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le conversazioni della rivista dell’AREL Filippo Grandi NEMICO

La collana AREL le conversazioni è dedicata agli

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La collana AREL le conversazioni è dedicata agli interventie ai dibattiti che si svolgono in occasione delle presentazioni della rivista dell’Arel.

Fondata da Nino Andreatta agli inizi degli anni Ottanta come fascicolo ciclostilatoa di�usione limitata, nel 1985 la rivista guadagnò una vera veste tipogra�ca: tantigli argomenti trattati e prestigiose le �rme che nel corso degli anni vi sono comparse,accanto a quelle di giovani collaboratori. Oggi essa è entrata nella sua “terza vita”,

monogra�ca e interdisciplinare: una parola diventa il veicolo di ri�essioni ampiee non convenzionali di accademici, economisti, scienziati, artisti. le conversazioni

della rivista dell’AREL

Filippo Grandi

le conversazioni

Filippo Grandi

le conversazionidella rivista dell’AREL

le conversazionidella rivista dell’AREL

NEMICOFilippo Grandi

è Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. Entrato all’ONU nel 1997,

vi ha ricoperto numerosi incarichi, tra cui quelli di Vice-rappresentante speciale

per l’Afghanistan e Commissario generaledell’Agenzia per il soccorso

e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nelVicino Oriente (UNRWA).

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Chi fugge non è nemico,il gesto di accogliereci rende l’umanitàFilippo Grandi

Presentazione di «AREL la rivista» 1/2018Roma, 29 novembre 2019

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Piazza S. Andrea della Valle 6, Romatel. ⁄ fax www.arel.it [email protected]

in copertina: Foto di Yuri Cortez/AFP/Getty Images

grafica: Attilio Baghino

responsabile delle pubblicazioni: Mariantonietta Colimberti

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Sono molto onorato di essere qui oggi e di incontrare tantigiovani della Scuola di Politiche in occasione dellapresentazione dell’ultimo numero della rivista dell’ARELdedicato alla parola “nemico”.

Vorrei partire dalla difficoltà del tema, quindi dall’idea dellasua complessità, un’idea che temo si sia un po’ smarrita, e nonsolo nel dibattito pubblico. Poiché la propaganda politicatende alla semplificazione, si è andata perdendo laconsapevolezza che le cose sono spesso più complicate diquanto si pensi o vogliano farci credere.

Partiamo dalla considerazione che quando si parla dimobilità umana, si parla di un fenomeno complesso cheriguarda tipologie molto diverse. Una stragrande maggioranzadi persone si muove per libera scelta (per affari, per turismo oaltro), volontariamente; moltissime altre si muovono perché

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sono in difficoltà, soprattutto di ordine economico, e cercanoopportunità altrove (nonostante le pressioni, direi che anchequeste persone si muovono per scelta); infine ci sono persone,purtroppo numerose anche loro, che si muovono non perscelta, ma unicamente perché sono costrette a farlo.

Il motivo principale resta la guerra, il conflitto in tutte le suediverse forme, ma ci sono ragioni sempre più articolate, comeviolazioni dei diritti, discriminazioni, violenze non sempreoriginate dalla guerra. Tutte queste persone costrette a fuggiresono spesso persone che, se respinte là dove fuggono, serimandate indietro, rischiano la vita.

Sono loro quelli che chiamiamo “rifugiati”, che si stimasiano più di 70 milioni nel mondo. Sono persone che hannoeffettuato la loro fuga attraverso frontiere chiedendo asilo inun altro paese, oppure sono rifugiati nei propri paesi, gliinternally displaced people, gli “sfollati interni”. Sono personeche noi associamo a un bisogno fondamentale, quello dellaprotezione internazionale.

La dottrina più pura dell’Alto Commissariato afferma che lepersone che non hanno più accesso, o a cui è stata rifiutata, la

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protezione del proprio Stato per motivi di conflitto,discriminazione eccetera, hanno bisogno di un altro tipo diprotezione, la “protezione internazionale”, appunto.

È una definizione che talvolta risulta di non semplicecomprensione. Spesso mi viene chiesto se la protezioneinternazionale sia fisica, come quella di cui godono alcunipolitici. Il concetto di protezione è molto vasto, anche initaliano ha un significato evocativo e questo aspetto èimportante, perché bisogna aver visto la pena dell’esilio, lapena di lasciare tutto alle proprie spalle per buttarsinell’incertezza quasi completa – che è la situazione di granparte dei rifugiati – per capire l’importanza, anche fisica, certomolto psicologica e, naturalmente, legale e materiale, delconcetto di protezione.

Di queste persone in fuga, in esilio, mi occupo ormai datrentacinque anni e devo dire che fin dall’inizio di questaesperienza, quando ero volontario in Estremo Oriente, hointuito che questo esilio, questa fuga, erano di unacomplessità estrema, sia per i motivi per cui le personefuggono sia per le situazioni in cui vanno a trovarsi, e non sto

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parlando solo della polemica che si è accesa oggi attorno aquesta questione.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati(UNHCR) è stato istituito quasi settant’anni fa, all’inizioessenzialmente perché si occupasse degli individui chevarcavano la Cortina di Ferro e venivano a rifugiarsi in EuropaOccidentale. Questo è stato il primo movente della creazionedell’Alto Commissariato. In precedenza, ai tempi della Societàdelle Nazioni, c’era stato un Alto Commissariato che si erainteressato di alcune crisi specifiche, come quella dei rifugiatidall’ex impero russo o dei movimenti fra Grecia e Turchia, manon aveva avuto vita molto lunga.

La storia dell’Alto Commissariato in questi sette decenniriflette anche la crescente complessità dei fenomeni dimovimenti forzati di popolazioni.

Si è passati dai casi “individuali” della fine degli anniQuaranta ai primi grandi interventi umanitari in situazioni diconflitto, con la decolonizzazione, le guerre in Africa, la guerradi indipendenza del Bangladesh eccetera, fino ad arrivare, neglianni Novanta con la fine della Guerra Fredda, a un momento

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in cui è parso possibile che il multilateralismo e le soluzionimultilaterali potessero prevalere. Naturalmente è stata unabreve illusione, perché la combinazione dell’intensificazionedel terrorismo internazionale, dopo l’11 Settembre, delle crisieconomiche dei primi anni Duemila, con il declino(chiamiamolo provvisoriamente così) degli Stati Uniti e losviluppo di un multipolarismo disordinato, ha reso lasituazione molto più complicata. Abbiamo dovuto far fronte amovimenti di popolazioni diverse e a una crescita esponenzialedegli sfollamenti interni a causa dei conflitti intestini degliStati e, negli ultimi anni, a un aumento ancora differente dimovimenti di popolazioni “misti”, ovvero composti da personeche fuggono per i motivi tradizionali dei rifugiati e da personeche si spostano per altre ragioni, spesso favoriti da networkcriminali di trafficanti.

Si tratta di movimenti che sono molto più difficili dagestire, anche quasi da definire, e che hanno a loro voltasuscitato una reazione politica.

Si sente spesso affermare: “Dobbiamo eliminare imovimenti irregolari”. Irregolare oggi, nel discorso politico,

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è diventata una parola terribile. Si può anche capire perchéuno Stato chiede e, legittimamente, esige ordine e unmovimento irregolare disturba e crea problemi. Non vorreiessere ambiguo su questo: per quanto riguarda le migrazionicredo che sia necessario ogni sforzo perché esse, che sono unanecessità sia per chi migra sia per chi riceve, siano il piùregolari possibile. I flussi di rifugiati però, e tornerò su questadistinzione tra poco, per definizione sono irregolari. Chi ècostretto a fuggire, e non decide di fuggire, fa una scelta diirregolarità nei confronti del proprio Stato e spesso degli Stati i cui confini varca per chiedere la protezione internazionale.Per questo motivo mi trovo sempre un po’ spiazzato quandopartecipo a dibattiti in cui tutti sono d’accordo sul combatterel’irregolarità e io devo quasi difenderla, quell’irregolarità. Nonperché desideri fomentare il disordine, il caos, il pericolo o irischi per la sicurezza degli Stati, ma perché senza quello spazio“irregolare” queste persone non possono fuggire dai rischi cuidevono far fronte.

Inoltre, c’è la questione complessa dei trafficanti.Naturalmente, il traffico di esseri umani è riprovevole, non c’è

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nessun dubbio, soprattutto nel modo in cui viene compiutooggi, perché si accompagna ad abusi terribili, come si apprendeleggendo quel che accade in Libia, e va condannato in ognimodo. Purtroppo, però, in alcune situazioni non c’è altra sceltaper le persone in movimento che affidarsi a questi trafficanti.Molti di voi conosceranno il libriccino di Fabio Geda Nel mareci sono i coccodrilli, la storia di un ragazzo che dall’Afghanistanarriva in Italia, un racconto bellissimo che consiglio di leggere(lo si fa in una notte), perché fa capire la natura estremamenteintricata di questi movimenti.

Ricordo sempre, però, anche una storia che mi raccontavamio padre, il quale durante il secondo conflitto mondiale eramolto giovane, quindi non era stato arruolato ed era sfollato daMilano sul lago di Como, da dove proviene la mia famiglia.Mi raccontava che lungo la costa del lago, alla frontiera con laSvizzera, arrivavano moltissimi ebrei che cercavano di passare ilconfine per non essere deportati nei campi di concentramento.Mio padre mi diceva sempre che la gran parte degli ebrei che sierano salvati, attraversando le montagne del lago e passandonel Canton Ticino, si era affidata a persone che venivano

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pagate, quindi a trafficanti. Per favore, ora non pensiate che iostia facendo l’apologia dei trafficanti, ma voglio sottolineareche si tratta di una questione importante su cui riflettere nelquadro di questa complessità.

L’altra questione è che, come se non bastasse, i lunghi viaggiche chi fugge da guerre, violenze e persecuzioni terribili,compie si concludono quasi sempre in paesi che hannopochissime risorse. Ricordiamoci un dato importante: di questi 70 milioni di persone, la stragrande maggioranza, direiun 90 per cento, o fugge in una parte più sicura del propriopaese, che è in una situazione di guerra, o fugge in paesi vicini,che in genere sono molto poveri. Pensiamo sempre chel’emergenza rifugiati ci sia solo in Europa, o negli Stati Uniti oin Australia, ma non è così; l’emergenza dei rifugiati oggi è inKenya, in Pakistan, in Colombia. Quasi sempre queste personein fuga si ritrovano in situazioni non altrettanto difficili comequelle da cui fuggono, ma comunque molto problematiche; avolte finiscono addirittura per trovarsi in situazioni di ulterioreconflitto. Come se non bastasse, quel 10-15 per cento chearriva nei paesi ricchi si trova a far fronte alla straordinaria, in

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senso negativo, operazione politica, quella dellademonizzazione dei rifugiati, dei migranti, spesso deglistranieri in generale, portata avanti a fini di consenso politico.

È un’operazione che ha una lunga storia, ma che oggi haassunto proporzioni globali e modi di diffusione planetariattraverso la tecnologia delle telecomunicazioni. La modalitàattraverso cui le vittime, i rifugiati, diventano nemici, per usarela terminologia dell’ultimo numero della rivista dell’AREL, èl’anello finale della catena di ostacoli a cui queste personedevono far fronte. È un modo di fare politica che è stato ed èutilissimo, ahimè, per vincere le elezioni, ma che risultacompletamente inutile per trovare le soluzioni ai problemiattorno ai quali questa operazione politica è costruita. Capiteche si grida, si grida, si ingigantisce artificiosamente ilproblema, ma non lo si risolve.

La questione è a due livelli: c’è quello dei rifugiati chefuggono a causa di guerre, violazioni, violenze combinate atutti gli altri motivi che sappiamo, ma c’è anche un problemadi malessere nelle società che accolgono. Un malessere reale,che riguarda il lavoro, la sicurezza e i valori, temi che abbiamo

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forse trascurato di considerare nel passato, ma che sono moltoseri e che non dobbiamo sottovalutare. Purtroppo, questaoperazione politica negativa non risolve né le cause chemuovono i flussi dei rifugiati, né il malessere che i politicistessi sfruttano per fini di consenso; dal punto di vista delprogresso, dunque, essa è un’operazione fallimentare.

Un’altra riflessione. Mi si chiede spesso perché continuiamoa distinguere tra rifugiati e altre persone che sono inmovimento. Capisco la domanda, ma vorrei essere un po’pragmatico.

La protezione dei rifugiati si fonda su un insieme distrumenti giuridici molto forti di cui fa parte la Convenzionesui Rifugiati del 1951 con tanti altri, piccoli e grandi,sviluppati nei decenni successivi. Questi strumenti, nonostantela propaganda in senso contrario, possono servirci ancora oggiad aiutare e canalizzare la protezione internazionale e io temoche, rimettendo sul tavolo le definizioni, anche se con lo scopocondivisibile di allargarle, rischiamo, nel contesto politicopresente, di perdere terreno e rinunciare a quel poco di cuipossiamo avvalerci per aiutare le persone in pericolo.

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Allo stesso tempo, ricordo che la definizione di rifugiatocontenuta nella Convenzione del ’51 è sufficientemente vastada prestarsi a molti adattamenti, come si è visto col passaredegli anni. Oggi ci sono nuove situazioni che rientranobenissimo nella definizione, ma che nel 1950-51 non avremmocerto considerato. Pensate che noi definiamo rifugiati – anchese non c’è totale accordo tra gli Stati europei – le persone chefuggono da Honduras, Salvador e Guatemala a causa diviolenza perpetrata essenzialmente da bande criminali, perché letecniche che queste bande utilizzano (stupro, reclutamento dibambini e occupazione di case e territori) sono le tradizionalitecniche di governi abusivi, o di gruppi che combattono igoverni, che solitamente causano problemi di rifugiati.Considerare come rifugiato una persona che lascia il propriopaese a causa delle sue preferenze sessuali o dell’identità digenere era impensabile nel 1951, nessuno l’avrebbe maineanche messo sul tavolo, mentre quel tipo di discriminazione è oggi largamente, anche se non unanimemente, ritenuto unacausa che giustifica la domanda d’asilo e la sua considerazione.E potrei fare altri esempi.

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Anche gli strumenti di risposta sono diventati più flessibili,la protezione umanitaria di cui si è tanto parlato in Italia(molto indebolita dal precedente governo) ne è un esempio. È un concetto che si realizza in una protezione umanitariatemporanea, la cui estensione viene negoziata ogni volta, che èmolto cresciuto negli anni della Bosnia e dei Balcani (quandoc’erano grandi numeri di persone che si muovevano in Europa)con l’obiettivo di convincere gli Stati europei, riluttanti, aprendere queste persone e a dar loro protezione non persempre, ma finché ce n’era bisogno. Questo strumento è statoestremamente utile soprattutto per le vittime di conflitti che simuovono in numeri molto grandi. Pensate che in Turchia tuttii siriani (oltre 3,5 milioni) hanno uno statuto di protezioneumanitaria temporanea che consente loro di vivererelativamente bene, nonostante i problemi di oggi. È unconcetto importante, che non esisteva all’inizio e che dimostracome nella definizione tradizionale ci si possa muovere congrande flessibilità.

Detto questo, i flussi sono molto complessi perché le causedella mobilità umana forzata, o quasi forzata, sono complicate

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e interconnesse. Pensate alla relazione assai stretta tra fame eguerra, oppure fra cambiamenti climatici, scarsità di risorse eviolenza da questi provocata; fra malgoverni e violazioni deidiritti umani. Tutte queste cause sono molto intrecciate e,quale che sia lo statuto che si dà alle persone, esse vannoaffrontate nel loro complesso, così come vanno affrontatialcuni dei problemi fondamentali che caratterizzano i flussimisti, non solo di rifugiati ma anche di tutti gli altri. Quelloche succede oggi in Libia ha un impatto su tutti coloro che simuovono attraverso la Libia, non solo su coloro che vengonoda guerre o persecuzioni. I salvataggi in mare o nel deserto sidevono applicare a tutti, non esclusivamente ai rifugiati; tuttequeste persone hanno una dignità umana, hanno dei diritti,magari diversi da quelli dei rifugiati, ma che vanno considerati.

Vorrei fare un’altra riflessione, sempre a proposito dellacomplessità. Molto spesso, soprattutto nei paesi ricchi, mi sichiede cosa bisogna fare sui flussi o come vadano gestiti. Cisono risposte semplicistiche e altre che non lo sono. Tra leprime la più semplice è “facciamo delle barriere”, “nonlasciamoli entrare”. La retorica del muro o del respingimento

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in mare non è, vi assicuro, soltanto italiana, è frequentissimaanche in altri paesi e in altri continenti. C’è anche la retoricadell’“aiutiamoli a casa loro”, che forse era stata un po’ fraintesaall’epoca e che però ha acquisito una certa valenza e che non èchiarissimo che cosa voglia dire. Aiutiamo chi è sotto lebombe? A fare cosa? Oppure potrebbe essere interpretata come“aiutiamoli nel paese in cui vanno prima”, quindi i somali chelasciano la Somalia aiutiamoli in Kenya o in Etiopia, e questonon è sbagliato perché la maggioranza dei rifugiati si ferma lì.

Ma la verità è che i flussi e le loro dinamiche così complicatenon si prestano a risposte e soluzioni semplici. In realtàrispondo che i flussi vanno considerati come dei grandi viaggie che bisogna sforzarsi di affrontare il problema a ogni tappa diquesto viaggio. È chiaro che dobbiamo guardare alle cause, cheperò vanno trattate con maggiore omogeneità politica a livellointernazionale e con programmi di sviluppo strategici, conmaggiori risorse, a più lungo termine, e così via.

Ci sono poi le tematiche relative ai paesi di asilo e ditransito dove, lasciatevelo dire, nonostante la retoricadell’“aiutiamoli a casa loro”, quegli aiuti sono infinitesimali,

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insufficienti per gli scopi per cui vengono concessi, inadeguaticioè per aiutare sia le persone in movimento, sia le comunitàche le ospitano.

La nostra grande campagna, oggi, è quella di proporre unastabilizzazione di questi flussi, che non vuol dire impedire allepersone di andare a chiedere asilo dove hanno bisogno dichiederlo, ma aiutare veramente le persone lungo questidifficili viaggi e, soprattutto, aiutare i paesi che li ospitano.Bisogna abbandonare l’idea che i rifugiati si mettono neicampi e che l’assistenza è solo umanitaria; oggi questoconcetto sta cambiando rapidamente, si parla di assistenzaumanitaria, certo, ma si parla anche di inclusione, cioèincludiamo i rifugiati nei sistemi educativi, nei sistemi sanitaridel paese. È un’assistenza molto più sostenibile, più degna eche a lungo termine li rafforza, anche perché se un giorno,come la gran parte di loro spera, torneranno a casa, sarannostati capacitati a farlo.

Poi, naturalmente, per quanto siamo bravi (e al momentonon lo siamo affatto) a risolvere le cause, ci saranno sempredelle persone che arriveranno nei paesi ricchi per una quantità

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di motivi diversi, sia perché ci sono persone che sono piùresistenti e arrivano fin là, sia perché ci sono quelle che nonhanno altra scelta, perché in tutti gli altri paesi incontranoproblemi e non possono fermarsi.

Quindi, riformare il sistema di asilo europeo e, per l’Italia,avere un sistema di accoglienza che funziona è necessario inogni caso. Oggi invece, quella stessa operazione politica checitavamo sopra esorta a “non perdere tempo” discutendosull’accoglienza e l’asilo, promettendo che se facciamo di più amonte ci sarà meno a valle. La verità è che ci sarà sempremolto sia a monte che a valle, quindi tutti i passi del viaggiovanno affrontati con strategie aperte e generose, ma anchevalide. Quello che mi sgomenta di più è che in Europa, manon solo, si parla spesso di migrazioni, ma il dibattito si riduceal litigio su quante persone in un certo barcone devono andarein un paese o nell’altro. Il litigio su “chi” sbarca “dove” èdiventato il dibattito migratorio, quando il dibattito suirifugiati deve essere strategico, vasto, a lungo termine e agrande visione, se vogliamo veramente affrontarlo. Invece, peri motivi che sappiamo, ci si concentra sul dettaglio.

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Prima di concludere vorrei evidenziare altri due aspetti. Tornando alla questione delle cause, voglio sottolineare che

per quanto riguarda i movimenti dei rifugiati, la guerra e lecrisi, in tutte le forme, continuano ad essere un motivoimportante di fuga ed esilio. È una cosa semplice, l’ho ripetutatante volte, dobbiamo ricordarci che viviamo in un mondo cheha disimparato a fare la pace e lo si vede ogni giorno. Scusatela franchezza, ma basta leggere le dichiarazioni del presidentedegli Stati Uniti oggi in Afghanistan; e non è soltanto unaquestione di cultura, è il riflesso drammatico della crisi delleistituzioni che sono preposte a conservare e ristabilire la pacenel mondo quando è compromessa.

Ci sono ancora tentativi di usare strumenti quali ilConsiglio di Sicurezza, le Nazioni Unite, ma anche la NATO,il G7, le istituzioni regionali (la lista è lunga), con sempreminor successo. Sono anni che non vediamo il Consiglio diSicurezza trovare l’unanimità, neanche su questioni umanitarieriguardo a un conflitto. Il che ha un effetto anche su di noi,che dovremmo essere astratti dalla politica, ma che quandodobbiamo montare operazioni umanitarie in situazioni

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complesse – attraverso linee di fronte in Yemen, in Siriaeccetera – a volte abbiamo bisogno di una protezioneistituzionale, di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza cheinvece, se arriva, arriva col contagocce.

E questa è la traduzione istituzionale dell’aver disimparato afare la pace. Inoltre non abbiamo imparato a rispondereinsieme, internazionalmente, alle sfide globali che stanno amonte di fenomeni come le disuguaglianze, la povertà el’urgenza del clima. Questi fenomeni richiedono rispostecollettive, ma alcuni leader, addirittura, ci scoraggiano aperseguirle e questo è davvero molto grave.

La pace si fa ma bisogna anche costruirla, io ho lavoratoquattro anni in Afghanistan e ho osservato l’evoluzione diquella pace. Nel 2001 si era arrivati a un accordo tra le fazioniafghane, seppur con grande interferenza internazionale, ma nelgiro di due anni quell’accordo è stato reso quasi vano dallamancanza di investimenti in quella pace che allora si potevacostruire. Vi assicuro che il 2002 è stato un anno distraordinarie opportunità in Afghanistan. Guardate oggi,vent’anni dopo, com’è il paese, purtroppo quegli investimenti

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non sono stati fatti e, per lo più, sono stati compiuti deglierrori clamorosi come l’intervento del 2003 in Iraq, che haindebolito la costruzione della pace in Afghanistan.

Non siamo diventati capaci di pensare e compiere insiemesforzi collettivi. Le Nazioni Unite hanno proposto al mondol’Agenda 2030, gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Sono temimolto importanti che dovrebbero costituire il quadro dentrocui noi operiamo – mentre parlo mi rendo conto che possoapparire come troppo idealista – e l’unico modo di affrontare iproblemi. Certamente tocca agli Stati attuare questi propositi,ma tocca anche a noi tutti di votare persone,indipendentemente dal loro colore politico, alle quali questitemi importano. Quando si vota bisogna pensare: «Le personeper cui votiamo hanno coscienza della gravità di questiproblemi, povertà, guerra, clima? Hanno visioni a lungotermine e non solo soluzioni momentanee?». Prendiamocianche noi le nostre responsabilità e proviamo ad accettarel’invito del Papa a riflettere sul fatto che, forse, la lunghissimapace e il benessere sperimentato dalle nostre società ci hannotrasformato in paesi egoisti.

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L’ultimo punto che vorrei toccare riguarda ancora i flussi.Due riflessioni. La prima: ricordiamoci che gestirli in manieraefficace, cosa molto sottovalutata negli anni, è importantissimodal punto di vista pratico per chi accoglie e permette a chiarriva, siano migranti o rifugiati, di dare il proprio contributo.Quindi di non essere nemici, ma di essere amici, contributori,sostenitori, membri della società che li accoglie. Si tratta di unariflessione importante da continuare a fare.

L’altra considerazione è ricordarsi che i rifugiati sonopersone che non fuggono per scelta, ma perché non hannoscelta. Ricordo sempre che diventare rifugiato è una delledecisioni più difficili che un essere umano possa prendere, e dirifugiati ne ho incontrati tanti. È soprattutto difficile per unamadre con dei figli o per una persona anziana, che ha menofuturo di fronte a sé rispetto a un giovane. Dobbiamo pensareall’estrema fragilità di chi fugge. Dobbiamo pensarci anche daquesto punto di vista, perché nessuna buona gestione enessuna considerazione politica può esaurire l’imperativoumanitario presentato da queste situazioni. In altre parole, perrispondere alle crisi dell’umanità, perché è di questo che

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stiamo parlando, niente è sufficiente senza un elementoimportante di empatia con le vittime di queste crisi. Il gestoumanitario è quindi non solo utile e importante, ma rende achi fugge l’umanità che queste persone hanno perso e la rendeanche a noi, che queste persone accogliamo.

(Testo non rivisto dall’Autore)

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è Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. Entrato all’ONU nel 1997,

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e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nelVicino Oriente (UNRWA).