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ISSR «N. Stenone» - Appunti di teologia sacramentaria – 2009/10 : Penitenza 1 P ENITENZA Il sacramento della penitenza appartiene al vissuto della fede cristiana, prima che alla sua elabo- razione teorica. Il suo nome (confessione, penitenza, riconciliazione) rivela i diversi atteggiamenti con cui è dal popolo cristiano. Nella crisi che ne attraversa la pratica è opportuno partire dalla do- manda sul «perché» ci si confessa oggi. La risposta non può prescindere dai cristiani di oggi (l’uomo) né dal confronto con l’origine e il fondamento del sacramento stesso (la Rivelazione). Le due realtà si corrispondono: la Rivelazione è predestinata all’uomo, l’uomo va compreso nella sua integrità. Così la teologia, in quanto corrisponde alle necessità dell’uomo, non cade nell’ideologia e, in quanto corrisponde alla Rivelazione, non si rinchiude nelle aporie antropologiche: le risposte alle domande dell’uomo sono al di là dell’uomo. Molti studi sul sacramento della penitenza partono dall’analisi della dimensione antropologica della colpa e del peccato: p. es. il manuale di Ramos- Regidor. Il nostro approccio, invece, partirà dalla situazione teologica del sacramento: il perdono dei peccati di un battezzato. Si tratta di una dimensione ecclesiologica. Nella prospettiva della Rive- lazione, Dio in Gesù Cristo ha detto la parola definitiva del perdono, strutturato nella forma dell’alleanza (2Cor 5,19-21): la Parola di Dio crea, fa nascere il popolo dell’alleanza nell’incontro definitivo con Gesù Cristo e nella fedeltà alla sua parola. Tuttavia, anche all’interno del popolo dell’alleanza continuano a esistere peccato e perdono. La chiesa muore nel peccato del cristiano e rivive nel suo perdono sacramentale. Comprende se stessa in una rinnovata accoglienza, dopo quel- la battesimale. Questa situazione particolare si trova codificata in un particolare rito della chiesa, di cui cercheremo le tracce all’interno del NT insieme alla testimonianza di una cura pastorale da parte della comunità verso i cristiani peccatori. Prassi e fede della chiesa apostolica avranno particolari sviluppi nella chiesa dei padri e dei secoli successivi. L’excursus teologico e storico mostra come, attraverso forme diverse, la chiesa ha sempre vissuto in modo rituale la riconciliazione dei cristiani pentiti del loro peccato. Questo modo rituale ed ecclesiale, con cui il cristiano porta a termine la propria «conversione» dal peccato, è un rito sacramentale: il sacramento della penitenza. I Esiste un rito della penitenza nel NT? Dal NT non sembra possibile raccogliere elementi per una procedura penitenziale, in vista del perdono o dello scioglimento dai peccati dei battezzati. 1Tm 5,22, dove l’imposizione delle mani da parte di Timoteo è messa in qualche modo in relazione con una realtà di peccato, non sopporta un’interpretazione esegetica penitenziale condivisa dagli studiosi. Il gesto può essere inteso sia co- me parte di un rito di ordinazione sia come riconciliazione di un peccatore. Probabilmente, unici ge-

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ISSR «N. Stenone» - Appunti di teologia sacramentaria – 2009/10 : Penitenza

1

PENITENZA

Il sacramento della penitenza appartiene al vissuto della fede cristiana, prima che alla sua elabo-

razione teorica. Il suo nome (confessione, penitenza, riconciliazione) rivela i diversi atteggiamenti

con cui è dal popolo cristiano. Nella crisi che ne attraversa la pratica è opportuno partire dalla do-

manda sul «perché» ci si confessa oggi. La risposta non può prescindere dai cristiani di oggi

(l’uomo) né dal confronto con l’origine e il fondamento del sacramento stesso (la Rivelazione). Le

due realtà si corrispondono: la Rivelazione è predestinata all’uomo, l’uomo va compreso nella sua

integrità. Così la teologia, in quanto corrisponde alle necessità dell’uomo, non cade nell’ideologia e,

in quanto corrisponde alla Rivelazione, non si rinchiude nelle aporie antropologiche: le risposte alle

domande dell’uomo sono al di là dell’uomo. Molti studi sul sacramento della penitenza partono

dall’analisi della dimensione antropologica della colpa e del peccato: p. es. il manuale di Ramos-

Regidor. Il nostro approccio, invece, partirà dalla situazione teologica del sacramento: il perdono

dei peccati di un battezzato. Si tratta di una dimensione ecclesiologica. Nella prospettiva della Rive-

lazione, Dio in Gesù Cristo ha detto la parola definitiva del perdono, strutturato nella forma

dell’alleanza (2Cor 5,19-21): la Parola di Dio crea, fa nascere il popolo dell’alleanza nell’incontro

definitivo con Gesù Cristo e nella fedeltà alla sua parola. Tuttavia, anche all’interno del popolo

dell’alleanza continuano a esistere peccato e perdono. La chiesa muore nel peccato del cristiano e

rivive nel suo perdono sacramentale. Comprende se stessa in una rinnovata accoglienza, dopo quel-

la battesimale. Questa situazione particolare si trova codificata in un particolare rito della chiesa, di

cui cercheremo le tracce all’interno del NT insieme alla testimonianza di una cura pastorale da parte

della comunità verso i cristiani peccatori. Prassi e fede della chiesa apostolica avranno particolari

sviluppi nella chiesa dei padri e dei secoli successivi. L’excursus teologico e storico mostra come,

attraverso forme diverse, la chiesa ha sempre vissuto in modo rituale la riconciliazione dei cristiani

pentiti del loro peccato. Questo modo rituale ed ecclesiale, con cui il cristiano porta a termine la

propria «conversione» dal peccato, è un rito sacramentale: il sacramento della penitenza.

I Esiste un rito della penitenza nel NT?

Dal NT non sembra possibile raccogliere elementi per una procedura penitenziale, in vista del

perdono o dello scioglimento dai peccati dei battezzati. 1Tm 5,22, dove l’imposizione delle mani da

parte di Timoteo è messa in qualche modo in relazione con una realtà di peccato, non sopporta

un’interpretazione esegetica penitenziale condivisa dagli studiosi. Il gesto può essere inteso sia co-

me parte di un rito di ordinazione sia come riconciliazione di un peccatore. Probabilmente, unici ge-

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sti liturgici penitenziali sono nella 1Gv (1,9 all’interno della sezione 1,5-2,2; 5,16s) e in Gc 5

(nell’interpretazione della tradizione orientale, fin da Origene e Giovanni Crisostomo). A questi te-

sti si aggiunge la questione del rapporto fra l’esclusione dalla comunità e la riconciliazione con es-

sa, legata alla prassi di escludere e riammettere all’eucaristia (cf Mt 18 e 1Cor 5). La frazione del

pane o cena del Signore si presenta come un gesto della comunità cristiana (1Cor 10,17; 11; Gc 2,1-

4), e la riconciliazione del cristiano peccatore coincide con la koinônia al Corpo di Cristo.

Nella prima comunità cristiana la conversione (metanoia) è oggetto dell’annuncio apostolico, ri-

volto a pagani e giudei. Dalla resurrezione di Cristo e dal dono del suo Spirito nasce la chiesa, costi-

tuita oggettivamente con la remissione dei peccati e la fede vissuta secondo la via della comunità, in

un rapporto organico con il sacramento del battesimo. L’annuncio (kerygma) è per tutti, in vista del-

la loro conversione (At 2,21; 17,30s; 26,20). Sfocia in uno stile di vita (At 11,23; 26,20). Secondo

una terminologia giudaica, la fede cristiana è presentata come via del Signore (At 18,25). L’intero

processo avviene in una modalità comunitaria, nella consapevolezza che un’azione divina guida

l’intero processo. La comunità cristiana avverte una esigenza di santità. La conversione battesimale

comporterebbe un atteggiamento spirituale definitivo in perfetta coerenza, mostrando la singolarità

dell’evento battesimale, che pone il credente in una situazione di intrinseca e oggettiva incompatibi-

lità col peccato (cf Mt 13,24-30.36-43).

I.A Per una comprensione del rapporto fra peccato e comunità ec-

clesiale

Nella logica della nuova alleanza, Dio continua a chiamare il suo popolo al pentimento. Il pro-

blema è quello di una certa tollerabilità: entro quali limiti la comunità cristiana può conservare il

cristiano peccatore nella pienezza di relazioni che la costituiscono? Tutti devono confessarsi pecca-

tori (1Gv e Gc) e pregano per essere liberati dal male (Mt 6; Gc 5). Certe azioni, però, come gli e-

lenchi presenti in varie pagine del NT, conducono la comunità a fare di tutto perché il fratello si

converta e si penta (Mt 18; 1Gv 5; Gc 5). Ma questa tensione verso il fratello, in attesa del suo libe-

ro pentimento, può giungere persino all’esclusione dalla vita comunitaria. In 1Gv 1,9 abbiamo un

gesto penitenziale comunitario, probabilmente liturgico: “Se riconosciamo (omologheô) i nostri

peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa”. In 1Gv 5,16s

la comunione (con Cristo e con i fratelli) trova espressione nella preghiera efficace secondo la vo-

lontà di Cristo:

Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà la vi-ta; s’intende a coloro che commettono un peccato che non conduce alla morte: c’è infatti un peccato che conduce alla morte; per questo dico di non pregare. Ogni iniquità è peccato, ma c’è il peccato che non conduce alla morte.

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Per i fratelli peccatori i cristiani sono come dei parakletoi (invocatori, chiamati accanto), come

lo è Cristo per tutti (1Gv 2,1). Per alcuni non si può pregare. La situazione va intesa in parallelo

all’impeccabilità escatologica di 1Gv 3,6-9. Così nel “peccato che conduce alla morte” non sono in

gioco né il perdono di Dio né la possibilità di conversione, ma è la situazione in quanto tale che si

manifesta in questo particolare peccato e alla quale essa rimanda. Non pregando per questa irriduci-

bile avversità a Dio, la comunità dei figli di Dio, nella comunione escatologica con Dio, manifesta

di non potere essere contemporaneamente in comunione con l’iniquità. Il punto fondamentale è la

comunione escatologica con Dio che la preghiera manifesta. L’intolleranza al peccato diventa e-

sclusione del peccatore, se questi, nella sua ostinazione, rende come stabile la sua incompatibilità

con la santità richiesta alla comunità. Troviamo allora nel NT espressioni come “non essere ricevuto

in casa e non salutato” (2Gv 10), “essere consegnato a Satana” (1Cor 5,5), essere escluso dalla pre-

ghiera della comunità o dei singoli (1Gv 5; Gv 17,9). Poiché la chiesa, in quanto mistero

dell’alleanza, in qualche modo è il mistero della salvezza, l’atto di esclusione dalla comunità eccle-

siale ha un significato molto pesante. L’incompatibilità riguarda le situazioni. La questione della

salvezza dei singoli resta impregiudicata: non si dà mai azione peccaminosa nella storia umana che

sia irremissibile davanti a Dio. La radicale novità cristiana implica una conversione fondamentale

(Rm 2,4), a Dio (2Ts 1,9) o al Signore Gesù (2Cor 3,16). Alcuni testi mostrano la progressione di

questa radicale novità (Gal 6,15s; 2Cor 5,14-18; Col 3,9-11): chi accoglie nella fede la parola di

salvezza passa dall’essere nel peccato all’esistenza in Cristo. 2Ts 3,6-15 offre un parallelo a Mt 18.

Facendo forza sulla sua autorità (v. 6), Paolo impone alla comunità di separarsi dai fratelli peccato-

ri. In modo simile l’apostolo interviene autorevolmente in 1Cor 5. Giudica ed espelle dalla co-

munità il cosiddetto “incestuoso”, ma il gesto è avvertito come comunitario. L’azione ha valore per

il suo rapporto con Gesù Cristo, nel cui nome è posta. Si tratta di un aspetto della missione che

l’apostolo ha ricevuto da Cristo, di un provvedimento disciplinare in vista della salvezza escatologi-

ca. La possibilità di una conversione non sembra preventivata.

II L’evoluzione storica della prassi e dei riti penitenziali

II.A La penitenza nei primi secoli della chiesa

Nei primi secoli il discorso penitenziale non è separabile dall’ecclesiologia. In sintonia con i dati

del NT, il problema verte sulla possibilità di una remissione dei peccati per i cristiani. Ogni tipo di

risposta implica differenti visioni di chiesa e la soluzione di principio non si fonda sulla gravità del

peccato, ma sull’ecclesiologia di base. Accettando una penitenza cristiana, la chiesa dei padri fu

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concorde nel determinare che la chiesa terrena comprende i peccatori, che la grazia battesimale non

implica l’impeccabilità. Nacque così la formazione di una prassi ecclesiastica adeguata in vista della

riammissione dei peccatori nella piena comunione ecclesiale. Il cristiano peccatore pentito deve es-

sere riammesso in senso reale nella chiesa. La sua posizione si definisce in rapporto alla chiesa, che

ha il dovere (cioè la missione) di preoccuparsi dei cristiani peccatori e della loro salvezza escatolo-

gica. La chiesa non considera irreparabile l’esclusione del peccatore, ma agisce in un determinato

modo per riconciliarlo con se stessa.1 La testimonianza più chiara è data dal Pastore di Erma, dove

si parla della “rivelazione dell’unica penitenza” (Erma, Il pastore, Mandato 4, 1-3). Gli studiosi

hanno proposto varie interpretazioni sul valore dell’unicità di questa riconciliazione. In ogni caso,

l’unicità della penitenza stabilita nel Pastore diverrà un principio pastorale mantenuto senza ecce-

zioni per tutta la penitenza antica e ne guiderà l’evoluzione. La posizione del Pastore si riflette an-

che nella Traditio apostolica, che riconosce al vescovo il potere di rimettere i peccati, secondo

quanto concesso agli apostoli (TA 3). L’unicità della penitenza in Erma si fonda su una prospettiva

escatologica. Invece Clemente alessandrino la fonda sulla psicologia del cristiano peccatore: un

pentimento ripetuto mostrerebbe che quel cristiano non ha mai avuto fede (cf Eb 10,25). Ulteriore

testimone dell’unicità della penitenza è Tertulliano. Per lui la penitenza non conosce limiti nella sua

estensione a qualunque peccato, ma resta categoricamente unica (pœnitentiæ secundæ et unius, Ter-

tulliano, de pœnitentia 5. 9)

Due ecclesiologie entrarono in conflitto: la chiesa che presume di essere quella dei profeti e dei

martiri (Novaziano) e la chiesa dei vescovi, che si sente chiamata a raccogliere in sé tutti gli uomini.

Sono state formulate due ipotesi. Secondo la «progressiva affermazione dell’istituzione ecclesiasti-

ca», dal rigorismo iniziale si sarebbe passati alla giustificazione di un intervento da parte della ge-

rarchia ecclesiastica. La chiesa gerarchica si attribuisce un potere ricevuto da Cristo: nascerebbe co-

sì la penitenza pubblica. L’ipotesi non regge davanti a numerose obiezioni. La chiesa è unica, anche

in sede storica. Non si può contrapporre una chiesa dei primi secoli a quella del NT. Il problema del

cristiano peccatore si trova già all’interno del NT (Lc e Mt su tutti; solo Eb ha testi difficili da inte-

grare). La chiesa del III secolo non presenta alcun segno di possedere una nuova coscienza ecclesio-

logica. L’ipotesi di un rigorismo delle origini finisce per semplificare troppo i dati storici. Certa-

mente è esistito un rigorismo di fondo nella visione della vita da parte della giovane comunità cri-

stiana, ma la sua spiegazione non va cercata nelle direzioni prese dal montanismo e da Ippolito,

bensì in tendenze varie e situazioni particolari, del tutto comprensibili all’interno di una comunità in

continua crescita. La seconda ipotesi configura una precoce trasformazione penitenziale. Una qual-

1 L’ipotesi di una chiesa del NT intesa come comunità al cui interno ci fosse posto solo per chi non peccasse do-

po il battesimo (Taufetheorie = teoria battesimale) si è rivelata senza fondamento. E’ vero, però, che tale visione è stata

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che forma di penitenza privata sarebbe stata la forma originaria, dalla quale si sarebbe evoluta la

penitenza pubblica per motivazioni pastorali della chiesa, in modo parallelo allo sviluppo del cate-

cumenato. Ma i dati a disposizione non fanno conoscere che un solo istituto penitenziale, quello co-

siddetto pubblico, attraverso cui l’intera comunità ecclesiale giudica il peccatore e lo riaccoglie in

sé.

II.A.1 La penitenza pubblica dei primi secoli

Nella chiesa antica si forma un istituto penitenziale pubblico con alcuni elementi che lo caratte-

rizzano: una struttura comunitaria e pubblica, sotto la presidenza del vescovo, dove la realtà spiri-

tuale di rottura e pacificazione nella comunione ecclesiale trova un segno liturgico nella “scomunica

pubblica” (allontanamento e riaccoglienza nella chiesa) e nel rapporto con l’eucaristia. Questa peni-

tenza antica presenta una dimensione comunitaria molto forte. La comunità collabora con i presbite-

ri e il vescovo nell’individuazione dei colpevoli (correndo il rischio di possibili delazioni), nelle lo-

ro esclusione e ammissione rituali. L’idea di chiesa come mistero implica anche l’idea di una reale

solidarietà ecclesiale nell’espiazione o purificazione dei peccati. La comunità intera “lega e scio-

glie” nell’azione del vescovo e sotto la sua personale responsabilità. In questa situazione, la figura

del vescovo assume un ruolo determinante. Solo in subordine notiamo la presenza di presbiteri e

diaconi. Nella riconciliazione dei peccatori pentiti è lui il vero responsabile della pace da concedere

o rifiutare. Il peccato del cristiano non è mai un atto privato; in modo analogo non lo è nemmeno il

suo cammino di purificazione. Il peccatore si esclude dalla verità ecclesiale, determinando

un’espressione esteriore, ma reale del suo allontanamento dal mistero della chiesa. Nella solidarietà

mistica della chiesa, il vescovo scioglie e lega, escludendo dall’eucaristia, all’interno di un processo

penitenziale di per sé ecclesiologico. Questo processo penitenziale della chiesa antica portava ad

una coincidenza pratica tra la pace con la chiesa e la partecipazione all’eucaristia. Il peccato, in-

compatibile con la santità battesimale e l’appartenenza alla comunità, è per sé incompatibile anche

con l’eucaristia. S’introduce una gradualità rituale nella riammissione dei penitenti e la si misura sul

progressivo avvicinamento all’eucaristia. Vi sono “coloro che piangono” all’esterno della porta di

chiesa, implorando i fratelli che passano di pregare per loro. Poi “coloro che ascoltano” la liturgia

della parola, nel vestibolo, sotto il portico, ed escono, dopo i catecumeni, al momento della preghie-

ra dei fedeli. Infine “coloro che restano prostrati” all’interno del tempio fino a “coloro che parteci-

pano” nuovamente ai sacri misteri. Notiamo già un parallelismo fra l’ammissione dei catecumeni ai

sacramenti dell’iniziazione cristiana e la riammissione dei penitenti all’eucaristia, culmine

propria di alcune frange ereticali della chiesa dei primi secoli.

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dell’iniziazione sacramentale. Il parallelismo è espresso chiaramente in testi come la Didascalia de-

gli apostoli:

Come dunque battezzi un pagano e poi lo accogli, così anche imporrai la mano a costui, mentre tutti pregano per lui, e poi lo introdurrai e lo farai partecipe nella chiesa e per lui starà in luogo di un battesimo l’imposizione del-la mano; infatti o per l’imposizione della mano o per il battesimo ricevono la partecipazione dello Spirito santo (Di-dascalia II, 41).

Ogni cristiano ha bisogno di conversione, ma non per tutti i peccati si viene esclusi

dall’Eucaristia. E’ divenuto comune esprimere in modo sintetico i peccati oggetto della penitenza

ecclesiastica con una triade di peccati pubblici: apostasia, adulterio e omicidio volontario. In realtà,

possediamo diverse liste diocesane di peccati sottoposti alla penitenza pubblica, dove il criterio

dell’elenco appare più di tipo pastorale che sistematico, legato alle situazioni concrete delle varie

comunità. Il procedimento penitenziale è un processo in se stesso liturgico. Prende avvio quando il

peccatore decide di convertirsi nella penitenza; è ancorato alla preghiera comunitaria e

all’eucaristia; la riconciliazione e la pace coincidono con la partecipazione all’eucaristia. Ha

un’espressione rituale propria nell’imposizione delle mani da parte del vescovo, accompagnata da

una preghiera di assoluzione che mantiene sempre una forma deprecativa.

Il cristiano peccatore si rapporta con la chiesa, ma la sua integrazione rinnovata nella chiesa non

è puramente sociologica. La riconciliazione termina con il perdono di Dio e la partecipazione allo

Spirito santo. Livello ecclesiologico e teologico (pneumatologico) si integrano. La purificazione

battesimale viene rinnovata, anche se i padri distinguono anche a livello terminologico fra il perdo-

no battesimale (aphesis o rimozione) e quello penitenziale (metanoia o conversione). Questa secon-

da conversione (pœnitentia secunda) è detta anche “più faticosa” (Cipriano, Tertulliano).

L’impegno penitenziale verso la riammissione nella chiesa si pone con diverse prospettive. Il ritor-

no a Dio coincide con la concessione della pace con la chiesa fatta attraverso i vescovi. Per Clemen-

te e Origene esiste una progressiva rieducazione attraverso il pentimento e il distacco dal peccato: è

una prospettiva pedagogica. Nei battezzati peccatori vi è un qualcosa di ecclesiologico che si espri-

me in modo contraddittorio: il simbolo da loro espresso (la chiamata alla santità) viene ridotto a una

dimensione esteriore, per quanto mantenga ancora qualcosa della verità della chiesa. In sintesi, nella

chiesa antica esiste un particolare rito per la riconciliazione dei cristiani peccatori e pentiti. Il pro-

cesso sistematico operato dalla scolastica, ponendo tutto l’accento sull’essenza dei sacramenti, ne

ha oscurato aspetti significativi come quello ecclesiologico-comunitario.

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II.B Evoluzione della penitenza dal VII secolo a Trento

Elemento comune alle tradizioni cristiane d’oriente e d’occidente è il passaggio dall’unica peni-

tenza pubblica, dove il punto fondamentale è l’esclusione liturgica dalla comunità fino al ritorno in

essa, segnato dalla rinnovata partecipazione all’eucaristia, verso una “penitenza privata”, ripetibile e

conferita da singoli presbiteri. In questa traiettoria le tradizioni orientale e occidentale si distinsero

sottolineando aspetti diversi del cammino comune. La tradizione orientale ha sviluppato maggior-

mente una dimensione “spirituale” della penitenza, mentre in occidente l’accentuarsi del rigorismo

penitenziale ha sottolineato la modifica dell’istituto penitenziale verso una penitenza individuale e

privata.

Con la strutturazione del cammino catecumenale, anche la prassi penitenziale venne ad avere

modalità precise. L’ingresso nell’ordo dei penitenti avveniva di solito il mercoledì delle ceneri.

Un’orazione deprecativa da parte del vescovo immetteva coloro che si riconoscevano peccatori

nell’ordo dei penitenti; seguiva la loro espulsione liturgica dalla comunità e l’inizio del cammino

penitenziale. La penitenza poteva durare anni, al termine dei quali avveniva la riconciliazione alla

comunione ecclesiale per mezzo dell’imposizione delle mani da parte del vescovo, il giovedì santo.

La partecipazione all’eucaristia durante la veglia pasquale assimilava ancora di più l’istituto peni-

tenziale al cammino catecumenale: unicità, processo liturgico di preparazione, concluso con la par-

tecipazione ai sacramenti pasquali. La durezza di questa disciplina penitenziale, adatta solo a tempi

di fervore religioso, portò al suo abbandono. In modo più preciso si tese sempre più a differirla nel

tempo, sia per la sua caratteristica di unicità sia per le pesanti implicazioni ascetiche che

l’accompagnavano (dai digiuni prolungati all’astinenza dai rapporti coniugali). Abbiamo persino te-

stimonianze di vescovi che, per senso pastorale, invitano i loro cristiani a differire l’ingresso

nell’ordine dei penitenti. Da notare che i membri del clero non erano soggetti a questa disciplina

penitenziale. Nel caso di peccati gravi da loro commessi, sacerdoti e vescovi venivano privati della

facoltà di esercitare il ministero, pena canonica che sembrava sufficiente alla chiesa antica. In O-

riente il passaggio fondamentale da una penitenza pubblica a una penitenza individuale è accompa-

gnato da una visione della penitenza come funzione medicinale: in fondo, per la visione orientale il

peccato non è che una malattia dell’animo e lo Spirito santo guarisce il cuore dell’uomo. I peccati

per i quali si ricorre alla penitenza sono l’idolatria, peccati sessuali particolarmente gravi,

l’omicidio, la magia, l’aborto. Nelle chiese locali viene a essere istituito l’ufficio di penitenziere.

Tre punti caratterizzano la penitenza nell’evoluzione che il sacramento ha ricevuto all’interno della

tradizione orientale: la compunzione, la confessione dei peccati e la qualità spirituale del potere del-

le chiavi. Tutti e tre conservano mettono in evidenza la loro origine monastica. La compunzione o

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pentimento per i peccati, un pentimento che presso i padri del deserto giungeva talvolta fino alle la-

crime, è la dimensione fondamentale e permanente dell’esistenza cristiana. La confessione non as-

sume in oriente la forma di elenco di peccati, più o meno particolareggiato, ma equivale all’apertura

totale del cuore e alla manifestazione dei pensieri al padre spirituale, perché li giudichi e indichi la

via da percorrere per essere guarito. Proprio la figura del “padre” nello Spirito è paradigmatica per

indicare la dimensione spirituale che assume la potestà di perdonare e guarire dai peccati. Siamo

lontani dalla visione giuridica che s’impose nella teologia medievale in occidente.

Il periodo storico lungo il quale l’occidente cristiano determinò l’attuale forma del sacramento

della penitenza va dal termine dell’epoca patristica alla contestazione rivolta al sacramento da parte

dei riformatori. Intervenendo contro di loro, il concilio di Trento metterà una parola più o meno de-

finitiva su alcune acquisizioni teologiche. In questo lasso di tempo il concilio Lateranense IV del

1215 si pone come una cerniera fra due epoche distinte. Fra i provvedimenti disciplinari presi dal

concilio troviamo alcune precisazioni sul sacramento della penitenza che segnerano una svolta col

passato e determinarono una traiettoria precisa per la successiva riflessione teologica. Quindi ab-

biamo una suddivisione sommaria in quattro punti: prima del Lateranenese IV, le precisazioni del

concilio (1215), la riflessione teologica che segue al concilio, la nuova interpretazione portata avan-

ti da Lutero e la risposta tridentina.

II.B.1.a I mutamenti in Occidente prima del Lateranense IV

Dopo il IV secolo la consuetudine dell’unica penitenza induce una prassi di riconciliazione at-

traverso una limitazione delle libertà personali. La permanenza nell’ordo pœnitentium richiede la

continenza sessuale anche per i coniugati, l’esclusione dalla milizia e dall’uso delle armi, la sospen-

sione di ogni attività commerciale. I peccati per i quali ci si sottopone alla penitenza pubblica si

moltiplicano, soprattutto integrando i comportamenti particolarmente dannosi per la vita sociale: la

chiesa comincia a identificarsi con una società cristiana. All’idolatria o il sacrilegio, adulterio o for-

nicazione, omicidio e falsa testimonianza si aggiungono tutti i crimini che la legge civile punisce

con la pena capitale: sequestro di persona, falsificazione di testamenti o di monete, corruzione elet-

torale, distrazione di fondi pubblici. La riconciliazione segue il completamento del cammino peni-

tenziale. Nei secoli VI-VII assistiamo in Gallia a una trasformazione della natura dell’ordo

pœnitentium. In vista di una maggiore conversione o per la propria situazione spirituale alcuni cri-

stiani chiedono di entrare nell’ordine dei penitenti per motivi puramente ascetici e dovuti al loro

fervore. In senso radicalmente opposto inizia l’uso di obbligare all’ingresso nell’ordo per misure

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coercitive. L’idea classica della penitenza canonica come venne realizzata nella chiesa dei primi se-

coli si è definitivamente trasformata.

Dal VI secolo comincia a diffondersi la «penitenza tariffata», reale innovazione nella prassi pe-

nitenziale della chiesa occidentale. Di origine monastica irlandese, viene diffusa in Europa attraver-

so le missioni dei monaci irlandesi. Le distinzioni dalla penitenza pubblica sono notevoli. Nata dalla

consuetudine monastica di rivolgere i propri pensieri al padre spirituale o al superiore della comuni-

tà, la nuova penitenza porta con sé le modalità proprie di questo rapporto. Prima di tutto assume un

carattere “privato” e “ripetibile”, perché il peccatore pentito si rivolge in segreto al singolo sacerdo-

te e vi ricorre ogni volta che ne ha bisogno. Per venire in aiuto all’equo discernimento dei confesso-

ri nascono dei libri detti “tariffari”, dove per ogni categoria di peccati sono indicate le opere peni-

tenziali opportune. Questa penitenza, detta “insulare” dalla sua origine o “tariffata”, si sviluppò in-

sieme al diffondersi di questi libri penitenziali, ad uso del sacerdote. Il nuovo rito prevedeva la con-

fessione dei peccati fatta a un sacerdote che proponeva un’opera penitenziale, compiuta la quale si

ritornava dal sacerdote per ricevere la riconciliazione. Per aiutare i sacerdoti nella scelta delle opere

penitenziali si diffusero delle tabelle di pene, dove si precisava una tassazione precisa in proporzio-

ne alle colpe accusate. Da qui il nome di penitenza tariffata. Compiuta l’opera penitenziale prescrit-

ta il penitente ritorna dal sacerdote che gli offre la riconciliazione e il perdono di Dio. Nello spec-

chietto seguente risaltano le differenze fra la penitenza pubblica antica e quella nuova, cosiddetta

“tariffata”:

penitenza pubblica antica penitenza tariffata unicità possibilità di ripetizione pubblica, rito ecclesiale comunitario privata, rito coi soli penitente e ministro perdono da parte del vescovo perdono da parte del sacerdote gesto di riconciliazione che insiste sull’imposizione delle mani

gesto di riconciliazione che mette l’accento sul-la formula di assoluzione

cammino penitenziale integrato nell’intero rito ecclesiale

opera penitenziale come “soddisfazione giuridi-ca”. In un primo tempo precede l’assoluzione, poi la seguirà

La diffusione di questo nuovo modo di riconciliazione non avvenne senza reazioni. Un canone

del concilio di Toledo del 589 si scaglia contro coloro che hanno la “presunzione esecrabile” di ri-

cevere la riconciliazione con la chiesa “ogni volta che peccano”(cf ca. 11). Che si trattò di

un’opposizione inutile, risalta dal canone 8 del concilio di Chalon, del 650. Appena mezzo secolo

dopo si riconosce della massima utilità la penitenza dopo ogni confessione dei peccati. In sede sto-

rica, per un certo periodo di tempo le due forme penitenziali sussistettero in contemporanea. Con

una certa approssimazione, possiamo dire che i peccati pubblici venivano sottoposti a penitenza

pubblica, quelli privati a penitenza tariffata. Con l’introduzione del cosiddetto “pellegrinaggio peni-

tenziale” il quadro generale si complica, ma possiamo ugualmente indicare una generale pratica pe-

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nitenziale suddivisa in tre forme rituali. La penitenza tariffata o privata, reiterabile, è quella indicata

per i peccati gravi compiuti da parte dei chierici e per i peccati di “normale amministrazione” com-

piuti dai fedeli. Accanto troviamo ancora la penitenza antica, che viene ad assumere due forme di-

stinte. La classica “penitenza pubblica solenne”, retaggio della penitenza canonica della prima chie-

sa, ancora non reiterabile, mantiene la sua dimensione ecclesiale. Il rito è presieduto dal vescovo, i

penitenti vestono con cilicio e sono cosparsi di cenere. Ci si sottopone ad essa solo per gravissimi

crimini, come l’omicidio del coniuge, del genitore o del figlio, di un sacerdote. La partecipazione ad

essa è interdetta ai membri del clero, per quanto gravemente possano avere peccato. La seconda e

nuova forma di penitenza pubblica è quella detta semplicemente “penitenza pubblica” o “peregrina-

tio” e consiste in un vero e proprio pellegrinaggio penitenziale. Inizia con un rito preciso e al termi-

ne del tempo fissato si riceve il perdono dal sacerdote. Nato come un peregrinare senza meta, la de-

vozione ai santuari dove sono conservate le reliquie dei santi lo trasforma in un pellegrinaggio verso

una meta precisa (Roma, Santiago, San Michele, Colonia; poi Gerusalemme). Il pellegrinaggio pe-

nitenziale è reiterabile. Viene intrapreso per espiare quei peccati gravi che non raggiungono

l’efferatezza di quelli da sottoporre alla penitenza pubblica solenne. Ma il discorso cambia per i

membri del clero. Esclusi in ogni caso dalla penitenza pubblica solenne, qualora si siano macchiati

di quegli stessi crimini sono invitati a intraprendere questi pellegrinaggi, allontanandosi al tempo

stesso dalle comunità dove potrebbero creare uno scandalo difficilmente sopportabile.2

La situazione si evolve rapidamente. Nel XIV secolo la penitenza pubblica solenne non è più

praticata. La penitenza tariffata si evolve attraverso la generalizzazione dell’uso di concedere il per-

dono subito dopo la confessione dei peccati. Pertanto, all’interno del rito sacramentale la «confes-

sione» diventa più importante della soddisfazione e su di essa cade l’insistenza della pastorale: il

termine «confessione» passa a indicare il rito sacramentale. Questo processo è dovuto anche alla

degenerazione di un aspetto insito nel meccanismo della penitenza tariffata: la sostituzione delle

pene, meccanismo al quale è legata la nascita delle indulgenze. Davanti alle onerose opere peniten-

ziali previste, di stampo monastico e quindi difficilmente adattabili nella vita di tutti i giorni, nasce

l’idea di possibili commutazioni: un’opera penitenziale gravosa per la sua durata può essere com-

mutata con un’altra più intensa ma di durata minore. In genere al digiuno si sostituisce la recita di

salmi. Ma il processo una volta innescato e trovando un fondamento teologico non si fermò più. La

commutazione passa a implicare offerte in denaro come elemosine o stipendi per un determinato

2 Al di là della poesia, bisogna rendersi conto della concreta tipologia di questi pellegrini. Membri del clero o

meno, erano tutti responsabili di crimini, dai quali non sempre si erano sinceramente pentiti. Inevitabilmente in queste compagnie di pellegrini si poteva trovare un po’ di tutto. E non sempre al pellegrinaggio corrispondeva un cammino di conversione dai peccati commessi.

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numero di Messe. Si concede alle persone che se lo possono permettere di compensare con denaro

chi si sottopone al loro posto alla pratica penitenziale.

II.B.1.b Evoluzione teologica prima del Lateranense IV

Accanto al mutare della disciplina penitenziale, la riflessione teologica compie un cammino col-

laterale. Agli inizi del XII secolo la penitenza viene considerata fondamentalmente una virtù cristia-

na, ma con la grande scolastica del XIII secolo diventa prima di tutto un sacramento. Pietro Lom-

bardo è classico esponente della prima visione. La virtù della penitenza cristiana assume anche una

forma sacramentale, da comprendere all’interno della prima. Alla fine del XIII Duns Scoto è

l’esponente radicale della nuova impostazione che inquadra la penitenza partendo dal settenario sa-

cramentale. Inoltre, i teologi scolastici distinguono due tipi di pentimento. Semplificando il discorso

abbiamo “la contrizione”, pentimento pieno perché informato dalla carità soprannaturale, e

“l’attrizione”, un pentimento che non deriva dall’amore soprannaturale, ma dalla paura delle pene o

conseguenze del peccato. La distinzione verrà in qualche modo consacrata dal concilio di Trento.

Una svolta rituale, carica di conseguenze teologiche, è la forma indicativa dell’assoluzione che si

diffonde con il concilio Lateranense IV: “Io ti assolvo…”. Nella scolastica del XII secolo il segno

sacramentale della penitenza viene individuato nella manifestazione esteriore davanti al ministro

della chiesa, per sottoporsi al giudizio di chi detiene la potestà delle chiavi. L’azione umana e sa-

cramentale sul peccato, però, resta solo relativa ed espressiva dell’azione divina. La nuova formula

diffusa dal concilio favorisce nella scolastica del XIII lo spostamento d’accento sull’azione del sa-

cerdote, attraverso la quale opera la potenza divina. Così per Scoto il sacramento della penitenza

consisterà formalmente nell’azione sacerdotale assolutoria. Solo la sintesi di Tommaso riuscirà a

mantenere un equilibrio comprensivo dei vari elementi che entrano in gioco nel rito sacramentale.

Il rinnovamento teologico del secolo XII coinvolge anche il sacramento della penitenza. La di-

mensione soggettiva del sacramento è approfondita nei suoi aspetti più interiori come il pentimento

o più esteriori, come la confessione e la soddisfazione. Tre fattori culturali incidono sulla riflessione

teologica: una nuova dimensione ecclesiale del peccato, l’inserimento della penitenza nel settenario

sacramentale e il pullulare dei movimenti eterodossi. L’orientamento agostiniano prevalente fa

comprendere la chiesa come «corpo di Cristo», integrando però la dimensione spirituale di Agostino

con il nuovo interesse per la dimensione giuridica e di potere. Pertanto, la comunione spirituale dei

credenti si esprime nell’unità della fede professata e nella partecipazione ai sacramenti ecclesiastici.

Da questo punto di vista, non solo eretici, scismatici e scomunicati sono esclusi dalla chiesa, ma so-

no ritenuti tali anche i peccatori. Costoro vengono reintegrati nella comunione ecclesiale attraverso

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il sacramento della remissione dei peccati, che attua una reale incorporazione alla chiesa. Abbiamo

un chiaro parallelismo fra battesimo e penitenza sacramentale.

In modo specifico, in relazione al sacramento della penitenza tre problemi chiedero ulteriori

precisazioni: la distinzione della penitenza cristiana fra virtù e sacramento; la determinazione del

senso della confessione; la funzione che esercita la potestà sacerdotale nella remissione dei peccati

attraverso il sacramento della penitenza. I teologi iniziano a distinguere fra “penitenza interiore” e

“penitenza esteriore”. Sulla scia della distinzione fra penitenza interiore ed esteriore nasce la rifles-

sione su quale sia la penitenza autentica, quella adeguata a ottenere il perdono dei peccati. La di-

stinzione segnerà la teologia seguente.

Anche per il sacramento della penitenza il XIII secolo si presenta come il grande secolo della

teologia scolastica, durante il quale trovarono precisione e soluzione i problemi apparsi nell’analisi

del secolo precedente. Con un elemento in più a determinare la riflessione teologica: il concilio La-

teranense IV del 1215. Fulcro dello sforzo riformatore della chiesa dell’inizio del XIII, il concilio

Lateranense IV segnò una svolta importante nella teologia e nella prassi del sacramento della peni-

tenza. La “professione di fede contro albigesi e catari” afferma la possibilità di una vera penitenza

in riparazione dei peccati commessi dopo il battesimo [DS 802]. Soprattutto nelle disposizioni pa-

storali il concilio imprime una svolta determinante. Al capitolo 21 si prescrive l’obbligo della con-

fessione annuale al proprio parroco. E si tratta di un obbligo tassativo, più che la partecipazione

all’Eucaristia pasquale, dalla quale, p. es., il fedele potrebbe essere dispensato anche su consiglio

dello stesso parroco [DS 812]. La figura del parroco assume una dimensione sociale. In un periodo

in cui i movimenti ereticali si distinguevano per atteggiamenti anti-sacramentali e anti-istituzionali,

la partecipazione al sacramento della penitenza diventa un elemento di controllo sociale esterno

prima di ogni altro significato. Attraverso l’osservanza delle disposizioni conciliari si distinguono i

veri cattolici. Ma questa funzione di controllo rischia di diventare anche un “controllo interno” at-

traverso le disposizioni che limitano la libertà nella scelta del confessore. Il concilio stabilisce che

solo con licenza del proprio parroco si possa andare da un altro sacerdote per ragionevole motivo e

delibera anche sul comportamento del sacerdote in sede di sacramento, reagendo a eccessi o super-

ficialità comuni. Il sacerdote è visto sì come un medico, ma l’immagine viene spinta all’esortazione

di indagare con diligenza sulla situazione del peccatore: si apre la strada a possibili degenerazioni

che daranno fondamento alle accuse di Lutero sulla confessione come mezzo per costringere la co-

scienza dei cristiani [cf DS 812-814].

Lasciando perdere autori di minore influenza, limitiamoci a un esame del pensiero di Tommaso

e Duns Scoto. In questi ultimi autori troveremo due impostazioni distinte che riassumono in sintesi

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l’elaborazione teologica precedente e segneranno in modo determinante quella successiva. Posterio-

re alla sintesi tomista, la storia della teologia sul sacramento della penitenza registra la soluzione de-

lineata dal francescano Duns Scoto, dove trova sistematizzazione radicale la distinzione fra virtù e

sacramento della penitenza. Scoto definisce la penitenza cristiana in modo tale da farla coincidere

con l’assoluzione dell’uomo pentito: “La penitenza è l’assoluzione dell’uomo pentito, operata con

parole precise, pronunciate con la dovuta intenzione da un sacerdote avente la giurisdizione, parole

che per istituzione divina significano efficacemente l’assoluzione dell’anima dal peccato” (Duns

Scoto). Scoto parte dal paragone con il gesto battesimale. La giustificazione dell’adulto non cristia-

no può avvenire in un duplice modo: attraverso una disposizione interiore che apra per la prima vol-

ta alla grazia o attraverso il battesimo. Lo stesso avviene per la giustificazione del cristiano peccato-

re. In ogni caso, “la misericordia di Dio ha predisposto una duplice via attraverso la quale si possa

giustificare il peccato, invece di costringerlo ad un’unica via” (Duns Scoto). Allora per Scoto ab-

biamo una duplice via attraverso la quale il peccatore viene giustificato: una giustificazione sacra-

mentale e una extra-sacramentale. In entrambe elemento determinante è la fedeltà di Dio al patto nel

quale si è impegnato. Nel caso in cui un cristiano peccatore nutra nel proprio cuore un pentimento

perfetto riceve non per suo merito, ma per la fedeltà di Dio al suo patto l’effetto del sacramento,

cioè la grazia della remissione dei peccati. Nel rito sacramentale, invece, la disposizione interiore

del penitente (un qualunque pentimento, sia pure di piccola intensità) resta estranea al rito. Il suo

valore consiste nella volontà di sottomettersi al sacramento come viene dispensato dalla chiesa. E’

l’assoluzione da parte del sacerdote che, sempre in virtù del patto cui Dio si è liberamente vincolato,

ha la forza di perdonare il peccato.

Tommaso d’Aquino riesce a operare una sintesi geniale sulla penitenza. Virtù e sacramento, la

penitenza cristiana si comprende pienamente solo considerandola nell’ambito più generale della sua

idea di giustificazione e del contesto cristologico dell’azione salvifica di Cristo. Il contesto globale

nel quale i vari aspetti vengono a unificarsi è il primato assoluto dell’agire della grazia di Dio. Per

Tommaso la giustificazione dell’uomo avviene in conseguenza dell’iniziativa divina che santifica e

solo all’interno di questa iniziativa trova spazio e possibilità di attuazione la libera attività

dell’uomo. In questo modo Tommaso separa dal contesto sacramentale il mistero della giustifica-

zione del peccatore per inserirlo nel processo del ritorno a Dio (la conversione), cioè nel trattato

della grazia dove entra in gioco il rapporto fra la grazia divina e la libertà dell’uomo. La questione

dei sacramenti è inserita nell’ambito di un’economia storica, per la quale il peccatore pentito incon-

tra la figura di Cristo e della sua chiesa. Il rapporto fra le due questioni è preciso: la prima questione

precede e illumina la seconda; l’atto della penitenza o conversione a Dio viene inserito in una realtà

istituzionale (il sacramento della penitenza). Così per Tommaso la contrizione o pentimento perfetto

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è la virtù piena della penitenza, mentre nella penitenza sacramentale è sufficiente l’attrizione o pen-

timento debole. Elemento unificatore è il primato dell’azione divina in Cristo. La penitenza cristia-

na è essenzialmente un sacramento. Con l’inserimento nella realtà sociale della chiesa, per il battez-

zato la virtù della penitenza non è autonoma o estrinsecamente ordinata all’assoluzione. L’agire di

Dio conduce il battezzato peccatore alla giustificazione e alla caritas, la bontà soprannaturale. Que-

sta azione unica trova significazione tanto nell’atteggiamento penitenziale del peccatore quanto nel-

le parole di assoluzione da parte del sacerdote. Le due distinte azioni umane rinviano all’unica azio-

ne divina; la loro complessità viene unificata nel sacramento della penitenza, la cui unità rituale si

compone di una pluralità di parti. Per la «virtù della penitenza» il peccatore pentito con le cose che

fa e dice mostra in modo significativo che si è allontanato dal peccato; parimenti il sacerdote con

quanto fa e dice mostra l’azione di Dio che rimette i peccati: “di qui è chiaro che la penitenza che si

fa nella chiesa è sacramento”. E’ il rito sacramentale che riceve efficacia dal mistero della passione

di Cristo e il rito giunge alla sua perfezione con l’intervento assolutorio da parte del ministro. Il pe-

nitente che si accosta al sacramento con un pentimento imperfetto si trova davanti a Dio e alla chie-

sa con una disposizione soprannaturale “informe”. E’ il caso della “attrizione”. Non si tratta di una

finzione (fictio), che renderebbe falso e quindi invalido il rito sacramentale. La stessa attrizione per

Tommaso è una disposizione soprannaturale dell’animo; anch’essa viene da Dio, nel rapporto che

lega il primato dell’iniziativa divina e la libera accoglienza dell’uomo. Solo che questa disposizione

è ancora informe. Attraverso il rito sacramentale raggiunge la forma piena della contrizione e quindi

la giustificazione e il dono della carità soprannaturale.

II.C Riformatori e Trento

II.C.1 La posizione dei riformatori

L’approccio ecclesiologico che stiamo sviluppando verso una comprensione del sacramento del-

la penitenza chiama in gioco la visione di chiesa dei riformatori. Lutero opera un’autentica reinter-

pretazione del sacramento della penitenza. La contritio, pentimento perfetto che ottiene il perdono

dei peccati anche secondo la visione tomista, proviene dalla sola fede. La coscienza atterrita dalla

consapevolezza dei propri peccati si apre alla fede nella salvezza offerta dalla misericordia di Dio e

si pacifica nella promessa del perdono. Il rito della penitenza diventa, allora, l’annuncio della parola

di Dio che promette il perdono dei peccati. Bisogna riconoscersi peccatori davanti a Dio, ma non

c’è obbligo della confessione auricolare, un dominio sulle coscienze da parte di Roma, una sovra-

struttura antievangelica. Può essere pastoralmente utile se fatta liberamente, in vista di una maggio-

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re fede nella parola di Dio, chiedendo aiuto a un fratello sperimentato nella fede. Questo compito lo

può assolvere un qualunque cristiano, non è privilegio di vescovi e sacerdoti. L’assoluzione è

l’aiuto a essere certi nella fede che Dio giustifica il peccatore: “il sacramento della penitenza…

manca di un segno visibile e istituito da Dio, e ho detto che non è altro che via e ritorno al battesi-

mo” (de captivitate). La soddisfazione viene negata, come le opere penitenziali, finalizzate per i cat-

tolici alla riparazione del peccato; la vera soddisfazione è la novità di vita. In sintesi per Lutero la

penitenza consiste dei due momenti dell’esperienza della giustificazione dai peccati: angoscia verso

il giudizio di condanna e pacificazione nella fede certa del perdono (è via di ritorno al battesimo,

sacramento permanente).

II.C.2 Il concilio di Trento

Le decisioni del concilio di Trento vanno comprese non solo come una reazione di fronte alla

visione innovativa dei riformatori, ma nel contesto della situazione pastorale dell’epoca. Il sacra-

mento della confessione è in crisi profonda; il popolo cristiano mostra una diffusa disaffezione nei

suoi confronti. Spesso viene vissuto in modo formale. Accanto a un tale vissuto, e in qualche modo

essendone causa, troviamo comportamenti dei confessori che destano più di una critica. Giovanni

Eck scrive a p. Adriano VI lamentandosi della generale ignoranza sulla Scrittura e le opere dei Padri

da parte dei preti, simila a quella di un asino sulla musica. Si registrano veri e propri abusi: da

un’estrema leggerezza nei confronti del sigillo sacramentale a venali richieste di elemosine imposte

come penitenza, fino a sollecitazioni indebite favorite dall’intimità del colloquio con donne. Sulla

scia di Pietro Lombardo, pensatori come Erasmo riprendono e diffondono l’idea della confessione

rivolta unicamente a Dio. Di fronte a una tale realtà, bisognosa di un’urgente riforma, si precisano

due possibili linee d’intervento. La maggior parte dei pensatori, anche cattolici, si trova d’accordo

con Erasmo da Rotterdam quando sostiene di dover reinserire la pratica del sacramento della peni-

tenza all’interno di una dinamica autentica di conversione del cuore. A Trento, però, avrà la meglio

una diversa impostazione teologica e pastorale. Il concilio vorrà mantenere in vita quello che ritiene

il rito tradizionale del sacramento e cercherà di giustificare dottrinalmente l’accusa esplicita dei

peccati come realtà essenziale del sacramento della penitenza. La conversione, poi, non si pone

normalmente al di fuori del potere affidato alla chiesa.

Il decreto sulla penitenza si compone di 9 capitoli e 15 canoni. Sia il decreto che i canoni seguo-

no il medesimo sviluppo: nell’economia della nuova alleanza esiste un sacramento della penitenza,

istituito da Cristo, per mezzo del quale il batezzato peccatore viene riconciliato con Dio. Questo sa-

cramento si distingue dal puro ricordo del proprio battesimo; all’interno del rito il penitente compie

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tre atti fondamentali che vengono esaminati e precisati dal concilio. Infine, l’attenzione viene posta

su alcune questioni che riguardano la figura del ministro, tra cui il valore giudiziario

dell’assoluzione e la potestà dei vescovi di riservare a sé il perdono di particolari peccati. Nel valu-

tare la scelta che necessariamente dobbiamo fare, è importante notare come il concilio di Trento

mostra diversi comportamenti nelle varie sessioni. Il decreto sulla giustificazione, per esempio, ha

tutto il suo peso sulla dottrina, molto più che nei canoni seguenti. Per il sacramento della penitenza

è tutto il contrario. Le discussioni in aula si incentrarono sui canoni, formulati in risposta alle pro-

posizioni dei riformatori presentate all’attenzione dei teologi. Ed è soprattutto sui canoni che cade il

peso dell’autorità magisteriale del concilio. Il decreto venne discusso e approvato solo negli ultimi

giorni.

Il valore dogmatico dei singoli canoni va precisato volta per volta. Sullo sfondo emerge la que-

stione intorno al potere sacramentale della chiesa. Semplificando una realtà difficile da esporre in

poche righe, per Lutero non esiste alcuna realtà (potere) fra la Parola di Dio e la fede dell’uomo che

l’accoglie. La visione cattolica integra questa posizione con la fede nella presenza di Cristo lungo la

storia attraverso uomini e gesti, una presenta fondata sulla sua volontà e distinta da quella nella sua

Parola. Trento non esprime ancora una visione sacramentale della chiesa, però ne difende la pote-

stas. Questa differenza di vedute emerge chiaramente nei canoni sulla penitenza. In primo luogo e-

siste un sacramento della penitenza distinto dal battesimo: è il senso dogmatico del ca. 2 (DS 1702).

La giustificazione non si riduce alla fede fiduciale (aprendo il problema complesso fra penitenza e

giustificazione). Pur rispettando le posizioni scotiste sul valore dell’assoluzione sacerdotale e le due

vie di riconciliazione, il concilio si sposta più sulla linea tomista: il valore della penitenza in rappor-

to a una sola via di giustificazione (DS 1704 e capp. di riferimento). In sintesi, Trento si pronuncia

con forza su quattro punti: 1. Per volontà di Cristo esiste nella chiesa un vero e proprio sacramento della penitenza per i battezzati peccato-ri. 2. Non si può escludere il riferimento di Gv 20 al sacramento della penitenza e non si può intenderlo solo come predicazione del Vangelo [Il testo præcipue instituit eum… vuole non escludere dal concetto di istituzione il passo di Mt 16,18]. 3. Il sacramento della penitenza non è riducibile al battesimo per vari motivi. Contiene un atteggiamento peni-tenziale del peccatore e l’assoluzione sacerdotale. Fondamentalmente Trento sposa la posizione di Tommaso, con opportune correzioni per non delegittimare lo scotismo: p. es., sull’assoluzione “nella quale si trova in mo-do specifico la forza della stessa” salvando così la posizione scotista. 4. Non è accettabile la posizione luterana che riduce la penitenza alla dinamica del passaggio dall’angoscia per i peccati alla consolazione per la fede nel perdono. La penitenza comprende come elementi essenziali gli atteggiamenti del penitenti che sono la contrizione, la confessione e la soddisfazione.

In modo particolare abbiamo l’idea di contritio che il concilio vede in rapporto al sacramento at-

traverso l’idea di “votum”. E’ importante notare come la posizione conciliare si distingua da quella

protestante perché la concezione cattolica della contrizione non comporta solo la cessazione dal

peccato e la novità di vita, ma anche l’avversione al peccato, un atteggiamento spirituale inconcepi-

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bile per la visione dei riformatori. Il concilio di Trento introduce l’idea di attrizione in modo sem-

plice, per dare valore cristiano a un qualunque atteggiamento spirituale contro il peccato (per qua-

lunque motivazione e con qualunque forza interiore) e per dichiararla sufficiente in riferimento al

sacramento della penitenza (salvandone la verità minimale). Trento, poi, difende il carattere libero

della contrizione come della attrizione, contro la posizione protestante che qualificava il sacramento

della penitenza come una sovrastruttura che si ritorceva contro la libertà dei figli di Dio. Trento af-

ferma che l’uso della confessione dei peccati all’interno della penitenza cristiana è di diritto divino.

Questo nasce dalle esigenze dello stesso istituto penitenziale e dell’esercizio del potere delle chiavi.

Trento difende la concezione cattolica che lega la validità del sacramento della penitenza

all’esistenza della necessaria giurisdizione. Per il suo carattere giudiziario il ministro del sacramen-

to non può assolvere chi non si configura come suo ‘suddito’. Obiettivo principale di Trento è la di-

fesa della legittimità della riserva dei casi.

III Riflessioni conclusive

Una sintesi sistematica degli aspetti più attinenti alla teologia sacramentaria per quanto concerne

il sacramento della penitenza dovrà essere integrata con il corso sugli aspetti morali e pastorali dello

stesso sacramento. Limitandosi alla nostra prospettiva, la sintesi dovrà tenere conto delle varie sot-

tolineature offerte dalla riflessione della chiesa lungo i secoli: la chiesa dei padri e dei secoli succes-

sivi non sono in contraddizione, ma hanno portato contributi diversi alla comprensione dei dati del

NT. Dalla riflessione patristica abbiamo che l’esistenza di una penitenza cristiana (conversione

post-battesimale) è intelligibile all’interno del mistero della riconciliazione. La teologia seguente ha

formalizzato in che modo la penitenza cristiana si verifichi nella comunità cristiana, precisamente

come espressione sacramentale del mistero della riconciliazione nella chiesa.

III.A Esistenza e «legittimità evangelica» di una penitenza cristiana

In sede storica non si può mettere in discussione l’esistenza di una penitenza cristiana, intesa

come conversione dai peccati commessi dai credenti, una metanoia post-battesimale che si esprime

a livello ecclesiologico. Questo è un fatto evidente nella storia della comunità cristiana, fin dalla sua

nascita. Non si può indicare alcun periodo storico dove non fosse previsto oppure organizzato dalla

chiesa un qualche rito penitenziale. Vivendo questa penitenza la chiesa obbedisce alla volontà di

Cristo. L’espressione scolastica e poi tridentina di questa realtà ecclesiale pone l’accento sul potere

permanente della chiesa di legare e sciogliere, cioè perdonare i peccati. La santità della chiesa è sta-

ta messa in questione dal peccato dei cristiani fin dai primi tempi della chiesa apostolica (cf At 5,

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1Cor). Ma di per sé, nessun peccato esclude irrevocabilmente dalla chiesa, cioè senza alcuna possi-

bilità di riconciliazione: neanche l’idolatria o l’eresia. Ogni cristiano è un peccatore nonostante la

purificazione battesimale. La visione biblica che distingue i peccati fra volontari e involontari si tra-

sforma attraverso la riflessione patristica nella distinzione fra peccati capitali (gravi, mortiferi o

crimini) e lievi (non capitali, quotidiani). La chiesa elabora liste e cataloghi dei peccati. Tuttavia,

solo i peccati capitali pongono in una situazione spirituale incompatibile con la santità della chiesa.

Questo duplice convincimento e la prassi conseguente hanno fin dall’inizio un riferimento singolare

con l’eucaristia: l’eucaristia coincide con la comunione ecclesiale, l’esclusione dalla comunione ec-

clesiale coincide con l’esclusione dall’eucaristia.

III.A.1 Vangeli e lettere paoline

Le redazioni evangeliche di Lc e soprattutto quella di Mt presentano una chiesa che ha già af-

frontato il problema dei cristiani peccatori. A essi viene rivolto l’invito alla penitenza, nella co-

scienza di essere in armonia col messaggio di Cristo. Lc 15 potrebbe essere un commento di passi

precedenti come Lc 5,32; 17,3s. In realtà Lc mostra una certa predilezione verso la penitenza e la

conversione, ma si muove sempre in un contesto di “prima accoglienza” del regno, per quanto il re-

gno in Lc non sia mai una realtà solo escatologica, ma si attualizzi nella chiesa. Per Mt la vita della

chiesa è riferita alla presenza di Gesù risorto in mezzo ai suoi (Mt 28,18-20). In quest’ottica devono

essere letti i passi di Mt 9,1-8; 16,13-20; 18,12-20. Rispetto ai passi paralleli di Lc 5 e Mc 2, Mt 9

legge l’episodio della guarigione del paralitico e del potere di Gesù di perdonare i peccati in funzio-

ne del potere concesso agli apostoli e alla chiesa: “la folla… rese gloria a Dio che aveva dato un tale

potere agli uomini” (Mt 9,8), anticipando lo stesso tema trattato in Mt 16; 18. Scrivendo a cristiani,

Mt sottolinea come l’autorità del Figlio sia presente nella chiesa attraverso gli apostoli. I versetti

quasi identici di Mt 16,19 e Mt 18,18 indicano nella chiesa un potere in rapporto al peccato dei

membri della comunità:

Mt 16,19: “[Gesù a Pietro:] «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà lega-to nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».

Mt 18,18: “[Gesù ai discepoli] In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo.”

E’ legittimo pensare che Mt 18 pensi alla funzione apostolica, per estensione di Mt 16, e non al-

la comunità intera? Sembra di sì per vari indizi. Il loghion è diretto ai discepoli (i dodici), cf il “tu”

dei vv. 15-17 e il “voi” del v. 18. Mt 18 appartiene a un contesto di giudeo-cristianesimo, dove la

comunità è gerarchizzata, certamente in modo diverso dai capi giudei (Mt 23,1-12). Ma niente in-

duce a pensare che la novità della comunità cristiana sia nel porre essa stessa atti autoritativi a pre-

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scindere da una autorità al suo interno. Il brano di Mt 18 è su quella che verrà detta la “penitenza

seconda”: verso i fratelli che peccano si incentra l’azione degli apostoli, ai quali è stato affidato il

potere di legare e sciogliere. I due termini nel contesto giudaico sono in rapporto all’interpretazione

autentica della legge mosaica: aprire indica permettere un comportamento; chiudere indica proibir-

lo. Chi ha il potere d’interpretazione, è in grado di giudicare sui comportamenti e decidere sulle per-

sone, fino alla loro scomunica. Ma tutto questo sempre in relazione alla salvezza, misurata sulla mi-

sericordia del Padre. Di fatto non esistono che due luoghi spirituali per il cristiano, che passa

dall’uno all’altro: la chiesa, comunione con Dio in Cristo, e il mondo, sotto il dominio del maligno,

ma che non coincide in assoluto con l’esclusione dalla salvezza. La chiesa si avvia verso una com-

prensione del potere apostolico (reale nei confronti dei peccati e dei peccatori) e della situazione del

cristiano peccatore (posto in una situazione incompatibile con la comunità ecclesiale).

A questo punto possiamo fare una lettura del passo fondamentale di Gv 20,21-23 alla luce di una

sintesi già possibile. Il necessario riferimento è la coscienza della chiesa apostolica del suo rapporto

con il Cristo risorto (1Gv 1,2s). Questa «continuità della chiesa con Cristo», secondo il NT implica i

seguenti aspetti: presenza di Cristo risorto e realtà del tempo della chiesa. La presenza del Cristo ri-

sorto «crea» gli apostoli e articola la nuova comunità (la pentecoste giovannea in Gv 20,22 con

l’insinuazione di una nuova creazione attraverso l’alitare di Gesù). Pertanto, il tempo della chiesa

appare come il tempo della remissione dei peccati (At 2; Eb 7-10) e insieme come il tempo dove si

rivela l’exousia del Figlio sul peccato, dopo avere offerto se stesso come espiazione (Eb), propizia-

zione (Rm 3; 1Gv 2), riscatto (Mt 20,25-28). L’exousia del risorto coincide con il dono dello Spiri-

to; si esprime e opera nell’annuncio che conduce alla conversione e al battesimo, ma non si limita a

questi gesti (cf, p. es., l’aspetto di Gesù medico con un chiaro riferimento ecclesiologico in Mt 9,1-

8; Lc 10,25-37).

Gv 20,21-23

Questo brano ha ricevuto dal concilio di Trento un’attenzione particolare che riassumiamo: per

la fede cattolica non si può escludere da questi versetti un’interpretazione penitenziale (DS 1703).

L’obbligo è “negativo”: il concilio non fornisce un’interpretazione normativa, ma condanna chi e-

scludesse la possibilità di riferire questo brano anche a un qualche rito penitenziale per i battezzati.

Siamo in quella che viene chiamata la “pentecoste giovannea”. Gesù si rivela ai discepoli come il

Signore dello Spirito e costituisce gli apostoli come “una nuova creazione” (“alitò su di loro” al v.

22 in parallelo a Gn 1,2; 2,7) rendendoli partecipi della sua missione (v. 21). Il dono dello Spirito è

espressione della presenza di Gesù.

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Il dono dello Spirito e la missione affidata ai discepoli sono in relazione al perdono e alla riten-

zione dei peccati. Una corrente esegetica, nata con la riforma, interpreta il versetto v. 23 come un

puro «annuncio del Vangelo» (cf in questo senso Lc 24,47-49). Ma questa posizione sembra diffici-

le da essere sostenuta allo stesso livello esegetico per vari motivi. La predicazione della conversione

“scioglie” o “restringe” in misura dell’accoglienza della fede e solamente in senso traslato la si può

riferire agli apostoli in quanto tali. In realtà la predicazione apostolica annuncia la parola di Dio,

cioè la persona di Gesù Cristo, efficace in quanto crea e giudica. Il giudizio sul mondo che nello

Spirito santo la testimonianza apostolica oggettivamente opera (è la linea della teologia giovannea),

va misurata con il rapporto intrinseco, secondo la stessa teologia giovannea, fra parola e segno. Ora

la domanda da porre è la seguente: a quale segno si riferisca questo annuncio? Molti autori prote-

stanti si pronunciano per il battesimo. Ma esiste una reale ragione esegetica per questa affermazione

oppure la risposta nasce da una valore dato in precedenza alla comunità apostolica? Esistono, al

contrario, alcune ragioni esegetiche per precisare in modo diverso le parole di Cristo.

Gv 20 è in rapporto evidente con Mt 18,18: i versetti contengono lo stesso loghion del Signore.

Il Figlio dell’uomo è costituito giudice e con la sua vita l’evangelo annunciato introduce lo scisma

nel mondo (Gv 9,39). I discepoli sono dichiarati competenti a giudicare se qualcun corrisponde al

messaggio, prima e dopo il battesimo. Il vero giudizio sul peccato è la vittoria su di esso (Gv

12,31s). Il Figlio è inviato per la salvezza (Gv 3,16). La partecipazione apostolica al giudizio del

Figlio dell’uomo è attuale, in quanto gli apostoli giudicano il peccato. Cristo per mezzo di loro vin-

ce il peccato nell’uomo peccatore, cioè lo perdona. Allora, Mt 18 e Gv 20 mettono in rilievo un a-

spetto della missione apostolica: la pienezza del potere e della missione di Cristo affidata agli apo-

stoli riguarda anche il peccato e i peccatori nella chiesa! Cioè il potere di “sciogliere / legare” (Mt),

“perdonare / ritenere” (Gv) non si riferisce solo all’ammissione / non ammissione nella chiesa, veri-

ficando la verità della conversione battesimale, ma anche in rapporto a chi si è già aggiunto alla

comunità dei credenti: Mt presenta un evidente contesto ecclesiologico, Gv fornisce

un’interpretazione penitenziale di Gv 13. La coppia “legare / ritenere” in concreto presenta verbi

equivalenti nel giudicare incompatibile con la novità della comunità cristiana un determinato com-

portamento peccaminoso, a tal punto da espellere il responsabile dalla stessa comunità. La coppia

“sciogliere / perdonare” in concreto vuole dire riconoscere l’autenticità della conversione per la

quale ci si è adoperati con il consiglio, la correzione, la preghiera. Ma tutto questo si compie nello

Spirito. La comunità si accresce solo nella potenza dello Spirito di Cristo (At e la conversione batte-

simale). Così solo nello Spirito si opera un tale giudizio (Gv 20), perché il giudizio escatologico del

Figlio dell’uomo si attua per tutti, verso quelli “di fuori” e i cristiani (2Pt; Gc; Gd; Ap). In questo

senso abbiamo per Mt e Gv una corrispondenza, solidarietà fra l’agire umano e divino: nell’azione

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apostolica nei confronti del cristiano peccatore si esprime un aspetto dell’azione dello Spirito di

Cristo che edifica la chiesa e perciò la giudica e la salva. Tutto questo implica necessariamente una

valutazione corretta del «giudizio» divino.

La prassi penitenziale del NT presenta una profonda consonanza tra i responsabili della comuni-

tà e la comunità stessa: la riconciliazione dei cristiani peccatori interessa tutti, ma particolarmente i

responsabili della comunità. Allora, la partecipazione apostolica dell’exousia di Cristo verso i cri-

stiani peccatori è stata trasmessa a tutta la chiesa? Il problema in gioco è l’apostolicità della chiesa.

Dal punto di vista cattolico non sembra rinunciabile l’affermazione della necessità del riferimento

della comunità e dei suoi membri che riconciliano il peccatore a una «presidenza della riconcilia-

zione». Questa presidenza della riconciliazione è un aspetto della funzione di guida della comunità

da parte dei suoi responsabili. Nel linguaggio tradizionale della teologica cattolica è quanto viene

assicurato dalla trasmissione del sacramento dell’ordine. A livello istituzionale, questa convinzione

viene espressa con l’esclusione, accettata volontariamente o imposta, dalla vita della comunità: una

penitenza cristiana è globalmente presente fin dalle origini della chiesa, sia pure in forme diversa-

mente istituzionalizzare (cf NT e Pastore di Erma). I testi di Mt 18 e Lc indicano nella chiesa apo-

stolica la coscienza di una legittima penitenza cristiana. Le tentazioni rigoriste sono state eliminate

fin dalle crisi dovute all’idea di chiesa portata avanti da novaziani e i montanisti. Dal NT abbiamo

un dato certo: il Padre del Signore Gesù Cristo continua a chiamare a conversione il popolo della

nuova alleanza e non solo attraverso il kerygma e il battesimo. Questo dato irrinunciabile della rive-

lazione viene dall’insieme di testi come 2Cor 5, Mt 18 e Gv 20 (l’intenzione penitenziale contenuta

in Gv 20 è definita da Trento), dove la riconciliazione dei cristiani è un aspetto della missione apo-

stolica. Pertanto la penitenza cristiana è legittimata dal NT: Dio Padre chiama anche il cristiano al

pentimento; il ministero della penitenza cristiana appartiene alla missione apostolica, che ricalca

l’atteggiamento misericordioso del Padre. Certamente con la scolastica il discorso ha avuto una ri-

duzione alla sola potestà delle chiavi. Ma una chiara «legittimità evangelica» soggiace alle defini-

zioni tridentine sul sacramento della penitenza: appartengono alla fede cattolica l’esistenza di un

potere delle chiavi che si estende alla remissione dei peccati dei cristiani e la pertinenza della con-

fessione dei peccati alla penitenza cristiana.

III.B Mistero di riconciliazione e penitenza

Se la penitenza cristiana è un fatto, la sua piena comprensione avviene all’interno del mistero di

riconciliazione, pur non essendone l’unica espressione. Il passaggio esposto è dalla realtà fattuale

alla sua piena intelligibilità. Dal momento originario con cui l’uomo è inserito nella chiesa (batte-

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simo) ogni successiva riconciliazione avviene nella chiesa e con la chiesa (“comunità riconciliata”).

Molti gesti ecclesiali sono gesti di riconciliazione: ascolto della parola, celebrazione eucaristica, o-

pere di carità, spirituali e corporali, ascesi varie. La penitenza cristiana è una partecipazione singo-

lare al mistero della riconciliazione; la teologia ne ha messo in evidenza il carattere «giudiziale», da

intendersi in senso biblico: scopo intrinseco al giudizio divino è la salvezza dell’uomo.

La nuova alleanza è un mistero di remissione dei peccati, di riconciliazione e di pace. Non si

tratta di doni che si aggiungono all’alleanza nuova, ma coincidono con essa (Ef 2). La stessa allean-

za non è che il popolo costituito nella pace, la chiesa, comunità riconciliata da Dio (cf 2Cor 5).

L’azione divina che riconcilia e perdona il peccato è indicata dalla Scrittura come un «giudizio».

Soprattutto in Gv la morte e la glorificazione di Gesù sono il giudizio (Gv 12): in esse appare la na-

tura del peccato, la sua radicale impotenza e falsità. Il peccato che viene giudicato è la negazione

del Figlio di Dio, della carità di Dio (1Gv 3s). Questo giudizio avviene con il dono dello Spirito (Gv

20 e Gv 3). La presenza dello Spirito perdona i peccati e crea i figli di Dio. Al tempo stesso qualifi-

ca il tempo della chiesa, dei testimoni e discepoli di Cristo (Gv 12 ne indica la presenza nel mondo).

Ma esiste anche una testimonianza dello Spirito che accusa nell’intimo ogni credente e attraverso la

voce apostolica li chiama a conversione (Ap 1-3; 1Gv 4,3).

La santità della chiesa ha un preciso rapporto con la remissione dei peccati. Nella chiesa si e-

sprime la missione dello Spirito santo. La chiesa è cresciuta sempre più nella consapevolezza di es-

sere ordinata alla remissione dei peccati. Per questo li perdona, non solo attraverso il battesimo, ma

anche attraverso un gesto di perdono verso i peccati dei battezzati, espressione della missione dello

Spirito santo (esegesi di Mt 16 per Origene e Agostino). Se l’incompatibilità fra peccato e santità

della chiesa, porta nel peccatore alla sua esclusione dalla comunione ecclesiale, nella chiesa condu-

ce a una fondamentale «intenzione» salvifica nei suoi confronti, perché tenda alla pace. La stessa

esclusione dalla comunione deve essere interpretata in questa direzione. La missione dello Spirito si

esprime nell’unica chiesa che esclude e riconcilia. Il gesto del vescovo è per sua natura un gesto

pienamente ecclesiologico, che si esprime nella struttura normalmente comunitaria del processo pe-

nitenziale, dalla separazione alla riconciliazione. A livello liturgico tutta la comunità afferma la se-

parazione dal peccatore, fa corpo con la correzione del vescovo e la sua preghiera d’intercessione,

prende parte alla preghiera di riconciliazione, fino all’imposizione delle mani da parte del vescovo.

Esistono ragioni teologiche per dare specificità al sacramento della penitenza come gesto che attua

una relazione intra-ecclesiale di giudizio e riconciliazione. Il NT (soprattutto Mt 18) presenta conti-

nuità e rottura con le tradizioni giudaiche (prefigurazioni di quelle cristiane). La continuità è nella

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visione della salvezza come comunione con Dio all’interno del popolo che Lui si costituisce;3 la

novità e pienezza cristiana sono nel riferimento a Cristo della salvezza e del popolo.

Non esiste perciò un discorso di grazia che non sia un discorso di chiesa e non esiste un discorso

di peccato che non sia un rifiuto della dimensione ecclesiale della salvezza. Di conseguenza non e-

siste recupero della salvezza che non sia recupero di riconciliazione e pace con la chiesa: la comuni-

tà cristiana è espressione propria e non facoltativa del mistero dell’alleanza, cioè del popolo di Dio.

Il peccato di chi appartiene all’espressione storica, visibile, richiede una vera riammissione nella

comunità, attraverso un gesto umano di pace e riconciliazione. La riconciliazione fra comunità e

peccatore come derivazione (anche se non l’unica) del mistero di riconciliazione lo esprime a titolo

proprio. Il rapporto fra azione riconciliatrice della chiesa e la missione dello Spirito santo ha portato

a considerare il giudizio sul peccatore e sul suo pentimento e la riconciliazione come tale in una

prospettiva «spirituale». Vi è una tendenza ad assegnare il potere di rimettere i peccati dei battezzati

solo ai membri spirituali della chiesa. In Oriente una lettura unilaterale di Origene condusse Simeo-

ne il nuovo teologo a teorizzare questo discorso; in Occidente vengono messi in evidenza prima i

confessori (Cipriano), poi i monaci. La tradizione monastica, soprattutto orientale, affida al padre

spirituale un compito terapeutico-spirituale per la purificazione dal peccato e dalle impronte che la-

scia nel cuore dell’uomo.

III.C Penitenza in una comunità ordinata gerarchicamente

Il rito della penitenza cristiana si verifica all’interno della comunità cristiana, dove esige ogget-

tivamente una presidenza della riconciliazione. Oggettivamente, cioè in relazione al fondamento

della parola di Gesù, che si pone al di sopra di ogni realizzazione storica ecclesiale. La presidenza

della penitenza cristiana implica due presupposti: l’affidamento della presidenza a coloro che hanno

ricevuto il sacramento dell’ordine e il concetto di “giurisdizione”, collegato all’aspetto giudiziale

esaminato nel punto precedente. Nel peccatore, condotto a conversione, il mistero della riconcilia-

zione si esprime nella virtù (atteggiamento) della penitenza, che all’interno del rito della penitenza

si distingue in contrizione, confessione, soddisfazione. La chiesa è una realtà dell’economia trinita-

ria (LG 4). In un certo senso ne è immagine, anche attraverso l’imperfezione che verifica il valore

dell’immagine e la fa tendere al superamento verso il pieno compimento di se stessa. Staccarsi dalla

chiesa è immagine di un distacco dalla stessa economia, come essere riammessi nella chiesa è par-

tecipare alla pacificazione. La teologia (Ambrogio, Agostino) ha elaborato una visione unitaria che

3 Non si pecca contro la salvezza, senza escludersi da un popolo e non si accoglie la salvezza senza accettare di

appartenere a un popolo, esserne aggregati di fatto, esserne accolti.

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ingloba i riti sacramentali del battesimo e della penitenza. Il mistero della remissione dei peccati è

unico, come uno solo è lo Spirito che suscita la conversione nel peccatore fino a fargli chiedere il

battesimo o la riconciliazione nella chiesa. In modo parallelo, nella chiesa il ministero del perdono

attraverso lo Spirito santo è sostanzialmente unico, ma reso esplicito in modi diversi (battesimo e

penitenza, per Ambrogio; battesimo, penitenza più grave e penitenza quotidiana per Agostino). La

distinzione specifica fra battesimo e penitenza sta nel fatto che il primo sacramento viene dato al

non-cristiano, il secondo a chi è già stato battezzato.

III.C.1 La presidenza della penitenza

Il mistero della riconciliazione si esprime nell’intera comunità (NT e padri). La chiesa è il luogo

della remissione dei peccati, dove lo Spirito opera la remissione. Concretamente si tratta della chie-

sa locale, il cui vescovo è moderatore della penitenza in rapporto con la propria comunità (LG 26).

Lungo la storia la chiesa ha dovuto confrontarsi con due tendenze: la volontà di condizionare il mi-

nistero della riconciliazione (ma non solo questo) alla santità dei ministri e l’estensione o riserva

dello stesso ministero a uomini spirituali. La chiesa ha reagito con forza contro la prima tendenza:

non esistono due chiese, la chiesa istituzionale e quella dello Spirito. Verso la seconda la posizione

è stata più sfumata, specie in Oriente, dove si ammette la guarigione spirituale per intervento dei

monaci (forse abbiamo l’estensione del ministero penitenziale a livelli istituzionali non formalmen-

te gerarchici). Certamente l’aspetto gerarchico del ministero penitenziale divenne sempre più chiaro

e unilaterale sia in occidente che in oriente (pseudo-Dionigi) per motivi ecclesiologici (lotta contro

le eresie) e per l’evoluzione dell’istituto penitenziale (perdita del senso comunitario). La concezione

cattolica del ministero gerarchico nel popolo di Dio suppone il sacramento dell’ordine (cf l’offerta

eucaristica presentata in persona o in nomine Ecclesiæ). Eucaristia e penitenza sono sempre gesti

rituali di natura ecclesiale, cioè comunitaria. Tuttavia, non sembra accettabile la posizione radicale

per cui solo una loro “espressione” esplicitamente comunitaria della loro propria natura comunitaria

assicurerebbe la validità dei riti (p. es. invalidando la Messa celebrata dal solo sacerdote, cf Paolo

VI, Mysterium fidei ). Invece, dalla fede della chiesa abbiamo due requisiti per la validità del rito

penitenziale cristiano: la necessità del secondo grado del sacramento dell’ordine per il ministro e la

debita giurisdizione. Il concilio di Trento definisce di fede il potere di legare e sciogliere proprio di

vescovi e presbiteri. Invece, per la giurisdizione l’intervento nel cap. 7 precisa unicamente l’oggetto

formale della riserva dei casi (DS 1686-1688). La potestà di giurisdizione è considerata determinan-

te per il sacramento, perché si stabilisce di diritto un rapporto effettivo con la comunità cristiana

(Trento accosta le due affermazioni). Il ministero pastorale è ordinato alla comunità cristiana, origi-

nata e strutturata dall’eucaristia. La penitenza cristiana, riconciliazione con Dio nella chiesa, si e-

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sprime come pace in una comunità ecclesiale storica. Sta qui il fondamento teologico dell’invalidità

dell’assoluzione sacramentale in mancanza della debita giurisdizione (CJC 966).

III.D Il sacramento della Penitenza

Infine, la penitenza cristiana, particolare espressione nella storia del mistero della riconciliazione

nella chiesa, è un sacramento. La fede della chiesa ha scoperto in questo rito di riconciliazione per i

cristiani penitenti la categoria teologica di “sacramento istituito da nostro Signore Gesù Cristo”.

Come azione di Cristo e del suo Spirito la penitenza cristiana è un rito sacramentale costitutivo della

chiesa:

quelli che [vi] si accostano ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e insieme si ri-conciliano con la chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità l’esempio e la preghiera. (LG 11)

Sacramento della penitenza o della riconciliazione indica che la penitenza e la riconciliazione

hanno altre forme per essere vissute, all’interno dell’unico mistero di riconciliazione (cf CCC 1434-

1439). La forza e l’efficacia di queste forme risiede nell’essere poste all’interno di quella «comunità

riconciliata» che è la chiesa. La tradizione della chiesa ha precisato che alcuni peccati “separano”

dalla comunione con la chiesa, comunità riconciliata, e pertanto si rende necessario un gesto eccle-

siale e sacramentale perché il cristiano peccatore e convertito ritorni alla piena “pace con Dio” e

“pace ecclesiale”. M. Xiberta ha avanzato l’ipotesi di una pax cum ecclesia che precederebbe la pax

cum Deo: in termini scolastici, la prima sarebbe quasi la res et sacramentum del rito e la seconda la

res. Ma l’ipotesi presenta dei limiti che non la fanno preferire alla visione tradizionale dei padri,

per cui pace con la chiesa e pace con Dio vengono a identificarsi (per quanto competa al giudizio

umano). Infatti, la pace con la chiesa non è ancora la remissione dei peccati, che nel cristiano pecca-

tore viene a coincidere con l’essere pienamente ricostituito nell’alleanza, ridiventando pienamente

«chiesa». Inoltre, ed è un’obiezione più grossa, la chiesa sembra diventare una sorta di ipostasi fra

Dio e il cristiano peccatore. La realizzazione storica del mystêrion invece, la pone su un altro piano,

quello sacramentale: il mystêrion divino si realizza nella storia attraverso segni e riti ecclesiali.