o una sola lagrima? E le sue visioni erano forse ordini del cielo per sterminare gli uomini, come disgraziatamente accadeva tra i Protestanti? Poiché nella nota precedente il lettore sarà rimasto inorridito dalle violente visioni dei settari, forse non gli dispiacerà che ora gliene vengano sottoposte di belle, e insieme soavi.

Santa Teresa, scrivendo la propria vita per pura ubbidienza, ci narra le sue visioni con un candore angelico e con una dolcezza ineffabile: «Volle il Signore che vedessi qui alcune volte questa visione: vedevo un angelo vicino a me verso il lato sinistro in forma corporea. Questa visione avviene di rado, quantunque molte volte mi si rappresentano angeli, però senza vederli se non come la visione passata di cui dissi prima. In questa visione volle il Signore che lo vedessi così: non era grande, ma piccolo, molto bello, la faccia tanto accesa che sembrava uno di quegli angeli più sublimi che paiono essere tutto fuoco: credo che siano quelli che si chiamano serafini. I nomi non me li dicono, ma vedo bene che in cielo vi è tanta differenza tra angeli e angeli, e da altri ad altri esseri celesti, che non saprei dire. Vedevo nella mano dell’angelo una lunga freccia d’oro, e all’estremità della freccia mi pareva che ci fosse un po’di fuoco. Alcune volte mi sembrava che mi ferisse il cuore giungendo fino alle viscere: nell’estrarlo mi pareva che le portasse via e mi lasciasse tutta infiammata di un grande amore di Dio» (Vita di S. Teresa, cap. 29 n. 11).

Eccone un altro saggio: «Stando in questo stato, mi vedo sul capo una colomba ben diversa da quelle di queste parti, perché non aveva lo stesso tipo di penne ma le sue ali erano ricoperte di certe conchiglie che emettevano un grande splendore. Era più grande delle nostre colombe, mi pareva di udire il rumore che faceva con le ali: credo che volasse in giro per lo spazio di un’Ave Maria. Già l’anima era in una condizione che, perdendo essa se stessa, io persi di vista anche la colomba. Il mio spirito si acquietò in presenza di un così buon ospite, nonostante che, a parer mio, una grazia così meravigliosa lo dovesse piuttosto agitare e lasciare attonito e sbigottito. E invece, come incominciò a gustarla, la paura disparve e iniziò la quiete, restando nel godimento dell’estasi». (Vita di S. Teresa, cap. 28 n. 7).

Sarà difficile trovare qualcosa di altrettanto bello, descritta con così vividi colori e con tanta amabile semplicità.

Non sarà fuori luogo riportare altri due frammenti di un genere diverso, i quali nel rendere comprensibile quello che noi ci proponiamo di porre in evidenza, potrà contribuire a risvegliare l’affetto verso una certa categoria di scrittori castigliani che da noi stanno cadendo in dimenticanza, mentre negli altri paesi sono molto stimati, e delle loro opere vengono fatte edizioni di lusso.

«Stando una volta in coro a recitare l’ufficio con le altre, d’un tratto l’anima mia si raccolse in se stessa, e mi parve di essere tutta come un chiaro specchio, senza che spalle,

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fianchi o parte superiore o inferiore non restasse tutta chiara; e nel centro dell’anima mi si mostrò Cristo Signor nostro nel modo in cui sono solita vederlo. Mi sembrava che in tutte le parti dell’anima mia lo vedessi chiaramente come in uno specchio, ed inoltre questo specchio (non so dire come) si scolpiva tutto nel Signore stesso in una comunione molto amorosa, che non saprei esprimere. So che questa visione mi è di gran giovamento ogni volta che me ne ricordo, particolarmente appena ricevuta la comunione. Mi si diede ad intendere che quando un’anima è in peccato mortale, questo specchio si copre di una folta nebbia e resta molto oscurato, per cui non si può raffigurare né vedere il Signore, benché Egli sia sempre presente continuando a infonderci l’essere; e che per l’eretico è come se lo specchio sia rotto, che è molto peggio che oscurato. Resta comunque molto diverso il modo come l’ho visto da come ho potuto dirlo, perché lo si può far capire solo in un modo molto imperfetto. Ma oltre al giovamento che ho detto, talvolta mi ha procurato anche dolore, considerando che io con i miei peccati ho oscurato l’anima mia, non potendo così vedere il Signore». (Vita di S. Teresa, cap. 40 n. 4).

In un altro punto espone il modo di veder le cose in Dio, e presenta la sua idea sotto un’immagine così brillante e grandiosa, che ci sembra di leggere Malebranche quando spiega il suo famoso sistema.

«Immaginiamo che la Divinità sia come un chiarissimo diamante molto più grande di tutto il mondo, ovvero uno specchio come quello di cui dissi dell’anima nella visione passata, salvo che lo sia in una maniera così elevata, che non saprò esprimerlo: e che tutto ciò che facciamo si veda in questo diamante, essendo fatto in modo tale che racchiude in se ogni cosa, in quanto non vi è cosa che esca fuori da questa grandezza. Fu per me una grande meraviglia vedere in così breve spazio tante cose insieme in questo chiarissimo diamante; ma anche di grandissimo dolore, ogni volta che me ne ricordo, vedere le cose tanto brutte che erano i miei peccati, rappresentati in quella purissima chiarezza». (Vita di S. Teresa, cap. 40 n. 7).

Supponiamo ora con i Protestanti che tutte queste visioni non siano che una pura illusione; ma è cosa evidente che non investono le idee, non corrompono i costumi e non disturbano l’ordine pubblico; ed anche se non fossero servite ad altro che ad ispirare così belle pagine, non avremmo certamente a dolerci dell’illusione. Ed ecco la conferma di ciò che ho detto sui salutari effetti che i1 principio cattolico produce nelle anime: infatti non le lascia accecare dall’orgoglio, né battere vie pericolose; le circoscrive invece in un ambito dal quale non possono recare danno a nessuno, anche nella supposizione che i favori del cielo non siano altro che illusione e, dato il caso che l’ispirazione sia vera e reale, non perde nulla della sua forza ed energia per fare il bene.

Potrei citare ancora mille altri esempi, ma per amore della verità mi sono limitato solo a questo di Santa Teresa, sia perché è tra quelli che si sono maggiormente distinti in questa materia, sia perché Santa Teresa fu contemporanea delle grandi aberrazioni dei Protestanti. Ed anche perché è spagnola, ed ho approfittato di questa opportunità per ricordarla agli Spagnoli, che incominciano a dimenticarla. (13) Ho accennato ai sospetti che alcuni capi della riforma hanno fatto nascere; e cioè che agendo in malafede, e non permettendo quelle stesse cose che predicavano, intendessero soltanto incantare i loro proseliti. Non voglio che si dica che accusandoli di questo mi sia comportato con leggerezza, e perciò porterò alcune prove che convalidano la mia

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affermazione. Sentiamo lo stesso Lutero: «Spesse volte io penso tra me e me che non so quasi a che punto sia, e se insegni o no la verità» (Luter. Colloq. Isleb. de Christo). E questo è lo stesso uomo che diceva: «Che io abbia ricevuto i miei dogmi dal cielo è cosa certa: non permetterò che la mia dottrina sia giudicata, né da voi, né dagli stessi angeli del cielo». (Lutherus contra reg. ang.). Giovanni Mattei, che pubblicò alcuni scritti sulla vita di Lutero, e che si scioglie tutto nelle lodi dell’eresiarca, ci ha conservato un curioso aneddoto che ci mostra quanto Lutero fosse fermo nelle sue convinzioni: «Un predicatore chiamato Giovanni Musa mi raccontò che una volta si era lamentato con Lutero di non poter decidersi a credere ciò che predicava agli altri. Sia benedetto Iddio – rispose Lutero – perché succede anche agli altri la stessa cosa che succede a me: io prima credevo che questo succedesse soltanto a me ». (Joannes Matthesius, concione 12).

Le dottrine sull’incredulità non si fecero attendere molto, e forse alcuni lettori non si aspetterebbero che si trovino esposte in diversi punti delle opere di Lutero. «E’verosimile – dice – che tranne pochi, tutti dormono insensibili». «Sono del parere che i morti sono sepolti in un sonno così ineffabile e meraviglioso che sentono e vedono meno dei vivi che dormono col sonno comune». «Le anime dei morti non vanno né in purgatorio, né in inferno». «L’anima umana dorme con tutti i sensi sepolti. Nel soggiorno dei morti non vi sono tormenti». (Tom. 2. Epist. lat. n. Isleb. fol. 44. 6. Lat. Witemberg, in cap. 2. cap. 23. cap. 24. cap. 42. et cap. 49. Genes. et tom. 4. Lat. Witemberg. fol. 109). Non mancava chi accogliesse simili dottrine, e il danno che questo insegnamento andava facendo era tale che il luterano Brentsen, discepolo e successore di Lutero, non esita a dire quanto segue: «Quantunque tra noi non vi sia alcuna professione pubblica che l’anima muoia insieme col corpo e che non vi sia la risurrezione dei morti, ciò nonostante la vita immorale ed empia che conduce la maggior parte degli uomini indica chiaramente che essi non credono ad un’altra vita dopo quella terrena. E simili convinzioni già sfuggono di bocca ad alcuni, non solo nel calore dei bicchieri, ma anche nella sobrietà dei colloqui famigliari». (Brentius, Hom. 35 in cap. 20. Luc.).

Nello stesso sedicesimo secolo non mancarono alcuni che senza curarsi di riferirsi a questa o quella setta professavano apertamente l’incredulità o lo scetticismo. Si sa che al famoso Gruet costò la testa la sua audacia su questo punto. E non furono i Cattolici a fargliela tagliare, ma i calvinisti, i quali se la presero a male che questo disgraziato si fosse permesso di raffigurare con i suoi veri tratti il carattere e la condotta di Calvino; e di affiggere a Ginevra alcune pasquinate nelle quali accusava i pretesi riformati d’incoerenza, per la tirannia che esercitavano sulle coscienze dopo che essi stessi avevano scosso il giogo dell’autorità. Tutto questo accadeva non molto tempo dopo la nascita del Protestantesimo, perché la sentenza di Gruet fu eseguita nel 1549.

Montaigne, che ho indicato come uno dei primi scettici che acquistarono fama, andò tanto oltre da non ammette neanche la legge naturale: «Sono simpatici – dice – quando per dare qualche certezza alle leggi, stabiliscono che ce ne sono di fisse, perpetue ed immutabili, che essi chiamano naturali, impresse nel genere umano per la condizione della propria essenza» (Montaigne, Ess. Tom. 2, chap. 12).

Abbiamo già visto cosa pensasse Lutero della morte, o almeno le affermazioni che su questo argomento gli sono sfuggite di bocca; dunque non desta meraviglia che Montaigne volesse morire da vero incredulo, e che parlando di quel momento terribile dicesse: «Con

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stupore e a capo chino m’immergo nella morte, senza considerarla né riconoscerla, come in una profondità muta ed oscura che m’ingoia ad un tratto e mi soffoca in un istante, in un profondo sonno pieno d’insipidezza e di indolenza». (Montaigne liv, 3. chap. 9).

Quest’uomo però, che «desiderava che la morte lo cogliesse mentre stava piantando cavoli, e senza prendersi pensiero di lei», non la pensò così negli ultimi momenti della sua vita, perché essendo prossimo a morire volle che si celebrasse nella sua stessa camera il santo sacrificio della Messa, e spirò nel medesimo istante in cui faceva uno sforzo per alzarsi a sedere sul letto in atto di adorazione della sacra Ostia. Ben si vede che nel suo cuore non era rimasto senza frutto quel pensiero che, parlando della religione cristiana, gli fece dire: «L’orgoglio è quello che allontana l’uomo dai sentieri comuni, che gli fa abbracciare le novità, preferendo mettersi a capo di una turba errante e traviata, insegnando l’errore e la menzogna, piuttosto che essere discepolo della scuola della verità». Si sarà ricordato anche di quanto aveva detto in un altro momento, quando ad un certo punto condannò tutte le sétte dissidenti: «In materia di religione è necessario restare uniti a quelli che sono stabiliti giudici della dottrina e che hanno un’autorità legittima, e non ai più dotti e ai più abili».

Da quanto detto sopra si può giudicare quanta ragione avessi nell’incolpare il Protestantesimo di essere stato una delle principali cause dell’incredulità in Europa. Ripeto qui ciò che ho detto nel testo: che cioè non è mia intenzione negare i tentativi che fecero alcuni Protestanti per opporsi all’incredulità; perché io non attacco le persone ma i fatti, e rispetto i meriti da qualunque parte provengano. Aggiungerò anche che se nel diciassettesimo secolo non pochi Protestanti tendevano verso il Cattolicesimo, probabilmente fu perché essi vedevano i progressi che andava facendo l’incredulità: progressi che non era possibile arrestare se non con l’aggrapparsi all’àncora dell’autorità che loro offriva la Chiesa cattolica. Non è possibile, senza uscire dai confini che mi sono proposto, dare notizie particolareggiate sulla corrispondenza tra Molano e il Vescovo di Tyna, e tra Leibnitz e Bossuet: i lettori però che volessero conoscere a fondo la materia potranno rivolgersi, parte alle opere stesse di Bossuet, e parte all’egregia opera dell’Abate Bausset che precede l’edizione delle Opere di Bossuet, fatta a Parigi nel 1814. (14) Per farsi un’idea dello stato della scienza al tempo in cui apparve il Cristianesimo, e capire ciò che ci si poteva aspettare dallo spirito umano abbandonato ai propri lumi, basta ricordare le assurde sétte che pullulavano ovunque nei primi secoli della Chiesa, e che contenevano nelle loro dottrine le mescolanze più informi, più stravaganti ed immorali che si possano mai concepire. Cerinto, Menandro, Ebbione, Saturnino, Basilide, Nicolao, Carpocrate, Valentino, Marcione, Montano ed altri, sono nomi che ricordano sétte nelle quali il delirio era strettamente unito all’immoralità. Dando un’occhiata a quelle sétte filosofico-religiose, si capisce che esse non erano in grado di concepire un sistema filosofico che avesse un certo ordine, né d’ideare un complesso di dottrine e di comportamenti che potesse meritare il nome di religione. Sconvolgevano tutto, mescolavano e confondevano ogni cosa; il giudaismo, il cristianesimo, i ricordi delle antiche scuole: tutto diventava un amalgama nei loro cervelli deliranti; non dimenticando però di allentare la briglia ad ogni genere di corruzione e di oscenità.

Quei secoli offrono alla vera filosofia un vasto campo per intuire cosa sarebbe stato dell’umano sapere se il Cristianesimo non avesse illuminato il mondo con le sue dottrine divine, e se questa sacra religione non fosse venuta a confondere l’orgoglio smisurato dell’uomo mostrandogli quanto vano e insensato sia il suo pensare, e quanto si stava

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allontanando dal sentiero della verità. Cosa incredibile! Quegli stessi uomini, i cui traviamenti fanno inorridire, si davano da se stessi il nome di Gnostici per le sublimi cognizioni di cui si dicevano dotati. Si vede che l’uomo in ogni tempo è sempre lo stesso! (15) CANONI ED ALTRI DOCUMENTI CHE DIMOSTRANO LE PREMURE DELLA CHIESA PER MIGLIORARE LE CONDIZIONI DEGLI SCHIAVI, E I VARI MEZZI DI CUI SI SERVÌ PER GIUNGERE ALL’ABOLIZIONE DELLA SCHIAVITÙ . [Il simbolo (…) indica l’omissione del testo latino nei canoni citati] § 1 Concilium Eliberitanum, anno 305: — S’impone la penitenza alla Signora che maltratta la sua schiava. (…) — (Can. 5). Si noti che la parola ancillam esprime una schiava propriamente detta e non una serva qualunque, come si rileva da quelle altre parole flagris verberaverit, che era il castigo proprio degli schiavi. Concilium Epaonense, anno 517: — Si scomunica il padrone che di sua autorità ammazza lo schiavo. (...) (Can. 34). — Questa stessa disposizione è ripetuta nel canone 15 del XVII Concilio di Toledo celebrato nel 694, dove si ripete il canone qui riportato con minime variazioni. — Lo schiavo reo di un delitto atroce si libera dalle pene corporali rifugiandosi in chiesa. (…) — (Can. 39). Concilium Aurelianense quintum, anno 549: — Precauzioni molto importanti affinché i padroni non maltrattassero gli schiavi che si erano rifugiati in chiesa. (…) — (Can. 22). È ben difficile avere una maggiore sollecitudine per migliorare la sorte degli schiavi, di quella che traspare dal curioso documento riportato. Concilium Emeritense, anno 666: — Si proibisce ai Vescovi la mutilazione dei loro schiavi, e si ordina che del loro castigo se ne incarichi il giudice della città, ma senza raderli in modo che provino vergogna. (…) — (Can. 15). Concilium Toletanum undecimum, anno 675: — Si proibisce ai sacerdoti la mutilazione dei loro schiavi. (…) — (Can. 6). C’è da osservare che quando negli ultimi due canoni citati si usa la parola familia, si devono intendere gli schiavi. Che questo sia il vero senso si deduce chiaramente dal canone 74 del IV Concilio di Toledo celebrato nell’anno 633, dove si legge: «De familiis ecclesiae constituere presbyteros, et diaconos per parochias liceat ea tamen ratione, ut antea manumissi libertatem status sui percipian.». Lo stesso si deduce dal senso in cui il Papa S. Gregorio adopera questo termine nell’Epist. 44. linea 4. Concilium Wormatiense, anno 868: — Si impone la penitenza al padrone, che di sua autorità uccide il suo schiavo. (...) (Can. 38). (…) — (Can. 39). Concilium Arausicanum primum, anno 441: — Si reprime la violenza di coloro i quali si vendicano dell’asilo accordato agli schiavi con l’impadronirsi di quelli della Chiesa. (…) — (Can. 6). § 2 Ibidem: — Si reprimono coloro che in qualunque senso attentano alla libertà dei manomessi nella Chiesa, o che siano stati ad essa raccomandati per testamento. (…) — (Can. 7).

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Concilium quintum Aurelianense, anno 549: — Si assicura la libertà dei manomessi nelle chiese e si prescrive che queste s’incarichino della difesa dei liberti. (…) — (Can. 7). Concilium Malisconense secundum, anno 585: — Si prescrive che la Chiesa difenda i liberti, o che siano stati manomessi nel tempio, o per lettera e testamento, o abbiano passato lungo tempo nel godimento della libertà. Si reprime l’arbitrio dei giudici che oltraggiano questi sventurati, e si dispone che le loro cause siano portate a conoscenza dei Vescovi. (…) — (Can. 7). Concilium Parisiense quintum, anno 614: — Si dà incarico ai sacerdoti di difendere i manomessi. (…) — (Can. 5). Concilium Toletanum tertium, anno 589: — Si prescrive che i manomessi raccomandati alle Chiese siano protetti dai Vescovi. (…) — (Can. 6). Concilium Toletanum quartum, anno 633: — Si comanda che la Chiesa s’incarichi di difendere la libertà ed il patrimonio dei manomessi a lei raccomandati. (…) — (Can. 72). Concilium Aghatense, anno 506: — Si dispone che la Chiesa difenda i manomessi, intendendo in generale, prescindendo che siano stati a lei raccomandati o no. (…) — (Can. 29). § 3 — Si dispone che ci si impegni nella redenzione degli schiavi, e che il loro riscatto sia anteposto agl’interessi della chiesa, anche quando si trovi in cattivo stato. (…) — (Caus. 12. Q. 2. Can. 16). Parole importanti di S. Ambrogio sulla redenzione degli schiavi. Per far fronte a un così pio ufficio il S. Vescovo rompe e vende i vasi sacri: S. Ambrosius de Off. L. 2. cap. 15: — (§. 70) (…); (§. 71) (…); Ib. L. 2. c. 2. (§ 13) (…).— Questi sentimenti nobili e caritatevoli non erano solamente di S. Ambrogio, ma le sue parole esprimono quelle di tutta la Chiesa. Oltre le varie prove che potrei portare, e oltre a ciò che si deduce dai canoni che continuerò ad inserire, è degna di nota la commovente lettera di S. Cipriano, nella quale sono sintetizzati i motivi che spingevano la Chiesa ad un’opera di tanta pietà, e descritti con vivacità lo zelo e la carità con cui la eseguiva. Si noti quindi come la sollecitudine per il riscatto degli schiavi, che la Chiesa con tanta tenacia continuò a dispiegare nei secoli successivi, aveva già incominciato ad agire nei primi tempi, e si basava sulle grandi e sublimi ragioni che in certo qual modo rendevano divina l’opera, assicurando inoltre a chi la esercitava una corona incorruttibile.

Nelle opere di S. Gregorio, si troveranno ugualmente notizie importanti su questo argomento. (V. L. 3 ep. 16; L. 4. ep. 17; L. 6 ep. 35; L. 7 ep. 26, 28 e 38 e L. 9, ep. 17). Concilium Matisconense secundum, anno 585: — I beni della Chiesa s’impiegano nella redenzione degli schiavi. (…) — (Can. 5). Concilium Rhemense anno 625, vel 630: — Si permette di rompere i vasi sacri per impiegarne il ricavato nella redenzione degli schiavi. (…) — (Can. 22). Concilium, Lugdonense tertium, anno 583: — Dal seguente canone si apprende che i Vescovi davano agli schiavi lettere di

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raccomandazione; e vi si ordina di apporre in esse la data e il prezzo del riscatto; e che vi si esprimano anche le necessità degli schiavi. (…) — (Can. 2). Synodus S. Patricii, Auxilii et Isernini Episcoporum in Hibernia celebrata, circa annum Christi 450 vel 456: — Eccessi a cui erano giunti alcuni ecclesiastici per uno zelo inopportuno in favore degli schiavi. (…) — (Can. 32). Ex epistolis S. Gregorii: — La Chiesa spendeva i suoi beni per il riscatto degli schiavi; e quantunque col tempo questi avessero la possibilità di restituire alla Chiesa la somma anticipata, essa non si curava che venisse fatto e condonava generosamente il prezzo del riscatto. (…) — (L. 7. ep. 14. et hab. Caus. 12 q. Q. 2. C.15). Concilium Vernense secundum, anno 841: — I beni della Chiesa servivano per il riscatto degli schiavi. (…) — (Can. 12). In questo canone è opportuno osservare l’uso che faceva la Chiesa dei suoi beni; perché vediamo che oltre al mantenimento dei sacerdoti e alle spese del culto servivano per soccorrere i poveri e i pellegrini, e per riscattare gli schiavi. Faccio qui questa osservazione perché mi si presenta l’opportunità, e non perché il canone citato sia l’unico in cui si fondi la prova del buon uso che faceva la Chiesa dei suoi beni. Molti sono i canoni che si potrebbero citare, cominciando da quelli che si chiamano apostolici. La cui espressione (apostolici) è da tener presente, perché talvolta erano usati per biasimare la malvagità di coloro che s’impadronivano dei beni ecclesiastici o li amministravano male. Pauperum necatores (uccisori dei poveri) costoro vengono chiamati, per dare ad intendere che uno dei principali motivi di questi beni era il soccorrere i bisognosi. Concilium Lugdunense, anno 566: — Si scomunicano coloro che attentano alla libertà delle persone. (…) — (Can. 3). Da questo canone si capisce che l’abuso da parte dei privati di ricorrere alla violenza per ridurre in schiavitù le persone libere era molto comune. Tale era in quell’epoca lo stato dell’Europa a causa delle scorrerie dei barbari, perché il potere pubblico era debolissimo, o diremmo meglio che non esisteva. Per cui è bello vedere la Chiesa venire apertamente in aiuto dell’ordine pubblico e in difesa della libertà, scomunicando quelli che l’attaccavano disprezzando così il precetto del re: praeceptum domini regis. Concilium Rhemense, anno 625, vel 630: — Si reprime il medesimo abuso, come nel canone antecedente. (…) — (Can. 17). Concilium Confluentinum, anno 922: — Si dichiara reo d’omicidio chi rapisce un Cristiano e lo vende. (…) — (Can. 7). Concilium Londinense, anno 1102: — Si proibisce il commercio di uomini che si faceva in Inghilterra, dove si vendevano come animali. («Ne quis illud nefarium negotium, quo hactenus in Anglia solebant homines sicut bruta animalia venundari, deinceps ullatenus facere praesumat»). — Da questo canone si capisce quanti progressi stava facendo la Chiesa in tutto ciò che riguarda la vera civiltà. Ci troviamo ora nel diciannovesimo secolo, e si considera un passo importante della civiltà moderna che le grandi nazioni europee facciano dei trattati per reprimere il traffico dei negri. E dal canone citato si vede che già all’inizio dell’undicesimo secolo, precisamente nella stessa città di Londra dove è stata sottoscritta la famosa convenzione, si proibiva il traffico

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d’uomini, qualificandolo come merita: Nefarium negotium, negozio scellerato lo chiama il Concilio; e la civiltà moderna lo chiama traffico infame, avendo ereditate, senza saperlo, le idee e perfino le parole da quegli uomini che essi chiamano barbari, da quei Vescovi che sono stati da questi calunniati, e dipinti poco meno che una cricca di congiurati contro la libertà e la fortuna del genere umano. Synodus incerti loci, circa annum 616: — Si ordina che le persone che si fossero vendute o date in pegno, ritornino allo stato di libertà senza indugio, a condizione però che restituiscano il prezzo che avevano ricevuto; e si dispone che non si possa esigere più del prezzo che era stato pagato. (…) — (Can. 14). Questo canone del Concilio celebrato, secondo l’opinione di alcuni, a Boneuil, è di tale importanza da spingerci a farvi sopra alcune riflessioni. Questa disposizione così benefica, con la quale si concedeva al venduto di ritornare in libertà dopo aver restituito il prezzo che aveva ricevuto nel vendere se stesso, attaccava direttamente un male che doveva avere profonde radici nelle Gallie, perché sappiamo da Cesare, come abbiamo riferito nel testo, che molti, costretti dalla necessità, vendevano se stessi per rimediare ad uno stato d’indigenza.

È molto bello inoltre osservare quanto viene disposto nello stesso canone riguardo ai figli della persona venduta, sia essa il padre o la madre. Vi si prescrive che in ambedue i casi i figli siano liberi, derogandosi qui alla regola notissima del diritto civile: partus sequitur ventrem. § 5 Concilium Aurelianense tertium, anno 538: — Si proibisce di restituire ai Giudei gli schiavi rifugiatisi nelle chiese, qualora cerchino quest’asilo o perché i loro padroni li costringevano a cose contrarie alla religione cristiana, o perché dopo essere stati precedentemente portati fuori della chiesa sono stati maltrattati. (…) — (Can. 13). Concilium Aurelianense quartum, anno 541: — Si ordina di osservare quanto è stato comandato nel precedente Concilio dello stesso nome, nel canone sopracitato. (…) — (Can. 30). — Si castiga con la perdita di tutti gli schiavi l’ebreo che perverte uno schiavo cristiano. (…) — (Can.31). Concilium Matisconense primum, anno 581: — Si proibisce agli Ebrei di tenere in futuro schiavi cristiani: e in quanto a quelli che già hanno, si permette a qualunque Cristiano di riscattarli pagando al padrone ebreo dodici soldi. (…) — (Can. 16). Questo canone è poco meno che un decreto di totale emancipazione degli schiavi cristiani; perché, se veniva inibito agli Ebrei di acquistare nuovi schiavi cristiani, e quelli che già tenevano potevano essere riscattati da qualunque Cristiano, è chiaro che dando questa possibilità alla carità dei fedeli venne inevitabilmente a ridursi notevolmente il numero degli schiavi cristiani che gemevano in potere degli Ebrei. Non possiamo dire che queste disposizioni canoniche sortissero immediatamente tutto l’effetto che la Chiesa si proponeva; ma essendo essa l’unico potere che allora restava in piedi e che aveva influenza sui popoli, le sue disposizioni dovettero portare un gran vantaggio a coloro in favore dei quali erano prese. Concilium Toletanum tertium, anno 589: — Si proibisce agli Ebrei di acquistare schiavi cristiani. Se un Ebreo induce al giudaismo o

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circoncide uno schiavo cristiano, questi rimane libero senza che debba pagare nulla al padrone. (…) — (Can. 14). Questo canone merita attenzione: sia perché difende la coscienza dello schiavo, sia perché la pena imposta consiste nella liberazione dello schiavo. Di questo tipo di pene volte a reprimere l’arbitrio dei padroni che violavano la coscienza degli schiavi, troviamo nel secolo successivo un esempio molto curioso in una raccolta di leggi di Ina, re dei Sassoni occidentali: Leges Inae Regis saxonum Occiduorum, anno 692: — Se un padrone fa lavorare uno schiavo di domenica, lo schiavo resta libero. (…) — (Leg. 2). Un altro esempio curioso è il seguente: Concilium Berghamstedae, anno 5. Withredi Regis Cantii, id est Christi 697, sub Bertualdo Cantuariensi archiepiscopo celebratum. Haec sunt judicia Withredi Regis cantuariorum : — Se un padrone dà da mangiare carne al suo schiavo in giorno di digiuno, questi resta libero. (…) — (Can. 15). Concilium Toletanum quartum, anno 633: — Si proibisce del tutto agli Ebrei di tenere schiavi cristiani, ordinando che se qualche Ebreo contravviene a questo comando gli si levino gli schiavi, e questi ottengano dal principe la libertà. (…) — (Can. 66). Concilium Rhemense, anno 625: — Si proibisce di vendere schiavi cristiani a pagani o a Ebrei; e se mai tali vendite venissero fatte, si dichiarano nulle. (…) — (Can. 11). Nessuna precauzione era mai eccessiva in quei tempi calamitosi. Potrebbe sembrare a prima vista che tali disposizioni fossero effetto dell’intolleranza della Chiesa riguardo agli Ebrei e ai pagani, e invece era un argine contro la barbarie che era diffusa ovunque, una garanzia per i diritti più sacri dell’uomo: garanzia tanto più necessaria in quanto si può dire che erano svanite tutte le altre. Si legga il documento che segue dove si vede che alcuni giungevano all’orribile eccesso di vendere i loro schiavi ai pagani per sacrificarli. Gregorius Papa III, ep. I ad Bonifacium Archiepiscopum, anno 731: — (…) — Questi eccessi dovevano richiamare in ogni caso l’attenzione della Chiesa, perché vediamo che il Concilio di Ciptines celebrato nel 743 torna ad insistere sullo stesso punto, proibendo di consegnare ai pagani gli schiavi cristiani: — (…) — (Can. 7). Concilium Cabilonense, anno 650: (…) — Si proibisce di vendere uno schiavo cristiano fuori dei territori compresi nel regno di Clodoveo. (…) — (Can. 9). Questo canone, in cui si proibisce la vendita degli schiavi cristiani fuori del regno di Clodoveo nel timore che cadessero in potere di pagani o di Ebrei, e l’altro del Concilio di Rheims riportato più sopra in cui vi si trova una disposizione simile, sono importanti sotto due aspetti: 1. In quanto manifestano il massimo rispetto che si deve avere per l’anima dell’uomo, anche se schiavo; pertanto si proibisce di venderlo in un luogo dove possa venire compromessa la coscienza del venduto. Rispetto che ci si preoccupava di sostenere: sia per sradicare le false dottrine antiche su questo punto; e sia perché questo era il primo passo da farsi per arrivare all’emancipazione. 2. Limitandosi la possibilità di vendere schiavi, s’introduceva nella legge una distinzione tra questo tipo di proprietà e tutte le altre proprietà, collocandola quindi in una categoria diversa e più elevata. Questo è un passo molto importante perché dichiara guerra aperta a questa proprietà,

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arrivando ad abolirla con mezzi legittimi. Concilium decimum Toletanum, anno 656: — Si riprendono severamente i sacerdoti che vendono i loro schiavi agli Ebrei, e si minacciano loro pene terribili. (…) — (Can. 7). § 6 Manomissione da parte del Papa S. Gregorio I di due schiavi della chiesa romana. Il testo è importante perché vi è la spiegazione del Papa sui motivi che inducevano i Cristiani a manomettere i loro schiavi: — (…) — (S. Greg. L. 5. ep. 12). Concilium Agathense, anno 506: — Si comanda che i Vescovi rispettino la libertà dei manomessi decisa dai loro predecessori. Si parla della facoltà che avevano i Vescovi di manomettere gli schiavi meritevoli, e si fissa la somma che si poteva dare per il loro mantenimento. (…) — (Can. 7). Concilium Aurelianense quartum, anno 541: — Si comanda di restituire alla Chiesa quanto era stato alienato o dato in pegno dal Vescovo che, morendo, non abbia lasciato proprî beni; si eccettuano però da questa regola gli schiavi manomessi che dovranno restare in libertà. (…) — (Can. 9). Synodus Celichytensis, anno 816: — Si ordina che alla morte di ciascun Vescovo si dia la libertà a tutti i suoi schiavi inglesi. Si dispone le solennità da svolgere nelle esequie del defunto, avvertendo che, terminate le stesse, ogni Vescovo e Abate debba manomettere tre schiavi, dando tre soldi a ciascuno di essi. (…) — (Can. 10). Concilium Ardamachiense in Hiberniae celebratum, anno 1171: Ex Giraldo Cambrensi, cap. 28 Hiberniae expugnatae: Curioso documento, in cui si riferisce la generosa risoluzione presa nel concilio di Armach in Irlanda di dar la libertà a tutti gli schiavi inglesi. — (…) — In questo documento è da notare soprattutto quanto influsso avessero le idee religiose nel mitigare i feroci costumi dei popoli. Sopravviene una pubblica calamità: ed ecco che s’individua subito la causa nello sdegno di Dio provocato dal commercio che facevano gl’Irlandesi comprando schiavi inglesi da mercanti, assassini e corsari. Nello stesso tempo è interessante notare come a quei tempi gl’Inglesi erano tanto barbari da vendere i loro figli e parenti, come fanno gli Africani dei nostri tempi. E doveva essere un uso abbastanza comune, perché leggiamo che questo era un vizio diffuso in quei popoli (communi gentis vitio). Così si capisce ancor meglio quanto fosse necessaria la disposizione inserita più sopra del Concilio di Londra del 1102, in cui si proibisce quest’infame traffico di uomini. Ex Concilio apud Silvanectum, anno 864: — Gli schiavi della Chiesa non devono essere permutati con altri schiavi, a meno che nella permuta non si dia loro la libertà. (…) — (V. Decret. Greg. IX, lib, 3, tit. 19, cap. 3). — Contiene la stessa disposizione precedente; ed in più si deduce da quanto scritto che i fedeli, per il bene delle proprie anime, avevano il costume di offrire i loro schiavi a Dio ed ai Santi. (...) — (Ibid. cap. 4). Concilium Romanum sub S. Gregorio l, anno 597: — Si ordina che sia data la libertà agli schiavi che vogliono abbracciare la vita monastica, dopo però aver verificato con prudenza che si tratti di vera vocazione. (…) — (S. Greg.

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Epist. 44, lib. 4). Ex epistolis Gelasii Papae: — Si reprime l’abuso che si andava estendendo di ordinare sacerdoti gli schiavi senza il consenso dei loro padroni. (…) — (Distin. 54. c. 9). — (…) — (Ibid. c. 10). — (…) — (Ibid. c. 11). — (…) — (Ibid. c 12). Concilium Emeritense, anno 666: — Si permette ai parroci di scegliere per il clericato alcuno tra gli schiavi della chiesa. (…) — (Can. 18). Concilium Toletanum nonum, anno 655. — Si dispone che i Vescovi diano la libertà agli schiavi della chiesa che vengono ammessi nel clero. (…) — (Can. 11). Concilium quartum Toletanum, anno 633: — Si permette di ordinare gli schiavi della chiesa, però dando loro prima la libertà. (…) — (Cap. 74). § 7

Dopo aver visto quale fu la condotta della Chiesa riguardo alla schiavitù in Europa, nasce naturalmente il desiderio di sapere come si è comportata nei tempi a noi più vicini riguardo agli schiavi delle altre parti del mondo. Fortunatamente posso presentare ai miei lettori un documento che, mentre mostra quali sono su questo punto le idee e i sentimenti dell’attuale Pontefice Gregorio XVI, racchiude in poche parole l’interessante storia della sollecitudine della Santa Sede in favore degli schiavi di tutto il mondo. Parlo di un breve apostolico contro il traffico dei negri, pubblicato a Roma il giorno 3 di novembre del 1839. Ne raccomando caldamente la lettura, perché è una conferma autentica e decisiva dello spirito della più pura carità che la Chiesa ha sempre manifestato, e tuttora manifesta, senza offendere minimamente la giustizia né allontanarsi da quanto consiglia la prudenza in questa gravissima faccenda della schiavitù. Gregorius PP XVI ad futuram rei memoriam: «Innalzati al grado supremo della dignità apostolica, ed essendo, quantunque non lo meritiamo, in terra Vicario di Gesù Cristo Figlio di Dio, che per la sua immensa carità si degnò di farsi uomo e morire per la redenzione del genere umano, abbiamo creduto un dovere della nostra pastorale sollecitudine di fare ogni sforzo per allontanare i Cristiani dal commercio che stanno facendo dei negri e di altri uomini di qualunque specie essi siano. Appena cominciò a diffondersi la luce del Vangelo, gli sventurati che cadevano nella più dura schiavitù in mezzo alle continue guerre di quei tempi videro migliorare il loro stato; poiché gli Apostoli ispirati dallo spirito di Dio inculcavano agli schiavi la regola di ubbidire ai loro Signori temporali come allo stesso Gesù Cristo, e a rassegnarsi con tutto il cuore alla volontà di Dio; ma nello stesso tempo imponevano ai padroni il precetto di mostrarsi umani con i loro schiavi, di conceder loro quanto fosse giusto ed equo, e di non maltrattarli sapendo che il Signore degli uni e degli altri sta nei cieli, e che al Suo cospetto non vi è distinzione di persone.

«La legge evangelica, nello stabilire in modo universale e fondamentale la carità sincera verso tutti, e dichiarando che il Signore considererebbe come fatti o negati a Se stesso tutti gli atti di beneficenza o di misericordia fatti o negati ai poveri e ai deboli, produsse di conseguenza l’effetto che i Cristiani non solo guardassero come fratelli i loro schiavi, particolarmente quando si erano convertiti al Cristianesimo, ma che si mostrassero

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inclini a dare la libertà a quelli che per la loro condotta se n’erano resi meritevoli; la qual cosa avevano per costume di fare particolarmente nelle feste solenni di Pasqua, come riferisce S. Gregorio di Nicea. Tuttavia ci furono alcuni che, accesi dalla più ardente carità, si caricarono delle catene dei loro fratelli per riscattarli, e l’uomo apostolico nostro predecessore, il Papa Clemente I di santa memoria, attesta di aver conosciuto molti che esercitarono quest’opera di misericordia; e questa è la ragione per cui essendosi dissipate coll’andar del tempo le superstizioni dei pagani, ed essendosi raddolciti i costumi dei popoli più barbari grazie ai benefìci della fede mossa dalla carità, le cose sono arrivate ad un punto che da molti secoli in qua nella maggior parte delle nazioni cristiane non si trovano schiavi.

«Ciò nonostante, e lo diciamo col più profondo dolore, si videro uomini, anche tra i Cristiani, che vergognosamente accecati dal desiderio di un sordido guadagno non esitarono a ridurre in schiavitù in terre remote gli indiani, i negri, ed altre sventurate razze, o a cooperare ad una così indegna malvagità istituendo e organizzando il commercio di quegli sventurati, che altri avevano caricato di catene. Molti Pontefici romani nostri predecessori di gloriosa memoria non dimenticarono, per quanto stette in loro, di porre un freno alla condotta di tali uomini come contraria alla loro salvezza e degradante per il nome cristiano; poiché vedevano bene che questa era una delle cause che influiscono maggiormente sull’odio costante che le nazioni infedeli conservano per la vera religione.

«A tal fine si spedirono le lettere apostoliche di Paolo III del 20 maggio 1537, rimesse al Cardinale Arcivescovo di Toledo, sotto sigillo del Pescatore, e altre lettere molto più ampie di Urbano VIII del 22 aprile 1639, dirette al collettore dei diritti della camera apostolica in Portogallo; lettere nelle quali sono contenuti i più seri e forti rimproveri contro coloro che ardiscono di ridurre in schiavitù gli abitanti dell’India occidentale e meridionale, venderli, comprarli, scambiarli, regalarli, separarli dalle loro mogli e dai figli, spogliarli dei loro beni, trasportarli o inviarli in regni stranieri, e privarli in qualsiasi modo della libertà; mantenerli in schiavitù, ovvero aiutare e favorire sotto qualunque causa o pretesto coloro che fanno tali cose; predicare o insegnare che questo sia lecito, ed infine cooperarvi in qualsivoglia maniera. Benedetto XIV confermò poi e rinnovò queste prescrizioni dei Papi già menzionati con le nuove lettere apostoliche ai Vescovi del Brasile e di alcune altre regioni, il 20 dicembre 1741, nelle quali incitava per lo stesso scopo la sollecitudine dei detti Vescovi.

«Molto prima, un altro dei nostri più antichi predecessori, Pio II, nel pontificato del quale si estese il dominio dei Portoghesi nella Guinea e nel paese dei negri, indirizzò le sue lettere apostoliche del 7 ottobre 1482 al Vescovo di Ruvo quando era in procinto di partire per quelle regioni, nelle quali lettere non si limitava solamente a dare al detto prelato le opportune facoltà per esercitare colà il santo ministero col maggior frutto, ma colse l’occasione per censurare severamente la condotta dei Cristiani che riducevano i nuovi battezzati in schiavitù. Finalmente ai giorni nostri Pio VII, animato dal medesimo spirito di carità e di religione dei suoi predecessori, interpose con zelo i suoi buoni uffici presso persone potenti per far sì che cessasse del tutto il commercio dei negri tra i Cristiani. Simili prescrizioni e sollecitudini dei nostri predecessori ci sono servite con l’aiuto di Dio per difendere gli indiani e gli altri popoli suddetti dalla barbarie, dalle conquiste e dalla cupidigia dei mercanti cristiani; ma è necessario che la Santa Sede debba rallegrarsi dell’esito completo dei suoi sforzi e del suo zelo, considerando che, se il commercio dei negri è stato abolito in parte, tuttavia è ancora praticato da un gran numero di Cristiani. Per

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questo motivo, desiderando cancellare un obbrobrio simile da tutte le contrade cristiane, dopo aver conferito ponderatamente con molti dei nostri venerabili fratelli Cardinali della Santa Chiesa romana riuniti in concistoro, e seguendo le orme dei nostri predecessori, in virtù dell’autorità apostolica, avvertiamo e ammoniamo con la forza del Signore tutti i Cristiani, di qualsiasi classe e condizione, e proibiamo loro, che nessuno da ora in poi abbia l’ardire di molestare ingiustamente gli indiani, i negri, e altri uomini qualunque siano, spogliarli dei loro beni e ridurli in schiavitù; né di prestare aiuto o appoggio a coloro che si dedicano a simili eccessi, o di esercitare un commercio così disumano per il quale i negri, come se non fossero uomini, ma veri ed impuri animali ridotti come questi in schiavitù senza nessuna distinzione e contro le leggi della giustizia e dell’umanità, sono comprati, venduti e condannati alle più dure fatiche; per il qual motivo nascono dissensi e si fomentano continue guerre tra quei popoli a causa della sete del guadagno proposto ai rapitori dei negri.

«Per questa ragione, e in virtù dell’autorità apostolica, riproviamo tutte le dette cose come assolutamente indegne del nome cristiano; e in virtù della nostra autorità proibiamo totalmente e ordiniamo a tutti gli ecclesiastici e laici, che non abbiano l’ardire di sostenere come cosa lecita il traffico dei negri, sotto nessun pretesto né causa, oppure di predicare ed insegnare in pubblico, né in privato, nessuna cosa che sia contraria a quanto si ordina in questa lettera apostolica.

«E affinché dette lettere giungano a conoscenza di tutti, e che nessuno possa protestarne ignoranza, decretiamo ed ordiniamo che si pubblichino e si affiggano secondo la consuetudine da uno dei nostri ufficiali alle porte della basilica del Principe degli Apostoli, della cancelleria apostolica, del palazzo di giustizia di Monte Citorio, e a Campo dei Fiori.

«Dato in Roma presso S. Maria Maggiore, sotto sigillo del Pescatore a dì 3 novembre 1839, e nono del nostro pontificato. ══ Luigi Cardinal Lambruschini».

Richiamo in modo particolare l’attenzione sull’autorevole documento che ho qui inserito e che, possiamo dire, corona magnificamente l’insieme di tutti gli sforzi fatti dalla Chiesa per abolire la schiavitù. E siccome attualmente l’abolizione del traffico dei negri è una delle cose che assorbono maggiormente l’attenzione di tutta Europa, essendo l’oggetto di un trattato concluso recentemente tra le grandi potenze, sarà bene soffermarsi un poco a riflettere sul contenuto delle lettere apostoliche richiamate dal Papa Gregorio XVI.

In primo luogo bisogna notare che già nel 1482 il Papa Pio II indirizzò al Vescovo di Ruvo, quando questi era in procinto di partire per quelle regioni, le sue lettere apostoliche nelle quali non si limitava solamente a dare al detto prelato le opportune facoltà per esercitare colà il santo ministero col maggior frutto, ma colse l’occasione per censurare severamente la condotta dei Cristiani che riducevano i nuovi battezzati in schiavitù. Esattamente sul finire del quindicesimo secolo, quando può dirsi che le fatiche della Chiesa per sbrogliare il caos in cui era stata immersa l’Europa a motivo dell’invasione dei barbari stavano giungendo al termine; quando le istituzioni sociali e politiche si andavano sviluppando ogni giorno di più, formando già in quell’epoca un corpo alquanto regolato e coerente; proprio allora la Chiesa cominciò a lottare contro un’altra barbarie che si riprodusse in paesi lontani per l’abuso che facevano i conquistatori della loro superiorità di forze e di cultura sui popoli conquistati.

Basta questo solo fatto per dimostrarci che per la vera libertà e per il benessere dei popoli, e perché il diritto prevalga sul fatto e non regni la forza brutale, non basta il sapere,

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non basta la cultura dei popoli, ma è necessaria la religione. Nei tempi antichi vediamo popoli straordinariamente colti praticare le più inaudite atrocità; e nei tempi moderni gli Europei, tronfi del loro sapere e dei loro progressi, portarono la schiavitù a quei miseri popoli che caddero sotto il loro dominio. E chi fu il primo ad alzare la voce contro una così grande ingiustizia e una così orribile barbarie? Non fu già la politica, che forse non vedeva malvolentieri questa situazione purché in tal modo si giungesse a far conquiste. Non fu il commercio, che vedeva in questo traffico infame un rapido mezzo per sordidi, ma pingui guadagni. Non fu la filosofia, che occupata nel commentare le dottrine di Platone e di Aristotele, non si è certo opposta abbastanza al fatto che nei paesi conquistati stava rinascendo la degradante teoria delle razze nate per la schiavitù. Fu invece la religione cattolica, che parlò per bocca del Vicario di Gesù Cristo.

È certamente uno spettacolo consolante per i Cattolici quello che ci mostra un Pontefice romano che già da quattro secoli condanna ciò che l’Europa con tutta la sua civiltà e cultura incomincia a condannare solo adesso, e con tanta fatica ed anche con qualche sospetto di mire interessate da parte di qualcuno dei promotori. Certamente il Pontefice non riuscì a fare tutto il bene che desiderava; ma le dottrine non restano senza frutto quando escono da un luogo dal quale possono diffondersi a grandi distanze, e sono dirette a persone che le accolgono con venerazione, non fosse altro che per il rispetto dovuto a chi le insegna. I popoli conquistatori erano allora Cristiani, e Cristiani sinceri; e cosi non c’è dubbio che le ammonizioni del Papa, trasmesse per bocca dei Vescovi e dei sacerdoti, non mancarono di produrre effetti molto salutari. In questi casi, quando vediamo un provvedimento contro un male, e notiamo che il male non è cessato, siamo soliti equivocare pensando che il provvedimento è stato inutile, e che chi l’ha deciso non abbia prodotto alcun bene. Estirpare un male e ridurlo non è lo tesso; e non c’è dubbio che se le bolle dei Papi non sortirono tutto l’effetto che essi desideravano, contribuirono almeno a diminuire il danno, facendo sì che la sorte dei miseri popoli conquistati non fosse tanto disgraziata. Il male che si previene o si evita non si vede, perché non giunge a manifestarsi per via delle misure prese per impedirlo; ma il male esistente si tocca, ci fa impressione, ci strappa di bocca delle lamentele e noi spesso dimentichiamo la gratitudine dovuta a chi ci ha preservati da mali peggiori. Così suole accadere riguardo alla religione. Essa cura molto, ma tuttavia previene molto più di quanto non cura, perché impadronendosi del cuore dell’uomo soffoca molti mali alla loro stessa radice.

Immaginiamo gli Europei del quindicesimo secolo, quando invasero le Indie orientali ed occidentali, abbandonarsi senza alcun freno all’impulso della cupidigia e ai capricci dell’arbitrio, con tutto l’orgoglio del conquistatore e il disprezzo che dovevano ispirar loro gl’Indiani per l’inferiorità delle conoscenze e per la mancanza di civiltà e di cultura. Che sarebbe accaduto? Se i popoli conquistati hanno sofferto tanto nonostante i continui ammonimenti della religione, e la sua influenza sulle leggi e sui costumi, il male non sarebbe forse giunto ad un eccesso intollerabile senza l’intervento di queste cause potenti che lo avversavano continuamente, ora prevenendolo ed ora diminuendolo? I popoli conquistati sarebbero stati ridotti in massa alla schiavitù e sarebbero stati tutti condannati ad una degradazione perpetua; e sarebbero stati privati per sempre anche dalla speranza di entrare un giorno nel contesto dei popoli civili.

È certamente deplorevole quanto hanno fatto gli Europei agli uomini di altre razze; come è deplorevole ciò che alcuni di essi vanno tuttora facendo; ma almeno non si potrà dire

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che la religione cattolica non si sia opposta con tutte le forze a così grandi eccessi, né potrà dirsi che il Capo della Chiesa abbia lasciato passare alcuni di questi mali senza che vi alzasse la voce contro, e senza ricordare i diritti dell’uomo e condannare l’ingiustizia; senza esecrarne la crudeltà e perorare la causa del genere umano, non facendo alcuna distinzione tra razze, climi o colori.

Da dove viene mai all’Europa questo pensiero sublime, questo sentimento generoso, che la spingono a dichiararsi in un modo così risoluto contro il commercio di uomini, e la portano alla totale abolizione della schiavitù nelle colonie? Quando la posterità ricorderà questi fatti tanto gloriosi per l’Europa, quando li annoterà per fissare un’epoca nuova negli annali della civiltà del mondo, quando cercherà e analizzerà le cause che portarono a un così alto grado la legislazione e i costumi europei; quando, sollevandosi al di sopra di cause piccole e passeggere, di circostanze di minima entità, di fattori molto secondari, vorrà cercare il principio vitale che ha dato l’impulso alla civiltà europea fino a giungere ad un traguardo così glorioso, troverà che questo principio è il Cristianesimo. E quando deciderà di indagare ancor più profondamente la materia, quando investigherà se fu il Cristianesimo sotto una forma vaga e generale, il Cristianesimo senza autorità, il Cristianesimo senza il Cattolicesimo, ecco quanto le insegnerà la storia: che il Cattolicesimo, dominando da solo ed esclusivamente in Europa, abolì la schiavitù nelle razze europee. Il Cattolicesimo poi introdusse nella civiltà europea il principio dell’abolizione della schiavitù, manifestando con i fatti che questa non era necessaria alla società, come si era creduto anticamente, e che per sviluppare una civiltà migliore e benefica era necessario cominciare dall’opera santa dell’emancipazione. Il Cattolicesimo instillò quindi nella civiltà europea il principio dell’abolizione della schiavitù; e ad esso siamo debitori se, ovunque questa civiltà abbia convissuto con gli schiavi, si sia sempre provato un profondo malessere che indicava chiaramente che alla radice delle cose vi erano due princìpi opposti, due elementi in lotta, che dovevano combattersi senza sosta finché, prevalendo il più potente, il più nobile e fecondo, potesse aver ragione dell’altro: lottando per soggiogarlo, e non desistendo che dopo averlo del tutto annientato. Ma c’è di più: quando si vorrà scrutare se in realtà i fatti vengono a confermare questa influenza del Cattolicesimo, non solo rispetto alla civiltà europea, ma anche dei paesi conquistati dagli Europei nei tempi moderni, tanto in Oriente che in Occidente, si presenterà subito l’influenza esercitata da prelati e sacerdoti cattolici nel mitigare la sorte degli schiavi nelle colonie, si rammenterà quanto si deve alle missioni cattoliche, e finalmente si esibiranno le lettere apostoliche di Pio II, spedite nel 1482 ricordate sopra, quelle di Paolo III nel 1537, quelle di Urbano VIII nel 1639, quelle di Benedetto XIV nel 1741, e quelle di Gregorio XVI nel 1839.

Leggendo queste lettere si scoprirà che tutto quanto si è mai detto su questo tema, e tutto quanto si potrà mai dire a favore dell’umanità è stato già in esse insegnato e definito; vi si troverà ripreso, condannato, castigato ciò che la civiltà europea ha finalmente deciso di condannare e castigare. E quando ci si ricorderà che fu ancora un Papa, Pio VII, che nel secolo presente interpose con zelo la sua mediazione e i suoi buoni uffici con potenti personalità perché cessasse totalmente il commercio dei negri da parte dei Cristiani, non si potrà fare a meno di riconoscere ed ammettere che il Cattolicesimo ha avuto la parte principale in questa grande opera. Infatti è il Cattolicesimo ad aver stabilito il principio su cui essa si fonda, che ha stabilito i precedenti che la guidano, ha proclamato incessantemente le dottrine che la ispirano, ha condannato sempre quelle che le si opponevano, e si è

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dichiarato in ogni tempo in guerra aperta contro la crudeltà e la cupidigia che accompagnavano l’ingiustizia e la violenza, e le fomentavano.

Il Cattolicesimo dunque ha compiuto alla perfezione la sua missione di pace e di amore, spezzando, senza ricorrere a ingiustizie e provocare disastri, le catene in cui gemeva sotto la schiavitù una parte dell’umana; e le spezzerebbe definitivamente in tutta la terra, se potesse governare per un certo tempo in Africa e in Asia, facendo sparire l’abominazione e l’avvilimento introdotti e radicati in quei disgraziati paesi dall’Islamismo e dall’idolatria.

E’cosa dolorosa, in verità, che il Cristianesimo non abbia tuttavia esercitato su quei paesi sfortunati tutta l’influenza che sarebbe stata necessaria per migliorare la condizione sociale e politica degli abitanti mediante un cambiamento di idee e di costumi; ma se si cercano le cause di un ritardo così marcato non si troveranno sicuramente nel Cattolicesimo. Non è questo il momento di parlarne, ma riservandomi di farlo più in là, dirò intanto che il Protestantesimo ha di questo fatto una grande responsabilità per gli ostacoli che, come mostrerò a suo tempo, ha frapposto all’influenza universale ed efficace del Cristianesimo sulle nazioni infedeli. Mi propongo di esaminare ponderatamente una materia di tanta importanza quale è questa in un altro punto di quest’opera, e perciò mi accontento per ora di questo accenno. (16) È ben difficile riuscire a credere a qual punto giunsero gli antichi nel travisare il principio riguardante il rispetto dovuto all’uomo, e sembra incomprensibile che arrivassero a non tenere alcun conto della vita di un individuo che non potesse essere di alcun vantaggio alla società; eppure non vi è cosa più certa di questa. Sarebbe già deplorevole se questa o quella città dell’antichità avesse stabilito una legge spietata, o se per un motivo qualunque vi si fosse introdotta un’usanza atroce: anche se ciò fosse, qualora la filosofia avesse protestato contro tali iniquità, la ragione umana sarebbe rimasta senza macchia, e non si potrebbe imputarle, senza commettere ingiustizia, che prendesse parte nelle azioni nefande dell’aborto e dell’infanticidio. Ma quando troviamo il delitto difeso e insegnato dai più autorevoli filosofi dell’antichità, quando lo vediamo trionfare nella mente degli uomini più illustri, e sentiamo loro stessi prescrivere queste atrocità con una tranquillità e serenità spaventosa, la mente si offusca, il sangue si gela nelle vene e chiunque vorrebbe bendarsi gli occhi per non vedere umiliate da tanta ignominia e brutalità la filosofia e la ragione umana. Ascoltiamo Platone nella sua Repubblica, in quel libro in cui si proponeva di unire le teorie più brillanti, secondo lui, e nello stesso tempo le più adatte per arrivare al bello ideale della società umana. «È necessario – dice uno degli interlocutori del dialogo, – è necessario, secondo i nostri princìpi, fare in modo che tra gli uomini e le donne di razza migliore i rapporti sessuali siano frequenti, e rarissimi invece tra quelli che valgono meno. Inoltre bisogna allevare i figli dei primi, ma non dei secondi, se si vuole avere un gregge sceltissimo. È necessario infine che i soli magistrati abbiano conoscenza di tali misure, al fine di evitare, per quanto sia possibile, la discordia nel gregge». «Benissimo, sì»: risponde un altro interlocutore. (Plat. Rep. Lib. 5).

Ecco ridotta la specie umana alla semplice condizione delle bestie; il filosofo fa benissimo a servirsi della parola gregge, anche se in verità i magistrati, imbevuti di tali dottrine, erano senz’altro più duri con i loro sudditi di quanto non lo sia un pastore col suo gregge. No! Il pastore che fra gli agnellini appena nati ne trova uno debole o storpio, non lo uccide, né lo lascia morire di fame: portandolo in braccio lo accarezza amorevolmente per calmare il tenero belare e lo avvicina alla pecorella che lo nutra col suo latte.

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Ma queste parole non saranno forse sfuggite al filosofo in un momento di distrazione? Il pensiero che rivelano, non potrà essere visto come una di quelle sinistre ispirazioni che scorrono per un attimo nella mente dell’uomo senza lasciare alcuna traccia, allo stesso modo di un rettile spaventato che striscia serpeggiando in una ridente prateria? Vorremmo che fosse così per l’onore di Platone; ma disgraziatamente egli stesso ci toglie ogni possibilità di giustificarlo, perché insiste sempre sulla stessa cosa con una freddezza sistematica. «In quanto ai figli dei cittadini di inferiore qualità – riprende più avanti, – ed anche per quelli degli altri, qualora fossero nati deformi, i magistrati li occulteranno come conviene in qualche luogo segreto, che sarà proibito di rivelare». E un altro interlocutore risponde: «Sì, se vogliamo conservare nella sua purezza la razza dei guerrieri».

La voce della natura nel cuore del filosofo protestava contro questa orribile dottrina; gli si presentavano alla mente le madri che reclamavano i figli appena nati, e per questo dispone il segreto e prescrive che solo i magistrati abbiano conoscenza del luogo fatale, per evitare la discordia nella città. Così egli ne fa tanti perfidi assassini che ammazzano e nascondono subito la vittima nelle viscere della terra.

Platone continua prescrivendo varie regole riguardanti le relazioni tra i due sessi, e parlando del caso in cui l’uomo e la donna siano giunti ad un’età alquanta avanzata, ci presenta il seguente passo scandaloso: «Quando l’uno e l’altro sesso hanno passato l’età per avere figli lasceremo agli uomini la libertà di continuare con le donne quelle relazioni che vogliono eccetto però con le loro figlie, madri, nipoti e nonne; e alle donne lasceremo la medesima libertà con gli uomini; e raccomanderemo loro in modo particolare di usare ogni cautela perché non ne nasca alcun frutto: se nonostante tali cautele ne nasce qualcuno, lo espongano, perché lo stato non s’incarica di mantenerlo». Platone, a quanto pare, era molto soddisfatto della sua dottrina, perché in quello stesso libro dove scriveva quanto abbiamo letto fin qui, proferisce quella sentenza divenuta poi tanto famosa, cioè che ai mali degli stati non si rimedierà mai, e le società non saranno mai ben governate, fino a quando i filosofi non giungano a diventare re, o i re filosofi. Dio ci liberi dal vedere sul trono una filosofia come la sua! Del resto, quel suo desiderio del regno della filosofia nei tempi moderni è divenuto realtà, e più ancora del regno, anche la sua glorificazione, fino a tributarle in un pubblico tempio l’omaggio dovuto alla divinità. Ciò nonostante io non credo che siano molti coloro che rimpiangano gli infausti giorni del Culto della Ragione.

L’orribile insegnamento che abbiamo letto in Platone veniva trasmesso fedelmente alle scuole successive. Aristotele, che in tanti punti si prese la libertà di allontanarsi dalle dottrine del suo maestro, non pensò di correggerle per quanto riguarda l’aborto e l’infanticidio. Nella Politica, infatti, insegna gli stessi delitti con la medesima tranquillità di Platone.

«Per evitare – egli dice – di allevare le creature deboli e storpie, la legge deve ordinare che si espongano o si tolgano di mezzo. Nel caso in cui ciò fosse proibito dalle leggi e dalle consuetudini di alcuni popoli, sarà necessario fissare il numero dei figli che si possono procreare; e se mai accadesse che stiano per nascerne in più del numero prescritto, si deve procurare l’aborto prima che il feto abbia acquistato i sensi e la vita». (Aristotele, Polit. lib 7 cap. 16). Si veda ora con quanta ragione ho detto che tra gli antichi l’uomo come uomo era stimato nulla; che la società lo assimilava completamente, che su di lui si arrogava diritti ingiusti e che lo considerava come uno strumento da valersene se era utile, e ritenendosi in diritto di disfarsene qualora non lo fosse.

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Negli scritti degli antichi filosofi la sociètà è considerata come un tutto unico al quale gli individui appartengono come gli atomi ad una massa di ferro che da essi è composta. Non si può negare che l’unità è un grande bene delle società, e che fino a un certo punto è una vera necessità; ma questi filosofi s’immaginano un tipo di unità alla quale si debba tutto sacrificare senza alcun riguardo alla sfera individuale, e senza riflettere che lo scopo della società è il bene e la felicità delle famiglie e degli individui che la compongono. Secondo loro questa unità è il bene principale a cui nessun altro può paragonarsi, e romperla è il peggiore male che possa accadere e che bisogna evitare con tutti i mezzi immaginabili. «Il maggior male di uno stato – dice Platone – non è forse quello che lo divide, e che di uno ne fa molti? E il maggior bene non è forse quello che unisce tutte le sue parti e lo costituisce uno?» Fondandola su questo principio si sviluppa la sua teoria, e prendendo le famiglie e gli individui, li impasta, per così dire, perché diano un tutto compatto: l’uno. Per questo, oltre alla comunione di educazione e di vita, vuole anche la comunione delle mogli e dei figli; considera come un male che vi siano dei piaceri o dei patimenti personali, e vuole tutto in comune, nella società. Non permette che gli individui vivano, pensino, sentano, operino, se non come parti del gran tutto. Si legga attentamente la sua Republica, e in particolare il quinto libro, e si vedrà che questo è il pensiero dominante nel sistema di quel filosofo.

Sentiamo Aristotele sullo stesso argomento: «Siccome il fine della società è uno, così è chiaro che l’educazione di tutte le sue membra deve necessariamente essere una e la stessa. L’educazione dovrebbe esser pubblica e non privata come accade adesso che ognuno ha cura dei suoi figli ed insegna loro ciò che più gli piace. Ogni cittadino è una particella della società, e la cura di una particella deve naturalmente essere diretta a ciò che richiede il tutto» (Aristot. Polit. lib. 8. cap. I).

Per farci capire come egli intende questa educazione comune, conclude col lodare quella che veniva impartita a Sparta, e che, come ognuno sa, consisteva nel soffocare tutti i sentimenti tranne quello di un patriottismo feroce, il cui ricordo ci fa fremere ancora.

No: nelle nostre idee e nei nostri costumi non c’è questo concetto di società. Gli individui sono vincolati ad essa, ne formano parte; ma senza perdere la propria individualità, né quella della loro famiglia; e godono di un vasto campo in cui poter esercitare la loro azione senza urtare il colosso della società. Il patriottismo esiste ancora; ma non è una passione cieca e di puro istinto che spinga l’uomo al sacrificio come una vittima con gli occhi bendati. È un sentimento ragionevole, nobile, sublime, che forma eroi come quelli di Lepanto e di Bailen, che converte in leoni i pacifici cittadini, come a Girona e a Saragozza, che come una scintilla accende un popolo intero non prevenuto e inerme e gli fa cercar la morte davanti alle bocche da fuoco di un esercito numeroso e agguerrito, come avvenne a Madrid con il sublime Moriamo!… di Daoiz e di Velarde.

Nel testo ho anche accennato che presso gli antichi la società si riteneva in diritto d’immischiarsi in tutti gli affari dell’individuo; e si può aggiungere anche che le cose arrivavano ad un punto tale da finire nel ridicolo. Chi direbbe mai che la legge si sarebbe intromessa nell’alimentazione di una donna incinta, e nell’ordinare l’esercizio fisico che le conveniva fare? «Conviene – dice gravemente Aristotele – che le donne incinte abbiano una cura particolare del loro corpo, che non si abbandonino all’indolenza e non prendano cibi troppo leggeri e delicati: e questo l’otterrà facilmente il legislatore, con l’ordinare e comandare che facciano tutti i giorni una passeggiata per andare a onorare e venerare quelle divinità a cui toccò in sorte di presiedere al concepimento». (Polit. lib. 7, cap. 16).

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Il potere della legge si estendeva su tutto, e in alcuni luoghi doveva essere proibito perfino il pianto di un bambino, se lo stesso Aristotele dice: «Non fanno bene quelli che per mezzo delle leggi proibiscono ai bambini di gridare e di piangere: le grida e il pianto servono ai bambini di esercizio, e li aiutano a crescere. Questo sforzo naturale serve loro di sfogo, e dà forza a quelli che si trovano in angustie». (Polit. lib. 7. cap. 17).

Queste dottrine degli antichi e questo modo di considerare le relazioni dell’individuo con la società spiegano molto bene perché presso di essi le caste e la schiavitù erano viste come cosa naturalissima. Di cosa dobbiamo meravigliarci nel vedere intere razze prive di libertà, o ritenute incapaci di aspirare a condizioni migliori, quando vediamo condannare a morte tanti innocenti nascituri senza che i coscienziosi filosofi lascino trasparire neanche il minimo scrupolo sulla legittimità di un atto così disumano? E questo non significa che essi, anche se a loro modo cercavano la felicità come fine della società, avevano tuttavia idee mostruose riguardo ai mezzi per conseguirla?

Anche da noi si apprezza molto la conservazione dell’unità sociale, anche noi consideriamo l’individuo parte della società, e che in certi casi deve sacrificarsi per il pubblico bene; ma nello stesso tempo consideriamo sacra la sua vita, per quanto possa essere inutile, miserabile e debole, e reputiamo un omicidio tanto l’uccisione di un bambino che ha appena visto la luce, ed anche se non l’ha ancora vista, quanto l’assassinio di un uomo nel fiore degli anni. Oltre a ciò consideriamo che gl’individui e le famiglie hanno certi diritti che la società deve rispettare, e certe intimità in cui essa non deve intromettersi; e quando si richiedono dolorosi sacrifici, sappiamo che devono essere precedentemente giustificati da una vera necessità. Soprattutto crediamo che la giustizia e la morale devono regnare nelle azioni della società come in quelle dell’individuo; e siccome riguardo all’individuo rigettiamo il principio dell’interesse privato, così non lo ammettiamo neanche per la società. Noi non ammettiamo il principio che la salvezza del popolo è la suprema legge, se non con le debite restrizioni e condizioni, senza che per questo i veri interessi della società debbano ricevere danno. Quando questi interessi sono bene intesi, non si oppongono alla sana morale; e se alcune circostanze passeggere producono talvolta una tale opposizione, essa non è che apparente, perché ridotta com’è a pochi momenti e in limiti ristretti, non impedisce che alla fine i due interessi risultino in armonia, e che non sia compensata in abbondanza l’utilità, che viene sacrificata sull’altare degli eterni princìpi della morale. (17) Il lettore mi dispenserà dall’entrare nei particolari sullo stato abbietto e vergognoso della donna presso gli antichi, ed anche presso i popoli moderni dove non regna il Cristianesimo; perché quando se ne vorrebbe presentare alcuni tratti caratteristici le severe leggi del pudore intervengono continuamente a trattenere la penna,. Basti dire che la confusione delle idee era tanto incredibile, che anche gli uomini più distinti per serietà e prudenza, su questo punto farneticavano in una maniera stupefacente. Lasciamo da parte i mille esempi che si potrebbero portare, ma chi non conosce lo scandaloso parere del savio Solone sullo scambio delle mogli per migliorare la razza? Chi non arrossisce nel leggere quanto dice il divino Platone nella Repubblica sulla convenienza e sul modo con cui le donne prendano parte nei giuochi pubblici? Ma tiriamo un velo su questi fatti tanto vergognosi per l’umana sapienza, la quale chiudeva gli occhi sui primi elementi della morale e sui più forti suggerimenti della natura. Quando la pensavano così i più grandi legislatori e i saggi, cosa doveva poi accadere tra il popolo? Quanto vere sono le parole del sacro Testo, che ci presentano i popoli privi della divina luce del Cristianesimo, come seduti nelle

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tenebre e nelle ombre della morte! La cosa da temersi maggiormente per la donna è ciò che offende il pudore, che è

anche quella che la porta alla degradazione. Ma anche il potere illimitato concesso all’uomo su di lei può contribuire a questo avvilimento. Riguardo a questo la donna si trovava in una condizione così penosa che in molti luoghi la sua condizione era quella di una vera schiava. Lasciamo da parte i costumi degli altri popoli, e fermiamoci un momento su quelli dei Romani, dove la formula, Ubi tu Cajus, ego Caja, pare che indichi una dipendenza tanto minima che sembra avvicinarsi all’uguaglianza. Per valutare bene il valore di questa uguaglianza basti rammentare che un marito romano credeva di avere la facoltà anche di dare la morte alla moglie, e non già solamente in caso di adulterio, ma anche per colpe molto meno gravi. Al tempo di Romolo fu assolto da un delitto Ignazio Mecenio, il quale non aveva avuto altro motivo per commetterlo che l’aver sua moglie avuto la debolezza di assaggiare il vino in cantina. Questi fatti sono rappresentativi di un popolo; e anche se diamo tutta l’importanza che si voglia alla preoccupazione dei Romani che le loro matrone non si dessero al vino, la dignità della donna non guadagna molto da simili consuetudini. Quando Catone prescriveva l’affettuosa usanza tra parenti di darsi un bacio, con lo scopo, come riferisce Plinio, di sapere se le donne sapevano di vino (an temetum olerent), dimostrava certamente la sua severità e il suo zelo, ma oltraggiava villanamente la reputazione di quelle stesse donne di cui si proponeva di conservare la virtù. Vi sono dei rimedi peggiori del male.

In quanto al merito dell’indissolubilità del matrimonio proclamata e mantenuta dal Cattolicesimo, sarebbe facile per me avvalorare in mille modi ciò che ho detto nel testo: ciò nonostante mi limiterò, per essere brevi, ad inserire qui un passo importantissimo di Madame de Staël, la quale dimostra quanto siano state funeste alla morale pubblica le dottrine dei Protestanti. Questa testimonianza è molto più incisiva, non solamente per essere stata scritta da una Protestante, ma anche perché riguarda i costumi di un paese che essa stimava ed ammirava tanto: «L’amore in Germania è una religione, ma una religione poetica che tollera con eccessiva facilità tutto ciò che la sensibilità può scusare. Non può negarsi che nelle province protestanti la facilità del divorzio attacca la santità del matrimonio. Si cambia il coniuge con tanta tranquillità, come se non si trattasse d’altro che di sistemare le vicende di un dramma: la buona indole degli uomini e delle donne fa sì che queste facili separazioni si portino a termine senza contrarietà; e siccome nei tedeschi vi è più immaginazione che vera passione, da loro gli avvenimenti più strani avvengono con la maggiore tranquillità del mondo. Ciò nonostante questo fa perdere tutta l’importanza ai costumi e al carattere; lo spirito di esagerazione indebolisce le istituzioni più sacre, e in nessuna materia vengono mantenute regole abbastanza stabili» (Dell’Allemagna per Madama di Staël, parte I, cap. 3). Si vede dunque che il Protestantesimo, attaccando la santità del matrimonio, aprì nei costumi una piaga profonda. Ho già indicato che il male non fu tanto grave quanto si poteva temere perché il buon senso del popoli europei, formato dall’insegnamento del Cattolicesimo, non permise loro di abbandonarsi oltremisura alle funeste dottrine della pretesa riforma. Ho dette queste cose con molto piacere, ma è necessario tuttavia ricordare le importantissime considerazioni della celebre letterata: La santità del matrimonio attaccata dal divorzio, il facile e tranquillo cambio di sposi, la perdita d’importanza dei costumi e del carattere, la rovina delle istituzioni più sacre, la mancanza di regole fisse in ogni materia. Se così parlano gli stessi Protestanti, sarà difficile che a noi Cattolici si possa dar la taccia di esagerare quando descriviamo i mali arrecati dalla

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riforma. (18) La filosofia anticristiana ha avuto senz’altro un notevole peso in questo capriccio di voler trovare nei barbari l’origine della nobilitazione della donna europea, e degli altri princìpi di civiltà. Infatti, trovata che fosse nei boschi della Germania la fonte di tante belle qualità, veniva spogliato il Cristianesimo di una buona parte dei suoi meriti, e veniva distribuita tra molti quella gloria che è sua, completamente sua. Non negherò che i Germani di Tacito sono alquanto poetici, ma non è credibile che i veri Germani lo fossero molto. Alcuni passi citati nel testo dànno gran peso a questa ipotesi; ma io non trovo mezzo più acconcio a dissipare qualunque illusione, quanto il leggere la storia dell’invasione dei barbari, e soprattutto quella che è stata scritta da testimoni oculari. La quale, invece di riuscire poetica, diventa piuttosto estremamente ripugnante. Quella serie interminabile di popoli sfila innanzi agli occhi del lettore come una spaventosa visione in un sonno agitato; e certamente la prima idea che si presenta nel contemplare quel quadro, non è quella di cercare nelle orde irruenti l’origine delle qualità della civiltà moderna, ma invece la terribile difficoltà di spiegare come si riuscì a sbrogliare tale caos, e come si riuscì a trovare il modo per far sorgere da tanta brutalità la più bella e brillante civiltà che mai fu vista sulla terra. Tacito sembra entusiasta dei barbari, ma Sidonio che scriveva essendo a loro vicino, che li vedeva, che li sopportava, non condivideva di certo simile entusiasmo. «Io mi trovo – diceva – in mezzo ai popoli dalla lunga capigliatura, costretto a sentire il linguaggio del Germano, e ad applaudire, per quanto mi costi, al canto del borgognone ubriaco e con i capelli impiastricciati di grasso rancido. Felici i vostri occhi che non li vedono, felici le vostre orecchie che non li sentono!» Se me lo permettesse lo spazio sarebbe facile mettere insieme un’infinità di testi che dimostrerebbero in modo lampante cosa erano i barbari, e cosa ci si poteva aspettare da loro in tutti i sensi. Quello che ne risulta più chiaro della luce del giorno è il disegno della Provvidenza di servirsi di quei popoli per distruggere l’impero romano e per cambiare l’aspetto del mondo. Pare che costoro nelle invasioni avessero un sentimento della loro terribile missione. Marciano, avanzano, e non sanno dove vadano; ma non ignorano però che vanno a distruggere. Attila si faceva chiamare il flagello di Dio, funzione tremenda che lo stesso barbaro espresse con queste altre parole: «La stella cade, la terra trema, io sono il martello del mondo. Dove passa il mio cavallo, non cresce più erba ». Alarico, marciando verso la capitale del mondo, diceva: «Non posso trattenermi: c’è qualcuno che mi spinge e che mi stimola a saccheggiare Roma». Genserico fa preparare una spedizione navale, le sue orde già sono a bordo, egli stesso s’imbarca, nessuno sa verso qual punto si dirigeranno le vele: il pilota si accosta al barbaro e gli dice: «Signore, a quali popoli volete portare la guerra?» «A quelli che hanno provocato la collera di Dio», risponde Genserico.

Se in quella catastrofe non si fosse trovato il Cristianesimo, in Europa la civiltà sarebbe stata perduta e annientata forse per sempre. Ma una religione di luce e di amore doveva trionfare sull’ignoranza e sulla violenza. Al tempo della catastrofe delle invasioni impedì già molti disastri grazie all’ascendente che cominciava ad esercitare sui barbari; e passato appena il periodo più critico della lotta, e i conquistatori si furono alquanto assestati, mise in campo un sistema di azioni tanto vasto, efficace e decisivo, che i vincitori si trovarono vinti non dalla forza delle armi, ma dalla carità. Non era in potere della Chiesa prevenire l’invasione: Dio aveva decretato così, e il decreto doveva avere il suo compimento; così il pio monaco che andò incontro ad Alarico mentre questi si dirigeva

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verso Roma, non poté trattenerlo nel suo andare, perché il barbaro risponde di non potersi fermare in quanto vi è chi lo spinge e lo fa andar avanti contro la sua volontà. Ma la Chiesa aspettava i barbari dopo la conquista: essa ben sapeva che la Provvidenza non avrebbe abbandonata l’opera sua, e che la speranza dei popoli nel futuro era nelle mani della Sposa di Gesù Cristo; così Alarico marcia alla volta di Roma, la saccheggia, la demolisce; ma all’incontro con la religione si trattiene, si calma, ed assegna come luoghi di asilo le chiese di S. Pietro e di S. Paolo. Fatto importantissimo che simboleggia in modo sublime la religione cristiana che preserva l’universo dalla rovina totale. (19) Il grande beneficio concesso alla società moderna del formarsi di una retta coscienza pubblica, può essere apprezzato in sommo grado se confrontiamo le nostre idee morali con quelle di tutti gli altri popoli antichi e moderni. Rimarrebbe così dimostrato in quale deplorevole modo si corrompono i buoni princìpi quando sono affidati alla ragione dell’uomo. Con tutto ciò mi accontenterò di dire due parole sugli antichi perché si veda con quanta verità ho affermato che i nostri costumi, per quanto corrotti siano, sarebbero sembrati ai pagani un modello di moralità e di decoro. I templi consacrati a Venere a Babilonia e a Corinto ricordano abominazioni per noi incomprensibili. La passione divinizzata esigeva sacrifici degni di lei: ad una divinità senza pudore corrispondeva il sacrificio del pudore; e veniva dato il santo nome di tempio ad una casa della più sfrenata licenza senza neanche un velo per coprire le peggiori dissolutezze. E’nota la maniera con cui le fanciulle di Cipro si procuravano la dote per maritarsi; e nessuno ignora i misteri di Adone, di Priapo e di altre immonde divinità. Vi sono vizi che tra i moderni sono in certo qual modo privi di nome; e se lo hanno, va accompagnato dal ricordo di un orrendo castigo abbattutosi su città colpevoli. Leggete gli antichi scrittori che ci illustrano i costumi dei loro tempi: il libro vi cade dalle mani. In questo campo bisogna accontentarsi di qualche accenno che risvegli nei lettori il ricordo di ciò che mille volte li avrà sdegnati ed offesi nel leggere la storia e nello studiare la letteratura dell’antichità pagana. L’autore si vede costretto a limitarsi a pochi ricordi, e si astiene dal descrivere. (20) Poiché oggi si dà grande importanza alla forza delle idee, alcuni forse penseranno che io abbia esagerato parlando della loro debolezza, non solo riguardo all’influenza che hanno sulla società, ma anche alla loro stessa conservazione; la quale sarà sempre precaria qualora le idee, restando nel proprio àmbito, non si concretizzino in qualche istituzione che faccia loro da mezzo di diffusione, e che inoltre servano di riparo e di difesa. Sono ben lontano, come ho già detto chiaramente nel testo, dal negare o dal mettere in dubbio quella che viene chiamata la forza delle idee; e mi propongo soltanto di affermare che esse possono fare poco da sole, e che la scienza propriamente detta è una cosa molto meno importante di quanto generalmente si crede, per quanto riguarda l’ordine intrinseco della società. Questa dottrina è intimamente connessa con la condotta della Chiesa cattolica, la quale, sebbene abbia sempre favorito lo sviluppo dello spirito umano per mezzo della diffusione delle scienze, ciò nonostante ha assegnato a queste un posto secondario nella guida della società. La religione non è stata mai in opposizione con la vera scienza, ma non ha neanche mai mancato di manifestare una certa diffidenza in tutto ciò che viene esclusivamente prodotto dal pensiero dell’uomo. E si noti bene, che questa è una delle principali differenze tra la religione e la filosofia del secolo scorso; o diremo meglio, questo era il motivo della forte incompatibilità che regnava tra loro. La prima non condannava la scienza, anzi l’amava, la proteggeva, la spronava; ma nello stesso tempo le segnava i confini, l’avvertiva che in certi punti era cieca,

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e le diceva che in certe azioni sarebbe impotente, in altre distruttrice e funesta. La seconda proclamava ad alta voce la sovranità della scienza, la dichiarava onnipotente, la divinizzava, attribuendole forza e valore per cambiare la faccia del mondo, e sufficiente lungimiranza e criterio per confermare un tale cambiamento in favore dell’umanità. Quest’orgoglio della scienza, questa deificazione del pensiero, se si fa caso, è la base della dottrina protestante. Bandita che sia ogni autorità, la ragione è l’unico giudice competente, e l’intelletto riceve direttamente e immediatamente da Dio tutta la luce di cui ha bisogno. Ecco le dottrine fondamentali del Protestantesimo, vale a dire l’orgoglio dell’intelletto.

Si può notare che lo stesso trionfo delle rivoluzioni non hanno per niente smentito le giudiziose prevenzioni della religione; e la scienza propriamente detta, lungi dall’averne guadagnato credito, lo ha piuttosto perduto completamente. Infatti nulla rimane della scienza rivoluzionaria; ciò che resta sono gli effetti della rivoluzione, i vari interessi da essa creati, le istituzioni nate da questi interessi medesimi, le quali hanno cercato immediatamente nello stesso campo della scienza altri princìpi a cui appoggiarsi, molto differenti da quelli che prima erano stati proclamati. Come ho già dimostrato, è tanto vero che ogni idea abbia bisogno di realizzarsi in una istituzione, che le stesse rivoluzioni, guidate dall’istinto che le spinge a conservare più o meno integri i princìpi che le producono, tendono immediatamente a creare queste istituzioni dove si possano perpetuare le dottrine rivoluzionarie, o vi possano avere come un successore e rappresentante, dopo che esse siano scomparse dalle scuole. Questo spunto potrebbe dar luogo a lunghe riflessioni sull’origine e sullo stato attuale di alcune forme di governo in vari paesi d’Europa.

Parlando della rapidità con cui si succedono le une alle altre le teorie scientifiche, e dell’enorme importanza che ha acquisito per via della stampa il metodo della discussione, ho osservato che non era questo un segno infallibile di progresso scientifico, e neanche una prova di fecondità del pensiero tale da portare alla realizzazione di grandi opere, sia in campo materiale che in quello sociale. Ho detto che i grandi pensieri nascono piuttosto dall’intuizione che dal discorso, e ho ricordato fatti e personaggi storici che tolgono ogni dubbio a questa verità. L’ideologia potrebbe portarci prove abbondanti, se ci fosse bisogno di ricorrere alla scienza stessa per provarne la sterilità. Ma il semplice buon senso, ammaestrato dall’insegnamento continuo dell’esperienza, è sufficiente per convincerci che le persone più dotte sui libri, il più delle volte sono non solo mediocri, ma addirittura incapaci nel comando. In quanto a ciò che ho accennato sull’intuizione e sul discorso, mi rimetto al giudizio di quelli che si sono dedicati allo studio dell’intelletto umano, e sono sicuro che la loro opinione non sarà differente dalla mia. (21) Ho attribuito al Cristianesimo la delicatezza dei costumi di cui si gode in Europa. E siccome questa delicatezza tuttora permane, anzi si è ulteriormente elevata ad un più alto livello nonostante nell’ultimo secolo siano decadute le credenze religiose; conviene che ci occupiamo di questa contraddizione che a prima vista sembra demolire le mie conclusioni. Non bisogna dimenticare la differenza (che già nel testo ho sottolineato) tra i costumi rilassati e i costumi delicati; i primi sono un difetto, i secondi una preziosa qualità; i primi derivano dallo snervamento dell’animo, dall’infiacchimento del corpo e dall’amore per i piaceri, i secondi traggono origine dal predominio della ragione, dal prevalere dello spirito sul corpo, dal trionfo della giustizia sulla forza e del diritto sul fatto. Nei costumi attuali vi è una buona parte di effettiva delicatezza, ma non è poca quella che è piuttosto rilassatezza; e

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questa non è certo derivata dalla religione, ma dall’incredulità, la quale non estendendo la sua visione più in là della vita terrena, fa dimenticare gli alti destini dello spirito e perfino l’esistenza stessa, mette l’egoismo al primo posto, risveglia e rafforza continuamente la voglia dei piaceri e rende l’uomo schiavo delle passioni. Ma ciò che i nostri costumi hanno veramente di delicato si riconosce subito che proviene dal Cristianesimo; poiché tutte le idee e i sentimenti nei quali si fonda la delicatezza hanno l’impronta cristiana. La dignità dell’uomo, i suoi diritti, l’obbligo di trattarlo con i dovuti riguardi, di rivolgersi allo spirito con la ragione piuttosto che al corpo con la violenza, la necessità di mantenersi nell’àmbito dei propri doveri rispettando le proprietà e le persone degli altri: tutto questo complesso di princìpi, da cui nasce la vera delicatezza dei costumi, è dovuto all’influenza cristiana. La quale, lottando per molti secoli contro la barbarie e la ferocia dei popoli invasori, giunse a demolire il sistema basato sulla violenza che questi avevano reso comune. Siccome la filosofia ha avuto fretta di cambiare i nomi antichi consacrati dalla religione e confermati dall’uso di molti secoli, avviene che certe idee, per quanto figlie del Cristianesimo, si riconoscono tuttavia a mala pena come tali, perché sono state spogliate della veste originaria e rivestite con una veste mondana. Chi non sa che l’amore reciproco degli uomini, la fratellanza universale, sono idee interamente dovute al Cristianesimo? Chi non sa che l’antichità pagana non le conosceva e neanche le intuiva? Ciò nonostante questo stesso amore che prima si chiamava carità, perché questa era la virtù da cui doveva procedere, ora si veste sempre di altri nomi, come se si vergognasse di comparire in pubblico con l’aspetto religioso. Passata l’ubriacatura di attaccare la religione cristiana, ora si ammette apertamente che dobbiamo ad essa il principio della fratellanza universale; ma il linguaggio è rimasto corrotto dalla filosofia volterriana anche dopo che questa è caduta in totale discredito. Quindi ne risulta che molte volte non apprezziamo a dovere l’influenza cristiana nella società che ci circonda, e attribuiamo ad altre idee e ad altre cause i fenomeni che hanno evidentemente origine dalla religione. La società attuale, per quanto sia indifferente, conserva della religione molto più di quello che comunemente si pensa. Si può paragonare ai discendenti di illustri famiglie, nelle quali i buoni princìpi ed una fine educazione vengono trasmesse come un’eredità di generazione in generazione. Anche in mezzo ai disordini e ai delitti, anche in mezzo all’avvilimento, queste persone conservano nel comportamento e nei gesti qualcosa che ne manifesta la nascita illustre. (22) Ho citato alcune disposizioni conciliari che bastano per dare un’idea del sistema usato dalla Chiesa per riformare e moderare i costumi. Sia in queste pagine che nelle precedenti non sarà sfuggita questa mia propensione ad utilizzare tale genere di testimonianze. Voglio qui precisare che ho proceduto in questo modo per due motivi. Innanzi tutto, trattandosi di mettere a confronto il Protestantesimo col Cattolicesimo, credo che il mezzo migliore per far conoscere il vero spirito del Cattolicesimo, e il suo influsso sulla civiltà europea, sia quello di mostrarlo in azione; e questo si ottiene col presentare i provvedimenti che i Papi e i Concili andavano prendendo secondo le circostanze. In secondo luogo, considerando la strada che gli studi storici vanno seguendo in Europa, divenendo ogni giorno sempre più comune il sistema di ricorrere non alla storia, ma alle testimonianze storiche, conviene tener presente che la raccolta dei Concili è della massima importanza non solo in campo religioso ed ecclesiastico, ma anche in quello sociale e politico; tanto che la storia d’Europa viene mostruosamente mutilata, per meglio dire distrutta completamente, se si prescinde dalle testimonianze che forniscono le raccolte dei Concili. Per questo motivo è utilissimo, e in

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molti casi indispensabile, consultare queste raccolte per quanto ce ne possa scoraggiare la loro smisurata mole e il fastidio che di tanto in tanto si prova imbattendosi in mille cose che per i nostri tempi non presentano alcun interesse. Le scienze, soprattutto quelle che hanno per oggetto la società, non ci fanno mai arrivare a risultati soddisfacenti se non dopo penose fatiche; l’utile si trova spesso mescolato e confuso con l’inutile; la cosa più preziosa si scopre talvolta accanto ad un oggetto ripugnante: ma l’oro, si trova forse in natura senza prima aver rivoltato masse informi di terra?

Coloro che hanno preteso di aver rintracciato tra i barbari del Nord il seme di alcune qualità preziose della civiltà europea, non potevano sottrarsi dall’attribuir loro anche la delicatezza dei costumi moderni, considerato che a conferma di tale paradosso potevano servirsi di un fatto sicuramente alquanto più seducente in apparenza di quello di cui si sono serviti per attribuire ai Germani la nobilitazione della donna in Europa. Parlo della nota usanza di astenersi, per quanto potevano, dall’applicare pene corporali, e di castigare con semplici multe anche i più gravi delitti. Non c’è cosa più conveniente per indurci a credere che quei popoli avessero una felice disposizione alla delicatezza dei costumi, visto che nella loro stessa barbarie si servivano con tanta moderazione del diritto di castigare, superando in tal senso le nazioni più colte e civili. Considerata la cosa sotto questo aspetto, sembra piuttosto che con l’influenza cristiana i costumi dei barbari divenissero più duri e non più delicati, perché l’applicazione di pene corporali divenne comune, come anche la pena di morte.

Ma se consideriamo con attenzione questa particolarità del codice penale dei barbari, ci accorgeremo che invece di costituire un progresso nella civiltà e nella delicatezza dei costumi, è piuttosto la prova più evidente di un regresso, in quanto è il più forte indizio della durezza e ferocia che regnava tra loro. Primo: proprio perché tra i barbari si castigavano i delitti per mezzo di multe o, come si diceva, per composizione, risulta evidente che la legge era concepita più come riparazione di un danno che come castigo di un delitto; il che dimostra ampiamente quanto fosse poco considerata la qualità morale dell’azione, non badando tanto a ciò che era in se stessa, quanto al danno che procurava. Questo non è un elemento di civiltà, ma di barbarie, perché tende addirittura a bandire dal mondo la moralità. La Chiesa combatté questo principio, funesto sia per l’ordine pubblico quanto per il privato, introducendo nel diritto penale un nuovo ordine di idee che ne cambiò interamente lo spirito. Su questo fatto Il Sig. Guizot ha reso alla Chiesa cattolica la dovuta giustizia, e qui ho il piacere di riconoscere e sottoscrivere un tale omaggio, riportando le sue stesse parole. Dopo aver fatto notare la differenza che corre tra le leggi dei Visigoti (formulate in gran parte durante i Concili di Toledo) e le altre leggi barbare, e dopo aver notata l’immensa superiorità delle idee della Chiesa in materia di legislazione e giustizia, e per quanto concerne la ricerca della verità e il destino degli uomini, dice: «In materia penale la relazione delle pene con i delitti è determinata (nelle leggi dei Visigoti) da nozioni filosofiche e morali abbastanza corrette. Vi si riconosce la mano di un legislatore illuminato che ha a che fare con la violenza e la sconsideratezza dei costumi barbari, Il titolo De caede, et morte hominum, confrontato con le leggi corrispondenti degli altri popoli, ne costituisce un pregevole esempio. Nelle altre legislazioni sembra quasi che solo il danno determini il delitto, e lo scopo della pena è la riparazione materiale che risulta dalla composizione. Qui invece il delitto è ricondotto al suo effettivo elemento morale, che è l’intenzione. I diversi gradi del crimine: l’omicidio volontario, l’omicidio per inavvertenza, l’omicidio provocato,

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l’omicidio con premeditazione o senza, sono distinti e definiti quasi altrettanto bene che nei nostri codici; e le pene variano con una proporzione abbastanza equa. Ma la giustizia del legislatore è andata oltre. Egli ha cercato, se non di abolire, almeno di attenuare le differenze di classe in senso legale, che nelle altre leggi barbare erano stabilite fra gli uomini. La sola distinzione che ha mantenuta è quella tra l’uomo libero e lo schiavo. Riguardo agli uomini liberi, la pena non varia né secondo l’origine, né secondo il grado dell’ucciso, ma unicamente secondo i diversi gradi di colpevolezza dell’uccisore. In quanto agli schiavi, non osando di togliere del tutto ai padroni il diritto di vita e di morte, si è almeno tentato di restringerlo con l’assoggettarlo a un procedimento pubblico regolare. Il testo della legge merita di essere citato.

«“Se non deve rimanere impunito nessun colpevole o complice di un delitto, a maggior ragione dev’essere castigato ehi ha commesso un omicidio per malvagità o con leggerezza. Per cui, essendovi alcuni padroni che nella loro arroganza dànno la morte ai loro schiavi senza che questi abbiano commessa alcuna mancanza, è necessario estirpare del tutto un tale abuso, e stabilire che la presente legge sia sempre osservata da tutti. Nessun padrone o padrona potrà dare la morte a un suo schiavo maschio o femmina, né ad altri suoi dipendenti, se prima non siano stati sottoposti ad un pubblico processo. Se uno schiavo o altro servo commette un delitto che possa meritargli la pena capitale, il padrone o l’accusatore daranno immediatamente notizia dell’accaduto al giudice del luogo dove è stato commesso il delitto, oppure al conte o al duca. Dopo che si è svolto il processo, se il delitto resta provato, il reo subirà la pena di morte o per sentenza del giudice stesso, o per quella del proprio padrone; ma se dovesse accadere che il giudice non possa occuparsi dell’esecuzione, metterà per iscritto la sentenza di pena capitale, e a quel punto il padrone sarà libero di uccidere lo schiavo o di perdonarlo. In verità, se lo schiavo per una fatale impudenza, resistendo al suo signore ha tentato di ferirlo con un’arma o una pietra od altro, e questi difendendosi uccide nella sua collera lo schiavo, non andrà soggetto alla pena di omicidio, ma dovrà provare che il fatto sia accaduto in questo modo, mediante la testimonianza o per giuramento degli schiavi maschi o femmine eventualmente presenti, o per giuramento dell’autore del fatto. Chiunque per pura malvagità ucciderà il suo schiavo di propria mano o per mano d’altri senza che l’esecuzione sia stata preceduta da un processo, sarà dichiarato infame, incapace di servire da testimone, e obbligato a passare il resto dei suoi giorni in esilio e nella penitenza, cedendo i suoi beni ai parenti più prossimi chiamati dalla legge a succedergli” (For. Jud. lib. 6. tit. 5. lib. 12)» (Guizot, Storia generale della civiltà europea, lez. 6).

Ho riportato con grande piacere questo testo del Sig. Guizot perché conferma ciò che ho detto qui e nei capitoli precedenti sull’influenza della Chiesa nel moderare i costumi, e sul suo enorme contributo al miglioramento della sorte degli schiavi col ridurre l’eccessivo arbitrio dei padroni. Questa verità è stata provata con un tal numero di documenti che non ho alcun bisogno di dimostrarla ulteriormente. Per il mio scopo mi basta far notare che il sig. Guizot ammette apertamente che la Chiesa moralizzò la legislazione dei barbari, facendo sì che nei delitti non venisse considerato unicamente il danno che veniva provocato, ma anche il male che contenevano; vale a dire con l’innalzare l’azione dall’ordine fisico a quello morale e col dare alle pene il loro giusto significato, non permettendo che si riducessero ad una semplice riparazione materiale. Da quanto detto finora si può constatare che il sistema penale dei barbari, che a prima

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vista sembrava indicare un progresso nella civiltà, era basato sulla poca influenza che i princìpi morali avevano presso di loro, e dalla visione limitata del legislatore che si elevava ben poco al di sopra dell’ordine puramente materiale.

Rimane tuttavia da fare un’altra osservazione su questo tema, ed è che la stessa benignità con cui si castigavano i delitti è la prova migliore della facilità con cui venivano commessi. Quando in un paese gli assassinî, i ferimenti od altri simili misfatti sono rarissimi, vengono guardati con orrore, e chiunque se ne renda colpevole viene punito severamente. Ma quando i delitti avvengono continuamente perdono gradatamente la loro malvagia anormalità, e allora non solo gli autori dei delitti, ma anche tutti gli altri si assuefanno al loro aspetto ributtante; ed anche il legislatore si sente portato naturalmente a trattarli con indulgenza. Questo ce lo dimostra l’esperienza quotidiana; e non sarà difficile a chi legge di trovare nella società attuale diversi delitti ai quali si potrebbe applicare l’osservazione da me qui fatta. Fra i barbari era cosa comune ricorrere alle vie di fatto, non soltanto contro le proprietà, ma anche contro le persone; per cui era ben naturale che questa specie di delitti non fosse considerata con quel disgusto e con quell’orrore con cui lo è in un popolo dove, prevalendo le idee di ragione, di giustizia, di diritto e di legge, non si concepisce neanche come possa sussistere una società se ognuno si considera in diritto di farsi giustizia da sé. E allora le leggi contro tali delitti dovevano per forza essere comprensive, accontentandosi il legislatore di riparare al danno senza badare troppo ai gradi di colpevolezza di chi li commetteva. Questo ha una stretta relazione con quanto ho detto sopra intorno alla coscienza pubblica, perché il legislatore è sempre più o meno come lo strumento di questa stessa coscienza. Quando in una società un’azione è considerata come un orrendo delitto, il legislatore non può assegnarle una pena lieve; e al contrario non è possibile castigare con molto rigore ciò che la società scusa ed assolve. Può capitare per una volta che questo rapporto venga alterato, che sparisca questa armonia; ma ben presto le cose riprenderanno il corso normale lasciando il sentiero che seguivano forzatamente. Quando i costumi sono puri e casti molti delitti sono coperti di esecrazione e d’infamia; ma se la corruzione si diffonde enormemente, i medesimi delitti o si considerano come indifferenti, o al massimo vengono definiti leggère debolezze. In un popolo in cui le idee religiose esercitano una grande influenza, la violazione di tutte le cose che sono consacrate al Signore è vista come un orrendo attentato degno dei più grandi castighi; ma in un altro in cui l’incredulità abbia fatto grandi danni la stessa violazione non sarà neanche considerata un comune delitto; e lungi dall’attirare sul colpevole i rigori della legge, sarà molto se gli provocherà una leggera ammenda da parte della polizia.

Il lettore non troverà inopportuna questa digressione sulla legislazione penale dei barbari se ha compreso che, dovendosi esaminare l’influenza del Cattolicesimo nella civiltà europea, è indispensabile tener conto degli altri elementi che si sono combinati nel formarla. Sarebbe altrimenti impossibile valutare appropriatamente i contributi che, in modo positivo o negativo, ciascuno di questi elementi hanno fornito per la detta formazione della civiltà; come sarebbe impossibile mettere in chiaro la parte che spetta esclusivamente alla Chiesa, e risolvere la grande questione sostenuta dai settari del Protestantesimo sui pretesi vantaggi da esso portati alle società moderne. Le nazioni barbare sono uno di questi elementi, ed è per questo che ce ne occupiamo con tanta frequenza. (23) Nel Medioevo quasi tutti i monasteri e collegi di canonici avevano annesso un ospizio, sia per alloggiare i pellegrini, che per nutrire e assistere i poveri e gl’infermi. Non vi è

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immagine più bella della religione che copre col suo velo ogni sorta di calamità, quanto il vedere cambiate in asilo per i miseri le case consacrate alla preghiera e alla pratica delle più sublimi virtù. E questo si verificava precisamente in quell’epoca in cui il pubblico potere non solo non aveva la forza e le qualità necessarie per esercitare una buona amministrazione onde poter soccorrere i bisognosi, ma non riusciva neanche a proteggere con la sua autorità i più sacri interessi della società. Per cui risulta evidente che, quando ogni altra istituzione era impotente, la religione era invece rigogliosa e feconda; quando tutto veniva meno, la religione non solo si conservava, ma fondava delle istituzioni destinate a durare nel tempo. E come abbiamo già fatto notare più volte, si consideri che quella religione che operava tali prodigi non era una religione vaga ed astratta, non era il Cristianesimo dei Protestanti, ma la religione con tutti i suoi dogmi, con la sua disciplina, con la gerarchia, col Supremo Pontefice: in una parola era la Chiesa cattolica.

L’antichità, ben lontana dall’immaginare che il soccorso agli infelici potesse essere affidato alla sola amministrazione civile o alla carità individuale, credette invece molto opportuno, come già riferito, che gli ospizi fossero soggetti ai Vescovi; fece in modo cioè che il settore della beneficenza pubblica venisse legato, in un certo modo, alla gerarchia della Chiesa. Fatto sta che secondo le antiche norme gli ospizi erano soggetti ai Vescovi tanto nella sfera spirituale che nella temporale, senza badare allo stato clericale o secolare delle persone che avevano cura dell’istituto, né tampoco se era stato eretto o no per disposizione del Vescovo.

Non è questo il posto dove narrare le vicende alle quali andarono soggette queste norme, né i vari motivi che le originarono. Basti osservare che il principio fondamentale, cioè l’intervento dell’autorità ecclesiastica nei luoghi di pubblica beneficenza, è sempre rimasto salvo, e la Chiesa non si è mai lasciata spogliare del tutto di questo bel privilegio. Non ha mai pensato che si potesse assistere con indifferenza al fatto che gli abusi, introdottisi in questo campo, andassero a danno degli infelici, e perciò si è riservata almeno il diritto di poter riparare ai mali che derivassero dalla malvagità o dall’indolenza degli amministratori. A questo proposito possiamo notare che il Concilio di Vienna stabilì che se gli amministratori di un ospedale, fossero chierici o laici, si mostravano negligenti nell’esercizio dei loro doveri, i Vescovi dovevano procedere contro di loro, riformare e restaurare l’ospedale di propria autorità, qualora ne avessero le prerogative, e se non le avevano se le facessero procurare per delegazione pontificia. Il Concilio di Trento diede ugualmente ai Vescovi la facoltà di visitare gli ospizi, anche come delegati della Sede apostolica, nei casi concessi dal diritto; prescrivendo inoltre che gli amministratori, chierici o laici, rendessero il conto ogni anno all’Ordinario del luogo, qualora nell’atto di fondazione non fosse stato stabilito il contrario; e ordinando che se per privilegio, usanza o statuto particolare i conti venivano presentati ad altri invece che all’Ordinario, che questi fosse almeno compreso tra quelli che dovevano riceverli.

Prescindendo dalle varie modifiche che le leggi e le usanze dei vari paesi hanno potuto introdurre in questo campo, è sempre molto evidente quale sia stata l’attenzione della Chiesa riguardo alla beneficenza, e come lo spirito e i suoi princìpi l’abbiano sempre portata ad ingerirsi in questo genere di assistenza, ora svolgendola direttamente, ora riparando al male che vedeva introdursi. Il potere civile riconobbe i motivi di questa caritatevole e santa ambizione; e vediamo infatti che l’imperatore Giustiniano non ebbe alcuna esitazione nel concedere ai Vescovi la giurisdizione sugli ospedali, conformandosi in questo alla disciplina

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della Chiesa e a quanto esigeva l’interesse pubblico. C’è un particolare su questo argomento, che è molto importante citare per dimostrare

la sua favorevole influenza: mi riferisco al fatto che i beni degli ospizi furono considerati come beni della Chiesa. Questa cosa, che a prima vista potrebbe sembrare di nessuna importanza, è ben lontana dall’esserlo; perché in questo modo tali beni godevano degli stessi privilegi di quelli della Chiesa, e rimanevano così protetti da una inviolabilità tanto più necessaria in quanto i tempi erano difficili e si era facilmente soggetti ad oltraggi e usurpazioni. Infatti alla Chiesa, che per quanto fosse grande il disordine pubblico conservava tuttavia grande autorità e un notevole ascendente sui popoli, veniva riconosciuto il potere di porre sotto la sua protezione i beni degli ospizi, salvandoli per quanto fosse possibile dalla rapacità e cupidigia dei potenti. E non si pensi che questa regola fosse stata introdotta con qualche raggiro, o che questa specie di comunanza tra la Chiesa ed i poveri fosse una novità inaudita: perché anzi era talmente nell’ordine naturale, ed aveva tanto fondamento nelle relazioni della Chiesa con i poveri che, così come vediamo i beni degli ospizi considerati come beni della Chiesa, allo stesso modo quelli della Chiesa erano chiamati beni dei poveri. Su questo particolare i S.S. Padri si esprimevano in termini tali, e queste dottrine si erano talmente infiltrate per così dire nel linguaggio comune, che trattandosi nei secoli successivi di risolvere la questione canonica sulla proprietà dei beni della Chiesa, attribuendola alcuni direttamente a Dio, altri al Papa, altri al clero, non mancarono taluni che intendevano attribuirli ai poveri come ai veri proprietari. Certamente quest’opinione non era la più conforme ai princìpi del diritto; ma vederla introdursi nel campo di quella polemica dà lo spunto a serie considerazioni. (24) Ho cercato, per quanto mi è stato possibile, di chiarire le idee sulla tolleranza presentando questa importante materia sotto un aspetto poco conosciuto. Per illustrarla ulteriormente dirò due parole sull’intolleranza religiosa e su quella civile: due cose completamente diverse, anche se Rousseau afferma decisamente il contrario. L’intolleranza religiosa o teologica consiste in quell’intima convinzione che hanno tutti i Cattolici che l’unica religione vera è quella cattolica; l’intolleranza civile consiste invece nel non tollerare nella società altre religioni diverse dalla cattolica. Queste due definizioni sono sufficienti, a coloro ai quali non manchi il senso comune, per capire che le due specie d’intolleranza non sono inseparabili, essendo del tutto possibile che persone fermamente convinte della verità del Cattolicesimo, tollerino coloro che hanno una religione diversa, o non ne professano alcuna. L’intolleranza religiosa è un atto dell’intelletto, inseparabile dalla fede, perché chi crede fermamente che la sua religione è vera, deve necessariamente essere convinto che essa è l’unica vera, perché la verità è una. L’intolleranza civile è invece un atto della volontà, che rigetta coloro che non professano la medesima religione; e questo atto produce diversi effetti, secondo che l’intolleranza sia nell’individuo o nel governo. Al contrario, la tolleranza religiosa è la credenza che tutte le religioni sono vere, la qual cosa spiegata bene significa che non ce n’è nessuna che lo sia: perché non è possibile che le cose in contraddizione tra loro siano contemporaneamente vere. La tolleranza civile è l’acconsentire che persone di una religione diversa dalla propria vivano in pace; e allo stesso modo dell’intolleranza produce effetti diversi secondo che sia nell’individuo o nel governo.

Questa distinzione, che per la sua semplicità e chiarezza non supera le capacità di una normale intelligenza, non fu tuttavia compresa da Rousseau, il quale affermava che questa era una finzione ingannevole, una pura chimera, e che le due intolleranze non si

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potevano separare l’una dall’altra. Se Rousseau si fosse limitato ad osservare che se in un paese diventa generalizzata l’intolleranza religiosa (cioè, come abbiamo detto sopra, la ferma ed intima persuasione che una religione sia quella vera), nel modo di vivere e nella legislazione di quel paese si manifesta anche una certa tendenza a non sopportare coloro che pensano in altra maniera, soprattutto se questi sono in netta minoranza; la sua osservazione sarebbe stata molto fondata e concorderebbe con l’opinione da me espressa quando in tale materia ho trattato del corso naturale delle idee e dei fatti.

Ma Rousseau non vide le cose sotto quest’aspetto, e lanciando le sue accuse contro il Cattolicesimo affermò che le due specie d’intolleranza sono inseparabili, perché «è impossibile vivere in pace con gente che si crede dannata, e amarla significherebbe odiare Iddio che la castiga». Non è possibile portare oltre la malafede. Infatti: chi ha detto a Rousseau che i Cattolici ritengano dannato alcuno finché vive, e che amare un uomo traviato significherebbe odiare Dio? Poteva egli ignorare che, al contrario, l’obbligo di amare tutti gli uomini è un precetto inderogabile e un dogma per ogni Cattolico? Poteva ignorare (ciò che sanno anche i bambini dai primi rudimenti della dottrina cristiana) che siamo tenuti ad amare il prossimo come noi stessi, e che con la parola prossimo s’intendono tutti quelli che hanno guadagnato il paradiso o possono guadagnarlo, e che da questi non si esclude nessuno finché vive? Forse Rousseau obietterà che siamo almeno nella convinzione che se muoiono in quel misero stato si dannano; ma non si rende conto che crediamo la stessa cosa per tutti i peccatori, e non solo per chi pecca di eresia, e ciò nonostante nessuno si è mai sognato di dire che i Cattolici giusti non possano tollerare i peccatori, e che si considerino in obbligo di odiarli? Non si è mai vista una religione che mostri maggior sollecitudine di convertire i peccatori, e la Chiesa cattolica è tanto lontana dall’insegnarne il disprezzo che, all’opposto, sia dai pulpiti, che nei libri, ed anche nelle normali conversazioni, ripete mille volte quelle parole con cui Dio manifesta la sua volontà che non periscano i peccatori, e che Egli ne vuole la conversione e la vita, e che in cielo vi è gioia più grande per un peccatore che si pente che per novantanove giusti che non hanno bisogno di pentirsi.

E non si creda che Rousseau, che si esprimeva in questo modo contro l’intolleranza dei Cattolici, fosse poi convinto assertore di una totale tolleranza. È vero il contrario. Nella società come egli l’immaginava voleva che non fossero tollerati, non dico quelli che professano la vera religione, ma coloro che si allontanano da quella stabilita dal potere civile: «Ma lasciando da parte – dice egli – le considerazioni politiche, veniamo al diritto, e fissiamo i princìpi su questo punto importante. Il diritto che il patto sociale dà al sovrano sopra i vassalli non eccede, come ho già detto, i limiti dell’utilità pubblica. I vassalli non devono rendere conto al sovrano delle loro opinioni se non in quanto è nell’interesse della comunità. Lo stato ha interesse che ogni cittadino abbia una religione che gli faccia amare i suoi doveri; ma i dogmi di questa religione non devono interessare né allo stato, né ai suoi componenti, se non in quanto si riferiscono alla morale e ai doveri nei confronti degli altri. Per quanto riguarda il resto ognuno può avere quelle opinioni che preferisce, senza che il sovrano sia tenuto a conoscerle perché, siccome l’altro mondo non è di sua competenza qualunque sarà nell’altra vita la sorte dei sudditi, questo non riguarda il sovrano, purché in questa vita essi siano buoni cittadini. Vi è poi una professione di fede puramente civile della quale tocca al sovrano fissare gli articoli: non precisamente come dogmi di religione, ma come sentimenti di socialità, senza dei quali è impossibile esser buon cittadino e suddito fedele. Senza poter obbligare nessuno a crederli, tuttavia può mandare in esilio chi non li

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crede, non in quanto empio, ma come asociale ed incapace di amare sinceramente le leggi e la giustizia, e se necessario di sacrificare la vita al proprio dovere. Se qualcuno, dopo aver riconosciuto pubblicamente questi dogmi, vive e agisce come se non li credesse, sia punito con la morte perché ha commesso il maggiore dei delitti, e ha mentito di fronte alle leggi» (Contratto sociale l, 4; c. 8). Ecco dunque in ultima analisi dove va a finire la tolleranza di Rousseau: dare la facoltà al sovrano di fissare gli articoli di fede, accordargli il diritto di castigare con l’esilio ed anche con la morte coloro che non si adeguano alle decisioni del nuovo Papa, o se ne allontanano dopo averle accettate. Per quanto possa sembrare stravagante la dottrina di Rousseau, evidentemente non lo fu al punto di non essere accolta da tutti coloro che non riconoscono un’autorità in materia di religione. Rigettano questa autorità quando si tratta di attribuirla alla Chiesa cattolica o al capo di essa, e poi per la più detestabile delle contraddizioni la concedono al potere civile. Rousseau è curioso quando, nell’esiliare ed uccidere chi si allontana dalla religione elaborata dal sovrano, non vuole che queste pene gli siano applicate perché sia empio, ma perché è asociale. Rousseau, per un impulso in lui naturale, non voleva che l’empietà nell’applicare le pene vi entrasse poco o molto: ma ad un uomo che viene mandato in esilio o a morire sul patibolo, cosa mai importa il nome con cui viene chiamato il suo delitto? Nello stesso capitolo è sfuggita di bocca a Rousseau un’espressione che rivela ad un tratto lo scopo a cui egli tendeva con tutto questo apparato di filosofia: «Chiunque osa dire: fuori della Chiesa non vi è salute, deve essere cacciato dallo stato». La qual cosa in altri termini significa che vi deve essere tolleranza per tutti fuorché per i Cattolici. Si è detto che il contratto sociale fu il codice della rivoluzione francese: e di fatto questa non si dimenticò di quanto prescrive il tollerante legislatore riguardo ai Cattolici. Pochi sono attualmente quelli che osano dichiararsi discepoli del filosofo di Ginevra, quantunque alcuni dei suoi timidi seguaci gli tributino ancora con profusione smisurati elogi; noi però pieni di fiducia nel buon senso del genere umano dobbiamo sperare che tutta la posterità confermi la nota d’ignominia con cui tutti gli uomini onesti hanno contrassegnato il sofista sovvertitore nonché spudorato autore delle Confessioni.

Confrontando il Protestantesimo col Cattolicesimo ho avuto la necessità di parlare dell’intolleranza perché è una delle colpe che più frequentemente vengono rivolte alla religione cattolica; ma per rispetto della verità debbo far notare che non tutti i Protestanti hanno predicato una tolleranza universale, e che molti di essi hanno riconosciuto il diritto di reprimere e castigare certi errori. Grozio, Puffendorf e parecchi altri dei più distinti fra i dotti di cui si vanta il Protestantesimo sono d’accordo nel dover seguire l’insegnamento di tutta l’antichità, la quale sia in teoria che in pratica si è sempre conformata a questi princìpi. Si è gridato contro l’intolleranza dei Cattolici come se fossero loro ad averla manifestata al mondo, come se fosse un orribile mostro che non nasca in nessun’altra parte fuorché dove regna la Chiesa cattolica. Anche ammesso che non vi fossero altre ragioni, almeno la buonafede imponeva che non venisse dimenticato che il principio di tolleranza universale non è stato riconosciuto in nessuna parte del mondo; e che tanto nei libri dei filosofi, quanto nei codici dei legislatori si trova inserito con più o meno rigore il principio dell’intolleranza. Qualora si voglia condannare come falso questo principio, o si cerchi di ridurne l’importanza, o non applicarlo più del tutto, per lo meno non si emetta un’accusa specifica contro la Chiesa cattolica per una dottrina ed una condotta in cui essa ha seguito l’esempio dell’intera umanità. Quindi se in questo vi è colpa, tutti i popoli, sia civili che barbari, sono

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colpevoli; e l’ignominia, lungi dal ricadere esclusivamente sui governi diretti dal Cattolicesimo e sugli scrittori cattolici, dovrebbe ricadere su tutti i governi dell’antichità, compresi quelli dei Greci e dei Romani; su tutti i dotti dell’antichità, inclusi Platone, Cicerone e Seneca; e su tutti i governi e i dotti moderni, compresi i Protestanti. Avendo presente queste considerazioni, non sarebbero sembrate né tanto erronee le dottrine né tanto fosche le vicende; e ci si sarebbe accorti che l’intolleranza, antica quanto il mondo, non è un’invenzione dei Cattolici, e che quindi, se c’è responsabilità, essa è di tutti.

Non c’è dubbio che la tolleranza, divenuta ora così comune per i motivi già riferiti, non ne risentirà delle dottrine più o meno severe o più o meno indulgenti che saranno pubblicate in questa materia; ma per il fatto stesso che l’intolleranza, come veniva praticata in altri tempi, è passata ad essere un puro fatto storico che certamente nessuno più teme di veder tornare, è opportuno esaminare con molta prudenza questo genere di questioni affinché sparisca per sempre la fama d’intolleranza che gli avversari hanno voluto creare nei confronti della Chiesa cattolica.

A questo punto è utile ricordare la profonda sapienza contenuta nell’enciclica del Papa Gregorio XVI contro le dottrine di Lamennais, il quale pretendeva che nella tolleranza universale e nella libertà assoluta dei culti consistesse la condizione normale e legittima delle società, dalla quale condizione non è possibile allontanarsi senza nuocere ai diritti dell’uomo e del cittadino. Il Signor Lamennais, nell’impugnare l’enciclica, si accinse a presentarla come fonte di nuove dottrine e come un attacco diretto alla libertà dei popoli. In realtà il Papa nella sua enciclica non ha stabilito altre dottrine che quelle che la Chiesa ha sempre professato e, si potrebbe anche dire, che ogni governo professa riguardo alla tolleranza. Nessun governo si può sostenere se gli si nega il diritto di reprimere le dottrine pericolose per l’ordine sociale, anche quando siano mascherate sotto un manto filosofico o si facciano comparire sotto il velo della religione. In questo modo non viene attaccata la libertà dell’uomo; perché l’unica libertà che sia degna di questo nome è quella conforme alla ragione. Il Papa non ha detto che in certi casi i governi non potessero tollerare diverse religioni; ma non ha permesso che si imponesse la norma che la tolleranza assoluta sia un obbligo per tutti i governi. Quest’ultima proposizione è contraria alle sane dottrine religiose, alla ragione, alla prassi di tutti i governi in tutti i tempi e in tutti i luoghi, e infine al buon senso dell’umanità. Comunque, il talento e l’eloquenza dello sciagurato scrittore non hanno potuto far nulla. Il Papa ottenne l’assenso più convinto di tutte le persone assennate a qualunque fede appartenessero, dopo che il genio si era coperta la fronte col velo dell’ostinazione, e aveva impugnato decisamente l’ignobile arma del sofisma. Genio infelice, che conserva appena un’ombra di se stesso, che ha piegato le fulgide ali con le quali solcava l’azzurro dei cieli ed ora, qual sinistro uccello, va girando sulle acque impure di un lago solitario. (25) Parlando dell’Inquisizione spagnola non è mia intenzione difenderne tutti gli atti, né sotto l’aspetto giuridico, né sotto quello della convenienza pubblica. Quantunque io non neghi che essa si trovò in situazioni eccezionali, giudico però che avrebbe fatto molto meglio, seguendo l’esempio dell’Inquisizione romana, ad evitare per quanto possibile lo spargimento di sangue. Poteva benissimo vigilare con zelo alla conservazione della fede, prevenire i mali di cui era minacciata la religione da parte degli Ebrei e dei Mori, e preservare la Spagna dal Protestantesimo senza far uso di quel rigore eccessivo che le attirò seri rimproveri e forti ammonizioni da parte dei Sommi Pontefici, provocò le proteste dei

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popoli, fece trasferire numerose cause a Roma su richiesta degli accusati e dei condannati, e servì di pretesto ai nemici del Cattolicesimo per tacciare di sanguinaria una religione che ha in orrore lo spargimento di sangue. La religione cattolica, ripeto, non è responsabile di nessuno degli eccessi che in suo nome sono stati commessi; e quando si parla dell’Inquisizione, non ci si deve concentrare soprattutto su quella di Spagna, ma piuttosto su quella di Roma. Là dove risiede il Sommo Pontefice, dove si sa benissimo come si deve intendere il principio d’intolleranza e qual è l’uso che se ne deve fare, là l’Inquisizione è stata sommamente benigna e indulgente; quello è il luogo dove l’umanità meno ha sofferto per motivi religiosi, senza eccettuare alcun paese, sia quelli dove era stata istituita l’Inquisizione, che quelli che ne erano privi, sia dove regnava la religione cattolica, che dove predominava la protestante. Questo fatto è indubbio; e a qualunque uomo in buonafede dovrebbe bastare per capire quale sia su questo punto lo spirito del Cattolicesimo.

Faccio queste riflessioni perché si sappia che non sono fazioso, e che non ignoro i mali né evito di denunciarli da qualunque parte provengano. Ciò nonostante non intendo che si perdano di vista i fatti e le osservazioni che ho prodotti nel testo, tanto sull’Inquisizione in se stessa e nelle diverse epoche in cui ha funzionato, quanto sulla politica dei re che la istituirono e la mantennero. Per questo motivo riporterò qui alcuni documenti che possono spargere ulteriore luce su questa importante materia. Ecco innanzi tutto il preambolo dell’editto di D. Ferdinando e di Donna Isabella sull’espulsione degli Ebrei, dove in poche parole vengono descritti i danni che da questi subiva la religione, e i pericoli dai quali lo stato era minacciato.

«Lib. 8, tit. 2, leg. 2 della nuova compilazione. «D. Ferdinando e Donna Isabella in Granata nell’anno 1492 ai 30 di marzo.

Prammatica. «Essendo noi stati informati che in questi nostri regni c’erano alcuni cattivi Cristiani

che giudaizzavano e apostatavano dalla nostra santa fede cattolica, della qual cosa era in gran parte motivo la familiarità tra Ebrei e Cristiani, nelle Cortes tenute nella città di Toledo l’anno 1480 comandammo e ordinammo che i detti Giudei in tutte le città, terre e villaggi dei nostri regni e signorie dovessero restare nei ghetti, luoghi separati dove vivere e dimorare, con la speranza che questa separazione rimuovesse il male. Abbiamo procurato ancora e dato ordine, che si facesse un’inquisizione nei detti nostri regni, la quale, come ben sapete, sono più di dodici anni che si è fatta e si fa, e in questo modo, come è noto, si sono trovati molti colpevoli; e come siamo informati dagli inquisitori e da molte altre persone religiose ecclesiastiche e secolari, è manifesto e costante il gran danno che è venuto e viene ai Cristiani dalla partecipazione, conversazione, e familiarità, che hanno avuto e hanno con gli Ebrei, dei quali si prova che procurano sempre, in tutte le maniere possibili, di sovvertire e sottrarre dalla nostra santa fede cattolica i fedeli cristiani, e separarli da questa fede e attirarli pervertendoli alla loro dannata credenza ed opinione, istruendoli nelle cerimonie e nell’osservanza della loro legge, facendo adunanze nelle quali leggono ed insegnano quello che devono credere ed osservare secondo la legge ebraica, cercando di circoncidere loro e i loro figli, dando libri per recitare le loro orazioni e comunicando i digiuni che devono osservare, e riunendosi con loro a leggere, e insegnando le storie della suddetta legge, avvertendo delle pasque prima che arrivino, e avvisando di ciò che in esse devono osservare e fare, dando loro e portando dalla propria casa il pane azzimo e le carni degli animali uccisi secondo le cerimonie mosaiche, istruendoli delle cose da cui si devono astenere tanto nel

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mangiare quanto nelle altre circostanze per l’osservanza della legge, e persuadendo loro, per quanto possono, di accettare ed osservare la legge di Mosè, facendo intendere che non vi è altra legge né verità fuori di quella. Tutte queste cose risultano dai molti discorsi, e dalle confessioni sia degli stessi Ebrei, che di coloro che furono pervertiti ed ingannati da essi; la qual cosa si è risolta in gran danno, detrimento ed obbrobrio della nostra santa fede cattolica. E sebbene da molte parti prima d’ora fossimo stati informati e conoscessimo che il vero rimedio di tutti questi danni ed inconvenienti sta nel troncare per sempre i rapporti dei detti Giudei con i Cristiani, e cacciarli da tutti i nostri regni, volemmo accontentarci di ordinare che uscissero da tutte le città, terre e villaggi dell’Andalusia, dove sembrava che fosse stato fatto il maggior danno, credendo che questo bastasse affinché quelli delle altre città, terre e villaggi dei nostri regni e signorie cessassero di fare e commettere le suddette cose; e poiché siamo informati che tutto questo, e le condanne che sono state comminate ad alcuni dei detti Ebrei che erano stati trovati colpevoli di detti misfatti e delitti contro la nostra santa fede cattolica, non bastano per porre completamente rimedio, al fine di ovviare e di rimediare perché cessi un così grande obbrobrio e offesa della fede e religione cristiana, e poiché ogni giorno capita ed appare che i detti Ebrei insistono nel continuare il cattivo e dannato proposito dove vivono e conversano, e perché non si dia adito ad offendere oltre la nostra santa fede cattolica, sia per quelli che fino ad oggi il Signore ha voluto conservare, che per quelli che caddero, e si emendarono, e ricorsero alla santa madre Chiesa, cosa che, secondo la debolezza della nostra umanità e l’influenza diabolica che ci fa una continua guerra, potrebbe facilmente accadere se non eliminiamo la causa principale cacciando i detti Ebrei dai nostri regni; e perché quando alcun grave e detestabile delitto viene commesso da alcuni membri di qualche collegio od università la ragione vuole che quel tale collegio od università sia disciolto e distrutto e separati i minori dai maggiori, e gli uni siano puniti per gli altri, e il piccolo numero per il maggiore; e quelli che pervertono il buono ed onesto vivere delle città e delle campagne potendo influire negativamente sugli altri siano banditi dalle popolazioni, ed anche per altre più lievi cause che siano a danno della repubblica; tanto più per il maggiore dei delitti, e il più pericoloso e contagioso, quale è questo. Per cui noi, col consiglio e il parere di alcuni prelati ecc.».

Qui non si tratta di esaminare se in queste accuse fatte agli Ebrei vi fosse o no un po’di esagerazione, benché secondo tutte le apparenze, considerando i rapporti in cui erano i popoli rivali, vi doveva essere un gran fondo di verità. E si noti che sebbene nel preambolo della prammatica i sovrani si astengano dall’accusare gli Ebrei di mille altre colpe che comunemente addebitava loro il popolo, tuttavia le lamentele che circolavano erano tanto forti che avranno certamente influito non poco ad aggravare la situazione degli Ebrei e muovere l’animo dei re a trattarli con durezza.

Quanto alla diffidenza con cui erano guardati i Mori e i loro discendenti, oltre ai fatti già indicati se ne possono illustrare altri che manifestano una disposizione d’animo tale, nei loro confronti, che erano visti come se stessero continuamente cospirando contro i vecchi Cristiani. Era trascorso circa un secolo dopo la conquista di Granata, e si temeva ancora che quel regno fosse il centro delle trame ordite dai Mori contro i Cristiani, e che di là provenissero perfide informazioni ai nemici della Spagna e gli aiuti per ogni sorta di misfatti che venivano commessi sulle coste contro le persone indifese. Si legga questo atto del 1567 emanato da Filippo II:

«Lib. 8, tit. 2 della nuova compilazione.

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«Leg. 20, che impone gravi pene agli abitanti del regno di Granata che nascondessero o accogliessero o favorissero Turchi o Mori o Ebrei, o dessero loro notizie, o fossero in corrispondenza con loro.

«D. Filippo II, in Madrid lì 10 dicembre dell’anno 1567. «Essendo noi stati informati, che nonostante tutto quello che per la difesa e la

sicurezza dei mari e delle coste dei nostri regni abbiamo provveduto tanto per mare che in terra, e specialmente nel regno di Granata, i Turchi, i Mori , i corsari e altri hanno fatto e fanno nel detto regno, nei porti e sulle coste e luoghi marittimi e altri circostanti, ruberie, torti, danni e sequestri di Cristiani, che sono di pubblica conoscenza, e che si dice che hanno potuto e possono fare con facilità e sicurezza mediante il commercio e la connivenza che hanno avuto ed hanno con alcuni conterranei, i quali li avvisano, li guidano, li accolgono, li nascondono e dànno loro appoggio e aiuto, passando alcuni di essi dalla parte dei detti Mori e Turchi, e portandosi appresso le mogli, i figli e la roba, e i Cristiani e la roba di questi che possono avere nelle loro mani; e che altri dei detti loro conterranei, che sono stati partecipi e consapevoli, rimangono nel paese e non sono stati né sono castigati né pare che si sia provveduto con quel rigore interamente e particolarmente come converrebbe; e vi è molta difficoltà nel verificare ed informare, ed anche trascuratezza e negligenza nei processi e nei giudici che dovevano inquisire e castigare; essendo tutto questo stato trattato e discusso nel nostro Consiglio, affinché si provveda come a cosa di tanta importanza al servizio di Dio nostro Signore, e al nostro, e al bene pubblico, riunitosi il Consiglio con noi, fu convenuto che dovessimo spedire questo nostro editto, ecc.». Passavano gli anni e i due popoli continuavano ad essere divisi dall’odio; e nonostante i molti colpi ricevuti dai maomettani, i Cristiani non si dichiaravano soddisfatti. È molto probabile che un popolo, che aveva sofferto e stava tuttora soffrendo tante umiliazioni, cercasse di vendicarsi; e pertanto non è tanto improbabile che realmente esistessero le congiure di cui i Mori erano accusati. Comunque sia, questa era l’opinione generale, e per tale motivo il governo si trovava in un serio avvilimento. A conferma di questo si legga ciò che è scritto nella legge per l’espulsione dei Moreschi, emanata nel 1609 da Filippo III:

«Lib. 8, tit. 2. della nuova compilazione. «Leg. 25. Perché furono cacciati i Moreschi dal regno; le cause che vi furono, e il

mezzo che si usò per l’esecuzione. «D. Filippo III, in Madrid lì 9 dicembre 1609. «Avendo per molto tempo fatto in modo che i Moreschi potessero restare in questi

regni, ed essendo stati comminati dal S. Uffizio della S. Inquisizione diversi castighi, e concessi molti editti di grazia, non omettendo mezzi e impegni per istruirli sulla nostra santa fede senza aver potuto conseguire il frutto che si desiderava, perché nessuno si è convertito ma si è confermato nella sua ostinazione; e visti i pericoli da cui erano minacciati i nostri regni per esservi costoro rimasti, ci si rappresentò da persone assai dotte e di molto timor di Dio, che conveniva porvi un immediato rimedio, e che la dilazione potrebbe aggravare la nostra reale coscienza perché questa gente offende molto nostro Signore, venendo noi assicurati che potremmo senza scrupolo alcuno castigarli nella vita e nei beni, perché il persistere nei loro delitti li rendeva consapevoli di eresia, di apostasia e di tradimento di lesa Maestà Divina ed umana, e che proprio per questo si potrebbe procedere contro di loro con quel rigore che meritano le loro colpe. Tuttavia, desiderando di convincerli con mezzi soavi e blandi, comandai che si formasse nelle città e regno di Valenza un tribunale del Patriarca e

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di altri prelati e persone dotte, affinché vedessero che cosa si poteva ordinare e disporre; ed essendosi saputo che nel tempo medesimo in cui si stava trattando di rimediare, quelli di quel regno e quelli di questi progredivano nel loro dannoso progetto; e sapendosi per notizie certe e vere che hanno spedito a Costantinopoli a trattare col Turco, e in Marocco col re Buley Fidon, affinché spedissero in questi regni le maggiori forze che potessero in loro aiuto e soccorso assicurandoli che troverebbero in questi regni centocinquanta mila Mori come quelli di Barberia, che li assisterebbero con la vita e con i loro beni, assicurando la facilità dell’impresa; avendo essi tentato ugualmente la stessa pratica con eretici ed altri prìncipi nostri nemici; considerate tutte queste cose, e per soddisfare l’obbligo che abbiamo di conservare e mantenere nei nostri regni la santa fede cattolica romana, e la sicurezza, la pace e la tranquillità nei medesimi, col parere e consiglio di uomini dotti e di altre persone molto zelanti nel servizio di Dio e mio, comandiamo che tutti i Moreschi abitanti in questi regni, sia uomini che donne e bambini di qualunque condizione, ecc.».

Ho detto che i Papi già fin dal principio cercarono di mitigare i rigori dell’Inquisizione spagnola, ora con l’ammonire i re e gli inquisitori, ora con l’accogliere le istanze degli accusati e dei condannati. Ho aggiunto anche che la politica dei re, i quali temevano che le nuove idee religiose recassero al popolo confusione e disturbo, aveva creato imbarazzo ai Papi, impedendo loro di usare quei mezzi di benevolenza e d’indulgenza come avrebbero voluto. A conferma di questa mia asserzione sceglierò, tra gli altri documenti, uno che mostra l’irritazione dei re di Spagna per la protezione che gli accusati dall’Inquisizione trovavano a Roma.

«Lib. 8, tit. 3, leg. 2 della nuova compilazione. «Che i condannati dall’inquisizione, che sono assenti da questi regni, non vi ritornino

sotto pena di morte e della perdita dei loro beni. «D. Ferdinando e Donna Isabella in Saragozza ai 2 di agosto 1498. Prammatica. «Siccome alcune persone condannate per eresia dagli inquisitori si allontanano dai

nostri regni andando in altre parti dove con false relazioni e formalità indebite hanno impetrato abusivamente esenzioni ed assoluzioni, commissioni, sicurezze ed altri privilegi al fine di sottrarsi a tali condanne e pene in cui erano incorse rimanendo nei loro errori, e in questo modo tentano di ritornare nei nostri regni; volendo quindi estirpare un male così grande comandiamo che siffatte persone condannate non abbiano l’ardire di tornare, e non ritornino né rivengano nei nostri regni e signorie per nessuna via, maniera, causa, o ragione che sia, sotto pena di morte e perdita dei beni, nella qual pena vogliamo e comandiamo che per questo medesimo fatto incorrano; e che la terza parte dei detti beni sia per la persona del denunziante, la terza parte per la giustizia, e l’altra terza parte per la nostra camera; e comandiamo alle dette autorità giudiziarie, e a ciascuna, e a qualsivoglia di esse nei loro luoghi e giurisdizioni, che ogni volta e quando sapessero che alcune delle persone suddette stessero in qualche luogo di loro giurisdizione, senza aspettare altra richiesta vadano nel luogo ove si trova tale persona, la prendano, ed eseguano immediatamente e facciano eseguire sulla persona e sui beni le dette pene da noi imposte secondo quanto abbiamo detto, senza tener conto di nessuna esenzione, riconciliazione, sicurezza ed altri privilegi che abbiano, i quali in questo caso non hanno alcun valore riguardo all’effetto delle pene suddette. E questo ordiniamo che facciano e adempiano così, sotto pena e perdita e confisca di tutti i loro beni; alla quale pena incorreranno anche tutte le altre persone che nascondessero queste di cui abbiamo detto, o le accogliessero, o sapessero dove stanno e non

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le notificassero alle dette nostre autorità; e comandiamo a tutti i grandi, ai consiglieri, e alle altre persone dei nostri regni che prestino appoggio e aiuto alle nostre autorità giudiziarie ogni qual volta e quando lo richiedessero e vi fosse bisogno per adempiere ed eseguire quanto si è detto, sotto le pene che saranno imposte dalle autorità stesse».

Dal documento che abbiamo riportato si capisce che già nel 1498 le cose erano arrivate a un punto tale che i re si proponevano di sostenere ad ogni costo il rigore dell’Inquisizione; e che si ritenevano offesi perché i Papi si intromettevano per attenuarlo. Questo dimostra da chi proveniva la durezza con la quale erano trattati i rei, e rivela anche una delle cause per cui l’Inquisizione spagnola talvolta fece uso delle sue facoltà con una severità eccessiva. Quantunque non fosse un mero strumento della politica dei re come alcuni hanno detto, ne risentiva però alquanto l’influenza; e ben si sa che la politica, quando si tratta di eliminare un avversario, non è solita mostrare troppa compassione. Se l’Inquisizione di Spagna si fosse trovata allora sotto l’esclusiva autorità e direzione dei Papi sarebbe stata nella sua condotta molto temperata e benigna. L’intenzione dei re di Spagna in quel tempo era che i giudizi dell’Inquisizione fossero definitivi e senza possibilità di appellarsi a Roma. Così la regina Isabella aveva chiesto espressamente al Papa; ma i sommi Pontefici non volevano cedere a una simile sollecitazione, prevedendo sicuramente l’abuso che poteva derivare da un’arma così terribile il giorno in cui le mancasse il freno di un’autorità moderatrice. Dai fatti finora citati si può vedere se ho detto il vero quando affermai che se si giustifica la condotta di Ferdinando e Isabella riguardo all’Inquisizione, non si poteva biasimare quella di Filippo II; perché i re cattolici si mostrarono più severi e più duri di questo sovrano. Ho già indicato il motivo per cui è stata condannata senza alcuna pietà la condotta di Filippo II, ma bisogna anche mostrare perché, viceversa, è stata scusata con tanta ostentazione la condotta di Ferdinando e Isabella.

Quando si vuole falsificare un fatto storico, calunniando una persona o un’istituzione, s’incomincia simulando buonafede e imparzialità; per cui ci si mostra indulgenti verso quelle stesse cose che si vogliono condannare, facendo però in modo che questa indulgenza sembri una concessione fatta gratuitamente ai nostri avversari, oppure appaia come un sacrificio che facciamo delle nostre opinioni e dei nostri sentimenti sull’altare della ragione e della giustizia, che sono la nostra guida e il nostro modello. In tal caso predisponiamo chi legge o chi sente a considerare la condanna che stiamo per pronunciare come una sentenza dettata dalla più scrupolosa giustizia, in cui non abbia avuto parte alcuna passione, né lo spirito di parzialità, né idee riflesse. Come dubitare della buona fede, dell’amore per la verità, e della mancanza di parzialità di un uomo che giustifica quel tale personaggio che, considerando le sue opinioni personali, dovrebbe invece condannare? Questo è il caso di coloro di cui stiamo parlando: volevano attaccare l’Inquisizione, ma la protettrice di questo tribunale, e in certo modo colei che l’ha istituito, era stata proprio la regina Isabella, nome illustrissimo che gli Spagnoli hanno sempre pronunciato col massimo rispetto, regina immortale, uno dei più begli ornamenti della nostra storia. Che fare in un tale imbarazzo? Il mezzo era semplice: poco o nulla importava che gli Ebrei e gli eretici fossero stati trattati con tutto il rigore al tempo dei re cattolici, che questi sovrani con la loro severità siano andati più in là degli altri loro successori: bisognava chiudere gli occhi su questi fatti e giustificare la loro condotta col far notare i gravi motivi che li spingevano ad usare il rigore della giustizia. Così si schivava la difficoltà di evitare di macchiare la memoria di una grande regina amata e rispettata da tutti gli Spagnoli, e rimaneva aperta la strada per

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accusare senza pietà Filippo II. Questo sovrano aveva contro di sé le proteste unanimi di tutti i Protestanti per la semplice ragione che ne era stato il più potente avversario; e in tal modo non era difficile far ricadere su di lui tutto l’eccesso di questa mistificazione. Questo risolve l’enigma, questo spiega la ragione di una faziosità così ingiusta e l’ipocrisia dell’opinione che, scusando i re cattolici, condanna senza appello Filippo II. Senza voler giustificare su ogni cosa la politica di questo sovrano, ho presentato alcune riflessioni che possono servire a moderare alquanto i forti attacchi diretti contro di lui dai suoi avversari; mi manca solamente d’inserire qui i documenti ai quali ho fatto allusione, onde provare che l’Inquisizione non era un mero strumento della politica di questo principe, e che egli non ebbe intenzione di stabilire in Spagna un regime oscurantista.

D. Antonio Perez nelle sue Relazioni, nelle note ad una lettera del confessore del re, Fra Diego di Chaves, nella quale questi afferma che il principe laico ha potere sulla vita dei sudditi e vassalli, dice: «Non riferirò tutti i giudizi che ho sentito su alcune di queste proposizioni, poiché non è questo di mia competenza. Quelli a cui spetta lo capiranno subito nell’ascoltarle; dirò solamente che, stando io a Madrid, fu condannata dall’Inquisizione una proposizione che un tale (non importa dire chi fosse) pronunciò in un sermone a S. Girolamo di Madrid in presenza del re cattolico: cioè, che i re hanno il potere assoluto sulle persone e sui beni dei loro vassalli. Oltre ad alcune altre pene particolari, questo tale fu condannato a ritrattarsi pubblicamente nel medesimo luogo con tutta l’ufficialità di un atto giuridico, come fece infatti dal medesimo pulpito, dicendo di aver pronunciata quella proposizione in quel giorno e che la ritrattava come proposizione erronea. Poiché o signori, (disse precisamente queste parole leggendo su una carta scritta) i re non hanno altro potere sui vassalli che quello che è concesso loro dal diritto divino e umano, e non già dalla loro libera ed assoluta volontà. E so anche chi fu la persona che giudicò la proposizione e compilò le parole stesse che il reo doveva pronunciare, con sommo piacere del compilatore, il quale ci teneva che si estirpasse un’erba tanto velenosa che egli sentiva che stava crescendo, come infatti si è visto successivamente. Tale uomo (questo lo voglio nominare) fu il maestro F. Ferdinando del Castello: fu lui che prescrisse ciò che doveva dire l’accusato. Egli era consultore del S. Uffizio, predicatore del re, uomo di eccellente dottrina ed eloquenza, molto conosciuto e stimato particolarmente in Spagna e in Italia. Il dottor Velasco, personaggio autorevole del suo tempo, diceva di lui che non aveva mai visto chitarra tanto soave nelle mani di Fabrizio Dentici, quanto lo era la lingua del maestro F. Ferdinando del Castello per chi l’udiva».

Si legge a pag, 47 del testo: «Io so che queste parole furono giudicate molto scandalose da persone illustri per dignità, cultura, per avere il cuore puro in un petto cristiano; e fra queste una persona che in Spagna occupava il primo posto nella religione cattolica, e che prima aveva avuto una carica nel tribunale supremo dell’Inquisizione». Perez dice poi che questa persona era il nunzio di Sua Santità. (Relazioni di Antonio Perez, Parigi 1624).

Il passo importante della lettera citata di Filippo II al dottore D. Benedetto Aria Montano dice così:

«Quello, che voi Dottor ecc., mio cappellano, dovete fare ad Anversa, dove vi mando».

«Data di Madrid 25 marzo 1568. «Oltre a fare al detto Plantino questo servizio e questi buoni uffici, è bene che

sappiate che io fin da questo momento ho destinato i seimila scudi che gli sono stati dati in

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prestito affinché, man mano che vengono recuperati, si spendano in libri per il real monastero di S. Lorenzo dell’ordine di S. Girolamo, che sto facendo fabbricare, come sapete, vicino all’Escurial. E così vi ho avvertito di questo mio fine ed intenzione affinché conformandovi ad essa mettiate la massima diligenza nel raccogliere tutti i libri migliori, sia stampati che manoscritti, che voi, come persona che tanto se ne intende, crederete convenienti, per farli pervenire e riporli nella biblioteca del detto monastero, essendo questa una delle principali ricchezze che io vorrei lasciare ai religiosi che dovranno dimorarvi, come la più utile e necessaria. Per questo motivo ho ordinato anche a D. Francesco De Alaba, mio ambasciatore in Francia, che procuri di avere i migliori libri che potrà in quel regno; e voi dovete accordarvi con lui su questo particolare, ed io gli farò scrivere che faccia lo stesso con voi. Perché prima di fame l’acquisto, vi dovrà mandare il catalogo di quelli che riuscirà a trovare e i loro prezzi, e voi gli segnalerete quali dovrà prendere e quali lasciare, e quanto potrà dare per ciascuno di essi. E quelli che avrà comprato ve li manderà ad Anversa affinché voi li approviate e a suo tempo li spediate qui tutti insieme».

Nel regno di Filippo II, di questo sovrano che ci dipingono come uno dei principali fautori dell’oscurantismo, si cercavano nei paesi stranieri libri scelti tanto stampati che manoscritti per arricchire le biblioteche spagnole; nel nostro secolo, che chiamiamo di luce, sono state spogliate le biblioteche spagnole, e i loro tesori sono andati a finire in quelle degli stranieri. Chi non sa delle raccolte che si sono fatte in Inghilterra dei nostri libri e manoscritti? Si consultino gl’indici del museo di Londra e di altre biblioteche particolari: chi scrive queste note parla di quello che ha visto con i propri occhi, e che ha sentito deplorare da persone di altissimo merito. Quando ci mostriamo così trascurati nel conservare i nostri tesori, cerchiamo almeno di non essere così ingiusti e puerili da inveire senza validi motivi contro quegli stessi che ce li avevano trasmessi in eredità.