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1 La battaglia di Ravenna (1512) Indice 1. Premessa 2. La rivoluzione militare del Rinascimento 3. Il contesto storico 4. Le marce di avvicinamento e gli schieramenti 5. La battaglia 6. Conclusioni Appendice A Documenti D.1. Le forze in campo secondo i “Diarii” di M.Sanuto D.2. La lettera di Fabrizio Colonna D.3. La lettera di Baiardo Bibliografia Illustrazioni O maledetto , o abominoso ordigno, Che fabricato nel Tartareo fondo Fosti per man di Belzebù maligno Che ruinar per te disegnò il mondo, All’inferno, onde uscisti, ti rasigno.” Così dicendo lo gittò in profondo. (Orlando Furioso, Canto Nono) 1. Premessa La battaglia di Ravenna e, ancora di più, il susseguente feroce saccheggio della città da parte delle truppe francesi vittoriose hanno lasciato nell’immaginazione popolare e nella memoria storica dei ravennati un lungo strascico che, come chi scrive può personalmente testimoniare, non era ancora esaurito nell’ultimo dopoguerra.

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La battaglia di Ravenna (1512)

Indice

1. Premessa

2. La rivoluzione militare del Rinascimento

3. Il contesto storico

4. Le marce di avvicinamento e gli schieramenti

5. La battaglia

6. Conclusioni

Appendice A

Documenti

D.1. Le forze in campo secondo i “Diarii” di M.Sanu to

D.2. La lettera di Fabrizio Colonna

D.3. La lettera di Baiardo

Bibliografia

Illustrazioni O maledetto , o abominoso ordigno, Che fabricato nel Tartareo fondo Fosti per man di Belzebù maligno Che ruinar per te disegnò il mondo, All’inferno, onde uscisti, ti rasigno.” Così dicendo lo gittò in profondo. (Orlando Furioso, Canto Nono)

1. Premessa La battaglia di Ravenna e, ancora di più, il susseguente feroce saccheggio della città da parte delle truppe francesi vittoriose hanno lasciato nell’immaginazione popolare e nella memoria storica dei ravennati un lungo strascico che, come chi scrive può personalmente testimoniare, non era ancora esaurito nell’ultimo dopoguerra.

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Naturalmente, come succede in questi casi, tali ricordi si concentravano su episodi di interesse soprattutto locale, quali certe vicende del suddetto saccheggio o della difesa della città nei giorni precedenti alla battaglia, o la forte impressione lasciata dai cumuli di morti rimasti sul campo. Tuttavia la battaglia di Ravenna merita di essere rivissuta anche in un contesto più ampio, perché si trattò di un evento di portata più che italiana, europea, di un episodio, senza dubbio il più violento e sanguinoso, del confronto fra due vaste alleanze che, a livello diplomatico se non militare, stava allora interessando l’Europa intera. Più ancora che per i suoi effetti nell’ambito di tale confronto, che, come vedremo, furono in definitiva sorprendentemente modesti, la giornata di Ravenna è però significativa come pietra miliare nella complessa evoluzione degli eserciti europei e del loro modo di combattere, che costituisce un aspetto importante e caratteristico del passaggio dal Medioevo all’Età Moderna. Alla nostra ricostruzione della battaglia stessa ci è quindi parso necessario far precedere una breve analisi di tale evoluzione, che era in corso già da alcuni decenni, nonché una succinta narrazione della sequenza di eventi che condusse Francia e Spagna (e anche truppe italiane e tedesche) a darsi battaglia nella pianura romagnola. La ricostruzione di una battaglia, soprattutto se avvenuta in tempi ormai lontani, presenta sempre grosse difficoltà e non può quindi non avere, anche nel migliore dei casi, un carattere in qualche misura congetturale; il fatto è che una battaglia è un evento complesso di cui anche i testimoni oculari, ivi compresi quelli che dovrebbero essere i più qualificati, come i capi delle due parti, difficilmente possono avere una visione che non sia parziale, oltre che più o meno consciamente interessata; inoltre gli scritti che ci hanno lasciato non si propongono, di regola, un’analisi sistematica dell’evento narrato, ma ne riassumono succintamente solo i tratti che sono parsi più importanti ai loro autori. Il caso della battaglia di Ravenna è relativamente fortunato, perché i testimoni oculari sono numerosi e perché alcuni di loro erano effettivamente in posizione di comando; tuttavia non sempre queste fonti si prestano ad un’interpretazione univoca ed inoltre, mentre presentano un buon grado di concordanza su una serie di aspetti fondamentali, differiscono e si contraddicono su diversi aspetti più particolari ma comunque significativi. Ciò vale, oltre che per l’andamento della battaglia, anche per le notizie relative alla consistenza numerica dei due eserciti e dei vari tipi di truppe, nonché alla loro organizzazione e struttura di comando; ci è sembrato necessario dedicare a questi punti, che sono fondamentali, a nostro avviso, per una corretta valutazione dell’importanza dell’evento nel suo contesto sociale, un’analisi dettagliata che, d’altra parte, per evitare un eccessivo appesantimento dell’esposizione, abbiamo preferito svolgere separatamente nell’Appendice A.

2. La rivoluzione militare del Rinascimento L’evoluzione delle concezioni militari europee, di cui la battaglia di Ravenna costituisce un momento significativo, è tanto più notevole in quanto in precedenza queste erano state a lungo contrassegnate da un notevole grado di staticità, collegato ad una tradizione molto particolare, che aveva le sue radici nella società feudale e cavalleresca. E’ dunque da questa tradizione che dobbiamo partire, per potere pienamente apprezzare la portata rivoluzionaria, sul piano militare ma anche su quello sociale e culturale, del suddetto processo di trasformazione. Nel periodo che abbraccia i secoli dall’XI fino a buona parte del XV, protagonista di gran lunga maggiore, ed a volte quasi unico, della guerra fu infatti, in Europa, la cavalleria, ed anzi una cavalleria di un tipo ben definito, caratterizzata dalla preminenza del cavaliere pesantemente armato.

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Questi era la naturale espressione militare di una società, quella feudale, in cui le armi ed il loro uso erano riservati ad una classe sociale aristocratica piuttosto ristretta, quella appunto dei detentori di feudi e dei loro consanguinei e clienti, che proprio a questo suo monopolio della funzione bellica doveva la sua posizione dominante. La parola “cavaliere” riassumeva quindi tutta una serie di significati sociali, emotivi e perfino religiosi, che andavano ben oltre quello strettamente militare e che, per gran parte, erano destinati a conservare a lungo il loro peso, anche in epoche in cui la cavalleria medioevale, in quanto fatto militare, era divenuta ormai solo un ricordo. Il cavaliere andava in battaglia tutto chiuso in un’armatura che, nel corso di una lunga evoluzione, si era andata facendo sempre più completa e sofisticata, ma anche più pesante e costosa, a mano a mano che l’originaria maglia di ferro veniva sostituita sempre più completamente da placche metalliche (Fig.1); il suo cavallo, il destriero, più potente che veloce, era appositamente selezionato in modo da poter sopportare il non indifferente peso del suo padrone e del suo armamento ed era a sua volta fornito di una qualche protezione, sebbene, per forza di cose, non altrettanto completa; per risparmiare le energie del destriero, tuttavia, il cavaliere montava normalmente un cavallo di riserva di minor pregio e si trasferiva sul destriero solo all’ultimo momento prima della battaglia; di solito dava inizio al combattimento caricando lancia in resta, cioè tenendo la lunga (circa 4m) e pesante lancia sotto l’ascella destra in posizione orizzontale (Fig.1); dopo il primo urto seguiva solitamente una mischia (melée) in cui il cavaliere, spezzata o gettata la lancia, si batteva con la grande spada a due tagli o con la mazza ferrata o con l’ascia di guerra. Ogni cavaliere andava in guerra con un suo piccolo seguito, la cui composizione poteva variare in funzione delle sue risorse e delle sue preferenze, nonché delle abitudini e tradizioni della sua zona di provenienza, cui si dava il nome di “lancia”, giustificato dal fatto che il cavaliere medesimo, il capo-lancia, era l’unico del gruppo ad essere equipaggiato con la lunga lancia di cui si è detto. Gli altri componenti tipici della lancia, anch’essi tutti a cavallo, erano:

- uno scudiere (lat: scutifer), anch’egli un membro della classe cavalleresca, non di rado un consanguineo più giovane del capo-lancia; come dice la parola, in origine aveva il compito di portare lo scudo del suo signore ogni volta che questo gli potesse essere d’impaccio, ma lo scudo fu poco a poco abbandonato, perché reso superfluo dai perfezionamenti dell’armatura, e lo scudiero finì con l’evolvere in un combattente a tutti gli effetti, che, a meno della lancia, era armato ed equipaggiato in modo poco diverso dal cavaliere, ed era quindi in grado di seguirlo da presso nella carica e di combattere al suo fianco nella mischia susseguente. In effetti, la distinzione fra cavaliere e scudiere andò perdendo di significato, quanto meno sotto il profilo militare, e divenne sempre più invalso l’uso del termine comprensivo “uomo d’arme”, che richiamava, appunto, l’armamento pesante ormai comune ad entrambi.

- due o tre valletti o paggi (lat: pagius, rigazzus ); privi di armatura, i valletti erano anch’essi presenti sul campo di battaglia ma, salvo casi eccezionali, non per combattere, bensì per fornire ai loro signori, appesantiti dall’armatura, certi servizi ausiliari ma indispensabili, come aiutarli a salire e scendere da cavallo, tenere e fornire al momento opportuno una lancia di riserva, tenere i cavalli se, come a volte succedeva, i cavalieri decidevano di combattere a piedi, ecc..

- a volte, per uno sviluppo relativamente tardo, uno o due arcieri o balestrieri; erano soldati professionali al soldo del cavaliere, esperti nell’uso della propria arma, spesso di umile origine e comunque non facenti parte della classe cavalleresca, che solitamente usavano il cavallo solo per spostarsi ma combattevano appiedati; i cavalieri non nascondevano un certo disprezzo per questa gente di bassa origine e per le loro armi “da villani” e non si curavano gran ché di impiegarli in modo tatticamente utile sul campo di battaglia, ma non potevano non riconoscerne l’utilità almeno negli assedi.

Del seguito facevano poi parte, naturalmente, vari servitori, stallieri, cuochi, ecc. che svolgevano servizi utili durante le marce e negli accampamenti, ma non intervenivano minimamente nei

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combattimenti, e fra di loro dovevano certo esserci delle donne, anche se a questo riguardo, di solito, i cronisti tacciono pudicamente; in generale la composizione della lancia e del seguito aveva certo, in parte, delle giustificazioni militari, ma rifletteva altresì, per altri aspetti, la signorile abitudine di ogni cavaliere a vivere contornato dalla “sua gente”, sempre a sua disposizione per i servizi più vari. A meno che non si trattasse di qualche faida locale, un tipo di evento peraltro piuttosto frequente, il cavaliere, col suo seguito personale e, eventualmente, con quelli di altri cavalieri suoi vassalli, andava in guerra in risposta alla chiamata del suo superiore feudale, che poteva essere un sovrano oppure un feudatario di rango intermedio, assolvendo così un obbligo cui era tenuto come corrispettivo dei diritti feudali di cui era titolare; era però un obbligo con molti limiti, cui egli poteva spesso sottrarsi senza troppi rischi, quando lo riteneva opportuno, ad esempio se riteneva di avere ricevuto dei torti dal suo signore; ma d’altra parte la guerra era la sua ragione d’essere sociale e l’attività per cui egli si teneva pronto per tutta la vita, addestrandosi con le cacce ed i tornei e conservando gelosamente le armi e le armature ereditate dagli avi (ed eventuamente facendole modificare per adattarle all’evoluzione tecnica ed anche alla moda); la guerra era anche spesso, insieme ai tornei, la sua unica possibilità di uscire dall’ambiente ristretto del suo feudo e di acquistare gloria e prestigio. I rischi, del resto, erano abbastanza limitati, a causa della protezione offerta dall’armatura ma anche di tutta una serie di atteggiamenti sociali; nell’Europa medievale infatti, la guerra assumeva non di rado quasi l’aspetto di un affare di famiglia, in cui i cavalieri delle due parti, che si riconoscevano reciprocamente a causa delle insegne personali e famigliari che orgogliosamente inalberavano, erano spesso imparentati più o meno alla lontana; vi era comunque, fra di loro, un forte senso di solidarietà di classe, che portava a non desiderare particolarmente la morte dell’avversario; successo e gloria consistevano piuttosto nell’abbatterlo, nel disarcionarlo e farlo prigioniero, anche perché questi casi davano luogo a riscatti che, soprattutto per i personaggi di alto rango, potevano costituire un grosso affare; del tutto diverso era però l’atteggiamento nei confronti dei combattenti non nobili, che venivano spesso massacrati senza tanti complimenti. E’ abbastanza chiaro che, sotto il profilo dell’efficacia militare, gli eserciti medievali presentavano gravi limitazioni, in parte già implicite in quanto detto finora: le principali erano forse quelle derivanti dalla mentalità fortemente individualistica del ceto cavalleresco, che si traduceva nella quasi totale assenza di una disciplina militare nel senso moderno del termine ed in catene di comando incerte ed incomplete, riconosciute a mezza bocca ma poco rispettate nell’azione concreta; il cavaliere si batteva ricercando più che altro la gloria (o il profitto) personali o di gruppo, senza preoccuparsi più che tanto delle sorti dell’esercito di cui faceva parte; questioni di precedenza legate all’orgoglio del proprio lignaggio avevano, non di rado, sull’ordine degli schieramenti (o sul loro disordine) un’influenza maggiore di qualsiasi considerazione tattica o strategica (1). Nella misura in cui riusciva a superare questi difetti congeniti, la cavalleria pesante medievale poteva certo costituire una temibile forza d’urto, ma il suo comportamento tattico era monocorde, esclusivamente concentrato, appunto, nella ricerca dell’urto breve e violento, che si supponeva dovesse essere risolutivo; questo non sarebbe stato un difetto grave se, oltre alla cavalleria pesante, gli eserciti medievali avessero avuto a disposizione anche truppe di altro tipo ma, per l’appunto, non era così; in particolare le fanterie medievali erano in genere inesistenti o di scarso valore, né esisteva una cavalleria leggera capace di azione autonoma. Ci furono, per la verità, delle eccezioni, quali, soprattutto nel XIII secolo, le fanterie cittadine italiane e fiamminghe, ma esse furono limitate nel tempo e nello spazio e già all’inizio del Trecento erano tramontate senza lasciare gran traccia di sé nelle istituzioni militari europee. Quanto alle esperienze militari fatte in Terra Santa, nell’ambito delle Crociate, in cui i cavalieri d’Europa si trovarono ad affrontare avversari militarmente più sofisticati, esse portarono sì alla creazione di una cavalleria pesante più coesa e disciplinata, quella degli ordini militari, ed anche all’impiego di contingenti di cavalleria leggera (i cosiddetti “turcopoli”, arruolati fra la popolazione locale), ma non vennero poi reimportate nella madre patria in alcuna misura significativa (2).

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Se, pur con tutti i suoi limiti, il modello militare medievale potè persistere pressoché immutato così a lungo, ciò si deve senza dubbio, oltre che al suo particolare radicamento sociale, al fatto che l’Europa ebbe allora la fortuna di non essere sottoposta ad alcuna seria minaccia militare proveniente dall’esterno; la comparsa, in Ungheria, Polonia e Germania, degli eserciti mongoli (1240 – 1242), contro i quali la cavalleria europea fece una ben magra figura, fu un fenomeno traumatico ma breve, che non si ripetè e potè quindi essere presto dimenticato. Nel corso del secolo XIV e della prima metà del XV, tuttavia, il modello cominciò a mostrare dei chiari segni di crisi, determinata dal primo emergere di nuovi modelli di fanteria e di cavalleria leggera, dal lento ma costante sviluppo delle armi da fuoco, ma anche dal rafforzamento organizzativo e finanziario degli stati, soprattutto Francia ed Inghilterra ma anche alcuni stati regionali italiani, che erano ora in grado di pagarsi delle truppe e quindi di pretendere da esse un grado di disciplina maggiore di quella degli eserciti feudali. Le nuove fanterie erano essenzialmente di due tipi. Le fanterie inglesi, che si distinsero nella guerra dei Cento Anni, erano costituite da arcieri in armatura leggera, equipaggiati con l’arco lungo, un’arma dotata di buona penetrazione e gittata e che permetteva una frequenza di tiro superiore a quella della balestra; occorre però subito notare che questi arcieri non erano in grado di svolgere un ruolo completamente autonomo, in quanto agivano sotto la protezione di contingenti di uomini d’arme appiedati e delle loro lance. Del tutto autonome erano invece le fanterie svizzere, che colsero i loro primi successi significativi contro la cavalleria feudale asburgica nella seconda metà del Trecento; anch’esse erano caratterizzate da un’armatura molto leggera o anche dalla sua totale assenza ma, come arma principale, invece dell’arco usavano l’alabarda e soprattutto la picca ed anziché l’azione di logoramento mediante il tiro a distanza, cercavano l’urto risolutivo; organizzate in masse compatte e disciplinate, esse si dimostrarono infatti in grado non solo di reggere a piè fermo alle cariche della cavalleria pesante, come in fondo erano riuscite a fare già le fanterie comunali del Duecento, ma anche, e qui sta il fatto nuovo, di passare con successo all’azione offensiva. Queste nuove truppe erano portatrici di una rivoluzione sociale oltre che militare, in quanto la grande maggioranza dei loro componenti apparteneva a classi sociali piuttosto basse e combatteva non per obbligo feudale o per confermare il proprio prestigio sociale ma, essenzialmente, per la paga ed il bottino (3); con la loro apparizione sui campi di battaglia il monopolio della guerra fino ad allora detenuto dall’aristocrazia si avviava al tramonto. Anche la cavalleria pesante si andava però trasformando, non tanto nell’equipaggiamento e nel modo di combattere, quanto nella sua organizzazione e nelle sue motivazioni. Vari stati e sovrani d’Europa cominciavano ormai a rendersi conto degli inconvenienti delle truppe feudali ed erano alla ricerca di formule nuove e più soddisfacenti; uno dei problemi era sempre stata la consuetudine per cui gli obblighi militari feudali erano limitati nel tempo, in genere a 40 giorni; passato quel periodo un cavaliere aveva tutto il diritto di tornarsene a casa ed in genere lo faceva, se solo gli sembrava che il seguito della campagna non gli promettesse niente di interessante; se acconsentiva a rimanere, comunque, aveva diritto ad un soldo, per sé e per ciascuno dei suoi dipendenti; aveva poi questo diritto fin dall’inizio se l’azione bellica si svolgeva ad una grande distanza dalle sue terre (4); il logico sviluppo di un tale sistema era di concordare una volte per tutte un soldo a fronte del quale un dato contingente rimanesse a disposizione almeno per un’intera campagna, che voleva dire circa quattro mesi (5), e senza alcuna limitazione di distanza o di altra natura; questo è proprio ciò che i vari governi presero a fare dal momento in cui cominciarono a disporre dei necessari mezzi finanziari ed è per questa via che, anche per l’aristocrazia, il servizio militare cominciò a trasformarsi da obbligo di casta in attività professionale regolarmente pagata. D’altra parte i governi non avevano ancora un’organizzazione tanto sviluppata da permettere loro di assumere singolarmente ogni combattente di cui avessero bisogno e si rivolsero quindi naturalmente a personaggi che, per la loro posizione sociale o il loro prestigio militare, fossero in grado di supplire arruolando in proprio delle “compagnie”, ossia dei contingenti pù o meno grandi destinati a confluire poi in un unico esercito; per una compagnia che poteva contare centinaia od anche

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migliaia di combattenti, il governo aveva così il vantaggio di poter parlare con una persona sola, che della compagnia era, di solito, ad un tempo l’organizzatore ed il capo destinato a comandarla, definendo con lui un contratto vero e proprio, specificante le dimensioni, la composizione e l’equipaggiamento della compagnia, nonché i suoi obblighi e compensi. Assistiamo così ad una professionalizzazione della guerra ma anche ad una sua privatizzazione che in particolare in Italia, col ben noto sviluppo dei “Condottieri”, raggiunse limiti che, per quanto ne sappiamo, ne fanno un unicum storico; non ne fu però esente neanche il resto dell’Europa, come provano, fra l’altro, le vicende dell’interminabile guerra dei Cento Anni in cui le compagnie svolsero un ruolo importante e crescente sia da parte inglese che da parte francese. Viste dall’esterno le compagnie assomigliavano molto alla vecchia cavalleria feudale; anch’esse erano organizzate per “lance” a capo di ognuna delle quali era un uomo d’arme equipaggiato nel modo solito; nella maggior parte dei casi, inoltre, questi era pur sempre un membro della classe cavalleresca, anche se il tono prevalente era dato ora da una piccola aristocrazia sempre meno in grado di vivere dei proventi delle sue terre e costretta quindi a praticare per danaro l’unico mestiere che conosceva, quello delle armi. Comunque, però, all’interno delle compagnie il monopolio della nobiltà non era più assoluto, ed era possibile, a volte, fare una buona carriera anche partendo dalla gavetta; la composizione della lancia cominciò ad essere standardizzata, pur se in modo diverso nei vari paesi europei, e cessò quindi di dipendere dalle preferenze del singolo capo-lancia; la disciplina era inoltre maggiore e più chiare e meno discusse erano le prerogative dei comandanti, per cui le compagnie erano più coese e maggiormente capaci di operare come un corpo unico rispetto alla cavalleria feudale che avevano sostituito. I governi non tardarono però a scoprire che anche il nuovo sistema presentava grossi inconvenienti che, con particolare riguardo all’esperienza italiana, furono messi in evidenza, con sguardo ormai retrospettivo, da vari scrittori del primo Cinquecento e, segnatamente, da Machiavelli e Guicciardini; quello principale era, per usare un termine moderno, l’evidente conflitto di interessi fra i governi stessi, ovviamente interessati a concludere vittoriosamente la guerra nel minor tempo possibile e i condottieri delle compagnie che, da bravi imprenditori, dovevano salvaguardare il più possibile il proprio “capitale”, costituito dai soldati medesimi, ed avevano inoltre ogni convenienza a tirare le cose in lungo, perché la fine della guerra voleva dire, di solito, che i loro lucrosi contratti non sarebbero stati rinnovati. Nel corso della guerra dei Cento Anni, in un contesto politico e sociale molto diverso da quello delle guerre italiane, si manifestò inoltre in forma acuta un altro inconveniente; ogni volta che veniva conclusa una tregua, motivata il più delle volte dall’esaurimento finanziario di entrambe le parti, le compagnie, rimaste senza lavoro e quindi senza paga, anziché sciogliersi si davano a saccheggiare indiscriminatamente le campagne, meritandosi così un soprannome che non ha bisogno di commenti, quello di écorcheurs (scorticatori). Fu questa una delle ragioni che indussero il re di Francia Carlo VII, nel 1445 – 1446, a creare per la prima volta, mediante una selezione delle truppe che erano allora al suo servizio, le prime compagnie permanenti, destinate cioè a non essere smobilitate neanche in tempo di pace; furono queste le ben note Compagnies d’Ordonnance (Compagnie d’Ordinanza), costituite, dapprima, da 1.800 lance che, durante il regno del successore, Luigi XI, salirono a 4.000; ognuna di esse era composta da 6 uomini a cavallo, l’uomo d’arme capo-lancia, un secondo uomo d’arme chiamato aiutante che era in pratica l’equivalente dello scudiere, due arcieri o balestrieri e due valletti; quanto a questi ultimi è probabile che essi avessero assunto già prima funzioni almeno parzialmente militari, consistenti non tanto nella partecipazione all’azione d’urto, quanto nelle operazioni di esplorazione e foraggiamento. Era quest’ultimo uno sviluppo che tendeva a convergere con quello, indipendente, della cavalleria leggera vera e propria e con la scoperta dell’importanza delle sue funzioni, alla base del quale stava tutta una serie di esperienze militari fatte da vari stati europei nelle zone di confine dell’Europa di allora, e precisamente dai polacco-lituani nelle loro lotte con i tartari dell’Orda d’Oro, dagli

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ungheresi (5) e dai veneziani nelle campagne balcaniche contro i turchi ottomani e dagli spagnoli nelle guerre contro i Mori. A poco a poco si era cominciato a capire che, seppure una cavalleria leggermente armata poteva svolgere solo un ruolo marginale nel momento fatidico della battaglia e dell’urto, essa era per contro preziosa nelle azioni di sorpresa, nel foraggiamento e nella protezione dei rifornimenti, nonché nel rendere impossibili o almeno più difficoltose queste stesse attività al nemico, in una parola nel controllo del territorio; risultò anzi a volte, nei casi più favorevoli, che un’azione prolungata di questo tipo, se condotta con successo, poteva logorare il nemico al punto da rendere la battaglia superflua. Era questa un’altra realtà dura da riconoscere per la mentalità cavalleresca, per la quale il mito dell’urto breve e decisivo faceva tutt’uno con la concezione della battaglia come giudizio di Dio, radicata nel profondo del Medioevo e supportata anche da reminiscenze classiche. A cavallo fra Quattrocento e Cinquecento ed in particolare nelle campagne d’Italia le più apprezzate cavallerie leggere furono quelle dei veneziani “stradiotti”, composte di elementi di origine balcanica (prevalentemente albanese) (6), e quelle spagnole dei jinetes, ma, come abbiamo già accennato, anche gli elementi armati alla leggera delle lance tendevano ormai spesso ad operare in modo indipendente dai loro uomini d’arme, cosicché vediamo i cronisti parlare sempre più di uomini d’arme da un lato e di “cavalli leggeri” dall’altro e sempre meno di lance, anche se queste ultime continuavano a sussistere come forma di inquadramento. Quanto alle armi da fuoco, esse erano note ed usate in Europa almeno dalla seconda metà del Trecento, tuttavia la loro evoluzione tecnica fu lunga e laboriosa e il loro ruolo rimase, di conseguenza, a lungo marginale. Il primo campo in cui si affermarono concretamente fu comunque quello della guerra d’assedio; già nei primi decenni del Quattrocento era infatti divenuto abbastanza comune l’impiego, negli assedi, di enormi bombarde capaci di sparare grosse palle di pietra (dell’ordine di 30 cm di diametro), per la cui azione distruttiva si faceva affidamento più sul peso che sulla velocità, piuttosto bassa; di questi ordigni nuovi e mostruosi i cronisti ci parlano con un ammirato stupore non esente da una certa repulsione, ma, almeno per una prima fase abbastanza lunga, si ha l’impressione che la loro efficacia fosse dovuta più agli effetti psicologici che a quelli reali; il loro peso ne rendeva estremamente laboriosi il trasporto e la messa in posizione, tanto che gli ottomani, in questo periodo non secondi a nessuno nello sviluppo dell’artiglieria, preferivano spesso fondere i loro cannoni sul posto; la loro cadenza di fuoco era molto bassa e non di rado avveniva che esplodessero dopo pochi colpi; quanto ad un loro utilizzo come artiglieria campale esso era, a questo stadio di sviluppo, chiaramente fuori questione. Nel frattempo avevano fatto la loro apparizione diversi tipi di armi di piccolo calibro, ancora però troppo pesanti e difficili da maneggiare per poter servire come armi individuali; i primi a farne un uso efficace furono, quasi certamente, gli ussiti (7), cui riuscì di compensare, almeno in parte, le intrinseche limitazioni di queste nuove armi con l’invenzione del cosiddetto “wagenburg”; era questo una fortezza mobile di carri opportunamente attrezzati, dove venivano piazzate le armi da fuoco e dove prendevano posto i loro serventi, che potevano quindi far fuoco da posizioni sopraelevate, relativamente comode e protette. Questa tecnica di combattimento ottenne grandi successi nel periodo delle guerre ussite (terzo decennio del Quattrocento) contro gli eserciti “crociati” costituiti essenzialmente da una cavalleria pesante di tipo ancora molto tradizionale, ma non lasciò grandi strascichi nei decenni seguenti, probabilmente a causa dei gravi limiti che i carri ponevano alla mobilità, soprattutto su terreno malagevole; l’unico residuo si può forse individuare nell’accresciuta cura che, nella seconda metà del secolo, si cominciò a dedicare alla difesa degli accampamenti e talvolta anche delle posizioni campali mediante trincee o palizzate guarnite appunto da armi da fuoco oltre che da arcieri e balestrieri; occorre dire però che in questo ebbero certamente un’influenza anche le tradizioni militari romane che gli umanisti andavano riscoprendo nei classici.

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Mentre le armi di piccolo calibro facevano lenti ma costanti progressi, non ancora però tali da dare luogoad armi propriamente individuali e da rimpiazzare completamente archi e balestre, verso la fine del Quattrocento si affermò, soprattutto ad opera dei francesi, un nuovo tipo di artiglieria, consistente in cannoni di bronzo a canna relativamente lunga, che sparavano palle di ferro; la maggiore velocità del proiettile permetteva, a parità di effetto, una consistente riduzione del calibro e quindi del peso complessivo, tanto che i cannoni potevano ora essere trainati da cavalli e seguire l’esercito senza troppo rallentarne la marcia. Vale la pena di riportare qui ciò che, di questa nuova artiglieria, dice il Guicciardini (Storia d’Italia, Libro I,. Cap.XI, RG.3): “Ma i franzesi, fabricando pezzi molto più espediti né l’altro che di bronzo, i quali chiamavano cannoni, e usando palle di ferro, dove prima di pietra e senza comparazione più grosse e di peso gravissimo s’usavano, gli conducevano in sulle carrette, tirate non da buoi, come in Italia si costumava, ma da cavalli, con agilità tale d’uomini e di instrumenti deputati a questo servigio che quasi sempre al pari degli eserciti camminavano, e condotte alle muraglie erano piantate con prestezza incredibile; e interponendosi dall’un colpo all’altro piccolissimo intervallo di tempo, sì spesso e con impeto sì veemente percotevano che quello che prima in Italia fare in molti giorni si soleva, da loro in pochissime ore si faceva; usando ancora questo più tosto diabolico che umano instrumento non meno alla campagna che a combattere le terre, e co’ medesimi cannoni e con altri pezzi minori, ma fabricati e condotti, secondo la loro proporzione, con la medesima destrezza e celerità.” I nuovi cannoni rappresentavano, senza dubbio, un importante progresso, tuttavia i loro effetti sono stati forse un poco sopravvalutati; certo essi sparsero il terrore in occasione della calata di Carlo VIII, nella quale però furono impiegati più che altro contro fortezze minori e poterono avvalersi dell’effetto sorpresa; solo pochi anni dopo però, ad esempio negli assedi di Barletta (1503) e di Padova (1509), apparve chiaro che, contro una difesa decisa e capace di adottare le opportune contromisure, essi non erano irresistibili; quanto ad un loro impiego determinante sul campo di battaglia bisogna attendere proprio fino alla battaglia di Ravenna, che costituì, da questo punto di vista, un momento di svolta. Fra tutte le nuove armi ed i nuovi modi di combattere che abbiamo appena passato in rassegna, gli effetti più rivoluzionari lo ebbero comunque, almeno a breve termine, le fanterie svizzere (o di tipo analogo) che, per quanto, come abbiamo visto, esistessero già da tempo, affermarono per la prima volta in modo indiscusso la loro supremazia nella guerra contro il duca Carlo (il Temerario) di Borgogna (1476 - 1477), il cui esercito era basato sulle “lance” di cavalleria delle compagnie e su una fanteria caratterizzata da una forte proporzione di tiratori (archi, balestre, armi da fuoco di piccolo calibro), spesso trincerata e appoggiata dall’artiglieria campale; a grande sorpresa di tutta l’Europa tale esercito, che andava allora per la maggiore, fu ripetutamente travolto dall’attacco delle fanterie svizzere, condotto con feroce determinazione. Gli svizzeri combattevano schierati in massicce formazioni (quadrati), che poteva avere da 25 a 100 uomini di fronte ed altrettanti o quasi in profondità (8), con armati di picca ai bordi ed alabardieri al centro del quadrato; la loro tattica preferita era l’attacco a fondo, picche abbassate, condotto però mantenendo rigorosamente l’ordine dello schieramento (9) e sopportando stoicamente le perdite indotte dal tiro di sbarramento nemico; nel tardo Quattrocento, in effetti, il verdetto del campo di battaglia fu invariabilmente a favore di questa tattica, in quanto l’efficacia e la cadenza di tiro di archi e balestre e delle armi da fuoco dell’epoca si dimostrarono regolarmente insufficienti a bloccare un attacco risoluto; solo al nostro sguardo retrospettivo appare chiaro che i progressi delle armi da fuoco erano destinati, prima o poi, ad inficiare tale verdetto ed infine a ribaltarlo. Il successo degli svizzeri fece ben presto sì che in varie parti d’Europa si facessero tentativi di imitarli più o meno pedissequamente, ma i risultati furono molto variabili, buoni o anche ottimi in certi casi, pressochè fallimentari in altri, cosicchè, per quanto riguarda le nuove fanterie di elite, si arrivò ad una sorta di specializzazione a livello regionale o nazionale; i migliori imitatori furono i lanzichenecchi (landsknechte) tedeschi e, solo un poco più tardi, le fanterie spagnole.

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Stranamente proprio la Francia, che pure, per quanto riguarda l’artiglieria e le truppe di cavalleria permanenti, era stata, come si è visto, all’avanguardia del progresso militare, non riuscì mai, nel periodo di nostro interesse, a sviluppare una propria fanteria di livello comparabile (10). Perciò i re di Francia, a partire da Luigi XI, si procurarono la loro migliore fanteria assoldando in grandi quantità dapprima gli svizzeri e poi, dopo la rottura coi cantoni (vedi Cap.3), i lanzichenecchi; chiaramente era un pericoloso punto debole, perché, per quanto mercenari, questi arruolamenti presupponevano un rapporto privilegiato con lo stato da cui gli arruolati provenivano, cioè coi cantoni in un caso e coll’impero tedesco nell’altro, e quindi, come si vedrà, la Francia si trovò in grave difficoltà ogni volta che questo rapporto venne a deteriorarsi. Sotto questo profilo risultò invece fortemente avvantaggiata la Spagna, che ebbe presto a disposizione un’ottima fanteria propria, la quale anzi, per quanto anch’essa stipendiata, mantenne sempre, più delle altre, un accentuato carattere nazionale, nel senso che combattè sempre e solo al servizio del regno di Spagna. Questa peculiarità spagnola sembra essere stata radicata anche in certi fattori di carattere sociale; certo è che, a differenza di quelli degli altri paesi, i nobili spagnoli, gli hidalgo, non ritenevano disdicevole arruolarsi in fanteria, “trascinare una picca”, come allora si diceva. Se erano soprattutto le nuove fanterie di tipo svizzero che avevano ormai scalzato la cavalleria pesante dal suo antico ruolo di regina delle battaglie, da un punto di vista concettuale la novità maggiore rispetto al Medioevo consisteva forse nella acquisita molteplicità di tipi di truppe e di armi, e nel fatto conseguente che la principale chiave del successo in battaglia risiedeva ormai nel loro efficace coordinamento. Scomparsa ormai era anche l’aria di famiglia e di torneo delle vecchie buone battaglie medievali; se essa resisteva ancora, in parte e con difficoltà, fra gli uomini d’arme, tutti gli altri combattevano ormai per uccidere e per non essere uccisi, preoccupandosi assai poco del rango e della prosapia di coloro che avevano di fronte; in particolare, gli attacchi a fondo delle falangi di fanti armati di picca davano regolarmente luogo a massacri feroci, molto concentrati nel tempo e nello spazio. Note al Cap.2:

1. E’ ben nota la cocciutaggine, che a noi sembra quasi infantile, con cui i capi del contingente francese, nella Crociata di Nicopoli (1396), rivendicarono la posizione d’avanguardia, ritenuta la più onorevole; alla fine la spuntarono ma con conseguenze disastrose per sé stessi e per l’intero esercito crociato.

2. Una parziale eccezione è rappresentata dall’Ordine Teutonico; tuttavia la sua attività militare si svolse in un’area piuttosto marginale dell’Europa e non sembra comunque essersi scostata di molto dal solco della tradizione.

3. Erano però anche capaci di battersi per una causa fortemente sentita, come era certamente il caso per gli svizzeri all’epoca delle loro lotte per l’indipendenza contro gli Asburgo; anche le fanterie ceche degli ussiti (vedi appresso), nella loro fase iniziale, furono animate da un forte entusiasmo nazionale e religioso; anch’esse tuttavia, come gli svizzeri sebbene in modo meno vistoso, conobbero in seguito sviluppi di tipo mercenario.

4. Quanto grande fosse questa distanza dipendeva, naturalmente, da una grande varietà di consuetudini locali. 5. Per quanto riguarda gli ungheresi che, in definitiva, traevano origine, come turchi e tartari, dal mondo delle

steppe, si deve pensare che queste esperienze non facessero che dare nuovo impulso ad una tradizione che non era mai morta.

6. Questa tradizione militare probabilmente si formò (o almeno si consolidò) durante le lunghe guerre contro i turchi condotte dagli albanesi sotto la guida di Giorgio Castriota (Skanderbeg); a sua volta essa si rifaceva senza dubbio alle tradizioni degli stessi turchi, come è facile capire se si pensa che lo stesso Skanderbeg, così come molti dei suoi, aveva combattuto prima a lungo al servizio degli ottomani. La prima apparizione in Italia di queste truppe avvenne probabilmente nel 1461, quando lo stesso Skanderbeg prese parte, come alleato di Ferrante d’Aragona (e di papa Pio II), alla guerra di successione nel Regno di Napoli.

7. Così chiamati da Jan Hus, il riformatore religioso ceco mandato al rogo come eretico a Costanza nel 1415; i suoi seguaci presero il controllo del regno di Boemia nel 1419, dopo la morte di Venceslao di Lussemburgo, e per più di dieci anni respinsero vittoriosamente tutte le “crociate” organizzate da papato ed impero per ricondurli all’ordine.

8. I quadrati più grossi potevano quindi contare fino a 100x100 = 10.000 uomini o poco meno.

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9. Quest’ordine veniva accuratamente mantenuto anche nelle marce; c’era però anche un certo grado di flessibiltà e di capacità di manovra, che permetteva di distaccare dei reparti minori per operazioni ausiliarie e di reintegrarli poi nello schieramento principale senza provocare confusione (Guicciardini, Storia d’Italia, Libro IX, Cap. VII, RG.3).

10. Identico o anche più grave fu, come è noto, l’insuccesso delle potenze italiane ed in particolare di Venezia.

3. Il contesto storico Nel 1512 due potenze non italiane, la Francia e la Spagna, controllavano già, da alcuni anni, estesi territori nella penisola. La Francia, dopo che era fallito, nonostante il rapido successo iniziale, il tentativo del re CarloVIII di rivendicare l’eredità angioina e conquistare il regno di Napoli (1494 ÷ 1495), era tornata alla carica con maggior fortuna sotto il successore di Carlo, Luigi d’Orléans, divenuto Luigi XII; oltre a vantare, come re di Francia, gli stessi diritti sul regno di Napoli che Carlo VIII aveva tentato di far valere, Luigi, in nome del proprio casato di Orléans, ne accampava degli altri derivanti da sua nonna Valentina, figlia di Galeazzo Visconti, sul ducato di Milano, che, in due successive campagne (1499 ÷ 1500) riuscì effettivamente a conquistare a spese di Ludovico Sforza detto il Moro; questi chiuse così la sua movimentata carriera come prigioniero a Loches (Turenne), dove morì dieci anni più tardi. Nel 1501 poi Luigi concluse col re d’Aragona, Ferdinando, che, insieme alla moglie Isabella di Castiglia, governava l’intera Spagna, un accordo per la spartizione del regno di Napoli, che potè essere messo in atto senza difficoltà e senza che il re di Napoli, Federigo, esponente di un altro ramo della stessa casa d’Aragona, fosse in grado di opporre alcuna seria resistenza all’azione combinata delle due potenze; ma fra i due alleati sorsero ben presto divergenze sull’interpretazione dell’accordo e ne scaturì una guerra fra francesi e spagnoli per la divisione della preda, in cui rifulse il genio del comandante spagnolo, Consalvo di Cordova, il “gran capitano”; l’abile tattica di logoramento da questi impiegata e poi due battaglie, a Cerignola ed al Garigliano, determinarono, entro la fine del 1503, la piena sconfitta francese; il regno di Napoli divenne appannaggio della corona di Spagna e tale sarebbe rimasto per due secoli. Francia e Spagna non erano però le uniche due potenze non italiane con ambizioni sulla penisola; un'altra era rappresentata da Massimiliano d’Asburgo, re dei Romani (cioè di Germania) e quindi imperatore di diritto, anche se l’incoronazione formale, che, secondo la tradizione, doveva avvenire in Roma per mano del papa, nel suo caso non fu mai effettuata. Il regno di Germania si era ridotto, ormai da tempo, ad un’informe congerie di principati laici ed ecclesiastici e di città più o meno autonome, con istituzioni comuni molto deboli che Massimiliano, come i suoi predecessori, tentò invano di rivitalizzare; in queste circostanze le uniche risorse materiali su cui egli poteva effettivamente contare erano quelle dei suoi domini personali, che comprendevano, oltre al ducato d’Austria ed agli altri domini della casa d’Asburgo, l’eredità dei duchi di Borgogna, pervenutagli attraverso la sua prima moglie Maria, figlia ed unica erede del duca Carlo il Temerario, morto nel 1477 combattendo contro gli Svizzeri; egli era però stato costretto a devolvere il governo di questi ultimi territori, grosso modo corrispondenti agli attuali Paesi Bassi, a suo figlio Filippo (il Bello), la cui libertà d’azione, per di più, era fortemente limitata dagli organismi rappresentativi locali, poco disposti ad allentare i cordoni della borsa in favore delle avventure militari in paesi lontani in cui le ambizioni asburgiche avrebbero potuto trascinarli. Nonostante questi limiti, Massimiliano di ambizioni ne coltivava non poche, sia per carattere, sia perché esse gli erano in qualche modo imposte dal suo ruolo imperiale, povero di potere effettivo ma ricco di prestigio, ed una buona parte di esse riguardava proprio l’Italia. Formalmente infatti, l’Italia centro-settentrionale (l’antico regno d’Italia) faceva ancora parte dell’impero, anche se, ormai da alcuni secoli, questo non era più stato in grado di far valere questi

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suoi diritti; e tuttavia, nella mentalità del tempo, questo fatto giuridico manteneva un certo peso, ed avrebbe potuto acquisire nuova sostanza ove e quando la costellazione delle forze materiali fosse tornata favorevole. In particolare Massimiliano non dimenticava che i Visconti e poi gli Sforza avevano governato Milano come duchi e vassalli dell’impero (almeno formalmente) e trovava quindi difficile da accettare il fatto che il re di Francia, con cui egli era già in rapporti tesi a causa di un nutrito contenzioso che gli derivava dall’eredità borgognona, se ne fosse impadronito contro la sua volontà (1); egli rivendicava inoltre i diritti dell’impero sul Friuli e sul Veneto, di cui la Repubblica di Venezia si era impadronita all’inizio del Quattrocento dopo una serie di guerre con l’imperatore dell’epoca, Sigismondo di Lussemburgo. Inoltre Massimiliano aspirava, legittimamente, a farsi incoronare in Roma ma, diversamente da quanto aveva fatto suo padre Federico III, intendeva scendere nella penisola alla testa di un esercito numeroso, con l’evidente intenzione di affermarvi la propria influenza, ed aveva perciò cominciato, fin dal 1506, a tempestare i veneziani di ambasciate affinchè gli concedessero libero passaggio attraverso il loro territorio. Era questo un programma che non poteva certo piacere né al re di Francia, con cui i rapporti, dopo un breve intermezzo (vedi nota 1), si erano fatti di nuovo tesi, né alle potenze italiane, in particolare alla stessa Repubblica di Venezia ed al papa, Giulio II. Venezia era in rapporti d’alleanza con la Francia, che aveva aiutato a conquistare Milano, ottenendo in ricompensa il possesso di Cremona; per questo motivo, oltre che per le proprie riserve e diffidenze nei confronti di Massimiliano, la repubblica respinse le richieste dell’imperatore, dichiarandosi disposta a permettere il passaggio suo e del suo seguito, ma non di un esercito, una posizione, peraltro, che coincideva perfettamente con quella di papa Giulio. Ne seguì, nel 1508, una guerra in cui il tentativo di Massimiliano di mobilitare a suo favore le risorse del regno di Germania andò incontro ad un fallimento penoso; le truppe che gli pervennero da quel lato furono infatti scarse e non tardarono a sbandarsi di nuovo a causa della carenza di denaro, mentre quelle del ducato d’Austria e delle altre terre asburgiche, malgrado qualche successo iniziale, si rivelarono insufficienti. Venezia fu in grado di respingere l’attacco senza neanche bisogno di aiuti dall’alleato francese; un piccolo esercito nemico che era penetrato nel Cadore fu circondato ed annientato dalle truppe veneziane comandate da Bartolomeo d’Alviano, il quale passò poi alla controffensiva, impadronendosi in breve spazio di tempo di Gorizia, Trieste, Fiume e Postumia. Questi brillanti successi furono però, per Venezia, forieri di una vera e propria catastrofe diplomatica; costretto ad un’umiliante tregua triennale, che lasciava nelle mani dei veneziani le loro recenti conquiste, Massimiliano reagì con un completo rovesciamento di alleanze, rappacificandosi col re di Francia e concludendo anzi con lui a Cambrai, il 10 dicembre di quello stesso anno 1508, un’alleanza diretta proprio contro Venezia, a cui aderirono anche re Ferdinando ed il papa. Nonostante un proemio tanto ampolloso quanto ipocrita sulla necessità di unire le potenze cristiane in vista della Crociata contro i turchi, nella sua parte più sostanziale, che fu tenuta segreta, l’accordo definiva una vera e propria associazione a scopo di rapina; la Francia voleva non solo Cremona, che essa stessa aveva ceduto a Venezia in ricompensa dell’aiuto prestato contro il Moro, ma anche Bergamo e Brescia, che Venezia aveva acquisito fin dalla prima metà del XV secolo; Massimiliano aspirava ad un boccone ancora più grosso, l’intero Veneto ed il Friuli, territori che erano veneziani dall’inizio del Quattocento; Ferdinando, la cui adesione non era peraltro esente da perplessità, intendeva comunque approfittare dell’occasione per recuperare alcuni porti pugliesi, di cui Venezia si era impadronita a seguito del suo intervento nelle guerre dell’Italia meridionale seguite alla discesa di Carlo VIII; il papa infine voleva la Romagna, su cui la Chiesa accampava diritti che erano rimasti per secoli lettera morta, ma della quale Venezia si era appropriata in varie fasi una parte cospicua (2). Venezia stessa non era esente da colpe; negli ultimi tempi aveva praticato una politica gretta e di corto respiro, volta ad approfittare delle varie situazioni per nuove acquisizioni territoriali; a breve

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termine era stata una politica di successo, che le aveva fruttato il possesso di Cremona, Faenza, Rimini e dei porti pugliesi, ma che le aveva altresì alienato molte simpatie in Italia e fuori; i rappresentanti della Repubblica avevano poi tenuto un contegno inutilmente arrogante nelle trattative con Massimiliano e nei confronti del papa (3), contribuendo così a determinare il proprio completo isolamento diplomatico. I calcoli dei veneziani si basavano, probabilmente, sull’apparente impossibilità di un accordo fra tante potenze che avevano fino a poco prima combattuto l’una contro l’altra e che erano tuttora guidate da interessi ed ambizioni manifestamente contrastanti e, senza dubbio, l’alleanza di Cambrai era quanto di più eterogeneo si possa immaginare ed infatti durò ben poco; ma durò tuttavia abbastanza per sottoporre Venezia ad una prova durissima, che superò a stento dopo una lotta lunga ed angosciosa e che le costò comunque gravi perdite. Già nel Maggio del 1509 l’esercito veneziano subì, per mano dei francesi, una grave sconfitta ad Agnadello, presso l’Adda, dove Bartolomeo d’Alviano cadde prigioniero; sul piano strettamente militare non si trattò di una sconfitta totale (le forze veneziane erano state impegnate solo parzialmente, a causa della divergenza di vedute fra i due comandanti, lo stesso d’Alviano ed il conte di Pitigliano) ma fu sufficiente a determinare un rapido sfacelo degli stati veneziani di Terra Ferma, con le varie città che, una dopo l’altra, aprivano senza resistenza le loro porte ai vincitori; lo stesso Senato della Repubblica sembrò aver perso ogni fiducia nel futuro e, per un breve periodo, apparve rassegnato al totale abbandono dei possessi di Terra Ferma. La Repubblica fu salvata da due fattori; anzitutto Massimiliano, ancora una volta, si dimostrò incapace di raccogliere e tenere continuativamente in campo forze proporzionate ai suoi ambiziosi obbiettivi, mentre i francesi, che avevano viceversa già interamente realizzato i propri, lo aiutavano bensì, ma in misura limitata; inoltre, se l’aristocrazia di Terra Ferma aveva dimostrato scarsa lealtà alla Repubblica, per contro le classi popolari, sia delle città che delle campagne, dopo un primo momento di sbandamento si schierarono decisamente dalla sua parte, impegnando a più riprese seriamente le genti dell’imperatore e rendendogli difficile il controllo del territorio. Così i veneziani poterono tenere Treviso, dove si fortificarono, e già nel Luglio, con un colpo di mano, ripresero Padova, che poco di poi, in Settembre, resistette vittoriosamente a 17 giorni d’assedio delle truppe di Massimiliano; essi riuscirono parimenti, pur con qualche momentaneo arretramento, a mantenere il controllo del Friuli e dell’Istria; solo Verona cadde in potere dell’imperatore e vi rimase per qualche anno, mentre Vicenza cambiava più volte di mano. Intanto la Lega di Cambrai già cominciava a sfaldarsi; Ferdinando aveva ricuperato i suoi porti adriatici ed era chiaro che non intendeva più muovere un dito; anche il papa si era reso padrone della Romagna e non vedeva affatto di buon occhio un ulteriore indebolimento di Venezia. Giulio II era uomo di grandi ambizioni e d’indole imperiosa e passionale, confacente ad un principe temporale assai più che ad un capo spirituale; nella sua azione egli perseguì costantemente due scopi, peraltro a volte contraddittori; il primo era la creazione di un organico Stato della Chiesa, comprendente tutti i territori su cui il papato vantava diritti antichi, che però era riuscito fino ad allora a tradurre in pratica solo in piccola parte; con la conquista della Romagna, che seguiva a quella di Bologna, egli era ora giunto assai vicino alla sua meta, ma aspirava anche a Ferrara, sede del ducato estense, esteso anche a Modena e Reggio, che era uno dei più forti fra gli stati minori d’Italia e che, per di più, era uno stretto alleato della Francia. L’altro scopo, di più alto profilo, seppure anch’esso di carattere esclusivamente temporale, era la “cacciata dall’Italia dei barbari”, fossero essi spagnoli, francesi o tedeschi, un obbiettivo che rientrava certamente nella politica tradizionale della Chiesa, ma che corrispondeva anche a certe tendenze dell’opinione informata italiana, sviluppatesi come naturale reazione agli eventi degli ultimi anni; ora è chiaro che, da questo secondo punto di vista, il papa, partecipando all’alleanza di Cambrai, si era posto in una situazione assurda, dato che contribuiva all’indebolimento proprio dell’unica potenza italiana, a parte la Chiesa medesima, che, dopo la scomparsa di Napoli e Milano, conservasse un certo peso nel contesto internazionale (4); inoltre Venezia era già in guerra col duca di Ferrara, Alfonso d’Este, che l’aveva attaccata dopo Agnadello impadronendosi del Polesine,

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destinato poi a passare più volte di mano, ed appariva quindi come un’alleata naturale del papato nelle sue rivendicazioni su Ferrara. Non può quindi stupire che, già all’inizio del 1510, Giulio II “perdonasse” Venezia, togliendo l’interdetto con cui l’aveva colpita, e che, poco di poi nello stesso anno, pontifici e veneziani si trovassero a collaborare militarmente contro lo stesso Alfonso; inevitabilmente, la Francia inviò delle truppe in soccorso del suo alleato cosicché, per quanto, proprio per rispetto al papa, lo facesse dapprima in modo limitato ed esitante, i rapporti fra Luigi XII e Giulio II si deteriorarono rapidamente. Nel 1511 lo scontro si fece sempre più aspro; i francesi si impadronirono di Bologna (19 Maggio) mettendo in rotta le truppe veneto-pontifice, mentre re Luigi si spingeva fino a patrocinare la convocazione di un Concilio, che Giulio II vedeva giustamente come orientato a priori contro di lui e che si riunì effettivamente in Pisa ai primi di Settembre; il papa rispose indicendo un “suo” Concilio (5) e minacciando le più gravi sanzioni contro i cardinali che sostenevano il progetto pisano; ma reagì risolutamente, ed efficacemente, anche in campo temporale con una serie di iniziative diplomatiche che coinvolgevano tutta l’Europa e che miravano a mobilitare contro Luigi Spagna ed Inghilterra e ad indurre l’incostante Massimiliano a rompere l’alleanza francese. Ma forse potenzialmente ancora più pericolosa era l’iniziativa presa dal pontefice nei confronti degli svizzeri; le fanterie svizzere, che erano giustamente reputate le più valide d’Europa, erano state infatti fino ad allora a disposizione della Francia, che proprio nel campo della fanteria aveva un punto debole, per un ampio reclutamento mercenario che avveniva sulla base di accordi fra i re francesi ed i cantoni svizzeri, risalenti a Luigi XI ed alle guerre contro il duca di Borgogna Carlo il Temerario; tuttavia recentemente, avendo gli svizzeri cercato di alzare il loro prezzo, si era giunti ad una rottura, che aveva suscitato nei cantoni una forte irritazione ed alla quale Luigi XII aveva ovviato con l’impiego delle fanterie tedesche dei lanzichenecchi (landsknechte), parimenti mercenarie ma reclutate grazie al beneplacito di Massimiliano; ma la perdita, a vantaggio di questi concorrenti, della lucrosa fonte di reddito francese esasperò i cantoni e diede al papa il destro per entrare in trattativa con loro al fine di assoldarne egli stesso le truppe. Tutte queste iniziative ebbero alla fine successo, determinando, come si vedrà, il completo sfacelo delle posizioni francesi in Italia settentrionale, tuttavia richiesero un certo tempo per andare a buon fine; all’inizio della campagna del 1512 l’unica che fosse stata perfezionata era l’alleanza con la Spagna, mentre Enrico VIII d’Inghilterra non si era ancora dichiarato apertamente e Massimiliano rimaneva un alleato della Francia, anche se instabile; quanto agli svizzeri la loro buona disposizione era acquisita ma si era fino ad allora materializzata in due tentativi di discesa in Lombardia, nel 1510 e 1511, mal preparati e poco convinti, che i francesi non avevano avuto difficoltà a respingere; solo dopo la battaglia di Ravenna il nuovo e più deciso intervento svizzero svolse un ruolo decisivo. Per il momento quindi Gastone di Foix (6), un nipote di Luigi XII che, nonostante fosse appena ventiduenne, si era già distinto nella campagna dell’anno precedente ed era stato recentemente nominato vicerè di Milano e supremo comandante francese in Italia, doveva preoccuparsi solo dei veneziani che, da oriente, minacciavano il bresciano, e dell’esercito della Lega Santa, cioè dell’alleanza ispano-pontificia, che, sotto la guida del vicerè di Napoli, Raimondo di Cardona (7), aveva appena intrapreso l’assedio di Bologna; i francesi erano però ben coscienti delle nuvole che, da varie parti d’Europa, si stavano addensando sulla loro testa, e quindi Gastone, in pieno accordo con le istruzioni ricevute dallo zio, intendeva condurre la campagna in modo risolutamente aggressivo per infliggere al nemico una sconfitta decisiva prima che gli giungessero nuovi alleati. Egli si mosse dapprima in soccorso di Bologna assediata e vi entrò con una marcia talmente rapida da sorprendere completamente l‘esercito della Lega, che si ritirò precipitosamente verso la Romagna; non potè però sfruttare immediatamente il vantaggio perché, in quegli stessi giorni, gli giunse notizia che i veneziani, col concorso delle popolazioni, si erano impadroniti di Brescia e Bergamo; ritornò allora verso nord con una marcia altrettanto fulminea e, sbaragliato per via un contingente veneziano, riprese Brescia d’assalto, abbandonandola poi, per sette giorni, al saccheggio delle sue soldatesche, dopo di ché anche Bergamo pensò bene di sottomettersi

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spontaneamente; libero per il momento da preoccupazioni da questo lato, egli potè ora tornare a Bologna, riunirvi un esercito poderoso ed avanzare risolutamente in Romagna. Naturalmente se Foix, per le ragioni viste, era alla disperata ricerca di un’azione decisiva, i capi della Lega, seguendo esplicite istruzioni dello stesso re Ferdinando, cercavano per quanto possibile di evitarla, in parte per le stesse ed opposte ragioni, ma anche perché le loro forze erano sensibilmente inferiori a quelle francesi; si ritirarono quindi lentamente, stando attenti ad accamparsi sempre in posizioni forti, in modo che per il nemico fosse troppo rischioso attaccarli. Il comandante francese, che nel frattempo si era congiunto col duca di Ferrara, che aveva con sé un contingente di truppe di modeste proporzioni ma una numerosa ed ottima artiglieria, decise allora di stanarli marciando su Ravenna, nella convinzione, che si rivelò corretta, che essi non avrebbero potuto esimersi dall’accorrere in soccorso della città; dopo aver espugnata Russi, il 9 di Aprile si accostò alla città ponendo l’accampamento fra Ronco e Montone e, il giorno stesso, fece un tentativo di prenderla d’assalto; la Lega aveva però fatto a tempo a far entrare in città un contingente spagnolo, comandato da Marcantonio Colonna, che si aggiungeva alla preesistente guarnigione pontificia, e l’attacco francese fu respinto con sensibili perdite. Il giorno seguente i francesi, cui era ormai giunta notizia che l’intero esercito della Lega stava avanzando verso di loro, stettero fermi sulle loro posizioni, consigliandosi sul da farsi; in effetti gli ispano-pontifici, che all’inizio di questa fase delle operazioni si trovavano a Faenza, si erano poi portati a Forlì, da dove, passato il Ronco a breve distanza dalla città, avanzarono tenendosi sulla riva destra del fiume e vennero ad accamparsi, quello stesso 10 Aprile, a pochi chilometri da Ravenna. Per i dettagli sulle forze in campo nonché sul loro schieramento e sull’andamento della battaglia che, per la risoluta volontà di Gastone di Foix, fu ingaggiata il giorno seguente 11 Aprile (che era il giorno di Pasqua) rimandiamo, rispettivamente, all’Appendice A ed ai capitoli che seguono. Qui ci basta completare la nostra narrazione degli avvenimenti di quell’anno 1512, il cui sviluppo, lo diciamo subito, fu tale da rendere del tutto inutile la vittoria francese di Ravenna, che pure era stata completa come poche. Ciò fu dovuto non tanto alla pur grave perdita subita dai francesi per la morte del loro brillante giovane comandante, ucciso a battaglia ormai vinta, quanto al fatto che, nei mesi seguenti, vennero rapidamente a maturazione le grandi manovre avviate in tutta Europa dalla diplomazia pontificia. Enrico VIII d’Inghilterra, gettata la maschera, si preparava ad inviare un esercito nel continente e tale minaccia, che rievocava le tristi memorie della guerra dei Cento Anni, indusse Luigi XII non solo a rinunciare ad inviare rinforzi in Italia, ma anzi a richiamare parte delle truppe che già vi si trovavano; nel frattempo anche gli svizzeri, dopo tante false partenze, scendevano in forze in Italia e, in congiunzione con i veneziani, attaccavano la Lombardia da oriente; in queste circostanze il La Palisse, cui, dopo la morte di Foix, era toccato il comando dell’esercito vittorioso a Ravenna, nonché marciare su Roma, fu costretto a ripiegare in Lombardia. La Palisse, il cui nome, a causa di uno strano equivoco, era destinato ad una fama postuma altrettanto strana (8), non possedeva certo l’intuito e la fulminea rapidità di decisione di Gastone di Foix, ma era pur sempre un soldato di lunga esperienza; senonché, insieme agli altri capi francesi, egli si trovò in una situazione senza speranza, perché anche Massimiliano ruppe l’alleanza e, di conseguenza, i lanzichenecchi tedeschi, che si erano distinti a Ravenna, abbandonarono l’esercito francese, privandolo così della sua unica fanteria di qualità proprio mentre le temute fanterie svizzere si aggiungevano alle forze dei suoi nemici. Così ai francesi non restò altro che abbandonare l’Italia senza combattere, lasciandosi dietro nelle fortezze di Milano, Brescia, Genova e di alcuni altri luoghi, dei presidi che non poterono comunque sostenersi a lungo; prima che finisse l’anno 1512 papa Giulio II poteva quindi vantare, non senza ragione, un trionfo completo; solo gli anni successivi avrebbero mostrato quanto fosse effimero, e quanto fosse ormai difficile “liberare l’Italia dai barbari”.

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Note al Cap.3:

1. Dopo la prima cacciata di Lodovico il Moro da Milano, l’imperatore aveva in effetti favorito il suo tentativo di recuperare il ducato, che si era però rivelato effimero; successivamente (1505) si era adattato a concedere l’investitura del ducato al re francese, ma solo nella prospettiva di un futuro matrimonio fra suo nipote Carlo, figlio di Filippo (il futuro Carlo V, che all’epoca aveva solo cinque anni) e la figlia di Luigi, Claudia, che avrebbe dovuto avere come dote proprio il ducato di Milano; tuttavia, di lì a poco, Luigi XII fece saltare l’accordo, fidanzando Claudia con Francesco di Angouleme (il futuro Francesco I) il quale, non avendo egli figli maschi, appariva destinato a succedergli come re di Francia.

2. I veneziani avevano occupato Ravenna, cui si aggiunse in seguito Cervia con le sue saline, fin dal 1441, al tempo delle guerre con Filippo Maria Visconti; più recente era il possesso di Rimini e Faenza, acquisito nella confusione che aveva fatto seguito alla morte di Alessandro VI ed alla caduta del Valentino (Cesare Borgia); in questa stessa occasione la Chiesa era almeno riuscita a recuperare Cesena e Forlì, nonché Bologna.

3. Sembra che, almeno in un primo momento, Giulio II fosse disposto ad accontentarsi di Rimini e Faenza, che erano acquisizioni recentissime e certo non di vitale importanza, ma Venezia rifiutò qualsiasi concessione.

4. Firenze, tornata alla repubblica dopo la discesa di Carlo VIII, era stata da allora in poi assorbita dalla lotta per il ricupero di Pisa, ribellatasi in quella stessa occasione, lotta che era riuscita a concludere con successo solo nel 1509; il suo era comunque un regime debole ed instabile, continuamente sotto l’incubo del ritorno dei Medici, i quali disponevano di forti aderenze interne ed esterne, e che si sentiva quindi obbligato a seguire una politica di timorosa neutralità.

5. Esso si svolse effettivamente a Roma, in Laterano, ma iniziò solo nel Maggio del 1512, ossia un po’ dopo la battaglia di Ravenna.

6. Gastone di Foix, duca di Nemours, era nato il 10 Dicembre 1489 da Giovanni di Foix e da una sorella di Luigi XII; sua sorella, Germana di Foix, aveva sposato qualche anno prima il vecchio Ferdinando di Spagna, vedovo di Isabella di Castiglia, ed era quindi, in quel momento, la regina di quegli stessi spagnoli con cui Gastone si apprestava a battersi.

7. Re Ferdinando aveva deciso di non servirsi del gran capitano, Consalvo di Cordova, della cui gloria militare era, a quanto sembra, geloso; non c’è dubbio che la sua scelta sia stata poco felice.

8. Jacques de Chabannes de La Palice, o La Palisse, è infatti passato alla storia, senza sua colpa, attraverso il termine “lapalissiano” che è, come noto, sinonimo di ovvio. Dopo la sua morte, avvenuta nella battaglia di Pavia (1525), la stessa in cui il re di Francia, Francesco I, cadde prigioniero, i suoi soldati, per celebrare la sua memoria, avevano composto una strofetta che recitava fra l’altro: hélas, s’il n’estoit pas mort il ferait encor envie (ahimé, se non fosse morto susciterebbe ancora invidia); disgraziatamente, a causa di un errore di trascrizione facilmente comprensibile, la strofetta riemerse dall’oblio nel secolo successivo nella forma: hélas, s’il n’estoit pas mort, il serait encor en vie (ahimé, se non fosse morto sarebbe ancora in vita), un’affermazione senza alcun dubbio “lapalissiana”.

4. Le marce di avvicinamento e gli schieramenti Dopo aver espugnato Russi, l’esercito francese raggiunse Ravenna, provenendo da ovest, nella giornata del 9 Aprile 1512, Venerdì Santo; passato il Montone, su cui fu rapidamente gettato un ponte, si accampò fra i due fiumi, Montone e Ronco, che allora cingevano la città, il primo da nord-ovest ed il secondo da sud-est, per poi congiungersi prima di raggiungere il mare (vedi carte Figg.2-3) (1). Come si è già visto la difesa di Ravenna, originariamente affidata ad una guarnigione pontificia di un migliaio d’uomini, era stata tempestivamente rafforzata dal vicerè Raimondo di Cardona, che vi aveva inviato Marcantonio Colonna con i 100 uomini d’arme della sua compagnia e 500 fanti spagnoli (2). Quel giorno stesso i francesi, piazzata la loro poderosa artiglieria, sottoposero ad intenso bombardamento tutto il tratto di mura fra i due fiumi, dalla torre Zancana alla porta S. Mamante; sembra anzi che la torre suddetta fosse sottoposta anche al fuoco di un reparto di artiglieria rimasto appositamente in sinistra del Montone; una breccia fu infine aperta fra porta Gazza e porta

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S. Mamante ma i successivi attacchi francesi, sebbene condotti con grande decisione, incontrarono un’ostinata resistenza e furono respinti con sensibili perdite; sembra che particolarmente efficace nella difesa sia stata una colubrina che, facendo fuoco da una feritoia della torre Roncona (o dei Preti) colpiva gli attaccanti di fianco (vedi carta, Fig.2). Nel corso della giornata del 10 anche l’esercito della Lega si andò avvicinando a Ravenna provenendo da Forlì; all’inizio si tenne sulla riva sinistra del Ronco ma poi, all’incirca all’altezza di Durazzanino, passò su quella destra (3) per seguirla fino a 2 miglia (circa 3 chilometri) da Ravenna o, più probabilmente, dal campo francese (4) (Fabrizio Colonna, D.2); dato che i francesi erano sull’altra riva, le avanguardie a cavallo della Lega non dovettero trovar difficoltà a spingersi fino alla città in corrispondenza della porta Assisi (o Sisi) dove, presumibilmente, poterono entrare in contatto con i difensori ed avere da loro notizie sugli eventi del giorno prima; Fabrizio Colonna ed altri capitani della Lega avrebbero voluto accamparsi nel punto che avevano raggiunto, che avrebbe costretto i francesi, ove avessero voluto dar battaglia, ad allontanarsi alquanto dalla città; i loro suggerimenti furono però respinti dal vicerè Raimondo di Cardona, il quale ritenne preferibile seguire i consigli di Pedro Navarro, comandante della fanteria spagnola, che aveva invece già scelto una posizione di circa un miglio più avanzata. E’ opportuno, a questo punto, spendere due parole sull’organizzazione di comando della Lega che, come emerge chiaramente da tutta la vicenda, non era delle più soddisfacenti. Infatti se per l’esercito francese, di per sé abbastanza eterogeneo, il suo comandante, già esperto nonostante la giovane età, e che aveva dimostrato anche recentemente visione strategica e rapidità di esecuzione, rappresentava un punto di forza, lo stesso non sembra proprio si possa dire per Raimondo di Cardona. Nato nel 1467 da una delle migliori famiglie della nobiltà aragonese (5), questi era stato nominato vicerè di Napoli fin dal 1509 ed avrebbe mantenuto quest’alta carica fino alla sua morte (1522); non era privo di esperienza militare, ma era soprattutto un politico e comunque non aveva la forte personalità che sarebbe stata necessaria per far dimenticare il grande assente, Consalvo di Cordova; inoltre in diverse occasioni, nel corso della campagna, si mostrò incerto ed indeciso ed apparve come sballottato fra le contrastanti opinioni dei suoi subordinati. Fra questi Fabrizio Colonna (6), che comandava gli uomini d’arme dell’avanguardia, era certamente uno dei più prestigiosi e di più lunga esperienza militare e poteva contare, per di più, sul sostegno di altri membri del suo clan familare, suo nipote Marcantonio Colonna che, come si è visto, comandava ora la guarnigione di Ravenna, e suo genero, il giovane marchese di Pescara, comandante della cavalleria leggera (7); ciò nonostante il vicerè finiva quasi sempre per respingerne i suggerimenti e seguire quelli, spesso opposti, del comandante della fanteria Pedro Navarro, cosa che faceva non poco imbestialire il vecchio guerriero, tanto più che il Navarro, cosa rara per l’epoca, non era di origine aristocratica ed era quindi considerato un parvenu. Pedro Navarro, al contrario del vicerè, sembrava non avere mai dubbi sul da farsi; aveva iniziato la sua carriera come semplice marinaio (anzi come mozzo), ma aveva poi preso parte ad innumerevoli azioni di guerra, per mare e per terra, e, nelle campagne del Regno di Napoli, era stato uno dei principali collaboratori di Consalvo di Cordova, distinguendosi soprattutto nella difesa e nell’espugnazione di fortezze; si era così fatto la reputazione, probabilmente meritata, di uno dei maggiori ingegneri militari del suo tempo, particolarmente esperto di fortificazioni e di mine, ed era stato ricompensato da re Ferdinando con l’attribuzione della contea di Alvito (nel Regno di Napoli, presso il confine degli stati della Chiesa); per quanto riguarda la sua mentalità, sembra essere stata quella di un capitano di ventura pronto a servire il miglior offerente, visto che più tardi, poiché il suo sovrano tardava a riscattarlo dalla prigionia francese, risolse il problema passando al servizio proprio della Francia, in cui restò per il resto della sua carriera (8); bisogna dire, peraltro, che, in quest’epoca, un comportamento del genere era ancora considerato abbastanza normale e non particolarmente disdicevole. Le idee del Navarro non corrispondevano gran ché alle prudenti istruzioni di re Ferdinando (vedi Cap.2); in realtà, per quanto si può capire, egli non era affatto alieno dall’accettar battaglia, purchè

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la si potesse ingaggiare su una posizione opportunamente trincerata, lasciando al nemico l’onere dell’attacco; basandosi soprattutto sull’esperienza della giornata di Cerignola, cui aveva partecipato, egli riteneva che, nonostante la superiorità numerica francese, in tali condizioni la vittoria sarebbe stata possibile; al senno del poi risulta chiaro che il suo calcolo era sbagliato, soprattutto perché sottovalutava l’effetto della superiore artiglieria nemica, tuttavia, nel quadro della sua epoca, il suo errore è comprensibile, perché, fino ad allora, l’artiglieria non era mai riuscita a svolgere un ruolo veramente decisivo nelle battaglie in campo aperto. Fu dunque Navarro, come abbiamo già visto, a scegliere il luogo dell’accampamento nel pomeriggio del 10 e fu lui, la mattina della battaglia, di nuovo in contraddizione con Fabrizio Colonna e con altri, a convincere il vicerè a rinunciare a qualsiasi tentativo di ostacolare il passaggio del fiume da parte dei francesi per attendere invece l’attacco sui trinceramenti che egli aveva fatto predisporre nel frattempo; consistevano questi di un fossato e di un terrapieno ad esso parallelo, ottenuto colla terra di riporto, che iniziavano a pochi metri dall’argine del Ronco (20 braccia secondo Pandolfini (RP.1) e Guicciardini (RG.3)) e correvano per circa mezzo chilometro perpendicolarmente ad esso; dalla parte opposta al fiume la trincea faceva probabilmente un angolo di circa 90 gradi, per terminare dopo un breve tratto in quest’ultima direzione (vedi Fig. 4a). Subito dietro il terrapieno Navarro aveva schierato da 30 a 50 carrette di sua invenzione, su cui erano piazzate della armi da fuoco, presumibilmente dei grossi archibugi (9); altre fonti (Loyal Serviteur, RL.1) parlano di circa 200 archibugi distribuiti lungo la fronte spagnola e, poiché è difficile che su ogni carretta ne stessero più di due, gli altri dovevano essere semplicemente appoggiati sul terrapieno. Quella di servire da supporto per gli archibugi non era comunque l’unica funzione assegnata alle carrette; esse dovevano anche ostacolare l’avanzata dei quadrati di fanteria nemici creando confusione nei loro ranghi serrati e determinando vuoti nella siepe delle loro picche; a questo fine erano anche corredate di una sorta di spiedi rivolti verso il nemico e di un perno, che poteva essere infisso nel suolo per bloccarle in posizione; è presumibile che siano state schierate col lato lungo, di circa 2 metri, disposto parallelamente al terrapieno e subito dietro di questo. L’intera artiglieria della Lega, costituita da 24 cannoni, era stata piazzata poco dietro il terrapieno alla sua estremità sinistra (dalla parte del Ronco), dove può aver occupato uno spazio di 120 metri circa (10); un po’ piu indietro stavano gli uomini d’arme dell’avanguardia, il reparto comandato da Fabrizio Colonna; a destra dei cannoni, dietro la rimanente lunghezza del terrapieno, nonché dietro ad archibugi e carrette, stava schierata la fanteria dell’avanguardia, circa 5.000 spagnoli che costituivano i reparti più scelti a disposizione di Navarro. Precisiamo qui che, per quanto riguarda gli effettivi, sia della Lega che francesi, la presente esposizione si basa su un’analisi delle fonti che, per evitare di appesantire troppo la narrazione, abbiamo preferito svolgere separatamente nell’Appendice A; rimandiamo in particolare alla Tab.3, che ne riassume i risultati. La battaglia e la retroguardia della Lega stavano schierate la prima a debita distanza dietro l’avanguardia, la seconda dietro la prima, entrambe con gli uomini d’arme a cavallo a sinistra, presso l’argine del fiume e le fanterie a destra (11); gli uomini d’arme della battaglia, presso i quali aveva preso posizione anche Raimondo di Cardona col suo seguito, erano comandati dal marchese di Padula, quelli della retroguardia da Alonso Carvajal; la cavalleria leggera, comandata, come già sappiamo, dal marchese di Pescara, si teneva su una posizione alquanto arretrata ma tale da coprire il fianco destro dell’intero dispositivo (vedi Fig.4a) (12). Il legato di Giulio II, il cardinale Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico e futuro papa Leone X, si era aggregato al vicerè; uomo di indole pacifica, oltre tutto molto miope, doveva sentirsi poco a suo agio nell’imminenza dello scontro (Guicciardini). Ciò che colpisce maggiormente in un tale dispositivo è la posizione dei tre reparti di uomini d’arme, schierati uno dietro l’altro presso il Ronco, quando, dal momento che, come abbiamo visto, la trincea di Navarro arrivava fin quasi all’argine, vi era ben poco spazio per attaccare da quella parte; evidentemente l’idea era di tenere queste truppe il più possibile al riparo ed al di fuori delle prime

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fasi della battaglia che, in base all’impostazione ispirata soprattutto dal Navarro, dovevano avere carattere esclusivamente difensivo; gli uomini d’arme avrebbero potuto intervenire più tardi, dopo che il nemico si fosse sufficientemente logorato, ma allora avrebbero dovuto quasi certamente spostarsi sulla destra. L’esercito della Lega, che non doveva effettuare alcuna marcia di avvicinamento, assunse queste posizioni già di buon ora nella mattinata dell’11 Aprile, che era il giorno di Pasqua; da parte sua Gastone di Foix, probabilmente già il giorno prima, aveva fatto gettare un ponte sul Ronco a circa un miglio di distanza dalle posizione nemiche (Fabrizio Colonna), cosicchè fin dalla prima mattina il suo esercito si era messo in movimento ed aveva cominciato a passare il fiume; per la verità questo sembra essere stato facilmente guadabile, come del resto è anche oggi la più parte del tempo, per cui dobbiamo supporre che il ponte servisse soprattutto per l’artiglieria; il resto del bagaglio pesante rimase nell’accampamento sulla sinistra del fiume, sotto la protezione di un contingente di fanti italiani (vedi App.A, nota 6). Mentre le colonne del suo esercito marciavano incontro al nemico, Gastone di Foix, precedendole, si spinse a cavallo lungo l’argine del fiume per osservare più da vicino il dispositivo avversario; con lui era una ventina di brillanti cavalieri fra cui suo cugino Odet de Foix, visconte di Lautrec (11), Yves d’Alégre e Baiardo, il “cavaliere senza macchia e senza paura” al cui fedele cronista, “le loyal serviteur” (14), dobbiamo l‘episodio che segue. Incontro a loro si fece un drappello parimenti esiguo di cavalieri spagnoli, spintosi anch’esso in avanscoperta, di cui facevano parte il marchese di Padula, comandante degli uomini d’arme della battaglia, e Pedro de Paz, uno dei capitani della cavalleria leggera; non ci fu scontro ma anzi, nella più pura tradizione cavalleresca, uno scambio di fiorite cortesie; gli spagnoli riconobbero Baiardo, famoso anche fra di loro per i suoi atti di valore, e da questi appresero di trovarsi di fronte al comandante nemico Gastone di Foix, oltretutto fratello della loro regina (Cap.3, nota 6), dopodiché i due gruppi di cavalieri si separarono pacificamente; notiamo per inciso che, dei sei personaggi appena citati, solo Baiardo uscì libero ed illeso dalla battaglia; Odet de Foix rimase ferito in modo grave, il marchese di Padula cadde prigioniero, e gli altri tre persero la vita. Fin qui si sarebbe potuto parlare, con Ludovico Ariosto, della “gran virtù dei cavalieri antiqui”, ma a questo punto assistiamo ad un brusco cambio di registro; dal punto che avevano raggiunto i capi francesi potevano osservare chiaramente lo schieramento nemico ed in particolare gli uomini d’arme di Fabrizio Colonna che si trovavano, come sappiamo, presso l’argine del fiume; Baiardo e d’Alègre fecero allora notare al Foix che questo reparto avrebbe potuto essere colpito con particolare efficacia piazzando dei cannoni all’incirca alla sua altezza sull’argine opposto (sinistro) del Ronco e Gastone, cogliendo al volo l’opportunità, diede subito disposizioni affinchè due cannoni (o colubrine) venissero riportati sull’altra riva (o forse non avevano ancora passato il fiume) e piazzati come suggerito; di nuovo viene in mente l’Ariosto ma, questa volta, per notare come gli epigoni della cavalleria avessero ormai accettato il “maledetto , abominoso ordigno” e stessero anzi imparando ad usarlo in modo tatticamente efficace. A conclusione della loro marcia di avvicinamento le truppe francesi presero posizione secondo uno schieramento decisamente aggressivo; all’estrema destra, e cioè vicino al fiume e di fronte all’artiglieria nemica ed al reparto di Fabrizio Colonna, fu piazzata la parte maggiore dell’artiglieria, un po’ più indietro stavano gli uomini d’arme dell’avanguardia sotto la guida del La Palisse (15), subito a sinistra, di fronte alla parte rimanente della trincea nemica, era tutta la numerosa fanteria dell’avanguardia, comprendente i lanzichenecchi, organizzati in quattro compagnie, i cui capitani erano Jacob Empser, il bastardo di Cleves e i due fratelli Gaspar, Jacob e Filippo, ed altrettante compagnie francesi o guascone, guidate dai signori di Molard, Maugiron, Bonnivet e dal barone di Grammont (Sanuto, D.1). Secondo Guicciardini il resto delle fanterie francesi (battaglia e retroguardia) e la cavalleria leggera si schierarono ancora più a sinistra, secondo una linea arcuata a “forma di mezza luna” , che già faceva presagire un movimento aggirante oltre l’estremità orientale della trincea spagnola; sembra però più probabile che, in realtà, la fanteria della battaglia abbia assunto una posizione un po’

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arretrata dietro quella dell’avanguardia, come appare implicito in un’annotazione ad essa riferita, che il Sanuto riporta (Si agiongerà a l’avanguarda o a la dernier guarda, s’el bisognarà, vedi D.1, anche nota 1) e nel suo effettivo successivo utilizzo in un movimento aggirante sulla destra, cioè dalla parte del fiume (vedi Cap.5); gli uomini d’arme della battaglia si posizionarono da qualche parte al centro ed alquanto più arretrati (16), mentre quelli della retroguardia, sotto il comando di Yves D’Alègre, almeno nella fase iniziale, rimanevano indietro, presso il ponte sul Ronco (Pandolfini); cavalcava coi primi il cardinale di Sanseverino, legato del Concilio filo francese, che, fisicamente poderoso ed armato da capo a piedi, aveva un aspetto ben altrimenti marziale del cardinale de’ Medici; sempre Guicciardini ci dice che, fin dalle prime fasi della battaglia, il duca di Ferrara condusse all’estrema ala sinistra un cospicuo reparto di artiglieria (probabilmente la sua che, come sappiamo (Cap.3), era numerosa); ci troviamo qui di fronte ad una seconda e più cospicua manifestazione di spirito inventivo nell’impiego dell’artiglieria, che avrebbe esercitato un influsso decisivo sull’andamento della battaglia (17); naturalmente questo tipo di manovre era reso possibile, per la parte francese, anche dalla netta superiorità numerica in fatto di cannoni (vedi Appendice A, Tab.3). A questo punto, quindi, i due schieramenti avevano assunto la forma che abbiamo cercato di ricostruire in Fig.4a. Note al Cap.4:

1. Come è noto la situazione attuale, in cui Ronco e Montone si congiungono e procedono poi verso il mare rimanendo alcuni chilometri a sud della città, è il risultato di un intervento di sistemazione idrica del XVIII secolo, motivato dal pericolo di inondazioni cui la città era esposta a causa della vicinanza dei due fiumi.

2. Ciò è quanto risulta dalla lettera di Fabrizio Colonna (D.2), secondo cui il presidio originario consisteva di 100 cavalli leggeri agli ordini di Pedro de Castro e di 1000 fanti; Guicciardini parla di un rinforzo di 60 uomini d’arme della compagnia del Colonna, 100 cavalli leggeri sotto Pedro de Castro e 600 fanti spagnoli, ma non dà alcuna indicazione riguardo all’entità del presidio preesistente.

3. A quell’epoca esisteva una strada vera e propria fra Ravenna e Cesena, che seguiva a un di presso l’attuale tracciato (strada del Dismano), ma, per quanto riguarda il collegamento fra Ravenna e Forlì, ci si serviva indifferentemente di uno o dell’altro argine del Ronco.

4. E’ infatti presumibile che il campo francese, per evitare di essere fatto segno a tiri di cannone dalla città, ne fosse distante almeno un miglio.

5. Correvano poi delle voci che ne facevano un figlio illegittimo dello stesso re Ferdinando. 6. Fabrizio Colonna conte di Tagliacozzo e gran conestabile del Regno di Napoli, era nato prima del 1452 ed

aveva quindi almeno sessant’anni; al pari del suo parente ed all’incirca coetaneo Prospero Colonna, altro famoso condottiero dell’antica famiglia aristrocratica romana, che peraltro non era presente a Ravenna, poteva vantare una lunga e brillante carriera militare; aveva sposato Agnese di Montefeltro, figlia del duca di Urbino, Federico, e di Batista Sforza.

7. Fernando de Avalos, marchese di Pescara, futuro vincitore della battaglia di Pavia (1525) in cui cadde prigioniero il re di Francia, Francesco I; era nato nel 1490 e quindi aveva allora 22 anni; nel 1509 aveva sposato Vittoria Colonna, figlia di Fabrizio, a sua volta un personaggio di rilievo nel quadro culturale del Rinascimento, poetessa nonchè ammiratrice ed amica di Michelangelo.

8. Re Ferdinando reagì togliendogli la contea di Alvito ed assegnandola proprio al suo antico superiore, il vicerè Raimondo di Cardona, che poteva non essere un fulmine di guerra ma era almeno fedele.

9. Pandolfini e Guicciardini parlano di artiglieria minuta, ma in quest’epoca la distinzione fra artiglieria ed armi individuali era alquanto sfumata, dato che gli archibugi più grossi erano troppo pesanti perché un uomo solo potesse portarli comodamente; le carrette del Navarro ricordano quindi un po’ i carri dei wagenburg ussiti, anche se non è detto che il capitano spagnolo ne abbia mai sentito parlare.

10. Il dato numerico è di Zurita (RZ.1) ed è sostanzialmente confermato dal “Loyal serviteur” che parla di 20 cannoni; la posizione dell’artiglieria sulla sinistra è indicata con chiarezza dal solo Guicciardini: “ l’artiglierie erano poste alla testa delle genti d’arme”; sia Pandolfini che il “Loyal Serviteur” dicono che i cannoni erano situati davanti all’avanguardia, il ché è un po’ più vago ma non necessariamente in contraddizione con quanto sopra; diversa l’opinione di Zurita che colloca l’artiglieria presso un bosco, di cui nessuna altra fonte fa menzione, e che non è facile situare; nel seguito e nella stesura delle carte abbiamo seguito Guicciardini.

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11. I termini “avanguardia”, “battaglia” e “retroguardia” erano diventati di uso comune già nel corso del Medioevo; in origine il più importante dei tre corpi era la battaglia, con la quale, durante le marce, procedeva il bagaglio pesante ed anche il comandante in capo col suo seguito personale; ciò non toglie che un posto nell’avanguardia, ritenuto più pericoloso, fosse proprio per questo particolarmente ambito e prestigioso. A Ravenna troviamo una situazione un po’ diversa, poiché, per entrambi i contendenti, almeno per ciò che riguarda le fanterie, l’avanguardia era chiaramente il corpo più numeroso e più scelto.

12. La Fig.4a si basa, sia per le forze della Lega che per quelle francesi, sui numeri della Tab.3 dell’Appendice A, con le distanze indicate in calce alla figura medesima; l’entità e la disposizione dei reparti, benché in parte ipotetiche, sono coerenti con quel tanto che sappiamo dalle fonti, soprattutto dal Sanuto. I criteri seguiti nella compilazione di questa cartina, da cui derivano le seguenti, sono esposti più in dettaglio nell’Appendice A.

13. Odet de Foix, visconte di Lautrec, che, come vedremo, fu assai gravemente ferito nella battaglia, fu poi uno dei più importanti e prestigiosi capi militari francesi sotto il regno successivo, quello di Francesco I.

14. Pierre du Terrail, signore di Bayard, universalmente noto per i suoi atti di valore, fu riconosciuto dai suoi contemporanei come il prototipo del combattente impavido e del perfetto cavaliere; si era distinto nelle campagne nel Regno di Napoli ed aveva partecipato alla disfida di Barletta; morì a Rovasenda (Vercelli), in seguito a ferita d’arma da fuoco subita mentre copriva la ritirata dell’esercito francese, dopo la battaglia di Romagnano Sesia (1524). Principale fonte sulle sue gesta è la “Histoire du bon chevalier sans paour et sans reproche, gentil seigneur de Bayard ” (RL.1), scritta da un suo compagno d’armi, Jacques de Mailles, che si presenta semplicemente, appunto, come suo “loyal serviteur”.

15. Per qualche notizia su questo personaggio vedi Cap.3, nota 9. Secondo Pandolfini questo reparto era sotto il comando congiunto del La Palisse e del duca di Ferrara (che era anzi l’unico in comando secondo il Sanuto), però, come vedremo, quest’ultimo si spostò quasi subito sull’ala sinistra, per cui fu il la Palisse ad esercitare il comando effettivo.

16. Veramente Guicciardini ci dice che gli uomini d’arme della battaglia si schierarono più indietro presso la riva del fiume, ma ciò sembra assai poco logico ed è in contraddizione con quanto sappiamo sull’andamento della scontro di cavalleria (vedi Cap.5); del resto Guicciardini su questo punto fa chiaramente un po’ di confusione, perché attribuisce il comando di questo reparto al La Palisse che invece, secondo tutte le altre fonti, era a capo degli uomini d’arme dell’avanguardia.

17. L’idea di questa manovra viene generalmente attribuita allo stesso Alfonso d’Este, tuttavia non è pensabile che essa sia stata effettuata senza almeno l’approvazione di Gastone di Foix.

5. La battaglia Anche se avevano assunto uno schieramento decisamente offensivo, i francesi non avevano però alcuna intenzione di gettarsi a testa bassa contro le ben preparate posizioni avversarie; al contrario, essi si proponevano di stanare le forze della Lega, di costringerle a passare dalla difesa all’attacco e ad uscire dai propri trinceramenti, e per questo contavano essenzialmente sull’azione della propria superiore artiglieria. In accordo con questo disegno, le loro fanterie si fermarono ad una certa distanza dal fronte nemico (1), dopo di ché, per circa tre ore, non si ebbe altra azione che il duello delle opposte artiglierie. Questo sembrò dapprima svolgersi con vantaggio per la Lega, i cui cannoni, già in posizione fin dal mattino, poterono aprire subito il fuoco mentre i francesi stavano ancora piazzando i loro; ultimo ad entrare in azione fu, senza dubbio, il reparto d’artiglieria che, come abbiamo visto, il duca di Ferrara condusse sulla sinistra, con un’operazione che deve aver richiesto un certo tempo (2). Soffrì gravi perdite, in questa fase, soprattutto la fanteria dell’avanguardia francese, su cui i cannoni nemici facevano fuoco da breve distanza; non vengono invece riferite perdite significative degli uomini d’arme dell’avanguardia, che devono essersi tenuti alquanto più indietro, né, ed è ben comprensibile date le posizioni assunte, delle truppe (cavalleria e fanteria) della battaglia e della retroguardia. Man mano che le artiglierie francesi entravano a loro volta in azione la situazione cominciò a ribaltarsi; stando appiattiti a terra dietro la loro trincea, come Navarro aveva loro raccomandato di fare, i fanti spagnoli dell’avanguardia potevano forse essere abbastanza al sicuro dal tiro del reparto principale dell’artiglieria nemica, ma è dubbio che ciò potesse proteggerli dal fuoco aperto contro il loro fianco dai cannoni di Alfonso d’Este, che, dalla loro posizione, potevano anche colpire senza contrasto la fanteria della battaglia e la cavalleria leggera della Lega; quanto ai cannoni francesi

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sull’altra riva del fiume, anche se pochi, essi erano piazzati in posizione ideale per colpire gli uomini d’arme della Lega, soprattutto quelli di Fabrizio Colonna (vedi Fig.4a). Col passare del tempo la tortura, che le artiglierie nemiche infliggevano loro, diventava sempre più insopportabile per le truppe della Lega, per le quali quella di dover restare immobili sotto il fuoco era un’esperienza nuova e sconvolgente; quasi tutti i comandanti avrebbero voluto rompere gli indugi ed andare all’attacco, ma a questo continuava ad opporsi il Navarro, tenacemente coerente con la sua prima impostazione. Alla fine, secondo Fabrizio Colonna, fu il vicerè a rompere gli indugi, dando ordine di attaccare agli uomini d’arme della battaglia (marchese di Padula) e della retroguardia (Carvajal); contemporaneamente, forse per sua decisione indipendente, andò all’attacco anche il marchese di Pescara, la cui cavalleria leggera si scontrò con quella francese, nettamente superiore di numero, mentre i primi due contingenti puntarono contro gli uomini d’arme della battaglia francese; quest’ultimo fatto, che risulta chiaramente dalle testimonianze di Fabrizio Colonna e del “loyal serviteur”, implica che, nello schieramento delle fanterie francesi esistesse uno spazio vuoto abbastanza ampio da permettere il loro passaggio, secondo lo schema evidenziato in Fig.4b. Lo scontro degli uomini d’arme, violento e prolungato, è così descritto dal “loyal serviteur” che era con ogni probabilità della partita: “… et dura plus d’une grande demi heure ce combat. Ilz se reposoient les ungs devant le autres, pour reprendre leur alayne, puis baissoient la veue, et recommençoient de plus belle, … (e questo combattimento durò parecchio più di mezz’ora (3). Si riposavano gli uni in vista degli altri, per riprendere fiato, poi tornavano ad abbassare la celata e ricominciavano più forte di prima, …)” All’inizio gli spagnoli godevano di una certa superiorità numerica, anche se non di due a uno come ci dice il “loyal serviteur”, comprensibilmente portato a magnificare il valore dimostrato dalla sua parte; la nostra tabella assegna infatti 490 e 430 uomini d’arme, rispettivamente, alla battaglia ed alla retroguardia della Lega, per un totale di 920, e 650 alla battaglia francese; tuttavia D’Alègre si era certamente già congiunto alla battaglia coi circa 200 uomini d’arme della retroguardia, come prova il fatto che proprio lui andò a cercare rinforzi, e quindi i francesi erano in totale 850; comunque per qualche tempo i francesi si trovarono evidentemente in difficoltà perché, appunto, d’Alègre, presumibilmente per ordine di Gastone di Foix, che partecipava personalmente al combattimento, corse verso gli uomini d’arme dell’avanguardia francese che, come sappiamo, si trovavano presso la riva del Ronco, chiedendo a gran voce soccorso; il comandante di quel reparto, La Palisse, reagì prontamente, inviando un contingente di cui non ci viene detta la forza, ma che possiamo ragionevolmente ipotizzare fosse dell’ordine di 200 uomini d’arme, e l’arrivo di queste forze fresche decise finalmente le sorti dello scontro (e in certo senso anche quelle dell’intera battaglia). Fabrizio Colonna che, a quanto ci dice, non era stato consultato né informato dal vicerè a proposito dell’attacco, avrebbe comunque voluto unirsi ad esso coi suoi uomini d’arme e chiese a Pedro Navarro di passare anch’egli all’attacco con le sue fanterie, ma incontrò un rifiuto; quando, alla fine, si decise a mettersi comunque in movimento, le sorti del combattimento erano ormai segnate, perché gli uomini d’arme sconfitti della battaglia e della retroguardia già stavano rifluendo in disordine per lo stesso corridoio che avevano percorso andando all’attacco; i suoi sforzi per fermare la rotta risultarono quindi vani, anzi anche i suoi uomini, già decimati e demoralizzati per il lungo tormento inflitto loro dai cannoni francesi, si lasciarono in gran parte travolgere nello sbandamento generale (4). Poiché, nel frattempo, anche la cavalleria leggera della Lega era stata travolta da quella nemica, il combattimento delle opposte cavalleria si chiudeva con una completa vittoria francese; l’intera cavalleria della Lega, spazzata via dal campo di battaglia, fuggì in piena rotta verso Cesena, inseguita da una forte aliquota di uomini d’arme (con Baiardo) e, presumibilmente, di cavalli leggeri francesi, la quale, di conseguenza, non partecipò neanch’essa al successivo svolgimento della battaglia; Fabrizio Colonna, con un pugno di uomini d’arme che non si erano dati alla fuga, si

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riportò nella sua precedente posizione presso il fiume, deciso a combattere fino in fondo a fianco della fanteria. La sconfitta della Lega era ora praticamente certa, ma rimanevano da definirne le proporzioni; sembrerebbe che, a questo punto, la linea di condotta più logica, per la Lega, avrebbe dovuto consistere in una ordinata ritirata delle truppe residue, cioè delle fanterie (5), che non avevano ancora subito perdite troppo gravi; ciò era tutt’altro che impossibile, perché, come anche alcuni eventi successivi avrebbero dimostrato, delle fanterie solide e capaci di mantenere la propria coesione anche durante la marcia, come erano certamente quelle della Lega, avevano ottime probabilità di respingere con successo qualsiasi attacco della cavalleria nemica. Sarebbe toccato evidentemente a Raimondo di Cardona prendere in mano la situazione e dare i comandi necessari, ma il vicerè sembra aver perso completamente la testa, perché, senza preoccuparsi di chi restava, si diede alla fuga col suo seguito subito dopo la sconfitta della cavalleria (6); quanto a Navarro, non sembra aver mai preso in considerazione la possibilità di una tempestiva ritirata; occorre dire che egli non ebbe molto tempo per pensare, perché ora anche le fanterie francesi, rotti gli indugi, andarono all’attacco. La lotta delle fanterie, che ora seguì, può essere vista come suddivisa in tre settori, centro, ala destra francese (lato fiume) ed ala sinistra. Al centro i lanzichenecchi e le altre fanterie dell’avanguardia francese andarono a cozzare contro le fanterie spagnole dell’avanguardia, schierate dietro il lato lungo della loro trincea; qui, dall’una e dall’altra parte, erano impegnate le truppe più numerose e migliori ed il risultato fu uno stallo prolungato e sanguinoso. Non sentiamo più parlare, in questa fase, delle carrette del Navarro, ed è quindi lecito pensare che non abbiano svolto un ruolo importante; quanto agli archibugi, che certamente erano stati utili nella fase precedente, non potevano più esserlo molto una volta ingaggiata la mischia; diede ottima prova, secondo il generale giudizio, la fanteria spagnola, caratterizzata da una più elevata proporzione, rispetto agli armati di picca, di soldati equipaggiati con scudo e armi corte (spada), più efficaci quando si trattava di combattere in spazi ristretti (7). Sulla destra, dopo che Fabrizio Colonna ed i suoi uomini d’arme avevano evacuato la loro primitiva posizione presso l’argine del fiume, rimaneva un certo spazio libero fra le fanterie spagnole ed il fiume ed i francesi tentarono di approfittarne con una manovra aggirante; per questa furono impiegate le fanterie della battaglia (circa 2500 uomini in totale), composte per due terzi da truppe guasconi, prevalentemente arcieri, sotto la guida del cadetto di Durac e del capitano Odet e e per il resto da fanti della Piccardia, armati di picca e comandati dal signor di Moncaure (D.1 ed RL.1); secondo Guicciardini queste forze avanzarono nello stretto spazio fra argine e fiume in modo da sfuggire alla vista del nemico; non sembra comunque che siano riusciti a realizzare la sorpresa, perché furono subito fieramente contrastati da fanti italiani, con ogni probabilità facenti parte della battaglia della Lega; in un secondo momento si buttarono nella mischia da parte francese un piccolo contingente di uomini d’arme, fra cui Yves D’Alègre e suo figlio, che rimasero entrambi uccisi, dalla parte della Lega un contingente spagnolo, proveniente forse in parte dall’avanguardia in parte dalla battaglia (vedi Fig.4c) Alla fine i francesi (soprattutto i guasconi, il cui armamento era di scarsa utilità nel corpo a corpo) non poterono reggere all’impeto nemico e si sbandarono in rotta; trascinato dal suo slancio il contingente spagnolo, forte di un migliaio di uomini o forse più (8), raggiunse l’argine del Ronco e qui i suoi capitani dovettero porsi la domanda di cosa loro convenisse fare adesso; a quanto sembra essi decisero dapprima di attaccare l’artiglieria francese situata poco più a nord e presero ad avanzare verso di essa lungo l’argine; ben presto però, osservando la situazione dalla loro posizione sopraelevata, dovettero rendersi conto che la battaglia era ormai perduta per la loro parte e, invertendo la direzione di marcia, cominciarono a ritirarsi in buon ordine, sempre seguendo l’argine; ma, come vedremo fra poco, avrebbero ancora recitato un ruolo importante nella giornata. Le nostre fonti, che pure sono concordi nell’evidenziare come, già nel loro schieramento iniziale, le forze francesi accennassero ad una manovra di aggiramento sulla propria sinistra, sono poi avare di

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notizie sullo svolgimento della battaglia su questa ala; eppure ci sono tutte le ragioni per credere che, proprio su questo lato, si sia verificato il crollo finale del dispositivo difensivo della Lega. Qui i francesi potevano contare sui circa 3000 fanti (prevalentemente italiani) della loro retroguardia e, senza dubbio, su forti aliquote di uomini d’arme e cavalli leggeri che non erano andati con Baiardo all’inseguimento della cavalleria nemica, nonché, naturalmente, nella continuata azione di sostegno dell’artiglieria del duca di Ferrara; contro queste forze non c’era, dalla parte della Lega, che quella parte della fanteria della battaglia che non era stata risucchiata dai combattimenti sull’ala opposta, che abbiamo appena descritti, probabilmente non più di un migliaio di uomini e non dei più scelti; Navarro ed i suoi fanti dell’avanguardia, impegnati a fondo com’erano, possono aver fatto poco o niente per venire in aiuto; quanto ai fanti della retroguardia (circa 1500 uomini), Fabrizio Colonna ci dice di essere corso, presumibilmente in accordo col Navarro, a chiedere al loro comandante, l’italiano Ramazzotto, di impegnare anche questi, ma di aver incontrato un rifiuto. Quella di Ramazzotto non fu certo una decisione eroica, ma può ben darsi che fosse, dopo tutto, la più sensata; è ben difficile, infatti, data la situazione, che questi fanti avessero potuto fare altro che andare ad aumentare ulteriormente il conto delle perdite; e comunque Ramazzotto aveva un grosso alibi nel fatto che il comandante in capo, Raimondo di Cardona, se l’era già data a gambe. Anche Fabrizio Colonna, comunque, a questo punto decise di ritirarsi e lo fece mettendosi sulle orme del contingente spagnolo che stava ripiegando lungo l’argine ma, poiché era a cavallo, non potè inserirsi nella sua formazione compatta, fu preso a bersaglio dagli archi (o dagli schioppetti) dei fanti francesi incalzanti, ferito, disarcionato e fatto prigioniero; a quanto egli stesso ci dice, dovette la salvezza al duca di Ferrara, che evidentemente aveva lasciato ad altri la direzione della sua artiglieria per partecipare alla fase finale dei combattimenti e che, conoscendolo bene, arrivò in tempo a strapparlo dalle mani dei fanti che stavano per ucciderlo; questo episodio, insieme a quello, che vedremo fra poco, della morte di Gastone di Foix ed a non pochi altri, ci fa capire quanto le fanterie, dell’una e dell’altra parte, fossero pronte ad uccidere e poco inclini a fare prigionieri; col vecchio spirito cavalleresco esse non avevano, evidentemente, nulla da spartire. E’ implicito in tutto ciò che, in questo mentre, l’ala sinistra francese abbia potuto dilagare senza essere seriamente contrastata, accerchiando completamente o quasi le fanterie dell’avanguardia nemica; a questo punto, quindi, la battaglia assunse le caratteristiche che, secoli più tardi ed in contesti geografici ben più ampi, lo stato maggiore tedesco avrebbe riassunto nel termine “Kesselschlacht (battaglia-calderone)”, il calderone essendo lo spazio sempre più ridotto, in cui continuavano a battersi fino ad esaurimento, ormai circondate e condannate, le forze della Lega che ancora resistevano. Aggirandosi per il campo di battaglia con un piccolo seguito personale di uomini d’arme, Gastone di Foix seguiva da vicino, con legittima soddisfazione, il sempre più netto profilarsi della vittoria che aveva così fortemente voluta; come abbiamo visto, egli si era impegnato personalmente nello scontro degli uomini d’arme, tanto che Baiardo l’aveva visto, subito dopo, tutto coperto di sangue, peraltro non suo; in questo breve incontro lo stesso Baiardo, in procinto di partire all’inseguimento della cavalleria nemica, gli aveva fatto promettere che non si sarebbe più gettato nella mischia (9). Ad un certo punto, però, qualcuno attirò la sua attenzione sulla sconfitta subita dai guasconi e sul contingente spagnolo che l’aveva inflitta che, come sappiamo, si stava ritirando lungo l’argine del Ronco, in buon ordine e con le bandiere al vento; il giovane duca di Nemours non potè resistere alla tentazione di precipitarsi a caricare, col suo piccolo seguito, quell’unico reparto nemico ancora non sconfitto, ma fu disarcionato, forse da un colpo d’arma da fuoco, e, in un battibaleno, crivellato di ferite d’arma bianca ed ucciso (vedi Fig.4d); suo cugino Odet de Foix, visconte di Lautrec, subì quasi la stessa sorte ma non morì e, ben curato a Ferrara dopo la battaglia, potè ristabilirsi per andare ad occupare, nei decenni successivi, un ruolo militare di primaria importanza nel regno di Francia. Gli spagnoli, che probabilmente non si erano neanche resi conto di aver fatto delle vittime così illustri, continuarono a ripiegare lungo l’argine e, alquanto più tardi, incontrarono Baiardo che, con

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un distaccamento di uomini d’arme, tornava dal suo inseguimento; dopo qualche esitazione gli ufficiali delle due parti entrarono in parlamentari ed infine si trovarono d’accordo nel ritenere che, la battaglia essendo ormai stata combattuta e decisa, non fosse il caso di fare altri morti; così ognuno proseguì per la sua strada e Baiardo se ne ritornò verso il suo esercito, senza sapere di aver parlato con gli uccisori del suo comandante, della cui morte non era ancora al corrente (10). Intanto la battaglia, che era durata dalle otto di mattina alle quattro del pomeriggio (loyal serviteur) (11), si stava concludendo e nelle sue ultime fasi, nel “calderone”, deve aver assunto l’aspetto di un vero e proprio massacro; ne fu vittima soprattutto la fanteria dell’avanguardia spagnola, che si era battuta con grande valore, ma che, ormai circondata da ogni lato, non aveva alcuna possibilità di ritirarsi; Navarro, ferito, fu fatto prigioniero, ma abbiamo tutte le ragioni di pensare che la massa dei fanti sia stata semplicemente passata per le armi, perché le nostre fonti non fanno alcun riferimento a quantitativi rilevanti di prigionieri, ma solo a singoli personaggi, tutti di una certa importanza; fra questi, oltre a Fabrizio Colonna e Pedro Navarro, sono particolarmente da notare il marchese di Padula, capo degli uomini d’arme della battaglia, il giovane marchese di Pescara, comandante della cavalleria leggera ed alcuni grandi nobili del seguito del vicerè, quali il conte di Monte Leone ed il marchese di Bitonto, nonché lo stesso legato pontificio, il cardinale Giovanni de’Medici. Le morti erano comunque numerose anche fra le fila della nobiltà; nel reparto di Fabrizio Colonna su 11 capitani (comprendendo lo stesso Fabrizio) ne rimasero uccisi ben 6, mentre negli altri due reparti di uomini d’arme, quello del marchese di Padula e quello di Carvajal, la mortalità fu assai inferiore; questa differenza si spiega, molto probabilmente, col fatto che molti se non tutti i capitani di Fabrizio, anche dopo che i loro uomini si erano sbandati, tornarono con lui a combattere fino alla fine a fianco dei fanti, mentre i capitani degli altri due reparti si lasciarono coinvolgere nella rotta generale dei loro uomini, abbandonando il campo di battaglia (12). Possiamo ora tentare un bilancio delle perdite della Lega. Per quanto riguarda la cavalleria ci sembra evidente che, a parte quanto appena detto a proposito di Fabrizio Colonna e dei suoi capitani, il grosso, capi e gregari, potè salvarsi con la fuga, per cui le sue perdite si riducono a quelle subite nel corso del bombardamento iniziale e del successivo scontro con la cavalleria nemica, le quali, su un totale di 2700 cavalieri (1500 + 1200, vedi Tab.3), non possono aver superato di molto le 500 unità (fra morti e prigionieri); ben diverso è il discorso per i fanti dell’avanguardia che, per le ragioni già viste, ebbero una percentuale di perdite elevatissima, oltre tutto con pochissimi prigionieri; se a tali perdite aggiungiamo quelle, senza dubbio non indifferenti, della fanteria della battaglia, siamo indotti ad ipotizzare un totale di oltre 5.000 (quasi tutti morti) pari quindi a qualcosa più della metà delle fanterie impegnate (13); si salvarono solo i 1500 di Ramazzotto (14), i 1000 ÷ 2000 uomini ritiratisi lungo l’argine e, naturalmente, un certo numero di fuggiaschi sbandati. Pesanti furono, comunque, anche le perdite dei vincitori; anche qui fu soprattutto la fanteria dell’avanguardia a pagare il maggior tributo di sangue, sia durante la fase del reciproco bombardamento, sia durante la successiva lotta, lunga e sanguinosa, con i fanti spagnoli; rimasero uccisi tutti e quattro i capitani dei lanzichenecchi (Pietro Martire d’Anghiera, RA.2), di cui almeno uno, Filippo Gaspar, cadde già durante la fase del bombardamento, così come il capitano francese signor di Molard, mentre il signor di Maugiron ed il barone di Grammont persero la vita nel corpo a corpo (RL.1); non c’è quindi da dubitare che anche la truppa abbia subito gravi perdite. Gravemente malmenata fu anche la fanteria della battaglia nel suo fallito tentativo di aggiramento sulla destra, nel quale trovò la morte, fra gli altri, il capitano dei fanti di Piccardia, il signor di Moncaure, mentre, nonostante alcune morti illustri, quali quelle di d’Alègre e dello stesso Gastone di Foix, le perdite della cavalleria francese, sia pesante che leggera, sembrano essere state relativamente modeste. Non sembra quindi troppo lontana dal vero, per la parte francese, la valutazione complessiva del “loyal serviteur”: “(y finirent leurs jours)Des gens de pied environ trois mille hommes, et quatre vingtz hommes d’armes des ordonnances du roy de France, avecques sept de ses gentilz hommes et neuf archiers de la garde ((vi trovarono la morte) 3000 uomini della fanteria, 80 uomini d’arme

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delle compagnie d’ordinanza del re di Francia, con sette dei suoi gentiluomini e nove arcieri della sua guardia) (15). E tuttavia può essere opportuno ridimensionarla un po’, portandola a circa 2500 in totale, per avvicinarsi al rapporto di 1 a 3 fra le perdite delle due parti su cui insistono varie fonti (vedi Taylor, RT.1). Tutto ciò significa che, nel tardo pomeriggio di quel giorno di Pasqua, 8000 o 9000 morti giacevano sul campo di battaglia accatastati in breve spazio, uno spettacolo che lasciò un’impressione penosa in tutti coloro che ne furono testimoni, spesso inducendoli, come facilmente succede in questi casi, a stime manifestamente esagerate (fino a 20.000 morti). Anche con la valutazione più sobria che abbiamo appena fornito la percentuale delle perdite, rispetto al totale dei combattenti delle due parti, risulta comunque vicina ad un terzo; si tratta di una percentuale del tutto “moderna”, paragonabile cioè a quella di battaglie particolarmente sanguinose dell’Età Moderna, quali Malplaquet (1709) o Borodinò (1812) Note al Cap.5:

1. 200 passi, ossia circa 150 metri, secondo Pandolfini (200 braccia secondo Guicciardini); senza dubbio entrambi hanno in mente il fronte principale, su cui la fanteria dell’avanguardia francese si trovava di fronte il tratto lungo della trincea nemica, ma è da presumere che anche sulla loro ala sinistra le fanterie francesi si siano fermate ad una certa distanza dalla parte ad angolo della trincea.

2. Può anche darsi che questo reparto di artiglieria, a differenza degli altri cannoni, sia stato portato in posizione seguendo la strada di Cesena anziché quella sull’argine del fiume, che deve essere stata già abbastanza intasata dai cannoni del reparto principale; in ogni caso si trattava di un percorso sensibilmente più lungo.

3. E’ questa una durata poco usuale per un combattimento di questo tipo che, di solito, si risolveva in un solo urto, violento ma breve e decisivo.

4. La testimonianza di Fabrizio Colonna su questa fase ci sembra particolarmente degna di fede, anche perché non si può dire che egli vi faccia una grande figura; è infatti evidente che peccò di irresolutezza e che la sua decisione di intervenire fu troppo tardiva; se si fosse mosso in modo più tempestivo lo scontro di cavalleria avrebbe potuto avere un esito ben diverso. E’ comunque ben chiaro nel suo racconto che egli non attaccò dalla parte del fiume ma accorse verso la stessa zona dove già si combatteva (vedi Fig.4b).

5. Sarebbe invece stato probabilmente inevitabile l’abbandono dell’artiglieria, ma questo era un sacrificio accettabile, date le circostanze.

6. Per la verità il Sanuto (D.1) dà il vicerè come ferito, il chè fa pensare che egli sia stato personalmente coinvolto nella fase finale dello scontro di cavalleria e nella rotta susseguente; risulta del resto evidente, secondo la stessa fonte, che anche gran parte del suo seguito, se non tutto, prese parte alla lotta; infatti, dei 14 personaggi elencati, 4 persero la vita, uno fu ferito e due catturati.

7. Era questa una modifica, rispetto al modulo svizzero classico, che già Consalvo di Cordova aveva introdotto durante le campagne in Italia meridionale; essa comportava una minore forza d’urto, ma era vantaggiosa in una mischia serrata, dove manovrare la picca diventava difficile.

8. Fabrizio Colonna ed altri parlano addirittura di 3000 uomini, il chè sembra però eccessivo; il “loyal serviteur” parla invece di due bandiere il che fa pensare, appunto, a 1.000 uomini o poco più; può però anche darsi che altri minori reparti e/o fanti sbandati si siano aggregati durante la ritirata.

9. Dobbiamo questi particolari, peraltro plausibili, al “loyal serviteur”; Baiardo stesso, nella sua lettera del 14 Aprile (D.3), non ne fa alcun cenno ma conferma che Gastone aveva preso parte allo scontro degli uomini d’arme ed aveva anzi trafitto un nemico con la sua lancia.

10. Ancora una notizia plausibile del “loyal serviteur” di cui però lo stesso Baiardo non fa cenno. 11. Di queste otto ore all’incirca le prime tre, come abbiamo visto, erano trascorse nel duello di artiglierie, mentre

lo scontro di cavallerie era durato poco più di mezz’ora; la battaglia delle fanterie si era quindi prolungata per più di quattro ore.

12. Per l’elenco degli uccisi, nonché dei prigionieri e dei feriti, si veda il Sanuto (D.1); che alcuni dei capitani di Fabrizio abbiano seguito fino in fondo la sua sorte lo dice egli stesso, citando in tale contesto Pietro Cunio, priore di Messina, Diego di Guinove (Chignone?), entrambi uccisi, ed un non meglio identificato Guidone (D.2).

13. Lo stesso Zurita che pure, come l’altra fonte spagnola, l’autore della “Relacion”, tende a minimizzare le perdite della sua parte, dichiara che “se pusiero en salvo, segun se affirmava, mas de quatro mil infantes Españoles: por que el dia de la batalla, segun se tuvo por cierto, no se hallaron en ella ocho mil” (si posero in salvo, secondo quanto fu affermato, più di 4.000 fanti spagnoli: perché il giorno della battaglia, secondo quanto si teneva per certo, non vi parteciparono in più di 8.000); ammette quindi, in sostanza, che circa metà della fanteria spagnola rimase sul campo.

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14. Veramente sembra, da alcune fonti, che lo stesso Ramazzotto rimanesse seriamente ferito ed il Sanuto ci dice che i suoi fanti “morirono quasi tutti”; può darsi che essi siano stati attaccati durante la ritirata e abbiano subito seri danni; ciò non modifica però di molto il quadro generale.

15. E’ invece decisamente eccessiva la valutazione delle perdite della Lega dello stesso cronista, come del resto egli va molto vicino ad ammettere: “dix mille hommes, ou peu s’en faillit” (10.000 uomini, o poco ci mancò).

6. Conclusioni Il carattere di transizione della battaglia di Ravenna, da noi sottolineato fin dalla premessa, risulta già implicito nella narrazione che precede, ma non ci sembra comunque inutile evidenziarne, a mo’ di conclusione, gli aspetti più salienti. Nelle tattiche e nel modo di combattere e, più in generale, nel comportamento di capitani e truppe, così come, del resto, nell’atteggiamento mentale delle nostre fonti, non è infatti difficile individuare tratti che possiamo a buon diritto definire medievali, accanto ad altri, presenti a volte nella stessa persona, che, altrettanto chiaramente, preannunciano l’Età Moderna. Prendiamo in esame, per cominciare, il comando francese. E’ piuttosto evidente che Gastone di Foix, ben coadiuvato da un gruppo di collaboratori fidati (D’Alègre, La Palisse ed il duca di Ferrara sopra gli altri), riuscì ad esercitare un buon grado di controllo sulle sue truppe, il ché rappresenta già un progresso non piccolo rispetto alla tradizione cavalleresca medievale, anche se, ci sembra di poter dire, ciò fu dovuto molto più al prestigio del giovane comandante ed alla qualità dei suoi rapporti personali con i suoi capitani, che non ad un’organizzazione di comando chiaramente definita e stabile, della quale, tutt’al più, cominciava a manifestarsi solo qualche elemento; inoltre Gastone, ma anche il duca di Ferrara e d’Alègre, diedero una notevole dimostrazione di spirito inventivo e capacità di esecuzione nell’impiego dell’artiglieria. Eppure, d’altra parte, in certi momenti il comportamento di Gastone ci appare addirittura irresponsabile; che senso poteva avere che egli, colla responsabilità dell’intero esercito che gravava sulle sue spalle, si gettasse prima personalmente nella mischia degli uomini d’arme e corresse poi incontro alla morte sull’argine del Ronco? Non ne aveva evidentemente alcuno da un punto di vista moderno, ma Gastone ed i suoi commilitoni vedevano le cose in modo diverso perché, sotto questo profilo, essi erano ancora dei “cavalieri”, nel pieno significato medievale del termine, dei cavalieri il cui sport preferito continuava ad essere il torneo e per i quali il perseguimento della gloria, così come essi l’intendevano, rimaneva primario rispetto a quello della vittoria; e cosa c’era di più glorioso di una bella carica a lancia in resta e, eventualmente, quale morte più bella per un cavaliere? Per inciso, altrettanto caratteristica di questa stessa mentalità è la reazione dei cavalieri della Lega sotto il bombardamento; non era certo la morte in quanto tale che faceva loro paura, quanto un modo di morire che essi trovavano avvilente. Delle carenze del comando della Lega abbiamo già parlato a sufficienza; anche qui però si ha l’impressione che abbia giocato in senso sfavorevole, così come giocò in senso favorevole da parte francese, più che altro una particolare costellazione di rapporti personali, cioè un elemento in certa misura casuale, non intrinsecamente legato alle strutture organizzative, ma reso determinante dal fatto che queste, dall’una e all’altra parte, si trovavano ancora ad uno stadio embrionale. Ci troviamo di nuovo in pieno in ambiente cavalleresco, naturalmente, con gli scambi di cortesie che abbiamo narrato, prima della battaglia, fra i capitani spagnoli ed il seguito di Gastone di Foix, alla fine della stessa fra Baiardo e gli spagnoli in ritirata sull’argine; ed anche da un punto di vista strettamente militare è chiaro che lo scontro delle cavallerie, ma soprattutto quello degli uomini d’arme, fu del tutto in linea con la tradizione cavalleresca, anche perché ebbe effetti innegabilmente determinanti sull’esito dell’intera battaglia, un fatto questo, peraltro, che era destinato a ripetersi raramente nelle battaglie dell’epoca successiva.

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Resta però il fatto che esso ebbe luogo a seguito di un attacco cui la Lega fu indotta dall’azione dell’artiglieria nemica, in contraddizione con la tattica che si era inizialmente proposta di seguire, e che risultò decisivo solo alla lunga, dopo una sanguinosa battaglia di fanterie durata diverse ore.

Appendice A: Le forze in campo I dati riportati dalle nostre fonti più importanti sono riassunti nelle due tabelle che seguono:

Tab. 1: Forze francesi Sanuto

(D.1) Guicciardini (RG.3)

Pandolfini (RP.1)

Loyal serviteur (RL.1)

Bayard (RB.1)

Relacion … (RC.1)

Zurita (RZ.1)

Uomini d’arme: avanguardia

910 700 900 800 1000 N.P N.P

Uomini d’arme: battaglia

780 600 600 500 400 N.P N.P

Uomini d’arme: retroguardia

310 400 400 --- --- N.P N.P

Totale uomini d’arme

2000 1700 1900 1300 1400 2000 (1200) (7)

2000

Cavalli leggeri 2400 3000 1000 --- N.P 6000 (4000) (7)

4000 (8)

Fanteria avanguardia

9500 (1)

5000 (3) 6000 (3) 10000 (5) N.P N.P N.P

Fanteria battaglia

3000 8000 8000 2000 N.P N.P N.P

Fanteria retroguardia

4900 (2)

6000 (4) 6000 (4) 4000 (6) N.P N.P N.P

Totale fanteria 17400 19000 20000 16000 N.P 24000 (16000) (7)

24000

Totale effettivi 21800 23700 22900 17300 N.P 32000 (21200) (7)

30000

Pezzi d’artiglieria

N.P. N.P N.P N.P N.P N.P 50

Note Tab.1:

1. Di cui 5000 tedeschi (lanzichenecchi). 2. Senza alcuna spiegazione il totale viene diviso in due contingenti, rispettivamente di 3.150 e 1.750 uomini; è

possibile che la seconda cifra si riferisca alla parte rimasta a guardia dell’accampamento. 3. Tutti lanzichenecchi. 4. Di cui però 1000 rimasero a guardia dell’accampamento sotto Ravenna.

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5. Comprendono i lanzichenecchi, il cui numero non viene però precisato. 6. Questi fanti italiani sarebbero rimasti tutti a guardia dell’accampamento. 7. Fra parentesi le forze che avrebbero effettivamente partecipato alla battaglia, le altre essendo rimaste sull’altra

riva del Ronco. 8. Abbiamo aggiunto ai 2000 esplicitamente indicati i circa 2.000 arcieri a cavallo che dovevano essere abbinati

agli uomini d’arme.

Tab. 2: Forze della Lega Sanuto Guicciardi

ni Pandolfini

Giovanni da Fino (RF.1)

Loyal serviteur

Bayard Relacion …

Zurita

Uomini d’arme: avanguardia

670 800 800 N.P. 800 N.P 5000 N.P (4)

Uomini d’arme: battaglia

565 600 500 N.P. 400 N.P 1000 500

Uomini d’arme: retroguardia

490 400 100 N.P. --- N.P 700 700

Totale uomini d’arme

1725 1800 1400 1500 1200 1700 2200 1200

Cavalli leggeri N.P. N.P. 1500 --- --- N.P 2500 2000 Fanteria avanguardia

N.P 6000 6000 N.P N.P. N.P 2000 N.P

Fanteria battaglia

N.P. 4000 4000 N.P 2000 (2) N.P 3500 (3) N.P

Fanteria retroguardia

N.P. 4000 3000 N.P --- N.P 2700 N.P

Totale fanteria 11000 (1)

14000 13000 12000 N.P 14000 8200 10000 (5)

Totale effettivi 12725 + Cavalli leggeri

15800 + Cavalli leggeri

15900 13500 N.P 15700 + Cavalli leggeri

12900 13200

Pezzi d’artiglieria

N.P N.P N.P N.P 20 N.P N.P 24

Note Tab.2:

1. Di cui 9000 spagnoli e 2000 italiani sotto il comando di Ramazzotto; non viene precisato come questi fanti fossero distribuiti fra avanguardia, battaglia e retroguardia.

2. Fanti italiani di Ramazzotto. 3. Comprende la fanteria italiana di Ramazzotto che, secondo l’anonimo, era posizionata fra battaglia e

retroguardia. 4. Zurita sembra essersi dimenticato completamente del contingente di Fabrizio Colonna. 5. Fra varie affermazioni contraddittorie scegliamo quella di 8.000 fanti spagnoli, cui sono da aggiungere

probabilmente circa 2.000 italiani

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Come da esse risulta, le informazioni in nostro possesso, abbastanza copiose e provenienti in larga misura da testimoni oculari e/o da persone che è ragionevole supporre ben informate, presentano discordanze tutto sommato limitate e concorrono quindi a formare un quadro abbastanza ben definito; un’eccezione parziale è costituita dalle due fonti spagnole (Relacion e Zurita) che, per trovare una spiegazione alla disfatta della loro parte, tendono abbastanza chiaramente a sottostimare le forze della Lega e, soprattutto, a sovrastimare quelle francesi (1). Occorre dire, comunque, che tutti questi dati devono essere sottoposti a qualche riserva, legata alla loro intrinseca natura; è infatti assai probabile che, in ultima analisi, essi, o quanto meno i migliori fra essi, provengano dalle risultanze delle “ mostre”, cioè delle verifiche degli effettivi che venivano usualmente fatte agli inizi di ogni campagna o anche in altre occasioni particolari, e che siano quindi soggetti a due tipi di errori, entrambi per eccesso. Il primo è legato al fatto ben noto che i capi delle varie compagnie, per evidenti motivi di guadagno personale, avevano una certa tendenza a dichiarare effettivi maggiori del reale, che, anche in occasione delle mostre, riuscivano spesso, con vari accorgimenti, a far passare per veri; il secondo, tanto più importante quanto più lungo era l’intervallo di tempo trascorso dall’ultima mostra, ossia, il più delle volte, dall’inizio della campagna, era proporzionale al logorio prodotto dalla campagna stessa in termini di morti, malattie, diserzioni ecc. E’ quindi ragionevole pensare che le cifre riportate nelle precedenti tabelle siano tutte, più o meno, affette da tali errori e che in particolare il secondo sia tutt’altro che trascurabile, visto che la battaglia di Ravenna si situa dopo alcuni mesi di una campagna che, per entrambi gli eserciti, deve essere stata piuttosto logorante; riteniamo quindi che, se vogliamo avere un’idea realistica dell’entità delle masse di uomini in campo a Ravenna, sia opportuno apportare alle cifre medesime una riduzione che, a titolo inevitabilmente congetturale, stabiliamo intorno al 15%. A parte questo, ci sembra che, fra i dati delle precedenti tabelle, maggiormente meritevoli di essere presi come base di riferimento siano quelli del Sanuto (vedi Documenti, D.1), perché particolarmente ricchi di dettagli sulle varie compagnie, sia di cavalleria che di fanteria, e perché proprio questa loro struttura analitica fa pensare che essi abbiano origine in qualche rapporto dei servizi segreti veneziani; alcune annotazioni inserite nella parte riguardante le forze francesi fanno addirittura pensare che l’estensore di questo rapporto abbia avuto sotto mano un’ordinanza dello stesso Gastone di Foix. Passiamo quindi ad esaminare le principali discrepanze fra questa fonte e le altre. Per quanto riguarda gli uomini d’arme francesi i numeri del Sanuto sono i più alti di tutti; la differenza non è grande rispetto a Pandolfini e Guicciardini ma è notevole rispetto al “Loyal serviteur” e a Bayard che, oltre tutto concordano nel non menzionare alcuna retroguardia e nel far figurare Yves d’Alègre, che secondo Sanuto ed altri ne era a capo, come facente parte della battaglia; può darsi che, nei due francesi, giochi una certa tendenza a diminuire questi effettivi per far apparire ancora più gloriosa la vittoria; d’altra parte, però, non si può ignorare che almeno Bayard faceva personalmente parte di queste forze ed era quindi in grado di valutarne l’entità in modo molto diretto, mentre le altre fonti, in particolare Sanuto, si basano presumibilmente sui dati di qualche mostra alquanto precedente e quindi vanno, come minimo, assoggettati alla nostra suddetta correzione del 15% circa, tanto più che le cifre del Sanuto per le singole compagnie appaiono molto “tonde” e quindi un po’ sospette; in conclusione ci sembra ragionevole pensare che gli uomini d’arme francesi effettivamente in campo fossero circa 1600 e che la retroguardia di d’Alègre fosse poco numerosa e si sia presto congiunta agli altri reparti, cosa che potrebbe spiegare il silenzio dei due francesi. Per i cavalli leggeri Sanuto dà una cifra totale di 2400 unità, abbastanza congrua con quella di Guicciardini (3000) ma non con quella di Pandolfini (1000); d’altra parte, se si detraggono i 400 cavalieri attribuiti a due compagnie particolari (fra cui quella di Alfonso d’Este), ne restano 2000 che, data l’esatta coincidenza dei numeri, hanno tutta l’aria di non essere altro che la “parte leggera” delle lance, che, nella maggior parte dei casi, si supponeva, almeno in teoria, numericamente

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equivalente agli uomini d’arme (2); per coerenza con quanto ipotizzato più sopra dobbiamo quindi ridurre questa frazione a 1600 unità ed il totale dei cavalli leggeri a circa 2000. Per la fanteria il numero totale del Sanuto è un po’ inferiore a quelli di Guicciardini e Pandolfini, ma un po’ superiore a quello del “Loyal serviteur”; con quest’ultimo il grado di coincidenza è poi notevole anche per quanto riguarda le singole componenti (avanguardia, battaglia, retroguardia); dal dettaglio delle compagnie, che il Sanuto è l’unico a fornire, si vede che l’avanguardia comprendeva 5000 tedeschi (lanzichenecchi) delle compagnie di Jacob Empser, del bastardo di Cleves e dei due fratelli Gaspar ed era per il resto formata da francesi (e guasconi), che la battaglia era interamente francese (guasconi e piccardi per la precisione) e che la retroguardia era in prevalenza italiana e per il resto francese; i numeri “tondi” riportati dal Sanuto ci inducono ad apportare anche qui la nostra riduzione del 15% circa, coi risultati riportati in tabella; questi tengono anche conto del fatto che una forte aliquota della retroguardia, solo 1.000 uomini secondo Guicciardini e Pandolfini ma la totalità secondo il “Loyal serviteur”, rimase a guardia dell’accampamento sotto Ravenna (3); nella tabella ci siamo attenuti all’opinione dei primi, dato che, a nostro avviso, sarebbe stato poco logico, per i francesi, immobilizzare molto più di un migliaio di uomini per difendere l’accampamento. Passiamo ad occuparci delle forze della Lega: per quanto riguarda gli uomini d’arme anche qui è opportuna una certa riduzione delle cifre del Sanuto, per le solite ragioni ed anche per tener conto dei dati di Pandolfini e Giovanni da Fino (RF.1); d’altra parte non si può ignorare la testimonianza di Fabrizio Colonna, che, nella lettera scritta a poche settimane dalla battaglia, mentre era prigioniero a Ferrara (vedi Documenti, D.2), ci dice che le forze francesi erano “equali a noi de gente d’arme, et cum el terzo plui de fanti et doppio di cavalli legieri”; è vero che egli fa questa valutazione con riferimento ad una fase della campagna un poco precedente, ma ci sembra ragionevole supporre che i rapporti di forza non si siano modificati sostanzialmente nel breve periodo intercorso; abbiamo quindi ritenuto opportuno, per la nostra tabella, adottare un numero totale solo di poco inferiore a quello degli uomini d’arme francesi, il ché, del resto comporta, rispetto al Sanuto, un fattore di correzione molto vicino al nostro solito. Se supponessimo anche qui un rapporto unitario fra uomini d’arme e cavalli leggeri dovremmo adottare anche per questi ultimi la stessa cifra di 1500; abbiamo però preferito ridurla a 1200 per tener conto dell’indicazione di Fabrizio Colonna sopra riportata; ciò significa ipotizzare che le lance della Lega, per quanto riguarda la loro componente “leggera”, fossero notevolmente incomplete. Per la fanteria il Sanuto, senza specificare la divisione in avanguardia, battaglia e retroguardia, ci fornisce un totale di 11000, di cui 9000 spagnoli, il rimanente italiani sotto il comando di Ramazzotto; si tratta di un numero inferiore, anche se non drasticamente, a quello di tutte le altre fonti ad eccezione delle spagnole; come già detto queste sono spesso inficiate da una certa tendenza a ridurre gli effettivi della Lega ed a magnificare quelli francesi, tuttavia in questo caso esse sembrano plausibili (4): in particolare la “Relacion” riconosce che in base ai dati delle paghe si dovrebbe parlare di 9.000 fanti spagnoli e 2.000 italiani (gli stessi numeri del Sanuto, cosa che è difficile sia una pura coincidenza) ma poi, sulla base di considerazioni molto simili alle nostre, riduce questi effettivi, rispettivamente, a 6.700 e 1.500 (il contingente di Ramazzotto); questa riduzione può essere un po’ troppo drastica, ma ci sembra comunque che i numeri del Sanuto debbano essere ridotti in una qualche misura, anche se forse un po’ inferiore alla nostra solita, per cui, nella tabella, abbiamo ipotizzato 8.000 fanti spagnoli e 1.500 italiani, ossia 9.500 in totale, il ché fra l’altro ci dà, anche per le fanterie, un rapporto molto vicino a quello di 2 a 3 indicato da Fabrizio Colonna. Lascia invece perplessi la suddivisione in reparti indicata dalla “Relacion”, secondo la quale i 6.700 spagnoli si sarebbero suddivisi in parti pressoché uguali (più precisamente 2.000, 2.000 e 2.700) fra avanguardia, battaglia e retroguardia, mentre Ramazzotto, coi suoi 1.500 italiani, avrebbe assunto una posizione indipendente fra battaglia e retroguardia; ci sembra comunque probabile che, al più tardi dopo le prime cannonate, i fanti della battaglia siano andati a schierarsi con l’avanguardia a ridosso del terrapieno, cosa che, fra l’altro, assicurava loro la migliore protezione possibile contro

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l’artiglieria francese; in questo caso lo schieramento verrebbe a coincidere, a parte i numeri un po’ diversi, con quello che abbiamo ipotizzato nella Tabella 3. Sembra poi risultare da alcune fonti, ad esempio Guicciardini, che anche nella battaglia della Lega fossero presenti fanti italiani; l’apparente contraddizione si spiega però, probabilmente, con l’ambiguità del termine “spagnoli” usato in questo contesto; bisogna infatti presumere che fossero presenti consistenti aliquote di fanti del Regno di Napoli che, in quanto anch’essi sudditi di re Ferdinando, possono bene essere stati compresi sotto l’etichetta onnicomprensiva “spagnoli”. Quanto all’artiglieria le indicazioni sono più scarse, perché il Sanuto non fornisce alcun numero, né lo fanno le altre fonti, ad eccezione di Zurita, che attribuisce 24 cannoni alla Lega e 50 alla parte francese, e del Loyal Serviteur, che ne assegna 20 alla Lega; anche questi dati, comunque, concordano con la valutazione di Fabrizio Colonna (vedi D.2), secondo cui il rapporto di forze era più che doppio a favore dei francesi. Abbiamo in conclusione la situazione della seguente tabella:

Tab.3: Riepilogo degli effettivi Francesi Lega Uomini d’arme: avanguardia

750 580

Uomini d’arme: battaglia

650 490

Uomini d’arme: retroguardia

200 430

Totale uomini d’arme

1600 1500

Cavalli leggeri 2000 1200 Fanteria avanguardia

8000 (5) 5000

Fanteria battaglia 2500 3000 Fanteria retroguardia

3000 (6) 1500 (7)

Totale fanteria 13500 9500 Totale effettivi 17100 12200 Pezzi d’artiglieria 50 24 Ci restano da dare alcune delucidazioni sui criteri seguiti nella compilazione della cartina di Fig. 4a, da cui derivano consequenzialmente quelle delle Figg.4b,c,d; è evidente che l’adozione di criteri ben definiti di questo tipo era necessaria ai fini della rappresentazione, ma è altrettanto chiaro che, per quanto a nostro avviso plausibili, quelli scelti non sono gli unici possibili. Quanto agli uomini d’arme di entrambe le parti, si è supposto che avanguardia, battaglia e retroguardia fossero tutte schierate in un altrettanti unici reparti a forma di quadrato pieno, con le distanze fra cavaliere e cavaliere indicate nella Fig. 4a; gli effettivi di ognuno di questi reparti coincidono quindi con quelle della Tabella 3. Per le cavallerie leggere, più che altro per semplicità di rappresentazione, si è supposta un’unica formazione rettangolare piena di circa 30 cavalieri (120 metri) in profondità, il ché, con gli effettivi della tabella, porta ad un fronte di 67 cavalieri (268 metri) per i francesi e di 40 cavalieri (160 metri) per la Lega; quanto ai cannoni delle due parti si è supposto che, come sembra logico, essi fossero schierati in un'unica linea. Il discorso è un po’ più complesso per le fanterie, in quanto si è ritenuto che rappresentare le relative avanguardia, battaglia e retroguardia come reparti unici fosse troppo semplicistico e, d’altra parte, il Sanuto, almeno per la parte francese, ci dà una buona guida sulla loro suddivisione in reparti; per quanto riguarda i francesi abbiamo quindi preso i reparti indicati dal Sanuto, ne abbiamo

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moltiplicato gli effettivi per 0,85 in base alle considerazioni fatte più sopra, e li abbiamo rappresentati come quadrati pieni; ad esempio il reparto di lanzichenecchi di Jacob Empser (vedi D.1) appare nella cartina come un quadrato di 1.700 uomini (2.000x0,85), ossia di circa 41 uomini (82 metri) per lato; il discorso è appena un po’diverso per la retroguardia per cui abbiamo ipotizzato che i reparti fossero quelli del primo gruppo riportato dal Sanuto (vedi D.1); poiché i suoi effettivi complessivi corrispondono quasi esattamente ai 3.000 della Tabella 3, non è stata qui introdotta alcuna riduzione. Per le fanterie della Lega il Sanuto non ci fornisce alcuna suddivisione in reparti, ma ci dà l’elenco dei colonnelli spagnoli che li comandavano, in numero di 15 (8), cui bisogna aggiungere il reparto che Pedro Navarro comandava personalmente che era forte di 500 uomini (Pandolfini); abbiamo quindi 16 reparti per un totale di 8.000 uomini (avanguardia e battaglia), con una forza media di 500 uomini ciascuno; al solito li abbiamo rappresentati come altrettanti quadrati pieni; per analogia abbiamo poi supposto che anche il contingente di Ramazzotto fosse composto di 3 reparti di 500 uomini ciascuno. Note:

1. Altrettanto esse fanno nella valutazione delle perdite, in una misura del tutto improponibile. 2. Nella lettura delle fonti una certa confusione può essere generata dall’uso del termine “lance”; come abbiamo

visto, tale termine dovrebbe comprendere, a rigore, sia gli uomini d’arme, sia gli arcieri a cavallo ad essi abbinati, il più delle volte in una proporzione di uno ad uno (nonché un certo numero di valletti non combattenti); di conseguenza, quando i vari cronisti ci forniscono dei numeri relativi ai “cavalli leggeri”, non è sempre facile capire se essi comprendano o meno gli arcieri a cavallo delle lance.

3. L’autore della “Relacion” (RR.1) che dà, per l’insieme delle fanterie francesi, la valutazione abbastanza spropositata di 24.000 uomini, afferma d’altra parte che rimasero a guardia dell’accampamento, sull’altra riva del Ronco, niente meno che 8.000 fanti, 800 uomini d’arme e 2.000 cavalli leggeri.

4. Vedi anche Taylor, RT.1 pag. 206, nota B. 5. Di cui 4250 lanzichenecchi. 6. Si suppone che il resto della retroguardia, un migliaio di uomini o poco più, sia rimasto a guardia

dell’accampamento sotto Ravenna. 7. Il contingente italiano di Ramazzotto. 8. Un elenco analogo figura anche nella”Relacion” (RR.1), ma comprende solo 12 nomi che, per di più,

coincidono solo molto parzialmente con quelli del Sanuto.

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Documenti

D.1: Le forze in campo secondo i “Diarii” di M. San uto ( RS.1 pagg. 170 - 174) Lista de li capitanii et zente erano nel fato d’arme nel campo di spagnoli. Et nota. Dove è signà O davanti è morti; dove è C presi; dove è la * vulnerati, dove è E vulnerati e presi, et fo nel facto d’arme di Ravena. L’ antiguarda de Spagna. E La conduce lo illustrissimo signor Fabrizio Colona lanze 100 * Joan Turcho locotenente dil signor Prospero Colona “ 60 O Diego di Chignone locotenente dil gran capitanio “ 100 * Don Zoan de Givara “ 50 O Don Zoan de Cordova conte d’Avellino “ 60 O Piero Cunio prior di Messina “ 50 O Don Hironimo Lhores “ 50 * Antonio de Leyva “ 50 O Alverado “ 50 * Gaspar Pomaro “ 50 O Raphael de’ Pazi, fiorentino, capo di la Chiesia “ 50 Summa lanze 670 La bataglia. C La conduce lo illustrissimo marchese di la Padula lanze 90 * Troylo Pignatello locotenente dil ducha diTermene “ 90 C El conte de Populo Restaino Cantelmo “ 50 * Joane Vitello per la Chiesia “ 100 O Joanne Conte per la dita “ 40 * Joanne Antonio Ursino per la dita “ 40 * Comendator de Capua per la dita “ 60 * Joanne Saxatello “ 70 * Malatesta Baiono “ 25

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Summa lanze 505 La retroguarda * Don Alfonxo Carvagial lanze 100 El lochotenente de Diego Velasches “ 50 El lochotenente dil conte de Alta Mira “ 40 El lochotenente de domino Diego de Mendosa “ 60 El lochotenente de l’Adelantado de Galizia “ 70 El lochotenente de Judicho Velasches “ 15 El lochotenente di Piero Zabaeta “ 40 El lochotenente di Diego Urtado “ 40 El lochotenente de Piero Lopes de Padiglia “ 50 El lochotenente de Sicilia in persona “ 25 Summa lanze 490 C El signor marchexe di Pescara capo di cavali lizieri. O Don Petro de Pax. O El conte Romeo di Pepoli. Antonello de Trani maestro di l’artelaria. Noto * Lo illustrissimo vicerè stette ne la bataglia con li signori e baroni infrascripti: * Honorato Caietano duca di Traiecto | C Hector Pinatello conte di Monte Leon | C El marchese de Bitonte | Italiani O Hironimo Centiglia prior di Roma | Caraziolo marchese de l’Atella | Consalvo Botelio Lusitano O Turellio di Barzelona Morelio Beltrando Roverus Tristan Duartes O Pallatio fiol dil podestà di Napoli. Jordano Valentino. Aloysio Gordo. O Lopes Gartias. Fanti furno 9000 di natione spagnola soto il conte Pietro Navaro; li colonelli forono li infrascripti: Joanne Navaro Vaymo Diecio

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Bargas Samvolio Samaneco Martino Gomis Chiaves Riaga Arteta Alvaro Paredes Peralta Paniques Guza Mono Vergario Spinosa Soto a Ramazoto erano Capocia Romano furno 2000 italiani, quali morirno quasi tutti. Dentro di Ravena erano con el signor .Marco Antonio Colona, quando fu combatuta, i capi de’fanti: Pietro Rilliuno Don Galeazo Cristophoro Paredes Salazaro Don Petro de Castro, capo di cavali lizieri, fu ferito. Lista di le zente francese. L’ avanguardia. La conduce lo illustrissimo signor duca di Ferara lanze 100 Monsignor Lautrech “ 50 Monsignor la Palissa “ 50 Monsignor de Barbon “ 50 Monsignor lo gran scudier “ 100 Monsignor lo conte de Misocho “ 100 Monsignor de Umbricurt “ 40 Monsignor di Satiglion “ 50 Monsignor di Boysi “ 50 Monsignor lo sinischalco di Roverga “ 40 Monsignor de Frontaial “ 40 Monsignor de Plesir “ 100 Monsignor di Sedan “ 100 Monsignor di Masiers et li bastardi di Ridure “ 40 Suma lanze 910 Cavali lizieri. Missier Joanne Bernardino Caraciolo cavalli 2000 Lo bastardo de Bellana “ 100

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Li cavali lizieri dil signor ducha di Ferara “ 300 Suma 2400 Gente a piede Monsignor de Molard fanti 2000 (1700) Lo capitan Jacob Empser “ 2000 (1700) Lo bastardo de Cleves “ 1000 (850) Lo capitan Filippo “ 1000 (850) El fratello del soprascrito capitan Jacob Gaspar “ 1000 (850) Monsignor de Mongiron “ 1000 (850) Monsiguor de Bonivet “ 1000 (850) Lo baron de Grandiment “ 500 (425) Suma fanti 9500 (8075) Tutta la banda di l’artelaria con monsignor di Spano. La bataglia Monsignor lo gran sinischalco la conduce con li zentilomeni lanze 200 Monsignor de Corsul “ 200 La compagnia de monsignor de Nemors “ 100 Monsignor de Ubignì “ 50 Monsignor de Lorena “ 80 Monsignor de Dars “ 50 Monsignor lo Almiral “ 50 El signor Theodoro Triulzio “ 50 Suma lanze 780 Gente a piede in la bataglia. Lo cadet de Durac fanti 1000 (850) Lo capitan Odet “ 1000 (850) Monsignor de Moncoral “ 1000 (850) Suma fanti 3000 (2550) Si agiongerà a l’avanguarda o a la dernier guarda, s’el bisognarà(1). La darnier guarda. La conduce monsignor di Alegra con lanze 50 Monsignor lo marchexe di Monfera’ “ 100 Monsignor lo sinaschal di Remignac “ 25 Monsignor de Pria “ 60 Monsignor di Bua “ 25 Monsignor de Lanzon “ 50 Suma lanze 310

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Gente a piedi in la dernier guarda. El signor Federico da Bozolo fanti 1000 El conte Nicolò Scotto “ 500 El conte Paris Scotto “ 500 El marchexe Malaspina “ 350 El marchexe Bernabò “ 500 Longuevral “ 300 Suma fanti 3150 Antonio Belet fanti 250 Joanne Jacobo del Castelazo “ 500 Richebuert “ 500 Bardasan “ 500 Suma tutti fanti 4900 Monsignor de Nemors anderà per il campo con 40 in 50 homeni d’arme e tre o quatro capitani, che più li piacerano, sopravedendo et metendo ordine dove bisognerà (2) Questo exercito di francesi era contra spagnoli a dì 30 marzo 1512, et a dì 11 april fo combatuto apresso Ravena sopra la ripa dil Roncho. Lo qual exercito era lanze 2000, cavali lizieri 4000 (?); fanti in somma 17 milia et 400. Note:

1. Questa annotazione ha tutta l’aria di derivare da un’ordinanza dello stesso Gastone di Foix, presumibilmente emanata subito prima della battaglia.

2. Vale quanto detto alla nota 1.

D.2: La lettera di Fabrizio Colonna (dai “Diarii” d i M.Sanuto, RS.1, pagg. 176 – 180) Copia de una lettera dil signor Fabrieio Colonna, data in Castel dì .Ferara a dì 28 april 1512, narra il modo dil fato d’arme fu facto a Ravena con francesi, drizata a missier Camillo. Miser Camilo. S’ io potesse personalmente venire a li piedi de sua alteza per dare conto di me, saria venuto, ma non possando, ho voluto per la presente far mio debito. Et primo, li baserai la mano per mia parte, cum farli intendere che mai io ho manchato a lo debito in questa impresa ; et prima li farai intendere como al partir de Napoli parlai col suo orator in Roma, el qual pregai che operasse che li sguizari non calasseno fino che non fossemo vicini a Bologna; el qual, son certo fece el debito suo. Ma per la furia del Papa, quando nui arivassemo a Bologna, li sguizari erano acordati; che certo se ad un tempo rompevano con nui, havevamo secura victoria. Apresso, hessendo nui per pigliare la impresa de Bologna, lo parer mio fo che ce metessemo in parte che lo soccorso non ce potesse intrar senza combater cum noi, che allora eravamo el dopio de loro, et più presto fatichare alcuna scorta per le victualie che lassar libera la via del socorso. Fo risposo che ancor che intrasse qual se voglia socorso, che se piglieria. Replicai che mai se piglieria. Alfine, il signor viceré volse credere più al parlar d’altri che al mio (1), et se pose in parte d’onde non era possibile prohibire algun socorso;:et mi, che era passato cum l’antiguarda de là de Bologna, fece retornare di qua; et cussì de dì et de nocte ce intravano li inimici al piacer loro .Alfine monsignor de Foys cum 700 lanze et 5000 fanti vene al Finale, et io cum el conte di Monte Lione,

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protestamo che subito lo andasemo a trovare, altramente tutti intrariano in Bologna, che cum quelli che ce erano ne fariano levare; et che se ne aspectavano li romperiamo, et fugendo piglieriamo tanto credito cum li populi che Bologna saria perduta, tornando ad poner in parte che non se potesse sucorere, come io disi. Alcuno de quelli che haveriano voluta la impresa al contrario, perfidiarno ancora che non se levasse; et cussì monsignor de Foys fra doi dì cum tutto 1’exercito se ne intrò in Bologna, che non solum li potevamo impedire, ma non lo sapeamo, che le nostre spie forono retenute a li passi; che certo el campo nostro tanto non fo roto quanto li francesi ce foreno boni amici. Apresso, retirandose come fu forza, hebeno la nova de Brexa, et io ad ogni hora solicitava che non perdesemo tempo, o seguitasemo li francesi che andavano ad sucorerla, o pigliassimo altra che li facessamo lassare quella de Brexa; et in questo ancora era el conte de Monte Lione con el parer mio et alcun altro. In questo mio tanto importunare, lo signor viceré me disse ch’io era tropo furioso, che se li francexi andavano per stafeta, esso voleva andar di passo. Tardamo tanto a moverci, che a la secunda giornata che feceno, ne vene nova che Brexa è persa. Apreso da poi, li francexi venero con tutte le forze loro equali a noi de gente d’arme, et cum el terzo plui de fanti et doppio di cavalli legieri. Volse el signor viceré in ogni modo firmarse et fortificarse ad Castel San Piero come se li inimici non havesseno possuto far altro camino, come io li dissi che fariano, che non volse venir a Lugo et Bagnacavallo, come io era di parere; perché fortificando solo Imola et noi stando in Lugo, li francesi non possevano passare avanti et venire a trovar noi, veniano cum grande disavantagio de passi, et paludi, et fiumi; et se campegiaveno Imola, li haveriamo combatuti cum plui avantagio, che hessendo Imola gionta cum le montagne in le quale ce erano castelli nostri, et in una nocte ce potevano agiunger 10 milia fanti tra la valle de Lamon, Faenza et Forlì, et nui che eramo sette milia (2) col campo, ce ne sariamo venuti a la falda de la montagna, et cum il favore de esse montagne et de le terre non podevamo altro che vincere. Et non volendo nui far questo, li inimici feceno quella via de Lugo, como io diceva, et nui se spensemo verso Faenza per la strada romana, come era ragionevole; et vedendo nui che li francesi podevano, prima de nui, andar a Ravena, qual era 20 milia soto la strada, fo il parer de tutti che Marco Antonio Colona mio nepote ce intrasse la note con le soe cento lanze et 500 fanti spagnoli, oltra che ce era dentro don Petro da Castello cum cento cavali lizieri, et Loyse Dentici cum 1000 fanti italiani. Et cussì li francesi andorono verso Ravena el dì sequente, come nui dubitavamo, et nui se spensemo soto Forlì a quella volta; et perché Ravena stà fra due fiumi, benché l’uno et l’altro se squaza, el jovedì el campo francese se pose in mezo de li doi fiumi, e‘l venerdì ce acostamo vicini 7 milia. El dicto venerdì li francexi detero la bataglia, et li nostri se deffensorno molto ben non senza grande danno de’ francexi; et havendo nui tal nova, el sabato se spinsimo ad allogiar vicini doi milia di Ravena a la vista del campo loro, ita che era tra mezo nui et la terra, ben che era unde li doi fiumi in mezo. Et essendo noi cussì vicini, io era di parere che la terra non se potesse perdere, perchè vedendo loro dar la bataglia, nui altri sempre li sariamo stati a le spale, et pigliando loro la terra sariano stati roti per lo disordine, et per questo mi pareva che ci fortificassemo in quel loco, dove tutte le victualie ce erano secure a le spale et loro se moriano da fame. El conte Pietro Navaro vene (dire) al signor viceré che là avanti uno miglio era uno forte alogiamento, che subito ce andassemo ad alogiar; et partitose, el signor viceré chiamò me e lo conte de Monte Lione, et me dise che volevano che andassemo subito a quello allogiamento. Io li risposi che tal allogiamento non se poteva far senza combatere; che sua signoria ce pensasse ben stando tutto lo campo francese in arme, come lo stava. Me respose con colora, che voleva cusì, presente il conte de Monte Lione. Et cussì me ne andai desperato al paviglione; et s’el non fosse stato per mancare al servitio de sua alteza, in tal tempo me ne andava in Napoli. In questo mezo se apresentorno do squadroni de lanze francesi, et spinsero alcuni homini d’arme et cavalli lizieri ad atachare cum alcuni cavalli nostri, che erano de là dal fiume, et molti de li nostri, che erano tutti in arme, passorono di là ad aiutar li nostri, però cum tanto disordine che mi fu forza passare et retirare li nostri, che già se seguiva facto d’arme di là dal fiume cum nostro disavantagio; et questo ce tardò tanto, che quella sera non potemo più levare il campo. Et tornando io de là, trovai lo marchexe da la Paluda; li disi la deliberation del signor vicerè, al quale ancora pareva male, et cussì disi che almeno facesse eh’el signor viceré cavalcasse la matina,

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una hora avanti zorno, secreto senza son di trombeta, aziò se trovassemo a l’alba in parte che volendo passar francexi, nui li potessemo tenir el passo. El marchexe fo del parer mio et promesse de dirgelo. Io disperato me ne andai a lo alogiamento nè mai hebi altro avixo, se non che la matina a zorno sonarno la trombeta del signor vicerè, et cusì tuti ce posemo in arme. Lo medesmo etiam fezeno li nimici, li quali erano sì vizini che non solum ce sentivano, ma ce vedevano; e perché dal nostro logianento fina al loro ponte era cercha milio, prima che nui ce fossemo arivati con l’artelaria et con el campo in ordene, li nimici, quali alogiavano vizino al ponte, gierano pasati la magior parte; che se andavemo avanti zorno et secreto, come io dissi, non passavano a tempo senza nostro grandissimo avantagio. E essendo cusì avicinati una parte et l’altra comenzò adoperar l’artelaria, e benché la nostra al principio li feze assai dano, perché l’avevemo prima asettata più, da poi che la loro se asettò, per esser più el dopio che la nostra e meglio manezata, feze tanto dano a tutte le zente d’arme, che non se poteva resister, e durò più de do hore; et per questo io fui de parere ch’el marchexe de Peschara con li cavali lizieri se ne andasse atachare solo per dar principio a la bataglia e levarne de tanta artelaria et cusì feze. El signor vicerè senza dirme mandò el conte de Monte Lione a Carviale che se atachase con el retrovardia, et il medesimo feze intendere al marchexe de la Padula che fazese con la bataglia senza ch’io lo sapese; et vedendo io questi dui squadroni andar ad atacharsi, che lo parer mio saria stato che fossino retirati drieto anche per fuzir l’artelaria, dubitando che non potriano resister, come fu, rezerchai el conte Petro che tutti volessemo andar a combater insieme, aziò che non perdesemo a pezi a pezi: me respoxe, che non se voleva mover. Come stava in questo, el marchexe de la Padula, el marchexe de Peschara, el Caravigial, che havevano virilmente combatuto un pezo, habiando ancora parte de l’antiguarda francexe contra fono sforzati voltar le spale; benché el marchexe de Peschara, esendoli morto el cavalo, restò in terra per morto. Io vedendo questo, me spinsi con l’antìguarda a quella volta per fare che li nostri che fuzivano se ricoglieseno con meco; de li quali non ne potì recoglier pur uno; che se andavano a la via de Cesena quelli che non erano prexi. Io vedendo questo, per non lassar li fanti nostri soli, me ne tornai dove stava, che già l’antiguarda francexe et li fanti tutti li andavano contro, benche la mazor parte de l’antiguarda nostra se ne fuzì con li altri, et Diego de Guinove, el prior de Messina et alguni de loro et Guidone, et io me tiro con alcuni mei per tornare in mezo dove erano li fanti, dove trovai lo conte de Monte Lione el qual travagliò assai per ricoglier qualche homo d’arme, et non ce bastò, et poco da poi fo prexo facendo sempre tutto el ben che potè. In questo mezo tutti li fanti francexi et le zente d’arme venero contra li fanti, li quali adiutati de quelli pochi de la nostra antiguarda, ch’io ho dito, combaterono tanto bene, che me deteno speranza de vittoria. Alfine tutti li sopraditi de la nostra antiguarda forno morti o presi, et io me ridusi a li fanti nostri, li quali da poi rupero tutti li fanti loro da li todeschi in fora, in modo ch’io, se haveva 200 altre lanze, sperava la vitoria, et non havendo più uno solo uomo d’arme per adiutarli, chiamai li 1000 fanti italiani che me erano a la mano mancha (3), come Ramazoto potrà dire, qual intendo che è vivo, nè mai se volseno movere se non a fugire. Alfine tuto el campo se ritornò a li poveri fanti nostri et ad me, benché amazasero la maior parte de li capitani inimici, pur de’ nostri forno in quel medemo morti tutti li capitani et principali, et zercha 3000 fanti, che erano rimasi vivi, se posero in fuga per l’arzer del fiume in ordenanza, et cussì se salvorono. Io per non romperli l’ordenanza, non puoti intrar tra loro, ma me ge puosi a le spale (4), dove da li fanti inimici fui ferito de due ferite, et cussì el cavalo; et s’el duca de Ferara non me adiutava, qual me era dinanzi, non posseva campare che li fanti non me occidesseno, et a lui me resi et salvomi con tanto amore che li serò sempre obligato. Da poi che harai basato la mano al signor Re nostro signor, li legerai la presente, et me ge recomanderai. In lo Castel di Ferara, a 28 de april. Fabrizio Colona, manu propria. Post scripta. Da poi che harai lecta la presente al signor Re nostro signor, tu legerai con alcuni signori di questi grandi, et presertim con el signor gran capitanio, e‘1 signor Almazan, perché quello ch’io scrivo è lo Evangelio, per star sempre al paragone.

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Note: 1. Probabilmente il riferimento è a Pedro Navarro, che aveva molta influenza sul vicerè. In ogni caso è chiaro

che, fin dalle prime fasi della campagna, il gruppo di comando della Lega fosse frequentemente diviso da forti differenze di opinione e, è facile intuire, da crescenti animosità.

2. Non è chiaro se si tratti di tutta la forza o, come è più probabile, dei soli fanti; in ogni caso si tratta di un numero molto basso ma, d’altra parte, è presumibile che, durante la successiva marcia attraverso Faenza e Forlì, l’esercito della Lega si stato ingrossato dall’affluire di vari contingenti.

3. I fanti della retroguardia (che erano 2000 secondo altre fonti); è abbastanza evidente da quanto precede che Fabrizio partecipò alla lotta sull’ala sinistra della Lega, terminata con una sconfitta francese; poiché dunque egli stava combattendo con la faccia al fiume, la fanteria della sua retroguardia si trovava alla sua sinistra.

4. Fabrizio tentò quindi di ritirarsi tenendosi in coda di quello stesso contingente (al quale attribuisce la consistenza di ben 3000 uomini) combattendo contro il quale trovò la morte Gastone di Foix; evidentemente all’inseguimento si misero anche dei reparti di fanteria francese ed è da questi che Fabrizio fu ferito e disarcionato, presumibilmente da colpi d’arma da fuoco o da getto.

D.3: Lettera di Baiardo a Laurent Alleman, suo zio, con il racconto della battaglia ( RB.1) Monsieur , si treshumblement que faire puis, a vostre bonne grace me recommande. Monsieur, depuis que dernierement vous ay escrit, avons eu, comme ja avez peu şavoir, la bataille contre nos ennemis: mais, pour vous en advertir bien au long, la chose fut telle. C’est que nostre armée vint loger aupres de cette ville de Ravenne; nos ennemis y feurent aussi-tost que nous, afin de donner coeur à la dite ville; et au moyen, tant d’aucunes nouvelles qui couroient chacun jour de la descente des Suisses, qu’aussi la faute de vivres qu’avions en nostre camp, monsieur de Nemours se delibera de donner la bataille, et, dimanche dernier, passa une petite riviere qui estoit entre nos dits ennemis et nous. Si les vinsmes rencontrer : ils marchoient en bel ordre, et estoient plus de dix-sept cens hommes d’armes, les plus gorgias et triomphans qu’on vid jamais, et bien quatorze mille hommes de pied, aussi gentils galands qu’on sçauroit dire. Si vinrent envìron mille hommes d’armes des leurs (comme gens desesperez de ce que nostre artillerie les affoloit) ruer sur nostre bataille, en laquelle estoit M. de Nemours en personne, sa compagnie, celle de M. de Lorraine, de M. d’Ars, et autres, joisques au nombre de quatre cens hommes d’armes, ou environ, qui receurent lesdits ennemis de si grand coeur qu’on ne vid jamais mieux combattre. Entre nostre avant-garde qui etoit de mille hommes d’armes, et nous, il y avoit de grands fossés, et aussi elle avoit affaire ailleurs que nous pouvoir secourir : si conveint à ladite bataille porter le faiz desdits mille hommes ou environ. En cet endroict, M. de Nemours rompit sa lance entre les deux batailles, et perça un homme d’armes des leurs, tout en travers, et demie brassée davantage. Si feurent lesdits mille hommes d’armes defaits et mis en fuite; et, ainsi que leur donnions la chasse, vinsmes rencontrer leurs gens de pied aupres de leur artillerie, avec cinq ou six cens hommes d’armes, qui estoient parqués; et au-devant d’eux avoient des charettes à deux roues, sur les quelles il y avoit un grand fer à deux aisles, de la longueur de deux ou trois brasses; et estoient nos gens de pied combattus main à main. Leurs dits gens de pied avoient tant d’arquebutes, que, quand ce vint à l’aborder, ils tuerent quasi tous nos capitaines de gens de pied, en voye d’esbranler et tourner le dos; mais ils feurent si bien secourus des gens d’armes, qu’apres bien combattre, nos dits ennemis furent defaits, perdirent leur artillerie, et sept ou huit cens hommes d’armes qui 1eur feurent tués, et la plupart de leurs capitaines, avec sept ou huit mille hommes de pied. Et ne sçait-on point qu’il se soit sauvé aucuns capitaines que le.viceroy; car nous avons prisonniers les seigneurs Fabrice Colonne, le cardinal de Medicis, legat du Pape, Petro Navarre, le marquis de Pesquere, don Jean de Cardonne, et d’autres dont je ne sçay le nom. Ceux qui se sauverent furent chassez huit ou dix milles, et s’en vont par les montagnes ecartez: encor dit-on que les vilains les ont mis en pieces. Monsieur, si le Roy a gaigné la bataille, je vous jure que les pauvres gentils-hommes l’ont bien perdue: car, ainsi puisque nous donnions la chasse, M. de Nemours vint trouver quelques gens de pied qui se rallioient: si voulut donner dedans; mais le gentil prince se trouva si mal accompagné,

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qu’il y fut tué, dont de toutes les desplaisances et deuils qui furent jamais faits, ne fut pareil que celuy qu’on a demené, et qu’on demene encore en nostre camp: car il semnle que nous ayons perdu la bataille. Bien vous promets-je, monsieur, que c’est le plus grand dommage de prince qui mourut cent ans a; et, s’il eut veşcu aage d’homme, il eut fait des choses que onques prince ne fit; et peuvent bien dire ceux qui sont deçà qu’ils ont perdu leur pere; et de moy, monsieur, je n’y sçaurois vivre qu’en mélancolie; car j’ay tant perdu que je ne le vous sçaurois escrire. Moasieur, en d’autres lieux furent tuez M.d’Alegre et son fils, M.du Molar, six capitaines allemands, et le capitaine Jacob, leur colonel; le capitaine Maugiron, le baron de Grantmont, et plus de deux cens gentils-hommes de nom, et tous d’estime, sans plus de deux mille hommes de pied des nostres; et vous asseure que de cent ans le royaume de France ne recouvrera la perte qu’y avons eue. Monsieur, hier matin fut amené le corps de feu Monsieur, à Milan, avec deux cens hommes d’armes, au plus grand honneur qe’on a sceu adviser: car on portoit devant luy dix-huit ou vingt enseignes, les plus triomphantes qu’on vid jamais, qui ont esté en cette bataille gagnées. Puisque cecy est despeché, je croy qu’aurons abstinence de guerre. Toutesfois les Suisses font quelque bruit toujours; mais, quand ils sauront cette defaite, peut-estre ils mettront quelque peu d’eau en leur vin. Incontinent que les choses seront un peu appaisées, je vous iray voir. Priant Dieu, monsieur, qu’il vous donne tresbonne vie et longue. Escript au camp de Ravenne, ce quatorziesme jour d’avril. Votre humble serviteur, Bayart

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Fig.1: La carica a lancia in resta (particolare dalla “Battaglia di San Romano” di Paolo Uccello)

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Fig.2: Ravenna all’epoca della battaglia

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Fig.3: Ravenna e dintorni all’epoca della battaglia

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Fig.4a: Gli schieramenti ed il duello delle artiglierie Nota: La carta è nella scala evidenziata; le distanze ipotizzate sono:

- cavalleria: 4 m in ambedue i sensi - fanteria: 2 m in ambedue i sensi - artiglieria: 5 m

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Fig.4b: La battaglia delle cavallerie

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Fig.4c: La battaglia delle fanterie

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Fig.4d: La fine

Piero Zattoni Forlì 2010