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INDELEBILI SEGNI
Fabrizio Savegnago
Fabrizio Savegnago
Fabrizio Savegnago nasce nel 1988 a Firenze.
È laureato in scienze infermieristiche.
Dal 2012 al 2013 lavora come infermiere
nel carcere di Sollicciano che gli darà
lo spunto per scrivere Indelebili segni.
Appassionato di cinema (ha studiato
recitazione cinematografica) cerca di far
entrare nei suoi racconti la sua passione
fondendo la soggettività della macchina
da presa con l'Ultrapop alla Tarantino.
Fabrizio Savegnago | INDELEBILI SEGNI
Indelebili segni di Fabrizio Savegnago è uno dei modi attraverso cui entrare
in una prigione, nelle sue violenze quotidiane, nel suo linguaggio crudo, nel-
le sue storie, nella sua umanità variegata. Scrive l’autore, cogliendo perfetta-
mente la vita vera nelle carceri: “Le urla risvegliano qualche altra detenuta
assopita, le urla a Sollicciano sono come gli sbadigli, sono contagiose”...
ISBN 978-88-85339-47-7€ 17,00
Prima Edizione
Ellerani Editore
Viale San Giovanni, 7
33078 San Vito al Tagliamento (PN)
www.elleranieditore.it
In copertina: illustrazione di Paolo Primon
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PREFAZIONE
A cura di Patrizio Gonnella giurista e filosofo del diritto italiano.
Dal 2005 è presidente dell’Associazione Antigone che si interessa
della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale.
Ci sono mille modi per conoscere il carcere. Si può studiare sui li-
bri di diritto. Ci si può formare un’idea guardando a quanto scrivo-
no le organizzazioni internazionali o le associazioni che si battono
per il rispetto dei diritti dei detenuti. Ci si può affidare al raccon-
to di operatori penitenziari, di giudici, di avvocati, di detenuti. Si
possono leggere biografie o auto-biografie. Si possono vedere docu-
mentari.
Per capire cosa significa vivere un giorno, un mese, un anno, una
vita in carcere si possono però anche leggere romanzi di pura fan-
tasia, vedere film di pura fiction, ascoltare una canzone. Jack Lon-
don con lo straordinario Vagabondo delle stelle, Stuart Rosenberg
con il prison movie per eccellenza Brubaker, Johnny Cash con il
suo Folsom Prison Blues possono formare coscienze, motivare, ap-
passionare, produrre conoscenza anche più di un manuale asettico
di diritto penitenziario.
Indelebili segni di Fabrizio Savegnago è uno dei modi attraverso
cui entrare in una prigione, nelle sue violenze quotidiane, nel suo
linguaggio crudo, nelle sue storie, nella sua umanità variegata.
Scrive l’autore, cogliendo perfettamente la vita vera nelle carceri:
“Le urla risvegliano qualche altra detenuta assopita, le urla a Sol-
licciano sono come gli sbadigli, sono contagiose”. Sollicciano si tro-
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va nella periferia fiorentina. Per andare da Firenze verso la Scuola
superiore della magistratura a Scandicci si passa per Sollicciano.
Chissà quanti giudici, dai finestrini delle loro auto o dell’autobus
che li porta a scuola, si soffermano nel vedere quel luogo che sin
dalla sua apparenza esterna non inganna. Finestre con poca luce
naturale, mura scrostate. Un luogo brutto. Se un luogo è brutto
fuori, fa molta fatica a essere bello dentro.
Tutto è contagioso in un carcere, ha ragione Fabrizio Savegnago.
Le urla per avere le medicine la sera, le prassi fuori dalla legalità,
la violenza verso se stessi, pensieri e azioni. Il romanzo che andre-
te a leggere vi produce un’esperienza di vita dentro una prigione,
senza avere la sfortuna di essere stato prigioniero. È sicuramente
meno rischioso conoscere Sollicciano attraverso Fabrizio Savegna-
go che non passandoci un tempo della propria esistenza, nonostan-
te l’impegno, talvolta eccezionale, di operatori che vorrebbero dare
sostanza alla norma costituzionale che assegna alla pena una fun-
zione rieducativa.
Dunque, buona lettura di quello che è una classica prison novel.
Patrizio Gonnella
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PROLOGO
Dragan
L’infermiere Mattia mi guarda.
L’uomo in fondo alla stanza piange.
Mi fa tanto male la schiena. Sento bruciare proprio in mezzo alle spalle.
Scivolo giù in fondo, verso il pavimento.
Perché?
“Perché?”
L’infermiere parla all’uomo in fondo alla stanza, Mattia in questo
momento è diventato la mia voce.
L’uomo in fondo alla stanza piange e si chiude il viso tra le mani.
Devo dargli il foglio.
Cerco di prendere il disegno nella tasca dietro i pantaloni.
Cado a terra.
Il fuoco che ho dietro la schiena mi fa ancora più male, il punto
dov’è concentrato il dolore ha sbattuto contro il pavimento. Sento
il ritmo del gonfiarsi e sgonfiarsi della ferita fin dentro la testa.
L’infermiere si mette tra me e l’uomo in fondo alla stanza.
“PERCHÉ?”
L’infermiere grida le parole che non posso gridare.
Mi giro su un fianco, piano, lentamente.
Con due dita riesco a prendere il foglio.
Lo devo dare a Mattia!
L’infermiere salta sull’uomo in fondo alla stanza, cadono a terra
tutti e due.
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“DOVE L’HAI MESSO?”
L’infermiere cerca il pezzo di plastica che l’uomo aveva in mano e
che deve essere caduto a terra.
“Mi dispiace… mi dispiace…”
L’uomo continua piangere.
L’infermiere si avvicina a me.
“Come stai?”
Mentre mi parla l’infermiere cerca il pezzo di plastica con gli occhi.
Metto il foglio aperto in mano a Mattia.
L’infermiere sgrana gli occhi.
Adesso ci crede.
“Mi dispiace!”
L’uomo ora è sopra di me con il pezzo di plastica fra le mani.
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CAPITOLO 1
Mattia
Qualche mese prima.
L’impietoso orologio della Panda segna le 6 e 17 di un freddissimo
venerdì di dicembre.
Nel tempo in cui aspetto che il ghiaccio del parabrezza mi lasci
almeno lo spazio per intuire le mosse giuste da effettuare per usci-
re dal parcheggio, la radio si accende su un programma che passa
poca musica ma ti assicura la veglia fino al luogo di lavoro parlando
di coppie fedifraghe e delle loro improbabili evoluzioni amorose sia
di natura ginnica, con dovizia di particolari, che comportamentale,
per nascondere al proprio partner il motivo per il quale si ritrova più
corna di un cesto di lumache. Mentre i DJ si accingono a leggere al-
cuni messaggi di questi moderni Casanova, io m’incanto a guardare
la quantità di spie luminose accese sul mio cruscotto come se fosse
un albero di Natale. Manca ormai veramente poco al venticinque e
io non ho comprato ancora un cazzo di regali a nessuno.
L’odore di frutti tropicali del nuovo Arbre Magique non accenna a
diminuire nonostante sia attaccato allo specchietto retrovisore da
tre o quattro giorni.
Finalmente mi faccio coraggio e parto: imbocco la statale deserta
che mi accompagnerà fino all’autostrada che sembra essere uscita
dall’ambientazione di un film su Jack lo squartatore, non ho mai
visto tanta nebbia come quest’anno.
Il cellulare mi ricorda che posso ritenermi socialmente attivo dato
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il continuo squillare e cinguettare che i miei profili di Facebook e
Twitter rilasciano siccome, durante la notte, non ho ritenuto oppor-
tuno sapere se qualcuno aveva deciso di taggarmi da qualche parte.
La strada scorre lenta, silenziosa e deserta a quest’ora del mattino.
Sembra quasi di fare un torto al mondo intero passando in mezzo
al nulla, sopra una macchina con la voce di un animale agonizzan-
te e la radio ad un volume abbastanza alto da poter sovrastare i
lamenti dell’automobile e riuscire ad evitare il chiudersi delle mie
palpebre.
Eccolo là.
Uno degli stabili più brutti d’Europa mi si staglia davanti un paio di
curve dopo essere uscito dall’autostrada.
Che schifo di posto.
Cerco inutilmente un parcheggio nello spiazzo teoricamente adibito
a tal uso. Niente, mi arrendo, abbandono la macchina lungo il viale.
Cazzo sono in ritardo!
Guardo il preposto alla portineria con urgenza negli occhi per spe-
rare di velocizzare la pratica di scambio carta d’identità-pass verde.
Schiodarsi dalla poltrona in maniera celere non sembra essere nei
piani dell’uomo il quale mi passa l’ambita tessera senza rispondere
al mio buongiorno.
“Grazie!”
L’uomo, sempre senza proferire parola, preme un pulsante al fine di
far scattare l’apertura del pesante portone davanti a me che mi la-
scia nell’atrio di fronte ad un’altra porta che, almeno in questo caso,
il tipo aveva prontamente aperto in sincrono con la prima per non
muoversi troppo.
Corro fino allo spogliatoio e mi cambio in fretta e furia.
Cazzo, mancano dieci minuti alle sette!
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M’infilo la divisa e corro come il vento verso un cancellone enorme.
Con questa nebbia, sembra ancora più tetro di quello che è.
Suono due o tre volte per essere sicuro che almeno l’addetto di
quest’ulteriore infisso si dia una scrollata. Il trucco funziona,
ma il meccanismo della piccola porta situata accanto al cancello
per il passaggio mezzi sopracitato è di una lentezza disarman-
te. M’infilo dentro appena c’è lo spazio per far passare un uomo
grande un quarto di quello che sono io. Entro nel piccolo atrio
dove vi è un individuo, circondato da due stufette al massimo
della loro potenza, intento a tenere ancora premuto il pulsante
di chiusura di quella maledetta porta che fra un po’ mi lascia
senza la divisa.
“Mattia Furlagni”.
Il tizio, munito di un paio di notevoli borse sotto gli occhi, alza il so-
pracciglio come per dire “cazzo hai detto?!” ed io ripeto solo il mio
cognome “Furlagni” unica eredità delle mie origini settentrionali
il quale però risulta essere un handicap quando devi lasciare nome
e cognome su di un registro per poter entrare a lavoro, soprattutto
se il novantacinque percento delle persone che lavorano nel fabbri-
cato con te è del sud ed è più abituata a sentire nomi al cui interno
c’è una fusione fra le lettere “i” e “o” che “g” e “n” cosicché, capita
spesso, al mio posto lavorino i signori Mattia Forlani, Mattia Forla-
gni o Mattia Furani.
“Mi dà una chiavetta per l’armadietto grande, per favore?”
La prendo, esco dallo stanzino.
Minchia che freddo fa fuori!
Mi dirigo verso l’armadietto numero 93, come scritto sul portachia-
vi d’ottone, nel quale lascio la mia borsetta tracolla e il cellulare.
Menomale che oggi devo andare al femminile almeno non ho da
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fare un quarto d’ora di camminata come per andare dagli uomini.
Suono ad un’ennesima porta, si apre subito manovrata da un’entità
a me invisibile, poiché situata all’ingresso del maschile dove, muni-
ta di un fracasso di telecamere, dovrebbe controllare l’identità più
o meno losca del suonatore di campanello, fatto reso abbastanza
discutibile dal momento che indosso una felpa termica con cap-
puccio tirato su e una sciarpa per difendermi dal freddo.
Finalmente sono in uno spazio chiuso.
Mi tolgo il cappuccio e riparto a correre su per le scale… ormai
manca poco!
Supero un cancello semi-aperto da tempo immemore, un giorno ha
semplicemente deciso di guastarsi creando un bel po’ di panico a
chi doveva uscire.
Al registro delle entrate c’è una ragazza che conosco, alzo la mano
per non farla alzare, tanto ‘Mattia Furlagni infermiere’ lo può an-
che scrivere in un altro momento.
“Ciao Valeria!”
La grassoccia assistente sorride con il suo solito fare allegro.
“Mattia, ‘giorno!”
Dietro questa lunga curva c’è l’infermeria, giro e busso alla porta,
senza aspettare una risposta di qualsiasi tipo apro.
Mariana, la mia collega, una donna rumena alta un metro e no-
vanta, un gran fisico e tanta cattiveria addosso, è a sedere dietro
la scrivania sveglia come se fossero le dieci di mattina, ma come
cazzo fa?
Prima di salutarmi gira lo sguardo verso l’orologio attaccato alla pa-
rete per controllare l’orario... quanto mi fai incazzare!
“Buongiorno collega... “
“ ‘giorno Mariana... “
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E, mentre mi guarda con lo sguardo disilluso tipico delle donne
dell’est, il suo profumo fruttato mi aggredisce come ogni volta. Pen-
so sia l’odore che meno si addice alla sua personalità; una volta la
mia ragazza se l’è provato in una profumeria in centro e alla do-
manda “Cosa ne pensi?” ho risposto “Puzzi di arroganza”.
“Ci sono consegne? Come è andata la notte?”
Mariana si sposta una ciocca dei suoi corti e lisci capelli neri dietro
l’orecchio sinistro.
“Le solite cose... somministrata terapia delle otto di sera in tutte le
sezioni, alle dieci e mezzo sono andata al transito per fare l’insu-
lina ad un isolamento, a mezzanotte mi chiamano dal braccio dei
transessuali per Marcelo Mendes che si è tagliato il braccio con
una lametta perché ha litigato con il suo concellino. Medicato con
Steri-Strip, niente di grave. Alle tre mi chiamano dalla casa di cura
e custodia dove ho fatto, sotto prescrizione del medico di guardia,
un Largactil intramuscolo a Diacolaro Valentina che ha dato fuoco
alla cella guidata dalle voci nella testa”.
“Anche stanotte ha sentito le voci!?”
“Così pare...”
Sono qua, aspetto la domanda da cento milioni...
“Tutto a posto Mattia? Ti è successo qualcosa? Come mai così tardi?”
Il suono del telefono mi salva dal dover pensare ad una scusa ade-
guata, lo sguardo di Mariana mi sembra abbastanza dispiaciuto di
questo inconveniente, e, mentre ancora mi fissa, risponde al cord-
less che sta gracchiando la versione più brutta che abbia mai senti-
to della Quinta Sinfonia di Beethoven.
“Infermeria femminile pronto?”
Un sorriso le si allarga sul viso mentre io sto prendendo il carrello
della terapia per poter partire con il giro farmaci.
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“Un attimo le passo il mio collega, io sto smontando...”
Mi passa il ricevitore, già mi immagino le mille richieste che po-
trebbero uscire dall’apparecchio
“Si?”
“Infermiè, sono l’agente qui ai transex! Stiamo inguaiati con que-
sto ricchione di Mendes, mo s’è bevuto il liquido per i pavimenti...
Camm’a fà? Lo chiama lei il medico di guardia mentre viene a ve-
dere sto femminiella? Mi sa che oggi deve ritardare la terapia!!”
“Arrivo”.
Riattacco e mi scappa un “Porca troia!” Mariana prende la sua bor-
sa si gira e con una lentezza innaturale mi dice:
“Sono cose che capitano quando si lavora nel carcere di Solliccia-
no... Buon lavoro collega!”
INDELEBILI SEGNI
Fabrizio Savegnago
Fabrizio Savegnago
Fabrizio Savegnago nasce nel 1988 a Firenze.
È laureato in scienze infermieristiche.
Dal 2012 al 2013 lavora come infermiere
nel carcere di Sollicciano che gli darà
lo spunto per scrivere Indelebili segni.
Appassionato di cinema (ha studiato
recitazione cinematografica) cerca di far
entrare nei suoi racconti la sua passione
fondendo la soggettività della macchina
da presa con l'Ultrapop alla Tarantino.
Fabrizio Savegnago | INDELEBILI SEGNI
Indelebili segni di Fabrizio Savegnago è uno dei modi attraverso cui entrare
in una prigione, nelle sue violenze quotidiane, nel suo linguaggio crudo, nel-
le sue storie, nella sua umanità variegata. Scrive l’autore, cogliendo perfetta-
mente la vita vera nelle carceri: “Le urla risvegliano qualche altra detenuta
assopita, le urla a Sollicciano sono come gli sbadigli, sono contagiose”...
ISBN 978-88-85339-47-7€ 17,00