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23 L'inizio e la fine I Sommario: Andrea Tagliapietra.

ILOSOFICHE... · Web viewL’interpretazione di Colli, qui come con il successivo Eraclito e, in genere, in tutta la lettura della “sapienza greca” è avvolta nel sortilegio della

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L'inizio e la fine I

Sommario:

Andrea Tagliapietra.

HYPERLINK "http://www.giornalecritico.it/GCSI%206-7/AndreaTagliapietra.htm" Apocalypsis cum figuris. Dellinizio e della fine della scrittura

Giacomo Petrarca

HYPERLINK "http://www.giornalecritico.it/GCSI%206-7/Giacomo%20Petrarca.htm" Inabitabile fine. Alcuni motivi filosofico-teologici su Gv 11

Enrico Cerasi In principio era il mito? La domanda gnostica alla teologia cristiana

Ernesto Sergio MainoldiLinizio prima dellinizio e la fine dopo la fine. Esiti paradigmaticidella speculazione patristica e medievale sulla temporalit

Francesco ValagussaPensare la fine: sulla dialettica tra estetica ed escatologia

Sebastiano GhisuFine, inizio, riproduzione

Andrea SangiacomoRitornare a Spinoza. Appunti per una contro storia dellontologia dal punto di vista dellinfinito

Alfredo Gatto

HYPERLINK "http://www.giornalecritico.it/GCSI%206-7/AlfredoGatto.htm" La possibilit di un inizio. Leibniz e la critica dellindifferenzadivina negli Essais de Thodice

Vincenzo VitielloPotenza ed impotenza della prassi. Da Marx a Nietzsche

Apocalypsis cum figuris.Dellinizio e della fine della scrittura

di Andrea Tagliapietra

Inabitabile fineAlcuni motivi filosofico-teologici su Gv 11

di Giacomo Petrarca

. Un fratello

Hen d tis asthenon. Cera un uomo malato, langues, un uomo che avverte tutta limminenza della putrefazione della sua carne: negli spasmi della malattia c presagio di morte, sempre. Non a caso lEvangelista apre lundicesimo capitolo, quello in cui vengono narrate le vicende della morte di Lazzaro, dicendo: cera un uomo malato. La scena cos inesorabilmente delineata, lo sguardo gi indirizzato verso unimmagine precisa, al nostro passo viene chiesta cautela: si odono oramai le grida e lo strazio di dolore lancinante che non conosce guarigione. C una scena tanto antica e tanto attuale: due sorelle, Marta e Maria sedute al capezzale del fratello malato; una scena cos comune da non riuscire forse, pi a coglierne la drammaticit.

Saranno stati presenti forse anche dei parenti, degli amici; volti cupi di fronte alla morte che sembra aver ormai varcato la soglia della casa, quella stessa morte verso la quale tutti sono volti: tutto venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere dice Qohlet (Qo 3, 20, ma gi Gn 3, 19). Ma c dellaltro: sappiamo che il malato si chiama Lazzaro e che Marta e Maria sono le sue sorelle, Maria autem erat quae unxit Dominum unguento et extersit pedes eius capillis suis (Gv 11, 3); il dramma non si compie in una dimensione estranea, altra, nella quale il Cristo viator irrompe; non ci sono folle da sfamare o ciechi mai visti prima dei quali solo il Cristo conosce la fede: Lazzaro suo amico; ecco che il dolore, comera gi accaduto per la morte del Battista, torna nelle vicinanze del Messia, nella cerchia degli amici cari; il tpos nel quale si svolgono i fatti una dimensione privata, prossima per amicizia a Cristo: colui che tu ami malato (v. 3)[1].

Dunque una malattia, ci dice il testo e poi tace. Cosa avr pensato Lazzaro? Cosa avr mormorato nei rantoli dellagonia? Sara stato forse incosciente? A chi avr affidato il suo dolore? Sapere di essere amici del Messia di colui che avrebbe dovuto impetrare nel mondo il Regno, dove peste umana n fittizia doglia (Montale 1984, p. 22) non avrebbero pi suonato, dove le lacrime sarebbero state asciugate da tutti i volti e la morte cancellata per sempre e giacere in un letto di morte. Si amati dal Messia e si muore comunque, si muore ridotti come un verme nudo nella terra. Yovad yom iwaled bo sentiamo gridare il nostro Lazzaro; vogliamo dargli voce, una voce flebile che ormai disanima: perisca il giorno in cui sono nato (Gb 3, 3). Dov quel Regno? Avr chiesto a sua sorella, o forse lavr serbato in cuor suo. Come non ricordare le parole del Battista sei tu che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro? (Mt 11, 3)[2]. In questo domandare gi contenuto tutto il fallimento di un eschaton che non riuscito a salvare nessuno dalla casa in fiamme del profeta Ezechiele (Ez 16, 41). Perch la risposta affermativa: s, sei tu il Veniente grida Lazzaro con Giovanni figlio di Zaccaria, non c nessun altro dopo di te! Cos quella parola tanto meravigliosa quanto ormai inascoltabile alle nostre orecchie deluse da duemila anni dincensi e fatue promesse di salvezza, proprio quella di Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente (Mt 16, 12). La sconfitta si fa perci atroce perch nella sua possibilit, non ne ammette delle altre; la morte ormai prossima e la malattia di Lazzaro ha gi conquistato tutte le membra. Tuttavia nel testo evangelico non v traccia di tutto ci; Lazzaro muto, lEvangelista non si riferisce a lui direttamente, se non per informarci della sua malattia ch la morte sempre di un altro, mai nostra. Cos Rilke:

Nulla sappiamo di questo svanire che non accade a noi. Non abbiamo ragioni- ammirazione, odio oppure amore-da mostrare alla morte la cui bocca una mascheradi tragico lamento stranamente sfigura

(Rilke 2000, pp. 66-69).

La morte che esperiamo sempre linesperibile: laltro muore, non noi. Esso il tolto, il sottratto, il ghermito dallazione immediata della morte, e con laltro, se ne va anche la condizione di possibilit di ogni conoscere-esperire: svanire scrive Montale dunque la ventura delle venture (Montale 1984, p. 34). Cosa resta dunque? Resta solo un lamento, quel grido sordo di Rahel che piange i suoi figli morti e non vuol essere consolata, perch non sono pi (Ger 31, 15 Mt 2, 18). Non vuole e non pu essere consolata; lacrime che scendono a frotte ed insieme gi asciutte, cos inconsolabili: lacrime per una non-presenza, lacrime per un niente. Dove il niente costituito da quel figlio che prima era ed ora inconoscibile, e non perch semplicemente non sia pi: non appare mai la nullit dellente vero, eppure appare la sua non-presenza. Appare sotto forma del gelido pallore che tinge le labbra e le guance, nella rigidit delle mani che non possono pi accarezzare. Scomparso dice il linguaggio con fare esorcizzante. Eppure niente scomparso. l, in quella terribile presenza che sa di assenza: ma non lo . l, di fronte ai nostri occhi offuscati dalle lacrime: par che dorma. Ma i molti secoli prima e dopo il Glgota, ci hanno insegnato che nessuna creatura dormiente riposa di un sonno cos pesante da non poter esser infranto dalle lacrime duna madre. Se addormentato, si salver (Gv 11,11) baster destarlo dal sonno pensa con ingenuit il discepolo. Ma questa volta come tutte le altre nessuno si ridesta, nessuno vediamo tornare indietro dai morti. La sola verit della morte, che quel residuo va presto sottratto al nostro sguardo in fretta perch tra poco inizier ad esalare un orrendo fetore: marcir (Cfr. Janklvitch 1994). Ancora:

Le due sorelle mandarono a dirgli: Vedi, Signore, colui che tu ami ammalato. Sentito che lebbe, Ges disse: Questa malattia non per la morte, ma per la gloria di Dio, affinch per mezzo di essa sia glorificato il Figlio di Dio. [] Detto questo, soggiunse: Il nostro amico Lazzaro si addormentato, ma vado a risvegliarlo. Gli dissero allora i discepoli: Signore, se dorme, si risveglier. Ges parlava della morte di lui.

La morte di Lazzaro non prs thnaton, non la consegna della proprie carni alla putrefazione. No, una morte per la gloria di Dio. Parola assurda sulle labbra del Messia: la morte dellinnocente per la Gloria di Dio, la morte dellamico caro affinch credano che tu sei il Signore!. Parola inascoltabile, tracotante. C unambigua sicurezza nelle parole del Cristo, un ingiustificabile compiacimento che risuona nellannuncio esplicito della morte dellamico, come se morire per manifestare la potenza di Dio, sia un morire pi sostenibile, pi ragionevole, in qualche modo pi accettabile di quanto non sia quello insensato di tutti noi, noi indefettibilmente votati alla morte (Rosenzweig 1921). Ed il Testo aumenta il nostro sgomento poich Ges resta ancora due giorni al di l del Giordano, in modo che il miracolo sia ancora pi clamoroso (Quinzio 1991, p. 563). Lazzaro muore, il Cristo attende affinch il miracolo della resurrezione dellamico possa compiersi suscitando cos grande scalpore, poi entra in scena e realizza il miracolo. Lettura provvidenzialistica, chiara, semplice: lamico alla fine di nuovo in vita, la vita di sempre[3]. Ma il testo dice altro. V una latenza, un non-detto nelle parole e nei gesti del Cristo che emerge solo procedendo nella lettura con passo cauto. Perch ormai si sta calpestando un terreno impuro, grigio, dove le tinte violacee della morte e gli olezzi della carne rendono landare pi incerto. Disse allora Tommaso chiamato Ddimo ai condiscepoli: Andiamo anche noi a morire con lui (Gv 11, 16).

Eccolo il vero dire, la parola forse inconsapevole del discepolo ma che dice del non-detto; dice del non-detto, sintenda, ma non dice il non-detto. Pu solo indicarlo, additarlo ma non esprimerlo: pu solo testimoniarne la presenza inconoscibile, patirlo nellincapacit di portare a compimento il proprio intento[4]. Il ritorno in Giudea sar cos la consacrazione del Cristo alla morte; e tra le proteste dei discepoli poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ritorni l? Ges si de-cide: Eamus in Iudaeam iterum (Cfr. Dodd 1953)[5].

2. Marta

Quando Ges arriv, trov che Lazzaro stava nella tomba gi da quattro giorni (Gv 11, 17). Tutto ormai compiuto: la morte avvenuta, il sepolcro sigillato. Marta la prima a sapere dellarrivo del Cristo; cos gli corre incontro (v. 2 ss). Poi la volta di Maria che viene avvertita in segreto da sua sorella, lathra di nascosto e la Vulgata traduce: vocavit Mariam sororem suam silentio dicens: il Maestro qui e ti chiama. C un dialogo tra il Cristo e le due sorelle; poi quello chiede: dove lavete posto? Domanda dallinequivocabile forza evocativa, quasi un presagio: in essa riecheggia la voce di Maria al sepolcro, nel terzo giorno: se lo hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto (Gv 15). Ma la scena pi complessa, si tratta di capire, di ascoltare il testo, di farsi coraggio e procedere.

Marta disse a Ges: Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. Ma anche ora so che qualsiasi cosa tu chieda a Dio, egli te la dar. Le dice Ges: Tuo fratello risorger. Gli risponde Marta: So che risorger nella resurrezione allultimo giorno. Le disse Ges: Io sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se morisse, vivr; e chiunque vive e crede in me, non morir mai. Credi tu a ci? Gli dice: S, Signore. Io ho creduto che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, quello che deve venire nel mondo.

Commenta Agostino: Non disse: -Ti prego di risuscitare subito mio fratello. Come poteva sapere infatti che a suo fratello giovasse risorgere? (Agostino, In evangelium Joannis, tr. it. 1986, p. 983) Strana retorica quella di Agostino. vero, di fronte alla morte il grido e lo strazio si convertono immediatamente nella hybris dimporre a Dio il proprio volere, il proprio patire; meglio: nella pretesa di reputare che in questo soffrire stia lindifferenza di Dio. Eppure come poter credere che fosse stato meglio per lui dessere morto? Le parole della giovane tradiscono lemozione e la tragicit della situazione; sembrano trasfigurarla in una pi divina quasi angelica dimostrazione di fede che di fronte allevidenza sa dire sed et nunc scio quia. E non dice credo ma, so che, sono certa che! Nel suo scire sta tutta la maestosit del credente, del pistuon; un fiat irremovibile che non vacilla perch sa gi: mio fratello risorger, dice Marta. Vede-conosce gi quello in cui credere, ne consapevole: la fede non si presenta come una professione dun mistero insondabile, ma tutta presente: Tu sei il Cristo, il figlio di Dio, quello che deve venire nel mondo. Il contenuto del credere gi tutto creduto, visto anzi saputo da Marta. Non c lacrima, non c affanno: tutte le lacrime e tutti gli affanni sono rivolti ad un tlos gi deciso, gi definito poich flesso su se stesso, ricondotto in s, fatto sostanza[6]. La fede di Marta il credo che vede dove gli altri non vedono, la fede che vede lassurdo appunto gi come sostanza. C un fratello che giace, ma non giace in fondo perch il Cristo lo resusciter? E per il fatto che lo resusciter, poco importa della sua morte, delle sue strazianti grida: si gi oltre la fossa. E cosa ne del cammino? E perch dolersi dellassenza del Cristo? Ha ragione Agostino allora nel mettere in bocca a Marta so che puoi farlo che puoi resuscitare Lazzaro ma sei tu che devi giudicare se il caso di farlo, non io; eppure il dire disdice il proposito: non ci era forse stato detto che questa morte era solo per la gloria di Dio?[7]

Ma ci si sta ancora muovendo alla luce del giorno, nella luminosit delle dodici ore: se uno cammina di giorno non inciampa aveva detto poco prima il Cristo. Per, per tornare in Giudea si dovranno attraversare anche le tenebre, ch il cammino sar lungo. Sapremo non inciampare quando la luce verr a mancare? E lo stesso per Marta: ormai il tramonto. Dice Ges: Levate la pietra. Gli dice Marta: Signore gi puzza... di quattro giorni... (v.39). La fede di Marta sconfitta, disfatta totale. Proprio lei, quella stessa che poco prima con ampollosa verbosit caveva ingannati col suo incrollabile sapere, ora protesta quasi stupita: fermo gi puzza. Marta ricorda la fastosa fede che si consuma nella mondanit degli incensi, la folle pretesa di decidere per Dio e di Dio. Inganno, finzione, hvl hvlm (Qo 1,1). Ma cos facendo, la morte si rivela pi forte anche di Dio stesso. Cos Cristo a Pietro: Va via da me, satana! Tu mi sei di inciampo, poich i tuoi sentimenti non sono quelli di Dio, ma quelli degli uomini (Mt 16, 12).

3. Passaggio

Ormai labisso, e nellabisso si naufraga. E dove c naufragio restano rottami, brandelli di carni, spezzoni di legno, oggetti e frammenti che galleggiano. Quel che il mare non ha inghiottito con lo scafo, ora davanti ai nostri occhi, fluttuante, duna fatua leggerezza. Dilegua e riemerge nel leggero e ritmato dondolio delle onde. Riemerge e ancora sinabissa. Poi il silenzio e il calore del sole che fiacca i pochi superstiti aggrappati a qualche moncone di legno in superficie. Nessuno verr a prenderli, nessuno, e uno ad uno seguiranno la sorte dei compagni. Il corpo segue la sorte del suo capo (Col 1, 17-18; Ef 1, 22-23). una verit che non si pu avere la forza di fissare, ma per chi crede che si salvati soltanto partecipando alla morte del Signore (Rm 6, 4; Mc 10, 38; Lc 12, 50; Mt 10, 38) non mostruosa come la visione di uno sciamare di secoli verso il cielo, lungo i quali un agnello su mille deve morire suppliziato per giungere l dove gli altri giungono invece da pecore soffocate dal loro grasso (Quinzio 1991, p. 42).

4. Maria

Non v nessuna descrizione dellaspetto della giovane Maria: il testo tace qualsivoglia elemento descrittivo. Non c plasticit iconografica, n leggerezza impressionistica nei ritratti delle singole figure, ch quelle evangeliche sono semplicemente questo: gesto. Essenzialmente gestualit. Maria il suo silenzio. Meglio: il suo silre. In questo silenzio si sospende ogni parlare, forse: anche questo parlare. Si sospende: gesto anchesso. Disse allora Maria: Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. Poi tacque. Se tu fossi stato qui: prima e dopo silenzio. Che accadde poi? Cristo soffriva. Il Testo dice: fremette (evebrimsato) nello spirito e si turb (etraxen). Fremette? Chi? Il Cristo... non era forse per la gloria di Dio? S, infatti: per questo che...[8] Poi pianse. Nellatopicit del momento, di quel momento, ch questo Betnia ma anche Getsmani. Padre allontana da me questo calice (Lc 22, 42).

E Rilke:

Dunque, era necessario per questo e quello,perch volevan segni che gridassero.Ma lui sognava che a Marta e Maria bastassecapire che poteva. Ma nessuno credeva,tutti dicevano: Signore che vieni a fare ormai? (...)Parve loro che il pianto gli colasse,e lo seguirono in folla curiosa(Rilke 2000, 436-439).

Gestualit deventi, voci vedute ora a Betnia, di fronte alla pietra gi rotolata s, troppo tardi sodono voci. Donna perch piangi? E nessuno: Joshua, perch piangi? Ma tutti: non poteva costui che ha aperto gli occhi al cieco, far s che questo non morisse? (v. 37) E quello: Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi! (Lc 23, 39).

Et lacrimatus est Iesus. Questa malattia per la morte: per la morte di Lazzaro, per la morte del Cristo. Nelle lacrime del Cristo sta limmane urgenza dun gesto che il figlio delluomo pagher a caro prezzo. Ancora un momento per. La disperazione invase anche il Cristo, lo sconforto umano: pianse. Ma poi il Cristo credette? E perch tacque? Perch non disse anche a Maria: tuo fratello risorger? Ma fremette, nel profondo dellanimo, fremette. E tacque. Non disse nulla. Nulla seppe rispondere. Vi una distanza infinita tra i due silenzi. Maria tace. Sembra abbracci anche laffanno del Cristo; lo accoglie in s, ne inspira tutta la nullit. Lei di fronte al Cristo Re, lo sguardo fisso. Ora un ebreo si fa avanti, afflitto, dun dolore sordo, intollerabile: anchegli ha perso un amico e non uno solo... Guarda Maria, poi chiede:

E il tuo occhio verso dove sta il tuo occhio?Il tuo occhio sta di fronte alla mandorla.Il tuo occhio lui sta di fronte al Niente.Lui sta rivolto al Re.Cos sta, lui, e sta.(Celan 1998, pp. 414-415)

Lei guarda in volto il Re lo guarda col suo occhio. Nessuno chiede dove sia il Re perch tutti direbbero qui. Ma lei lo sa lei sa dov il Re, perch s, le sta di fronte ma non come innanzi agli altri. Non ignora lei, n sa (Cfr. Vitiello 2005, pp. 57-82)[9] e tace. Va creduto in quel Niente; questo solo sa Maria: va creduto quel Niente. Tutti aspettano un segno. Lei sa di dover stare un sapere ch arresto, arresto ch fede: arresto forse, anche di quel sapere ch larresto stesso. Chiusa in un gesto non chiuso come potrebbe esserlo? : lei sta, e tace.

E il suo di volto? di Maria?

5. Maria ovvero lArresto

Nellangoscia, langoscia della finitezza, del singolo, di quella giovane che nel silenzio si porta innanzi al mistero. Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. Sapre la vertigine, labisso che mediante la fede scrive Kierkegaard pone il singolo in rapporto assoluto con lAssoluto. Nessuna mediazione ch non potrebbe darsi. Langoscia si pu paragonare alla vertigine: quale vertigine? La vertigine della libert (Kierkegaard 1844, tr. it. 1972, p. 140). Libert come apertura della possibilit, sintesi che pone lo spirito, possibilit del salto qualitativo: la realt della libert come possibilit per la possibilit (Kierkegaard 1844, tr. it. 1972, p. 130). a questo punto che si decide del gesto: il doppio movimento. Rinunciare alla finitezza dice ancora Kierkegaard nel movimento della rassegnazione infinita. Ma attenzione: nessun abbandono mistico, piuttosto, in forza dellassurdo si deve fare in modo di non perdere la finitezza, ma di guadagnarla tuttintera (Kierkegaard 1843, tr. it. 1972, p. 56): questo il movimento della fede. Nessun trampolino per lAssoluto insomma. Linterezza del movimento si compie in un Oejeblik: il platonico exaphnes, perch nellistante in cui il peccato posto, la temporalit peccaminosa (Kierkegaard 1844, tr. it. 1972, p. 158). Con la peccaminosit posta anche la possibilit, del passato come del futuro. Non un eterno presente, ma lEterno che si fa presente, listante in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che lavranno ascoltata, vivranno (Gv 5, 25; Cfr. Petrarca 2010 e altres Id. 2009). Unicamente nellora che Adesso posta la finitezza: nellistante la finitezza che immediatamente . Tradire listante, spingersi oltre, vuol dire tradire la finitezza. Se tu fossi sto qui, mio fratello lipoteticit della parola rivolta al Cristo, non esprime n una pura possibilit, n il rammarico per qualcosa che sarebbe potuto accadere, ma cos non stato. La parola di Maria istituisce un luogo tutto finito (dunque non solo finito, ch escluderebbe linfinitezza) luogo ou-topico in cui si d quel dire: nella tua presenza Lazzaro non morto s morto. Maria dice la contraddizione, dice con le parole del poeta che il moto / non diverso dalla stasi, / che il vuoto il pieno, e il sereno / la pi diffusa delle nubi (Montale 1984, p. 302). Dice? La sua voce umana disdice anche ogni intento di esprimere listante: ma in esso che abita, in esso e di esso vive con lumilt dellocchio che mostrando il mondo consapevole di quellunica vista che gli negata: vedere se stesso.

Fedele alla parola, Maria: Fermati! Ma a cosa devo fermarmi? A ci che nello stesso momento trasforma infinitamente tutto (Kierkegaard 1850, tr. it. 1972, p. 702). Se tu fossi... una delle pi grandi esperienze evangeliche darresto: laltra sar su quel monte, ai piedi della croce. Perch il discepolo del possibile dice Kierkegaard si formato alla scuola della finitezza, e sta nel finito, in un esercizio continuo, dove la pazienza nella sofferenza essa stessa arresto: soffrire con Cristo consapevoli di una imitatio impossibile: ch Egli il crocifisso, non noi. A noi dato di stare come contemporanei ai piedi della croce, dove nellarsa terra di Giudea vediamo le pietre insanguinate dai rivoli di vita che scorro gi per il tronco conficcato nel terreno: il tronco di Jesse. Cos Kierkegaard:

soffrire in somiglianza con Cristo non consiste nel trovarsi paziente nellinevitabile, ma nel soffrire il male da parte[10] degli uomini perch, come cristiani e per essere cristiani, si abbraccia la causa del bene in modo che, a evitare tale sofferenza, basterebbe smettere soltanto di volere il bene (Kierkegaard 1850, tr. it. 1972, p. 777).

Infatti fu detto: chi vuole la sua vita, la perder e non chi perder la sua vita lavr; piuttosto, chi perder la sua vita per me... (Mt 16, 25): ma cos per me?

Inutile fingere, volto di Maria anche questa terribile inquietudine: ch non solo Maria credette in Dio, ma credette.

6. In limine: Rmerbrief

Cos Barth: allinterno della possibilit religiosa, non vi ubbidienza n risurrezione n Dio (Barth 1919-1922, tr. it. 2006, p. 212). Nessuna dialettica possibile tra luomo e il totalmente Altro perch uninfinita differenza qualitativa li separa. Dio Onnipotente, deus absconditus (Es 33, 20): pura ed eccelsa sta la forza di Dio, non accanto e non soprannaturalmente sopra, ma al di l di tutte le forze condizionate-condizionanti (Barth 1919-1922, tr. it. 2006, p. 12). Religione dunque, condotta alla sua crisi radicale, alla sua catastrofe ed insieme unico luogo abitabile: stare, unicamente stare, nella possibilit umana che Dio non qui [...] e perseverare in essa, affinch al di l del limite segnato da essa Dio ci tocchi (Barth 1919-1922, tr. it. 2006, p. 223). Stare dunque. Ma davvero saldo? Torna quel dire e forse, mette in crisi lintero discorso poich esso non implica alcun troppo dialettico affinch: se tu fossi stato qui... Da questo punto in poi, il paolino Barth sembra tradire il suo intento: solo il condannato pu essere salvato, fin qui il no umano poi il Si divino... e perch Dio dovrebbe toccarci proprio al di l del limite, di quel limite che lo stesso Barth ci aveva detto essere pur sempre a parte homini, umano troppo umano? Titanismo anchesso. Solo appunti per, cenni, note. Perch dice Barth questo semplicemente un Vorarbeit, un lavoro preparatorio: a cosa? Forse solo al proprio silenzio, al proprio riproporsi, nelloffrire nuovamente quellintrinseca provvisoriet, mai propedeutica, mai definitiva perch voce della finitezza. Noi non possiamo chiedere alla verit: perch sei verit? [...] Con la verit non possiamo iniziare niente, perch essa stessa il nostro inizio (Barth 1919-1922, tr. it. 2006, p. 268). Linizio: Cristo. Imprescindibile il cristocentrismo barthiano. Il Golgota fine della Legge e limite della religione. Un limite dov tutto il tempo e insieme nulla del tempo: frangente outopico dove soltanto Dio pu ancora sostenerci (Barth 1919-1922, tr. it. 2006, p. 85). Sostenerci non quasi al limite e neppure al di l: perch prima ed oltre vi saranno pur sempre altre terre ed altri mari e distese deserte nelle quali tutti i condannati della terra potranno anche raccogliersi che certo nessuno verr a salvarli. la grandezza del pensatore Barth: colui che lesse il Fedone di Platone e quindi si gett nel mare aveva cos poco afferrato il senso dellimmortalit quanto i molti che ne hanno sopportato la lettura senza buttarsi nel mare (Barth 1919-1922, tr. it. 2006, p. 268).

Sembra quasi di sentirla quella Maria: Piuttosto pregate cos: Sostienici in limine. Amn.

7. Laltra Maria di Saramago

La durezza dello stare, implica anche quel che si dir. Diversa dalle altre immagini. Lei prostituta, compagna del Cristo. Si respira unaria di mitologia apocrifa, oscure potenze teutoniche popolano i deserti e i luoghi de Il vangelo secondo Ges Cristo (Saramago 1991, tr. it. 2002). Pastore, Ges, Maria di Magdala, numerosi discepoli e una misteriosa scodella nera donata da un angelo che di tanto in tanto, si ripresenta nella narrazione: presagio futuro dun destino di croce. Ed il grido dellora nona, il grido dellabbandono, dello strazio infinito assume i tratti dellultima la pi grande accusa contro Dio che tutta quella sofferenza aveva de-ciso: Uomini, perdonatelo, perch non sa quello che ha fatto (Saramago 1991, tr. it. 2002, p. 410).

La scena per, pur sempre la stessa. Lazzaro giace disteso su una stuoia, morto. Ges si dirige verso il cadavere. Scrive Saramago:

sent che una forza infinita gli trascinava lo spirito, in quel momento supremo poteva attuare qualsiasi cosa, compiere tutto, scacciare la morte da questo corpo, restituirgli lesistenza e lessere, la parola, il gesto, il sorriso, anche le lacrime, ma non di dolore, poteva dire, Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me... (Saramago 1991, tr. it. 2002, p. 394 e ss.)

Poi Marta avrebbe dubitato come scritto, ma Cristo avrebbe continuato nel suo intento, concentrando il suo spirito sul corpo esanime di Lazzaro. Poi avrebbe gridato, Lazzaro alzati! secondo il volere del Padre. Avrebbe, perch...

in quellistante, ultimo e finale, Maria di Magdala posa una mano sulla spalla di Ges e dice, Nessuno ha compiuto tanti peccati in vita per meritare di morire due volte (Saramago 1991, tr. it. 2002, Ivi.).

Che dire? Cosa obiettare a Maria? Terribile quanto coraggiosa. Rinuncia anche alla speranza perch la speranza non si vanifichi? Forse. Abbracciare tutto il peso della finitezza, cura estrema della possibilit unica del finito: uno stare anchesso. Tragico, forse una rinuncia tutta umana, parole mosse dal dolore immenso: ch almeno non si ripeta! Ma cosa rispondere a quella sorella? No, stato bello quel fiore, cos bello anche per il suo sfiorire, nella sua precariet. Troppo pesante da sostenere? O forse, vile sentimentalismo? Ma cosa obiettare? Nulla. Si gi detto: uno stare anchesso. Lo sa anche il Cristo: ...a quel punto Ges lasci ricadere le braccia e si allontan per piangere (Saramago 1991, tr. it. 2002, Ivi).

8. Malum mundi

Cos Quinzio:

La redenzione, la salvezza, la resurrezione non linteriore liberazione dal peccato, ma la liberazione dalla putrefazione della morte: e non in un futuro indefinito, in un punto allinfinito mai raggiungibile dalla nostra esperienza ed estraneo perci al nostro desiderio, ma adesso (dacci oggi il nostro pane di domani Mt 6, 11). A Marta (non a Maria, Lc 10, 41-42) che pensa allultimo giorno come a un tempo predeterminato nel futuro e separato dalla nostra potenza di invocazione (Gv 11, 23-24) Ges risponde che gi venuto il momento di credere per resuscitare i morti (Mt 10, 8) e per mai pi morire (Quinzio 1991, p. 564).

Ladesso di cui parla Quinzio il tempo della paolina plenitudo temporis, il nyn kairos della venuta del Figlio che redime la storia, poich la de-cide: antico e nuovo sono tali solo a partire dalla hora (Gv 5, 24-25) del Cristo, dal nuovissimo presente che inaugura il Regno: Ecco adesso (nyn) il tempo (kairs) favorevole, ecco ora il giorno della salvezza (soteras)! (2Cor 6, 2). Eppure, scrive Quinzio, se nel tempo escatologico, cio ultimo proprio perch de-finitivo tempo in cui il Cristo ha vinto la morte questa ancora una presenza realissima, se in questo tempo della salvezza in atto si muore ancora e lacqua del torrente passa con la stessa indifferenza su una pietra e sul volto del bambino annegato (Quinzio 1998, p. 94), allora lannuncio cristiano palesa il proprio radicale fallimento, linsostenibile verit che il Messia venuto ma il suo regno stato sconfitto (Ap 13, 7) (Quinzio 1998, p. 650). La sconfitta del regno sconfitta di Dio, attestazione della propria radicale debolezza, messa in questione duna salvezza che si configura in una forma profondamente differente da quella consolatoria e conciliante, presentata da duemila anni di cristianesimo; forma che nella rilettura quinziana del testo biblico gi i profeti avevano indicato nellimmagine del resto dIsraele, di quei pochi che Dio ancora in grado, forse, di salvare non potendo salvare tutti ma solo brandelli del proprio popolo (Cfr. Quinzio 1980 e altres Id. 1992; Fulco 2007). Su questa tragica consapevolezza si articola, per Quinzio, lunica esperienza cristiana ancora possibile; una spes contra spem (Rm 4, 18) cos estrema da radicarsi ogni volta nel tragico fallimento del proprio sperare. Proseguendo nel commento alla morte di Lazzaro cos scriveva:

Adesso dobbiamo credere che i morti non devono per forza restare nella tomba e che non si deve per forza continuare a morire, adesso che passato invano anche il terzo giorno, quello della resurrezione di Ges, e siamo al quarto, il giorno della putrefazione (Gv 11, 39) (Quinzio 1991, p. 564).

Ladesso cristico di Quinzio diventa lattesa nel quarto giorno, il giorno della disfatta, del silenzio dopo il silenzio, giorno dellabbandono, del dolore inconsolabile e ormai fiaccato da troppe delusioni. Sofferenza umana, tutta umana che diventa sic et simpliciter sofferenza divina: lo scarto minimo, il rischio celato, immenso; scrive infatti Quinzio: piangere vicino al Regno (Quinzio 2001, p. 168): ma quale pianto? Di quali lacrime? Dun pianto che prima desser asciugato, redento custodito, con-solato: nelle lacrime. Serbare il dolore e la sofferenza, salvare mantenendo la finitezza dogni lacrima (Cfr. Vitiello 2002, pp. 113-116); il che significa: saper scorgere in ogni sofferenza unimmagine del Regno, un segno della tenerezza di Dio. Mai al sicuro anche dalla hybris pi grande quella che pretende dinchiodare Dio al dolore umano perch lo assolutizza volendone dar ragione lo sforzo di pensiero del paolino Quinzio, sa anche sottrarsi, sa anche intravedere la via finita, finitissima certo, che non esclude per da s la possibilit dellAltro, ma anzi, a quella possibilit rimette anche la propria gioia, la propria insperabile salvezza. Scrive Quinzio in uno forse, dei luoghi pi intensi della propria produzione:

Se sperimentabile una gioia pi intensa di ogni dolore, nel regno c pi gioia che dolore, ma c anche tutto il dolore. Tutta la miseria, tutto lobbrobrio, la visione di chi muore torturato. Insieme a una gioia ancora pi grande (Quinzio 2001, p. 168).

Prossimit perci che si fa anche illimite distanza: ch quella gioia ancor pi grande non sia lennesima volont di redimere, di mondare. Con la parola del poeta:

Benvenuta la voragine, la minima fessuradellimpiantito che sostieneil solaio della mente. Tutto trattiene e conviene talvoltasfondare la porta e sgombrare,evacuare, tacendo, il silenzio.Pioli di scale mai salite,catene tolte in fretta,repliche di esistenze riaffioranti: linventario di quello che mancava. Per vie che non sappiamo di salvezzaquel farsi di s da s si sgrava(Meschia 2004, p. 17).

9. Maria: Kata Joannen

Raccolto quel silenzio, tenutolo stretto, saffrett per la via che conduceva al sepolcro. Un profondo senso di sconforto aggrediva i suoi pensieri fiaccando anche il passo. Al sepolcro poi la pietra era rotolata: sera aperto un varco... Ma lei non comprese. Scoppi in un pianto profondo perch non avrebbe potuto sopportare anche questultimo dolore. Pietro e Giovanni erano tornati indietro: messaggeri della Notizia, loro ai popoli nel nome del Risorto; lei invece donna, e non v donna che possa essere creduta dal mondo. E piangeva quella donna lei e quel suo seno al quale serano accostate le labbra sprezzanti di molti. Poi una voce. Donna, perch piangi? Chi cerchi? chiese, quella mattina dun terzo giorno, al sepolcro. Come quella volta: e voi chi dite chio sia? (Mt 16, 15). Ma lei piangeva ed aveva paura. Se lo hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto ed io andr a prenderlo. Il Testo dice: vide (theorei) Ges che stava l e non sapeva (edei) che Ges era: pensava fosse lortolano. Marym disse il Cristo, Rabbun rispose lei. Forse il viso contratto si sciolse in un sorriso... un raggio di realt irruppe per quel varco che Egli sapr: Grn wirklicher Grne, wirklicher Sonnenschein, wirklicher Wald... Non mi trattenere.... E lei and; e noi talvolta recitiamo la vita senza pensare allapplauso[11].

10. Chiusa

La Scrittura prosegue poi dicendo che Lazzaro viene ridestato dai morti. Dopo aver redarguito Marta (v. 40), Ges grid a gran voce: Lazzaro, vieni fuori. Poi ordin: solvite eum et sinite abire (v. 44). S. Finalmente libero. Dal peccato? dal male? dal suo male? No, non dal male; ma non importa: lasciatelo andare.

Note

[1] Diligebat autem Iesus Martham et sororem eius Mariam et Lazarum Gv 11, 5 (Vulg). Le citazioni bibliche sono tratte generalmente da: Bibbia Tabor, Nuovissima edizione dai testi originali, San Paolo, Cinesello Balsamo, 2002; Nuovo Testamento Interlineare, a cura di P. Beretta, San Paolo, Cinesello Balsamo, 2005. In alcuni casi le traduzioni sono state leggermente modificate.

[2] Pi incisivo il testo greco: sei tu il veniente erchmenos da erchomai (vado,vengo) che secondo Semerano in sostanza lo stesso verbo archo che ha assunto il valore di andare avanti, ma che alle origini ha quello di affrettarsi per via, essere guida. Aggiunge Semerano che andrebbe fatto risalire ad una radice accadica erehu, arahu che assume il valore di muoversi rapidamente, procedere con impeto specie in guerra (Giovanni Semerano, Le origini della cultura europea, Dizionari Etimologici Vol.II, Olschki editore, Firenze 1954, p. 98). Cos il Messia colui che viene presto, il ladro di notte (1Ts 5, 2 2Pt 3, 10), in fretta ad edificare il Regno: lultimo che anche il primo, lalfa e lomega, l' e la . Colui che procede con l'impeto del novum, istituendo ci che era En arch. L che in Principio, si fa dunque erkomenos veniente, per essere alla Fine (il dietro di me veniente davanti a me stato Gv 1, 15).

[3] Nel capitolo successivo Lazzaro prender parte ad un banchetto, a dimostrazione di quanto la propria vita fosse tornata alla normalit (cfr. Gv 12, 1-8).

[4] Quel non-detto emerger solo con la de-cisione del Cristo, quel decidersi che la croce, quella croce conchiusa su se stessa e non necessariamente aperta come in molti vorrebbero al risolvimento nel e del terzo giorno; talmente conchiusa, in-decisa da gettare nellinsecuritas la stessa Resurrezione: il Cristo crocifisso pu tanto risorgere quanto essere inghiottito dalle tenebre oltre i tre giorni. E certo inghiottito dalle tenebre, perch muore, esalando lo spirito (Mt 27, 50). I tre giorni sono la perfetta in-decisione, l'immenso sforzo che comporta una perdita, un'ineludibile concessione: ne la prova il corpo del Cristo risorto ancora lacerato dalle ferite della crocifissione. La morte vinta, s, ma ad un prezzo cos grande da svilire forse la stessa vittoria, perch si dovuto concedere tutto al nemico, lo si riconosciuto per poterlo poi vincere. I Vangeli attestano che Egli risorge con i segni della morte, le mani, i piedi e il costato non rimarginati; il Cristo vince la sua battaglia con la morte, eppure... nel Risorto di Piero della Francesca raffigurato quell'immane conato, dove tutto il peso del corpo affidato alla gamba piegata e all'asta del vessillo nello sforzo immane di condursi fuori dal sarcofago. Ci che egli sa scrive Cacciari che sapr restare vigile, sentinella fino al termine della notte. Ed egli sa pure di non sapere se la notte destinata a finire (Massimo Cacciari, Il Risorto di Sansepolcro, in Tre icone, Adelphi, Milano 2007, p. 40).

[5] Il luogo di manifestazione della sua gloria era divenuto il posto dell'ostilit che lo avrebbe condotto alla morte. Perci l'andare in Giudea significa ancora manifestarsi al mondo come [Gv]7, 4, ma a questo punto assume il valore specifico di avviarsi alla morte. Charles Harold Dodd, L'interpretazione del quarto vangelo, Paideia, Brescia 1974, p. 449.

[6] Cos lApostolo: Est autem fides sperandarum substantia rerum, argomentum non apparentium (Eb 11, 1).

[7] Si potrebbe obiettare: Marta dice so che risorger, ma all'ultimo giorno. Non oggi, ma all'ultimo giorno. Ma ci non muta la sua posizione, anzi la radicalizza: credi tu a ci? Si veda la risposta: Io ho creduto che tu sei.... Ho creduto. un atto gi definito, gi scelto. Ma cos rischia di cristallizzarsi, di irrigidirsi, di cessare di essere parola del credente: di chi sta credendo, che per dirla con Kierkegaard un atto in divenire. Non sar possibile affrontare in modo adeguato la questione in questo luogo. Valga questa nota esegetica almeno per indicare il problema. Che il dono della vita eterna sia da considerarsi come un possesso stabile ed attuale o come un riacquisto dopo la morte corporale poco importa; in ambedue i casi ci che importa che la vita un dono di Cristo. Sappiamo che Cristo stesso il dono dato agli uomini (Gv 6, 51). Sicch egli ugualmente la vita che vivono gli uomini ora e sempre, e la resurrezione che costituisce il trionfo finale sulla morte. (C.H. Dodd, L'interpretazione del quarto vangelo, op.cit., p. 447, corsivo nostro).

[8] Scrive Agostino: non so cosa abbia voluto indicarci il Signore con questo fremito e con questo suo turbamento. Chi poteva turbarlo, se non era lui a turbare se stesso? (Agostino, Commento al Vangelo e alla prima lettera di san Giovanni, op. cit., p. 987). Il richiamo corre verso Kierkegaard, alle pagine dell'Esercizio del cristianesimo nelle quali viene trattata l'inconoscibilit di Cristo come Dio. La sua inconoscibilit mantenuta con tale onnipotenza che lui stesso in certo qual modo alla merc del suo Incognito. Questo ci che costituisce letteralmente la realt della sua sofferenza puramente umana (S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p. 757). Insomma: Dio mistero anche a se stesso...

[9] Vincenzo Vitiello, Silenti Deo: Dire Dio per frasi ed incisi, in Dire Dio in segreto, Citt nuova, Roma 2005, pp. 57-82. Nello specifico si vedano le pagine dedicate al poeta Mario Luzi, al quale appartiene il verso citato. Fede radicata nel dubbio e fonte di dubbio. Che perci stesso osa guardare il mistero dall'altra parte. Dalla parte del Silenzio. Ed il Silenzio si colora di dubbio, di domande, di indecisione. E non perde la sua maest; l'acquista (Ibidem, p. 75).

[10] Il male radicale, il male dell'uomo (genitivo soggettivo e oggettivo). Non a caso la Preghiera recita: ...et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo.

[11] R.M. Rilke, Todes-Erfahrung, op. cit., tr. it., di seguito il testo integrale della poesia. Wir wissen nichts von diesem Hingehn, das/ nicht mit uns teilt. Wir haben keinen Grund,/ Bewunderung und Liebe oder Ha/ dem Tod zu zeigen, den ein Maskenmund// tragischer Klage wunderlich entstellt./ Noch ist die Welt voll Rollen, die wir spielen,/ solang wir sorgen, ob wir auch gefielen,/ spielt auch der Tod, obwohl er nicht gefllt.// Doch als du gingst, da brach in diese Bhne/ ein Streifen Wirklichkeit durch jenen Spalt,/ durch den du hingingst: Grn wirklicher Grne,/ wirklicher Sonnenschein, wirklicher Wald.// Wir spielen weiter. Bang und schwer Erlerntes/ hersagend und Gebrden dann und wann/ aufhebend; aber dein von uns entferntes,/ aus unserm Stck entrcktes Dasein kann// uns manchmal berkommen, wie ein Wissen/ von jener Wirklichkeit sich niedersenkend,/ so da wir eine Weile hingerissen/ das Leben spielen, nicht an Beifall denkend. [Nulla sappiamo di questo svanire/ che non accade a noi. Non abbiamo ragioni/ ammirazione, odio oppure amore da mostrare alla morte la cui bocca una maschera// di tragico lamento stranamente sfigura./ Molte parti ha per noi ancora il mondo. Fino a quando/ ci domandiamo se la nostra parte piaccia,/ recita la morte, bench spiaccia.// Ma quando te ne andasti, un raggio di realt/ irruppe in questa scena per quel varco/ che tu ti apristi: vero verde il verde,/ il sole vero sole, vero il bosco.// Noi recitiamo ancora. Frasi apprese/ con pena e con paura sillabando,/ e qualche gesto; ma la tua esistenza,/ a noi, al nostro copione sottratta,// ci assale a volte e su noi scende come/ un segno certo di quella realt;/ tanto che trascinati recitiamo/ qualche istante la vita non pensando all'applauso] (pp. 66-69).

In principio era il mito?La domanda gnostica alla teologia cristiana

di Enrico Cerasi

1.

Vi una pagina del monumentale commento di Origene al vangelo secondo Giovanni su cui vorrei soffermarmi. Nellampio contesto dei problemi esegetici e dogmatici sollevati dal Commento, pu forse apparire marginale; eppure pone alcune importanti questioni, che in ultima istanza hanno a che fare con ci che, come uno specchio, sta sempre di fronte al grande tema escatologico di cui si occupa il presente numero del Giornale: il problema dellinizio.

Siamo al quinto libro. Quasi in una pausa di riflessione dopo i concitatissimi quattro libri dedicati allesegesi del solo primo capitolo, in un continuo, serrato, quasi viscerale confronto con lesegesi dello gnostico Eracleone del quarto vangelo, che entrambi lo gnostico e il cattolico considerano la vera e autentica espressione dellevangelo cristiano, lAlessandrino si domanda se sia lecito e non solo opportuno affaticarsi in quellinterminabile commentario. giusto continuare a vergare pagine su pagine per spiegare nel senso letterale del termine il vangelo?

Non sono soltanto le travagliate sue vicende biografiche a indurlo in stato perplesso[1]. Origene non cerca scuse di fronte ad Ambrosio, suo discepolo e mecenate, da lui convertito al cattolicesimo dallo gnosticismo. Comunque vada, continuer il commento! Ma prima occorre vincere unesitazione, un dubbio assai grave. La Scrittura per voce del saggio Salomone - condanna coloro che si perdano in vani discorsi. NellEcclesiaste vi un velato lammonimento a non fare molti libri (Cfr Ec. 12, 14-15)[2], ma nei Proverbi possiamo leggere lesplicita minaccia: col moltiloquio non sfuggirai al peccato (Prv. 10, 19)[3]. Origene senzaltro una delle menti pi prolifiche dellet antica - non solo era giunto al quarto libro di commento al primo capitolo di Giovanni, ma aveva allattivo un numero considerevole di volumi[4].

Ecco allora lesitazione. rivolto a lui, uomo dai molti libri, il monito biblico? Che fosse lodevole lintenzione di acquisire al cattolicesimo un testo che sembrava ormai terreno di conquista del valentinismo, non si discute. Ma si sa che cosa dice il proverbio a proposito delle intenzioni troppo affrettate. proprio escluso, dunque, il peccato del multiloquio per chi passi la vita nel vergare pagine su pagine?

2.

La gravit del dubbio pu essere meglio compresa se ricordiamo che nel III secolo, in particolare ad Alessandria, la Chiesa fu attraversata dallesigenza di elaborare una cultura, una teologia, in inevitabile dialogo con la filosofia pagana. Diversamente dallappello di Tertulliano (a sua volta culturalmente fondato, com ovvio) alla semplice fede, nello spirito dellopposizione tra Gerusalemme e Atene[5], ad Alessandria Clemente prima, e poi soprattutto Origene prendono posizione per una gnosi ortodossa, da contrapporre alla falsa gnosi degli eretici:

La gnosi , in una parola, una sorta di perfezionamento delluomo in quanto uomo; essa si completa mediante la scienza delle cose divine, nelle abitudini di vita e nella parola, concorde e coerente con s stessa e con il Logos divino. Per la gnosi diventa perfetta la fede, perch il fedele diventa perfetto soltanto con essa. La fede un bene interiore, che confessa lesistenza di Dio anche senza cercarlo e lo glorifica come esistente. Da questa base di fede bisogna dunque elevarsi per ricevere, crescendo in essa per grazia di Dio, la gnosi intorno a Lui nella misura del possibile (Cfr.. Clemente Alessandrino 1985, p.825).

Gnosi ortodossa, daccordo, ma pur sempre gnosi elaborazione teologica della semplice fede! questo il basso continuo degli Stromati di Clemente, che alla perplessit dei semplici fedeli dei molti, come li chiamer Origene risponde con laudace affermazione del carattere provvidenziale della filosofia pagana[6]. Daltra parte ai filosofi e alla loro superbia la superbia delluomo che si vuole autonomo da Dio - Clemente replica riconducendo la filosofia pagana dapprima alla tradizione ebraica ed egizia, e poi in ultima istanza al di Dio, che in Cristo Ges si rivelato. Che altro Platone, se non un Mos che parla greco? (Clemente Alessandrino 1985, p. 201)

Le pagine di Clemente sono molto curate e non mancano dincisivit, ma la domanda rimane: legittima questa gnosi, sia pure aderente alla traditio apostolica?[7] Linterrogativo assume un peso ancora maggiore se si ricorda che furono gli gnostici a porre lesigenza di una teologia cristiana. Da loro provenne la decisiva provocazione che sospinse la navicella della Chiesa nei porti ellenici, nei quali si respirava ben altra aria che nel lago di Galilea. Unaria pi aperta, pi frizzante, ma un poco insidiosa[8].

sufficiente aggrapparsi alla sacra ncora del dogma cattolico, per non rischiare dessere travolti dai flutti della falsa gnosi? Contrapponendo parole a parole, parole pretese ortodosse a parole certamente eretiche, non si cade comunque ortodossi ed eretici, in discordante accordo - nello stesso baratro? La voce di Salomone non invita piuttosto (chiedo scusa per lanacronismo[9]) a un fideismo scettico nei confronti di ogni , dogmatica o eretica che sia[10]? In altre parole, non la teologia, anche la pi ortodossa, destinata a cadere al di fuori della fede biblica?

3.

Origene supera questa perplessit (sulla cui gravit spero ormai si possa convenire) notando in primo luogo che nella stessa Scrittura ci sono ben altre testimonianze, non sempre in linea con il fideismo salomonico. Paolo, ad esempio, che secondo il racconto degli Atti non cessa di parlare dallalba a mezzanotte. Non lApostolo un uomo dalle molte parole, come amaramente dovette constatare il povero Eutico, letteralmente morto dal sonno durante il lunghissimo sermone? (Cfr. [1]Cfr. At, 20, 9 s)

Ma dunque, non sono troppe le parole della Scrittura? Ad esempio, per quale ragione includere nel canone ben quattro vangeli? Non ne bastava uno soltanto? Non era ragionevole la riforma biblica di Marcione, che di taglio in taglio fin col riconoscere oltre alle lettere di Paolo, adeguatamente acconciate - il solo vangelo di Luca come ispirato?[11]

Si dir che con queste considerazioni ci siamo spostati in un ambito problematico ben diverso, che concerne la complessa dinamica di formazione del canone. Non era questo il problema di Origene, almeno nel quinto libro del Commento Giovanni da cui abbiamo preso le mosse! Accetto lobiezione, senza nemmeno esercitare il diritto di replica. Eppure lo stesso Alessandrino a spingere fino in fondo la questione: non la stessa rivelazione un moltiloquio? Pi ancora: non lo stesso orribile a dirsi - la violazione della semplicit di Dio? Risponde Origene:

Ora, il di Dio, preso nel suo complesso come che era nel principio presso Dio, non un multiloquio, perch esso non [molte] parole. E un unico, risultante da molti , ciascuno dei quali costituisce una parte della totalit del . Invece i che sono fuori di questo , quale che sia il contenuto o lannuncio che si attribuiscono, fosse anche intorno alla verit, sono [molte] parole; anzi, aggiunger una cosa ancor pi paradossale: anche prese a una a una, esse non sono [una] parola ma [molte] parole. [In esse non c] infatti mai la monade [] n accordo n unit (Origene 1968 [a], p. 280).

No, il non cade al di fuori di Dio, non multiloquio, al contrario dei umani ad esclusione di alcuni di essi. Ma il nocciolo della questione non contabile, quasi si trattasse di essere misurati e parchi di parole, come potrebbe far pensare una lettura ingenuamente letterale dei passi sapienziali citati allinizio del Libro. Le stesse parole della Scrittura non sono poche; daltra parte anche pronunciando una sola sillaba si pu aver gi detto troppo. Gi il semplice fonema, in quanto tale, cade al di fuori della divina monade. Ma come il che era presso Dio non viola lunit divina perch - pur ponendola in altro - la rispecchia, cos i umani, pur essendo molti, possono rispecchiare lunit del [12].

questo il caso delle Sacre Scritture, a cominciare dal vangelo secondo Giovanni. Eppure che sia cos non appare da una lettura semplice, ingenuamente letterale del testo sacro nemmeno dellevangelo spirituale. Letto in tal modo, cos come suona ( ), come fanno i molti, esso lascia trasparire soltanto la molteplicit delle parole in fondo un semplice multiloquio che si condanna da s[13]. La lettura spirituale, invece, riconduce i molti umani allunico che era presso Dio. In altri termini, lesegesi origeniana non ha lo scopo di aggiungere significati, come se non bastassero i gi molti biblici, ma di ricondurre i al , salvando la rivelazione storica e la sua testimonianza dal multiloquio, dalla dispersione nel molteplice.

Se cos, Origene pu ben dire di aver superato a meraviglia la sua grave esitazione. La vera teologia non multiloquio perch ha lo scopo di salvare la Scrittura appunto da questo pericolo, riconducendo i molti che i semplici fedeli scambiano per il suo vero significato - allunico che era presso Dio[14].

4.

Si consideri sotto unaltra luce laspro e tesissimo confronto di Origene con la teologia valentiniana. A una prima ricognizione i due sono separati da questioni filosofiche e teologiche di grande rilievo, certo, ma storicamente determinate. Centrale nella polemica anti-gnostica di Origene il rifiuto della dottrina delle nature in nome della libert delle creature razionali, scrive Norelli (Cfr. Norelli, voce Gnosticismo in Monaci Castagno 2000, p. 211). Alla divisione gnostica dellumanit in una triplicit di nature, tra loro radicalmente separate e in gran parte predestinate, Origene contrappone unantropologia che riconosce in ogni uomo la libert di scegliere tra il bene e il male. Del resto, questo che affermano i cattolici, convinti che dipende da noi far cose degne di lode e di biasimo (Origene 1968 [b], p. 365). Di ognuno va detto che capax laudis et culpae; dello stesso Diavolo Origene dice che ha peccato per scelta e non per natura, altrimenti la sua condanna sarebbe inconcepibile. Il male, dunque, radicato nella libert creaturale, non nel mondo divino, come sembra implicito nella mitologia gnostica.

Sempre in funzione anti-eretica, e in particolare opponendosi al docetismo gnostico, Origene sostiene la nascita di Cristo ex Maria e non semplicemente per Mariam, affermando senzesitazioni la vera corporeit della natura umana assunta dal Figlio. Da ci segue orribile a dirsi, per valentiniani e marcioniti che il Cristo figlio del Demiurgo, e che questi a sua volta lunico e vero Dio, al tempo stesso giusto e misericordioso, creatore e redentore.

Tutto questo non andrebbe inteso come una sommatoria casuale di teologumeni da opporre alla gnosi, ma come il suo vero superamento. Scrive Gaetano Lettieri:

Metafisica del desiderio, confessione delluniversale amore di Dio e apologia dellinalienabile libert della creatura razionale, la teologia di O. essenzialmente dinamica: esito diversificato di una caduta originaria, ogni grado ontologico della realt cosmica non che uno stadio transitorio in un universale processo evolutivo. Grazie allazione cosmico-storica di Cristo-Logos, tutte le creature razionali si riconvertono progressivamente al Padre, progredendo e riunificandosi nellinesauribile contemplazione del Figlio che si sprofonda nellUno paterno (Lettieri, voce Progresso in Monaci Castagno 2000, p. 379).

Teologo del progresso, Origene concepisce la rivelazione di Dio non come un dato statico, un evento accaduto una volta per sempre, ma come un processo dinamico di crescita dallAntico al Nuovo Testamento, fino al suo escatologico compimento nel vangelo eterno - quella legge vera ed eterna [] cui nulla pu essere aggiunto, che superer la stessa rivelazione storica (Cfr. Origene 1968 [b], De Principiis III, 6, 8, p. 478). Analogamente lermeneutica biblica deve rendersi capace di un inesausto progresso dal senso storico-letterale a quello mistico-spirituale.

Non difficile notare il significato anti-gnostico di tutto questo. Audacemente Origene fa proprie le categorie gnostiche (a volte adottandone la stessa terminologia[15]), per inserirle tuttavia nel processo che condurr allescatologica e universale riconciliazione in Dio. In altri termini, dello gnosticismo non rifiutata listanza (come accade in Tertulliano, per il quale lo stesso desiderio di ricerca tradisce il vizio originario degli eretici), ma lincapacit di comprendere fino in fondo la dinamica delleconomia salvifica dellunico Dio.

In questo senso si pu parlare della teologia di Origene come demitologizzazione della gnosi valentiniana.

Lorigenismo pu essere definito come uno gnosticismo demitologizzato e fluidificato, corretto cattolicamente e radicalizzato cristologicamente tramite laffermazione della natura ontologicamente dialettica del pleroma cristologico, in quanto il divino si articola eternamente in un elemento creatore e in un elemento creaturale (Cfr. Lettieri, in Prinzivalli 2005, p. 186).

Sottraendosi a visioni storiografiche troppo semplicistiche e spesso confessionalmente condizionate, le pagine di Lettieri sono preziose per far luce sulla strettissima dipendenza di Origene dalla gnosi valentianiana. Ci non significa far dellAlessandrino uno gnostico sotto mentite spoglie. Proprio la sua teologia del progresso si rivela come la pi radicale demitologizzazione della gnosi, in quanto al posto del mito Origene instaurerebbe una dialettica proto-hegeliana, un costante superamento di ogni fissit nellescatologica riconcilazione universale.

5.

A dire il vero, che questo superamento si risolva non gi nello Stato prussiano ma nella restitutio omnium, nella perfecta universae creaturae restitutio, come traduce Rufino, non sembra di primo acchito deporre a favore dellidea di demitizzazione. Non proprio la dottrina dellapocatastasi laspetto pi mitologico e inaccettabile, almeno per la fede cristiana, della teologia di Origene?

Cos sembrerebbe, eppure se rileggiamo un notissimo passo dei Principi possiamo tentare qualche riflessione forse non scontata:

Osservando tale fine, in cui tutti i nemici saranno soggetti a Cristo e sar distrutto anche lultimo nemico, la morte, e Cristo, cui tutto stato assoggettato, consegner il regno a Dio padre (I Cor. 15, 24 ss), da essa conosciamo linizio delle cose. Infatti la fine sempre simile allinizio: e come una sola la fine di tutto, cos dobbiamo intendere uno solo linizio di tutto; e come una sola la fine di molteplici cose, cos da un solo inizio sono derivate cose molto varie e differenti, che di nuovo per la bont di Dio, la soggezione di Cristo e lunit dello Spirito Santo sono riportate ad una sola fine, che simile allinizio. Mi riferisco a tutti coloro che, piegando il ginocchio nel nome di Ges, per ci stesso hanno dato segno della loro soggezione, le creature celesti, terrestri e infernali (Phil. 2, 10): questi tre nomi indicano il complesso degli esseri creati, cio tutti coloro che avendo avuto unica e uguale origine, variamente spinti ognuno dai suoi impulsi, sono stati distribuiti in diversi ordini a seconda dei loro meriti, poich in tutti costoro il bene non era presente in maniera sostanziale, come invece in Dio, in Cristo e nello Spirito Santo (Origene 1968 [b], Principiis I, 6, 2, p. 202).

Il commento di questa pagina di straordinaria densit concettuale richiederebbe forse un saggio a s. Mi accontento di sottolineare solo alcuni aspetti. Che cosa intende dire, lAlessandrino, affermando che dalla fine conosciamo linizio? O non sarebbe meglio dire che dallunit della fine, ovvero dallescatologica restituzione universale, conosciamo lunit dellorigine di tutto?

Queste considerazioni hanno un significato antignostico ovvio, e uno forse meno ovvio. Come scrive Emanuela Prinzivalli, lo stretto collegamento di arch e tlos [] conferma linscindibile nesso di bont e giustizia divina, contro il divisionismo operato da gnostici e marcioniti (Cfr. Prinzivalli, voce Apocatastasi in Monaci Castagno 2000, p.26). Al diteismo marcionita come allemanazionismo valentiniano Origene oppone il dogma cattolico dellunit di Dio, creatore e redentore, giusto e misericordioso, rivelato nellAntico come nel Nuovo Testamento.

Indubbiamente cos, ma forse vi un ulteriore aspetto delluso antignostico della dottrina dellapocatastasi quale coincidenza di arch e tlos, che proprio la categoria della demitizzazione pu mettere in luce. Lo vedremo pi oltre. Per ora vorrei ribadire losservazione esposta sopra: dal krygma paolino delluniversale riconciliazione a opera di Cristo noi conosciamo linizio delle cose. O piuttosto: dallunit della fine deduciamo lunit dellinizio.

A me pare che lenfasi del passo dei Principi non sia solo sullunit delleconomia salvifica ma sulla conoscenza dellinizio quale perfetta unit, che il progresso storico deve reintegrare. A differenza della teologia marcionita, anche il mito valentiniano pone in qualche modo lunit di arch e tlos: ma con quel conosciamo che la voce di Origene risuona in modo potentemente anti-gnostico.

6.

A questo punto forse il caso di ricordare almeno per sommi capi il canovaccio del mito valentiniano. Anchesso parla di arch e di tlos, anchesso vede nel secondo la restituzione del primo, ma in un senso profondamente diverso e probabilmente incompatibile con la teologia di Origene. Questultima, dunque, almeno dal punto di vista che vorrei provare a chiarire nelle pagine seguenti, non sarebbe un superamento, nemmeno dialettico, ma una radicale alternativa - in primo luogo filosofica - alla teologia mitica degli eretici.

Secondo quanto riferisce Ireneo, il Dio dei valentiniani, lEone perfetto, si chiama Prepadre o semplicemente Abisso ()[16]. Completamente trascendente, increato e perfetto, infinito e completamente invisibile, e quindi inconoscibile. In quanto perfetto, sta in una massima e profondissima quiete.

Ma una quiete problematica. Accanto a lui si trova un altro Eone, un principio femminile chiamato Pensiero (), detto anche Grazia o Silenzio. Dalla sigizia Abisso-Pensiero nasce una nuova coppia di eoni. Innazitutto Intelletto, chiamato anche Unigenito () in quanto generato dal Padre. Esso simile al generatore e unico capace di comprendere la grandezza del Padre, scrive Ireneo (Ireneo 1968, Adversus Haereses I, 1,1, p. 26). Il Nous lunico in grado di comprendere pienamente il Padre. Gli altri eoni del Pleroma condividono un vuoto, una mancanza di conoscenza, che al termine del dramma salvifico dovr diventare - docta ignorantia!

Ma non vorrei indulgere troppo in anacronismi; torno piuttosto al mito. Intelletto (con la sua compagna: ) genera una nuova sizigia: Logos e Vita, e da essa ne sorge unaltra ancora: Uomo e Chiesa.

Viene spontaneo chiedersi la ratio di questa bizzarra moltiplicazione di Eoni. Se lo chiese Tertulliano, se lo chiesero Clemente e Origene, se lo chiese anche Plotino tutti stigmatizzando la debolezza filosofico-argomentativa di questo mito. Nulla dimostrato; ci si limita ad asserire, semplicemente raccontando delle favole che empiamente si discostano dalla tradizione (Cfr. Plotino 1992, Enneadi II 9, 6, p. 295). Lobiezione, nella sua apparente naturalezza, presuppone la tesi nientaffatto ovvia che la rivelazione di Dio possa essere compresa in forma non mitica, qualunque cosa questo possa significare.

possibile dissentire da questo presupposto? Lalternativa gnostica parla a favore del mito quale unica adeguata espressione della rivelazione? E che cosa significherebbe una cosa del genere per la teologia cristiana? Se il presente saggio riuscir a persuadere, se non delle risposte, almeno della pertinenza e forse dellattualit di queste domande, avr raggiunto uno degli scopi che si era prefisso.

Tornando al mito, Logos e Vita, dopo aver generato Anthropos ed Ecclesia, generano altri dieci eoni; la sigizia Anthropos e Ecclesia, a sua volta, ne genera dodici. A conti fatti, siamo di fronte a un mondo divino formato da trenta eoni. Un mondo un po affollato, ma retto da un preciso ordine, fondato sulla completa inconoscibilit del Padre, conosciuto da Intelletto e da nessun altro al di fuori di lui.

Ma questo mondo viene turbato. Se gli altri Eoni, pi o meno volentieri, si accontentano della loro ignoranza, lultimo emblematicamente chiamato Sophia non se ne accontenta, non accetta lincomprensibilt del Padre, slanciandosi in unindagine sullAbisso.

questo levento capitale del mito gnostico. Latto di Sophia (la prima teo-logia, per di pi progettata senza il compagno di signizia, come a sottolineare ulteriormente la sua perversit) un tradimento del Padre, che proietta nellorigine ci che nel tempo compir il dodicesimo apostolo. Giuda trad il Cristo, il Maestro, consegnandolo ai pagani, perch Sophia in origine aveva tradito il Prepadre, tentando di violarne lincoprensibilit. Gli eventi del tempo rispecchiano quanto gi accaduto nel mondo pleromatico, secondo la logica cos detta dellesemplarismo inverso. Lorigine decide del tempo.

Tutto questo pu voler dire molte cose, ma in primo luogo che il Padre deve rimanere inconoscibile. In gioco non vi solo un problema ontologico, come nel neo-platonismo: qui bene che il primo principio rimanga inconoscibile, se lordine divino devessere conservato. Il desiderio di conoscere, qualora sia rivolto al Padre, non pu esser tollerato perch ci comporterebbe la violazione dellinconoscibilit di Dio, che Abisso eterno completamente trascendente.

La parte restante del mito racconta di come il mondo divino si sia trasformato in risposta al desiderio di Sophia, restaurando alla fine linconoscibilit in cui il Padre giaceva nellinizio.

Ci accade in due tempi. Arrestata dalla Croce, Sophia comprende lassurda perversit della sua impresa, deponendo la sua Enthymesis, la sua intenzione, assieme alla passione che le era di conseguenza sopravvenuta.

Ma questa deposizione non basta. Si tratta di rinsaldare lordine pleromatico, persuadendo e ammaestrando gli Eoni della bont della disposizione che vuole che il Padre rimanga incomprensibile. A tal scopo viene prodotta una nuova sigizia, composta da Cristo e dallo Spirito Santo[17]. grazie a loro che tutti gli Eoni ormai messi sullo stesso piano dalla piena accettazione della docta ignorantia del Padre entrano nella vera quiete[18]. Il suo frutto un nuovo Eone, che ha il nome pi esplicito di tutti: Ges, il Salvatore.

Ma una quiete transitoria, giacch Enthymesis, che la Croce-Limite ha espulso da Sophia per purificarla del suo peccato, si trova ormai fuori dal Pleroma, triste e sola, errabonda ma ineludibile. Si chiama, in ricordo della madre, Sophia Achamoth. Non ha n forma n aspetto. una sorta di aborto della madre, Sophia superiore.

Che cosa succede allora? Cristo misericordioso, avendone piet, si distende sulla Croce per dar forma a Sophia, correggendo il suo aspetto abortivo. Si tratta per di una forma secondo la sostanza, non secondo la gnosi. Sophia Achamoth priva di conoscenza, ovvero non sa che il Padre inconoscibile e che bene che resti tale giacch appunto questa la gnosi.

Compiuto questatto di misericordia, Cristo ritorna nel pleroma, lasciando Sophia agitata da una fortissima nostalgia, frutto dignoranza. Sentendosi abbandonata, si slancia in cerca della luce, ripetendo il gesto di Sophia superiore.

Come gi la madre, anche Sophia Achamoth si scontra col Limite. Non avendo ancora la gnosi assalita da varie passioni: dolore per non aver potuto portare a termine la sua impresa; paura, costernazione, ignoranza. Si riprender, grazie alla conversione a colui che le aveva dato forma, ovvero al Cristo.

Comincia a questo punto la parte cosmologica del mito, indubbiamente pi esposta sul versante neoplatonico che su quello cristiano. Dalle passioni di Sophia Achamoth nascer il cosmo materiale (dalle lacrime lacqua, dal riso le cose lucide, dalla tristezza e dal timore gli elementi corporei del mondo), mentre dalla conversione lanima del mondo.

Non vorrei dilungarmi. Sophia prega che venga posto rimedio alla sua triste condizione. Il mondo divino risponde inviando Ges, che scende in compagnia dei suoi angeli. In seguito a vicende su cui non mi soffermo, dalla discesa del Salvatore deriver la creazione delle tre nature componenti il mondo: gli esseri materiali, destinati alla distruzione, gli psichici (dei quali il Demiurgo creatore il primo e il sovrano), ignoranti ma capaci di salvezza; e gli spirituali, appartenenti per la loro stessa sostanza al Pleroma e quindi destinati alla salvezza.

Questa avviene in un modo abbastanza complicato, e comunque variabile a seconda delle versioni del mito. In ogni caso il Salvatore scende nel mondo prodotto dalla passione di Sophia, per portare agli spirituali la rivelazione salvifica.

Di che genere di rivelazione si tratta? Evidentemente della loro natura spirituale, della loro ontologica estraneit a questo mondo materiale destinato alla perdizione, ma al tempo stesso (mi sembra del tutto ovvio) dellinconoscibilit dellAbisso, la cui tentata violazione ha prodotto il mondo in cui essi stessi sono irretiti. Gli spirituali sono attesi daglangeli, compagni di Ges, con i quali si uniranno per completare finalmente il mondo pleromatico.

Possiamo condividere il disgusto di Tertulliano per questo un po promiscuo happy end (Cfr. Tertulliano 1974 [a], pp. 934 e ss), ma credo che valga piuttosto la pena sottolineare come la fine del dramma divino renda finalmente stabile liniziale inconoscibilit del Padre, confermando lintero mondo pleromatico ora finalmente completo - nella necessaria docta ignorantia.

7.

Il paragrafo precedente si rivelato forse un po faticoso, ma non sar stato del tutto inutile se avr persuaso che, per il mito valentiniano, Sophia e il mondo che da essa deriva mossa dallinnaturale, impossibile e perverso tentativo di violare limpenetrabilit dellAbisso, mentre la vera gnosi la consapevolezza della sua inconoscibilit.

Parlare di docta ignorantia pu sembrare un goffo anacronismo; eppure lo stesso Ireneo a mettere il dito, se non sul termine, su questo aspetto della teologia dei suoi avversari, denunciandone la completa incongruenza con la rivelazione cristiana:

Che cosera [per i valentiniani] Entimesi prima della passione [di Sophia]? Ricercare il Padre e contemplare la sua grandezza. Di che cosa giunse poi a convincersi? Che il Padre incomprensibile e inafferrabile. Dunque non era bene voler conoscere il Padre e in questo starebbe la passione; ma si ristabil quando si convinse che il Padre in investigabile (Ireneo 1968, Adversus Haereses II, 18, 2, p. 168).

Il tlos restaura larch. Ma nellorizzonte gnostico questo significa che lo scopo dellavvento del Salvatore la perfetta restaurazione dellinconoscibilit del Padre. questa la vera gnosi, esclusa senzappello dal vescovo di Lione; il quale proprio non pu capire come possa essere biasimevole, addirittura peccaminoso, il desiderio di conoscere il Padre. Al contrario: il pensare di bramare il Padre perfetto, volersi trovare in Lui e comprenderlo non poteva produrre ignoranza e passione, soprattutto in un Eone spirituale [qual Sophia], ma piuttosto perfezione, impassibilit e unit (Ireneo 1968, Adversus Haereses II, 18, 6, p. 170).

Il desiderio di conoscere Dio non pu essere un peccato - a maggior ragione se crediamo che Cristo, secondo la fede cattolica, venuto a s-velare il Padre, non a ri-velarlo, non a porlo nel nascondimento: Il Figlio fa conoscere a tutti il Padre invisibile rimanendo nel suo seno. Perci lo conoscono quelli cui il Figlio lo rivela e viceversa il Padre per mezzo del Figlio d conoscenza del Figlio suo a quelli che lo amano (Ireneo 1968, Adversus Haereses III, 11, 6, p.264).

Allinizio del IV Libro, il vescovo di Lione sente il bisogno di tornare ancora sullo stesso punto:

Tutto ci che conosciuto anche da pochi non pi inconoscibile. Il Signore non disse che il Padre e il Figlio sono assolutamente inconoscibili, che allora sarebbe stata inutile la sua venuta. A che cosa sarebbe venuto? A dirci: Non cercate Dio perch incomprensibile e non lo trovereste. Questo i Valentiniani dicono [che] Cristo avrebbe detto agli Eoni, ma la cosa ridicola. []

Il Padre ha rivelato il Figlio allo scopo di manifestare se stesso a tutti perch i giusti che credono nel Figlio abbiano la speranza nellincorruttibilit e nelleternit. []

A tutti il Padre si rivel rendendo a tutti visibile il suo Verbo; a sua volta il Verbo, a tutti manifesto, a tutti ha mostrato il Padre e il Figlio, perci giusta la condanna di Dio sopra tutti quelli che, pur vedendo come gli altri, come gli altri non credono (Ireneo 1968, Adversus Haereses IV, 6, 4, p. 24).

inutile continuare: la tesi abbastanza esplicita, e per la verit costituisce una sorta di basso continuo dellopera antignostica di Ireneo. Lavvento del Cristo la rivelazione del Padre e del Figlio, e chi nega questultima bestemmia lo stesso Dio in cui pure afferma di credere. Fatua credenza, in verit, giacch la docta ignorantia gnostica destinata a smarrire il proprio oggetto:

Se il progresso consiste nel trovare un altro Padre al di fuori di quello annunciato allinizio, e poi un terzo diverso dal secondo che si pensa di aver trovato, e sar ancora progresso passare dal terzo a un quasrto e a un altro ancora: e cos, mentre si pensa di progredire, il pensiero non si ferma mai in un solo Dio. Allontanato da colui che andr retrocedendo sempre in cerca di un altro Dio che no si trover mai; nuoter sempre nellabisso dellignoranza a meno che non ritorni pentito donde stato cacciato per professare fede nellunico Dio, Padre e Demiurgo, che la Legge e i profeti annunciarono, cui Cristo rese testimonianza [.] (Ireneo 1968, Adversus Haereses IV, 9, 3, vol II p. 34)

Tertulliano sar dello stesso avviso: la filosofia dei valentiniani presuppone che sia cosa buona linconoscibilit di Dio, ma cos rende tutto incerto, dissolvendo la fede cristiana in un indigeribile pastiche filosofico[19]. Contro tutto questo si tratta di riconoscere e proclamare la rivelazione storica di Dio, dapprima annunciata nel tipo veterotestamentario e poi compiuta in Ges Cristo e nella Chiesa apostolica[20].

8.

Lo scontro tra valentiniani e Padri della Chiesa verte su molte cose, ma prima di tutto sulla corretta comprensione dellevento della rivelazione[21]. Ridotta allessenziale, la questione pu essere formulata in questi termini: lavvento di Cristo la manifestazione di Dio, ovvero ne ribadisce lincomprensibilit, comera nellorigine e come sar per sempre?

Se questo in fondo il problema, interessante osservare come in un modo insolitamente concorde Padri della Chiesa per il resto cos diversi, come Ireneo e Tertulliano da una parte e Clemente e Origene dallaltra, abbiano ribadito con forza il carattere rivelativo dellevento di Cristo. Una rivelazione forse non ancora perfetta (come senzaltro pensava Origene, secondo il quale lescatologico vangelo eterno superer anche la rivelazione in Cristo), ma comunque uno s-velamento, una chiara comunicazione di Dio a proposito della sua bont e della sua giustizia. Allevangelo del Dio straniero di Marcione, Tertulliano con unironica alzata di spalle replica che in verit il suo Dio ora incerto, e prima ignoto (Tertulliano 1974 [b], p. 307). Un simile Dio non pu costituire nessuna base per la fede. Origene convinto che la teologia non possa accontentarsi di unermeneutica tipologica, giacch non si deve credere che i fatti storici siano tipi di altri fatti storici e le cose corporee di altre cose corporee, ma che le cose corporee siano tipo dir realt spirituali; i fatti storici di realt intelligibili (Origene 1968 [a], p. 405)[22]; ma certo che gli eretici non conoscono veramente quello che adorano e non sanno che finzione e non verit, mito e non misteri (Origene 1968 [a], p. 480). In Cristo Dio Padre ha rivelato la verit (Cfr. Origene 1968 [b], p. 118), e grazie allo stesso Cristo le creature sono capaci di comprenderla razionalmente (Cfr. Origene 1968 [b], pp. 146, 171, 174, 177, 178, 286), sia pure per il tramite della molteplicit delle parole umane, come abbiamo visto nelle pagine iniziali di questo saggio.

Gli gnostici non negano la rivelazione. Basterebbe leggere le prime righe del Vangelo di verit (un libro che se non si tratta dun equivoco Ireneo conosceva come la come base della fede valentiniana[23]) per convincersene:

Il Vangelo di verit gioia per coloro che dal Padre della verit hanno ricevuto la grazia di conoscerlo attraverso la potenza del Logos venuto dal Pleroma: egli nel pensiero e nella mente del Padre, egli chiamato Salvatore essendo questo il nome dellopera che ha portato a compimento per la salvezza di coloro che non conoscevano il Padre. Il nome del Vangelo , infatti, un proclama di speranza, una scoperta per coloro che lo cercano (Vangelo di Verit, in L. Moraldi 2009, p. 29).

Sembra di sentire quello che, per Harnack, era lincipit delle Antitesi di Marcione: O meraviglia delle meraviglie, estasi, forza e stupore che non si possa dire nulla sul vangelo, nemmeno dire qualcosa di esso, nemmeno paragonarlo a nulla (Harnack 1921, p. 157).

Come per Marcione, anche per Valentino la rivelazione evangelo, buona notizia, annuncio di un bene incomparabile. Meraviglia delle meraviglie e gioia per coloro che dal Padre hanno ricevuto la grazia di conoscerlo: questa la tonalit affettiva prodotta della rivelazione del Dio straniero, altrimenti sconosciuto. Sarebbe ben strano e piuttosto ardito sostenere che gnostici e marcioniti non basassero la loro teologia sulla rivelazione di Dio, come accade ogni qual volta si enfatizza luso gnostico di categorie platoniche piuttosto che levidente sforzo di comprendere lapocalisse dellEterno in Cristo[24].

Eppure non ha torto Harnack nel rimarcare la differenza tra i due grandi eretici della Chiesa antica. Non tanto perch gli gnostici sarebbero i primi filosofi della religione, mentre in Marcione (il suo primo amore!) avremmo semplicemente un teologo biblico, restauratore a suo modo dellevangelo della sua purezza[25]; quanto piuttosto per la diversa comprensione di questa gioia, di questa meraviglia delle meraviglie. Per Marcione la verit venuta nuda nel mondo. Nella fretta di scendere improvvisamente dal suo mondo totalmente straniero in una sinagoga della Galilea, non ha avuto nemmeno il tempo per vestirsi[26]. Voglio dire: la rivelazione una comunicazione diretta dellannuncio della salvezza. Ne un ulteriore indizio la sua esegesi dei testi sacri, invariabilmente letterale. Se non viene compresa, se addirittura viene respinta, ci accade per lincredulit degluomini, e in particolare dei giudei, asserragliati intorno al loro Demiurgo.

Anche a una prima, superficiale ricognizione della teologia gnostica si comprende che qui le cose non sono cos semplici. La domanda gnostica - per sfruttare una puntuale indicazione di Massimo Cacciari appunto la problematizzazione del rapporto tra Dio in quanto inizio e la sua rivelazione (Cacciari 2001, p. 179)[27]. In una curiosa, discordante convergenza il padre di tutte le eresie e i Padri dellortodossia tendono a porre Dio come identico allatto del suo darsi, ovvero ad affermare il primato della manifestazione, del Verbum, del revelatum dellek-sistere di Dio (Cacciari 2001, p. 172)[28]. Le pagine di Cacciari mostrano che una teologia cos pensata ha tracciato i binari di un treno che, con alcune stazioni intermedie, ha condotto infine a Hegel, ovvero alla comprensione della revelatio come Offenbarung, come completo dis-velamento di Dio[29], che Bruno Forte legge come anti-religioso trionfo della soggettivit moderna (Cfr. Forte 1987, p. 119)[30].

9.

Cacciari parla con favore della domanda gnostica, ma per il resto ritiene la gnosi del tutto inadeguata al compito dipotizzare un diverso rapporto tra Dio e rivelazione, che non assuma il primato della manifestazione, foriero di fin troppo hegeliane conseguenze.

Non mia intenzione suggerire il contrario. Eppure penso che non si dovrebbe risolvere la teologia gnostica nella semplice posizione del Dio sconosciuto. Anche il Dio di Marcione lo , ma ci non rende le due posizioni teologiche equivalenti. Per i Valentiniani la gnosi dotta ignoranza, gioiosa e grata consapevolezza dellinesprimibilit del Pre-Padre, dellAbisso, del Dio in senso proprio. Il dramma salvifico ha lo scopo di restaurare questa docta ignorantia, al tempo stesso riportando presso il Padre le scintille divine che il peccato di Sophia aveva disperso. Per Marcione del vangelo non si pu dir nulla, nemmeno paragonarlo a nulla, in quanto assoluta, improvvisa novit che nulla nella creazione del Demiurgo pu prefigurare, tanto meno la storia del popolo ebraico.

Proprio questaffrettata posizione dellalterit del principio secondo Cacciari la debolezza degli gnostici; se il sommo Dio [gnostico] ha generato un nome per se stesso, Egli ha generato, il che rende di per s insostenibile lo sforzo di porlo come eccedente il suo rivelarsi (Cacciari 2001, p. 169). A nulla serve la fantasia mitopoietica per risolvere la contraddizione (Ibidem).

Per Tertulliano la forma mitica della teologia gnostica era di per s unobiezione, al punto che - a suo avviso - bastava diffondere il mito, esporlo ai quattro venti, perch apparisse in tutta la sua rozza ingenuit, assolutamente incredibile(Tertulliano 1974 [a], pp. 901 e ss). Come dire: la pi efficace confutazione della mitologia la sua divulgazione.

Lobiezione di Origene sembra pi forte di quella del Cartaginese. Nel capitolo del Commento a Giovanni da cui abbiamo preso le mosse lAlessandrino riduce il mito gnostico a un insieme sparso di molti logoi, che come gli atomi di Epicuro casualmente si agitano, cadendo al di fuori dellunico Logos. Al contrario, la conoscenza degli spirituali (cattolici) la comprensione della perfetta unit dellinizio. Uno linizio e uno il logos che lo rivela uno anche il libro che lo testimonia, anche se per scriverlo sono necessarie svariate pagine e moltissimi logoi. Ma questi girano attorno allUno, lo testimoniano, anche se solo alla fine la testimonianza sar perfettamente trasparente.

Il mito gnostico questa mi sembra la tesi di Origene non rivela nulla perch non in grado di oltrepassare la molteplicit dei logoi.

In fondo ha ragione: il mito strutturalmente plurale, prismatico, per natura esposto a molteplici varianti[31]. Ci vorr Levy-Strauss per dire che queste sono lespressione di un unico significato[32]: ai Padri della Chiesa il rigoglioso proliferare di miti gnostici faceva piuttosto leffetto dun labirinto in cui era quasi inevitabile smarrirsi, perdendo la certezza in cui la fede consiste.

Vi una relazione che devessere compresa tra le obiezioni dei Padri alla molteplicit delle stte gnostiche, allanarchia della loro vita ecclesiale e alla loro teologia mitica. Allinizio dellopera Contro i Valentiniani Tertulliano osserva che si tratta di eretici apostati della verit, proclivi ai miti, indifferenti alla disciplina[33]. Mi sembra emblematica questapparentemente ovvia connessione di argomenti teologico-filosofici (la verit!) e politico-ecclesiali (lorgine, la disciplina!). Ma ancor pi esplicito il seguente passaggio dellAdversus Haereses (IV, 35, 4)

Tante sono le diversit tra loro sullo stesso argomento e diverse sono le interpretazioni dello stesso testo della Scrittura; sopra la stessa lettura, tutti, aggrottando le sopracciglia, scuotono il capo dicendo di avere una dottrina molto profonda, ma che non tutti quelli che sono l dentro comprendono la grandezza del loro intelletto e per questo il Silenzio la cosa pi sublime tra i sapienti. []

Perci quando si saranno messi daccordo sulle cose dette nella Scrittura, allora li confuteremo; non andando daccordo frattanto si confutano a vicenda, non convenendo sul significato stesso delle parole. Noi invece, seguendo lunico vero Dio come nostro maestro e tenendo la norma della verit nelle sue parole, diciamo tutti sempre le stesse cose sugli stessi argomenti riconoscendo un unico Dio, creatore di questo universo, che mand i profeti, che liber il popolo dal paese dEgitto, che negli ultimi tempi rivel il proprio Figlio per confondere gli increduli ed esigere frutti di giustizia (Ireneo 1968, p. 123).

Insomma, i cattolici come un soluomo dicono tutti e in ogni occasione la stessa cosa; gli eretici sono sempre discordi, perfino fra di loro! Anche in questo caso interessante osservare che per Ireneo (ma il montanista Tertulliano non si sarebbe espresso diversamente) la concordia della Chiesa fondata sulla continuit ininterrotta della tradizione apostolica, a sua volta garantita dallunicit di Dio e della certezza sua rivelazione. Al contrario, la caotica pluralit del pleroma gnostico si riflette prismaticamente in un labirinto mitologico, che deflettendo dallunica tradizione apostolica d origine a stte molteplici e tra loro discordi.

10.

Lindubbia forza di queste considerazioni poggia tuttavia su un presupposto, dalle origini molto pi pagane di quanto i Padri fossero disposti credere. Gi Aristotele[34] decise di leggere gli antichissimi racconti mitici nei termini delle categorie del filosofico, in particolare del proprio, per scoprirne ovviamente linadeguatezza. E al maldestro obiettore del principium firmissimum lo Stagirita impose la necessit di dire qualcosa, ovvero di definire nel modo quanto pi possibile circoscritto il significato delle parole che avesse voluto pronunciare. Perch se invece non si ponesse un limite, ma si affermasse che il termine uomo ha infiniti significati, allora non si potrebbe evidentemente fare alcun ragionamento, giacch non avere un solo significato equivale a non avere significato alcuno (Aristotele, Metafisica, Metafisica IV, 4, 1006b 5-8)[35].

Che io sappia, non si mai vista una precisa relazione tra il rifiuto aristotelico del mito e la confutazione del relativismo in Metafisica IV. Non sar certo io a cimentarmi in una simile impresa, eppure salta aglocchi una somiglianza di famiglia tra la posizione aristotelica e il rifiuto del mito gnostico in nome dellunicit di Dio e della sua rivelazione. Aristotele accusa chi si sottragga allobbligo di definire il significato delle parole come accade a sofisti e mitologi di giacere al di fuori del , scadendo al livello di un tronco. Non diversamente i Padri sono convinti che narrare la rivelazione in forma mitica voglia dire negare lunicit del di Dio, ovvero di Dio stesso, frammentando lunica Chiesa in una molteplicit discorde di stte. I contesti storico-culturali sono senzaltro diversi; eppure in entrambi i casi il pluralismo (implicito nel mito, esplicito nel relativismo scettico) scartato in quanto incompatibile con lortodossia della verit e lortoprassi etica, politica o ecclesiale che intorno a essa prende forma. Il negatore del principium firmissimum equiparato da Aristotele a un tronco e sottilmente invitato a lasciarsi cadere in un pozzo, come gi il vecchio Talete, se proprio vuol dimostrare la solidit del suo relativismo; i mitologi gnostici sono considerati dai Padri come apostati della verit (Tertulliano), precursori dellAnticristo (Ireneo), e dunque probabili candidati alla punizione eterna.

Con tutto questo non vorrei dar limpressione di prendere le parti degli gnostici. probabile che nel II e nel III secolo il rifiuto della gnosi fosse necessario e inevitabile, se non altro perch un cristianesimo cos fatto non avrebbe potuto sopravviere a lungo. Mi chiedo piuttosto se - dopo Hegel e la sua risoluzione della di Dio nellOffenbarung del concetto non sarebbe utile ripensare le enigmatiche parole del Vangelo di Filippo: La verit non venuta nuda in questo mondo, ma in simboli e in immagini. Non la si pu afferrare in altro modo (Vangelo di Filippo, in Moraldi 2009, p. 61).

E poco pi oltre: Egli si manifestato in questo luogo per mezzo di simboli e immagini (Ivi, p. 62)[36].

Laccento dominante di queste parole cade senza dubbio sullavvento della verit in Cristo. venuto, si manifestato! Ma vi un accento secondario che non va perso: Cristo non venuto nudo, non si manifestato in un modo da compiacere Aristotele, ma in simboli e immagini.

azzardato scorgere una corrispondenza tra questaffermazione cristologica e la forma mitica della rivelazione gnostica? Se Cristo non venuto nudo nel mondo ma ha rivestito unapparenza a lui estranea (della qual cosa convinto anche lApostolo: cfr. Fil. 2, 6-11), la forma mitica lunica narrazione adeguata a questavvento?

In ogni caso, qualunque cosa volesse dire il Vangelo di Filippo, credo che si debba ormai ammettere per usare unespressione di Eberhard Jngel la verit del mito[37]. Il mito non limbarazzante parto dellindisciplinata fantasia di uomini dalla mente poco rigorosa vissuti in unepoca di declino politico e culturale[38], ma unesigenza interna alla rivelazione cristiana. La rivelazione non un mito; ma ci non significa che il tentativo di comprenderla non debba avere una forma mitica. Se si aggiunge che la rivelazione una storia, una storia sui generis, la forma mitica della teologia ricevere un particolare credito, giacch possibile che il mito sia la vera risposta umana di fronte alla meraviglia di una storia.

Ma non va dimenticata la necessit della demitizzazione, che il teologo tedesco - buon allievo di Bultmann - subito aggiunge, se non si vuole perdere la trascendenza del Dio biblico. Un mito senza demitizzazione tradirebbe il carattere totalmente altro del Dio ebraico-cristiano; una teologia senza mito priverebbe la fede del proprio linguaggio.

Senza entrare nel merito del complesso saggio di Jngel, forse la formula citata verit del mito e necessit della demitizzazione - pu significare anche qualcosa del genere: il mito ogni mito tende a unopacit che non agevola la visione di quelleccedenza che pure vorrebbe custodire. Al contrario di quanto pensava Levy-Strauss, il mito come ogni narrazione - vuol essere compreso nei suoi stessi termini, il che rende assai disagevole il tentativo di guardare attraverso. Il mito gnostico, in particolare, mettendo in scena, quale prologo in cielo, il dramma degli Eoni provocato dal peccato di Sophia, richiama ad alta voce su di s lattezione dellascoltatore, occultando leccedenza di Dio che pure io credo vorrebbe affermare.

Ma nemmeno la chiara trasparenza del filosofico sembra del tutto adatta al compito di custodire, nellevento rivelazione, il mistero del rivelato. Per le ragioni in gran parte messe in luce da Horkheimer e Adorno nel loro capolavoro, alla piena luce dellAufklrung il mistero tende a dissolversi.

Rimarrebbe, forse, la possibilit di tradurre la speculazione mitica degli gnostici in una teologia metaforica, cercando di rischiarare il mito senza cadere nelle acque cristalline del . Seguire questa strada eccederebbe senzaltro la misura di queste pagine[39], il cui scopo era pi semplicemente richiamare la riflessione sullescatologia a quella disputa sullarch che dividendo gnostici e Padri della chiesa sta allorigine della teologia cristiana.

Note

[1]Nel libro VI troviamo una chiara e diretta testimonianza del clima storico in cui stato scritto il Commento: Ora, fino al libro quinto ho potuto esporre ci che mi era concesso, anche se la tempesta che infuriava in Alessandria senbrava opporsi, perch Ges imponeva la calma ai venti e alle onde del mare in tempesta (Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, a cura di E. Corsini, Utet, Torino, 1968, p. 289). Nel 231 Demetrio, vescovo di Alessandria, riesce a far bandire Origene dall'Egitto, annullando l'ordinazione sacerdotale che Origene aveva ricevuto nello stesso anno a Cesarea.

[2] Del resto, figlio mio, sta' in guardia: si fanno dei libri in numero infinito; molto studiare una fatica per il corpo. Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perch questo il tutto per l'uomo (Ec. 12, 14-15. Trad. Nuova Riveduta).

[3]Nella moltitudine delle parole non mancher la colpa, ma chi frena le s