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La contrapposizione fra mondanità e immortalità dentro la dimensione “terrestre” della musica mahleriana Antonio Ferrarese 1 Per cominciare: tentativo di chiarire i controversi rapporti fra l’opera mahleriana e la dimensione dell’“utopia” Il fatto (dagli avversari non rilevato, ma oscuramente subodorato, con sospetto) di voler portare musicalmente «a realizzazione» l’aspirazione utopica (e voler quin- di smentire l’utopia intesa come constatazione del «non-luogo», del non darsi in nessun luogo) è ciò che rendeva così caparbiamente inviso Mahler a certi critici contemporanei, normalmente propensi a ostentare disgusto per le «ingenuità» dia- toniche delle prime opere, tecnicamente «arretrate» rispetto al «livello» del tempo: così Adorno, nel saggio del 1960, illustra le «circostanze» dell’odio malcelato e dell’imbarazzo snobisticamente sprezzante con cui venne accolto lo stile mahleria- no, là dove odio e imbarazzo significano risentimento per il carattere affermativo, creatore, non rassegnato dell’opera compositiva, che rifiuta la funzione fittizia di abbellimento di una realtà irriconciliata e ingiusta, e osa porsi come il sorgere di un’alba trasfigurata. Tutto questo urtava la «sensibilità» positiva e segretamente nichilistica di quei critici, che dall’arte pretendono realistica serietà e «livello tec- nico» nel senso di accettazione della sfera estetica come risorsa già predefinita e socialmente ben delimitata, e non mirano certo all’«affermazione» quanto piutto- sto al «non deve essere», alla negazione nemmeno dichiaratamente ma celatamente e inconsciamente mefistofelica 1 . 1 Questa l’argomentazione di Adorno, che trae spunto dall’incipit della prima sinfonia mahleria- na, estendendo il discorso alla musica in genere: «Tutta la musica promette col suo primo suono Copyright c 2005 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera) Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali. Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte e utilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri della Pubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a fine di lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa, su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato per iscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deve essere riportata anche in utilizzi parziali.

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La contrapposizione fra mondanità e immortalitàdentro la dimensione “terrestre”

della musica mahleriana

Antonio Ferrarese

1 Per cominciare: tentativo di chiarire i controversi rapportifra l’opera mahleriana e la dimensione dell’“utopia”

Il fatto (dagli avversari non rilevato, ma oscuramente subodorato, con sospetto) divoler portare musicalmente «a realizzazione» l’aspirazione utopica (e voler quin-di smentire l’utopia intesa come constatazione del «non-luogo», del non darsi innessun luogo) è ciò che rendeva così caparbiamente inviso Mahler a certi criticicontemporanei, normalmente propensi a ostentare disgusto per le «ingenuità» dia-toniche delle prime opere, tecnicamente «arretrate» rispetto al «livello» del tempo:così Adorno, nel saggio del 1960, illustra le «circostanze» dell’odio malcelato edell’imbarazzo snobisticamente sprezzante con cui venne accolto lo stile mahleria-no, là dove odio e imbarazzo significano risentimento per il carattere affermativo,creatore, non rassegnato dell’opera compositiva, che rifiuta la funzione fittizia diabbellimento di una realtà irriconciliata e ingiusta, e osa porsi come il sorgere diun’alba trasfigurata. Tutto questo urtava la «sensibilità» positiva e segretamentenichilistica di quei critici, che dall’arte pretendono realistica serietà e «livello tec-nico» nel senso di accettazione della sfera estetica come risorsa già predefinita esocialmente ben delimitata, e non mirano certo all’«affermazione» quanto piutto-sto al «non deve essere», alla negazione nemmeno dichiaratamente ma celatamentee inconsciamente mefistofelica1.

1 Questa l’argomentazione di Adorno, che trae spunto dall’incipit della prima sinfonia mahleria-na, estendendo il discorso alla musica in genere: «Tutta la musica promette col suo primo suono

Copyright c© 2005 ITINERA (http://www.filosofia.unimi.it/itinera)Il contenuto di queste pagine è protetto dalle leggi sul copyright e dalle disposizioni dei trattati internazionali.Il titolo e i copyright relativi alle pagine sono di proprietà di ITINERA. Le pagine possono essere riprodotte eutilizzate liberamente dagli studenti, dagli istituti di ricerca, scolastici e universitari afferenti ai Ministeri dellaPubblica Istruzione e dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica per scopi istituzionali, non a finedi lucro. Ogni altro utilizzo o riproduzione (ivi incluse, ma non limitatamente a, le riproduzioni a mezzo stampa,su supporti magnetici o su reti di calcolatori) in toto o in parte è vietato, se non esplicitamente autorizzato periscritto, a priori, da parte di ITINERA. In ogni caso questa nota di copyright non deve essere rimossa e deveessere riportata anche in utilizzi parziali.

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Molto si potrebbe dire o replicare, già partendo da questo spunto iniziale del di-scorso, sul carattere più o meno latamente “utopico” dell’arte mahleriana. Sul fattoper esempio che la stessa, nelle sue prime espressioni, raramente si avventura inregioni alchemiche dove lo stemperarsi delle antitesi finisce per far comparire ognisorta di parentele e compresenze, suggerendo indirettamente una visione in cui ciòche subentra evidenzia proprio ciò a cui subentra (un tratto “utopico”, questo, at-tribuibile più a Wagner che a Mahler): almeno in quanto in un primo tempo nonincline all’“alchimia” che salva dalle antitesi, l’arte mahleriana pare più incam-minata sulla via del disincanto che non su quella dell’utopia2 . Se poi volessimospostare l’attenzione sulla purezza del suono intesa come fonte di benigno stupo-re, di appagamento sorto dal suono medesimo, dal “singolo” suono, sarebbe facilein tal caso attribuire, per esempio, all’incipit della quarta sinfonia beethoveniana laparticolare facoltà di schiudere all’analisi questa esperienza “utopica”3 ; assai diver-

qualcosa di diverso, promette di fendere un velo: e le sinfonie di Mahler vorrebbero finalmenteriuscirci, vorrebbero letteralmente rendere visibile questa riuscita, vorrebbero raggiungere musical-mente la fanfara teatrale della scena del carcere del Fidelio, imitare quel la che nella Settima sinfonia

di Beethoven introduce la cesura nello Scherzo, quattro battute prima del trio. È come un adolescen-te che alle cinque del mattino venga svegliato da un suono sferzante e prepotente: non potrà maidimenticare di attenderne il ritorno chi lo avvertì in un attimo nel dormiveglia. Il pensiero metafisicoappare, di fronte a questa corposità, esangue e sprovveduto come un’estetica che voglia sapere sein quella forma l’attimo è compiuto o solo suggerito, mentre per lui quella frattura interiore è so-stanziale ed esso si ribella all’apparenza dell’opera compiuta. Per questo oggi Mahler è odiato. Èun odio che si mimetizza da onestà verso la retorica, verso la pretesa dell’opera d’arte d’incarnarequalcosa che è rimasto allo stato delle intenzioni senza realizzarsi. Ma dietro a quell’onestà sta inagguato il rancore verso ciò stesso che si vuole realizzare. ‘Non deve essere’: questo motto su cui sidispera la musica di Mahler viene malignamente sancito in comandamento. L’insistenza di chi pre-tende che nella musica non ci sia nulla più di quanto vi esiste di fatto, cela la irrigidita rassegnazionee il compromesso di un ascoltatore che si dispensa dal lavoro e dalla fatica di intendere il concettomusicale come un ente in divenire e come un momento di superamento di se stesso. Già ai tempidel Group des six un antiromanticismo spiritualmente volubile si era vilmente alleato con la sferadell’amusement esteriore. Mahler aizza all’ira chi è complice del mondo così com’è ricordando ciòche costoro devono scacciare fuori da se stessi. Animata dall’insoddisfazione del mondo, la sua artenon ne segue le leggi, e su questo il mondo intona il suo trionfo» (Th.W. Adorno, Wagner – Mahler,tr. it. di G. Manzoni, Einaudi, Torino 1978, p. 141). Resta però evidente che Adorno, nella fattispe-cie, trae ispirazione dal concetto di utopia, il quale assume qui una vaghezza di contorni che ne celale aporie fondamentali. Nella sua versione blochiana (che Adorno mutuò fin dall’inizio e nonostantela notevole distanza fra gli assunti adorniani e blochiani nel campo della prassi politica conservòsempre come fondamentale punto di riferimento), l’utopia sconta un “difetto” non trascurabile, co-me preciseremo più avanti: essa, non appena sia in grado di precisare quei troppo vaghi contorni,finisce spesso col risolversi – specie in Bloch – come una sorta di costruzione autoreferenziale, in cuil’esito è praticamente già deciso in partenza, e che mal si concilia con il carattere aperto e latamente“sperimentale”, o meglio “sperimentatore”, dell’opera mahleriana.

2 Com’è noto, per il Cacciari della Krisis (1975), Mahler è l’artista del disincanto, essenzialmenteperché concepirebbe il comporre quale libera produzione di forme che non alludono a nulla di diver-so o ulteriore, ad alcun significato riposto, ma giungono a “esprimere” semplicemente mostrandosi.In Mahler si avrebbe dunque «non la sintesi, non la possibilità o l’utopia del linguaggio onnicompren-sivo, ma la decisione fondamentale e perciò l’immagine della crisi», dell’aut-aut, dell’entweder-oder

(come al contrario, notiamo noi, avverrebbe in Wagner). Cfr. M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi

del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1977, p. 114.3 In svariatissimi luoghi della sua vasta opera, Ernst Bloch evoca Beethoven, e in particolare (co-

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so invece si presenta, il segno della realizzazione, nell’incipit della prima sinfoniamahleriana, incipit la cui struttura è pur indubbiamente e coscientemente pensatacome affine a quella svolta nella quarta beethoveniana: vogliamo sostenere, in al-tre parole, che mentre il procedimento beethoveniano si fonda sulla circostanza chel’andamento delle parti tende a valorizzare il singolo suono, tanto che la formazio-ne dei temi par quasi un pretesto indugiante rivolto a tale scopo, il giovane Mahlerdella prima sinfonia appare invece intento a un procedere compositivo che si po-trebbe identificare quasi come l’esatto inverso; dentro l’inaugurale scorcio dellaprima sinfonia (pur anche letteralmente così affine alla beethoveniana in si bemol-le maggiore) troviamo piuttosto che l’indugiare tanto prolungato sul singolo suono(il re unisonicamente mantenuto da legni e archi lungo un numero “indefinito”di battute) si configura semmai come appoggio ed evidenziazione prospettica deisuccessivi passaggi di quarte discendenti dei legni, contrappuntati “narrativamen-te” dall’irrompere lontano della fanfara, dal disseminarsi delle cadenze pronunciatedai corni, dallo strisciare progressivo del tema svolto nei registri bassi, dal fiorireripetuto della “onomatopea” la-si-fa diesis-si-la, dall’espressivo cristallizzarsi delpassaggio alternato di quinta vuota e di sesta vuota minore, e poi ancora di quintavuota, e infine l’accennare sempre più insistito all’intervallo di quarta la-re, che in-troduce ormai all’articolato e lunghissimo tema («Ging heut’ morgen übers Feld /Tau noch auf die Gräser hing. . . »)4: entro un simile contesto non parrebbe dun-que sia preso in considerazione quel “fenomeno” che spesso ci è presentato comeutopico per eccellenza dai frettolosi dottrinari dell’utopia, vale a dire il suono su-premamente appagante, che delinea con la pregnanza più accentuata il trascoloraredal mancare all’appagamento (a torto, del resto, si almanacca di un Beethoven chein certi passi del Fidelio avrebbe attinto a un simile criterio, dato che nello stessoBeethoven si tende piuttosto a considerare possibilmente ogni singolo suono comeportatore di un rischiaramento particolare).

Qualcuno potrebbe però controbatterci, a questo punto, quanto più articolate ecomplesse siano le ambizioni operanti nel concetto di utopia, e come non siano pernulla riducibili, musicalmente parlando, né al “suono supremamente appagante”né allo sprigionarsi “wagneriano” di affinità che possiedono la forza di eludere leantitesi, ma sappiano spingersi piuttosto fino a poter spiegare l’intera arte dellamusica con lo spirito stesso dell’utopia.

In siffatto e più ampio contesto – finirà col rilevare chi è puntigliosamente fede-le all’enfasi del dettato utopico – anche allo stile mahleriano, così eminentemente

me paradigmatici) quei celebri squilli di tromba che nel Fidelio annunciano l’entrata del governatoree la liberazione dei prigionieri, volendo rintracciarvi una specie di compendio dell’idea di realizza-zione utopica. Vedi soprattutto E. Bloch, Spirito dell’utopia, tr. it. di V. Bartolino e F. Coppellotti,La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 70 sgg. e passim.

4 Molti cultori sapranno bene che, nella prima sinfonia, il tema principale del primo movimento èla trasposizione orchestrale del secondo dei Lieder eines fahrenden Gesellen (solitamente “tradotti”come Canti di un giramondo), Lied che appunto inizia con le parole «Ging heut’ morgen übers Feld, /Tau noch auf die Gräser hing. . . » [«Me ne andavo stamane per i prati, / Dall’erba ancora pendevanogocce di rugiada. . . »]. Per un’analisi dettagliata della prima sinfonia, cfr. U. Duse, Gustav Mahler,Einaudi, Torino 1973, pp. 162 sgg.

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narrativo, anzi proprio in forza di questa sua complessa narratività, calzerebbe granbene l’incedere d’un percorso utopico che potremmo così meglio caratterizzare co-me “itinerario utopico”. Il carattere narrativo, proprio come tale, implicherebbedunque anch’esso la possibilità di essere concepito come qualcosa di concernen-te l’utopia, in quanto il dispiegarsi narrativamente articolato degli eventi musicali(non importa se sovente imperniati espressivamente in un crinale di abbandono e diperdizione) dà corpo complessivamente a una epifania dove se non altro i rapportitra le cose depongono l’apparenza di un’ovvia manipolabilità e godibilità, trattan-dosi piuttosto di un tipo di narrazione che si distacca ampiamente dalla tecnicadata e disponibile nonché dal conseguente concetto di “livello” (tecnico), rimanen-do semmai fedele all’ambizione propria della musica stessa, che è quella di creareun mondo a sé, di prospettare – a livello di tensione spirituale – ciò che ancora nonappare, o magari ciò che ancora non esiste.

In altre parole (così almeno vorrebbero i patiti utopisti), questa utopica prospet-tiva non sussiste certo come vago wishful thinking ma seguirebbe anzi una logicache alle cose stesse si dimostra interna, e ne promuove le ragioni più intime inquanto dispiega in un itinerario sinfonico articolato non solo il trascolorare dallavicinanza cieca e nociva dell’attimo oscuro all’apertura dell’attimo distanziato esemiappagato, ma finanche la sua ulteriore mescolanza ineliminabile con le oscu-re complicazioni del destino avversante, le quali ovviamente non sono riducibilia semplice pretesto (che “volga le cose al meglio”), in quanto semmai tratten-gono nella semplice possibilità del canto residuo il prolungato sguardo di addiodell’attimo utopico nella sua “eternità”.

Ci sia consentito però rivendicare la validità delle analisi e delle obiezioni cheseguono, specie nel caso in cui la posta in gioco fosse quella che assume (o respin-ge) l’utopia come prospettiva regolativa e costitutiva del giudizio estetico, capacedi determinarne la perspicuità. Pare anzi evidente – qualora insistessimo in questaprospettiva – la necessità di tratteggiare e criticare con precisione lo specifico evo-cato dal termine utopia, e anche, con uguale precisione, le pretese di verità in essocontenute.

Il punto cui dover tributare in questo momento tutte le attenzioni possibili èdunque, a tale proposito, il seguente. Se l’utopia si presenta come orizzonte ditrasfigurazione rispetto agli uomini, alla natura, alla materia, alle cose in generale(o all’essere), tale orizzonte – secondo chi sostiene questa prospettiva – non costi-tuirà certo un totalmente altro rispetto ai sunnominati “oggetti” con cui entra in unrapporto di tensione: al contrario, l’orizzonte stesso nasce dal processo di distan-ziamento che muove proprio dal nucleo più intimo delle cose, dove l’eccessiva enociva vicinanza dell’attimo vissuto a se stesso impone l’esodo verso uno strania-mento che nel contempo si configura come interruzione della sofferenza ossessivapropria dell’oscurità dell’attimo vissuto, come distensione, messa in prospettiva,ma soprattutto anticipazione del nunc stans, dell’appagamento, dell’adempimento(Erfüllung). In effetti, sebbene non si possa negare che all’interno del processooperi una inconfondibile volontà di “essere-altrimenti” da come si è, tanto che daquesta sembra che tutto provenga, nondimeno tale voler essere altrimenti è in rap-

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porto di intima fedeltà col fatto che il passaggio dall’oscurità dell’attimo vissuto alparziale distanziamento della distensione, o meglio all’anticipazione dell’adempi-mento/appagamento, è un passaggio dalle caratteristiche squisitamente chiaroscu-rali, una sorta di trascolorare: non perciò un semplice convertirsi dall’unilateraleinquietudine in uno stato di ben rigida quiete (che subito ricadrebbe, anzi già è ri-caduta, proprio per sua stessa natura, nella nocività di una vicinanza assoluta cheripropone l’accecamento smanioso), bensì un trascolorare risolutivo simile a quelloche ha luogo in musica, dove ogni subentrare non annulla ma conserva il momen-to precedente, dove anzi la sintesi finale sembra voler – almeno “fittiziamente”– far vivere come perfectum ciò che la musica ha prodotto, come accade nel fi-nale della Nona o dell’Ottava, o ancor meglio della Terza. L’importante, a ognimodo, è ribadire il carattere chiaroscurale, trascolorante, che anima il processodi adeguamento verso il nunc stans, che anima lo stesso realizzarsi dell’appaga-mento/adempimento, dove il nunc stans rappresenta il termine trascendente di untrascolorare più alto, che fonda i processi consimili e tuttavia non costituisce alcuntipo di “totalmente altro” rispetto a essi o in generale alle cose.

Se “l’utopia” si risolvesse in quanto abbiamo appena specificato, la sua pro-spettiva ermeneutica potrebbe forse risultare feconda per dischiudere alcuni aspettidella poetica mahleriana. Possiamo anzi rintracciare un passo – incastonato fra lealtre sezioni, nel primo movimento della settima sinfonia – dove indubbiamente siconfigura qualcosa di simile a quanto detto finora a proposito del carattere chia-roscurale. È quel passo in cui tutti i temi, funebri o militarescamente ossessivi,che avevano aperto il Symphonie-Satz in un crescendo incalzante d’intensività chetrascorre dalla funebre sostenutezza fino ai ritmi spossanti attraversati da squillidi asprigne trombette militari, – sembrano darsi convegno per così dire “al rallen-tatore”, in un contesto sospeso, non eccentrico ma per così dire “naturalmente”,non “forzatamente” trasposto verso il cielo, certo anche solo lievemente sbalzan-te rispetto al “sentiero di marcia” su cui si procedeva, e tuttavia indubbiamenteplasmato da un trascolorare viola-azzurro interno, che non lo rende dissimile daimoti che ricongiungono alla trascendenza di un certo ambiguo e ancora lancinan-te nunc stans, anche se appunto quest’ultimo pare minato dall’ironia di un intimo“invano”, che potrebbe ricordare anche il paradiso infernale in cui «die schönenTrompeten blasen»5.

Il punto veramente dolente subentra però quando ci si accorge che l’utopiaintesa secondo le coordinate blochiane di fatto viola continuamente quella “chia-roscuralità” che solo surrettiziamente si era attribuita, e la costringe sotto schemidi pensiero che sono già decisi, precostituiti, appiattiti su di una sterile preconcet-ta apologia della speranza, che prosciuga la ricchezza del carattere “incostruibile”

5 Cfr. la partitura della VII Sinfonia, ed. Eulenburg, London-Mainz-New York-Tokyo-Zürich,a cura di H.F. Redlich, primo movimento (Langsam-Adagio), a partire dai numeri 32 sgg. (pp. 59-75). «Wo die schönen Trompeten blasen» («là dove suonano le trombe soavi») è un verso da unnumero del ciclo di Lieder intitolato Des Knaben Wunderhorn (Il corno magico del fanciullo), versoin cui si allude al “luogo” ove il soldato potrà incontrare l’amata, cioè sotto terra, ove si stende la suacasa di erba verde.

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(vale a dire inesauribile, sempre suscettibile di significati trascendenti) che sarebbederivato invece da una chiaroscuralità debitamente non “ipotecata”6 .

Bloch si esime dall’indagare, poi, su di una questione particolarmente impre-scindibile: se cioè la trasfigurazione che attraversa le cose nel percorso dall’attimooscuro al nunc stans presenti un carattere tale da essere fedele alla loro natura, op-pure non significhi stravolgimento delle medesime. Forse proprio questo mancatointerrogarsi, nonché l’aprioristica apologia della speranza, possono aver portato,da parte di Bloch, a quell’incredibile appaesamento politico il cui scandalo ancoraperdura, e attende dagli interpreti un’adeguata comprensione7 .

Ritengo inoltre che sottesa a questo mancato interrogarsi stia la presunzione,tutta “interpretante”, di poter stabilire in anticipo l’esito del percorso dall’oscuro alnunc stans, e di fatto vincolarlo a indiscriminate forme di prassi.

La riserva maggiore – tuttavia – va fatta risalire alla questione che segue: l’at-teggiamento di chi, come Bloch, vorrebbe accingersi a scoprire le cose oltre laloro disponibilità mortale, dovrebbe riferirvisi come ad “apparenze” necessarie,saldamente ancorate alla necessità dell’essere, alla necessità «che non trema», perdirla con Severino e Parmenide; postulare invece – come fa Bloch – gli enti cometrasfigurati dalla dimensione della possibilità (con esplicito e tematico riferimentoad Aristotele8) –, significa consegnarli all’eventualità del non essere, esporli all’o-scillazione fra nulla ed essere9, ma soprattutto esporli a un tipo di prassi che noncoglie il giusto significato della loro trasfigurabilità, e anziché centrarsi realmentesul destino immanente alla cosa (per cui la stessa speranza interverrebbe soltan-to al fine di anticipare un’identità che è pienezza appagante e quindi trascende lastessa trascendenza della speranza), finisce per stravolgerne la natura obbedendoa un genere convenzionale di volontarismo, che grava come un peso passivo sul-l’articolazione dell’intenzionalità della speranza, divenendo sterile apologia dellasperanza stessa10.

Possiamo ben mettere in rilievo, infine, che il gesto filosofico (che è ancheblochiano) del tener viva la considerazione sull’essere degli enti (quel gesto chemette cioè in revoca, come vorrebbe fare anche Bloch, la «percezione» nichilisticadella morte intesa come totale annientamento), – tale gesto sarà tanto più «neces-sario» (conforme a necessità) quanto più ispirato alla ricerca dei legami profondidi ciascun ente con tutto l’essere (Severino), legami che non sono affatto imme-diatamente evidenti allo sguardo di chi voglia sondarli essendo, come tutti del re-

6 Sulla nozione di incostruibilità in Bloch, potrei rimandare all’ultimo capitolo di A. Ferrarese,Ermeneutica, tempo e modernità nell’opera di Jürgen Habermas, Università di Padova, Facoltà diLettere e Filosofia, a.a. 1991-92.

7 Su questo punto, cfr. V. Caysa, P. Caysa, K.D. Eichler, E. Uhl (a cura di), “Hoffnung kann

enttäuscht werden”. Ernst Bloch in Leipzig, Verlag Anton Hain, Frankfurt am Main 1992.8 Cfr. il primo volume di E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Verlag Suhrkamp, Frankfurt

am Main 1985.9 Cfr. per questa polemica antiaristotelica, E. Severino, Destino della necessità. Katà tò kreòn,

Adelphi, Milano 1980.10 Su questo punto, cfr. S. Ganis, Utopia e Stato. Teologia e politica nel pensiero di Ernst Bloch,

Unipress, Padova 1996.

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sto, immerso nell’atmosfera spirituale del nichilismo: al contrario, l’atteggiamentoblochiano che attribuisce a un ultimum portatore d’identità la possibilità di chiarirequanto “ribolle” nell’oscurità dell’attimo vissuto, – appare di fatto, nella sua rea-lizzazione, nella sua concreta fenomenologia, così vincolato a una percezione in-genuamente sempre fidente della speranza intesa come anticipazione dell’identità,che alla fine lo stesso Bloch tende a rinchiudersi, a imbozzolarsi dentro un univer-so praticamente inattaccabile e autosufficiente, anch’esso “libero” e ab-solutus, ein quanto tale negatore di tutti i legami sussistenti fra gli enti, esattamente comeavviene per le altre ordinarie manifestazioni di ciò che Severino chiama sovente«isolamento della terra dal destino dell’essere»11 .

Ci rendiamo conto, a questo punto, di quanto sia paradossale il cimentarsi nelconfrontare l’opera di un lirico del contrappunto, qual è Mahler, con atteggiamentiche invece possiedono la premeditazione riflessivo-tematica che convenzionalmen-te viene sempre concessa a un filosofo. Ci sembra, comunque, che il vero filosofodovrebbe in ogni caso imitare l’artista, vale a dire dovrebbe arrivare a saper ri-nunciare a tale possibilità di premeditazione: cosa che non sempre riesce a Bloch.Artista coerente, Mahler non si concede “premeditazioni”. L’intenzione di scuote-re il «suo tempo vuoto, debole e scettico», di presentarsi «come un messo venutoda lontano»12 è in realtà, ben più crucialmente, sempre accompagnata dalla decisae meditata negazione della morte, o del completo annientamento che nella morteviene sofferto dalla convinzione fondamentale della nostra civiltà. Ci proponia-mo tuttavia di dimostrare fra le altre cose, proprio in queste pagine, che la ricercamahleriana di un superamento della morte differisce in modo sostanziale da quellache sarà l’ispirazione blochiano-utopica, ispirazione che lo stesso Adorno espressa-mente condivide e che per noi rimane viziata dalla “premeditazione” di cui sopra,premeditazione da cui Mahler ci sembra invece esente. Tale ispirazione utopicasembra rimandare a quella che Bloch definisce l’extraterritorialità dell’attimo ri-spetto alla morte; vale a dire: dato che l’attimo vissuto è gravido dell’ultimum,del perfetto nunc stans, ed essendosi questo posto sinora nella storia solo comenon-ancora (qualcosa di ancora mai realizzato essendo tuttavia sempre operantein modo immanente nell’attimo come anticipazione d’identità), ed essendo altresìtale ultimum – nel suo compimento “finale” – uguale alla suprema pienezza del-l’essere, la cui realtà non si può negare perché quotidianamente opera nello stessoattimo vissuto –, ne deriverebbe che l’attimo goda di un duplice diritto di extrater-ritorialità nei confronto della morte: in primo luogo sfuggirebbe a essa in quanto“non-ancora” sempre operante (che quindi non può mai diventare un “non-più”), insecondo luogo sconfiggerebbe la morte in quanto si realizzerebbe come il perfettonunc stans “finale”13.

11 Sul carattere avulso, assoluto e autosufficiente del pensiero blochiano, cfr. G.K. Lehmann, “Hei-mkehr ohne Ankunft, oder das hoffnungsfrohe Weltabenteur: Ernst Bloch”, in Aesthetik der Utopie.

Arthur Schopenhauer, Søren Kierkegaard, Georg Simmel, Max Weber, Ernst Bloch, Verlag Neske,Stuttgart 1995, pp. 229-273.

12 E. Bloch, Spirito dell’utopia, cit., p. 81.13 Cfr. su questi argomenti, R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Bibliopolis,

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C’è della “pre-meditazione” in tutto ciò, come già si è notato. Il che vuol dire:secondo Bloch e in genere secondo “l’utopia”, l’esito dei processi reali è già decisoin partenza, poiché ciò che conta per Bloch è il prevalere del principio speranza,prescindendo da ogni eventuale smentita. Quella di Bloch – afferma il già citatoGünther K. Lehmann – è «una fede che non abbisogna, per essere confermata, nédella realtà né di avere in prospettiva una realizzazione delle proprie intenzioni. Èuna fede che si nutre del principio. Sembra anzi talvolta che la fede blochiana nellasperanza sia tanto più inattaccabile quanto più insicuri e labili sono i suoi rapporticon la realtà»14.

Avremmo buon gioco, del resto, a rilevare fin d’ora quanto lontane siano daquesto tipo d’ispirazione utopica le creazioni mahleriane. Ognuna di esse rappre-senta un caso a sé, l’esito di una è sempre smentito dalla creazione successiva,mentre nessun percorso può considerarsi una “risoluzione” del precedente: ognivolta la posta in gioco viene riaperta. Quel che più importa osservare, tuttavia,in vista del nostro assunto, è come l’opera mahleriana sia bensì sotto ogni rispettopercorsa dall’ansia di scalzare le posizioni che la morte con la sua banale “ovvietà”detiene saldamente sul campo, però anche come tutto questo accada in modo netta-mente diverso, seguendo un’ispirazione che è totalmente diversa da quella propriadell’utopia. Mahler sembra muoversi semmai come chi abbia coscienza della ne-cessità di uscire dal cono d’ombra proiettato dalla morte sulle convinzioni degliuomini, e soprattutto intuisca precisamente la necessaria esistenza d’una via cheprospetti altrettanto necessariamente (per così dire, “rigorosamente”, non fideisti-camente) l’eternità e l’immortalità delle “cose”, ma di fatto sia cosciente di essereancora lontanissimo dal poter individuare tale via15. Egli tende allora – molto piùonestamente – a un drastico “restringimento” (quale viene chiarissimamente attua-to, per esempio, nell’ultimo numero di Das Lied von der Erde, che sarà oggettod’analisi), a una radicale rinuncia che però porta con sé l’esigenza d’individuarequella via, “mostra” con gesto perspicuo tale esigenza.

Nell’arco della produzione mahleriana tale rinuncia “inizia” tuttavia come di-stacco essenziale dalla “mondanità”, elemento quest’ultimo che irrompe abbon-dantemente nelle tre sinfonie “mediane” senza canto: quinta, sesta e settima. In par-ticolare, mentre nella quinta e nella sesta il suddetto distacco sembra ancora di là davenire, nell’ambito della settima esso invece ci sembra perfettamente “consumato”,

Napoli 1982, pp. 89 sgg.; cfr. anche il terzo volume di E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit.14 Cfr. G.K. Lehmann, op. cit., p. 254 (tr. it. nostra).15 A questo proposito, ci sembra superfluo precisare come non solo l’attività compositiva di Ma-

hler fosse intensamente coinvolta in questo tipo di problemi (dal punto di vista sia religioso chefilosofico), ma costituisse anzi una sorta di mit Klang Philosophieren, di vero e proprio pensie-ro fatto di suoni, dove lo stesso problema dell’immortalità viene mediante i suoni fatto oggettodi meditazione. Su questi temi, cfr. R. Schulz, “‘Ist das nicht auch Unsterblichkeit?’. Mahlersphilosophisch-geistiger Hintergrund”, in R. Ulm, Gustav Mahlers Symphonien. Entstehung, Deu-

tung, Wirkung, Verlag Baerenreiter, Kassel 2002, pp. 262-268. Sulla religiosità nell’opera mahleria-na, cfr. C. Floros, Gustav Mahler: Visionär und Despot. Porträt einer Persönlichkeit, Verlag Arche,Hamburg-Zürich 1998, pp. 200-212.

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portato a compimento16.Cercheremo così, nel prossimo paragrafo, di analizzare anche in questa pro-

spettiva il già descritto carattere “chiaroscurale” del primo tempo, Langsam-Adagio,della settima. Dopo di che tematizzeremo, nel terzo paragrafo, direttamente l’inten-sa ricerca e l’intensa rinuncia realizzate appunto in der Abschied, l’ultimo numerodi Das Lied von der Erde.

2 Settima Sinfonia. Langsam-Adagio. Sehr feierlich. Sehr

breit. La ricerca di una fuoriuscita dalla mondanità e dallasua pretesa d’essere ab-soluta

Riprendiamo dunque la nostra analisi del primo movimento della Settima sinfonia.Dopo che le asperità orchestrali s’erano estenuate secondo l’andamento ritmi-

co della marcia ossessiva, quasi una rincorsa, mediante il ribadimento velocizzatodi quella cadenza che costituisce il secondo tema conduttore di tutto il movimento,e mentre si ripeteva l’ennesimo richiamo abbreviato e semplificato del primo tema(in cui il semplice arpeggio di triade eccedente discendente sostituisce, conservan-done il ritmo, l’arpeggio originario discendente di terza maggiore e quinta diminui-ta) –, avviene che si plachi complessivamente all’improvviso quel motus perpetuus

ch’era stata l’orchestra fino al momento menzionato (numero 31, pp. 58-59). Nel

16 A proposito del distacco dalla mondanità (tema così ricorrente in Mahler), riteniamo opportunocitare qui la traduzione, curata da Attilio Bertolucci, del testo del famoso Lied sulla poesia di Frie-drich Rückert Ich bin der Welt abhanden gekommen, l’esempio più esplicito, “l’archetipo” stesso ditale distacco: «Ormai non mi ha più il mondo, mi ha perduto, / quel mondo dove ho distrutto grantempo, / tanto a lungo di me nulla ha saputo, / che credere ben può ch’io mi sia spento! / E penso,poi: nulla m’importa, in fondo, / se come morto esso mi fa bandire. / E non lo posso neppure smen-tire, /perché sono davvero morto al mondo. / Io sono morto al mondano frastuono, / sono in pace inun luogo silenzioso! / Nell’alto del mio cielo vivo solo, / nel mio amore, nel mio canto io riposo»(traduzione apparsa nella Broschüre dedicata alla settimana musicale in memoriam Gustav Mahler,Toblach-Dobbiaco 18-24.7.1993, p. 67). Per un’analisi musicale del Lied, cfr. C. Floros, op. cit.,pp. 117-120. Per quanto riguarda i rapporti di continuità o discontinuità fra la settima sinfonia e ledue precedenti, segnatamente la sesta, così si esprime Ugo Duse: «Chi è stato mandato sulla terraper copiare la natura e ha preteso poi di soggettivare la musica sino a farla aderire al proprio corpo, alproprio esitenziale problema, in un gesto che sa di rivolta biblica; costui deve riconoscere le vie del-l’espiazione. E l’espiazione deve assumere i caratteri altrettanto irrazionali della colpa. La Settima

infatti non è una riconciliazione di Mahler col mondo del primigenio, col bosco sotto le stelle, coifruscii della notte; è il bagno nella proiezione popolaresca della natura, la preghiera per rientrare incontatto diretto, immediato con essa. La Settima è un grande grido di dolore scaturito dalla necessariaillusione di riconquistare la perduta innocenza attraverso il ludibrio della più profonda depravazione.Chi ha potuto lasciarsi deviare dalle luminose costellazioni della semplicità apollinea, fatte d’intri-cate, complesse, difficili virtù, per battere le vie del proprio dolore, della propria ira, del propriosentimento assolutizzato [evidente allusione alla Sesta], deve ora andare fino in fondo senza infingi-menti, senza veli, senza mendicare scuse» (U. Duse, op. cit., pp. 279-280). Pressoché nella stessadirezione va l’interpretazione di G. Zaccaro, Gustav Mahler. Studio per un’interpretazione, Accade-mia, Milano 1978, pp. 114-121. Nella direzione sostanzialmente opposta (cioè nel rilevamento delleaffinità strutturali fra le tre sinfonie “di mezzo”) sembra invece andare H.F. Redlich, Gustav Mahler’s

Symphony VII, introduzione alla già citata partitura dell’edizione Eulenburg, pp. 3-12.

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numero di tre, le trombe in si bemolle sono protagoniste della “svolta” verso questoplacarsi (numero 32, pp. 59-60), procedendo alternandosi tra loro (col solo “con-trappunto” dei primi violini) dapprima scandendo in fortissimo per l’ultima volta latriade eccedente discendente propria del tema semplificato summenzionato, man-tenendo poi il si bemolle in decrescendo lungo un’intera battuta, finché il pianoe il pianissimo caratterizzano (sempre sul si bemolle) le “residuali” riproposizio-ni della figurazione ritmica funebre con cui s’era aperta la sinfonia (la croma conpunto seguita dalle due biscrome), alternata in pianissimo da terzine di crome colsi bemolle ribattuto, mentre la seconda tromba in si bemolle ricolma di speranzosae sospesa “staticità” la stessa figurazione, variandola (si ha così un si bemolle qualesemiminima con doppio punto, seguita dalle due biscrome do-re, il tutto ripetuto –p. 59).

In questo clima di singolare ma solo parziale tersificazione di linguaggio (unacalma increspata e gravida di attese) viene a riproporsi una variante della brevecadenza che già costituiva il secondo tema del movimento (esposta da legni e ar-chi prima in senso discendente poi ascendente in visionario pianissimo slentato –pp. 60-61), da cui si diparte una sorta di articolato e disteso nuovo tema suonatoanch’esso dagli archi e dai legni (pp. 61-63, numero 33, a partire dall’indicazionedi tempo Subito Allegro – Ziemlich ruhig), che però l’udito insiste a non conside-rare come tema “fondativo” indipendente ma insiste piuttosto a considerare comeun’ambigua derivazione che contiene in sé la logica di entrambi i due precedenti“temi di sonata”: esso guizza come un’ascendente cantilena cromatica entro l’umi-do e liquido paesaggio dell’orchestra, infangato ma pieno di umori, fino a esaurirsiinabissandosi (p. 64, le battute immediatamente precedenti al numero 36). Velo-ci guizzi di terzine ascendenti rimettono ancora in gioco (sempre nel pianissimo)l’inquieta motilità che connota tutto il tempo (p. 65), e la contestualizzano entroquesto lucus di tregua incerta ma veramente ispirata.

È appunto a partire da qui che a mano a mano si affacciano quegli episodi acui più propriamente il giudizio estetico può attribuire un movente chiaroscura-le, vale a dire in cui può cogliere un trascolorare dove la difficoltà con cui vienposta la domanda si presenta direttamente in prossimità d’una “riuscita”, sia pureffimera: anche se la natura di tale riuscita – beninteso – pare troppo affezionataall’ambiguità da cui deriva per poterne non fare un assoluto, e dunque rimanereorbata di ogni esito. (Intendiamo cioè dire, in altre parole, con quest’ultima graveriserva, che identificando in se stesso e soltanto in se stesso la fonte della trasfigu-razione, il processo di trasformazione musicale tematica rischierebbe di concepirsicome autopoiesi pura, e dunque come trasformazione avulsa dal destino e autoil-lusa, segnata dalla follia dell’impossibile, oltre che tentata, per malinteso spiritodi autosufficienza, di tralasciare ogni qualitativa differenziazione interna; non cheMahler corra qui questo rischio: lo correrebbe però quella concezione estetica cheinsistesse nel rimarcare questa assolutezza, come avviene secondo me in Bloch).

Ci ritroviamo così a sorprendere con uno sguardo possibilmente analitico unadelle sequenze più affascinanti e più scarsamente decifrabili di tutta l’opera mahle-riana, né possiamo tralasciare di meravigliarci che così poco attragga la curiosità

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della critica, la quale in questa sinfonia (già nel suo complesso rispetto alle altrenegletta) tende a evidenziare più che altro le due musiche notturne e lo scherzo17.Perché allora, ci si chiede, tanto poco risalta nei critici un simile crocevia tematico?Forse che poco se ne apprezza il carattere insidiosamente indefinito, l’incertezzadei significati, il suo essere latore d’un risolvimento trasfigurante che al tempostesso manifesta innegabilmente i tratti d’una precisa disillusione, del disincantorigorosamente disegnato?

All’asperità “interpretativa” corrisponde però una materia musicale relativa-mente semplice, un andamento facile ad analizzarsi. Dopo che le guizzanti velociterzine erano comparse a increspare nuovamente d’inquieta premura il paesaggio“sospeso” ma gravido e umido di pioggia che prelude a una lontana segreta fiori-tura, e dopo che nuovamente due trombe in pianissimo (questa volta in fa: nume-ro 37, p. 66) si erano alternate insistendo cautamente sull’arpeggio si bemolle-redell’ottava bassa-sol bemolle-si bemolle-sol bemolle-si bemolle-re dell’ottava alta,e il clarinetto in la imitava suggestivamente “a rovescio” (cioè in senso ascendente)l’andamento del primo tema –, la tavolozza orchestrale posa infine il suo delicatopianissimo sui trasformati accordi cadenzali del secondo tema, formulato e armo-nizzato in maniera “corale” da fagotti, controfagotti, viole, violoncelli e contrab-bassi (sempre p. 66, numero 38 – «sehr gehalten»). Dapprima questo breve incisotematico viene enunciato come una specie di cadenza (mi bemolle-re-do ribattuto),che però non corrisponde (come ci si potrebbe aspettare) alla classica cadenza chesfocerebbe nell’accordo perfetto di do minore partendo dal medesimo accordo interza posizione, ma parte appoggiandosi all’accordo perfetto di mi bemolle mino-re, passando per il quinto grado della stessa tonalità, per poi approdare all’accordo“dissonante” formato da mi bemolle-sol bemolle-si bemolle-do naturale (in realtà,si tratta dell’accordo di primo grado con in più la nota sopradominante: un accordo“bruckneriano”, che ovviamente svolge funzioni ben diverse da quelle che svolge-rebbe nello stesso Bruckner). Il moto cadenzale viene poi ripetuto in sol bemolle,alla distanza di una terza minore, tuttavia con l’accordo finale vuoto, privato dellamediante. Avendo i flauti ribadito in fortissimo il si bemolle di sfondo (finora sem-pre tenuto dai violini secondi come un ostinato – p. 67), e avendo poi ripetuto perquattro volte la configurazione ritmica selvaggia e aspra che corrisponde a re be-molle (croma con punto)-mi bemolle-fa (biscrome) in decrescendo fermandosi poiin pianissimo sul re bemolle per un’intera battuta di quattro quarti (ibid.) –, la ca-denza viene infine ripetuta in fa diesis ribadendo anche l’effetto delle quarte-quintevuote, con tre fagotti e corni in fa.

L’insistenza su queste semplici movenze cadenzali è l’elemento che poi per-mette il “fiorire” vero e proprio dell’episodio che stiamo analizzando. In effetti,l’insistere pone la cadenza stessa in una luce di interrogatività, in un’aura di doman-da (o quanto meno di attesa). Quest’ultima viene sottolineata ed enfatizzata dalle

17 Non così però avviene in W. Staehr, “VII. Symphonie in e-moll. Werkbetrachtung. ‘Nacht-wandlers Traumlied”’, in R. Ulm, op. cit., pp. 204-211, segnatamente la p. 206, dedicata proprio allasequenza che stiamo considerando.

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figurazioni ritmiche del legni, mentre ciò che subentra è uno squarcio visionario (eanche meditativo) d’intensità incommensurabile (p. 68, numeri 38-39).

Partendo dall’indicazione espressiva «sehr feierlich» (molto solenne, inizio delnumero 39), il corno in fa, debitamente armonizzato dai due corni gemelli (mentreil tutto è raddoppiato dai tromboni usati in pianissimo con effetto solistico), tracciauna sommessa linea di risposta sulle note (ovviamente in pianissimo) fa diesis-si-la diesis-sol diesis (tenuto lungamente)-fa diesis-mi diesis-mi naturale; la fragilis-sima e tacita tessitura si scioglie però inabissandosi in un “morendo” (attraverso ilmi naturale, nota sopramediante) con l’accordo di settima dominante della tonalitàfondamentale (si maggiore), lasciando lievemente vibrare nell’aria le sue tre noteprincipali, con un filo soltanto di voce nonostante la “stentoreità” degli strumen-ti usati: alle trombe in si bemolle il do diesis e il la diesis, ai tromboni (sempre“costretti” al pianissimo) il mi naturale prolungato.

La risoluzione della domanda (domanda che con l’accordo di settima domi-nante viene riassunta e riposta) subentra subito, come un sipario che si apre. Nonsi dà modulazione alcuna, ma soltanto il più semplice dei passaggi: quello cheprocede dalla settima di dominante all’accordo perfetto di tonica (si maggiore), in-trodotto, proprio come attraverso l’alzarsi di un sipario, dal suggestivo glissando infortissimo delle arpe, mentre l’accordo di tonica viene fatto poi vibrare in pianis-simo dalla “tavolozza”, cioè da tutta una pienezza di trilli e iridescenze orchestrali(pp. 68-69). La magia particolare di questo sipario che si apre par contenuta nelfatto che qui tutto accade nel più semplice, normale dei modi. Lo stacco fra ladomanda e la risposta non viene quasi percepito come tale, quanto piuttosto comeun logico trascolorare: tanto che diventa difficile sottrarsi all’impressione (falsa,del resto) che una vera differenziazione non si dia. Beninteso: non che l’ascoltosia portato a tralasciare la specificità di quanto accade; anzi, al contrario: il passoin questione viene colto come un prolungarsi dell’incommensurabilità dell’attimosupremamente riuscito, come il “centro” più affascinante del movimento o addi-rittura dell’intera sinfonia; solo che la materia (pur trasfigurata) profusa in quellache potremmo definire “risposta” (vale a dire in quelle cinque pagine di musica checomprendono e seguono il già citato lunghissimo accordo perfetto di si maggiore,introdotto dalle arpe) compare in una condizione di stretta omogeneità rispetto aquanto precede. La musica pesca sempre dallo stesso lago. Prima e dopo.

La meravigliosa metamorfosi, dunque, avviene tutta internamente al materia-le tematico già noto fin qui nello svolgimento, spesso addirittura presente ancheall’interno delle sezioni da noi testé analizzate. La mancanza di modulazione, pro-prio nel punto in cui più intenso si fa l’evento, testimonia ulteriormente questofatto.

Così stando le cose, a caratterizzare il quadro espressivo non è dunque certoun qualsivoglia impulso di fuga inteso come volontà d’essere altrimenti, o volon-tà di potenza come sfrenato esercizio dell’interpretazione che stacca le cose da sestesse facendole diventare dei segni di qualcos’altro18 ; al contrario, ciò che assor-

18 Riferendoci a questa tematica, e contrapponendola all’ispirazione blochiana, che secondo noi

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be l’ascolto è semplicemente un rallentamento, un allentamento della tensione, untentativo di precisazione attraverso l’apparire di aspetti o paesaggi trasfigurati al-l’interno di quel medesimo plesso di temi. D’altro canto, bisogna tener presenteche la costruzione di questo tempo di sinfonia non rende possibile l’irruzione dimomenti “eterogenei”, tali da far pensare all’atto dell’“incontrare” qualcosa chesopraggiunge, in un clima di discontinuità simile a quello che troviamo soprattuttonel primo tempo della terza sinfonia, o ancora (sia pur con intenti molto diversi) nel“commiato” (der Abschied), o nel primo tempo della nona; la struttura sostanzial-mente chiusa di questo movimento (non molto meno chiusa del suo “precedente”, ilminaccioso finale della sesta) rappresenta una sorta di controfigura negativa rispet-to a quanto è stato detto sull’identità dei temi nella sezione considerata; la visione,fatta di luttuoso e mobilitato disincanto, che caratterizza complessivamente il mo-vimento, è senza dubbio frutto di una scelta rigorosa e a suo modo necessaria, cheMahler compie nello sviluppare le aporie che attraversano le tre sinfonie “di mez-zo” –, e tuttavia occorre anche dire che tale necessità è il risultato di una rinunciaforzata, da cui vengono risucchiate “mondanamente” le pur corpose fondatissimeesigenze poste in generale nelle sinfonie legate al Corno magico del fanciullo, inUrlicht, ma pur anche lo stesso mondo del Wunderhorn propriamente inteso, conil suo memento circa il fatto che ogni abboccamento è sistematicamente mancato,che nulla corrisponde a nulla, che anzi sovente (come accadeva già in Das klagen-

de Lied) tutto ciò è il frutto di un delitto ben premeditato, e che quindi sarebbenecessario ed equanime presentare il conto per tutto ciò, e ribadire il dissidio dellaRöschen roth di Urlicht come qualcosa di consono alla necessità dell’essere19 . Sot-to un certo riguardo (non si può disconoscerlo) l’atto di rinuncia rappresentato dalletre sinfonie senza canto “mediane” (quinta sesta e settima) appare legato anche allapuntuale consapevolezza di un fallimento, di un’inadeguatezza nel tentativo di for-mulare qualcosa, di dare voce a un sufficientemente raffinato desiderio di immor-talità, tale che possa risultare da una necessità intrinseca dell’evento artistico, colta“a ragion veduta”: la musica della “vita celeste”, nella quarta sinfonia, decompone

non resta fedele alle cose ma le rende piuttosto altre da quello che sono, ci appoggiamo in particolareal modo con cui viene trattata in E. Severino, La gloria. Hàssa ouk élpontai: risoluzione di “Destino

della necessità”, Adelphi, Milano 2001, pp. 496-497 e passim.19 Dal testo del Lied dal titolo Urlicht, testo tratto dal Corno magico del fanciullo e inserito nella

II sinfonia come quarto movimento, emerge nel modo più chiaro quella concezione dell’immortalitàintesa come dono dovuto e “normale”, nonostante gli abissi di miseria fatti trasparire dal movimentoprecedente, strutturato sulla falsariga della Predica di sant’Antonio da Padova ai pesci (Des Antonius

von Padua Fischpredigt). Per questo di Urlicht (Luce primigenia) citiamo per esteso la traduzionedi Ugo Duse (con qualche variante), seguita dal testo originale: «O rosellina rossa! / L’uomo giacenella più grande miseria / Nel più grande dolore! / Potessi piuttosto essere in cielo! / Me ne andavoper un’ampia strada / E allora venne un piccolo angelo / E non voleva farmi passare. / Ma no, ionon mi lascio mandare indietro! / Io vengo da Dio e a Dio voglio tornare! / Il buon Dio mi darà unpiccolo lume / Che splenderà per me / Fino all’eterna vita beata» [«O Röschen roth! / Der Menschliegt in grösster Not! / Der Mensch liegt in grösster Pein! / Je lieber möcht’ ich im Himmel sein. /Da kam ich auf einen breiten Weg; / Da kam ein Engelein und wollt’ mich abweisen; Ach nein! Ichliess mich nicht abweisen. / Ich bin von Gott und will wieder zu Gott! / Der liebe Gott wird mir einLichtchen geben, / Wird leuchten mir bis in das ewig selig Leben!»] (U. Duse, op. cit., p. 338).

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corrosivamente la propria realtà, in quanto fa scivolare sulla superficie della sua ap-parente soavità, inavvertibilmente, tutto il contrario di quanto potrebbe richiamareuna vita celeste, confermando l’ironico verdetto di chi ancora si sente sfiduciatocirca i propri tentativi, e rinunciando accusa se stesso, stemperandosi nella raffina-ta autoironia. E tuttavia tale rinuncia – così come viene “consumata” – finisce coldimostrarsi tale da comportare che il suo orizzonte diventi intrascendibile propriofino a cancellare totalmente anche la sola possibilità di rapportarsi a qualcosa che“dall’esterno” comunichi qualcosa che pur c’è, che pur sussiste. L’isolamento parea tal punto accentuato da risultare addirittura “irriflesso”, esattamente come se sitrattasse di un agire che non sa cogliersi come esperire vivente.

Certo, in più di un senso ci sarà lecito rilevare che – nonostante la fedeltà te-matica che lo contraddistingue – lo squarcio qui analizzato non si configura comepura e semplice trasfigurazione del materiale tematico già noto. Il cuore dell’epi-sodio somiglia anzi a un dono che scaturisce da una fonte segreta. Ma il contestopermane in una chiusura la cui doverosità è poco in grado di spiegare se stessa:l’atto che pone l’isolamento esaurisce in questo porre tutte le proprie risorse.

Così necessariamente collocata, in un contesto pur così necessario, la sezionetesté analizzata s’immerge in una logica che la pone di fronte a un’alternativa:o inavvertibilmente sapersi discostare dal carattere insufficientemente “pensato”che connota il tipo di “chiusura” di cui qui si parla, o rassegnarsi a fungere dacontrafforto utopico all’inamovibile unilateralità di quella chiusura stessa. Occorrealtresì aggiungere che – sebbene Mahler si mantenga qui “plasticamente” fedele alprimo più solido esito dell’alternativa – non altrettanto si può invece attribuire allapoetica complessiva della sinfonia, non foss’altro per il fatto che dei temi-chiavedel presente movimento vengono poi “ciclicamente” trasposti nel discutibilissimo“carnevale” tripudiante del finale. Se l’utopicità dovesse prendere il sopravvento,emergerebbe probabilmente una sorta di «traffico nocivo»20, di alternarsi basatosul cattivo infinito, fra l’inabissarsi e il sormontare dell’irruzione “salvifica”.

Senonché, a separare i lembi del sipario non sopravviene qui alcuna irruzione,bensì – come s’è detto – il più semplice dei momenti. Questo primo tempo dellaSettima evidentemente contiene un paradosso: in un contesto variamente votatoalla chiusura unilaterale nel senso su esposto (chiusura cui cercano di mantenersicoerentemente fedeli la prima musica notturna, lo scherzo e il rondò), parrebbeaccadere che si manifesti una sorta di differente riuscita, la cui coerenza implicauna revoca indiretta del carattere sottinteso e scontato attribuito in questa sinfoniaall’intrascendibilità della chiusura stessa. È come se s’instaurasse una comple-

20 L’espressione «traffico nocivo» è blochiana, anche se qui viene da noi usata contro Bloch e ilsuo pensiero utopico. Con tale espressione, Bloch alluderebbe alla follia provocata dal desideriotroppo poco distanziato, troppo spasmodico, dell’attimo vissuto nel suo tentativo di uscire dallapropria oscurità, per seguire le immagini, le visioni utopiche che gli si pongono dinanzi: tale caratterespasmodico darebbe fallire i tentativi di uscire dall’oscurità, perché collocherebbe ancora gli oggettidel desiderio a una distanza troppo ravvicinata, facendo fallire tutti i tentativi, e precipitando cosìnella più pura follia. L’argomento è trattato con particolare attenzione in L. Boella, Ernst Bloch.

Trame della speranza, Jacka Book, Milano 1987.

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mentarietà tra la fonte segreta che ispira i passaggi da noi descritti, e la compattaincalzante compiutezza del movimento: una complementarietà tale da proiettareil movimento stesso verso un esito ancora non pregiudicato, che contiene in sél’evento in cui si compongono disincanto e nostalgia, e in cui nostalgia e disin-canto giungono a coesistere formando un intreccio coerentemente disilluso ma nonesente da produttive tensioni interne: là dove, al contrario, le due musiche notturne,unitamente allo scherzo, sembrano destinate a rimanere definitivamente prigioniered’una deriva continua e inoltrepassabile

L’avevamo già rilevato. L’apice, il momento più “appariscente” del nostro “in-terludio”, consiste in una semplice risoluzione verso l’accordo perfetto di tonica(si maggiore), il subentrare del quale coinvolge in una sorta di “tutti” un ingen-te numero di parti e di strumenti, come se – unitamente all’indicazione di tempo«sehr breit» – si dispiegassero i translucidi gravidi colori di un prospetto remotopiovoso, con lunghissime note che formano un protratto accordo di si maggiore,affidate in special modo ai legni e segnatamente al tremolo sulla dominante fa die-sis, eseguito fin da subito dai flauti normali e dai piccoli flauti, mentre dal canto suotutto quell’iridescente tremolio di colori era sfociato dal misterioso e affascinantis-simo glissando delle arpe nella battuta subito antecedente: le medesime insistonopoi anch’esse sull’arpeggio perfetto di tonica, e tacciono solo laddove si estendea quasi tutto il complesso dei legni la superficie increspata di tremolii, prolungataper un’intera nuova battuta, dove dall’humus della stessa increspatura fiorisce – informa di risoluzione – il tema che altrove già era apparso in forma vagamente inter-rogativa come quarto tema, che ora i primi violini e i piccoli flauto enunciano “al-l’unisono”, un tema composto da sei crome e una semiminima (fa diesis-re diesis-mi-fa diesis-sol diesis-la diesis-re diesis mediante “lungo” all’ottava alta) che nelpresente contesto suggerisce un andamento “cadenzale” (pp. 69-70). Mentre infattialla sua prima apparizione il tema si poneva come momento di riarticolazione, diesplorazione, di ricerca di nuove possibilità, ora invece si presenta come suggelloa una fase dall’andamento cadenzale, che a livello tematico assume le sembianzed’un compendio dell’intero movimento, e nello stesso tempo manifesta la pienezzadell’episodio qui risolutivo. Quest’ultimo sfocia certamente nella ripresa dell’ini-ziale ritmo funebre di biscrome; tuttavia il rapporto ch’esso intrattiene con il restodel movimento è ben lungi dall’essere paragonabile, per esempio, all’andamen-to che contraddistingue il secondo movimento della quinta, dove l’irruzione dellefanfare rappresenta non molto più che un moto improvviso ben presto rientrato.L’episodio in questione, al contrario, assorbe trasfigurandoli tutti i temi ricorren-ti nel movimento, mentre forma all’interno del medesimo un’articolazione tuttaparticolare, un’apertura che risulterebbe invece affatto impossibile, ad esempio,dentro le implacabili spirali del movimento che chiude la sesta sinfonia. Nutren-dosi dei temi consueti, e riuscendo a trasformare il loro carattere espressivo (chedal passo ruvido indefinito del Wanderer muta nella visione dai tremolanti colori),quest’articolazione del movimento riesce infine ad acquistare indipendenza comeparte integrante del movimento stesso, riesce a rispecchiare le altre parti e a farsida esse rispecchiare.

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Sembrerebbe, alla fine, che l’artista “scelga” di rendere coerente un certo disin-canto, essendo però fermamente consapevole che vero disincanto si dà solamentequando non si rendono assoluti o inoltrepassabili gli esiti dello stesso: un vero di-sincanto lascia essere la logica la cui caratteristica è quella di trovarsi ben lontanadal prenderlo alla lettera in modo inflessibile, perché tale disincanto sa bene comela più grossolana illusione coincida proprio col negare la possibilità stessa dell’il-ludersi, ma soprattutto perché finisce col percepire come vera effettualità proprioquello che il linguaggio del nichilismo comune considera come inesistente, co-me puro nulla. Quanto si affaccia dalle logge frastagliate (cupe ma “lucidamente”piovose, multicolori) di questa musica, il cui modus apparendi è la riuscita (masempre colma di rassegnazione apparentemente logica), rappresenta qualcosa diassolutamente reale. Certo non può essere equiparato a una semplice illusione, maintrattiene piuttosto col mondo una fitta dialettica, e per qualche momento sa farsentire la propria voce: almeno quanto basta per togliere alla mondanità quell’auradi negativa assolutezza che sembrava poter conservare.

Diciamo dunque, a mo’ di chiarimento, che nelle tre sinfonie strumentali me-diane Mahler corre persistentemente il rischio di assolutizzare in varia misurauna forma di disincanto suggerita da quello che Adorno chiama spesso «il corsodel mondo» («der Weltlauf»). Sia pure con un segno negativo, la mondanità vienea suo modo resa un assoluto, e contemplata passivamente. Solo in alcune “con-giunzioni” della settima sinfonia quest’assolutizzazione (sia pure negativa) dellamondanità viene in qualche modo elusa parzialmente: da una parte nella stranadialettica che percorre il primo movimento, ma dall’altra anche dalla consumataironia che ispira il penultimo: l’Andante amoroso (ma evitiamo qui di entrare inuna considerazione che complicherebbe troppo il nostro discorso). A ogni modo,si può ben dire che con la Settima il “muro della mondanità” comincia a presentaredelle gravi incrinature.

Possiamo dunque affermare che nell’ambito della settima sinfonia Mahler ef-fettui un lavoro profondo si scavo in direzione d’un toglimento dell’assolutezzache altrove a tratti caratterizzava la dimensione della mondanità. Successivamente,l’andante amoroso rappresenta il momento in cui tale toglimento diviene assolutapresa di distanza ironica, consumata ironia nei riguardi della mondanità stessa.

3 Der Abschied

Con l’ottava sinfonia, Mahler riprende con estrema determinazione quella ricercametafisica su Dio e l’immortalità che già conosciamo dalla seconda e terza sinfonia.È noto però come la natura di quest’opera, pur in se stessa realizzata e a suo modo“autosufficiente”, non consenta di considerare placato il pungolo di un messaggiomortifero che è ben preponderante sia nell’universo mahleriano che nello Zeitgeist.Perciò giustamente Quirino Principe la definisce «un’opera senza sbocchi». «L’ac-cordo perfetto corona il grande disegno in cui Mahler, sincero ammiratore dellaconfessione sacramentale cattolica, si ‘confessa’, nel sogno di sussistere perenne-

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mente, immune da ogni corruzione terrena, in un cielo metafisico. Il disegno èbello e non finto, ma effimero»21.

È come se ci si accorgesse che il male giace più in profondità, che la ragio-ne per cui gli adempimenti della terza sinfonia sono destinati alla revoca non ètanto individuabile nelle vicissitudini di un Weltlauf ove fanno spicco guerre, in-ganni, seduzioni, falsi trionfi: poiché sotteso a tutti quelli permane semmai unostacolo, un avversante che li rende tutti possibili. Per nominare tale avversante –tuttavia – occorre distanziarsi per un istante (almeno apparentemente) dall’osmosidoverosamente costante fra l’analisi musicale e l’interpretazione teoretica.

Si può dire che a un certo punto (dopo l’ottava) Mahler sperimenti lo spesso-re di quest’avversante, che noi (seguendo per un momento Emanuele Severino, eall’apparenza allontanandoci per qualche istante dal dovere di aderenza letteraleall’opera di cui si parla) possiamo identificare come “la persuasione” (propria ditutto l’evolversi della civiltà occidentale) che l’accadere della morte debba signifi-care in generale l’annientamento di chi muore, il quale a sua volta viene persuasoed è persuaso di venire dal nulla.

Si deve qui, per adesso, partire dalla “ovvia” ma necessaria e precisa consta-tazione che anche la stessa intenzione “immortale” dell’artista rimane immersain questa sorta di persuasione mortale: come “noi tutti”, l’artista ha potuto sol-tanto concepire “intuitivamente” l’immortalità, anche se la sua intuizione a suavolta richiedeva che la realtà dell’immortalità stessa venisse costruita muovendoda un’intima necessaria esigenza dell’opera (non già da una fede, o tanto menoda un wishful thinking); le apparenze della nientificazione – sovrastate ed esal-tate da quella collettiva persuasione che in ultima analisi le fonda – sono tropposchiaccianti per cedere a una tipo di smentita che per forza di cose si rivela imparie inadeguata, marcata dalla propria “sprovvedutezza”; inoltre, probabilmente quiha luogo una circostanza particolarmente insidiosa: che cioè proprio l’arte (cheProust, per esempio, in maniera surrettizia identifica tout court con la “salvezza”)appunto per questa sua presunta salvificità costituisca in realtà un mezzo poten-te di separazione, di isolamento tipico del mortale, di approntamento di un terrenosicuro dal destino; interviene però in Mahler un fenomeno che lo allontana da un’e-ventualità simile: ogni “stile” che inaugura nell’imboccare una nuova strada nons’impone mai come un raggiungimento sicuro, ma è specificamente contraddistin-to dalla insicurezza nella percezione di sé, così come il procedere diatonico checaratterizza l’ottava sinfonia fa costantemente riferimento ai passaggi “cromatici”che ne compiono il senso (ricordiamo la successione intervallare di sesta minore,I-VI grado, e di quinta diminuita, V-II grado, che increspano quasi “cromaticamen-te” il diatonismo a cui danno slancio). Altro splendido esempio è il “diatonismo”di Von der Schönheit nel Canto della terra, che viene così graziosamente incrinatoproprio all’incipit della linea melodica del contralto, che nella tonalità di sol mag-giore attacca con un si bemolle anziché con un si naturale, evidenziando così la

21 Q. Principe, Mahler. La musica tra Eros e Thanatos, Bompiani, Milano 2002, p. 789.

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grande fragilità e delicatezza di un simile diatonismo22 .Mahler comunque si orienta verso un tipo di sensibilità che – lungi dal prestare

orecchio alla rumorosa tendenziosità che è propria del “carattere mortale”, po-tremmo dire della mondanità – proprio in virtù dell’incertezza e del delicato sensodello svanire che caratterizzano gli stili mahleriani, individua – sia pure del tuttoimperfettamente – una logica possibile, intravede oscuramente una concatenazio-ne, un proliferare di enti possibili e proprio perciò necessari, che – diciamo noi– un legame fondamentale originario presuppone immortali, perché il dispiegar-si dell’essere implica anche “l’oltrepassamento” dell’oblio in cui cadono i viventiscomparendo23 .

Certo, tutto questo è ben lungi dal comparire pienamente. Si rilevi tuttaviaquanto segue.

Prendendo in considerazione der Abschied (raggiungimento fra i più pieni epeculiari, fra i più “sereni” e “sicuri” dal punto di vista compositivo), viene anchetroppo facile notare fino a qual misura tutti i componenti e gli sviluppi della tramapoetico-musicale siano intrinsecamente legati, “destinati”, pronti a convergere ver-so un’immensamente iterata cadenza discensionale. Verso un tramonto, insomma.Ed è proprio agli esseri che tramontano che Mahler vorrebbe donare l’immortalità.

Così ad esempio accade – per la prima volta nella sua esplicita compiutezza,sia pure per adesso solamente abbozzata – alla fine del numero 6 (battute 48-53,pp. 116-117 dell’edizione citata), quando alla battuta n. 49 l’accordo “d’appoggio”fa-la (bequadro)-mi bemolle-sol (accordo “sostenuto” dai fagotti) viene per cosìdire “inserito”, a far risaltare armonicamente lo scivolare all’unisono ascensionalema soprattutto discendente di flauto e violini primi, impegnati strenuamente nel-l’ennesima incursione di semicrome che ascendono di una quinta diminuita, ridi-scendono cromaticamente, saltano di nuovo verso l’alto d’una sesta maggiore perpoi di nuovo ridiscendere, – costituendo l’ormai ricorrente sviluppo della figura-zione di sei biscrome o semicrome (in questo caso, re-do-si bequadro-do-fa-do,nei registri alti), che sin dall’inizio costituisce la risposta al famoso “gruppetto”iniziale di biscrome, che insieme col do basso ripetuto apre mestamente il “com-

22 Per Das Lied von der Erde facciamo riferimento alla riduzione per canto e pianoforte presente inG. Mahler, Three Song Cycles in Vocal Score. Songs of a Wayfarer, Kindertotenlieder and “Das Lied

von der Erde”, Dover Publications, New York 1991, p. 91, battuta n. 6.23 Toccando questo argomenti, ci riferiamo soprattutto agli ultimi due capitoli della già citata Glo-

ria di Severino. Sarebbe tuttavia troppo difficile, data la complessità dell’opera, seguirne in questocontesto puntualmente l’argomentazione. Basti qui dire che Severino parte dalla considerazione cir-ca «l’oltrepassabilità» degli enti che sono subentrati nell’apparire (la cui visibilità è cioè intervenutain un certo punto nel tempo), per dimostrare che sarebbe contraddittorio supporre un non ritorno (siapure in forma che per semplificare chiamerei “trasfigurata”) di tali enti, perché in tal caso qualcosadi oltrepassabile (qual è la loro stessa oltrepassabilità) diverrebbe una sorta di dimensione inoltrepas-sabile, il che secondo Severino non può essere. In questo modo, Severino arriverebbe – attraversouna serie complicatissima di passaggi, non sempre perspicuamente espressi – a prospettare una spe-cie di eternità degli enti, attribuendo caratteristiche “parmenidee” a ogni singolo ente. Non occorreaggiungere che una simile “esposizione” (quella che ho fatto or ora) non è che una superficialissima“infarinatura”. Una più stretta argomentazione ci porterebbe del resto troppo lontano.

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miato”: tutto ciò sfocia in una cadenza discendente che coinvolge dei delicati coloriorchestrali.

Anche tutto il precedente andamento delle figurazioni in semicrome e biscro-me rievoca come un’unica irresistibile cadenza discendente, che alla battuta 26(nel numero 3) – dopo un indugiare ritmicamente assai complicato – si realizzaterminando con due gruppi di biscrome discendenti verso il lungo la bemolle mu-nito di corona, con l’indicazione “morendo”; in questo punto, però, solamente ilflauto è protagonista di questo episodio così “svanente”, salvo il do, tenuto semprelunghissimo dai bassi più profondi.

Se invece torniamo a considerare le battute 48-53, a impressionarci sarà propriola circostanza che lo svanire vien qui fatto proprio dal respiro stesso dell’orchestra:una profonda orchestra di tipo cameristico. Il già citato accordo che la coinvolge,fa-la-mi bemolle-sol, irrompe quando il flauto ha già quasi ribadito per l’ennesimavolta i gruppetti di note inaugurali, contrappuntato dai controfagotti che lo antici-pano nel suo imminente discendere. Accade ordunque che un flauto infaticabil-mente compulsato ribadisca l’ennesima “risposta” al gruppo inaugurale originariodelle quattro note brevi più una tenuta (le semicrome, o biscrome, do-re-do-si, piùla semiminima – lunga – do), ma questa volta (che non è del resto nemmeno laprima) la sequenza della cosiddetta risposta è lievemente variata: non già re-do-si bequadro-do-sol-do-re, bensì re-do-si bequadro-do-fa-do-la naturale. L’accentoposto su quest’ultimo la naturale rappresenta (forse assieme con la quinta vuota do-fa-do) ciò che consente all’orchestra di subentrare, impadronendosi della cadenzadiscendente, e conferendo a essa uno spessore e un respiro profondi e pensosi, co-me il vento serotino che soffia fra gli abeti immersi nell’oscurità del crepuscolo.Il menzionato accordo viene tenuto insistentemente per lo spazio di tre quarti (an-cora nella battuta n. 49), mentre nei registri alti un flauto continua a formulare –con salti verso l’acuto e ridiscese cromatiche – le sue quartine di semicrome. Allasua ultima quartina discendente (re-do-la bemolle-do), fa da riscontro lievementecorrusco un accordo maggiore perfetto qual è la bemolle-do-mi bemolle, appuntonell’ultimo quarto della battuta; ma non è che un’effimera oscillazione: subito nelregistro alto dall’ultima nota (do) dell’ultima quartina si sale – nella battuta 50 –verso un fa che viene fatto durare quattro quarti; l’armonia vien fatta gravitare in-torno alla tonalità, qui così “oscura”, di fa minore, mentre l’imminenza del seralecrepuscolo viene ancor più rafforzata dal discendente “strisciare” dei violoncelli,che parte dal re naturale (che in questo registro occupa il primo quarto della battu-ta), per poi scendere al re bemolle tenuto per ben due quarti (un sincopato che rendeparticolarmente il senso dello svanire), al do di un quarto che termina la battuta,e seguire con l’intera battuta successiva (n. 51), dove il discendere per semitoniè sfumato ritmicamente in una “immensa” terzina di note di due quarti ciascuna(si-si bemolle-la naturale), mentre le voci residue dell’orchestra mantengono il fa eil si bemolle con una regolare durata di quattro quarti: una singolare difficile com-binazione di ritmi differenti, che allarga e sospende – rallentandolo – quel sensodello svanire, mentre quando alle ultime battute (52-53) della “cadenza” i colori siposeranno sull’accordo di fa minore, questo assumerà più le caratteristiche di una

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domanda e di un’attesa piuttosto che quelle di stasi e riposo.Qualunque ascoltatore, se non è del tutto distratto, si accorgerà ben presto co-

me quella or ora descritta sia soltanto la prima (o forse la seconda, ricordando ilflauto-solo alla battuta 26: ma un vero e proprio computo è difficile) di una seriedi cadenze discendenti che ricorrono e si susseguono in modo lieve ma incalzantelungo quasi tutto (in realtà tutto, con la sottile differenziazione rappresentata dallasemplificazione finale) lo sviluppo del movimento. Non solo: si può dire, anzi, chetutta la condotta dei registri superiori (specie quella del flauto) sia costellata di sci-volamenti cromatici discendenti, dei quali le cadenze risultano essere più che altroi provvisori “precipitati” finali. Il refrain che per la prima volta si espone con espli-cita evidenza e completezza alla battuta 28, e che poi dalla sezione 41 e seguenti sisvilupperà in una straziante nenia funebre senza canto, affidata alla sola orchestra,è una semplicissima cellula tematica in cui alla ripetizione di tre crome fa seguitoil movimento discendente per semitono con trillo sulla prima nota e pausa di unsedicesimo dopo la seconda, dove quest’ultima figurazione viene ripetuta due vol-te (i clarinetti bassi ripetono un la bemolle di tre crome, poi trillo e sol semicromacon pausa, e poi ancora trillo e sol semicroma con pausa): qui il moto discendenteviene presentato nel modo più semplice, così come semplice, anzi ulteriormentesemplificato (ma con intendimento quanto mai diverso) sarà il moto discendentealla fine. Per completare il quadro, basti dire che il refrain discendente per semito-no si era già presentato (in forma meno esplicita e molto più semplificata, fungendopraticamente da controcanto) sin dalle primissime battute, e che intrecciandosi coigruppetti di biscrome o semicrome suonati da flauto e oboe aveva di fatto dato luo-go – letteralmente – alla formazione stessa del movimento che stiamo esaminando(per inciso, valga qui anche ricordare come verso la fine, circa in corrispondenzadel numero 53 e seguenti il famoso refrain nelle sue riconoscibili sembianze scom-paia, più o meno gradualmente, per lasciar posto alla lunga risoluzione con la qualesi conclude il Canto della terra, in una regione ormai lontanissima dall’ingrata for-tuna che regola il disciplinato caos mondano, e che ancora connota i numeri 51-52,dove non casualmente il suddetto refrain ancora domina).

Ciò a cui assistiamo nei primi venti numeri del movimento, fino alle battu-te 148-150 (in corrispondenza delle parole «die Welt schläft ein», intonate nel con-sueto intervallo di terza minore ascendente) –, raccoglie in sé le diverse immaginidi una natura che dilegua e impallidendo si addormenta. Sarà proprio questa na-tura impallidita nel sonno del crepuscolo a costituire poi “l’inadeguato” ma irre-sistibile richiamo di una logica d’immortalità, apparentemente affidata soltanto alciclo eternamente ripetuto e sempre ricorrente del rifiorire terrestre (che nel primoe nel quinto Lied appare invece decisamente come assurdo e privo di senso), inrealtà scaturita da una preoccupazione “metafisica”, dalla ricerca frustrata, eppu-re mantenuta sempre, della possibilità di attribuire un carattere immortale proprioall’esistenza dileguante, caratterizzata dalla consapevolezza del proprio tramonto.

Riferendoci all’itinerario complessivo della poetica mahleriana, ciò sta a si-gnificare che in un certo senso Mahler non si sente appagato dai raggiungimenti –ad esempio – dell’Ottava, non potendo restare saldo in una prospettiva che secondo

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alcuni è in Mahler addirittura quasi priva di conseguenze, compiuta sì ma priva disbocchi. Diremo invece, con più circospezione, che lo spirito religioso connotantel’opera mahleriana pone l’accento – sia nella terza sinfonia che nell’ottava – piùsul pathos del legame universale inteso come amore che sulla salda fede “bruck-neriana” in un Dio che infonde un’incrollabile certezza: l’amore, il “legame” inquanto tale, in questo contesto mantiene saldamente la funzione di soggetto, anchese la presenza di Dio rimane anch’essa, sempre, come personificazione dell’amorestesso, potentemente confusa con esso. Mahler ci aveva del resto abituati a consi-derare attentamente quel risvolto della religiosità che reca l’impronta dell’accusa,dell’autorivendicazione d’innocenza, di pretesa d’esistenza, in un senso che ricordafra l’altro anche i salmi davidici; Urlicht, l’ormai famosissimo canto del Wunde-

rhorn inserito nella seconda sinfonia, è l’esempio più chiaro, la rivelazione piùilluminante in proposito: avviene cioè qui che il più dimesso, il più evanescente, ilpiù creaturale rivendichi per sé un’immortalità, come cosa semplicemente dovuta.

In questo “luogo” però, nel Canto della terra, tutto avviene come se il Mahler“metafisico” e intensamente religioso delle sinfonie “cantate” trovasse un precisotermine di confronto e di rettifica nel Mahler appunto “terrestre” , quel Mahler cheaveva già solcato – nel Wunderhorn – i sentieri ove l’amaro disincanto e il sarcasmoindividuano l’andamento à rebours, il procedere a rovescio, il funzionamento as-surdo, l’errore sistematico che formano il carattere del mondo, lo sviamento forsenecessario ma sempre increscioso d’una mondanità cui si attaglia fra l’altro ancheil rilievo goethiano che suona: «L’umanità reclama uomini superiori, ma poi nonriesce a sopportarne l’esistenza, e preferisce i mediocri»24 . Tale carattere insalubredella mondanità si manifesta più marcatamente ancora, quando ci s’inoltri a con-siderare quelle condizioni umane ove al misconoscimento si accompagni anche ilrestringimento, la coazione, la privazione; il sarcasmo allora invoca per sé – dallemura del carcere – una sorta di apoteosi: «die Gedanken sind frei» – «i pensierisono liberi», dice intonando un sarcastico vocalizzo sull’accordo maggiore perfet-to25 punto cruciale, poi, è soprattutto questo: fedele alla pertinace assurdità d’un

24 Citato in Q. Principe, op. cit., p. 681. Quirino Principe imposta tutta la sua immensa monogra-fia appunto sulla differenziazione, che in lui diventa contrapposizione, fra l’aspetto terrestre e quellometafisico dell’arte mahleriana, stigmatizzando il fatto che Mahler abbia ritenuto di dover abban-donare quell’ispirazione tutta terrestre che era in Des Knaben Wunderhorn, e che solo parzialmenteviene ripresa in Das Lied von der Erde. «Mahler – dice Principe – si stacca rapidamente dal mondooriginario dei Lieder e si dedica con immane sforzo alla sinfonia per rappresentare una storia di cuiessere l’eroe. È questa, certo, la decisiva trasformazione del Mahler terrestre nel Mahler metafisico.Ma dobbiamo ammirare di più il secondo? La grande scelta e la grande deviazione si compiono nelmomento cruciale di un grande gesto. Ciò che avviene è il rovescio della favola platonica. Fuori, alleluce del sole, sono vive e visibili le figure della persistenza indifferenti alla storia, care al musicistaterrestre: il mondo del fahrender Geselle e del Wunderhorn. Mahler, attratto dalla caverna, proiettaquelle figure sulla grande parete di fondo. Appaiono altre figure, dai contorni smisurati: un costruitomondo di eroi in marcia, montagne altissime, uno spazio sidereo. È una ricerca di grandezza chenon si dirige verso il cielo, ma verso un interno. Il musicista metafisico non sale ma sprofonda: nonnell’io, non nella psiche, debolezza da cui Mahler fu sempre immune, ma in un antro vastissimo lacui apertura, da cui filtra la luce che proietta le immagini, si chiude lentamente» (ibid., pp. 839-840).

25 Alludiamo al Lied da Des Knaben Wunderhorn, intitolato Lied des Verfolgten im Turm (Canto

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ordinamento fondato sulla schiavitù volontaria che gli uomini s’impongono vicen-devolmente come legge, il mondo appare come un complicato intrecciarsi di falseabitudini, che tuttavia possiedono una singolare caratteristica: esse “per antono-masia” non tramontano, anzi pretendono di poter non tramontare mai; viene cosìa cementarsi un complesso di potenze mondane irresistibili, una falsa eternità incui l’immortalità stessa viene disegnata sulla silhouette della morte stessa, sempreossequiata – quest’ultima – dallo zelo di coloro che omaggiano quella “tradizione”intramontabile che Mahler chiamava Schlendrian.

Il “personaggio” che nell’ultimo Lied vaga per le montagne aspettando silen-ziosamente l’ora più propria, cercando pace per il cuore solitario limitando il pro-prio vagare ai soli luoghi più elettivi e familiari26, descrive in primo luogo il mani-festarsi delle creature della terra e della terra stessa nell’atto in cui questa e quellesi apprestano a raggiungere la quiete, il sollievo del riposo profondo, quindi a de-clinare nel tramonto, e ad anticipare – in un certo qual senso – il destino che levede oltrepassabili.

È proprio a simili rivelazioni che la musica vuol attribuire l’eternità, non con-traddetta ma semmai anzi suggerita e ispirata proprio dall’indole “cagionevole”,non sicura del permanente appoggio mondano che introduce una falsa eternità,delle cose che popolano l’amata terra, la «Heimat, die liebe Erde». Non alludosemplicemente all’“ewig” che viene più volte iterato alla fine, bensì al fatto – for-se unico ma comunque rarissimo nello stesso Mahler, nonché poco reperibile ingenerale nella storia della musica precedente, unico a ogni modo nel contesto diDas Lied von der Erde – che nell’ultima parte di Der Abschied avviene quel mi-racolo straordinario per cui la musica orchestrale trascolora tutta (ma naturalmen-te senza la benché minima soluzione di continuità) verso un materiale tematicoche era bensì presente anche in precedenza (specialmente nella linea del canto),e tuttavia riesce in effetti diverso, completamente diverso, rispetto alla strutturaorchestrale tematica presente all’inizio. (Ci è già capitato, del resto, d’imbattercinell’ovvia constatazione che a partire dal numero 57 sia i gruppetti di semicrome-biscrome, sia le vistose cadenze discendenti, sia il funebre refrain scompaiono deltutto, per lasciar posto a una lunghissima “risoluzione”, la quale trasfigura e portaa compimento ma nello stesso tempo apre l’accesso a una dimensione differenterispetto al decorso precedente).

Non occorre del resto specificare che non si tratta certamente di una semplice“coda”. La coincidenza fra unità stilistica e distinzione del materiale tematico cisuggerisce piuttosto che quanto viene manifestato dall’inizio del movimento finoall’accumularsi di tensione corrispondente e successivo alle parole «still ist meinHerz, und harret seiner Stunde», seguite dalla famosa scala che partendo dal solsale al la bemolle per poi svilupparsi per gradi interi fino al lunghissimo mi naturale

del prigioniero nella torre), riprodotto e tradotto in Q. Principe, op. cit., pp. 926-929.26 Tale personaggio rammenta un’esperienza ancestrale dello stesso Mahler bambino, quando il

padre lo abbandonò solo in mezzo al bosco dicendogli, con una specie di scherzo, di aspettarlo.Il bambino non si mosse da quel luogo fino a quando moltissime ore dopo, il padre, preoccupato,tornò per rintracciarlo (cfr. C. Floros, op. cit., pp. 41-43).

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(mediante e punto di sospensione d’un’immensa cadenza in do maggiore) –, sia daquanto segue sino alla fine a un tempo stesso conservato e trasfigurato.

L’andamento di tale trasformazione (parola che si rivela inadeguata in questocaso, in quanto la materia musicale diviene differente senza quasi divenirlo effet-tivamente, al punto che subentra il bisogno di esplicitare “teoricamente” la tra-sformazione stessa) si presenta in realtà secondo una forma molto più complessarispetto a quanto siamo riusciti sin qui a descrivere. Cerchiamo dunque di seguirepasso passo le vicende di questo sviluppo, prese complessivamente, tornando allemovenze iniziali di Der Abschied.

Abbiamo così un incipit espositivo, che oltre agli elementi generativi “fon-damentali” rappresentati dalle cellule tematiche di cui sopra, dà luogo medianteil canto all’epifania della sera che sale con le sue fresche ombre mentre dietro lemontagne il sole scompare; l’intervento del canto stesso trasforma poi, e trasfigura,quella cellula tematica che si presentava nella forma di croma ribattuta discendentedi un semitono o di un tono verso la semicroma seguita da pausa, e così facendoinduce l’orchestra a svilupparla “proseguendola” in una berceuse dall’andamentoarioso e genialmente “semplice”, che per converso accompagna la luna oscillantecome barca d’argento. L’animo è attento infine alla brezza serale spirante fra gliantichi abeti: una scena lievemente accennata, che anticipa e riassume le succes-sive epifanie in cui le creature della terra scendono in un letargo che oscilla fra ilmorire e il ri-costituirsi. Abbiamo del resto già dettagliatamente analizzato l’ampiacadenza discendente che “corona” tale scena, quando l’orchestra, e in particolare ivioloncelli, subentrano ai recitativi del flauto con le battute 49-53.

Possiamo adesso individuare le “ricorrenze” che contraddistinguono questaparte del movimento. Segnatamente, osserviamo dei “fenomeni” che si ripetono,sia pur con vistose variazioni, per tre volte.

Una prima volta, in corrispondenza delle battute 54 e seguenti, subito dopo lacadenza di cui sopra. All’arpa che con umile semplicità ma notevoli asperità ditipo ritmico espone ripetutamente in successione l’intervallo do-la di terza minore,risponde alla battuta 56 l’oboe, col “solito” gruppetto di biscrome però appoggia-to sul fa e dal “modo” indefinito, cui subentrano – sempre da parte dell’oboe –variazioni che ancora non si erano udite prima, dal carattere mesto ma incerto,estremamente fluido e terso, comodo e “disteso” («sehr mässig» – «molto mode-rato», p. 117). L’intrecciarsi fra l’arpa e l’oboe prosegue fino alle battute 69-70(p. 118), quando all’oboe subentrano in successione canto e flauto, permanendoperò sempre il “cullare” dell’arpa sulla terza minore in forma di “ostinato”. Questavariazione dolcemente oscillante nonché ritmicamente accidentata si ripresenteràpoi per una seconda volta (battute 97-110), per una terza in forma semplificata (bat-tuta 137 sgg.), e infine – però più avanti nello sviluppo del movimento – per unaquarta volta (vedi numeri 55-56); le prime tre riprese sono comunque fra loro “con-tigue”, estremamente ravvicinate: una segue l’altra, sia pure nel modo singolareche specificheremo.

Ciò che però più interessa rilevare sarà piuttosto come tali “variazioni” (essen-zialmente germinate dal gruppetto di note introduttivo-inaugurale di tutto il mo-

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vimento) diano luogo nella linea del canto all’espressione di una melodia d’unaconfidenziale nitidezza, che nella “prima esposizione” (battute 69-75) ricalca conle parole l’apparire del ruscello che rumoreggia mormorando avvolto nell’oscuri-tà; la stessa melodia, con qualche minima variante, si ripeterà alle battute 101 eseguenti, con le parole «die Erde atmet voll von Ruh und Schlaf» («respira la terrariposando e dormendo»); in forma diversa, non letteralmente riconoscibile, sem-plificata, ristretta, quasi una risposta a distanza o una sorta di “coda” impropria,alle battute 138-143, dove alle parole «die Vögel hocken still in ihren Zweigen»corrisponde una semplice scala prima ascendente poi discendente. Come ancor piùdegno di considerazione s’impone poi quanto segue: che cioè ognuna di queste treespressioni del canto (sempre accompagnate e precedute dagli ostinati dell’arpa edai recitativi dei legni) fa subentrare poi una sorta di arioso breve riaccendersi dellavitalità terrestre, ben presto rientrato dopo l’esplodere e il repentino ma indugianteconsumarsi delle cadenze che concludono i rispettivi episodi (vedi, in proposito, lebattute 80-94, poi ancora le battute 111-133, cui è in parte applicabile quanto detto,e infine le battute 138-148, in forma abbreviata). Nel primo episodio, ad esempio,l’immagine dei fiori che impallidiscono «im Dämmerschein» – «nell’imbrunire»,è subito seguita dall’irruzione d’una pienezza orchestrale, con un mosso arioso e“luminoso” accordo di quarte sovrapposte (la-re-sol), introdotto in forte-sforzatoda un ampio arpeggio in forma di appoggiatura (battuta n. 80); tale squarcio di rab-brividente vitalità prosegue in un formidabile slancio degli archi, che partendo dalla situato una sesta sopra il do centrale, e appoggiandosi all’intervallo ascendentedi quarta la-re, attraverso il mi sale al sol traducendo melodicamente la dinamicaarmonia dell’accordo per quarte, per poi scendere in scala fino al si bemolle, masaltando subito sino al la più alto evidenziando ancora l’intervallo di quarta discen-dente la-mi, poi ancora l’intervallo di quarta sol-re, seguito ancora da la-mi, che dàslancio alla scala ascendente in terzine di semiminime (battute 84-85), mentre lezone profonde dell’orchestra insistono anch’esse nel rimarcare il fascino sospesodelle quarte; tutto ciò reca alla musica un moto ascensionale, uno slancio vitale che– partendo coi violini alla battuta 86 dall’evidenziazione della terzina di semimi-nime re-do-si seguita dal la lungo ancora più evidenziato e tenuto anch’esso comein sospeso – la fa inoltrare con salti notevoli di settima minore verso un’ancor piùdinamica sospensione che sfocia in una cadenza che concentra in sé – medianteil fitto contrappunto dei corni nella parte profonda dell’orchestra – una specie divariazione continua in brevissimo spazio (battute 91-92, p. 119): una meravigliosacomplessità polifonica, la cui sospensione viene drammaticamente risolta da unasorta di profondo glissando ascendente coronato dal doloroso accordo di settimamaggiore (do-mi bemolle-sol-si, alla battuta 94), ridiscendendo infine (battute 95-99) alla semplicità della cellula intervallare ribadita dall’arpa (il sempre ricorrenteintervallo di terza minore la-do-la, con cui già s’inizia il “secondo episodio”).

Voler sviluppare anche per gli altri episodi in questione un’analisi simile aquella toccata al primo ci porterebbe troppo lontano. Quanto avviene in quelli cheabbiamo definito “episodi” ci pare comunque riassumibile, nella sua essenzialità,tentando di cogliere la funzione degli stessi all’interno dell’economia complessiva

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di Der Abschied.Non ci pare azzardato, a questo proposito, sostenere che in tali episodi si affac-

cino per la prima volta – in una forma tempestosa e “contrappuntata” dalle cadenzeinabissantesi – gli elementi espressivi che di lì a poco si troveranno situati nel con-testo più definito e preciso in cui la “voce narrante”, il canto, diviene la voce di chiha già maturato esplicitamente la decisione del distacco dal mondo, di chi ha eletto«die liebe Erde» come dimora eterna di tutti gli esseri che tramontano.

Può sembrare naturalmente che tutto questo voglia esprimere nel modo più sec-co e unilaterale una Todessehnsucht dal carattere “wagneriano” (più però secondola “lettera” dello stesso Wagner che secondo lo spirito riposto che lo connota). Co-noscendo tuttavia la complessità del percorso mahleriano, i pur difficili ma realirapporti sussistenti fra il Mahler terrestre e quello metafisico, l’assidua continuapreoccupazione con cui Mahler riflette anche a livello creaturale sulla dimensionedell’immortalità, ma soprattutto considerando il fatto che proprio la struttura tema-tica del movimento in questione rimarca l’alterità totale dell’amata terra rispettoalla mondanità e nello stesso tempo esalta la vita delle creature che tramontano,– considerando tutto questo diverrà d’altronde possibile ipotizzare che dietro lafatica profusa nell’articolare la partitura qui esaminata vi sia anche il tentativo –certo “debole”, per forza di cose, nonché gravato da un forte spirito di rinuncia edisincanto, e infine “ipotecato” dal fatto che almeno apparentemente ben poche so-no le sue conseguenze nelle “residue” opere future – di attribuire a tale totalmentealtro una specie particolare d’immortalità: un’immortalità diversa da quella tradi-zionalmente intesa (legata com’è quest’ultima all’immagine, peraltro segretamentemondana, di una potenza irresistibile e inattaccabile), un’immortalità propria dellecose che tramontano.

Dopo i tre suddetti episodi e la “cadenza” rapidissimamente digradante inglissando che chiude l’ultimo di questi (battute 144-146, p. 122), dopo le paro-le «die Welt schläft ein» intonate sul consueto intervallo minore di terza re-fa,re-fa (battute 146-148), e la corona che le conclude, il fagotto partendo dal re“centrale” accenna il “recitativo” in semicrome altrove tante volte formulato so-prattutto da flauto e oboe (mi-re-do diesis-re-sol diesis “basso”-fa “alto”-mi-mibemolle. . . ), completando il tutto in un ennesimo discendere quasi tutto per semi-toni e sfociando nel profondissimo accordo lungo la-do dei corni (battute 150-151,p. 123); questo “moto residuo” finisce brevemente in un estenuarsi della musicastessa (battute 154-156), dove il clarinetto basso ripete il gruppetto inaugurale diquattro biscrome più croma e semiminima (mi-fa-mi-re-mi lungo).

Ciò che però più conta rilevare, a questo punto, è che sulla linea del canto, allebattute 157 sgg., si realizza una vera e propria “ripresa” di quanto lo Sprechgesang

aveva formulato all’inizio, alle battute 19 sgg., quando come voce narrante indica-va il tramonto del sole dietro i monti. Qui però la linea melodica – pur presentandola stessa forma di prima, con minime ma sensibili varianti – gravita intorno a laminore anziché a do minore come in precedenza, e parte appoggiandosi sulla do-minante mi anziché sulla dominante sol. All’ombra dei “suoi” abeti spira fresca labrezza, il personaggio della voce narrante siede e attende per l’ultimo addio “l’ami-

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co”. Mentre però nella prima esposizione, dopo il fraseggio che abbiamo descrittocome quasi uguale in questa ripresa, appare la berceuse evocante l’immagine dellaluna come barca d’argento (e appare come trasfigurazione del noto refrain), ora do-po il quasi medesimo fraseggio la musica subisce invece l’ennesimo esaurimentoin “morendo”, mentre subito antecedente la battuta n. 165 si ha pure l’indicazio-ne della doppia linea verticale divisoria: indizio esteriore che la musica presentaevidentemente un decisivo punto di svolta (numero 23, p. 124, con indicazione ditempo «fliessend»).

Si ha così certamente – pur evitando per estremo paradosso qualunque solu-zione di continuità – un vero e proprio (paradossale) nuovo inizio, nonché unachiarissima differenziazione tematica.

Il condursi piano e semplice degli arpeggi, dopo il punto di “svolta” (battu-te 165 sgg.), e la nitida delicata evidenziazione delle due semplici note re-do daparte di arpa e mandolino, introducono quasi subito un tema molto lungo e arti-colato (battute 166-189), che tuttavia inizia con una semplice successione di note,coincidente con la scala pentatonica di stile orientale, sostanzialmente ridotta quasia sole quattro note – re-fa-sol-la-(do), con una realizzazione ritmica molto com-plessa e fortemente sincopata (battute 166-171), con un’iterazione insistita per benquattro volte: la prima di tre sole note (re-fa-sol), la seconda di quattro (re-fa-sol-la), la terza con cinque e un ritmo di crome assai più ristretto (re-fa-sol-la-do), laquarta infine congiungendosi col re alto tenuto lunghissimo, mediante della tonali-tà di si bemolle maggiore, con la cadenza re (lunghissimo)-do-do-si bemolle, chearticola e dà slancio al tema complessivamente preso (lo stesso passaggio cadenza-le, trasportato nella tonalità di do maggiore, sarà quello che corrisponde alle parolerisolutive «die liebe Erde, allüberall. . . », inaugurali della parte finale).

Possiamo ben rilevare, comunque, che la linea melodica ampia e distesa, liri-camente dispiegata nel suo articolatissimo diatonismo, la melodia colma di grati-tudine che introdurrà l’epilogo del Canto della terra (numero 57-58, p. 141), è giàtutta presente qui, esposta più volte nella sequenza di battute 171-255 della sezionedi cui stiamo parlando. Essa subentra quando il distacco dal mondo è già statoconsumato e sta per ricevere la sua suprema giustificazione. Più in particolare, varicordato che là dove il narrante protagonista rappresenta il proprio vagare qui e làsempre dentro la cerchia dei luoghi più familiari, proprio in quel punto la linea delcanto ricalca la già ricordata scala pentatonica: «Ich wandle, auf und nieder. . . »,cui corrisponde re-fa-sol, re-fa-sol-la (battute 235-241, p. 127). L’effetto provocatodalla delicata e discreta irruzione di tali elementi è duplice: da una parte, l’analisipare dover individuare in essa un momento di differenziazione rispetto ai “mate-riali” sonori iniziali; dall’altra, non solo si può affermare che tale irruzione noncomporta assolutamente alcuna soluzione di continuità sebbene soltanto un’arti-colazione in cui si compie il “miracolo” di una differenziazione riposta e quasisegreta, ma si può anche sostenere che quanto emerge da tale “silenziosa” irruzio-ne costituisca una chiave che attraversa nella sua totalità Das Lied von der Erde.L’illustrazione più palese di ciò la troviamo nella presenza della scala pentatoni-ca, la quale com’è noto individua con tale sua impronta tutta l’opera: nel primo

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numero essa si evidenzia soprattutto in forma parziale (quattro note “reali”) madrasticamente rovesciata, decisamente discendente, oppure anche ascendente masempre caratterizzata da una drasticità “maschile”, con cui si evoca l’ineliminabilemiseria della vita terrestre.

Il successivo ritrarsi tutto “femminile” dell’espressione musicale diminuisce ladrasticità del dolore, confinando il personaggio in uno spazio all’apparenza voluta-mente angusto27 . Tale attenuazione/restringimento permette tuttavia – almeno perun fugace momento – di considerare la terra e i suoi abitanti in una nuova luce, chesi presenta – sia pure inadeguatamente, ai limiti dell’esaurimento sperimentale, ailimiti della più scettica negazione – come luce d’eternità.

Dopo di che, come già abbiamo notato, anche quest’“effimera eternità” nuo-vamente scompare, risuonando in realtà, come dice giustamente Principe, una solavolta. Le opere successive riapriranno di nuovo totalmente la posta in gioco. Nonci sembra per niente assurdo, comunque, continuare a indagare su quella ricercadell’immortalità che ci sembra caratterizzi – oltre il Mahler metafisico – anche ilMahler terrestre.

27 Sulla polarità fra maschile e femminile nel Canto della terra, e in genere sulla complessa ar-chitettura dell’opera, cfr. R. Schulz, Symphonie für eine Tenor- und eine Alt-Stimme und Orche-

ster “Das Lied von der Erde”. Werkbetrachtung: “Ichwerk” und Visionen, in R. Ulm, op. cit.,pp. 250-257.

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