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Inviato da PAOLA VOENA A. ALLEVA – ISTINTI E SPETTRI (AMORE) «Chissà che cosa, quando sarai grande» Chissà che cosa, quando sarai grande, resterà in te di questi baci notturni, che ti solleticano pur senza svegliarti. Scuri spicchi di luna come stecche di ventaglio si richiudono sul cuscino, si giungono i palmi in preghiera. Sono gelosa del riposo che ti fa sua sposa in queste ore. Ti allontano i capelli dalla fronte, umidi di rugiada come un prato in fiore. Lo giuro: ti ho dato il bacio anche stanotte. Mi sono testimoni gli occhi vigili delle tue bambole e dei tuoi animali.

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Inviato da PAOLA VOENA A. ALLEVA – ISTINTI E SPETTRI (AMORE) «Chissà che cosa, quando sarai grande» Chissà che cosa, quando sarai grande, resterà in te di questi baci notturni, che ti solleticano pur senza svegliarti. Scuri spicchi di luna come stecche di ventaglio si richiudono sul cuscino, si giungono i palmi in preghiera. Sono gelosa del riposo che ti fa sua sposa in queste ore. Ti allontano i capelli dalla fronte, umidi di rugiada come un prato in fiore. Lo giuro: ti ho dato il bacio anche stanotte. Mi sono testimoni gli occhi vigili delle tue bambole e dei tuoi animali.

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Inviato da ROBERTO RUSSO, STUDENTE A. ALLEVA – ISTINTI E SPETTRI (AMORE) «Le doglie quel mattino afoso» Le doglie quel mattino afoso, fuori il fiume, tuonarono all’improvviso. Tu facevi male. Nuda ti accasciasti a cuneo intorno all’avambraccio della dottoressa. Di te vidi solo il sesso, non piangevi. Sulla sedia di formica d’ospedale, accanto allo spiffero della porta, una delle prime notti ti giurai «Ti crescerò, ti darò in sposa». Avevi zigomi a punta, e una peluria cresciuta al buio. Ti chiamavo l’eschimese. Subito avevi trovato pace fra le mie braccia. Di te prediligevo la sordina in cui eri nata, che ti rendeva più mia e più regina. Pregavi con le mani serrate attorno alla mammella. Così forgiasti occhi di legno e latte, perline di sudore d’estate sopra il labbro. Così, nella maglia del fratello, le tue spalle fiere.

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Inviato da GIUSEPPE LO VERDE A. ALLEVA – ISTINTI E SPETTRI (AMORE) «Procida e Ischia» Arrivammo a Procida col battello al crepuscolo, e qualcuno scese, ma la nostra destinazione era Ischia. Borbottai nella tua lingua che quella non era la nostra isola, ma restai incantata dalla palizzata color dell’oleandro e di albicocca, dai placidi quarti di luna dei balconi. Navigammo oltre, e scendemmo che era notte. A Ischia restammo una settimana, davanti al castello dei francobolli, leccato dai neri e verdi flutti. Vivevamo in attesa delle fotografie scattate in casa. Non volevi tornare. Per te Ischia restò sempre l'isola felice. Io invece volevo la terraferma, per fare dell'isola una vita. Tu, una volta a terra, ripartisti in fretta. Eccomi, dopo anni, a Procida, davanti a Ischia, l'isola felice. Qui ho steso e ritirato il bucato. Di Procida le onde sono mie, come i capelli: le pettino, le rovescio, e al loro sciabordio rifletto. Ne mangio i pesci, raccolgo i limoni, la osservo allo specchio, e Ischia mi pare lontana. Eppure, quando la vedo a un tratto tutta intera, con le nuvole che la sovrastano ammassate, a imitazione delle reti, penso che questa sia la tua maniera di farti vivo, di ridisegnare in aria il finito. Scambiavo te per una terra, ed eri mare. Eri il falso approdo di una zattera arrischiata. Ora guardo Ischia, perchè Procida m’ha insegnato a contemplare.

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Inviato da GIULIA COSTA J. AUSTEN – ORGOGLIO E PREGIUDIZIO (AMORE) È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo largamente provvisto di beni di fortuna debba sentire il bisogno di ammogliarsi. Per quanto poco si conoscano, di costui, i sentimenti e le intenzioni, fino dal suo primo apparire nelle vicinanze, questa verità si trova così radicata nelle teste delle famiglie circostanti che queste lo considerano senz’altro come la legittima proprietà dell’una o dell’altra delle loro figliuole. “Mio caro Bennett” gli disse un giorno la sua signora “hai sentito che Netherfield Park è stato finalmente affittato?” Il signor Bennett rispose che non lo sapeva. “Eppure, sì,” replicò lei “la signora Long è stata qui in questo momento e mi ha detto tutto.” Il signor Bennett non rispose. “Non ti importa dunque sapere chi lo ha preso?” esclamò la moglie impazientita. “Se hai proprio bisogno di dirmelo posso anche starti a sentire.” L’invito bastava. “Ebbene, mio caro, sappi che la signora Long dice che Netherfield è stato preso in affitto da un giovanotto ricchissimo, dell’Inghilterra del nord, che è venuto lunedì scorso, in un tiro a quattro, a vedere il posto e lo ha trovato così di suo gusto che si è subito inteso col signor Morris. Dice che ne prenderà possesso prima di San Michele e una parte dei suoi servitori ci si troverà già alla fine di quest’altra settimana.” “E si chiama?” “Bingley.” “Scapolo o ammogliato?” “Scapolo, si capisce. Un giovanotto con un bel patrimonio; quattro o cinquemila sterline all’anno. Bella casa per le nostre ragazze.” “Come? Che c’entrano le ragazze?” “Ma, caro mio,” replicò la moglie “quanto sei uggioso! Sappi che medito di fargliene sposare una.” “E questa sarebbe anche l’intenzione di lui nel venire a stabilirsi qui?” “Intenzione! Che sciocchezza! Come si fa a ragionare a codesto modo? È però probabilissimo che si innamorerà di una delle nostre figliuole e perciò appena arriva tu devi andare a trovarlo.” “Non vedo un pretesto. Potresti invece andarci con le ragazze, o mandarle sole, che sarebbe anche meglio, poiché se ci vai anche tu, seducente non meno di loro, potresti piacere più di tutte al signor Bingley.”[…] “Sei proprio tu, mio caro, che devi andare a trovare il signor Bingley, quando si sarà stabilito da queste parti.” “È un po’ più di quello che posso promettere.” “Ma pensa un po’ alle tue figliuole, a quello che vuol dire un buon partito. […] Sei proprio tu che devi andarci. Noi non possiamo assolutamente fargli visita se non glie l’hai fatta tu prima.” “Ne hai di scrupoli! Io direi che il signor Bingley sarà felicissimo di vederti: gli farò avere, per mezzo tuo, alcune righe che lo assicurino del mio sincero consenso al suo matrimonio con una delle ragazze, a sua scelta: soltanto bisognerà che vi metta una buona parola per Lizzy.” “Mi auguro che tu non lo faccia. Lizzy non ha nulla di meglio delle altre; certo non ha nemmeno la metà della bellezza di Jane, né il brio di Lydia. Però tu le dai sempre la preferenza.” “Nessuna di loro tre ha nulla di speciale” rispose Bennett. “Sono tutte e tre sciocchine e ignoranti come tutte le ragazze; è solo che Lizzy è un po’ più sveglia delle sorelle.”

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“Come puoi trattare a codesto modo le tue figliuole? Ti diverti a torturarmi! Non hai proprio pietà dei miei nervi…” “Ti sbagli della grossa, cara. Ho il massimo rispetto per i tuoi nervi. Sono mie vecchie e care conoscenze. Sono per lo meno vent’anni che te li sento nominare.” “Ah! Tu non hai idea di quello che soffro!” “Spero sinceramente che riuscirai a vincere codesta sofferenza e che vivrai tanto da vedere arrivare nelle vicinanze parecchi giovanotti con quattromila sterline di rendita l’uno.” “Non servirebbe nemmeno se ne venissero cento dal momento che tu non vuoi andare a fargli visita.” “Sta certa, cara, che quando ce ne fossero cento, andrei a far vista a tutti.”

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Inviato da ALESSANDRO ALBANO A. BARICCO – OCEANO MARE (AMORE) Nelle terre di Carewall, non smetterebbero mai di raccontare questa storia. Se solo la conoscessero. Non smetterebbero mai. Ognuno a modo suo, ma tutti continuerebbero a raccontare di quei due e di un'intera notte passata a restituirsi la vita, l'un l'altra, con le labbra e con le mani, una ragazzina che non ha visto nulla e un uomo che ha visto troppo, uno dentro l'altra- ogni palmo di pelle è un viaggio, di scoperta, di ritorno- nella bocca di Adams a sentire il sapore del mondo, sul seno di Elisewin a dimenticarlo- nel grembo di quella notte stravolta, nera burrasca, lapilli di schiuma nel buio, onde come cataste franate, rumore, sonore folate, furiose di suono e velocità, lanciate sul pelo del mare, nei nervi del mondo, oceano mare, colosso che gronda, stravolto- sospiri, sospiri nella gola di Elisewin- velluto che vola- sospiri ad ogni passo nuovo in quel mondo che valica monti mai visti e laghi di forme impensabili- sul ventre di Adams il peso bianco di quella ragazzina che dondola musiche mute- chi l'avrebbe mai detto che baciando gli occhi di un uomo si possa vedere così lontano- accarezzando le gambe di una ragazzina si possa correre così veloci e fuggire- fuggire da tutto- vedere lontano- venivano dai due più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati, se non attraversando da capo a piedi l'universo, e invece nemmeno si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è il meraviglioso- questo continuerebbero a raccontare, per sempre, nelle terre di Crewall, perchè nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, mai- lontani abbastanza- per trovarsi- lo erano quei due, lontani, più che chiunque altro e adesso- grida la voce di Elisewin, per i fiumi di storie che forzano la sua anima, e piange Adams, sentendole scivolare via, quelle storie, alla fine, finalmente, finite- forse il mondo è una ferita e qualcuno la sta ricucendo in quei due corpi che si mescolano- e nemmeno è amore, questo è stupefacente, ma è mani, e pelle, labbra, stupore, sesso, sapore- tristezza, forse- perfino tristezza- desiderio- quando lo racconteranno non diranno la parola amore- tace tutto, intorno, quando d'improvviso Elisewin sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare, stringe quell'uomo dentro, gli afferra le mani e pensa: morirò. Sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare, stringe quell'uomo dentro, gli afferra le mani e, vedi, non morirà. Ascoltami, Eliswin...No, non parlare...Ascoltami. No. Quello che succederà qui sarà orrendo e...Baciami...è l'alba, torneranno...Ascoltami...Non parlare, ti prego. Elisewin...Come si fa? Come glilo dici, a una donnna così, quello che devi dirle, con le sue mani addosso e la sua pelle, la pelle, non si può parlarle di morte proprio a lei, come glielo dici a una ragazzina così, quello che lei sa già e che pure bisognerà che ascolti, le parole, una dopo l'altra, che puoi anche sapere ma devi ascoltare, prima o poi, qualcuno deve dirle e tu ascoltarle, lei, ascoltarle, quella ragazzina che dice -Hai degli occhi che non ti ho visto mai. E poi- Se tu solo volessi, potresti salvarti. Come glielo dici ad una donna così che tu vorresti salvarti, e ancora di più vorresti salvare lei con te, e non fare altro che che salvarla, e salvarti, tutta una vita, ma non si può, ognuno ha il suo viaggio, da fare, e tra le braccia di una donna si finisce facendo strade contorte, che neanche tanto capisci tu, e al momento buono non le puoi raccontare, non hai parole per farlo, parole che ci stiano bene, lì, tra quei baci e sulla pelle, parole giuste, non ce n'è, hai un bel cercarle in quel che sei e in quel che hai sentito, non le trovi, hanno sempre una musica sbagliata, è la musica che gli manca, lì, tra quei baci e sulla pelle, è una questione di musica. Così poi dici, qualcosa, ma è una miseria. Elisewin, io non sarò mai salvo. Come glielo dici, a un uomo così, che adesso che sono io che voglio insegnargli una cosa tra le sue carezze voglio fargli capire che il destino non è una catena ma un volo, e se solo ancora avesse voglia davvero di vivere lo potrebbe fare, e se solo avesse voglia davvero di me potrebbbe riavere mille notti come questa invece di quell'unica, orribile, a cui va incontro, solo perchè lei lo aspetta, la notte orrenda, e da anni lo chiama.

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Inviato da ANNA CASCELLA , STUDENTESSA DI PSICOLOGIA R. BENIGNI – INNAMORATEVI da “LA TIGRE E LA NEVE” (AMORE) Voi non scrivete subito poesie d'amore che sono le più difficili aspettate almeno una ottantina d'anni scrivetele su un altro argomento che ne so.....sul male su un termosifone sui treni in ritardo, non esiste una cosa più poetica di un altra. Avete capito la poesia non è fuori è dentro. Cos'è la poesia non chiedermelo più, guardati nello specchio la poesia sei tu. E scrivetele bene le poesie cercate bene le parole, dovete scegliere, a volte ci vogliono 8 mesi per trovare una parola, scegliete, che la bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere. Guardate Eva , sapete quanto ci ha messo Eva prima di scegliere la foglia di fico giusta? o questa, questa o questa...ha spogliato tutti i fichi del paradiso terrestre.. INNAMORATEVI!! Se non vi innamorate è tutto morto vi dovete innamorare e diventa tutto vivo si muove tutto DILAPIDATE LA GIOIA!! INNAMORATEVI!! Sperperate l'allegria, siate tristi e taciturni con esuberanza fate soffiare in faccia alla gente la felicità.... INNAMORATEVI!! Questo è quello che dovete fare per trasmettere la felicità bisogna essere felici e per trasmettere il dolore bisogna essere felici. Siate felici, per essere felici dovete patire stare male soffrire non abbiate paura di soffrire tutto il mondo soffre. E se non avete i mezzi non vi preoccupate tanto per fare poesia una sola cosa vi serve ...tutto.. E non cercate la novità, la novità è la cosa più vecchia che ci sia e se il verso non vi viene da questa posizione da questa da cosi.. buttatevi in terra mettetevi cosi!! è da distesi che si vede il cielo..guarda. che bellezza.. perchè non mi si sono messo prima?? I poeti non guardano vedono.. Fatevi obbedire dalle parole.. INNAMORATEVI!! Se non vi innamorate è tutto morto vi dovete innamorare che diventa tutto vivo si muove tutto.. DILAPIDATE LA GIOIA!! INNAMORATEVI!! Sperperate l'allegria

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siate tristi e taciturni con esuberanza Fate soffiare in faccia alla gente la felicità INNAMORATEVI!! Questa è la bellezza come quei versi la che voglio che rimangano scritti li per sempre.. ....Forza cancellate tutto....

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Inviato da ANGELA IACINIELLO J. BOUSQUET – LA CONOSCENZA DELLA SERA (AMORE) Non l’ho saputa riconoscere Ma i suoi occhi mi hanno letto nella mano Che la mia sventura m’aveva visto nascere Per il suo amore che fu anche il mio Nelle paure che fan paura ai sogni Entrata con me senza vedermi Con le sue dita dove si leva il giorno Ha messo il freddo di uno specchio Il nome che le diede un viso Scoprendosi nella mia voce Ispira un’aria di lei più antica Ai canti che senza di me conclude Sempre la stessa e non ho che lei Con i suoi occhi color di tempo Che un mondo fedele alla sua ombra Illumina al suo fuoco antico Sguardi la stria di una rosa Quando mischiati ai giorni che hanno visto L’oblio vuole che si posino uniti Nel cielo dove più non sono i cieli

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Inviato da ROBERTO A. BYATT – POSSESSIONE. UNA STORIA ROMANTICA (AMORE) Fu la prima di quelle lunghe strane notti. Lei gli andava incontro con passione, focosa quanto la sua, e consapevole, poiché esigeva da lui il proprio piacere, si apriva a esso, vi si aggrappava, con brevi grida animalesche. Gli scompigliò i capelli e baciò i suoi occhi ciechi, ma non fece altre mosse dirette a compiacere lui – il maschio – né vi si spinse in tutte quelle notti. Era come stringere Proteo, pensò lui a un certo punto, come se lei fosse un liquido che scorreva tra le sue dita avide, come onde marine che gli si innalzavano tutt’intorno. Quanti quanti uomini hanno avuto quel pensiero, si disse, in quanti quanti luoghi, quanti climi, quante stanze e capanne e caverne, tutti immaginandosi nuotatori in mari salati, tra onde beccheggianti, tutti immaginandosi – no, sapendosi – unici. Qui, qui, qui, la sua testa pulsava, tutta la sua vita lo aveva portato qui, tutto tendeva a quest’atto, a questo luogo, a questa donna, bianca nel buio, a questo silenzio mobile e inafferrabile, a questa conclusione viva. — Non lottare contro di me, — le disse una volta e — Devo, — disse lei decisa, ed egli pensò: «Basta con le parole», e la tenne giù e la accarezzò finché le sfuggì un grido. Allora parlò di nuovo. —Lo vedi, ti conosco, — e lei, senza fiato, rispose: — Sì, lo ammetto. Tu mi conosci. Molto più tardi si riscosse dal dormiveglia, immaginò di udire il mare, cosa non impossibile da lì, e poi si rese conto che lei piangeva silenziosamente al suo fianco. Allungò un braccio e lei gli avvicinò il viso al collo, un po’ goffamente, senza premere, ma avvicinandosi alla cieca, per perdere sé stessa.

— Che cosa c’è? Mia cara? — Ah, come possiamo sopportarlo? — Sopportare cosa? — Questo. Per un tempo così breve. Come possiamo lasciaci sfuggire dormendo questo tempo? — Possiamo restare insieme tranquilli, e fingere — dato che è solo l’inizio — di avere tutto il

tempo del mondo. — E ne avremo meno ogni giorno. E poi più nulla. — Preferiresti dunque non averne affatto? — No. Qui io tendevo da sempre. Da quando il mio tempo è cominciato. E quando me ne andrò

di qui, questo sarà il punto mediano, a cui tutto correva, prima, e da cui tutto si allontanerà. Ma adesso amore mio noi siamo qui, siamo ora, e quegli altri tempi corrono altrove.

— Concezione poetica, ma non consolante. — Tu sai, come so io, che la buona poesia non è comunque consolatoria. Lascia che ti stringa,

questa è la nostra notte, e solo la prima, e perciò più vicina all’infinito. Lui sentì il suo viso, duro e umido sulla propria spalla, e immaginò il cranio vivo, vive ossa, nutrito da fili e tubi sottili di sangue azzurro e pensieri inaccessibili, fluenti nelle sue cavità nascoste. —Sei al sicuro con me. —Non sono affatto al sicuro, con te. Ma non ho alcun desiderio di essere altrove.

A. S. Byatt: Possessione Pagina 347-348

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Inviato da TEDESCO I. CALVINO – IL CAVALIERE INESISTENTE (AMORE) Libro, ora sei giunto alla fine. Ultimamente mi sono messa a scrivere a rotta di collo. Da una riga all’altra saltavo tra le nazioni e i mari e i continenti. Cos’è questa furia che m’ha preso, quest’impazienza? Si direbbe che sono in attesa di qualcosa. Ma cosa mai possono attendere le suore, qui ritirate appunto per star fuori delle sempre cangianti occasioni del mondo? Cos’altro io aspetto tranne nuove pagine da vergare e i consueti rintocchi della campana del convento? Ecco, si sente un cavallo venir su per la ripida strada, ecco che si ferma proprio qui alla porta del monastero. Il cavaliere bussa. Dalla mia finestrella non si riesce a vederlo, ma ne intendo la voce. - Ehi, buone suore, ehi, udite! Ma non è questa la voce, o sbaglio? sì, è proprio quella! è la voce di Rambaldo che ho fatto tanto a lungo risuonare per queste pagine! Cosa vuole qui, Rambaldo? - Ehi, buone suore, sapreste dirmi di grazia se ha trovato rifugio in questo convento una guerriera, la famosa Bradamante? Ecco, cercando Bradamante per il mondo, Rambaldo doveva pure arrivare fin qui. Sento la voce della sorella guardiana che risponde: - No, soldato, qui non ci sono guerriere, ma solo povere pie donne che pregano per scontare i tuoi peccati! Ora sono io che corro alla finestra e grido: - Sì, Rambaldo, sono qui, aspettami, sapevo che saresti venuto, ora scendo, partirò con te!E in fretta mi strappo la cuffia, le bende claustrali, la sottana di saio, traggo fuori dal cassone la mia tunichetta color topazio, la corazza, gli schinieri, l’elmo, gli speroni, la sopravveste pervinca. - Aspettami, Rambaldo, sono qui, io, Bradamante! Sì, libro. Suor Teodora che narrava questa storia e la guerriera Bradamante siamo la stessa donna. Un po’ galoppo per i campi di guerra tra duelli e amori, un po’ mi chiudo nei conventi, meditando e vergando le storie occorsemi, per cercare di capirle. Quando venni a chiudermi qui ero disperata d’amore per Agilulfo, ora ardo per il giovane e appassionato Rambaldo. Per questo la mia penna a un certo punto s’è messa a correre. Incontro a lui, correva; sapeva che non avrebbe tardato ad arrivare. La pagina ha il suo bene solo quando la volti e c’è la vita dietro che spinge e scompiglia tutti i fogli del libro. La penna corre spinta dallo stesso piacere che ti fa correre le strade. Il capitolo che attacchi e non sai ancora quale storia racconterà è come l’angolo che svolterai uscendo dal convento e non sai se ti metterà a faccia con un drago, uno stuolo barbaresco, un’isola incantata, un nuovo amore. Corro, Rambaldo. Non saluto nemmeno la badessa. Già mi conoscono e sanno che dopo zuffe e abbracci e inganni ritorno sempre a questo chiostro. Ma adesso sarà diverso... Sarà... Dal raccontare al passato, e dal presente che mi prendeva la mano nei tratti concitati, ecco, o futuro, sono salita in sella al tuo cavallo. Quali nuovi stendardi mi levi incontro dai pennoni delle torri di città non ancora fondate? quali fumi di devastazioni dai castelli e dai giardini che amavo? quali impreviste età dell’oro prepari, tu malpadroneggiato, tu foriero di tesori pagati a caro prezzo, tu mio regno da conquistare, futuro...

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Inviato da SILVANA BATTIATO, DOCENTE I. CALVINO – SE UNA NOTTE D’INVERNO UN VIAGGIATORE ( AMORE) IL PIACERE DEL LEGGERE NON LEGGE Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell'indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c'è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: «No, non voglio vedere la televisione!» Alza la voce, se no non ti sentono: «Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!» Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!» O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace. Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. Coricato sulla schiena, su un fianco, sulla pancia. In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio, sul pouf. Sull'amaca, se hai un'amaca. Sul letto, naturalmente, o dentro il letto. Puoi anche metterti a testa in giù, in posizione yoga. Col libro capovolto, si capisce. Certo, la posizione ideale per leggere non si riesce a trovarla. Una volta si leggeva in piedi, di fronte a un leggio. Si era abituati a stare fermi in piedi. Ci si riposava cosi quando si era stanchi d'andare a cavallo. A cavallo nessuno ha mai pensato di leggere; eppure ora l'idea di leggere stando in arcioni, il libro posato sulla criniera del cavallo, magari appeso alle orecchie del cavallo con un finimento speciale, ti sembra attraente. Coi piedi nelle staffe si dovrebbe stare molto comodi per leggere; tenere i piedi sollevati è la prima condizione per godere della lettura. Bene, Cosa aspetti? Distendi le gambe, allunga pure i piedi su un cuscino, su due cuscini, sui braccioli del divano, sugli orecchioni della poltrona, sul tavolino da tè, sulla scrivania, sul pianoforte, sul mappamondo. Togliti le scarpe, prima. Se vuoi tenere i piedi sollevati; se no, rimettitele. Adesso non restare li con le scarpe in una mano e il libro nell’altra. Regola la luce in modo che non ti stanchi la vista. Fallo adesso, perché appena sarai sprofondato nella lettura non ci sarà più verso di smuoverti. Fa' in modo che la pagina non resti in ombra, un addensarsi di lettere nere su sfondo grigio, uniformi come un branco di topi; ma sta' attento che non le batta addosso una luce troppo forte e non si rifletta sul bianco crudele della carta rosicchiando le ombre dei caratteri come in un mezzogiorno del Sud. Cerca di prevedere ora tutto ciò che può evitarti di’interrompere la lettura. Le sigarette a portata di mano, se fumi, il portacenere. Che c'è ancora? Devi far pipi? Bene, saprai tu. Non che t'aspetti qualcosa di particolare da questo libro in particolare. Sei uno che per principio non s'aspetta più niente da niente. Ci sono tanti, più giovani di te o meno giovani, che vivono in attesa d'esperienze straordinarie; dai libri, dalle persone, dai viaggi, dagli avvenimenti, da quello che il domani tiene in serbo. Tu no. Tu sai che il meglio che ci si può aspettare è di evitare il peggio. Questa è la conclusione a cui sei arrivato, nella vita personale come nelle questioni generali e addirittura mondiali. E coi libri? Ecco, proprio perché lo hai escluso in ogni altro campo, credi che sia giusto concederti ancora questo piacere giovanile dell'aspettativa in un settore ben circoscritto come quello dei libri, dove può andarti male o andarti bene, ma il rischio della delusione non è grave.

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Inviato da FRANCO SCOPECE, INGEGNERE I. CALVINO – TI CON ZERO (AMORE/PASSIONE) Fin qui ho tenuto separati tempo e spazio per farmi capire meglio da voi, o meglio per capire meglio io quello che dovrei farvi capire, ma a quell’epoca non è che distinguessi molto bene ciò che era l’uno da ciò che era l’altro: c’ero io, in quel punto e in quel momento, va bene?, e poi un fuori che m’appariva come un vuoto che avrei potuto occupare io in un altro momento o punto, in una serie d’altri punti o momenti, insomma una potenziale proiezione di me in cui io però non c’ero e quindi un vuoto che era insomma il mondo e il futuro ma io ancora non lo sapevo, vuoto perché la percezione mi era ancora negata e come immaginazione ero ancora più indietro e come categoria mentale ero un disastro, però avevo questa contentezza che al di fuori di me ci fosse questo vuoto che non era me, che magari avrebbe potuto essere me perché me era l’unica parola che conoscevo, l’unica parola che avrei saputo declinare, un vuoto che avrebbe potuto essere me però in quel momento non lo era e in fondo non lo sarebbe mai stato, era la scoperta di qualcos’altro che non era ancora qualcosa ma comunque non era me, o meglio non era me in quel momento ed in quel punto e quindi era altro, e questa scoperta mi dava un entusiasmo esilarante, no, straziante, uno strazio vertiginoso, la vertigine di un vuoto che era tutto il possibile, tutto l’altrove, l’altra volta, l’altrimenti possibile, il complemento di quel tutto che era per me il tutto, ed ecco che traboccavo d’amore per questo altrove, altra volta, altrimenti muto e vuoto. Vedete quindi che dicendo “innamorato” non dicevo una cosa tanto fuori luogo, e voi che eravate sempre li li per interrompermi e dire: “Innamorato di sé stesso, uh uh, innamorato di sé stesso” ho fatto bene a non darvi retta e a non usare né a lasciarvi usare quell’espressione ecco vedete che l’innamoramento era già allora lancinante passione per il fuori di me, era il divincolamento di chi spasima per scappare fuori da sé stesso così come io andavo allora rotolandomi nel tempo e nello spazio innamorato da morire.

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Inviato da D’INNOCENZO R. CATELLO – “NUNN´È POESIA - GUERRAMMÒRE” (AMORE) `Na canzuncella doce `Na canzuncella doce te vulesse sapè scrivere cu nu poco e carta e `na penna cu ll`inchiostro facenno ascì da dint` `o core tutte `e parole belle `e chiste ammore `Na canzuncella allera te vulesse sapè scrivere ca parlasse `e nuje, d`o tiempo ca è passato, d`o tiempo ca veloce fuje Si nun fosse ca nun ce staje cchiù. Si nun fosse ca m`haje lassato sulo pè dint` a chiste stritte viche scure. Senza dicere niente, t`è bastato nu mumento... Sarà stata colpa mia? Oppure era destino? Ma che malincunia nun tenerte cchiù vicino… `Na canzuncella doce te vulesse sapè scrivere perchè chello che m`haje dato, comunque, a me m`ha fatto Vivere.

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Inviato da GIANFRANCO LETTERA , STUDENTE R. CATELLO - NUNN´È POESIA (GUERRA /AMORE/ANGOSCIA) Nu Sunetto ‘e Guerra.. Uocchie ca chiagneno amare Suonno che tarda ‘a venì vocca ca nun tene cchiù ppane guerra can un vo fernì… Jesce ‘o Sole stammatina…. po’ o core ca nun trova cchiu’ pace. Sotto ‘e bombe stai annascuso simme carne ‘ncoppe ‘a brace. Un Sonetto di Guerra Occhi che piangono amaro Sonno che tarda a venire Bocca che non ha più pane Guerra che non vuol finire... Esce il Sole stamattina... Per il cuore che non trova più pace; Sotto le bombe stai nascosto siamo carne sulla brace.

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Inviato da CRISTINA GRAMAGLIA, LICEO ARTISTICO DI NAPOLI CATULLO – CARME 72 (AMORE)

Un tempo eri solita dire di conoscere solo Catullo, Lesbia, e che al posto mio non avresti preferito abbracciare Giove. Ti ho voluto bene non solo come l'uomo del popolo ama un'amica,ma come un padre ama i figli e i nipoti. Ora so chi sei: perciò anche se ardo più intensamente, tuttavia per me tu sei molto più spregevole e insignificante. - Come è possibile? - mi chiedi. Poiché un'offesa come la tua costringe chi ama ad amare di più, ma a voler bene di meno

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inviato da PIETRO GRAZIANO L. CERNUDA – POESIE PER UN CORPO (AMORE) La mia terra? La mia terra sei tu. La mia gente? La mia gente sei tu. L'esilio e la morte per me sono dove non sei tu. E la mia vita? Dimmi, vita mia, cos'è, se non sei tu?".

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Inviato da ANIELLO PONTECIRVO L. CERNUDA – POESIE PER UN CORPO (AMORE) La vita Come quando il sole accende Un angolo della terra, La sua povertà redime, Di verdi risate lo colma, La tua presenza si leva Sulla mia esistenza oscura A esaltarla, per donarle Splendore, gioia, bellezza. Anche tu però tramonti Come il sole, e intorno a me Crescono ombre di vecchiaia, Di solitudine e morte.

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Inviato da MARCELLA FERRARO, MATEMATICA P. CREPET – NON SIAMO CAPACI DI ASCOLTARLI (AMORE) Se mi chiedessero di scrivere una lettera ad una bambina che sta per nascere, lo farei così. Cosa hai sentito finora del mondo attraverso l’acqua e la pelle della pancia di mamma? Cosa ti hanno detto le tue orecchie imperfette delle nostre paure? Riusciremo a volerti senza pretendere, a guardarti senza riempire il tuo spazio di parole, inviti, divieti? Riusciremo ad accorgerci di te anche dai tuoi silenzi, a rispettare la tua crescita senza gravarla di sensi di colpa e di affanni? Riusciremo a stringerti senza che il nostro contatto sia richiesta spasmodica o ricatto d’affetto? Vorrei chi i tuoi Natali non fossero colmi di doni - segnali a volte sfacciati delle nostre assenze – ma di attenzioni. Vorrei che gli adulti che incontrerai fossero capaci di autorevolezza, fermi e coerenti: qualità dei più saggi. La coerenza mi piacerebbe per te. E la consapevolezza che nel mondo in cui verrai esistono oltre alle regole le relazioni e che le une non sono meno necessarie delle altre, ma facce di una stessa luna presente. Mi piacerebbe che qualcuno ti insegnasse a inseguire le emozioni come gli aquiloni fanno con le brezze più impreviste e spudorate; tutte, anche quelle che sanno di dolore. Mi piacerebbe che ti dicessero che la vita comprende la morte. Perchè il dolore non è solo vuota perdita ma affettività, acquisizione oltre che sottrazione. La morte è un testimone che i migliori di noi lasciano ad altri nella convinzione che se ne possano giovare: così nasce il ricordo, la memoria più bella che è storia della nostra stessa identità. Mi piacerebbe che qualcuno ti insegnasse a stare da sola, ti salverebbe la vita. Non dovrai rincorrere la mediocrità per riempire vuoti, né pietire uno sguardo o un’ora d’amore. Impara a creare la vita dentro la tua vita e a riempirla di fantasia. Adora la tua inquietudine finché avrai forze e sorrisi, cerca di usarla per contaminare gli altri, soprattutto i più pavidi e vulnerabili. Dona loro il tuo vento intrepido, ascolta il loro silenzio con curiosità, rispetta anche la loro paura eccessiva. Mi piacerebbe che la persona che più ti amerà possa amare il tuo congedo come un marinaio che vede la sua vecchia barca allontanarsi e galleggiare sapiente lungo la linea dell’orizzonte. E tu allora porterai quell’amore sempre con te, nascosto nella tua tasca più intima .

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inviato da NORA RIZZI E. DE LUCA – IL CONTRARIO DI UNO (AMORE) MAMM’EMILIA In te sono stato albume, uovo, pesce, le ere sconfinate della terra ho attraversato nella tua placenta, fuori di te sono contato a giorni. In te sono passato da cellula a scheletro un milione di volte mi sono ingrandito, fuori di te l’accrescimento è stato immensamente meno. Sono sgusciato dalla tua pienezza senza lasciarti vuota perché il vuoto l’ho portato con me. Sono venuto nudo, mi hai coperto così ho imparato nudità e pudore il latte e la sua assenza. Mi hai messo in bocca tutte le parole a cucchiaini, tranne una: mamma. Quella l’inventa il figlio sbattendo le due labbra quella l’insegna il figlio.

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Inviato da ERNESTA CAPURRO, INSEGNANTE ELEMENTARE IN PENSIONE C. DE MAIO – EFFETTI COLLATERALI (AMORE) All'inizio, e con mia grande sorpresa, fu soprattutto Ermete a cercarmi. Mi chiamava a orari per me impensabili, di mattina all'alba o a notte inoltrata, svegliando spesso i miei. Il più delle volte aveva la voce rotta, ma quando gli chiedevo quale fosse il motivo della sua disperazione, Ermete mi rispondeva che non era per se stesso che piangeva, ma per Kafka. Poi, senza che potessi interromperlo, mi leggeva tra i singhiozzi interi passi di America. All'epoca, ritenevo le telefonate con Ermete Di Sergio momenti profondamente "alti" sotto 1'aspetto umano, ma solo oggi sono consapevole di quanto quelle conversazioni - che sarebbe ancora meglio definire letture - mi abbiano plasmato. Solo oggi mi rendo conto della portata virale di questa vera e propria febbre della letteratura che Ermete avrebbe finito per trasmettermi. E, infatti, nel giro di qualche mese e con insopportabile presunzione, avrei iniziato a prendere confidenza con il mondo delle idee. Non lo sapevo, ma ero stato già contagiato. A un tratto, come tutti i principianti alle prime armi, iniziai a nutrirmi di progetti grandiosi e irrealizzabili. Facendomi prendere la mano dalla mia inesperienza, ancora prima di battere le dita sulla tastiera, mi ero messo in testa di comporre una trilogia, un trittico nero e in dialetto napoletano con cui ero intenzionato a ricalcare le orme che James Ellroy aveva lasciato sul selciato della letteratura contemporanea. Manco a dirlo, il progetto fallì molto presto, dopo la stesura di Città illuminata dal sole, il primo pezzo della trilogia, un debolissimo romanzetto noir che aveva come protagonisti un parcheggiatore abusivo e una modella di nudo dell'Accademia di Belle Arti le cui storie personali si sarebbero trovate a confluire in una brutta faccenda di camorra.

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Inviato da DE MARCO, LETTERE E FILOSOFIA I. DE Marco – IL GIOCO DELLA LUNA E DEL VENTO (AMORE)

Anna & Chiara Ci sono momenti in cui la vita si stringe a imbuto e tutto accade nello stesso tempo. Anna, la mia Anna da più di vent’anni, con un coup de théatre, mi comunicò di aver bisogno d’amore. In realtà, l’unica sorpresa stava nel fatto che me lo stesse dicendo. Essendo io il suo erogatore ufficiale di amore, conoscevo bene il surrogato che si era fatta bastare così a lungo. - Camilla è grande ormai e io ho voglia di ricominciare ad emozionarmi.- Ero tentato di raccontarle di Chiara. Mi commuoveva questa simmetria. I nostri bisogni d’amore che si erano dati alla latitanza per anni, fiancheggiati dalla quotidianità, tornavano insieme a rivendicare il loro posto dentro di noi. Mi sembrava una cosa nuova da affrontare insieme, mi sembrò perfino che ci avvicinasse. Ma non parlai. Cercavo di avere uno sguardo accogliente perché lei potesse continuare. Adesso penso che la mia preoccupazione fosse superflua, Anna non si sarebbe fermata davanti a niente, non si sarebbe fermata più. - C’è qualcuno - - C’era un punto di domanda?- - No…ti aspettavi che ci fosse?- - No, no – mentii, inutilmente. - Beh, se c’è qualcuno anche per te meglio così. Ma io non voglio ambiguità. E non mi serve una storia semiclandestina. Questa persona è importante, è giusta. E io ho voglia di ricominciare. – ripeté perché io non provassi neppure a eludere la sua perentorietà. - Fabio, penso che dovresti cercarti un appartamento.- Mi sentivo un pesce con l’enfisema in un acquario a cui hanno appena tolto il tappo. Di solito, gli scenari che mi figuro, quando mi impegno a figurarmene qualcuno, non coincidono mai con la realtà. E, quasi sempre, mi sembra di non avere buoni motivi per difendere la mia idea delle cose. Questo fa di me un uomo giudicato sensibile e rispettoso degli altri. Per me significa un’esposizione al dolore a tutta superficie, senza riparo, ma in qualche modo attenuata dalla convinzione che non mi sia stato fatto torto. Cioè, soffro come un cane, ma meritatamente. - Ne hai già parlato con Camilla?- - Penso che dovremmo farlo insieme.- Io pensavo ad una frase letta da qualche parte, il matrimonio è un luogo pericoloso in cui stare. Soprattutto per i figli. Ma era una frase del cazzo, buona per la recensione di un film noir, per la quale, in effetti, era stata usata. È la vita di tutti i giorni ad essere un luogo pericoloso, ma questo i bambini, i ragazzi -e i critici cinematografici, evidentemente- non lo sanno. Camilla stava per diventare l’ennesima vittima della pericolosità del matrimonio, della sua incoercibile tendenza a nascondere le persone dentro le abitudini e le insicurezze nelle certezze di ripetitività. Si sarebbe incazzata. Stavamo per diventare il finale imprevisto e, quindi, deludente del cartone animato di mamma e papà che le avevamo proiettato per sedici anni. Tu, Phil, come l’avresti risolta questa scena? Io mi sentivo inadeguato. Colpevole, per fortuna, quindi senza rancori, ma inadeguato. Non solo non ero riuscito a renderle facile il latino, ora le avrei anche complicato la vita andandomene ad abitare in un qualsiasi posto che, non essendo la stanza accanto alla sua, sarebbe stato lontano. Avevo completamente perso di vista Anna. Dovevo forse domandarle qualcosa. Riconoscevo ormai il valore delle domande. Non gliela negai. - Chi è lui, lo conosco?- - E me, mi conosci?- - Sì, credo di sì. Sei la ragazza di sempre, solare e determinata, allergica ai compromessi.- - Ma non te ne importa più niente.-

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Inviato da CARMELA DE SANTO C. DE SANTO – GUARIRE CON LE FIABE (AMORE/AMICIZIA) LA LUNA Cielo blu cobalto stellato, aria tersa, crinali di montagne nitide all' orizzonte, concerto di grilli, poi tutto silenzio. Serena, 10 anni, bionda, occhi azzurri, snella e scattante come un purosangue, passeggia pensosa sotto il manto stellato con il naso per aria a guardare le stelle. Cammina e sogna. Ecco che dalla cima di un monte fa capolino una splendida luna piena. Serena appena la vede dice: --Brutta frittata, sei apparsa nel cielo per tormentarmi? Quand'è che mi lascerai trascorrere tranquilla le mie notti? Va' via, ti odio, sei orribile, sei il mio tormento!- Intanto continua a passeggiare ed aspira avidamente il profumo dell'aria della notte. Le lucciole sono i fanalini che le illuminano la strada. Dopo aver camminato a lungo il sonno le pesa sulle palpebre. Allora Serena ritorna a casa a dormire. Sale in camera sua, accende l'abatjour, indossa il pigiamino fiorito e va a letto. Il sonno la coglie subito. Comincia il sogno... Una signora vestita di giallo sfolgorante con la faccia della luna appare e le dice sorridente: Piccola, non temere, io sono solo la fiaccola della notte, percorro i cieli per custodire i sogni delle bimbe e dei bimbi e difenderli dai draghi e dagli orchi maligni. Non avere paura di me, sono io che ti difendo dal male! Dammi la mano, toccami! Ti sembro donna da far paura? Vieni con me. Ti racconterò tante fiabe che cancelleranno la paura dal tuo piccolo cuore. Starò con te fino a che l'aurora con le sue dita rosate spegnerà le stelle e dipingerà di rosa il firmamento. Serena si alzò dal suo lettino, mise la sua manina in quella della bella signora e insieme si avviarono per il cielo. Il suo cuoricino, che prima batteva terrorizzato, come quello di un uccellino sotto la mira del cacciatore, mano a mano che la dolce signora parlava si rasserenava e si riempiva d'amore. La luce dell' aurora diede l'ultima pennellata ai palpiti di quel piccolo cuore non più malato d'amore. La notte era passata!

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Inviato da VITO LO BASSO, LICEO ARTISTICO DI NAPOLI A. DUMAS – LA SIGNORA DELLE CAMELIE (AMORE) Si è sempre associato il pensiero della campagna a quello dell'amore, e a ragione: per la donna che si ama non esiste miglior cornice del cielo azzurro, dei profumi, della brezza della solitudine risplendente dei campi o dei boschi. Per quanto si ami una donna, per quanta fiducia si abbia in lei, per quanta certezza sul futuro possiate trarre dal suo passato, si è sempre più o meno gelosi. Se siete stato innamorato, innamorato veramente, avrete dovuto provare anche voi questo bisogno d’ isolare dal mondo la creatura che avreste voluto occupare tutta di voi. Sembra che, pur indifferente a ciò che la circonda, la donna amata perda del suo profumo e della integrità al contatto degli uomini e delle cose. Io provavo questo sentimento, forse più che un altr’ uomo. Il mio non era un amore comune: io amavo come qualsiasi altro può amare, ma io amavo Margherita Gautier: vale a dire che a Parigi, a ogni passo, potevo sfiorare un uomo che era stato l’amante di questa donna, o che lo sarebbe potuto diventare domani. Invece, in campagna, in mezzo a gente mai veduta e che non badava a noi, circondati dal pieno rigoglio della primavere, annuale perdono, e separati dallo strepito della città, io potevo celare il mio amore e in esso abbandonarmi senza vergogna e senza timori.

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Inviato da ANNA MARTUCCI G. DURRELL – LA MIA FAMIGLIA ED ALTRI ANIMALI (AMORE) Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso da ragazzo, con la mia famiglia, nell’isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell’isola, ma ho commesso il grave errore di infilare la mia famiglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno, e hanno persino invitato i vari amici a dividere i capitoli con loro.

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Inviato da ASOR E. FRIED – POESIE (AMORE) Te lasciarti essere te tutta intera Vedere che tu sei tu solo se sei tutto ciò che sei la tenerezza e la furia quel che vuole sottrarsi e quel che vuole aderire Chi ama solo una metà non ti ama a metà ma per nulla ti vuole ritagliare a misura amputare mutilare Lasciarti essere te è difficile o facile? Non dipende da quanta intenzione e saggezza ma da quanto amore e quanta aperta nostalgia di tutto- di tutto quel che tu sei Del calore e del freddo della bontà e della protervia della tua volontà e irritazione di ogni tuo gesto della tua ritrosia incostanza costanza Allora questo lasciarti essere te non è forse così difficile

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inviato da GABRIELLA DI NOLA MANSI G. MARQUEZ – ODE ALLA VITA (AMORE)

Ai miei tempi ( ho 81 anni ) la lettura era l'unica occupazione del tempo libero , non essendoci né televisione né computer. Io personalmente ho letto sempre con grande piacere e interesse. La lettura oltre a trasmettermi grandi emozioni, mi trasportava in un mondo sconosciuto e sempre nuovo da scoprire oltre a darmi,molte volte, la possibilità di ritrovare nelle varie storie una parte di me .. Quali scrittori mi sono piaciuti di più? Sarebbero troppi da elencare...Ognuno,sia italiano che straniero, mi ha trasmesso delle emozioni.....Ma se devo citarne uno sceglierei Gabriel Garcia Màrquez perchè lo sento più vicino al mio modo di sentire. I suoi romanzi che descrivono i luoghi dove ha vissuto la sua vita, sono "Le sue memorie". Infatti egli, nei suoi racconti, ricrea, ci parla di un periodo fondamentale della sua vita, gli anni dell'infanzia e della giovinezza, quelli in cui forma l'immaginario che darà vita ad un capolavoro come "Cent'anni di solitudine". Ultimamente diventato anziano, essendosi ritirato dalla vita pubblica per ragioni di salute, ha scritto una poesia per accomiatarsi dagli amici. Questa poesia si è diffusa grazie ad Internet. In questa poesia ho trovato il suo amore per la vita, presente in tutte le sue opere dove c’è la voglia di raccontare per ricordare e rivivere le esperienze più significative.

Se per un istante Dio si dimenticherà che sono una marionetta di stoffa e mi regalerà un pezzo di vita, probabilmente non direi tutto quello che penso, ma in definitiva penserei tutto quello che dico. Darei valore alle cose , non per quello che valgono ma per quello che significano. Dormirei poco, sognerei di più, andrei quando gli altri si fermano, starei sveglio quando gli altri dormono, ascolterei quando gli altri parlano e come gusterei un buon gelato al cioccolato !! Se Dio mi regalasse un pezzo di vita, vestirei semplicemente, mi sdraierei al sole lasciando scoperto non solamente il mio corpo ma anche la mia anima, Dio mio, se io avessi un cuore, scriverei il mio odio sul ghiaccio e aspetterei che si sciogliesse al sole. Dipingerei con un sogno di Van Goog sopra le stelle un poema di Benedetti e una canzone di Serrat sarebbe la serenata che offrirei alla luna.

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Irrigherei con le mie lacrime le rose, per sentire il dolore delle loro spine e il carnoso bacio dei loro petali. Dio mio, se avessi un pezzo di vita, non lascerei passare un solo giorno, senza dire alla gente che amo, che la amo. Convincerei tutti gli uomini e le donne che sono i miei favoriti e vivrei innamorato dell' amore. Agli uomini proverei quanto sbagliano al pensare che smettono di innamorarsi quando invecchiano, senza sapere che invecchiano quando smettono di innamorarsi. A un bambino gli darei le ali, ma lascerei che imparasse a volare da solo. Agli anziani insegnerei che la morte non arriva con la vecchiaia ma con "la dimenticanza". Tante cose ho imparato da voi, gli Uomini ! Ho imparato che tutto il mondo ama vivere sulla cima della montagna, senza sapere che "la vera felicità" sta nel risalire la scarpata. Ho imparato che quando un neonato stringe con il suo piccolo pugno, per la prima volta, il dito di suo padre, lo tiene stretto per sempre. Ho imparato che un uomo ha diritto di guardarne un altro dall'alto al basso solamente quando deve aiutarlo ad alzarsi. Sono tante le cose che ho potuto imparare da voi, ma realmente, non mi serviranno a molto, perchè quando mi metteranno dentro la valigia infelicemente starò morendo.

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Inviato da SARA CAVALIERE K. GIBRAN – LE ALI SPEZZATE (AMORE) Farò della mia anima uno scrigno per la tua anima, del mio cuore una dimora per la tua bellezza, del mio petto un sepolcro per le tue pene. Ti amerò come le praterie amano la primavera, e vivrò in te la vita di un fiore sotto i raggi del sole. Canterò il tuo nome come la valle canta l'eco delle campane; ascolterò il linguaggio della tua anima come la spiaggia ascolta la storia delle onde.

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Inviato da DI MAMBRO, STUDENTE E. HEMINGWAY – ADDIO ALLE ARMI (AMORE) Una notte, verso le tre, mi svegliai sentendo Catherine agitarsi nel letto.“Non stai male, Cat?” “Ho dei dolori, caro.” “Continui?” “No, non proprio.” “Se diventano continui bisogna andare all’ospedale.” Avevo molto sonno e mi addormentai di nuovo. Mi trovai sveglio. “Forse faresti bene a chiamare il dottore” mi disse Catherine. “Credo che ci siamo.” Telefonai al dottore. “Ogni quanto tempo tornano i dolori?” domandò. “Tornano ogni quanto tempo, Cat?” “Ogni quarto d’ora, direi.” “Bisogna andare all’ospedale” disse il dottore. “Mi vesto e vengo là direttamente.” Chiamai per un taxi al garage della stazione. Per un po’ non rispose nessuno. Finalmente una voce promise di mandare subito il taxi. Catherine stava vestendosi. La valigia, con la sua roba e quella per il bambino era già pronta; andai a chiamare l’ascensore ma non veniva. Scesi le scale. C’era soltanto la guardia di notte. Portai su l’ascensore, presi la valigia e Catherine mi seguì. Scendemmo, la guardia di notte aprì e ci sedemmo fuori, sul parapetto di pietra, ad aspettare la macchina. Le stelle rendevano chiara la notte. Catherine era molto eccitata. “Sono così contenta che sia incominciato” disse. Ancora un po’ e sarà finita.” “Sei una brava ragazza” dissi, “piena di coraggio.” “Non ho paura. Solo, vorrei che la macchina non si facesse aspettare.” La sentimmo arrivare per la salita, apparvero le luci. Girò lungo l’entrata dell’albergo, aiutai Catherine a salire e il conducente sistemò la valigia. “All’ospedale” dissi. Ci inerpicammo verso la zona più alta della città. Entrammo con la valigia. A un tavolino dell’ingresso, una donna domandò il nome di Catherine, l’età, l’indirizzo, genitori, confessione; scrisse tutto dentro un suo libro. Catherine disse che non apparteneva a nessuna confessione. La donna tirò una linea accanto a questa parola. Aveva scritto Catherine Henry. “L’accompagnerò nella stanza” disse a Catherine. Salimmo con l’ascensore. Poi seguimmo la donna lungo un’anticamera, Catherine stava stretta al mio braccio. “eccola sua stanza” disse la donna. “vuol mettersi a letto?” può adoperare questa camicia da notte.” “Ho la mia disse Catherine.” “Sarà meglio che prenda questa” disse la donna. Uscii e aspettai nel corridoio. “Adesso può entrare” disse la donna aprendo la porta. Catherine giaceva nel piccolo letto, dentro una camicia da notte che pareva ricavata da un lenzuolo di campagna. Mi sorrise.“Ho dei dolori abbastanza forti” disse. La donna le teneva il polso, e su un orologio seguiva il ritmo delle crisi. “ Questa è stata forte” disse Catherine. L’avevo visto sul suo viso. “Dov’è il dottore?” domandai alla donna. “Dorme al piano di sotto. Verrà quando è necessario.” “Ora devo fare qualche cosa per la signora” riprese. “Vuole tornar fuori un momento, per piacere?” Aspettai in anticamera. Era uno stanzone nudo con due finestre e molte porte, e odore d’ospedale. Guardando verso la stanza pensavo a una preghiera. “ può venire” disse l’infermiera. Entrai. “Ciao caro” disse Catherine. “Come va?” “Sono più frequenti, ora.” Il viso si contrasse, poi tornò a sorridermi. “Questa era forte. Può appoggiarmi ancora la mano sulla schiena, per piacere, infermiera?” “Se può darle sollievo” disse la donna. “Ora va via, caro” disse Catherine. “Va a fare colazione”. “L’infermiera dice che ne avrò ancora per un bel pezzo”. “Le prime doglie sono sempre le più lunghe” disse l’infermiera. “Va per piacere. Va a mangiare qualche cosa” disse Catherine. “Io sto bene. Davvero.” “No, voglio restare.” I dolori tornavano a intervalli regolari, poi diminuivano, e ogni tanto Catherine parlava con eccitazione. Quando i dolori si facevano acutissimi diceva che erano buoni, quando cominciavano a diminuire ne era rattristata e umiliata. “devi andare via” pregò, “credo che è solo la tua presenza a tenermi cosciente.” Il viso le si contraeva tutto in su. “ecco, questa andava bene. Avrei tanta voglia di essere una brava moglie. D’aver questo bambino senza tante sciocchezze. Per piacere, va a fare colazione caro. Poi tornerai, non è necessario che tu stia qui. L’infermiera è molto buona con me.” “Non le mancherà il tempo per fare colazione” disse l’infermiera. “Vado. Ciao. Ciao, piccola cara Cat.” “Ciao” disse Catherine. “Fa una buona colazione anche per me.” “Dove posso trovar qualche cosa?” domandai all’infermiera. “C’è un caffè nella piazza. Subito in fondo alla discesa” disse. “Dovrebbe essere aperto.”

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Inviato da MAGGIO, STUDENTE SOCIOLOGIA N. HIKMET – POESIE D’AMORE (AMORE) Ti amo come se mangiassi il pane spruzzandolo di sale Come se alzandomi la notte bruciante di febbre Bevesi l’acqua con le labbra sul rubinetto Ti amo come guardo il pesante sacco della posta Non so che cosa contenga e da chi Pieno di gioia pieno di sospetto agitato Ti amo come se sorvolassi il mare per la prima volta in aereo Ti amo come qualche cosa che si muove in me Quando il crepuscolo scende su Istambul poco a poco Ti amo come se dicessi Dio sia lodato son vivo.

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Inviato da FABIANA MARCIELLO, STUDENTESSA ISTITUTO MAGISTRALE FONSECA K. HOSSEINI – IL CACCIATORE DI AQUILONI (AMORE/AMICIZIA) Alle feste e nei concerti Ahmad non aveva l'atteggiamento austero, quasi cupo, degli artisti tradizionali: mentre cantava sorrideva, a volte persino alle donne.Volsi lo sguardo alla terrazza della nostra casa e vidi Baba e Rahim Khan seduti su una panca,entrambi con pesanti maglioni di lana, che bevevano te. Baba fece un cenno di saluto. Non so se a me o ad Hassan. «Dovremmo muoverci» disse Hassan. Indossava stivali di gomma neri, calzoni scoloriti di velluto a e un chapan verde sopra un pesante maglione.Il suo viso era inondato di sole e la cicatrice rosa sul labbro superiore era quasi invisibile. Sentii un improvviso impulso a ritirarmi. Piantare e tornarmene a casa. Perché mi sottoponevo a quel supplizio, quando sapevo già come sarebbe andata a finire? Baba era sul tetto e mi osservava. Il suo sguardo mi bruciava la pelle come il sole di luglio. Mi aspettava un insuccesso catastrofico. «Non me la sento di lanciare l'aquilone oggi.» «È una giornata magnifica» mi incoraggiò Hassan. Cercai di distogliere lo sguardo dal nostro tetto. «Forse sarebbe meglio lasciar perdere.» Hassan si avvicinò e mi disse a voce bassa: «Ricordati, Amir agha. Non c'è nessun mostro, solo una giornata magnifica». Come potevo essere un libro aperto per lui, mentre io, in genere, non avevo idea di quali pensieri gli passassero per la testa? Eppure ero io quello che andava a scuola, che sapeva leggere e scrivere. Ero io il più intelligente. Hassan non conosceva l'alfabeto, ma sapeva leggere dentro di me. Avere qualcuno che in ogni momento sapeva di cosa avevo bisogno, era fastidioso, ma anche rassicurante. «Nessun mostro» ripetei quelle parole e con mia grande sorpresa mi sentii meglio. Hassan sorrise. Guardai i bambini che correvano per la strada lanciando palle di neve. «Hai ragione, è davvero una giornata magnifica.» «Lanciamo il nostro aquilone» disse. Mi chiesi se Hassan si fosse inventato il suo sogno di sana pianta. Giunsi alla conclusione che non era così intelligente. Neanch'io del resto. In ogni caso, quel sogno aveva sciolto parte della mia angoscia. Forse dovevo togliermi davvero la camicia e tuffarmi nel lago. Perché no? «Sono pronto» annunciai. Il suo viso si illuminò. Alzò sopra la testa il nostro aquilone, rosso con i bordi gialli, con incisa sull'intelaiatura l'inconfondibile firma di Saifo. Si leccò le dita e le tenne in alto per saggiare la direzione del vento, poi partì come un fulmine. Il rocchetto si srotolò nelle mie mani fino al momento in cui Hassan si fermò, a un centinaio di metri.

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Inviato da ILARIA DI GENNAIO E ASSIA PEDAGNA STUDENTESSE ISTITUTO MAGISTRALE FONSECA K. HOSSEINI – IL CACCIATORE DI AQUILONI (AMORE/AMICIZIA) Dicembre 2001 Sono diventato la persona che sono oggi all' età di anni, in una gelida giornata invernale del 1975. Ricordo il momento preciso: ero accovacciato dietro muro di argilla mezzo diroccato e sbirciavo di nel vicolo lungo il torrente ghiacciato. È stato tanto tempo fa. Ma non è vero, come dicono molti, che si può seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente. Sono ventisei anni che sbircio di nascosto in quel vicolo deserto. Oggi me ne rendo conto. Nell'estate del 2001 mi telefonò dal Pakistan il mio amico Rahim Khan. Mi chiese di andarlo a trovare. In piedi in cucina, il ricevitore incollato all' orecchio, sapevo che in linea non c'era solo Rahim Khan. C'era anche il mio passato di peccati non espiati. Dopo la telefonata andai a fare una passeggiata intorno al lago Spreckels. Il sole scintillava sull' acqua dove dozzine di barche in miniatura navigavano sospinte da una brezza frizzante. In cielo due aquiloni rossi con lunghe code azzurre volavano sopra i mulini a vento, fianco a fianco, come occhi che osservassero dall' alto San Francisco, la mia città d'adozione. Improvvisamente sentii la voce di Hassan che mi sussurrava: Per te qualsiasi cosa. Hassan, il cacciatore di aquiloni. Seduto su una panchina all' ombra di un salice mi tornò in mente una frase che Rahim Khan aveva detto poco prima di riattaccare, quasi un ripensamento. Esiste un modo per tornare a essere buoni. Alzai gli occhi verso i due aquiloni. Pensai ad Hassan. A Baba e ad Ali. A Kabul. Pensai alla mia vita fino a quell'inverno del 1975. Quando tutto era cambiato. E io ero diventato la persona che sono oggi.

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Inviato da GISLA PISANTI, DOCENTE J. JOYCE – DEDALUS (SENSUALITA’/AMORE) Dov'era adesso la sua adolescenza? Dov'era l’anima che si era ritratta dal suo destino per rimuginare solitaria la vergogna delle sue ferite e addobbarla regalmente, nella sua dimora di squallore e sotterfugio, in drappi scoloriti e in ghirlande che a toccarle appassivano? Dov'era quel suo io? Era solo. Nessuno gli badava e lui era felice, accanto al cuore selvaggio della vita. Era solo e giovane e risoluto e selvaggio, solo in un deserto di aria selvaggia e di acque salmastre, in mezzo alla messe marina di conchiglie e di ciuffi, alla luce grigia e velata del sole, alle figure, vestite gaiamente e leggermente, di ragazzi e bambine e alle voci infantili nell'aria. Una ragazza gli stava davanti in mezzo alla corrente: sola e immobile, guardando verso il mare. Pareva una creatura trasformata per incanto nell'aspetto di un bizzarro e bell'uccello marino. Le sue lunghe gambe nude e sottili erano delicate come quelle di un airone e intatte, tranne dove una traccia smeraldina di alga era restata come un segno sulla carne. Le cosce, più piene e sfumate come l'avorio, erano nude fin quasi alle anche, dove gli orli bianchi dei calzoncini erano come un piumaggio di soffice peluria candida. Le sottane color ardesia erano audacemente rimboccate alla vita e le pendevano dietro a coda di colombo. Aveva il seno come quello di un uccello, morbido e delicato, delicato e morbido come il petto di una colomba dalle piume scure. Ma i suoi lunghi capelli biondi erano infantili: e infantile, toccato dal miracolo della bellezza mortale, il suo viso. Era sola e immobile e guardava verso il mare: e quando s'accorse della presenza di Stephen e dei suoi sguardi adoranti, gli volse gli occhi in una tranquilla tolleranza del suo sguardo, senza mostrare né vergogna né civetteria. Per molto, molto tempo sopportò il suo sguardo e poi con calma ritrasse gli occhi da quelli di Stephen e li piegò alla corrente, agitando leggermente qua e là l'acqua col piede. Il primo lieve sussurro dell'acqua mossa leggera ruppe il silenzio, sommesso e lieve e come un bisbiglio, sommesso come le campane del sonno; qua e là, qua e là: e una fiamma lieve le tremolò

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sulla guancia.

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Inviato da ROSSELLA MONACO C. LAMOTTE – LA FATA MELUSINA (AMORE) “Era un viso tranquillo di regina, viso scolpito e forte non curioso, non compiacente o freddo, ma riservato, e per sé gorgheggiava. E quando lui ne incontrò gli occhi, lei smise di cantare e rimase in silenzio e a lui sembrò che in tal silenzio ogni mormorio cessasse di foglie e d’acqua, e fossero loro due soltanto, e il solo gesto era guardare, non domande, o risposte, non fremito o sorriso, non movimento di labbra o occhi o ciglio o pallida palpebra ma un solo lungo sguardo che l’anima di lui trasformò in desiderio, al di là di ogni speranza al di là di ogni dubbio o avvilimento, così era una cosa sola, ed era tutto, paure, contraddizioni e pene, piaceri di gaudente e capricci d’infermo, tutto sparito, sparito per sempre, sparito in fumo sotto lo sguardo fermo e sostanziale di tale pallida Creatura in tal luogo sereno.”

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inviato da ACCARDO P. LEVI – SE QUESTO È UN UOMO (AMORE) … Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente […] … Chi è Dante. Che cosa è la Commedia: Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato: Lo maggior corno della fiamma antica Cominciò a crollarsi mormorando, Pur come quella cui vento affatica. Indi, la cima in qua e in là menando Come fosse la lingua che parlasse Mise fuori la voce, e disse: Quando... Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere “antica”. E dopo “Quando”? Il nulla. Un buco nella memoria. “Prima che sì Enea la nominasse”. Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: “…la pietà Del vecchio padre, ne ‘l debito amore Che doveva Penelope far lieta…” sarà poi esatto? …Ma misi me per l’alto mare aperto. Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché “misi me” non è “je me mis”, è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuoi dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane. Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi. Eccolo, si vede solo la testa fuori della trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba, non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare. “Mare aperto”. “Mare aperto”. So che rima con “diserto”: “...quella compagna picciola, dalla qual non fui diserto”, ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi: …Acciò che I’uom più oltre non si metta. “Si metta”: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, “e misi me”. Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia un’osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca: Considerate la vostra semenza: Fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza. Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. Li miei compagni fec’io si acuti…

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…e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuoi dire questo “acuti”. Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. […]

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inviato da TATANGELO J. LONDON – IL RICHIAMO DELLA FORESTA (AMORE) Tre miglia più avanti trovò una traccia fresca che gli fece ergere i peli del collo. Conduceva dritta al campo di John Thornton. Buck si affrettò, rapido e guardingo, con ogni nervo teso attento ai molte-plici particolari che narravano una storia: tutta, eccetto la fine. Il suo fiuto gli dava una descrizione sempre varia del passaggio della vita sulle cui tracce stava muovendosi. Sentì il profondo silenzio della foresta. La vita degli uccelli era volata via. Gli scoiattoli si erano nascosti. Ne vide solo uno, una cosetta liscia e grigia appiattita contro un grigio tronco morto così che sembrava farne parte, e-screscenza legnosa sul legno. Mentre Buck scivolava avanti con la segretezza di un'ombra fuggevo-le, il suo fiuto fu improvvisamente tratto da una parte, come se una forza materiale lo avesse affer-rato e lo tirasse. Seguì il nuovo odore in un folto e trovò Nig. Giaceva su di un fianco, morto là dove si era trascinato, con una freccia sporgente, punta e penne, dal due lati del corpo. Cento passi più avanti Buck incontrò uno dei cani della slitta che Thornton aveva comprato a Da-wson; lottava faticosamente con la morte, proprio in mezzo alla pista, e Buck lo scansò senza fer-marsi. Dal campo veniva un suono fioco di numerose voci che si alzavano e abbassavano come in cantilena. Più avanti ancora, alla estremità della radura, trovò Hans, bocconi, coperto di frecce come un porcospino. Nello stesso istante Buck diede uno sguardo al luogo in cui era stata la capanna di abete e vide qualche cosa che gli fece ergere il pelo sul collo e sulla schiena. Un turbine di furore travolgente lo assali. Non si accorse di ringhiare, ma ringhiava forte con terribile ferocia. Per l'ulti-ma volta in vita sua permise alla passione di imporsi all'astuzia e alla ragione, e fu il grande amore per John Thornton, che gli fece perdere la testa. Gli Yeehats danzavano intorno alle rovine della ca-panna di abete quando udirono un ruggito terribile e videro precipitarsi su di loro un animale di cui non avevano mai visto l'eguale. Era Buck, vivente uragano di furore, che si slanciava su di loro in una frenesia di distruzione. Balzò sul primo uomo che gli capitò, il capo degli Yeehats, squarcian-dogli la gola così che dalla iugulare sprizzò una fontana di sangue. Senza fermarsi a incrudelire sul-la vittima, con un altro salto squarciò passando via la gola di un altro. Era impossibile resistergli. Si slanciava nel folto lacerando, squarciando, distruggendo, con un moto continuo e terribile che sfi-dava le frecce scagliate su di lui. In realtà, così rapidi erano i suoi movimenti e così folti gli indiani intorno a lui, che essi si colpivano l'un l'altro con le frecce; e un giovane cacciatore, scagliata una freccia su Buck, a mezz'aria colpì al petto un compagno con tale forza che la punta forò la pelle del-la schiena uscendo dalla parte opposta. Allora il panico si impadronì degli Yeehats, ed essi fuggiro-no atterriti nei boschi, gridando che era arrivato il Malvagio Spirito. E in realtà Buck era un demo-nio incarnato che infuriava alle loro calcagna abbattendoli come cervi mentre essi fuggivano tra gli alberi. [...] Buck, stanco dell'inseguimento, tornò all'accampamento distrutto. […] La disperata dife-sa di Thornton era scritta in segni ancor freschi sul suolo, e Buck ne fiutò ogni particolare fino al margine di un profondo stagno. Là, con la testa e le zampe anteriori nell'acqua, giaceva Skeet, fede-le fino all'ultimo. Lo stagno, fangoso e torbido per gli scavi fatti, nascondeva il suo contenuto; e là in fondo vi era John Thornton: perché Buck seguì la sua traccia fino nell'acqua e dall'acqua nessuna traccia usciva. Per tutto il giorno Buck rimase meditando presso lo stagno o vagò senza riposo per il campo. La morte, come cessazione del movimento, come un passar oltre la vita di ciò che vive, la conosceva; e sapeva che John Thornton era morto. Questo lasciava in lui un gran vuoto, qualche co-sa di simile alla fame, ma che doleva e doleva e che non vi era cibo che potesse saziarlo.

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inviato da RESCIGNO T. MANN – LA MORTE A VENEZIA (AMORE) Specchio ed effige! I suoi occhi abbracciarono la nobile figura che campeggiava nell’azzurro, e con estatica esaltazione egli credette di comprendere con quello sguardo l’essenza stessa della bellezza, la forma come pensiero divino, l’unica e pura perfezione che vive nello spirito e di cui era qui offerta all’adorazione un’immagine umana, un simbolo chiaro e leggiadro. Questa era l’ebbrezza! E l’artista invecchiante l’accolse senza esitare, anzi con avidità. La sua cultura era in travaglio, il suo spirito ribolliva, la sua memoria mise alla luce pensieri vecchissimi che gli erano stati trasmessi in gioventù e che egli finora non aveva mai ravvivato con la propria fiamma. Non sta scritto che il sole storna la nostra attenzione dalle cose intellettuali e le rivolge verso le cose materiali? Esso stordisce l’intelligenza e la memoria, e le ammalia in tal modo che l’anima nel piacere dimentica il proprio stato e s’attacca al più bello degli oggetti illuminati dal sole; sicché soltanto con l’aiuto di un corpo essa trova poi la forza di innalzarsi a più alta contemplazione. Amore in verità fa come i matematici che mostrano ai fanciulli di poco talento le immagini tangibili delle pure forme. Così anche il dio, per renderci visibile l’astratto, ricorre volentieri alla forma e al colore della giovinezza umana che egli, per farne uno strumento del ricordo, riveste di tutto lo splendore della bellezza, così che a tal vista noi ardiamo di dolore e di speranza.

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Inviato da ROSSANA GENTILE A. MANZONI – ESERGO A “NOI ABBIAMO UN SOGNO” (AMORE) La vita di un agnello non è meno preziosa di quella di un essere umano: più una creatura è impotente, più ha diritto alla protezione dalla crudeltà degli uomini (Mahatma Gandhi) Kafka non condivideva le pietanze comuni: mentre gli altri mangiavano carne, quella carne risvegliava alla sua memoria piena di odio e di disgusto tutta la violenza che gli uomini avevano sparso sulla terra (Piero Citati) Non pietà, ma giustizia è dovuta agli animali (Arthur Shopenhauer) Non c’è parola in nessun linguaggio umano capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte (Elsa Morante) Per quanto ci pensi, non capisco la ragione di un tale attaccamento del cane ( Abbas Kiarostami)

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Inviato da CHIARA CATAPANO A. MANZONI – NOI ABBIAMO UN SOGNO (AMORE) WE HAVE A DREAM I have a dream proclamò in un giorno divenuto indimenticabile Martin Luther King, nero in un paese di neri umiliati dai bianchi: sognò che la fratellanza prendeva il posto dell’odio, che la libertà e la giustizia sostituivano l’oppressione, che dalla disperazione nasceva la speranza. Anche noi abbiamo un sogno: e anche il nostro è un sogno di giustizia, di riscatto, di trasformazione epocale, che urge verso la sua necessaria realizzazione. Il nostro è il sogno di vivere in un mondo dove ogni essere vivente abbia diritto al rispetto; di spezzare per conto degli animali l’ultimo anello della catena in cui il più forte abusa del più debole. Il nostro è il sogno che la crudeltà verso gli animali venga considerata abbietta anziché normale; che la violenza contro di loro venga punita anziché regolamentata dalle leggi; che sia considerato sopruso ucciderli e mangiare la loro carne; che si secchino i fiumi di sangue giornalmente versati da animali massacrati nei mattatoi; che cessino le torture su animali ridotti all’impotenza sui tavoli dei laboratori; che chi guarda con orgoglio il grosso pesce guizzante e agonizzante con l’amo ancora in bocca sostituisca al vanto la vergogna; che chi fa spettacolo e chi di quello spettacolo gode, con il toro massacrato e ucciso sia considerato sadico anziché coraggioso; che ritornino liberi l’orso, l’elefante, la tigre ridotti a pagliacci snaturati nei circhi dell’umana stupidità. Noi abbiamo un sogno: che i più sfruttati, maltrattati, violentati tra gli esseri viventi, privi di voce e di diritti, non siano più le vittime predestinate dell’aggressività umana destinata all’impunità. Noi abbiamo questo sogno: perché senza la fine della violenza sugli animali, nessun progresso sarà mai tale; né la vittoria sul dittatore avrà valore se il nuovo vincitore ancora festeggerà con tavole imbandite con le solite vittime.

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inviato da MARISA MANSI S. MÁRAI – LE BRACI (AMORE/AMICIZIA)

Konrad invecchiava in fretta. A venticinque anni portava già gli occhiali da lettura. E di notte, quando l’amico tornava a casa da qualche impegno mondano con addosso l’odore del tabacco e dell’acqua di colonia, un po’ ebbro e in disordine e con l’aria del ragazzino che si dà alla bella vita, parlottavano a lungo sottovoce come due complici, come se Konrad fosse un mago che trascorreva il tempo seduto in casa a spremersi il cervello sul significato degli esseri umani e dei fenomeni, mentre il suo famulo girava il mondo per raccogliere segreti sulla vita della gente. Konrad leggeva di preferenza libri inglesi sulla storia della convivenza tra gli uomini e l’evoluzione sociale. Il figlio dell’ufficiale della guardia leggeva con piacere solo libri sui cavalli e racconti di viaggio. E dato che si volevano bene, ciascuno perdonava all’altro il suo peccato originale: Konrad perdonava all’amico il suo patrimonio, e il figlio dell’ufficiale della guardia perdonava a Konrad la sua povertà. La “diversità” di cui aveva parlato il padre quando Konrad e la contessa avevano suonato la Fantaisie polonaise conferiva a Konrad un certo potere sull’animo dell’amico. Qual era il significato di questo potere? In ogni rapporto di potere esiste sempre un lieve, quasi impercettibile disprezzo nei confronti di colui che dominiamo. Siamo in grado di dominare interamente l’altro solo se giungiamo a conoscere, a capire e a disprezzare con molto tatto chi è costretto a piegarsi a noi. Con il passar del tempo, i colloqui notturni nella casa di Hietzing assunsero il tono di una conversazione tra maestro e allievo. Come tutte le persone costrette da una predisposizione innata o dalle circostanze a una solitudine precoce, Konrad parlava della società in tono leggermente ironico, un po’ sprezzante e al tempo stesso, suo malgrado, incuriosito. Come se tutto ciò che accadeva in quel mondo potesse interessare solo i bambini e creature altrettanto ingenue. E tuttavia dalla sua voce traspariva una certa nostalgia, quella della gioventù che si strugge eternamente per una patria ambigua, impassibile e spaventosa che si chiama mondo. E quando Konrad, in tono amichevole e condiscendente, con noncuranza e quasi per scherzo si prendeva gioco di Henrik per tutto ciò che quest’ultimo aveva visto e sentito nel mondo, la sua voce vibrava di desideri inappagati. Vivevano così, nello splendore della giovinezza, svolgendo un ruolo che era al tempo stesso un mestiere, che conferiva alla loro vita una dignità interiore. Spesso qualche mano femminile bussava, con trepidazione ed allegria, alla porta dell’appartamento di Hietzing…… Quelle donne avevano portato nella loro vita lo smarrimento dei primi amori e tutto ciò che significa l’amore: desiderio, gelosia e un disperato senso di solitudine. Ma al di là delle donne e del mondo balenava un sentimento più forte di tutto il resto. Un sentimento, noto soltanto agli uomini, che si chiama amicizia.

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inviato da GIULIA MILANESE F. MARAINI – IL GIORNO AD URLAPICCHIO (AMORE/FELICITÀ) Ci son dei giorni smègi e lombidiosi Col cielo dagro e un fonzèro gongruto Ci son meriggi gnàlidi e budriosi Che plògidan sul mondo infrangelluto, ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi un giorno tutto gnacchi e timparlini, le nuvole buzzillano, i bernecchi ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini; è un giorno per le vanvere, un festicchio un giorno carmidioso e prodigiero, è il giorno a cantileni, ad urlapicchio in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.

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Inviato da ALESSIA BLASIOLI , STUDENTESSA, ECONOMIA E COMMERCIO M. MAZZANTINI – NON TI MUOVERE (AMORE)

“Non so perché ti ho portato fin qui, Angela. Ma so che adesso sono in piedi su quel muro, e tu sei al mio fianco, ti stringo come un ostaggio. Eccola, Italia, questa è mia figlia, questa è quella che è nata. E tu alza la testa, Angela, fatti vedere, dì ciao alla signora, dì ciao a quella regina. Mi somiglia, vero, Italia? Ha quindici anni, ha il sedere un po’ grosso, è stata magra magra, e adesso ha il sedere un po’ grosso. Ė l’età. Ė una che mangia fuori pasto, e non si allaccia il casco. Non è perfetta, non è speciale, è una come tante. Una a caso nel mondo. Ma è mia figlia, è Angela. E’ tutto quello che ho. Guardami, Italia, siediti su questa sedia vuota che ho dentro, e guardami. Davvero sei venuta a riprendermela? Non ti muovere, voglio dirti una cosa. Voglio dirti cosa è stato. Quando tornai indietro e ripresi le orme che avevo lasciato. Non avevo più emozioni, non avevo dolore, non avevo confronto. Ma Angela è stata più forte di me. Voglio dirti cos’è l’odore di un neonato in una casa, è qualcosa di buono che si attacca alle pareti, si attacca dentro. Mi avvicinavo alla sua culla, e restavo lì, accanto a quella testa sudata. Si svegliava e già rideva, si succhiava un piede. Mi guardava fissa con lo sguardo sfondato dei neonati. Mi guardava come te. Era come una stufa, era benefica. Era nuova crocchiante, era un regalo. Era la vita. E io non avevo il coraggio di stringerla. Un aereo sta passando nel cielo, tra poco atterrerà. C’è una donna che piange, lì sopra. Una donna di 53 anni, un po’ ingrassata, con una piccola borsa di pelle sotto il mento, quella è mia moglie. Il suo odore è invecchiato nel mio naso. Sta guardando una nuvola, sta guardando sua figlia. Taglia quella nuvola, Italia, tagliala come una cicogna. Restituiscimi Angela.”

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inviato da CARMEN FURNO, SICSI P. NERUDA – POESIA (AMORE) Posso scrivere i versi più tristi stanotte. Scrivere, per esempio: «La notte è stellata, e tremano, azzurri, gli astri, in lontananza.» Il vento della notte gira nel cielo e canta. Posso scrivere i versi più tristi stanotte. Io l’ho amata e a volte anche lei mi amava. In notti come questa l’ho tenuta tra le braccia. L’ho baciata tante volte sotto il cielo infinito. Lei mi ha amato e a volte anch’io l’amavo. Come non amare i suoi grandi occhi fissi. Posso scrivere i versi più tristi stanotte. Pensare che non l’ho più. Sentire che l’ho persa. Sentire la notte immensa, ancor più immensa senza lei. E il verso scende sull’anima come la rugiada sul prato. Poco importa che il mio amore non abbia saputo fermarla. La notte è stellata e lei non è con me. Questo è tutto. Lontano, qualcuno canta. Lontano. La mia anima non si rassegna d’averla persa. Come per avvicinarla, il mio sguardo la cerca. Il mio cuore la cerca, e lei non è con me. La stessa notte che sbianca gli stessi alberi. Noi, quelli d’allora, già non siamo gli stessi. Io non l’amo più, è vero, ma quanto l’ho amata. La mia voce cercava il vento per arrivare alle sue orecchie. D’un altro. Sarà d’un altro. Come prima dei miei baci. La sua voce, il suo corpo chiaro. I suoi occhi infiniti. Ormai non l’amo più, è vero, ma forse l’amo ancora. È così breve l’amore e così lungo l’oblio. E siccome in notti come questa l’ho tenuta tra le braccia, la mia anima non si rassegna d’averla persa. Benché questo sia l’ultimo dolore che lei mi causa, e questi gli ultimi versi che io le scrivo.

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inviato da GLORIA ASTANTA A. PARRONCHI – DIADEMA (AMORE) Alla figlia II mondo a cui da poco hai aperto gli occhi non è, piccina mia, quale vorrei che fosse... E tu, non guardarlo così, come se - troppo presto! - lo capissi. Capirai... Ma ora, piccola, richiamami il poco sangue nelle vene, il poco e debole volere: in un sussulto delle tue mani tutto può rinascere. Se non creo quel domani più giocondo che per te spero, o ultima venuta, da me saprai che ciò che vale al mondo a suscitarlo è il cuore che non muta.

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inviato da STEFANIA ASTANTA A. PARRONCHI – DIADEMA (AMORE) A mio padre, in sogno Sorridi un poco e te ne vai pensoso. E ad un tratto con lacrime mi chiedo quanto tempo è che al petto non ti stringo non afferro da amico quelle braccia. La memoria ha insensibili naufragi. Scolora come il cielo di settembre sotto il vento si popola di nubi. Te ne vai. Quante cose all’improvviso mi ritrovo da dirti… E resto muto. Ma perché nell’istante che mi volto non sei più là? Ci sono tante cose da dirsi… Ed io ti chiamo ancora, e credo che non può certo, questo, essere un sogno.

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inviato da CIANCIULLI, LETTERE E FILOSOFIA

D. PENNAC – SIGNOR MALAUSSÈNE (AMORE)

Prendete un Malaussène, fategli del male, lui corre. Potrebbe requisire un taxi, tuffarsi nel metro, aggrapparsi alla coda di un aereo, no, lui corre! Mette in moto il marciapiede, inghiotte l’asfalto, fa sfilare i balconi sulla sua testa. I passanti che si voltano l’hanno già perso di vista, gli ippocastani non fanno in tempo a contarsi…corre, Malaussène, corre più dritto possibile e salta più in alto che può, i cani lo sentono passare al di sopra dei loro musi e i vigili non lo vedono attraversare gli incroci, lui sviluppa la sua falcata tra gli insulti e i clacson, l’urlo dei pneumatici e lo stridio dei fischietti, il volo dei piccioni e il passo strisciato dei gatti che fanno la gobba, corre Malaussène, e non si capisce chi potrebbe correre più in fretta, far girare il mondo sotto i piedi, se non, forse, un altro Malaussène, un altro dolore in movimento, e a conti fatti devono essere tanti, questi corridori afflitti, a giudicare dalla rotazione della terra, perché la terra gira sotto i piedi dell’uomo che corre, non c’è altra spiegazione…e queste idee semplici sono le uniche che possono venire in mente all’uomo che corre sulla superficie del globo, l’uomo corre su una sfera che ruota, condannato a non procedere, all’idea circolare, rimandato indietro alle origini da ogni passo che lo avvicina alla meta, perché insomma prendiamo per esempio Malaussène, che ha appena raggiunto boulevard Sébastopol e che lo percorre in un sol tratto, direzione ospedale Saint-Louis, ecco prendiamo Malaussène, prendiamo me! Non sto forse correndo verso l’inizio di questa storia? Corri Malaussène, la terra è rotonda e non c’è risposta, ci sono solo gli esseri umani, l’unica risposta si chiama Julie, c’è solo Julie, Julie all’ospedale, Julie con la pancia vuota, Julie da riportare a casa, e da quando in qua uno ha bisogno di risposte mentre corre verso Julie? Anche l’uomo che corre verso la donna che ama fa girare il mondo!

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Inviato da ULDERICO POMARICI R. M. RILKE – NUOVE POESIE REQUIEM (AMORE) La giostra Jardin du Luxembourg Con un tetto e la sua ombra gira per breve ora la giostra dei cavalli multicolori, tutti del paese che lungamente tarda a tramontare. Molti sono attaccati alle carrozze, eppure tutti hanno un cipiglio fiero, e un feroce leone, tinto in rosso, va con loro, e a quando a quando un elefante bianco . Perfino un cervo c’è, come nel bosco, ma porta sella e, fissa alla sua sella, una minuscola bambina azzurra . E cavalca il leone un bimbo bianco Tenendosi ben fermo con la mano che scotta, mentre il leone scopre lingua e zanne . E a quando a quando un elefante bianco. E passano su cavalli anche fanciulle In vesti chiare, quasi troppo grandi Per questi giochi e nella corsa alzano Lo sguardo in su, verso di noi, chi sa dove – E a quando a quando un elefante bianco. E il tutto va e s’affretta alla sua fine, e gira e gira in cerchio e non ha meta. Un rosso, un verde, un grigio che balena, un profilo lieve, un cenno appena -, E ogni tanto rivolto in qua, beato, un sorriso che abbaglia e che si dona al cieco gioco che ci toglie il fiato….

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inviato da GRANATA, STUDENTE, LETTERE E FILOSOFIA A. DE SAINT EXUPÉRY – IL PICCOLO PRINCIPE (AMORE/AMICIZIA) La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: “Per favore... addomesticami”, disse. “Volentieri”, disse il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”. “Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. ”Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!" “Che cosa bisogna fare?” domandò il piccolo principe. “Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino...” Il piccolo principe ritornò l'indomani. “Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe. “Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci vogliono i riti”. “Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe. “Anche questa è una cosa da tempo dimenticata”, disse la volpe. “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza”. Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina: “Ah!” disse la volpe, “.. piangerò”. “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi...” “È vero”, disse la volpe. “Ma piangerai!” disse il piccolo principe. “È certo”, disse la volpe. “Ma allora che ci guadagni?” “Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.

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inviato da FRANCESCA STAIANO A. DE SAINT EXUPÉRY – IL PICCOLO PRINCIPE (AMORE/AMICIZIA)

In quel momento apparve la volpe. “Buon giorno,”disse la volpe. “Buon giorno,” rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. “Sono qui,” disse la voce, “sotto il melo….” “Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino…” “Sono la volpe,” disse la volpe. “Vieni a giocare con me,” disse la volpe, “non sono addomesticata”. “Ah! scusa ,” fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: “Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?” “Non sei di queste parti, tu,” disse la volpe “che cosa cerchi?” “Cerco gli uomini,” disse il piccolo principe. “Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?” “Gli uomini,” disse la volpe “hanno dei fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?” “No,” disse il piccolo principe. “Cerco degli amici. Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?” “È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…” “Creare dei legami?” “Certo,” disse la volpe. “Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.” “Comincio a capire,” disse il piccolo principe. “C’è un fiore… credo che mi abbia addomesticato…” “È possibile,” disse la volpe. “Capita di tutto sulla terra…” “Oh! Non è sulla terra,” disse il piccolo principe. La volpe sembrò perplessa: “Su un altro pianeta?” “Sì.” “Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?” “No.” “Questo mi interessa! E delle galline?” “No.” “Non c’è niente di perfetto,” sospirò la volpe. Ma la volpe ritornò alla sua idea: “La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi faranno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…"

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inviato da LOREDANA MARINIELLO, SCIENZE BIOTECNOLOGICHE P. SALINAS – LA VOCE A TE DOVUTA (AMORE) E improvvisa, inattesa, fortuita, l’allegria. Da sola, perché volle, è venuta. Così verticale, così grazia insperata, così dono a sorpresa, che non posso credere che sia per me. Mi guardo intorno, cerco. Di chi sarà? Sarà di quell’isola sfuggita dall’atlante, che mi è passata accanto vestita da ragazza, con spume al collo, abito verde e un grande spruzzo di avventure? Non sarà forse caduta a un tre, a un nove, a un cinque di questo agosto che inizia? Oppure è quella che ho visto tremare di là dalla speranza, nel fondo di una voce che mi diceva: “No”? Ma non importa, ormai. Sta con me, mi trascina. Mi sradica dal dubbio. Sorride, possibile; prende forma di baci, di braccia, verso me; finge d’essere mia. Andrò, andrò con lei ad amarci, a vivere tremando di futuro, a sentirla veloce, secondi, secoli, eternità, niente. E l’amerò tanto, che quando verrà qualcuno – e non lo si vedrà, non si potranno udire i suoi passi – a richiederla (è il suo padrone, era sua), quando la condurranno, docile, al suo destino, lei si volterà indietro

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a guardarmi. E vedrò che ora è mia, finalmente.

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inviato da ARCANGELO AULETTA, LETTERE E FILOSOFIA E. SANGUINETI – MIKROKOSMOS (AMORE) n. 19 Vengo, con la presente, a te, per chiederti formalmente d’esentarmi d’urgenza dal comunicare, con te, per telefono: (io non posso battere zuccate disperate, contro il primo muro che mi trovo a disposizione, ogni volta, capirai, appena mollo giù il ricevitore): (perché, mia diletta, io non saprò mai separare, stralciandole, le tue parole, a parte, dai tuoi gomiti, dai tuoi alluci, dalle tue natiche, da tutta te): (da tutto me): sola, la tua voce mi nuoce.

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inviato da SERENA GAUDINO T. SCARPA – GROPPI D’AMORE NELLA SCURAGLIA (AMORE/SENSUALITA’) La notte nottosa ne la scuraglia a farcene lu groppo de l’ammure verace cu tte Sirocchia mia. Teni li cosci spalanchi, le bumbe cunfie de pasta panara, li capizzi turgi, lu culario de tantaggrasso. Tu vuò tenirce la lampa attizzata, tu vuò agguardarmece lu ceffo turvo picché te zinzilla lu ceffo masculo. Tu ce attizzi la lampa cu la mano, ma cu lu pede io ce la scalcio, l’azzitto. Tu l’attizzi cu la mano, io l’azzitto cu lu pede. L’attizzi cu la mano, l’azzitto cu lu pede. L’attizzi cu la mano… Mò abbi scassato la nirchia, Sirocchia! Te ce la scapitozzo cu lu pede, la lampa. «Piccé me t’angroppi d’ammure sulamente ne la scuraglia?» me addumandi. Picché quanno me t’aggroppo e me te visto, Sirocchia mia, quanto sì brutta! Ne la scuraglia me t’asculto la voce tua, la raglia zuccherata che me ce fai pazzita d’ammure e te visto cu l’occhie de l’immaginata, te visto comme sì pe l’anemo mio. Sirocchia mia quanto sì brutta a la lampa, ma quanto sì bella a l’immaginata. Picché l’immaginata ié più verace de la lampa. Accussì te tengo appresso cuntra lu core. Stabbi aqqà ne lu groppo d’ammure, su lu carcasso pilloso mio, picché ne la scuraglia te tengo verace,

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ne la vecenanza de lu carcasso. Ma te tengo puro immaginata, comme ne lu distanto de lu stellatico, ne la lontananza de lu ponziero.

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inviato da IVAN LUIGI ANTONIO SCHERILLO, LETTERE I. L. A. SCHERILLO – IL MARINAIO (AMORE) Eravamo soli, io e lei. La natura aveva dato ad entrambi voce, ma non parole per parlarci. Due lingue diverse erano impegnate in tenere effusioni e valzer di fuoco. Eravamo lì, soli, in un silenzio che mai mi fu così caro. Ma a che servono le parole? Quando due sguardi dialogano tanto bene e con tanta passione ed il cuore ha una sola voce, a che servono le parole? Se anche avessi avuto le parole non le avrei dette e se anche le avessi dette non mi avrebbe capito e se mi avesse capito, non mi avrebbe risposto. Così è l’amore: muto. Eravamo lì, nella città che meglio di tutte fa da cornice agli innamorati, a passeggiare vicino al mare. Alcuni schizzi, più indisciplinati, ci bagnavano il viso ed i vestiti. Nasceva un sorriso e subito inciampava in un bacio. Volevo dirle che era bella, che era la cosa più bella che avevo mai visto, ma lei già lo sapeva. Glielo dicevano i miei abbracci ed i baci che si ripetevano ed inumidivano fronte e labbra. Lo sapevano i suoi capelli, gliel’aveva detto la mia mano. Ed anche io lo sapevo, sapevo che anche lei era vittima dello stesso veleno che affliggeva il mio cuore; anche lei volteggiava sulle ali dell’amore. Me l’aveva detto il suo profumo. Leggevo dentro i suoi occhi ogni parola che la sua bocca taceva e lei faceva altrettanto. E continuavamo il nostro idillio, sospesi tra il tempo e l’indefinito, nulla turbava la nostra quiete. Quando non si baciavano le nostre labbra, si baciavano le nostre mani. Ridevano le mie della sua pelle e fuggivano i suoi capelli dietro al vento. Ogni istante bellissimo che passavo con lei mi avvicinava però all’addio. Il tempo è fatto di istanti e fatalmente una frazione di tempo così breve riduce il piacere. Ricordo ancora l’ultimo minuto, giù al porto. Lei mi guardava ed io guardavo lei e troppo tenera era l’atmosfera, tanto che ci sembrava che un bacio fosse volgare o inadeguato ed allora ci sciogliemmo in abbraccio dolcissimo. Poi io mi voltai e salii sulla mia nave, mentre lei confidava il suo dolore ad un fazzoletto bianco. Lo stesso fazzoletto che s’oppose al vento, come le nostre anime s’opponevano alla mia partenza. Fossero state altrettanto care le vele… Fatalmente il mare separò le nostre vite. Com’è misera la vita del marinaio! Chi ci rimprovera di essere donnaioli, non conosce la pena che ci attanaglia ad ogni partenza. Aver tanti piccoli amori non vuol dire non aver amato mai ed il tempo non misura l’intensità. Avevo amato molto di più io in quelle ore che tanti uomini in una vita intera. Mentre la nave solcava le acque io pensavo: “Chissà come si dice nella sua lingua… ti amo!”

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inviato da SOULEYMONE DRAME L. S. SENGHOR – NOTTE DI SINE (AMORE) Donna, posa sulla mia fronte le tue mani balsamiche le tue mani più morbide della pelliccia. In alto le palme oscillano, stormiscono appena nell'alta brezza notturna. Non s'ode neppure il canto della nutrice. Ci culli il silenzio ritmato. Ascoltiamo il suo canto, ascoltiamo battere il nostro sangue oscuro, ascoltiamo battere il polso profondo dell'Africa nella bruma dei villaggi perduti. Ecco, declina la luna stanca verso il suo letto di mare disteso. Ecco che si assopiscono gli scoppi di riso, che gli stessi narratori ciondolano il capo come il bimbo sul dorso della madre. Ecco che i piedi dei danzatori si appesantiscono, si fa pesante la lingua dei cori alternati. È l'ora delle stelle e della Notte che sogna. Si appoggia a questa collina di nubi, drappeggiata nel suo lungo perizoma di latte. I tetti delle case luccicano teneramente. Che dicono, così confidenziali, alle stelle? Dentro, nel focolare si spegne nell'intimità di odori acri e dolci. Donna, accendi la lampada dall'olio chiaro perché parlino intorno gli antenati come i genitori, i bambini nel letto. Ascoltiamo la voce degli Antichi d'Elissa. Come noi esiliati non hanno voluto morire, che si perdesse nelle sabbie il loro torrente seminale. Che io senta, nella casa fumosa visitata da un riflesso di anime amiche la mia testa sul tuo seno caldo come un dang tratto fumante dal fuoco che respiri l'odore dei nostri Morti, che raccolga e ripeta la loro viva voce, che apprenda a vivere prima di discernere, più in là del tuffatore, nelle alte profondità del sonno. Ritorna

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inviato da TORTORELLI, DOCENTE LETTERE E FILOSOFIA O. SHEERS – NON ANCORA MIA MADRE (AMORE)

Ho trovato ieri una fotografia di te a diciassette anni, che tieni un cavallo e sorridi, non ancora mia madre. Stretto il cappello da cavallerizza nascondeva i tuoi capelli, le gambe ancora due stinchi acerbi da adolescente. Tenevi per le redini il cavallo, la tua mano un pugno sotto l'enorme mascella del cavallo. Gli alberi scarmigliati alle tue spalle, la grana grossa del cielo per la vecchiezza della pellicola, ma ciò che mi ha rapito era il tuo volto. Che era il mio. E per un secondo ho pensato che eri me. Ma poi ho visto la giacchetta da donna, stretta in vita, i pantaloni a palloncino, e poi la data, incisa sull'angolo. Il che mi diceva di nuovo che si trattava di te a diciassette anni, che tieni un cavallo e sorridi, non ancora mia madre, sebbene fosse già chiaro che io ero tuo figlio.

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Inviato da GIULIA BRODETTI L. TOLSTOJ – GUERRA E PACE (AMORE) Il principe Andréj si alzò e si avvicinò alla finestra per aprirla. Appena ebbe dischiuso le imposte, la luce della luna, come se da un pezzo avesse fatto la posta presso la finestra, irruppe nella stanza. Egli spalancò la finestra. La notte era fresca e immobilmente chiara. Proprio davanti alla finestra c’era un filare di alberi potati, neri da una parte, illuminati di luce argentea dall’altra. Sotto gli alberi c’era una vegetazione grassa, umida, fronzuta, e qua e là foglie e steli d’argento. Lontano, dietro agli alberi neri, c’era un tetto scintillante di rugiada; a destra un grande albero folto di foglie col tronco e i rami di un bianco lucente, e sopra a quello una luna quasi piena, in un cielo luminoso di primavera, quasi senza stelle. Il principe Andréj poggiò il gomito sul davanzale della finestra e i suoi occhi si fermarono su quel cielo. La camera del principe Andréj era al piano di mezzo: anche nella stanza sopra alla sua c’era gente, e non dormiva. Egli udì in alto un chiaccherio femminile. – Ancora una volta sola – disse lassù una voce di donna che il principe Andréj riconobbe subito. – Ma quando andrai a dormire? – rispose un’altra voce. – Non ci vado, non posso dormire, che devo fare? Su, un’ultima volta… Le due voci femminili cominciarono a cantare una frase musicale, che formava la fine di qualche pezzo. – Ah! Com’è bello! Su, ora a dormire, e basta. – Va’ tu a dormire, ma io non posso, – rispose la prima voce, avvicinandosi alla finestra. La fanciulla si era evidentemente affacciata alla finestra, perché si sentiva il fruscio del suo vestito e perfino il respiro. Tutto tacque, come pietrificato, come la luna con la sua luce e le sue ombre. Anche il principe Andréj non osava muoversi, per non rivelare la sua involontaria presenza. – Sonja! Sonja! – si udì di nuovo la prima voce. – Ma come si può mai dormire? Ma guarda che bellezza! Ah, che bellezza! Ma svegliati, Sonja! – disse la fanciulla quasi con le lacrime nella voce, – una notte così bella non c’è stata mai, mai! Sònja rispose a malincuore qualcosa. - Ma no, vieni a vedere che luna! È un incanto! Vieni qui, cara, vieni qui. Ma non vedi? Io vorrei accoccolarmi così, stringere le mani attorno alle ginocchia con la maggior forza possibile, prendere lo slancio e volar via! Ecco, così! - Smettila, potresti cadere. Si udì il rumore di una breve lotta e la voce malcontenta di Sònja: - Lo sai che sono quasi le due? - Ah, tu vuoi proprio rovinarmi tutto! Vieni, vieni qui! Seguì un nuovo silenzio, ma il principe Andréj sapeva che essa era ancora là, alla finestra; di tanto in tanto sentiva ora un leggero movimento ora un lieve sospiro. - Ah, mio Dio! mio Dio! Cosa è mai?- ella esclamò tutto a un tratto. - E sta bene, andiamo a dormire!- e sbatté con forza la finestra. "E della mia esistenza non le importa nulla!", pensava il principe Andréj mentre stava ad ascoltarla parlare, aspettando e insieme temendo, chissà mai perché, di udire qualcosa sul conto suo. "E ancora lei! Neanche se fosse fatto apposta!", pensava. Improvvisamente gli sorse nell'animo un tale inatteso tumulto di pensieri e di speranze giovanili, in contrasto con tutta la sua vita che, non sentendosi la forza di analizzare e di spiegarsi ciò che provava, si addormentò immediatamente.

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inviato da ALDO GONZALES Y REYERO, DOCENTE L.TOLSTOJ – SONATA A KREUTZER (AMORE) Lo presentai a mia moglie. Subito il discorso cadde sulla musica, ed egli si mise a sua disposizione per sonare con lei. Mia moglie, come sempre in quegli ultimi tempi, era molto elegante e seducente, e bella in un modo inquietante. E lui, si vedeva, le era piaciuto sin dalla prima occhiata. Inoltre, ella si sentiva lusingata dal piacere che si sarebbe procurata sonando accompagnata dal violino, cosa che amava moltissimo, tanto da pagare talvolta per questo un violinista di teatro; e quella gioia le traspariva dal volto. Ma, guardandomi, capì subito il mio sentimento, e mutò espressione; e di qui cominciò il gioco del reciproco inganno: io sorridevo affabilmente, facendo mostra d’essere assai soddisfatto; lui, guardando mia moglie come tutte le persone immorali guardano le belle donne, si dava l’aria di essere interessato soltanto dal soggetto della conversazione, che era esattamente quello che lo interessava di meno; lei cercava di sembrare indifferente, ma era chiaro che sia la mia espressione, che le era ben nota, di geloso dal sorriso falso, sia gli sguardi lussuriosi di lui la eccitavano. Vidi che fin da quel primo incontro gli occhi di lei avevano uno scintillìo particolare e che, forse per effetto della mia gelosia, tra lui e lei si era immediatamente stabilita una specie di circuito elettrico, il quale provocava come un’identità di espressione negli sguardi e nei sorrisi: lei arrossiva, lui arrossiva; lei sorrideva, lui sorrideva. Si conversò di musica, di Parigi, di un sacco di futilità. Egli si alzò per accomiatarsi, e sorridendo, col cappello che gli tremolava contro la coscia, rimase ritto a guardare ora me ora lei, come aspettando ciò che avremmo fatto. Ricordo quel momento, perché proprio in quel momento avrei potuto non invitarlo, e così non sarebbe successo nulla. Ma io guardai lui, guardai lei: “Non pensare che sia geloso di te”, le dissi mentalmente, “oppure che tema te”, dissi mentalmente a lui, e lo invitai a portare qualche sera il violino, per sonare con mia moglie. Ella mi fissò sorpresa, si accese in volto e, come spaventata, cominciò a schermirsi, asserendo che non sonava abbastanza bene. Quel suo atteggiamento m’irritava ancor più, e mi feci ancora più insistente. Ricordo lo strano sentimento con cui guardavo la nuca e il collo bianco di lui, contrastante col nero dei capelli divisi dalla scriminatura, mentr’egli, con la sua andatura saltellante da uccellino, usciva di casa. Non potevo non ammettere che la presenza di quell’uomo mi angustiava: “Dipende da me”, pensavo, “far in modo di non rivederlo mai più”. Ma comportarsi così avrebbe significato confessare che lo temevo. “No invece, non lo temo, sarebbe troppo avvilente”, dicevo a me stesso. E in anticamera, sapendo che mia moglie udiva, insistei perché venisse quella sera stessa col violino. Promise e se ne andò.

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inviato da FABIANA MASULLO,TEATRO DELL’ANIMA P. VERLAINE – LA BUONA CANZONE (AMORE) Camminavo su sentieri infidi dolorosamente incerto. E le tue care mani mi guidarono. pallido un debole presagio d'alba riluceva all'orizzonte lontano: il tuo sguardo fu il mattino. Nessun altro rumore che il suo passo sonoro incoraggiava il viaggiatore. La tua voce mi disse: Vai avanti! Il mio cuore timoroso, oscuro, piangeva solo sulla triste via: l'amore, delizioso vincitore, ci ha riuniti nella gioia.

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inviato da MARINA DE DILECTIS M. YOURCENAR – LE MEMORIE DI ADRIANO (AMORE ) I cinici e i moralisti si trovano d’accordo nel collocare le voluttà dell’amore tra i piaceri cosiddetti volgari, tra quello del mangiare e quello del bere, pur dichiarandole meno indispensabili, poiché, ci assicurano, se ne può fare a meno. Dal moralista mi aspetto di tutto: ma mi stupisce che s’inganni il cinico. Ammettiamo che gli uni e gli altri abbiano paura dei loro demoni - sia che resistano sia che cedano ad essi - e che cerchino con ogni mezzo di avvilire il piacere per cercare di sottrargli la potenza quasi terribile alla quale soccombono, il mistero dal quale si sentono travolti. Accetterò di assimilare l’amore alle gioie puramente fisiche (ammettendo che ve ne siano) quando avrò visto un ghiottone anelare di piacere davanti alla sua pietanza favorita come un innamorato sulla spalla dell’essere amato. Di tutti i nostri giochi, questo è il solo che rischi di sconvolgere l’anima, il solo altresì nel quale chi vi partecipa deve abbandonarsi al delirio dei sensi. Non è necessario per un bevitore abdicare all’uso della ragione, ma l’innamorato che conservi la sua non obbedisce fino in fondo al suo demone… Confesso che la ragione si smarrisce di fronte al prodigio dell’amore, strana ossessione che fa sì che questa stessa carne, della quale ci curiamo tanto poco quando costituisce il nostro corpo, preoccupandoci unicamente di lavarla, di nutrirla, e - fin dove è possibile – d’impedirle che soffra, possa ispirarci una così travolgente sete di carezze sol perché è animata da una individualità diversa dalla nostra, e perché è dotata più o meno di certi attributi di bellezza, su i quali, del resto, anche i giudici migliori sono discordi. Di fronte all’amore, la logica umana è impotente, come in presenza della rivelazione dei Misteri: non s’è ingannata la tradizione popolare, che ha sempre ravvisato nell’amore una forma di iniziazione, uno dei punti dove il segreto e il sacro si incontrano. E per un altro aspetto ancora, l’espressione sensuale si può paragonare ai Misteri, in quanto il primo contatto appare al nuovo iniziato un rito più o meno pauroso, violentemente diverso dalle funzioni consuete del sonno, del bere e del mangiare, oggetto di scherno, di vergogna e di terrore. L’amore, non altrimenti della danza delle Menadi e del delirante furore dei Coribanti, ci trascina in un universo insolito, ove in altri momenti è vietato avventurarci, e dove cessiamo di orientarci non appena l’ardore si spegne e il piacere si placa. Avvinto al corpo amato come un crocefisso alla sua croce, ho appreso sulla vita segreti che ormai si dileguano nei ricordi, per opera di quella stessa legge che impone al convalescente guarito di dimenticare le verità misteriose del suo male, al prigioniero, una volta libero, di obliare la tortura, e al trionfatore la gloria, quando l’ebbrezza del trionfo è svanita.