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Enrico Deaglio Il raccolto rosso 1982-2010 Cronaca di una guerra di mafia e delle sue tristissime conseguenze Titoli di coda. Protagonisti, musiche, effetti speciali di Andrea Gentile

Il raccolto rosso

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Enrico Deaglio

Il raccolto rosso 1982-2010Cronaca di una guerra di mafia

e delle sue tristissime conseguenze

Titoli di coda. Protagonisti, musiche, effetti specialidi Andrea Gentile

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Il raccolto rosso 1982-2010

A Mauro Rostagno, naturalmente

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Presentazione

Questo è un libro di mafia, di terra, di Sicilia, di falci e trattori che raccolgono frutti vermigli insieme a molto sangue. Fabrizio Confalonieri ne ha fatto la sintesi in copertina: un melograno aperto, nel momento della sua maturazione e decom-posizione; ma anche il frutto dell’Ade, di cui Persefone, sulle rive del lago Pergu-sa, in provincia di Enna, mangiò secondo il mito i sette chicchi fatali.

Il «primo tempo» di questo libro racconta di persone dimenticate o scono-sciute che si combatterono in Sicilia, e poi in Calabria e in Campania, nell’ultimo ventennio del Novecento, con una ferocia inaudita, in mezzo all’indifferenza e al-la distrazione italiana. Fu un campo di battaglia con diecimila morti, le dimensio-ni di una guerra civile. Imparammo a conoscere le bombe, l’acido solforico per sciogliere i cadaveri, i sottili fili di nylon per strangolare le persone, la disperazio-ne di chi gridava ma non veniva ascoltato. (Era un mondo sconosciuto quando la prima parte di questo libro uscì da Feltrinelli nel lontano 1993. La ripropongo tale e quale, anche se oggi sembra una specie di preistoria, in cui fece scandalo l’ucci-sione di Salvo Lima, il vicerè di Giulio Andreotti, e tutta l’Italia si commosse per il martirio di Falcone e Borsellino; un mondo in cui non erano immaginabili l’in-dustriale brianzolo presidente del Consiglio, il suo taciturno fattore palermitano trapiantato ad Arcore, e il suo «consigliori», che abbiamo imparato ad apprezza-re come raffinato politico e bibliofilo.)

Alla fine del «primo tempo» il lettore sarà indotto a pensare a un buon fina-le della guerra, con l’esercito mafioso sconfitto, decimato dalle sconfitte milita-ri e roso al suo interno dal rimorso e dalla disperazione, pronto ad arrendersi a un coro popolare che irrompeva sulla scena denunciando, rischiando di perso-na. Ma non andò così.

Il «secondo tempo» racconta delle tristissime e inaspettate conseguenze di quella guerra. Inganni spudorati, grossi patrimoni economici da mettere al ripa-ro, patti segreti tra i vertici degli eserciti solo apparentemente nemici, un tormento

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televisivo continuo – una specie di interminabile pranzo di gala, servito in mezzo ai resti delle vittime – hanno plasmato l’Italia di oggi, in cui le mafie sono ufficial-mente entrate a far parte del nostro establishment. Alla vigilia delle celebrazioni del nostro Stato (siamo una nazione giovane, appena centocinquant’anni), ecco un risultato che nessuno dei nostri Padri fondatori aveva previsto.

I «titoli di coda» di Andrea Gentile parlano della fine terrena dei protagonisti mafiosi, di storie di donne di mafia, dei guai di alcuni uomini politici, della parados-sale similitudine tra la famosa «omertà» e l’«usi a obbedir tacendo» dell’Arma, del-le parole, dei film, della musica e dell’evoluzione della mafia fino a Facebook.

Dicono i saggi: è opportuno occuparsi di mafia, prima che lei si occupi di te. Ma quasi mai questo consiglio viene ascoltato. Alcuni se ne accorgono quando aprono il bagagliaio dell’automobile e vi scoprono un cadavere, ma a quel punto è troppo tardi. Altri pensano che si può convivere, ma quelli prima si prendono una stanza, poi le chiavi di casa, poi ti spostano i mobili e qualche volta ti lasciano una testa di capretto nel frigo. Sono invadenti, ma poi cercano un accordo. Passa-no a raccogliere, e se sono buoni ti lasciano anche una parte del raccolto.

La lettura però te la lasciano tutta. E la lettura è sempre una grande consolazione.

E.D., aprile 2010

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Un manoscritto tra i materassi

Palermo, 1987. Giravamo in elicottero sopra la città. Mare, giardini – la paro-la con cui i siciliani chiamano gli agrumeti – cemento; la sontuosa nettezza delle coste, il disordine sfacciato dei villini incompiuti.

Avevamo volteggiato anche sopra la famosa contrada Ciaculli e sul «fondo Favarella» del papa della mafia Michele Greco. Non distante dalla casa del papa, sulla strada che porta al quartiere Brancaccio, ci eravamo fermati sopra una villa. Dietro una grande inferriata, una costruzione pretenziosa, con archi, porticati, palme, cortiletti. Scendemmo di quota. La villa, non ultimata, appariva «vanda-lizzata»: i vetri erano rotti, gli infissi scardinati. Sul grande cancello di ferro bat-tuto, con la vernice era stato scritto un insulto: «Suca».

«È la villa che si stava facendo costruire totuccio Contorno» mi spiegò il pi-lota. «Da quando si è pentito, gliel’hanno sfregiata. È abbandonata, da anni non ci viene nessuno.»

totuccio aveva fatto coscienziosamente il soldato della mafia, ma poi, all’ini-zio della «grande guerra», era diventato pericoloso per i suoi sodali. Per stanarlo avevano ucciso ben trenta persone a lui vicine, tra parenti e amici. Lo arrestaro-no a roma nel 1982 e decise di parlare l’anno successivo, poco dopo tomma-so Buscetta. Le sue deposizioni al maxiprocesso mandarono in galera centinaia di mafiosi. Visse per un po’ protetto dalla polizia, poi se ne scappò e tornò a Pa-lermo. Lui, la partita non la considerava affatto chiusa; inoltre voleva controlla-re che cosa ne era stato della villa, il sogno della sua vita. Probabilmente riuscì a vederla, prima di essere nuovamente arrestato. Con quell’insulto sul cancel-lo padronale.

Quando tornammo a terra, all’aeroporto di Boccadifalco, il colonnello troz-zi, di Pescara, mi mostrò l’album in cui erano ricordati tutti i servizi resi dagli eli-cotteristi della polizia: avevano ritrovato dispersi del terremoto in Irpinia, salvato naufraghi, trasportato bambini da operare urgentemente. Il tutto era custodito in tanti ritagli di giornale conservati sotto la plastica. Nell’ultima pagina dell’al-bum, un breve testo, scritto con una grafia molto incerta. Eccolo:

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Giovinotti e signorini che dovete maritari, un consiglio da pigliari per non farivi inchanari. Che una giovani sfortunata per non avere nessun prezzo fu da un gio-vani inchanata. Il suo innamuratu è pattitu per la Merica, ma dopo cinque anni è tornatu in Italia per sposare unaltra giovani, e lora la ragazza era già stata inchana-ta, si prepara un bel vestitu ma da giovani eleganti e un mazzi di fiori e si presenta ladavanti ma con modi preziosi e parlandoci damore nel petto gli sparò.Così lei in galera e lui morto. Così siamo pari.

«Strana storia, vero?» mi disse trozzi. «Questo foglio l’ho trovato nel corso di una perquisizione alla ricerca di un latitante. Entrammo in una casa abbandonata, un “covo freddo”, a Ciaculli, vicino a dove siamo stati poco fa. Non c’era nient’altro di particolare in quella casa. Il foglio scritto a mano e i materassi per terra.»

Già, i materassi: «si va ai materassi», «siamo ai materassi». L’espressione vie-ne dal film Il Padrino. Quando le famiglie mafiose cominciano le loro periodiche guerre, occorre che i soldati cambino indirizzo e si tengano pronti. In anonimi ap-partamenti vuoti, dove ci sono solo materassi per terra. Lì si aspetta. Doveva esse-re stato così anche in quel «covo freddo» di Ciaculli: tre o quattro uomini in una stanza, con i materassi per terra. Per proteggere qualcuno. Per sorvegliare qual-che movimento. oppure chiusi dentro perché a rischio di essere ammazzati.

Quelle poche righe – il «manoscritto di Ciaculli» – costituiscono uno dei pochi scritti provenienti dal mondo della mafia. Chissà di chi parlava l’estensore. Di sua sorel-la? Di un suo cugino? Di una storia che non lo riguardava, ma che lo aveva colpito?

E l’autore del manoscritto di Ciaculli, che fine avrà fatto? Il testo è databile ai primi anni ottanta, ai tempi della «grande guerra» di Palermo. Si può immagina-re che fosse un giovane, ma probabilmente non un giovanissimo. Di scarsissima istruzione, però affascinato dallo scivolare della penna sulla carta. Me lo imma-gino triste, fatalista. Forse è in una delle fotografie di mafia, quelle che mostrano cadaveri sulle strade o riversi dentro le automobili. Forse è scomparso, un desa-parecido. In Sicilia, i cadaveri che contano sono solo quelli eccellenti. La «mala-carne» può scannarsi a piacimento. Di tutti quei morti l’Italia non ha mai voluto occuparsi. Vengono da un altro mondo, che con il nostro ha pochi contatti. Ap-paiono sui giornali, quando appaiono, in poche righe. Vengono «da sotto», si ammazzano tra di loro. Sono sepolti con riti antichi. In un cimitero di reggio Ca-labria ho visto una tomba in cui il morto, un ragazzo, è raffigurato a cavallo. Era un ragazzo di malavita, ammazzato. Gli piaceva molto andare in motocicletta, co-sì, per nobilitarlo, i parenti lo hanno messo in groppa a un destriero.

La Sicilia, la Calabria, la provincia di Napoli, negli ultimi dieci anni sono state il teatro di una strage. ho provato a mettere in colonna i morti delle guerre, dei rego-lamenti di conti, delle faide, delle «lupare bianche» e sono arrivato – si fa fatica a cre-derlo – a un totale di diecimila persone. Una guerra civile che l’Italia è riuscita a tenere nascosta, ma che non ha paragoni con nessun’altra parte d’Europa. La guerra irlan-

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dese, con i suoi tremila morti in vent’anni, appare poca cosa. La lotta per l’indipen-denza dei Paesi Baschi ancora più minuscola. Ai bordi dell’Europa, la stessa Intifada palestinese, peraltro ogni giorno seguita, quasi istigata, è ben più piccola e circoscrit-ta della strage nel sud dell’Italia. C’è voluta la guerra civile nella ex Jugoslavia per co-stringerci a ricordare come cominciano le guerre e come poi sia impossibile fermarle. Da noi nessuno ha voluto vedere, o capire. Nessuno ha pensato che si dovesse inter-venire. Quei «morti degli altri», quei morti lontani hanno però fatto da concime alla ricca Italia degli anni ottanta. hanno proceduto di pari passo aumenti di faide e aper-ture di sportelli bancari; regolamenti di conti ed espansione edilizia; lupare bianche e centri commerciali, sottoscrizione di Bot, consumi e benessere crescente.

Questo libro si occupa del periodo che va dal 1982 al 1993, racconta di quello che ho visto percorrendo i gironi bassi. racconta della mafia e del lungo ingan-no, del lungo sonno, del furbo silenzio che ne hanno consentito l’ascesa. Solo ora scopriamo che la mafia ha cambiato la nostra vita. In peggio. Scopriamo anche che il sud della mafia e il nord delle tangenti sono mondi pericolosamente conti-gui. In queste pagine compaiono uomini che – per scelta, per caso o per mestie-re – sono venuti a trovarsi, dimenticati o abbandonati, su un fronte di guerra non dichiarato, a far la parte dei disturbatori. Compaiono assassini sfrontati, vittime inconsapevoli, spettatori con troppi alibi. Molte persone sono morte in silenzio, e dopo brevi lamenti o deprecazioni sono state dimenticate. Altre sono state esal-tate solo dopo la morte. Non tutte hanno una lapide. Ci sono anche i protagoni-sti di una nuova, aggressiva e cupa Italia, di una nuova classe sociale nata senza storia dal cimitero della guerra civile del sud. I loro tic, le loro ambizioni, in ge-nere modeste, ma perseguite con ferocia. I percorsi del loro denaro.

Raccolto rosso (Red Harvest) è un romanzo dello scrittore americano Dashiell hammett, scritto nel 1929. La trama è semplice. Un detective arriva nella cittadina mineraria di Personville dove, anni prima, il padrone aveva assoldato una banda di gangster per porre fine a uno sciopero dei minatori. Questi avevano svolto il com-pito, ma poi non se n’erano andati come da contratto. Al contrario, piano piano si erano presi la città. Quando il detective arriva, l’uomo che l’aveva assunto per fare pulizia è stato appena assassinato. Il detective potrebbe quindi andarsene, ma ri-mane. Nota che i poliziotti hanno la divisa in disordine, la barba lunga; che gli abi-tanti chiamano Personville «Poisonville», la città del veleno. Scopre che i gangster stanno cominciando a litigare tra di loro. Nei primi capitoli si susseguono una ven-tina di omicidi e compare una ragazza che ama solo i soldi, possiede un fascino ir-resistibile e ostenta calze smagliate. Il detective entra nella contesa e dà una mano alla progressione dei delitti, fino alla «tabula rasa» finale: il raccolto rosso. rosso sangue, appunto. Il libro ebbe molto successo negli Stati Uniti, dove è considerato un classico dell’indagine sulla «corruzione e sulla violenza presenti nella società america-na». In Italia è stato pubblicato con il titolo Piombo e sangue e non è molto conosciuto. Era presente però nelle librerie di Leonardo Sciascia e di Giovanni Falcone; e a tutti e due, senza sapere l’uno dell’altro, accadde di prevedere un futuro «raccolto rosso».