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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2014-2015 Prof.ssa Silvia Niccolai II Modulo
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ISTITUZIONI DI DIRITTO PUBBLICO PER AO
A.A. 2014-2015
Prof.ssa Silvia Niccolai
SECONDO MODULO PARTE I : LA FORMA DI STATO
La democrazia costituzionale
tra costituzione formale
e costituzione materiale
Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2014-2015 Prof.ssa Silvia Niccolai II Modulo
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Premesse: il complesso prisma delle democrazie costituzionali
La forma di stato diffusasi in Europa dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale è
definita ‘democrazia costituzionale’. Questa definizione pone l’accento sulle due caratteristiche
principali di questi ordinamenti, i quali:
- Sono fondati sul suffragio universale e sul pluralismo dei partiti politici, e dunque sono
ordinamenti democratici;
- Contemplano la presenza di un documento, detto Costituzione, nel quale sono sanciti
funzioni e competenze dei pubblici poteri e diritti e libertà dei cittadini. La Costituzione è,
rispetto alle leggi, un atto normativo superiore che le leggi devono rispettare, non possono
modificare o contraddire, pena, altrimenti, la loro incostituzionalità, che comporta il loro
annullamento e può essere dichiarata da un apposito organo di tipo giurisdizionale, la Corte
costituzionale.
Da queste due caratteristiche comincia subito a risaltare che in una democrazia costituzionale
il principio di maggioranza, proprio delle democrazie è contenuto e limitato dalla
Costituzione: le maggioranze democraticamente elette, che votano le leggi, non possono
decidere tutto a loro piacimento ma devono rispettare alcuni limiti stabiliti appunto nella
Costituzione. L’innovazione, la riforma, la direzione che la legge può imprimere alla società
incontra certi limiti. Come torneremo a dire più avanti, uno stato a democrazia costituzionale
può essere, dal punto di vista territoriale, accentrato, decentrato, regionale, federale; dal punto
di vista delle forme di governo, può convivere con varie e diverse, come la forma parlamentare
o la forma presidenziale.
L’espressione ‘democrazia costituzionale’ descrive la forma di stato ancor oggi ritenuta vigente
nei paesi dell’Europa occidentale, e nel nostro in particolare. Non sono avvenuti infatti, dalla
fine della II Guerra mondiale in questi paesi, rivoluzioni o cambiamenti di regime, tali da
spezzare la continuità dell’ordinamento, e da permettere di parlare di cambiamenti della forma
di stato come invece si fa quando, a ragione o a torto (noi abbiamo suggerito: piuttosto a torto)
si distingue tra lo stato liberale e il fascismo o come quando si distingue, più a buon diritto, tra
assolutismo e ordine antico. Tuttavia, il tempo che è intercorso dall’epoca dell’adozione delle
Costituzioni democratiche del secondo dopoguerra a oggi è stato segnato da cambiamenti
profondissimi, e da tutti riconosciuti. Tra questi è uso segnalare, e lo si fa in ogni manuale di
diritto pubblico contemporaneo: la crescente integrazione sovranazionale, la globalizzazione
delle economie, la crescita di potere degli Esecutivi a discapito degli organismi
rappresentativi e cioè dei parlamenti, il ‘superamento’ della società divisa in classi.
Quest’ultima, come diremo, era stata l’anima e la motivazione della formazione dei partiti
politici di massa, a loro volta elementi costitutivi fondamentali delle democrazie costituzionali,
e dal suo deperimento o superamento da cui deriverebbe la perdita di efficacia e funzionalità
dei meccanismi di rappresentanza politica incentrati sui partiti. Effettivamente, non ci si
può sottrarre dall’osservare che, a livello di costituzione materiale, e cioè di assetto e
dislocazione reale dei poteri, la forma di stato che attualmente è riconoscibile come operante
almeno nel nostro paese presenta caratteri molto diversi da quelli che formalmente, stando a
ciò che dicono i documenti costituzionali, sarebbero propri della democrazia costituzionale,
anche se non esistono, nella scienza del diritto pubblico, definizioni utilizzate in modo
consolidato e condiviso per descrivere questi cambiamenti.
Nell’avviarci a studiare le democrazie costituzionali, e la nostra in particolare, dobbiamo tener
presente che le democrazie costituzionali sono dichiaratamente il frutto di un
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ripensamento dei limiti dell’esperienza liberale, ma, allo stesso tempo, esse raccolgono
ampiamente l’eredità liberale. Cercano di essere esperienze liberali ‘corrette’ in modo da
evitare quelle disfunzioni che, secondo molti, furono la causa delle degenerazioni dittatoriali
che Paesi come il nostro e come la Germania avevano conosciuto nella prima metà del
Novecento.
La democrazia costituzionale è perciò un complesso ‘mix’, nel quale riconosceremo il
risuonare di motivi molto antichi, delle grandi costanti del diritto publico che lo studio delle
forme di stato e di governo ci ha mostrati. L’ordine antico aveva pensato che la lex fosse una
espressione della ratio, della ragionevolezza. L’ordine moderno che ha forgiato lo stato ha
voluto che la lex fosse espressione solo della voluntas. La democrazia costituzionale sembra
pensare al diritto come insieme ratio e voluntas. Questo modello complesso, contraddittorio,
era aperto e forse rimane aperto, perciò stesso, a molti esiti, diversi tra loro. In particolare, uno
che poteva riscoprire il diritto come sapere, forma di conoscenza, modo di usare la ragione che
affianca e contiene la razionalità orientata allo scopo con cui il potere pubblico tende nella
modernità a esprimersi; uno che poteva risolversi, invece, in una riconferma della riduzione del
diritto a espressione del potere, approfondendo le concezioni volontaristiche che si sono
affermate dalla Rivoluzione francese in poi. Vedremo infatti che nella struttura e nel
funzionamento delle democrazie costituzionali, accanto a componenti che si richiamano alle
concezioni di ordine antico (il comando come giudizio, la concezione ‘giurisdizionalistica’ che
subordina il potere al diritto), si sono riproposti, ben consistenti, anche elementi che
rivendicano la subordinazione del diritto al potere, elementi cioè ‘moderni’ e assolutistici (nel
senso di portatori di una visione per cui il diritto deve essere uno strumento della volontà del
Sovrano, del perseguimento della ‘ragion di stato’).
‘Addomesticare’ la ragion di stato – la politica – mediante il diritto o tornare a riconoscere il
privilegio della ragion di stato, della politica, come ambito che crea il diritto ma ne è allo stesso
tempo immune?
In questo cerchio si dipana la complessa esperienza della democrazia costituzionale.
La democrazia costituzionale e l’eredità liberale: differenze e continuità
Cominciamo dunque a tratteggiare i caratteri delle democrazie costituzionali, tentando in
primo luogo di precisare in che senso la democrazia costituzionale raccoglie, con
correzioni, l’eredità liberale e cerca di differenziarsi rispetto alle esperienze dittatoriali
che la avevano seguita.
Dopo i totalitarismi e la tragedia del secondo conflitto mondiale, lo stato liberale, che non
aveva saputo evitare quegli esiti così terribili, fu oggetto di riconsiderazione da parte del
pensiero politico e giuridico, che vi individuò alcuni limiti e problemi.
Un primo e fondamentale problema dello stato liberale fu ravvisato nella sua incapacità di
dare vita a istituzioni che potessero convivere con il pluralismo, col fatto che la società è
divisa in classi in gruppi in soggettività portatrici di interessi diversi. Sappiamo che lo stato
moderno sorge sulle spoglie dell’ordine antico, un suo movimento originario è l’abbattimento
dei ceti, che, tra i suoi effetti, ha di rendere la forza lavoro disponibile, libera. Questa forza
lavoro utile al capitalismo diviene massa che esprime bisogni, volontà, che preme sullo stato,
chiede rappresentanza. Ne nacquero crisi sociali, conflitti disordini, che agitarono la fine
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dell’Ottocento e il principio del Novecento. Molti stati, come il nostro, non seppero rispondere
in modo ordinato e costruttivo a questi conflitti, assorbendoli (perché non si volle o non si
seppe ampliare la rappresentanza politica, perché vi fu ostilità verso i partiti, ecc.), e le dittature
ne approfittarono per consolidarsi. Il riproporsi di scenari di quel genere apparve, quando si
trattò di trarre il bilancio di ciò che il secondo conflitto mondiale aveva significato, qualche
cosa che si dovesse assolutamente evitare. E come lo si poteva evitare? Accettando il
fondamento democratico delle istituzioni, legittimando il pluralismo politico e dei partiti. Così
mentre lo stato liberale era solo ‘rappresentativo’, lo stato costituzionale è ‘democratico’,
fondato sul principio di sovranità popolare, sul suffragio universale, sul pluralismo partitico.
Sull’idea, cioè, che i poteri dello Stato originano dal popolo e sono davanti ad esso responsabili
e che per tenere stato e popolo in connessione operano i partiti. Questi realizzano il ‘circuito
democratico’ cioè il raccordo tra azione delle istituzioni e volontà del corpo elettorale. Tutto
questo significa anche, ed è bene notarlo sin da subito, che nello ‘stampo’ della democrazia
costituzionale vi è una grande esaltazione della politica, e precisamente della politica
rappresentativa, fatta dai partiti, che viene considerata la condizione sine qua non di un
ordinamento degno di questo nome.
Inoltre e in particolare nei paesi che, come il nostro, avevano conosciuto l’esperienza delle
dittature, vi fu attenzione, nel dar vita ai nuovi ordinamenti post-bellici, a circondare di
particolari limiti i poteri del Governo, perché è negli esecutivi che le torsioni autoritarie
hanno avuto il loro epicentro, e a dotare di poteri preminenti le assemblee rappresentative, i
parlamenti.
Questo spiega la scelta della nostra Costituzione per la forma di governo parlamentare.
Questa scelta si riallaccia alla ‘evoluzione’ che il periodo liberale aveva conosciuto e la vuole
consolidare: il parlamento è l’unico organo eletto dal popolo, dunque il più legittimato, la
forma di governo è, pertanto, monista perché è il parlamento che condiziona la vita
dell’esecutivo col rapporto fiduciario.
La vocazione democratica delle democrazie costituzionali spiega l’ampia gamma di libertà e
diritti riconosciute, come vedremo subito, dalle costituzioni democratiche ai singoli, ai
gruppi, alle articolazioni territoriali.
Un altro limite che venne imputato allo stato liberale fu, inoltre, la sua indifferenza nei
confronti della diseguaglianza sociale, considerata, quella indifferenza, una causa delle crisi che
lo avevano travolto. Alla sua origine, la democrazia costituzionale si legò, per questo motivo,
all’idea di ‘stato sociale’, che è molto presente nella nostra Costituzione, cioè all’idea di uno
stato che interviene nell’economia con fini redistributivi, che cerca cioè di redistribuire la
ricchezza, per esempio quella raccolta con la fiscalità, allo scopo di offrire chances e
opportunità agli svantaggiati.
Possiamo dunque dire, in sintesi, che la democrazia liberale si richiamò all’esperienza liberale
ma la corresse in senso democratico e sociale.
Lo Stato a ‘democrazia costituzionale’: la nozione formale
Derivano dal nucleo di fondo che abbiamo ora delineato i caratteri fondamentali comuni delle
democrazie costituzionali novecentesche, che ora riassumeremo tenendo conto di come essi
sono accolti e sviluppati dalla nostra Costituzione:
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o La prima caratteristica consiste appunto, come già detto, nell’affidare a un documento
normativo dotato di particolare forza e valore, la Costituzione, la enunciazione dei principi di
fondo dell’ordinamento, inerenti i diritti e le libertà e l’organizzazione dei pubblici poteri; e
l’attribuire a questo documento carattere ‘rigido’ (la Costituzione non è modificabile con
legge ordinaria) e ‘superiore alla legge’ (le leggi ordinarie non possono abrogare la
costituzione; al contrario, in caso di contrasto con essa sono viziate e possono essere annullate
da un giudice appositamente istituito, che nel nostro ordinamento è la Corte costituzionale.
Quest’ultimo organo, dunque, è una importante novità della nostra organizzazione
costituzionale rispetto all’epoca liberale. Una altrettanto importante novità è che la
Costituzione, elencando i diritti e le libertà dei cittadini, o anche stabilendo quanto sono estese
e come devono esercitarsi le competenze di questo o quell’organo costituzionale riconosce
interessi e bisogni, giustificando che ad essi venga attribuito un particolare peso quando quegli
interessi e bisogni vengono in conflitto con altri. La Costituzione democratica, in altri termini,
non è neutra rispetto ai diversi interessi che vivono nella società, ma ricca di scelte che
graduano il valore di quegli interessi.
Per esempio: la nostra Costituzione, all’art. 32, riconosce il diritto alla salute come diritto del singolo e
fondamentale interesse della collettività, quindi dà un peso molto forte a questo interesse. Questo spiega
come mai, in una recente decisione, un Tar abbia obbligato il servizio sanitario pubblico a pagare le cure
per un malato terminale di cancro, quando queste cure sono costosissime e il malato è indigente. Nel
conflitto tra l’interesse degli enti pubblici a contenere la spesa e delle aziende farmaceutiche al profitto
– ambedue riconosciuti dalla Costituzione, ma non in modo altrettanto forte del diritto alla salute - e
l’interesse del singolo (e della collettività) alla salute, il ‘peso’ che a quest’ultimo interesse attribuisce la
Costituzione col riconoscerlo espressamente e solennemente può condurre a dare ad esso la prevalenza
su altri interessi in conflitto.
o L’adozione del principio di sovranità popolare. La legittimazione delle istituzioni risiede nella
volontà popolare. Secondo l’art. 1 della nostra Costituzione “La sovranità appartiene al
popolo che la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione”. La legittimazione
delle istituzioni dunque, risiede nella loro conformità alla volontà popolare espressa in modo
legittimo, ovverosia conformemente alle procedure fissate dalla Costituzione (che, in
particolare, prevede le elezioni periodiche). L’art. 1 pone insieme il principio di sovranità
popolare e il principio di legalità: anche la sovranità popolare si deve esprimere in forme
determinate, per essere legittima e valida. Ciò significa, in particolare, che non è sul mero
‘consenso’ (raccolto per esempio attraverso i sondaggi di opinione) che si basano le istituzioni
ma sul consenso raccolto ed espresso nelle forme stabilite (elezione, procedimento di
formazione delle leggi, norme sui rapporti tra Parlamento e Governo, ecc.).
Conviene ricordare che distinguiamo la nozione di corpo elettorale da quella di popolo e popolazione.
La popolazione di uno stato è l’insieme delle persone che in un dato momento vivono sul suo territorio,
anche se non sono cittadine di quello stato; il popolo è l’insieme dei cittadini; il corpo elettorale è
quella parte dei cittadini che ha il diritto di voto attivo e passivo.
o L’adozione di meccanismi di democrazia rappresentativa per rendere effettivo il
funzionamento del principio di sovranità popolare. La democrazia rappresentativa funziona
mediante periodiche elezioni, tramite le quali il corpo elettorale designa i propri rappresentanti,
che poi siedono negli organi di indirizzo politico. La democrazia rappresentativa viene anche
indicata come democrazia mediata o indiretta: non è infatti il popolo, o meglio il corpo
elettorale, a prendere direttamente le decisioni politiche, ma i suoi rappresentanti eletti. La
nostra Costituzione, al pari di altre dello stesso periodo, accoglie con molta prudenza la
democrazia immediata o diretta, che ricorre quando è direttamente il corpo elettorale a
decidere su una questione, e si tratta precisamente del caso del referendum abrogativo,
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delineato nell’art. 75 della Costituzione e del referendum confermativo che è previsto nel
procedimento di revisione costituzionale.
Il referendum è visto con disfavore nelle democrazie costituzionali, si dice a buona ragione solitamente,
perché la democrazia diretta darebbe troppo spazio agli umori incostanti del ‘popolo’ facilmente vittima
(lo dimostra l’antica storia di Gesù e Barabba) di agitatori che ne smuovono le passioni irrazionali. Ma è
stato ben chiaro agli studiosi della nostra esperienza costituzionale che il referendum è stato visto dai
Costituenti con timore, regolato in modo molto limitante, anche e forse soprattutto perché, oltre
ad essere completamente estraneo alla nostra tradizione giuridica previgente, era guardato come
un istituto il cui funzionamento avrebbe interferito con gli indirizzi perseguiti dai partiti. Nei fatti,
come vedremo, molto spesso il referendum abrogativo è stato usato da forze politiche di minoranza,
escluse cioè dagli accordi di governo, per mettere sul piatto questioni che i partiti trovavano
imbarazzante o difficile affrontare (come l’aborto, nella metà degli anni 1970); qualche volta esso è
stato sospinto da movimenti non corrispondenti ai partiti (come i referendum sull’acqua del 2010);
particolarmente in questi ultimi casi, i suoi esiti sono stati tenuti in pochissima considerazione dalle
forze di governo.
o Una delle più enormi differenze tra la Costituzione e lo stato liberale risiede nella piena
legittimazione dei partiti politici come tramite tra società e istituzioni: sono infatti i partiti
politici i soggetti che propongono al corpo elettorale i candidati da eleggere negli organi di
indirizzo politico; i partiti, in quanto portatori di un programma e di una visione del mondo,
rendono possibile a coloro che vi si riconoscono, votando per i corrispondenti candidati,
influenzare il funzionamento degli organi di indirizzo politico. E’ un cambiamento
profondissimo circa le concezioni della rappresentanza politica, delle sue funzioni, dei suoi
soggetti, rispetto a quelle accolte dallo stato liberale. Questo cambiamento è il frutto, da un
lato, della accettazione del fatto che la società è solcata da interessi diversi, che nel secondo
dopoguerra erano espressamente riconosciuti come interessi di ‘classe’ diversi, e, dall’altro
lato, della convinzione che l’azione delle istituzioni dovesse essere orientata da questi diversi
interessi, secondo il consenso elettorale che essi riuscivano a raccogliere. Le democrazie
costituzionali sono state perciò descritte come stati ‘pluriclasse’, in contrapposizione allo
stato liberale che era ‘monoclasse’ perché aveva peso e influenza sull’azione delle istituzioni
solo una omogenea élite aristocratico-borghese, e in esse hanno acquistato enorme importanza i
partiti politici.
“Mentre nel periodo liberale, il corpo elettorale essendo ristretto e formato dai componenti di una sola
classe legata dagli stessi interessi, l’elezione si limitava a una sorta di ‘designazione’ dei più capaci ed
adatti al ruolo politico, che venivano individuati in base alla considerazione sociale di cui godevano e
alla loro posizione economica, senza bisogno di una organizzazione di base che operi da tramite tra
elettori ed eletti, col passaggio alle democrazie fondate sul suffragio universale, dove i cittadini
politicamente attivi sono divisi da contrasti o interessi economici o di fedi religiose, o da
differenziazioni razziali ed etniche, la scelta dei rappresentanti non può derivare solo da apprezzamenti
individuali di capacità, dovendosene accompagnare altri relativi alla consonanza con l’interesse di
ogni gruppo, affinché esso riesca ad avere eco nella formazione delle decisioni politiche affidate ai
rappresentanti: donde l’esigenza di apposite organizzazioni che stabilmente concorrano a
mantenere siffatto legame, e che sono costitute dai partiti”1.
Il ruolo dei partiti politici è molto sottolineato dalla nostra Costituzione, il cui art. 49 recita:
“Tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale”. Come è chiarito dalle parole di Costantino
Mortati riportate poco sopra, dai partiti la democrazia costituzionale si aspetta che trasmettano
verso le istituzioni i bisogni e le aspirazioni delle diverse articolazioni del corpo elettorale.
1 C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, vol. I, Cedam, Padova, 1975, p. 423.
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o Nell’arco della sua scelta per la democrazia rappresentativa fondata sui partiti, la democrazia
costituzionale può associarsi a forme di governo diverse (quella parlamentare, quella
presidenziale o semipresidenziale o a cancellierato) e a modalità diverse di organizzazione e
funzionamento dei pubblici poteri. La nostra Costituzione, come ricordato, accoglie una forma
di governo parlamentare razionalizzata. La Costituzione sceglie di riallacciarsi alla
tradizione liberale (che aveva conosciuto la parlamentatizzazione della forma di governo) ma
individua in essa anche un problema: il rischio che i partiti non trovino l’accordo, che si
delineino situazioni di stallo in cui non si riesce a formare un governo, o anche il rischio che
maggioranze improvvisate in parlamento votando la sfiducia al governo ne determinino la
caduta ma non riescano poi a dar vita a un governo alternativo. La ‘razionalizzazione’ della
forma di governo parlamentare consiste nell’avere previsto una serie di meccanismi e
procedure che dovrebbero evitare questi ‘buchi neri’ del parlamentarismo. In particolare, sono
meccanismi di razionalizzazione la previsione che sia il Presidente della Repubblica a nominare
il Governo (sulla premessa che il ruolo del Presidente sarebbe stato quello di aiutare le forze
politiche a trovare un accordo per dar vita al Governo); che la mozione di sfiducia non possa
essere votata prima di tre giorni dalla sua presentazione (onde evitare improvvisati attacchi al
Governo); che spetti al Presidente della Repubblica, sentiti i presidenti delle camere e il
governo, la decisione se sciogliere le Camere anticipatamente rispetto alla fine naturale della
legislatura (v. gli art. 92-94 e 87 della Costituzione).
o Dal punto di vista della forma di stato, la nostra Costituzione, distaccandosi dall’esperienza
liberale, adotta una forma regionale, che contempla cioè le regioni e altri enti locali come
titolari di funzioni normative e amministrative, e cioè di autonomia (v. l’art. 5 Cost.).
o Un’altra significativa differenza rispetto alla tradizione liberale riguarda il trattamento che la
Costituzione riserva alla pubblica amministrazione. Già strumento del Governo,
l’amministrazione è definita dalla nostra amministrazione come posta ‘al servizio della
nazione’; le norme fondamentali di organizzazione amministrativa sono riservate alla legge
(non vi è ‘prerogativa dell’esecutivo’ sul funzionamento e l’organizzazione amministrativa) e
la legge deve regolare l’amministrazione in modo che ne siano garantiti il buon andamento e
l’imparzialità (art. 97); l’accesso ai pubblici uffici e alle cariche amministrative è ‘aperto a
tutti’, l’amministrazione deve assumere una struttura ‘decentrata’ che avvicini cioè gli organi
amministrativi ai territori e alla cittadinanza (art. 5 Cost.). Vengono peraltro ripresi dalla
tradizione liberale il riparto di giurisdizioni, la figura dell’interesse legittimo (con le sue
implicazioni di ‘naturale subordinazione’ dell’interesse privato alla decisione amministrativa),
il Consiglio di Stato come vertice della giustizia amministrativa (oltre che come organo di
consulenza giuridico-amministrativa del Governo) mentre la giustizia amministrativa di primo
grado è esercitata dai Tribunali amministrativi regionali (Tar) (cfr. art. 103 e 113 Cost.)
o Per quanto riguarda la giurisdizione ordinaria (civile e penale), la costituzione si preoccupa di
garantire maggiormente, rispetto alla tradizione liberale, l’indipendenza interna ed esterna,
stabilendo che i giudici sono soggetti soltanto alla legge e istituendo un organo costituzionale,
il Consiglio superiore della magistratura, che assume le funzioni relative allo status e alla
carriera dei magistrati un tempo esercitati dal Governo. Per il resto però la nostra Costituzione
accoglie pienamente dalla tradizione liberale l’idea che il giudice sia un pubblico funzionario, e
la magistratura un ‘ordine’ e non un ‘potere’ (del resto, la Costituzione non parla di
‘giurisdizione’ ma di ‘magistratura’).
o Tratto distintivo delle democrazie costituzionali è il riconoscimento della priorità della
persona umana e della società civile sulle istituzioni (cd. principio personalista). Le
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istituzioni sono considerate, nella democrazia costituzionale, l’espressione della società e
pertanto le loro scelte e azioni devono essere guidate da essa; le istituzioni sono al servizio
della persona umana, non il contrario:
“non l’uomo in funzione dello stato ma quest’ultimo in funzione dell’uomo, nel senso che il suo fine è
assicurare lo svolgimento della persona umana e di garantirne i diritti, e che pertanto questi sono
inviolabili, non possono venire meno neppure col procedimento di revisione costituzionale, in quanto
formano il nucleo intangibile della aggregazione statale”2.
Sono espressione di queste scelte le ricche intonazioni conferite al principio di eguaglianza, sul
quale ci soffermeremo più avanti, e la clausola di riconoscimento dei “diritti inviolabili
dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali in cui svolge la sua personalità” (art.2
Cost.).
o Il riconoscimento di una gamma di diritti e di libertà molto più vasta di quella che era propria
dello stato liberale: non solo libertà civili, ma anche diritti politici e diritti economico-
sociali. La visione della persona umana promossa dalle democrazie costituzionali non è quella
di un individuo isolato e che si preoccupa solo dei suoi affari privati; né la società auspicata
dalla democrazia costituzionale è una solcata da differenze di posizione che separano individui
e gruppi, e dove le istituzioni guardano con indifferenza alle disuguaglianze; la democrazia
costituzionale è consapevole che il singolo può dispiegare i valori di cui è portatore solo
insieme ad altri, nelle relazioni sociali e nei contesti cui partecipa; ed è consapevole che i
rapporti di produzione e di scambio, dominati da leggi economiche apparentemente in sé
razionali, non sono in grado di realizzare meccanicamente l’optimum di benessere sociale,
rischiando al contrario, come la storia ha dimostrato, “di mettere in condizione di grave
inferiorità gli esclusi dal possesso dei mezzi di produzione e di promuovere la concentrazione
di questi ultimi in poche mani, con la conseguente eliminazione dei benefici della
concorrenza”. In sintesi, la democrazia costituzionale è portatrice di una visione solidarista o
sociale in cui
“il compito assunto dallo stato è quello di promuovere una più intima solidarietà tra i suoi componenti,
mediante l’eliminazione delle stratificazioni di potere che generano uno spirito classista e conducono a
conflitti radicali di interessi tra parte e parte della popolazione”3.
I diritti e le libertà costituzionali
Vediamo dunque i diritti e le libertà che sono contemplati dalla nostra Costituzione.
Quest’ultima, analogamente alle altre costituzioni democratiche, riconosce, come detto, una
ampia gamma di libertà e di diritti, e ha un suo carattere distintivo, una importantissima sua
particolarità, nel modo in cui delinea il principio di eguaglianza. Quest’ultimo, nella nostra
democrazia costituzionale, non si limita a sancire la ‘pari soggezione alla legge’ ma
esprime anche la richiesta al potere legislativo e pubblico in genere di riservare alle
diverse situazioni trattamenti appropriatamente differenziati.
2 C. Mortati, Istituzioni, cit., p. 155. 3 C. Mortati,Istituzioni, cit., p. 142-143.
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Il principio di uguaglianza e solidarista
Secondo l’art. 3 della Costituzione:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di sesso,
razza, opinioni politiche, di condizioni personali o sociali.
E compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto
la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del paese.
Il contenuto dispositivo dell’art. 3 è molto ricco. Da esso possono trarsi diversi principi.
Il primo è il principio di pari dignità sociale, il quale afferma che la uguaglianza è soprattutto
nella dignità, nel valore di ogni persona umana come tale, indipendentemente dalle sue
ricchezze, origini o condizioni: dobbiamo guardare ogni persona come un valore intrinseco. E’
un principio che sintetizza un doveroso atteggiamento di rispetto verso la vita e la personalità di
ognuno, e che implica, inoltre, un pari diritto di ciascuno ad esprimere nella sfera sociale le
scelte e i valori cui orienta la propria vita.
Il secondo è il principio di uguaglianza formale, il quale stabilisce che davanti alla legge
tutti siamo uguali, la legge è capace di imporsi a tutti senza privilegi, o esenzioni, a favore
di una classe, gruppo o categoria di persone.
Il terzo è il divieto di distinzioni arbitrarie (discriminazioni), il quale stabilisce che la legge
non può istituire differenze di trattamento tra persone per la loro appartenenza a una delle
categorie elencate, che si traducano in discriminazioni, cioè in trattamenti sfavorevoli o
sminuenti o che non abbiano una ragionevole giustificazione. Secondo l’interpretazione del
divieto di distinzioni arbitrarie che è diventata ben presto dominante nella nostra esperienza,
non ogni differenza di trattamento è discriminatoria, non ogni distinzione fatta dal
legislatore tra cittadini appartenenti a diverse categorie è vietata; al contrario, proprio
non distinguere tra i cittadini, non tener conto delle differenze che intercorrono tra essi
(differenze economiche, sociali, di condizione personale, che si riflettono sulla eguale
capacità di ciascuno di godere dei diritti di cui astrattamente gode, o di esercitare i propri
doveri), potrebbe condurre a conseguenze irrazionali e ingiuste.
La legge, pertanto, deve trattare in modo uguale le situazioni uguali e deve trattare in
modo diverso le situazioni diverse, vale a dire deve essere adatta, congrua, proporzionata
alla situazione che intende regolare.
Una differenza di trattamento tra due situazioni, dunque, non è automaticamente una
discriminazione. E’ una discriminazione solo quando quella differenza di trattamento non è
giustificata dalle caratteristiche della situazione che si intende regolare, dunque risulta
arbitraria. Questo modo di intendere l’uguaglianza, in cui ritorna l’antica nozione di ‘natura
della cosa’ il cui apprezzamento deve guidare il legislatore, è stato chiamato nel nostro paese
principio di ragionevolezza. Il principio di ragionevolezza significa che la legge deve conto
delle situazioni che intende regolare (congruità), non è mai una volontà ‘isolata’, ma sempre ‘in
contesto, e cioè una volontà che si esprime sempre tenendo conto dell’insieme dei valori e delle
scelte dell’ordinamento, quelle costituzionali in particolare ma anche quelle che il legislatore
stesso ha già adottato in materie simili (coerenza).
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Il principio di ragionevolezza si rivolge sia al legislatore, che deve tener conto delle differenze e
trattarle adeguatamente, sia al giudice costituzionale, che in nome di esso può sindacare la
costituzionalità delle leggi, sia a tutti i giudici, che, come vedremo, possono porsi il dubbio che una
legge non lo rispetti e chiedere alla Corte costituzionale di esaminarla. Esso scaturisce da una
concezione, in qualche modo di ‘ordine antico’, che non vede giurisdizione e legislazione rigidamente
separate in nome della diversità delle loro funzioni (applicare la legge, la prima, porre il comando, la
seconda), ma in qualche modo osmotiche, per il carattere comune dei principi cui rispondono, o, se si
vuole, della forma di razionalità che dovrebbe presiedere all’una e all’altra. Torneremo su questi punti
più ampiamente in prosieguo.
Una quarta e fondamentale componente del principio di uguaglianza è quella in cui esso si
specifica come principio solidarista. Questa componente del principio di uguaglianza è quella
fatta risaltare dal secondo comma dell’art. 3 ed è nota come principio di eguaglianza
sostanziale.
La portata normativa di questo aspetto del principio di eguaglianza è che esso permette (e anzi
rende doveroso) che “La Repubblica” (l’insieme dello stato, delle regioni, degli enti locali)
adotti provvedimenti (servizi pubblici, agevolazioni fiscali, sussidi finanziari… ) orientati a
mettere le persone in una condizione di parità di opportunità: siccome le condizioni
economiche, di salute, la zona in cui viviamo, l’età ecc. incidono sulla capacità di godere
effettivamente dei diritti di cui tutti siamo astrattamente titolari, e possono ridurla, o escluderla,
la Repubblica è tenuta a intervenire in funzione riequilibratrice. (Es. tutti i bambini hanno il
diritto e il dovere di frequentare la scuola, ma vivere in piccoli comuni montani può rendere
difficile arrivare materialmente a scuola. Il servizio di scuolabus si orienta a soddisfare una
esigenza di “uguaglianza sostanziale”.)
Insieme al principio personalista, che abbiamo già menzionato, e al principio pluralista,
su cui ci soffermeremo più avanti, il principio solidarista è una colonna portante del
nostro ordinamento costituzionale. Esso trova nella parte della Costituzione dedicata ai diritti
e ai doveri fondamentali una serie di specificazioni, specialmente nel campo dei diritti
economico ed etico-sociali, come vedremo più avanti.
Rispetto alla tradizione liberale, dunque, l’eguaglianza viene, nella nostra democrazia
costituzionale, enormemente arricchita e ispessita di significati. Non esprime più solo il
valore e la forza della legge (di applicarsi a tutti) ma anche un vincolo alla legge (ad essere
ragionevole); non è più solo una questione di rapporti tra potere pubblico e cittadini, ma anche
un valore che si irradia orizzontalmente nella società (pari dignità sociale); non è solo un
criterio di valutazione delle leggi ma anche un obiettivo politico-sociale di maggiore giustizia
nei rapporti sociali ed economici. Tutto ciò sprigiona valenze di enorme significato quanto alle
concezioni del diritto e del potere accolte dalla democrazia costituzionale. La legge non deve
solo ricercare l’utilità dal punto di vista di chi governa, dei suoi scopi, ma deve tener conto
degli effetti che avrà sui consociati, del modo in cui i suoi dispositivi interagiranno con una
gamma di valori e interessi tutelati dalla Costituzione.
La legge dunque è soggetta al diritto (deve tenere in adeguata considerazione i valori
costituzionali per come di volta in volta si presentano nei contesti che essa disciplina, e non può
ridursi a volontà che crea il diritto). Anche la giurisdizione non è solo ‘soggetta alla legge’
perché può dubitare della conformità delle leggi alla Costituzione e deve interpretare le leggi
tenendo conto, anch’essa, dei principi costituzionali. Emerge una immagine che nella cultura
giuridica antica e moderna era stata definita come quella del legislatore ragionevole, che
attenua le differenze tra legiferare e giudicare che si sono così nettamente stabilite nell’epoca
moderna, e ricorda, attingendo ai principi dell’ordine antico, che anche il comando è giudizio.
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Il modo in cui la Costituzione rinnova il principio di eguaglianza rispetto alla esperienza
liberale è fatto da una parte di nuove valenze politiche, che conferiscono all’eguaglianza un
significato di ‘giustizia sociale’ assolutamente estraneo ai paradigmi dello stato liberale;
dall’altra del recupero di concezioni antiche dei rapporti tra legislazione e giurisdizione che lo
stato liberale aveva rifiutato in nome di una rigida ‘separazione’ che voleva essere
subordinazione della razionalità giurisdizionale alla razionalità politica.
I singoli diritti costituzionali
L’enorme maggiore ricchezza della disciplina costituzionale dei diritti e delle libertà rispetto a
quella che era stata propria dell’epoca liberale risalta subito sol che si pensi che, lungi dal
riconoscere i soli diritti civili negativi, la Costituzione italiana riconosce ampiamente i diritti
civili collettivi, e inoltre, i diritti politici, i diritti della sfera etico-sociale e della sfera
economica.
I diritti civili
Come sappiamo, i diritti civili sono i diritti che costituiscono e tutelano la società civile (in
opposizione alle tentazioni autoritarie dei pubblici poteri). Li si distingue in
Diritti civili individuali (esercitati dal singolo nella sfera privata)
libertà personale
libertà di domicilio
libertà di corrispondenza
libertà di circolazione e soggiorno
Diritti civili collettivi (esercitati dal singolo o da una pluralità di persone insieme, ma
comunque rilevanti anche nella sfera pubblica)
libertà di riunione
libertà di associazione
libertà religiosa
libertà di manifestazione del pensiero e di stampa
Come sappiamo, i diritti civili sono i diritti che proteggono la sfera privata dalle interferenze
arbitrarie dei pubblici poteri. Quella di sfera privata è nozione che indica sia l’ambito di vita
dell’individuo come singolo che si dedica alle proprie attività ed interessi, sia l’ambito
della società civile, come contesto sociale distinto dalla sfera dei pubblici poteri. Questo
contesto, per rimanere vitale e per non essere schiacciato, spento o sopraffatto, e per essere in
grado, al contrario, di controllare, criticare, discutere, di dare vita a propri indirizzi, progetti,
desideri ha anch’esso bisogno – come ne hanno le libertà del singolo - di protezione e di
garanzie, nei confronti delle invadenze dei pubblici poteri, così come nei confronti dello
eventuale strapotere di alcuni privati ai danni degli altri.
Nelle libertà civili confluiscono perciò sia libertà individuali, già note alla tradizione liberale,
di cui è titolare il singolo e che vengono esercitate in maniera individuale, come la libertà di
domicilio, di corrispondenza, di circolazione e soggiorno, sia libertà collettive o di gruppo,
che si esercitano insieme ad altri, come la libertà di riunione, di associazione, o che si rivolgono
agli altri, come la libertà di manifestazione del pensiero o di stampa; sia libertà che occupano
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entrambi i versanti, come la libertà di fede e professione religiosa. La democrazia
costituzionale riconosce e tutela la dimensione collettiva dei diritti civili (ignorata se non
ostacolata dallo stato liberale) per effetto della sua scelta di base democratica e pluralistica.
Oltre ad essere diversi per il numero e la natura, i diritti civili riconosciuti dalla nostra
Costituzione si differenziano da quelli d’età liberale per l’intensità della garanzia con cui
sono protetti. Come ricorderemo, lo Statuto albertino quando riconosceva un diritto si limitava
a dire che ‘la legge lo riconosce’, lo si esercita ‘ nei limiti sanciti dalla legge’, ed espressioni
analoghe le quali valevano in pratica a garantire alla amministrazione una discrezionalità molto
ampia quando si trattava di stabilire se ricorreva o meno in un caso concreto una situazione che
permettesse di limitare una libertà (per esempio di trarre in arresto una persona). Il massimo
della tutela che lo Statuto assegnava ai diritti era la riserva di legge, cioè prevedere che solo la
legge (non dunque l’esecutivo, o direttamente l’amministrazione) potesse regolarli. La
Costituzione aggiunge spesso alla riserva di legge una riserva di giurisdizione, sancendo che
la pubblica amministrazione può interferire in un diritto solo se la ricorrenza di un ‘caso
previsto dalla legge’ è stata accertata da una autorità terza, cioè dalla magistratura.
I diritti civili individuali nella Costituzione italiana
Il diritto di libertà personale (diritto di avere il proprio corpo libero: habeas corpus).
Secondo l’art. 13 della nostra Costituzione (che apre la parte dedicata ai diritti e doveri
fondamentali):
La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra
restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e
modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità e di urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica
sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro 48 ore
all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida entro le successive 48 ore, si intendono revocati e
restano privi di ogni effetto.
E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.
Il tenore della disposizione ci aiuta intanto a comprendere il senso dell’aggettivo “inviolabile”,
che viene riferito dalla Costituzione a questa e ad altre figure di libertà. La disposizione inizia
dicendo che la libertà personale è inviolabile, poi prosegue stabilendo le condizioni che ne
rendono legittima la limitazione. L’inviolabilità della libertà personale, pertanto, non significa
che essa non possa mai essere limitata, ma significa che per limitarla legittimamente, occorre
rispettare le condizioni, che la Costituzione pone. Le circostanze e le forme che rendono
legittima la limitazione della libertà personale sono date dalla riserva di legge, dalla riserva di
giurisdizione e dall’ obbligo di motivazione che sono fissati nel primo comma dell’art. 13.
Una persona può essere legittimamente privata della sua libertà personale solo se, nella specie,
si danno queste tre condizioni:
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1. ricorre una ipotesi per la quale una norma di legge (intendendosi per tale la legge in senso
proprio, come atto deliberato dalle due Camere, e gli atti del governo equiparati alla legge,
decreto legge e decreto delegato) stabilisce questa limitazione. Solo questi atti sono legittimati
a porre limitazioni alla libertà personale perché, in quanto deliberati dal Parlamento o
comunque autorizzati – preventivamente o successivamente – da esso, sono atti considerati
espressivi della volontà del popolo sovrano. Assegnare la disciplina di una materia solo alla
legge e atti equiparati è un meccanismo di garanzia cui la Costituzione ricorre spesso in materia
di libertà e si chiama, come detto, riserva di legge;
2. il ricorrere nel caso di specie di una ipotesi di limitazione della libertà personale prevista dalla
legge è stato accertato con atto dell’autorità giudiziaria. In questo meccanismo consiste la
riserva di giurisdizione, la quale esclude che gli apparati esecutivi possano autonomamente e
senza controllo esterno decidere se, quando e come limitare la libertà personale di una persona;
3. l’atto dell’autorità giudiziaria è motivato, ossia espone le ragioni giuridiche e di fatto che hanno
condotto l’autorità giudiziaria ad autorizzare la misura limitativa. In questa garanzia consiste il
cd. obbligo di motivazione la cui fondamentale importanza si coglie se si pensa che, primo,
questo obbligo rende più difficile un esercizio arbitrario del potere, in quanto impone di
dichiarare in base a quale norma, e per il ricorrere di quali circostanze di fatto, la misura è
adottata; secondo, consente all’interessato di conoscere la propria posizione e di forgiare,
rispetto ad esse, la propria difesa.
Le tre garanzie valgono soprattutto a privare l’autorità amministrativa di pubblica sicurezza –
che materialmente compie gli atti limitativi della libertà personale – del potere di procedere ad
arresti o altre limitazioni della libertà personale sulla base di una propria decisione, ovverosia
di una valutazione soggettiva e contingente, come tale foriera di possibili arbitri e
insindacabile, o molto difficilmente sindacabile. Esse mettono in azione il principio di
separazione dei poteri e il principio di legalità: il legislatore stabilisce i casi e i modi in cui gli
arresti sono possibili; a eseguirli è l’amministrazione della pubblica sicurezza; a controllare che
quest’ultima non abusi dei suoi poteri è il giudice, indipendente.
Intorno al ceppo della libertà da arresti arbitrari, o libertà personale, ruotano una gamma di
figure di libertà che proteggono la sfera privata, che si sono sviluppate nel corso della storia e
che la nostra Costituzione riconosce.
Altra classica figura di libertà negativa o civile, di carattere individuale, è intanto la libertà di
domicilio, riconosciuta nell’art. 14 della nostra Costituzione e assistita dalle medesime
garanzie della libertà personale e che, come quella, risponde all’esigenza di garantire una sfera
di signoria della persona, questa volta non sul proprio corpo ma su un luogo, davanti alle
ingerenze del pubblico potere, che pure possono rendersi necessarie ad esempio per la
repressione di reati, nonché alle invadenze illegittime di terzi.
Recita l’art. 14:
Il domicilio è inviolabile.
Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri se non nei casi e modi stabiliti dalla
legge secondo le garanzie prescritte per la libertà personale.
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Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali
sono regolati da leggi speciali.
Il domicilio, ai fini del ricorrere della garanzia costituzionale, è il luogo nel quale una
persona può separarsi dagli altri, ammettendovi solo persone di propria scelta. Non
occorre che il luogo sia di proprietà di una persona, o che la persona abbia un titolo legittimo
di godimento del luogo (es., locazione); e nemmeno che si tratti di una casa, un edificio; anche
l’auto, chiusa con tendine e parcheggiata, può costituire un domicilio, e lo è una imbarcazione.
Data l’ampiezza della nozione costituzionale di domicilio, l’art. 14 protegge non solo la
signoria della persona su un luogo, ma, più ampiamente, una esigenza di riservatezza e di
intimità.
Altra classica espressione delle esigenze di libertà negativa è la libertà di corrispondenza,
garantita dall’art. 15 in questi termini:
La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.
La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria e con le garanzie
stabilite dalla legge.
Con corrispondenza si indicano le comunicazioni private, ovverosia le comunicazioni che una
persona indirizza a uno o più destinatari determinati: comunicazioni scritte ma anche
telefoniche e, si ritiene, telematiche, delle quali la Costituzione tutela in tal modo la segretezza
e la riservatezza, e pertanto la libertà.
La libertà di circolazione e soggiorno, garantita nell’art. 16 (e, si badi, riferita ai “cittadini” e
non a “tutti”) tutela poi la possibilità di muoversi nel territorio nazionale e di soggiornarvi
liberamente.
Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo
le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità e sicurezza. Nessuna
limitazione può essere determinata per ragioni politiche.
Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio nazionale e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge.
Nell’esplicita esclusione della possibilità che la libertà di circolazione di una persona sia
limitata per motivi politici troviamo il ricordo e la condanna dell’istituto fascista del confino
politico. Questa libertà può essere limitata solo “dalla legge in via generale per motivi di sanità
e sicurezza”: non ricorre qui la riserva di giurisdizione. La riserva di legge formulata in questa
disposizione è una riserva rinforzata di legge, il che significa non solo che la Costituzione
abilita solo la legge a stabilire i casi in cui questa libertà può essere limitata, ma anche che la
Costituzione definisce in quali sole ipotesi la legge può limitare questa libertà, i motivi che
rendono legittima la limitazione, indicandoli nei soli motivi di sanità e sicurezza.
Quanto agli “ obblighi di legge” che possono limitare la libertà del cittadino di uscire dal
territorio nazionale possiamo pensare ai doveri di assistenza legati al matrimonio e all’avere
figli; o ai doveri fiscali.
I diritti civili collettivi
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L’ossatura giuridica delle libertà della società civile è data dalle libertà civili collettive: la
libertà di riunione, di associazione, di manifestazione del pensiero, di fede religiosa ne sono i
pilastri tradizionali; e, di tutte queste, la libertà di fede religiosa rappresenta probabilmente la
quintessenza, perché da un punto di vista storico è questa libertà quella attraverso la quale sono
state fatte valere, contro l’ingerenza dei pubblici poteri, le esigenze di libertà del ‘foro interno’
dell’individuo e di autonomia della società dal potere pubblico.
La libertà di avere diverse credenze, valori, ideologie e convincimenti, e la possibilità di
condividerle con altri e promuoverle nel mondo esterno sono gli interessi protetti dalle libertà
civili collettive.
Nella sistematica della nostra Costituzione la dimensione pubblica o collettiva delle libertà
civili emerge in primo luogo con la libertà di riunione, che è disciplinata nell’art. 17. E’ una
libertà che può essere tanto bene esercitata nella sfera privata (riunione nel proprio domicilio
per discutere coi propri amici i propri punti di vista su problemi o interessi comuni) quanto
sfociare in tutto e per tutto nella sfera pubblica (corteo con un migliaia di partecipanti per
invocare la pace tra le nazioni). Essa è riconosciuta purché si eserciti in modo pacifico.
I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi.
Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso.
Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto
per comprovati motivi di sicurezza e incolumità pubblica.
Luogo privato è, per esempio, una casa di abitazione; luogo aperto al pubblico è un cinema,
ristorante, albergo, cioè un luogo normalmente destinato ad essere frequentato da più persone,
ma per entrare nel quale occorre operare una scelta; luogo pubblico è invece la strada, la
piazza, i luoghi dove tutti possiamo trovarci, passare, convergere anche per caso. Proprio
perché solo le riunioni in luogo pubblico possono interferire con il passaggio di coloro che non
intendono parteciparvi, solo per le riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso
alle autorità. Lo scopo del preavviso è consentire alle autorità di pubblica sicurezza di valutare
se la prevista consistenza della riunione o l’itinerario del corteo ecc. richiedono modifiche del
percorso degli autobus, presenza di vigili ecc. Non compete all’autorità di pubblica
sicurezza valutare il contenuto e lo scopo della riunione.
La riunione è data dalla compresenza fisica di più persone nello stesso luogo, quando tale
compresenza è il risultato non di un assembramento spontaneo, casuale (come il capannello di
persone che si può formare dopo che è avvenuto un incidente per strada), ma di un accordo
preventivo, dove qualcuno (i promotori della riunione) fissa il luogo e l’ora e altri (gli aderenti
o partecipanti) convergono (ad esempio, riunione alle 16 sotto il consiglio regionale per
protestare contro la legge…; o alle 17 al cinema talaltro per discutere di….; o alle 20 a casa di
Caio per ascoltare Tizio che riporta le sue esperienze di operatore sociale in Africa. I cortei –
detti anche, nel linguaggio corrente, “manifestazioni” - sono “riunioni itineranti” nello
svolgimento delle quali si esercitano tanto la libertà di riunione che la libertà di circolazione.
Altro momento classico della capacità della società civile di esprimersi, esercitare un peso e
una influenza, manifestare umori, perseguire progetti, è la libertà di associazione, riconosciuta
dall’art. 18 della nostra Costituzione, e che comprende sia la libertà positiva di associazione
(libertà di dar vita a una associazione, o di aderirvi) che la libertà negativa di associazione
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(libertà di non aderire ad alcuna associazione; libertà di recedere da una associazione di cui si
sia fatto parte).
I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai
singoli dalla legge penale.
Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici con
mezzi militari.
La riunione esiste per tutto il tempo in cui si svolge, fintantoché permane la compresenza fisica
delle persone che hanno dato vita alla riunione. Una associazione, invece, è un gruppo a cui si
aderisce volontariamente, e cioè che nasce da un accordo (patto o contratto associativo), ma
del quale si può far parte anche senza riunirsi mai fisicamente con gli altri associati. Si dice
pertanto che gli associati sono astretti, legati l’uno all’altro, da un vincolo ideale. Il
riconoscimento della libertà di associazione esprime la consapevolezza che la condizione di
cittadino, l’appartenenza alla comunità politica, i valori da quest’ultima condivisi e i fini da
essa perseguiti possano non esaurire i pensieri, le aspirazioni di tutti i membri della società, o
possano non coincidere con le convinzioni dell’intera società.
Fondamentale nerbo della società civile, espressione dell’opinione pubblica, è poi la libertà di
manifestazione del pensiero, garantita dall’art. 21, di cui ricordiamo il primo comma:
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro
mezzo di diffusione.
La libertà di manifestazione del pensiero protegge il diritto di tutti di diffondere pubblicamente
le proprie opinioni, e cioè di esternarle a destinatari potenzialmente indeterminati (questo, a
differenza della libertà di corrispondenza, che protegge le comunicazioni che sono rivolte a
destinatari determinati).
La libertà protegge le manifestazioni del pensiero che avvengano con la parola, lo scritto e
qualunque mezzo di diffusione (radio, televisione, ecc.), con l’unico limite del buon costume;
dunque non sono coperte dalla garanzia costituzionale le manifestazioni del pensiero oscene o
lesive del pudore sessuale
Il riconoscimento della libertà di fede e di culto, operato nell’art.19 della nostra Costituzione,
ha uno spessore tutto particolare, analogo solo, forse, al riconoscimento della libertà di
associazione: lo stato non solo si dichiara incompetente sulle scelte di coscienza dei suoi
cittadini (stato laico), ma si impegna a rispettarle, a consentirne la libera manifestazione nella
sfera pubblica e dunque accetta la sfida di vedere le proprie leggi e le proprie scelte criticate in
nome di un punto di vista irriducibilmente altro, diverso.
Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o
associata, di farne propaganda, di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di
riti contrari al buon costume.
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I diritti politici
I diritti politici sono disciplinati all’interno del titolo IV della parte prima della Costituzione,
“Rapporti politici”.
Abbiamo appena visto che numerose libertà civili, come la libertà di riunione, di associazione,
di manifestazione del pensiero, di stampa, sono dotate di significato politico, perché possono
essere adoperate come altrettanti strumenti per la formazione dell’opinione pubblica e per
l’espressione di giudizi e di indirizzi nei confronti dell’operato degli organismi di governo. Vi
sono dunque molte libertà che hanno rilievo e significato politico, ma ciononostante
l’espressione diritti politici viene utilizzata con riferimento solo ad alcune specifiche forme di
libertà o attività politiche, quelle che hanno una finalizzazione diretta e specifica alla
formazione degli organismi rappresentativi e al condizionamento del loro operato,
ovverosia il diritto di voto (art. 48), il diritto di associazione in partiti politici (art. 49).
I diritti politici sono dunque i diritti che realizzando l’esercizio della sovranità popolare e la
partecipazione e l’influenza del corpo elettorale e del popolo sulle istituzioni rappresentative
costituiscono e proteggono il carattere democratico della nostra forma di stato.
Il diritto di associazione in partiti politici è una forma della più ampia libertà di associazione.
Esso è riconosciuto a tutti i cittadini. La finalità in vista della quale la libertà in discorso è
riconosciuta e definita dall’articolo 49 in questi termini: “per concorrere con metodo
democratico alla determinazione della politica nazionale”.
Il “metodo democratico” è anche un limite alla liceità dei partiti politici, ma non è un limite
ideologico, cioè riferito al contenuto del programma politico di cui un partito può farsi
portatore.
“Per quanto eversiva dell’ordine costituito possa essere una concezione ideologica, il partito che se ne
faccia portatore ha piena cittadinanza, purché l’attività che esso svolge risulti rispettosa del metodo
democratico, ossia delle regole che in democrazia disciplinano la lotta politica (divieto dell’uso della
violenza, accettazione della logica propria di un sistema rappresentativo, basato sui meccanismi
elettorali, e così via). Non è stato, dunque, introdotto dal Costituente alcun limite riferito ad un obbligo
di fedeltà dei partiti ai valori sottostanti l’ordine costituzionale esistente, come invece è avvenuto in
altre Carte costituzionali. Per esempio, l’art. 21 della Costituzione tedesca, all’espressa previsione di
tale limite di fedeltà ai principi costituzionali accompagna l’affidamento alla Corte costituzionale del
compito di sanzionarne le eventuali violazioni con lo scioglimento e la confisca dei beni del partito”4 .
Non esistono, dunque, secondo il nostro ordinamento costituzionale, “partiti antisistema”, come
è invece il caso di altri ordinamenti, come appunto quello tedesco, che vietano che alcuni
contenuti, ritenuti contrari all’assetto democratico costituzionale, possano diventare oggetto di
attività di partiti politici; l’unico limite ideologico è quello contenuto nella XII disposizione
finale della Costituzione (divieto di ricostituzione del partito fascista) e, come la
giurisprudenza costituzionale ha spiegato, questo limite colpisce solo quelle formazioni
politiche che si pongano come esplicito e centrale obiettivo quello di far rivivere le finalità
e i metodi del partito nazionale fascista (in forza di questo divieto fu sciolta, negli anni ’60,
la formazione politica neofascista “Ordine nuovo”).
4 P. Caretti, U. De Siervo, Istituzioni di diritto pubblico, Giappichelli, Torino, 2010, p. 464.
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Sarebbe invece del tutto fondato considerare contrarie al ‘metodo democratico’ le forme di
finanziamento dei partiti occulte o che sbilanciano gli interessi tutelati dal partito verso gli
interessi dei suoi finanziatori. Il nostro ordinamento ha colto questo problema adottando un
sistema di finanziamento ‘pubblico’ dei partiti politici, nel quale lo Stato risponde ai bisogni
finanziari dei partiti collegati alle campagne elettorali e al mantenimento della loro
organizzazione. Gli abusi collegati a tale sistema, cui i partiti hanno attinto per finalità diverse
da quelle consentite e che ha portato anche a un ingigantimento delle spese coperte dallo Stato,
collegate ai limiti di quel sistema (che, proporzionando il finanziamento al successo elettorale
dei partiti tendeva a cristallizzare i rapporti di forza tra essi, sono il motivo per cui il sistema
del finanziamento dei partiti è oggi oggetto di una profonda revisione.
Il diritto di voto, secondo l’art. 48, è un ‘dovere civico’. Questa qualificazione non significa,
come talvolta si dice, che si tratta di un dovere di seconda categoria, in quanto non c’è sanzione
se esso non viene esercitato, ma significa che è un dovere nel quale si esprime l’essenza della
cittadinanza democratica, quale modello di convivenza fondato sulla libertà e la pluralità delle
opinioni liberamente e democraticamente espresse (civis è la parola latina che significa
‘cittadino’; cittadinanza è il sostantivo che esprime, oltre al complesso dei cittadini, il
complesso di prerogative, di qualità e di attitudini in cui il ‘vivere da cittadini’ – e non da
sudditi – si specifica). Secondo la nostra Costituzione il voto è: personale, uguale, libero e
segreto, cioè: deve essere espresso dal suo titolare (personale); il voto di ogni elettore deve
avere un peso uguale (non sono ammessi cioè sistemi di voto ‘plurimo’ che assegnano un
valore superiore al voto espresso da chi ha un certo senso o istruzione); l’elettore non deve
subire condizionamenti nell’espressione della volontà di voto e nel formarsi i convincimenti
che lo portano a votare in un certo modo (libero); nessuno ha il diritto di conoscere il modo in
cui altri ha votato (la segretezza del voto è una condizione della sua libertà).
I diritti della sfera economica ed etico-sociale
Il titolo II della prima parte della nostra Costituzione è dedicato ai Rapporti etico sociali e il
titolo III ai Rapporti economici. Queste sezioni della Costituzione prendono in considerazione
le articolazioni della società (quelle produttive, come l’impresa o il lavoro, da un lato;
dall’altro le formazioni sociali basilari, famiglia e scuola) delineando i principi di fondo a cui
l’atteggiamento dell’ordinamento verso questi momenti cardinali della convivenza deve essere
ispirati. Per esempio, in questa sezione è riconosciuta la ‘famiglia’, come ‘società naturale
fondata sul matrimonio e ispirata alla parità morale e giuridica tra i coniugi” (art. 29); la
‘scuola’, che deve essere ‘aperta a tutti’ e dove i ‘capaci e meritevoli devono poter proseguire
negli studi anche se privi di mezzi (art. 34); il sindacato (art. 39); la cooperazione (art. 45). In
questa parte della costituzione si considera, inoltre, la libertà di iniziativa economica privata,
riconoscendola come ‘libera’ ma anche ricordando che essa “non può svolgersi in contrasto
con la libertà, la dignità, la sicurezza umana” (art. 41); la proprietà privata, ricordando che
essa, ‘riconosciuta e garantita dalla legge’ ha anche una funzione sociale (art. 42).
Sono principi che autorizzano (o meglio: “doverizzano”) il legislatore, per esempio, a imporre
per legge l’adozione di misure di sicurezza dei luoghi di lavoro (a protezione della sicurezza
dei lavoratori); a vietare controlli sulle opinioni politiche o sulle condizioni di salute o sugli
orientamenti sessuali dei suoi dipendenti (a protezione della dignità e libertà dei lavoratori); a
adottare pur costose misure antinquinamento (nel nome dell’utilità sociale); ma anche a
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intervenire nei rapporti economici, ad esempio incentivando la collocazione di imprese in aree
“depresse” del paese; ad adottare norme edilizie che impediscono di farla del tutto da padroni
in casa propria costruendo un palazzo di venticinque piani in prossimità di una deliziosa
spiaggia (in nome della ‘utilità sociale’ della proprietà privata). In altri termini, le disposizioni
che consentono di incidere sull’utilizzo egoistico della libertà di iniziativa economica privata e
della proprietà privata impongono al legislatore di riconoscere l’essenziale funzione di queste
libertà ma anche di tenerne presente il potenziale lesivo e aggressivo di altri beni e valori
costituzionali e di non rimanere inerte davanti ad esso.
L’art. 41 è stato oggetto di molte polemiche strumentali: la Costituzione limita la libertà
economica, ma l’economia deve essere libera se si vuole la crescita, il progresso, lo sviluppo!
La Costituzione è stata accusata di essere, in questo punto, troppo sensibile alle concezioni
‘comuniste’ che, come vedremo, erano rappresentate in Assemblea Costituente. In realtà, l’art.
41 si limita a mettere in parole diverse l’antichissimo principio generale del diritto che
dice: neminem laedere (non danneggiare gli altri: il fatto che qualcuno abbia un diritto
non lo autorizza, esercitandolo, a danneggiare gli altri, c’è una differenza tra esercitare
una libertà ed abusarne e il ruolo del diritto è appunto quello di moderare gli abusi,
altrimenti non si vive secondo il diritto ma nell’arbitrio).
Fondamentale componente dell’idea di relazioni economiche che la nostra Costituzione porta
avanti è, dunque, che esse siano ispirate al rispetto e alla promozione degli interessi generali
davanti a quelli potenzialmente solo egoistici del profitto; e alla protezione degli interessi dei
soggetti economicamente più deboli o socialmente svantaggiati rispetto ai soggetti forti. In
particolare, la Costituzione immagina un modello di relazioni economiche ispirato alla
coscienza dell’importanza del lavoro e della dignità dei lavoratori, dei quali è riconosciuto il
diritto di associarsi in sindacati, e di scioperare. Inoltre, secondo l’art. 36:
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in
ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita per legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite e non può rinunciarvi.
Una parte dei diritti menzionati in nelle sezioni della Costituzione riferite alla sfera economica
ed etico-sociale viene tradizionalmente definita con l’espressione “diritti sociali”, che si
caratterizzano, tra i diritti economici ed etico-sociali, come i diritti il cui contenuto
consiste nell’aspettativa a ricevere una prestazione da parte dello stato o degli altri soggetti
pubblici, prestazione che soddisfa pretese considerate fondamentali e che tutti devono poter
vedere soddisfatte in condizioni di eguaglianza (si pensi, in particolare, alla salute, e
all’istruzione, o all’assistenza previdenziale). I diritti sociali si rivolgono al riequilibrio di
situazioni svantaggiate, alla realizzazione di condizioni di uguaglianza sostanziale e, pertanto,
possono essere considerati come applicazioni specifiche del principio solidarista dell’art.3
comma 2 Cost. Come sappiamo, peraltro, l’espressione diritti ‘sociali’ ha un senso più ampio
che ne fa i diritti che tutelano la società davanti al mercato, ossia diritti che proteggono
l’esistenza di rapporti (come quello familiare) e di ambiti (come il tempo libero dal lavoro, le
ferie) davanti alle ‘invadenze’ delle logiche produttivistiche dell’economia di mercato, che
tendono naturalmente a eroderli.
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I principali diritti sociali riconosciuti nella nostra Costituzione sono il diritto alla salute e il
diritto all’istruzione.
Art. 32 (comma 1) : La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse
della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Art- 34. La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.
La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre
provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.
Altri diritti sociali previsti nella nostra Costituzione sono il diritto alle agevolazioni
economiche per la formazione della famiglia e per le famiglie numerose, il diritto alla
protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù (art.31 commi 1 e 2); il diritto dei non
abbienti a che siano loro assicurati i mezzi per agire e per difendersi in giudizio (art. 24 comma
3).
A conclusione di questa breve rassegna dei diritti e delle libertà costituzionale siamo forse in
grado di notare una importante differenza che intercorre tra i diritti civili e politici, da un lato, e
i diritti economico-sociali dall’altro. Mentre i primi non possono essere ‘conformati’ per
adattarsi a esigenze diverse ed esterne (nessuno può orientare i contenuti di una libera
manifestazione del pensiero; al massimo uno di questi diritti può essere conformato dall’esterno
per adattarlo al rispetto dei diritti altrui, come avviene quando si dà il preavviso per una
riunione in luogo pubblico, ma lo scopo della riunione resta liberamente scelto dai proponenti
e dai partecipanti ), i diritti economici ed etico-sociali sono costruiti dalla Costituzione nel
senso che al loro stesso contenuto inerisce una limitazione o un indirizzo che li
funzionalizza al rispetto di esigenze diverse, come accade per l’iniziativa economica
privata, che non può svolgersi del tutto ‘come vuole’, ma deve rispettare la libertà, dignità
e sicurezza umana. Nel caso dei diritti che si sostanziano nel ricevere prestazioni (come il
diritto alla salute), il limite che inerisce al loro contenuto è quello della loro ‘condizionalità’
alle capacità del bilancio pubblico di garantirli; tuttavia la loro esistenza e garanzia
costituzionale dovrebbe valere come obbligo dei pubblici poteri, quando si determina il
bilancio dello stato e degli enti locali, di garantire sempre una misura, e la più alta possibile,
relativa al soddisfacimento di questi diritti.
“Con disciplina ed onore”: i doveri costituzionali e l’etica di una buona cittadinanza.
I doveri costituzionali sono i principali adempimenti cui il vincolo di cittadinanza ci sottopone
nei confronti della Repubblica, non tanto dello stato e della sua autorità, ma della comunità
nazionale, che nella Repubblica si riassume. Essi riassumono l’immagine si una “buona
cittadinanza”, fondata sulla partecipazione alle scelte comuni, sull’amore per la patria, sulla
solidarietà, sulla lealtà.
I singoli doveri costituzionali sono:
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il diritto di voto, che, come abbiamo poco sopra ricordato, è un diritto ma anche “dovere
civico”, come stabilisce l’art. 48, e che sottolinea il dovere di tutti e di ciascuno di partecipare
attivamente alla vita politica del paese, per conservarne il carattere democratico;
il dovere di difesa della patria, definito “sacro dovere del cittadino” dall’art. 52: che parla
così dell’amore per la patria senza dimenticare di dire che “l’ordinamento delle forze armate si
ispira allo spirito democratico della repubblica”: l’esercito, dunque, non è un corpo separato dai
valori comuni di democraticità;
il dovere di concorrere alle spese pubbliche “in ragione della propria capacità
contributiva”, stabilito dall’art. 53, che precisa che “il sistema tributario è informato a
criteri di progressività”. Questo significa che col crescere dei redditi le imposte non devono
crescere in proporzione al reddito, ma “progressivamente”, ovvero chi ha redditi maggiori
subisce una imposizione fiscale che incide sul suo reddito in una proporzione maggiore di
quanto avvenga per i redditi minori. Es. io guadagno 100 e pago imposte per il 30%; tu
guadagni 200 e paghi imposte per il 40%. La scelta della Costituzione per un sistema tributario
fondato sul criterio della progressività intende rispondere alle esigenze solidariste e
redistributive che informano l’intero tessuto costituzionale: chi è più abbiente contribuisce
alle spese pubbliche in una proporzione del suo reddito maggiore di quella di chi è meno
abbiente. La norma sul sistema tributario mette così l’accento sulla solidarietà e su finalità
redistributive;
il dovere di fedeltà alla Repubblica, disegnato dall’art. 54 come primo dovere del cittadino,
del politico, del pubblico funzionario.
Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di preservarne la Costituzione e le
leggi.
I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore,
prestando giuramento nei casi previsti dalla legge.
Queste immagini della buona cittadinanza chiamano in causa l’etica pubblica, costruita sui
comportamenti quotidiani di ciascuno di noi, come una componente centrale e insostituibile del
buon funzionamento delle istituzioni.
L’integrazione sovranazionale (politica ed economica)
come scenario delle democrazie costituzionali post-belliche
Dopo avere preso contatto, sin qui, con alcuni dei principali caratteri di fondo delle democrazie
costituzionali post-belliche, ci dobbiamo ora soffermare su un ulteriore elemento che le
contraddistingue, rappresentato dall’intenso e crescente grado di integrazione
sovranazionale entro cui queste esperienze sono nate e si sono svolte.
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Sebbene, infatti, importanti esperimenti di collaborazione sovranazionale fossero stati avviati
già tra le due guerre5, è caratteristica propria e specialmente innovativa delle esperienze
politiche nate nel secondo dopoguerra in Europa l’essersi svolte all’interno, e al cospetto, di reti
di relazioni internazionali, al cui svolgimento sono preposte specifiche organizzazioni destinate
a promuovere la cooperazione economica e politica, tra i diversi stati europei6.
La scelta internazionalista è spesso testualmente enunciata nelle Costituzioni del dopoguerra,
come avviene nel caso del nostro art. 11, che proclama il ripudio della guerra ‘come mezzo di
risoluzione delle relazioni internazionali” e permette “le limitazioni di sovranità necessarie a
dar vita a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli”. Inoltre, per effetto di
una modifica costituzionale introdotta nel 2001, la nostra Costituzione sancisce il dovere del
legislatore nazionale e regionale di conformarsi agli obblighi nascenti dalla nostra
appartenenza all’Unione europea e ad altri obblighi internazionali (art. 117/1).
Naturalmente, le aperture internazionaliste della nostra, come di altre, Costituzioni, sono fatte
all’interno dell’opzione generale per la democrazia rappresentativa, come a dire che lo Stato si
apre alle relazioni internazionali convogliandole e armonizzandole nella propria struttura
democratico-elettorale. Tuttavia, e questo già ci prepara a considerazioni inerenti l’assetto
materiale delle costituzioni democratiche del dopoguerra, fin dalla loro fondazione e sempre
più nel corso della loro esperienza le relazioni politico-economiche internazionali si sono
configurate, nei confronti delle democrazie costituzionali, come fonte di condizionamenti
decisivi non sempre filtrati e armonizzati con l’assetto costituzionale formale. Questo è stato
specialmente vero per il nostro paese, dove, in particolare, l’unica presa d’atto a livello
costituzionale della appartenenza all’Unione europea, così condizionante e importante per la
vita nazionale, è avvenuta nel 2001 con la appena ricordata formulazione dell’art. 117/1.
Questa disposizione, sia detto per inciso, descrive, in modo non del tutto felice, il rapporto tra
obblighi comunitari e internazionali, da un lato, e ‘legge’ nazionale (che è il prodotto della
volontà popolare espressa negli istituti della democrazia rappresentativa), dall’altro lato, come
un rapporto verticale, dall’alto verso il basso, per cui le scelte sovranazionali si
impongono al legislatore nazionale. Si deve dare atto che in altri Paesi, e segnatamente in
Germania, le tappe dell’adeguamento dell’ordinamento interno a quello comunitario sono state
seguite con una maggiore accuratezza che non da noi, spesso preoccupandosi, attraverso il
processo pubblico della revisione costituzionale, di ricalibrare espressamente le attribuzioni
degli organi nazionali, e in particolare delle assemblee rappresentative, mano a mano che il
processo decisionale si è venuto spostando da essi al livello sovranazionale. In tal modo si è
riusciti, altrove, a immaginare e a praticare forme di coinvolgimento, consultazione, controllo e
influenza della politica nazionale abbastanza ben contornate e che continuano a garantire a
questi organi una interlocuzione relativamente attiva con quelli sovranazionali europei, ciò che
in Italia non è accaduto, e solleva, ormai da molto tempo, serie preoccupazioni presso gli
studiosi circa la sostanziale esclusione dell’organo rappresentativo, il parlamento, dalla
decisione delle politiche europee, a tutto favore dell’esecutivo.
Ma, riservandoci di riprendere queste considerazioni in una fase successiva del nostro studio,
limitiamoci adesso a prendere le misure di quanto è stata sin da subito estesa la dimensione
sovranazionale che ha incorniciato le democrazie costituzionali del dopoguerra in Europa.
5 Vale a dire, specialmente la Società delle Nazioni, fondata nel Trattato di Pace successivo alla Prima guerra mondiale, a Versailles, nel 1919, e poi sostituita dall’Onu, nel 1946, e che doveva operare per favorire le relazioni diplomatiche e il controllo degli armamenti, onde prevenire un nuovo conflitto mondiale. 6 Propriamente, nel primo trentennio successivo alla conclusione del conflitto mondiale, queste organizzazioni si proponevano di incrementare la collaborazione tra gli Stati Europei appartenenti al ‘blocco occidentale’ (che si contrapponeva ai paesi ‘oltrecortina’ ossia all’Urss e alle Repubbliche comuniste dell’Est europeo, a loro volta componenti un insieme di Nazioni oltremodo integrato), e gli Stati Uniti d’America.
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Una sintetica mappa delle reti e delle organizzazioni sovranazionali in cui le democrazie
costituzionali del dopoguerra si sono trovate sin da subito inserite deve iniziare menzionando il
Piano Marshall, ossia il piano di aiuti economico finanziari istituiti dagli Stati Uniti nei
confronti dei paesi europei le cui economie erano state distrutte dal conflitto mondiale.
L’azione del Piano Marshall si è svolta tra il 1948 e il 1951 ma ha anche segnato la nascita, tra i
paesi europei, di un organismo chiamato allora OECE e oggi OCSE, destinato allo studio e
messa a punto di forme di cooperazione economico politica utili a massimizzare l’utilizzo dei
fondi erogati nel contesto del Piano Marshall, e ancora oggi operante spesso in posizione
complementare alla Unione europea.
La Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale
I rapporti economico finanziari tra le economie nazionali sono stati gestiti, nel dopoguerra, e
precisamente tra il 1944 e il 1971, con gli accordi di Bretton Woods, che prevedevano un
sistema di cambi fissi tra le monete incentrato sul dollaro e sulla convertibilità in oro di una
sola moneta, appunto il dollaro. Il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca
internazionale per gli investimenti (Banca mondiale) vennero creati all’interno degli accordi
di Bretton Woods; la Banca Mondiale, in particolare, era chiamata a compiere le operazioni di
credito a favore di paesi in disavanzo (cioè la cui bilancia dei pagamenti era in perdita). Questa
impronta keynesiana (dal nome di J.M. Keynes, l’economista famoso per avere insegnato che
ciò che traina le economie è lo sviluppo, il quale se occorre va reso possibile anche
‘finanziando il debito pubblico’, cioè con investimenti che costano fino a creare uno squilibrio
in perdita tra entrate e uscite dello stato) fece sì che gli anni fino al 1971 siano stati anni di
intensissima crescita economica e di impressionante diffusione del benessere in tutti i paesi
europei. Un benessere che in molti paesi ha consentito il consolidamento, anche, di cospicue
strutture di servizio sociale come nei campi dell’istruzione, della sanità, dei trasporti, dei servizi
alla persona. Gli accordi di Bretton Woods furono abbandonati dagli Stati Uniti nel 1971:
l’evento, che come ricorderemo più avanti segna la data di nascita della globalizzazione, ha
significato anche la trasformazione del ruolo della Banca Mondiale, e del FMI, i quali hanno
adottato nuove, e opposte, dottrine economiche in forza delle quali esse concedono prestiti alle
economie in difficoltà solo a condizione che quelle adottino specifiche politiche di
contenimento del debito pubblico (cd. austerità finanziaria).
L’Onu e la Nato
Nel 1949 a Washington, nell’ambito dell’Onu, Organizzazione delle Nazioni Unite, che nel
1945 aveva preso il posto della Società delle Nazioni (e a cui l’Italia aderisce dal 1955) veniva
fondata la Nato, l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico. La Nato è una alleanza
politico militare di mutua difesa tra gli stati aderenti (l’art. 5 del Trattato prevede che un
attacco armato contro uno Stato membro sia considerato quale attacco diretto contro tutte le
parti, impegnando ognuna ad assistere la parte o le parti attaccate, facendo ricorso, se
necessario, all'impiego della forza armata). Nell’ambito dell’Onu opera anche una Assemblea
parlamentare che ha il ruolo di favorire l’incontro e la discussione di problemi geopolitici
mondiali tramite periodiche sedute che riuniscono i capi di stato e di governo dei diversi paesi.
In questa cornice di relazioni economico politiche tendenti a organizzare le relazioni
internazionali post-belliche si è inserita l’esperienza di integrazione prima economica, e poi
politica, tra gli Stati Europei, che oggi conosciamo come Unione Europea.
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L’Unione europea
L’Unione europea, è nata nel 1957 come “Comunità economica europea” tra sei stati: Italia,
Francia, Germania, Olanda Belgio e Lussemburgo (Trattato di Roma, 1957) e oggi riunisce 27
stati diversi; la sua organizzazione e funzionamento sono stati recentemente ridefiniti grazie al
Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea firmato a Lisbona, nel 2009.
Lo scopo iniziale della Comunità economica europea era dare vita, tra gli stati membri, a un
mercato comune, vale a dire abbattere tra gli stati membri le frontiere, le dogane e altre
limitazioni alla circolazione delle merci, dei capitali, dei servizi e dei lavoratori, di modo che
questi potessero circolare e impiantarsi in qualunque stato membro senza discriminazioni e
liberamente. Il mercato comune avrebbe dovuto avere carattere concorrenziale, cioè gli Stati
che vi aderivano si vincolavano a non svolgere direttamente, o indirettamente tramite aiuti e
altri sostegni alle proprie imprese, attività tendenti ad alterare il libero gioco della concorrenza,
la parità di competizione. La Comunità, oggi Unione, non si occupa più ‘solo’ di mercati e di
merci, ma di un numero molto ampio di materie:
a) alcune di esse sono state delegate dagli Stati all’Unione in via esclusiva, rinunciando così a
legiferare su di esse (e queste sono: unione doganale, definizione delle regole di concorrenza
necessarie al funzionamento del mercato interno, politica monetaria per gli Stati membri la cui
moneta è l’euro, politica commerciale comune, conservazione delle risorse biologiche del mare
nel quadro della politica comune della pesca);
b) Altre sono materie ‘concorrenti’, nel senso che gli Stati possono continuare a legiferare su di
esse, ma anche l’Unione può farlo, e, se lo fa, i suoi atti hanno prevalenza su quelli nazionali:
per es. agricoltura e pesca, ambiente, protezione dei consumatori, trasporti, energia, coesione
sociale (in cui rientra l’educazione e la formazione, o i regimi pensionistici); ricerca e sviluppo
tecnologico; problemi comuni di sicurezza libertà e giustizia (in cui rientra la cooperazione in
materia giudiziaria, dove è prevista ad es. la doverosità per tutti gli stati membri di collaborare
nelle indagini e nelle operazioni giudiziarie e di polizia);
c) Altre sono materie in cui gli stati si impegnano a ‘coordinarsi’ con l’Unione, cioè ad adottare
le proprie politiche in maniera armonica con le indicazioni provenienti dall’Unione europea:
così nel caso delle politiche economiche in generale, tra cui le politiche occupazionali.
Per lo svolgimento delle sue funzioni, l’Unione europea è dotata di organi, come il Consiglio
dei Ministri, la Commissione, il Parlamento europeo (quest’ultimo eletto da tutti i cittadini
europei), e la Corte di giustizia, i cui membri sono designati dagli Stati membri (e che hanno le
loro sedi principali a Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo). Con la creazione dell’Euro la
Banca centrale europea è divenuta l’ente che coordina l’operato delle Banche centrali nazionali,
assicurandone l’indipendenza dalle istituzioni politiche nazionali. La missione della Banca
Centrale e del Sistema europeo delle banche centrali è di assicurare la stabilità della moneta.
L’Unione può adottare atti normativi, che possiamo classificare in due grandi categorie:
a) Atti normativi che creano obblighi per gli Stati (direttive): si tratta di atti con cui l’Unione
stabilisce che un determinato obiettivo deve essere raggiunto dagli Stati entro un certo termine
di tempo, e gli Stati per raggiungerlo emanano proprie leggi o altri atti normativi. Per esempio,
una direttiva può stabilire che entro due anni dalla sua entrata in vigore, gli Stati membri
devono adottare misure volte ad uniformare le misure di sicurezza negli aeroporti, secondo una
serie di principi che la direttiva stessa individua.
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b) Atti normativi che creano obblighi direttamente all’interno degli Stati e sono cioè efficaci verso
i cittadini, devono essere applicati dalla Pubblica amministrazione, utilizzati dai giudici per
decidere controversie (regolamenti). Per esempio: un regolamento impone che nelle strutture
pubbliche di trasporto siano osservate determinate regole che favoriscono la mobilità delle
persone disabili; che nelle strutture ricettive siano osservate determinate regole di igiene nella
conservazione e preparazione degli alimenti; che nella fabbricazione dei giocattoli siano
utilizzati solo determinati tipi di materiali e non altri, perché considerati pericolosi o nocivi.
Le competenze dell’Unione sono ‘enumerate’ ma anche ‘flessibili’. Nei Trattati sono infatti
inserite le cd. clausole di flessibilità o dei poteri impliciti (art. 114 e 352 Trattato sul
Funzionamento della Ue) che consentono alla Ue di adottare atti in materie sulle quali
formalmente non ha competenze, tutte le volte in cui ciò si rende necessario ‘per realizzare gli
obiettivi dei trattati’. L’Unione europea rappresenta bene, da questo punto di vista, il
modello di una organizzazione politica retta sul principio della ‘efficienza rispetto allo
scopo’: gli scopi da raggiungere sono i beni prioritari (non il rispetto delle competenze proprie
ed altrui, dunque non la ‘legalità’ che definisce queste competenze e tratteggia le procedure
richieste ogni volta al potere per esprimersi legittimamente) e possono travolgere ogni
equilibrio precedentemente fissato.
Il Soft Law comunitario
Accanto agli atti formalmente normativi, l’Unione europea produce una miriade di atti che non
sono formalmente normativi ma che hanno una enorme influenza sull’atteggiamento effettivo
delle istituzioni nazionali e sul governo della società: tra queste vanno menzionati:
a) i Libri bianchi e i Libri verdi pubblicati dalla Commissione e contenenti la definizione di
linee di indirizzo su ambiti di volta in volta considerati strategici dalla Ue (di recente sono stati
oggetto di particolare attenzione le politiche occupazionali e previdenziali, l’invecchiamento
della popolazione e i relativi costi, le pensioni);
b) i Piani e programmi d’azione con cui la Ue finanzia interventi in materie disparate,
dall’ambiente all’urbanistica alla sanità all’educazione, disegnando le linee intono a cui gli stati
sono consigliati, e alla fine tenuti, a impostare le loro politiche e che condizionano fortemente
ciascuno dei settori cui si indirizzano.
Per esempio, la ricerca scientifica e tecnologica viene orientata a studiare quelle materie, dove si
possono avere finanziamenti comunitari, e a trascurarne altre, che non danno finanziamenti. Gli ambiti
di ricerca non finanziati vengono di fatto abbandonati non solo perché senza finanziamenti non si fa
ricerca, il che non è sempre vero, posto che i finanziamenti servono soprattutto alla ricerca scientifico-
medico-tecnica, ma perché regole, in genere amministrative, introdotte a fianco dei fondi europei (e cioè
regolamenti ministeriali, regolamenti delle università) stabiliscono che avere ottenuto finanziamenti è
un titolo di merito per gli accademici e le istituzioni universitarie e di ricerca, titolo di merito che si
riflette sulle carriere degli studiosi e sull’accreditamento, ossia sul giudizio sulla ‘qualità’ degli enti di
ricerca. In questo modo, la ricerca viene orientata a prediligere certi settori o certi metodi e ad
abbandonarne altri spontaneamente, senza bisogno che norme giuridiche formali facciano di ciò
l’oggetto di un obbligo.
La regolazione che avviene sulla base di raccomandazioni, incentivi, norme ‘condizionali’ (se
si ottengono certi risultati, previamente quantificati, si ottiene anche un ‘premio’), si chiama
soft law.
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La Corte di Giustizia dell’Unione è il complesso giurisdizionale che vigila sul rispetto da parte
degli Stati degli obblighi nascenti dai Trattati. Essa in particolare può:
a) Condannare uno Stato per non avere rispettato gli obblighi su di esso gravanti per effetto della
sottoscrizione dei Trattati (es.: stato che non ‘attua’ al proprio interno una direttiva nei termini
stabiliti)
b) Condannare una impresa commerciale per avere violato le regole sulla concorrenza nel mercato
comune;
c) Enunciare la ‘corretta interpretazione del diritto comunitario’ e salvaguardare “l’uniformità”
nell’applicazione del diritto comunitario. Poiché i giudici nazionali, nel decidere controversie,
possono trovarsi di fronte al dubbio che una certa disposizione del diritto nazionale non sia
conforme al diritto comunitario, essi devono in questi casi chiedere alla Corte di giustizia di
risolvere il dubbio indicando il modo in cui il diritto comunitario deve essere interpretato. Il
dubbio che il giudice chiede alla Corte di giustizia di risolvere si chiama ‘questione
pregiudiziale’ ed esso viene trasmesso alla Corte di giustizia (che ha sede a Lussemburgo)
mediante una ordinanza, un atto che sospende temporaneamente il giudizio davanti al giudice
nazionale in attesa della decisione della Corte di Giustizia. I giudizi nazionali, in altri termini,
devono interpretare il diritto comunitario in modo uniforme, secondo le indicazioni dettate
dalla Corte di giustizia nella sua giurisprudenza. Le sentenze della Corte di giustizia hanno
valore di legge negli stati membri analogamente al diritto comunitario direttamente applicabile.
Come quanto detto fin qui probabilmente suggerisce, l’Unione europea è un ordinamento
sovranazionale dotato di notevolissimi poteri, ed invero senza precedenti e senza equivalenti
nella storia politica del mondo, con il quale forse gli Stati europei, che ne sono membri, stanno
andando verso una propria ‘federazione’. Sicuramente, l’appartenenza all’Unione europea
genera tra gli stati membri un elevatissimo tasso di ‘integrazione’: il diritto che vale nei singoli
paesi diventa sempre più simile.
Tuttavia, per il momento, l’Unione europea non dispone di un proprio apparato esecutivo, e
affida la propria effettività a quello statale e cioè ai poteri esecutivi e giurisdizionali dello Stato.
La condanna pecuniaria che la Corte di Giustizia emette a carico di una società per azioni con
sede in Francia sarà eseguita dalle autorità francesi; il controllo sul se i ristoranti e gli alberghi
rispettano le norme igieniche fissate dal regolamento europeo sarà eseguito, in Italia,
dall’ufficio di igiene dei singoli Comuni. Questo ci avverte che, da un lato, la dimensione della
decisione politica si trasferisce sempre di più dagli Stati alla Ue, e perciò perde
importanza e autonomia negli Stati ( dove le istituzioni governanti sono sempre più spesso
chiamate al ruolo di ‘attuare’ gli indirizzi della Ue che non quelli indicati dal corpo
elettorale); dall’altro lato, rimane molto importante, e anzi cresce, a livello statale, il ruolo
giocato dalla amministrazione.
Il Consiglio d’Europa e la Corte europea dei Diritti dell’Uomo
Diversa dall’esperienza dell’Unione europea è quella che si sviluppa intorno alla Convenzione
europea dei diritti dell’Uomo. Nel 1950 una serie di Stati Europei (oggi sono 45, compresi
Russia e Turchia), dettero vita a una organizzazione sovranazionale che si chiama Consiglio
d’Europa, il cui scopo è la tutela e la promozione dei ‘diritti umani’. Il Consiglio d’Europa
non emana norme o regolamenti: è un’organizzazione prevalentemente rivolta allo studio e
all’approfondimento di questioni relative ai diritti umani, che segnala problemi o suggerisce
soluzioni in settori delicati e promuove la sottoscrizione, da parte degli Stati membri, di
impegni nuovi in questo campo; per esempio, successivamente alla sua introduzione, il
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Consiglio d’Europa ha studiato il problema delle minoranze etniche in Europa e ha redatto una
proposta Carta per la tutela dei diritti delle minoranze.
All’atto di dar vita a questa alleanza, gli Stati membri sottoscrissero un documento, che si
chiama Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), la quale è un catalogo di diritti,
di classici diritti di libertà (diritto alla vita, alla famiglia, alla proprietà, alla libertà personale),
abbastanza simile al testo delle Costituzioni di molti stati membri e comunque alle tradizioni
costituzionali cui essi si richiamano. Innegabilmente, si trattava, quando la Cedu fu redatta, di
una sorta di bandiera identitaria sollevata nei confronti degli Stati dell’Europa dell’Est, e
l’adesione alla Convenzione ha segnato, dopo il crollo dell’Urss, un atto simbolicamente
decisivo nel segnalare la transizione degli ordinamenti ex comunisti verso i valori che erano
stati un tempo detti ‘occidentali’.
Insieme al Consiglio d’Europa veniva creata una Corte, la Corte europea dei diritti dell’Uomo
(con sede a Strasburgo) il cui compito era, ed è, quello di ricevere i ricorsi di coloro che
ritengono che un organo di uno stato membro li abbia lesi in un diritto riconosciuto dalla
Convenzione.
Per rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo occorre avere esaurito i ‘rimedi interni’,
cioè avere impugnato l’atto del quale ci si lamenta davanti al giudice nazionale e fatto tutti i
gradi di giustizia. Poi, se si rimane convinti che il giudice nazionale, quando ha deciso, ha in
realtà leso un nostro diritto riconosciuto dalla Cedu si può fare un ricorso alla Corte di
Strasburgo, che non richiede alcuna formalità.
A differenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee la Corte europea dei diritti
dell’uomo non può annullare il provvedimento nazionale che sia all’origine del ricorso:
essa, se ritiene che il ricorrente ha ragione, condanna lo Stato a un risarcimento pecuniario e a
fare il possibile per ricostituire il diritto leso.
Sebbene inoltre, a differenza delle sentenze della Corte di Giustizia della Unione europea, non
abbiano diretta applicabilità nel diritto interno come se fossero norme giuridiche, le sentenze
della Corte europea hanno grande influenza e autorevolezza, e i giudici nazionali si ispirano
molto alle sue decisioni, cosa che è diventata vera anche per il nostro paese da almeno una
decina d’anni. In particolare, nel 2007, la nostra Corte costituzionale, con due influenti
decisioni, ha precisato che il giudice nazionale deve, quando interpreta il diritto nazionale,
tener conto delle interpretazioni che, su materie analoghe, ha dato la Corte europea dei
diritti dell’uomo, e soltanto allorché dovesse rilevare un insanabile contrasto tra quelle
interpretazioni e altri principi fondamentali del nostro ordinamento dovrebbe sollevare una
questione di costituzionalità davanti alla Corte costituzionale.
La Corte europea dei diritti dell’uomo è venuta alla ribalta all’opinione pubblica italiana tre anni fa
quando la sua prima camera ha osato dire che è lesivo dei diritti delle persone non credenti o non
cattoliche l’uso italiano di esporre il crocefisso nelle aule scolastiche. Tuttavia, in secondo grado, la
decisione, su ricorso del Governo italiano, è stata modificata, e l’esposizione del crocefisso ritenuta
giustificata dal rispondere alle nostre tradizioni e alla nostra ‘identità’ culturale. Nel 2012 la Corte
Cedu ha giudicato contrario alla Convenzione, e in particolare al diritto alla vita familiare, il divieto,
contenuto nella legge italiana sulla fecondazione assistita, di accedere alla diagnosi pre-impianto che
essa pone alla coppie non sterili, che siano portatrici di malattie trasmissibili geneticamente. La Corte
Cedu ha posto l’accento su una contraddizione acutissima della nostra legislazione, contraddizione che,
tra altre, era stata sin dalla entrata in vigore, nel 2004, della legge sulla fecondazione assistita,
evidenziata dalla dottrina: infatti la nostra legislazione vieta la diagnosi pre-impianto ma consente
l’aborto alla quinta settimana di gravidanza, se all’amniocentesi o simili esami il feto risulti portatore di
un handicap. Si tratta di una contraddizione che costa agli esseri umani coinvolti sofferenze fisiche e
psicologiche molto alte, e la cui ipocrita difesa del valore della vita a tutti i costi (ipocrita, poiché lo
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Stato si disinteressa poi del tutto dei bisogni delle persone disabili e delle loro famiglie, rendendosi così
fondamentale causa agente del diffuso rifiuto ad accettare di avere figli disabili), è pagata con
l’eliminazione di feti ormai prossimi alla vita autonoma, quali essi sono a cinque mesi. Alla Corte
europea dei diritti dell’uomo si devono, dunque, importanti ed equilibrate decisioni in materia di simboli
religiosi, come il velo islamico, di tutela delle minoranze culturali, di orientamento sessuale, di
diritti dei figli naturali; è anche merito di ripetute condanne pronunciate da questa Corte se l’Italia è
stata costretta a trovare, dopo cinquant’anni, un sistema di calcolo dell’indennità di espropriazione
non risibile. Alcuni peraltro osservano con qualche timore che questa Corte tende a sviluppare una sorta
di “concezione comune europea dei diritti umani” da sovrapporre, e in un certo senso imporre, alle
tradizioni costituzionali nazionali. Sono problemi che riprenderemo più avanti.
Integrazione europea e costituzione finanziaria
Il forte tasso di internazionalizzazione in cui vivono le democrazie costituzionali ha avuto enormi
riflessi sul piano delle politiche finanziarie e di bilancio. Su questo terreno, inoltre, si colgono
aspetti forti e peculiari della nostra appartenenza all’Unione europea. Uno degli effetti più marcati
della integrazione comunitaria è costituito infatti dalla governance europea in materia finanziaria
che ha assorbito le politiche finanziarie e fiscali, in una parola le politiche di bilancio, degli stati
membri.
“Governance” è una parola che incontreremo anche in altre occasioni: essa serve a indicare tutti i
casi in cui da un sistema in cui alcune funzioni sono attribuite e svolte da un solo soggetto o a un
determinato insieme di soggetti (e cioè allo Stato e ai suoi organi) si passa a un sistema in cui
alcune funzioni sono svolte in maniera collegata, cooperante, condizionata tra molte e diverse
istituzioni che esprimono spesso diversi ‘livelli’ di governo (come quello statale e quello europeo) e
una vasta gamma di interessi. Con l’approfondirsi della integrazione comunitaria la decisione
finanziaria nel nostro paese è passata, infatti, da essere una decisione che si imperniava sul Governo
e sul Parlamento e i cui contenuti e le cui procedure erano decise solo a livello nazionale, a una
decisione che vede coinvolti molti altri attori e in particolare le istituzioni europee, che non
decidono né approvano direttamente il nostro bilancio o la nostra politica economico finanziaria ma
la condizionano molto profondamente.
Ci sono necessarie, per avviarci in questo discorso, alcune nozioni preliminari.
Il bilancio dello stato è il conto delle entrate e delle spese, viene predisposto dal Governo e
approvato con legge e si fa ogni anno. La decisione di bilancio ha una enorme importanza politica
che si può intuire sol pensando che lo stato condiziona con quella scelta quanto spenderà, o non
spenderà, in certi servizi e ambiti (es. sanità) o in altri (es. spese militari).
Per finanziare le proprie spese lo stato ha due strumenti: la leva fiscale, ossia le tasse e le
imposte, e il ricorso all’indebitamento.
Come potrebbe fare una società per azioni quotata in borsa, lo stato infatti può, e lo fa da sempre,
emettere ‘titoli’ e venderli sul mercato degli investimenti, cioè sui mercati finanziari. Questi ‘titoli’,
per esempio i “buoni del tesoro”, sono venduti a un certo prezzo e lo stato si impegna a pagare un
certo interesse ai loro possessori. La ‘garanzia’ di ogni credito è data dalla solvibilità del debitore, e
così la garanzia dei titoli pubblici, ciò che offre a coloro che li comprano la tranquillità che lo stato
effettivamente li rimborserà alla scadenza, è data dalla ‘solvibilità’ dello stato. Quest’ultima, come
del resto nel caso delle imprese private, è in larga parte una questione di reputazione. Le ‘agenzie
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di rating’ sono le imprese che valutano la solvibilità degli stati e dunque ne condizionano la
reputazione. Uno stato che ha una cattiva reputazione rischia di vedere i suoi titoli invenduti, e se
un’asta di titoli pubblici va male, lo stato rischia di non avere entrate sufficienti per le sue spese. La
‘reputazione’ di uno stato tiene conto in primo luogo dell’andamento del suo Prodotto interno lordo.
Crescerà? Diminuirà? Se le prospettive economiche sono negative, es. si prevede che le
esportazioni non cresceranno, se si prevede che le imprese faranno pochi ordinativi, la
disoccupazione crescerà, per la reputazione dello Stato va male. La ‘reputazione’ dello stato tiene
conto però anche di parametri non prettamente economici. Una crisi di governo fa male alla
‘reputazione’ perché ‘i mercati’ si chiedono: chi terrà sotto controllo la spesa in Italia? Non ci sarà
un rischio per i nostri investimenti se ci saranno le elezioni e vince una forza politica anziché
un’altra? In questo modo si è determinata la crescente influenza dei mercati finanziari sulla vita
politica e istituzionale: se la politica che uno stato fa non genera fiducia nei mercati lo stato non
trova investitori, il debito si dilata, il fallimento (default) si profila.
L’influenza dei mercati finanziari sulla vita politica e istituzionale è diventata evidentissima ed
esplicita nella seconda metà del ‘900 ed è un contrassegno di quella che chiamiamo
globalizzazione, un fenomeno sul quale rifletteremo nel prossimo capitolo ma che possiamo sin da
ora sintetizzare come il fenomeno che vede la sovranità statale ‘aprirsi’ alla cooperazione e
all’influenza di altre nazioni, organismi sovranazionali e forze economiche nel nome dell’interesse
a un governo ‘uniforme’ dei rapporti economici e della società in un mondo che è sempre più
interconnesso e caratterizzato da uno sviluppo enorme della componente ‘finanziaria’
dell’economia.
Internazionalizzazione e finanziarizzazione dell’economia
Fino al 1981 quando lo Stato italiano emetteva i suoi titoli pubblici, la Banca d’Italia garantiva che
avrebbe acquistato tutti quelli che fossero rimasti invenduti. Il mondo era, allora, ancora diviso ‘in
due blocchi’, quello atlantico e quello sovietico, e molte economie oggi importantissime, come
quella cinese, avevano un peso assai più ridotto di oggi. Non capitava, insomma, che i titoli di stato
italiano venissero acquistati da investitori stranieri, e, se accadeva, si trattava di investitori di
economie ‘alleate’: c’era meno ‘interconnessione’ tra i sistemi politici ed economici. Fino alla metà
degli anni 1970 valevano, inoltre, gli accordi di Bretton Woods, che garantivano la convertibilità
del dollaro in oro. Questo ancorava le economie finanziarie, in particolare le speculazioni sul tasso
di cambio delle diverse monete, a un limite costituito appunto dalle ‘riserve auree’. Non si potevano
insomma fare speculazioni che portavano, se riuscite, un guadagno di diversi trilioni di dollari, per
il semplice motivo che ogni dollaro in circolazione doveva avere il suo corrispondente in oro.
Quando gli Stati Uniti annunciarono di abbandonare gli accordi di Bretton Woods cominciò ad
acquistare un’importanza del tutto nuova la dimensione puramente ‘finanziaria’ dell’economia, cioè
quella dove i guadagni non nascono dalla produzione e vendita di cose e servizi per così dire ‘reali’,
ma di margini di profitto sul valore, per definizione ‘fluttuante’, di titoli che rappresentano una
ricchezza spesso a sua volta ipotetica.
Si pensi a questo riguardo alle tipiche operazioni borsistiche che scommettono sul valore futuro di un certo
bene: es. oggi il petrolio viene scambiato a 10 il barile, ma ci si aspetta una crisi politica che farà crescere il
valore a 100. Le banche comprano tutte petrolio, se la crisi c’è avranno guadagnato moltissimo, ma se non
c’è, e magari invece il valore del petrolio scende, avranno perduto moltissimo. Se non vi è limite al denaro
che può essere investito in simili scommesse, si possono avere guadagni enormi ed altrettanto enormi
perdite. I guadagni remunereranno gli investitori (le banche stesse e in piccola misura i risparmiatori) le
perdite investiranno gli stessi soggetti. Con una differenza: i guadagni, venendo reinvestiti in altre
‘scommesse’ continueranno a ‘gonfiare’ la ricchezza finanziaria. Le perdite, significando che le banche non
pagano gli interessi agli investitori privati, non prestano denaro a chi lo vorrebbe per acquistare casa o
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avviare un’impresa, aumentano il costo del denaro che in precedenza hanno prestato, si ripercuotono invece
immediatamente sull’economia reale.
Dunque lo Stato ha, tradizionalmente, due strumenti per finanziare le sue spese, la leva fiscale e
l’indebitamento. Tutti e due saranno più affluenti quanto più ‘ricco’ è il paese, ma l’andamento del
secondo strumento è tutto sommato fuori controllo per lo Stato. Mentre esso può aumentare le tasse
calcolandone con una certa sicurezza il gettito, non può essere sicuro di se gli investitori
compreranno i suoi titoli. Non può essere nemmeno sicuro che glielo comprerà la Banca d’Italia, e
non può essere nemmeno sicuro non accada che le Banche italiane facciano speculazioni sbagliate
che si traducono in enormi scompensi per l’economia reale (da cui viene il gettito fiscale). Le
banche infatti sono guidate nelle loro politiche dalla Banca d’Italia che, come detto, è oggi una
istituzione indipendente che compone il Sistema europeo delle Banche centrali e prende le sue
decisioni secondo quanto stabilisce il vertice di quel sistema, che è la Banca centrale europea. Se la
Banca Centrale non autorizza o autorizza limitatamente le Banche nazionali a comprare titoli di
stato, gli stati restano ‘in balia’ del mercato degli investitori, che si guarderanno bene di comprare i
titoli pubblici, dei quali neppure la banca di quello stato vuol saperne. Ciò spiega la grande
importanza politica della Banca centrale europea e il motivo per cui essa (per il tramite del
suo ‘Governatore’) dispensa consigli, raccomandazioni o ordini ai paesi europei sulle loro
politiche economiche, istituzionali, del lavoro o sociali: la Banca dice io non autorizzerò le
banche centrali nazionali a comprare titoli italiani se l’Italia ‘non fa le riforme’ che la renderanno
più competitiva ( per esempio riducendo il costo del lavoro, rendendo più facili i licenziamenti,
riformando i programmi scolastici, per formare ‘professionalità’ appetibili all’economia, e via
discorrendo) e dunque più ‘ credibile’ come debitore.
Nel mondo contemporaneo dunque lo Stato quando fa la sua politica tiene conto non solo (e
forse non tanto) degli umori, desideri e bisogni del corpo elettorale, ma degli umori desideri e
bisogni dei mercati e dunque delle Banche, che a loro volta sono espressione di investitori.
Il bilancio e le politiche finanziarie secondo la Ue
L’Unione europea, inoltre, ha fatto propria una visione economica secondo la quale il peggior
danno che un’economia può conoscere è l’inflazione, cioè la diminuzione del potere d’acquisto
della moneta. C’è inflazione quando con 100 euro di oggi si compra meno di quello che si
comprava ieri. E’ un po’ malevolo, ma veridico, osservare che è chiaro come mai in una economia
fortemente finanziarizzata l’inflazione è vista come il peggiore dei mali: se la ricchezza di un
soggetto è fatta di moneta, quando la moneta perde potere d’acquisto è un disastro completo. E le
banche possiedono la moneta. Il compito istituzionale della Banca centrale europea è garantire la
stabilità della moneta, dell’euro.
Con l’istituzione dell’euro, le politiche finanziarie dei paesi membri dell’Unione europea sono
entrate in un regime di doverosa ‘convergenza’ o ‘armonizzazione’: esse si devono armonizzare,
dal momento che abbiamo una moneta unica. Se gli stati perseguissero ciascuno una sua politica
economica, finanziaria ecc., la moneta non sarebbe governabile.
La finanziarizzazione delle economie e l’ingresso in un sistema monetario unico hanno avuto
importantissime ripercussioni specialmente per paesi, come il nostro, che avevano fondato il proprio
sviluppo economico sul cd ‘deficit spending’: lo stato ricorreva in modo marcato
all’indebitamento, emettendo titoli di stato, per finanziare le sue spese. Se le spese per mantenere la
pubblica amministrazione, che eroga servizi come quello sanitario o l’istruzione, ammontavano a
100, e non si poteva ottenere più di 80 dalle tasse senza creare un carico fiscale eccessivo, 20 si
mettevano con l’indebitamento. Questo però creava deficit ‘strutturale’, perché l’anno dopo ai 20 di
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debito se ne aggiungevano 20 o 25 di nuovi più gli interessi sui 20 dell’anno prima, e così via. Si è
creato così un enorme indebitamento pubblico: che è il valore per cui lo stato ha chiesto prestiti e al
valore degli interessi che deve pagare sui prestiti che ha chiesto. Agli stati che hanno troppo debito
pubblico i mercati non prestano. I loro titoli rischiano di rimanere invenduti e le loro economie reali
di andare a rotoli.
E’ bene chiarire che, sebbene perseguita certamente in modo discutibile e cioè con abusi e malcostume
clientelare, la politica italiana di deficit spending era a sua volta, finché è stata seguita, un modello ‘globale’
come lo è oggi ‘l’austerità finanziaria’. Come abbiamo ricordato anche in precedenza, fino agli anni ’70 del
secolo scorso le stesse istituzioni (come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale) che oggi
chiedono agli stati di ridurre il debito, li incoraggiavano a farlo, a emettere titoli, a spendere più di quanto
incassavano con le tasse. Era il tempo delle politiche ‘espansive’: spendendo il suo indebitamento lo stato
faceva investimenti che creavano posti di lavoro e i posti di lavoro creavano ricchezza, la ricchezza creava
pace sociale, che allora, nel mondo diviso in due blocchi, era molto preziosa. Le ancora recenti democrazie
europee avevano bisogno per consolidarsi di coesione, consenso, fiducia, condizioni favorite da un certo
diffuso benessere, che genera l’idea di vivere in un mondo ‘giusto’ e ‘libero’.
I pilastri della concezione europea del bilancio sono dunque che lo stato si deve indebitare il
meno possibile e, se è molto indebitato, deve ridurre il suo debito pubblico riportandolo entro
certi margini di tollerabilità. Il bilancio ideale è un bilancio in pareggio, dove cioè le entrate e le
spese dello stato si equivalgono e dove, alla voce entrate, il ricorso all’indebitamento è il più
possibile contenuto.
I margini di tollerabilità del disavanzo, cioè della differenza tra entrate e spese, sono stati fissati
nel Trattato di Maastricht (1992), che ha avviato le procedure per la creazione della moneta unica, e
in una serie di trattati successivi. Si assume come termine di paragone il PIL, il prodotto interno
lordo; il deficit di bilancio, cioè la differenza tra entrate e uscite, non può superare l’1% del Pil
per i paesi virtuosi (che hanno poco debito pubblico) e lo 0,5% del Pil per i paesi non virtuosi
che come l’Italia hanno molto debito pubblico. Queste sono le misure che determinano il
margine di manovra, la misura massima in cui anno per anno uno stato può avere uno squilibrio tra
entrate e spese. Se l’Italia, per esempio, volesse aumentare le spese per gli asili nido e anche per le
pensioni di anzianità ma questo significasse ‘scostarsi’ dal parametro dello 0.5 non lo può fare e, a
tutto concedere, bisogna che scelga quale delle due spese mantenere e quale eliminare o ridurre.
Oppure può ridurle tutte e due.
Lo squilibrio tra entrate e spese può essere finanziato in modo molto limitato con il ricorso
all’indebitamento, cioè con l’emissione di titoli di stato, perché questo crea debito futuro. Le
politiche europee di bilancio sono molto concentrate nel problema della riduzione del debito
pubblico legato all’indebitamento e precisano che il debito pubblico, quando vi sia e preesista,
come nel caso dell’Italia, deve ridursi e deve mantenersi in una percentuale del 3% del Pil.
Questo spiega come mai le politiche finanziarie contemporanee si presentano anche come politiche
fiscali, cioè come politiche che determinano una crescita delle tasse. Se uno stato per pagare le sue
spese non può ricorrere che in misura limitatissima all’indebitamento la strada è segnata: riduce le
spese (di qui la sensibile riduzione di servizi e interventi nella società di cui abbiamo risentito nel
nostro Paese) e comunque aumenta le tasse, che sono l’unico modo per trovare denaro.
Veramente, di modi, ce ne sarebbe anche un altro, ed è quello in cui le politiche europee di bilancio
e finanziarie sperano, cioè la crescita del prodotto interno lordo. E’ quest’ultimo infatti il
regolatore delle possibilità dello stato di spesa e di indebitamento. Se il Pil cresce crescono le
risorse cui corrisponde la percentuale dello 0, 5 (margine di differenza tra spese e entrate) e del 3%
(proporzione dell’ammontare del debito pubblico). Uno stato con un Pil molto positivo può
aumentare le spese e chiedere prestiti ai mercati finanziari, mentre uno stato con un Pil piatto, o,
peggio che mai, negativo, non può o può in misura ridottissima. Ecco perché la politica
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contemporanea è concentrata sulla ‘crescita’ dell’economia. Molti però fanno notare che è un gatto
che si morde la coda, perché difficilmente l’economia ‘cresce’ quando la società è impoverita sia
materialmente (per i minori servizi di cui gode e le maggiori tasse che soffre) sia spiritualmente (a
causa del senso di disorientamento che si diffonde quando ci si rende conto che i nostri ‘destini’
dipendono quasi completamente da valutazioni e da scelte che vengono prese da istituzioni sulle
quali la società non ha alcun controllo e potere di indirizzo).
La riforma del bilancio in Italia
Le indicazioni europee in materia di bilancio sono state recepite in Italia con una riforma
costituzionale approvata e entrata in vigore nel 2012, che ha dettato il nuovo testo dell’art. 81
Cost., la disposizone che regola la legge di bilancio. Con la riforma dell’art. 81 è stata anche
istituita la legge di stabilità, cioè la legge che hanno per anno si propone di fare sì che il bilancio
dell’anno a venire corrisponda agli obiettivi prefissati (ossia ‘stia dentro’ ai parametri europei poco
sopra illustrati) ciò che la legge di stabilità fa contenendo aumenti o riduzione di tasse o modifiche a
leggi di spesa per eventualmente ridurne l’onere. Per effetto del nuovo art. 81 il ricorso
all’indebitamento è possibile solo al verificarsi di eventi eccezionali (gravi recessioni economiche,
crisi finanziarie, gravi calamità naturali) che devono essere accertate con una legge approvata a
maggioranza assoluta.
La governance europea in materia di bilancio e finanziaria
Il ciclo nazionale di bilancio si muove all’interno di un ciclo ‘europeo’: anno per anno la
Commissione europea adotta ‘linee guida’ rivolte a tutti gli stati indicando gli obiettivi di politica
economica e le possibili riforme per ottenerli; in questo quadro ogni Stato emette il suo DEF
(Documento di politica economica e finanziaria) che delinea il modo in cui intende intonarsi alle
linee guida europee; la Commissione esamina i Def e può approvarli o invitare gli stati a
modificarli; quindi predispone, entro il 15 ottobre di ogni anno, il disegno di legge di bilancio (che
fa il punto sui conti dell’anno precedente) e la legge di stabilità, che fissa i paletti entro i quali spese
e entrate (il bilancio) dell’anno successivo dovranno mantenersi.
Questo ‘ciclo’ rappresenta l’assorbimento della procedura finanziaria e di bilancio interna nella
‘governance europea’ ed è il motivo per cui nel discorso di tutti i giorni si dice che la politica
economica nazionale è del tutto condizionata ‘dall’Europa’.