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La grande eredità

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Settimana Santa a Barrafranca

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Gli autori ringraziano i seguenti signori: Sig. G. Collura, Univ. G. Di Dio, Sig. I. Rizzo.

Per la ricerca dei canti e le poesie popolari si ringraziano in modo particolare: Sig.ra M. Costa

in Tambè, Sig.ra M. Marchì ved. Aleo, Sig.ra S. Marchì in Di Santo, Sig. S. Puzzo, Dott. A Ficili,

Dott. A. Sottile.

Un vivo ringraziamento va al Prof. G, Giunta per la disponibilità e collaborazione.

Le fotografie sono state gentilmente fornite da G. Gentile, C Orofino, S. Strazzanti e G.

Vicari.

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Settimana Santa nel cuore della Sicilia – Fede e folklore a Barrafranca 2a edizione 2010

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PREFAZIONE

La tradizione è sempre viva e perenne. È questo il principio al quale si sono attenuti gli autori del presente saggio, consegnandone le pagine ai lettori. Concordo totalmente con questa impostazione di fondo. È ormai pienamente appurato presso gli studiosi e non, che le tracce del passato servono a determinare il presente e a ricostruire il futuro. Nel saggio la memoria passata riaffiora con dovizia di particolari e tende a presentare I'«io collettivo» nel suo spontaneo manifestarsi, quell'«io collettivo» come espressione di popolo che ritrova nello specchio del passato la sua identità e la sua fisionomia, quell'«io collettivo» che si ritrova cresciuto e indirizzato verso un 'unica direziono: presentarsi nel ruolo di attivo protagonista della storia e quindi della vita nel suo farsi. Gli autori con dedizione e passione hanno scavato nelle radici di questo cammino, ne hanno individuato il percorso e con rigoroso metodo scientifico e senza presunzione alcuna hanno additato le loro convinzioni, basandole su una ricerca attenta e meticolosa delle testimonianze scritte e orali che ben dovevano e potevano corrispondere allo scopo. Si nota che tali testimonianze sono state accuratamente vagliate alfine di dare ampio credito e circostanziata analisi alle ipotesi assunte e sviscerate nel loro nucleo essenziale, a volte anche fonte di possibili deviazioni interpretative. Il saggio si rivolge ad un pubblico vasto di lettori:

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dall'intellettuale che cerca continuamente di acquisire nuove conoscenze, non solo per la sua crescita culturale, ma anche per la sua sete di spiegarsi fenomeni e comportamenti, andando a ritroso nel tempo; all'individuo comune che tante volte, partecipando a manifestazioni di cui, oltre ad essere spettatore è anche protagonista, sente il bisogno di legittimare il desiderio di sapere come e perché vi si ritrova coinvolto. L'uno e l'altro possono trovare nelle pagine che seguono un 'ampia e documentata risposta alle proprie domande che sono certo «domande» che attendevano da tempo di essere analizzate ed approfondite. L'opera si divide in due parti all'interno delle quali si ritrovano articolazioni puntuali e indispensabili a dare, per quanto possibile, allo studio completezza di informazione e soddisfazione alle indagini intraprese. La prima parte è più intellettualistica rispetto alla seconda. In essa vi si legge il tentativo di documentare opportunamente i collegamenti esistenti tra Pasqua ebraica e Pasqua cristiana, tra riti pagani e riti cristiani. Essa risulta una ricerca filologica e nello stesso tempo interpretativa di ciò che la tradizione ha via via consegnato alla storia ed è la testimonianza del fatto che, quanto divenuto «storia», si è innestato fortemente in ciò che di «vero», di «bello» e di «spontaneo» è rimasto vivo nei periodi precedenti. In queste condizioni tuttavia gli autori non scadono in pedissequo «ricerchismo» o in voluta sovrabbondanza di eloquio. Il lettore anzi trova appagata la sua ansia di sapere e soprattutto la scoperta che per lui altri hanno fatto di una continuità della tradizione e della necessità di arricchire il proprio bagaglio conoscitivo. Scrupolo ed opportuni riscontri caratterizzano queste pagine che, per la loro collocazione, ben si addicono ad introdurre l'altra parte dell'opera che ci porterà nel vivo dei problemi che saranno discussi; infatti tali pagine sono un primo

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avvio per rispondere più dettagliatamente ai numerosi interrogativi che , chi si accinge alla intrapresa di una indagine non ancora svolta, si pone. Sono pagine apparentemente fluide ma ugualmente affascinanti proprio perché riescono a tracciare un quadro particolareggiato di come la tradizione pasquale, che ora viviamo, non poteva esaurirsi in anni antichi o recenti, oltretutto per la sua densità di significato e per la sua capacità di rigenerare l'uomo. La seconda parte costituisce la vera novità del saggio, ne rappresenta il logico sviluppo e testimonia la volontà degli autori di dare ai lettori il diletto di addentrarsi con più consapevolezza nelle tradizioni locali della Settimana Santa e di riviverle con viva partecipazione. Descrizione, analisi, ricerca, sintesi valutativa ed interpretativa si intrecciano in tal modo da far pervenire a conclusioni accettabili e suscettibili in qualche caso di nuovi approfondimenti. A mio modo di vedere, questa è la parte più viva dell'opera. Oltre al contenuto lo rivela anche lo stile: gli estensori, infatti, si lasciano trascinare dagli eventi raccontati e addirittura riescono con le loro vive descrizioni a coinvolgere chi legge. L'arte della parola si mescola efficacemente con l'arte del pennello. Il quadro che ne risulta è davvero vivo ed esaltante, ricco di richiami coloristici e denso di palpitante comunicazione. Non è sola informazione quella che traspare dal racconto degli usi e delle tradizioni di un popolo, nella fattispecie del popolo barrese. È la presenza a se stesso di quella vita ricca di spontaneità e certamente di fede che si manifesta nella forza di sentire gli avvenimenti, nella partecipazione a riti atavici, nella

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ripetitività di gesti e comportamenti che contrassegnano l'autenticità della Settimana Santa. Fede e folklore in queste pagine si fondono, in quanto rispecchiano l'autenticità di testimonianza da parte di quello che è il sentimento religioso e della sua adesione convinta alla celebrazione dei riti e delle tradizioni che la Settimana Santa ogni anno porta a rivivere. «Tempo sacro» e «tempo profano» acquistano una dimensione tutta propria e nel loro intreccio contribuiscono a rendere palpitante e denso di emozione il momento che si rivive. Il «sentimento del tempo» continua il suo insegnamento, poiché nessuno riesce a sfuggire al coinvolgimento diretto che da esso promana nelle sue varie scansioni. «Spazio sacro» e «spazio profano» si intrecciano come a rappresentare la dimensione su cui innestare le caratteristiche dei giorni chiave della Settimana Santa: il dolore rivissuto intensamente nell'orgia sacro-profana sotto le «boiardo» e negli spazi circostanti; il tripudio di gioia che si amplifica e si delimita, la Domenica di Pasqua, dentro il perimetro della Piazza Fratelli Messina, attraverso il rito della «Giunta». Un punto del saggio degno di alta considerazione è la presentazione e la descrizione delle varie fasi del Venerdì Santo. Qui più che altrove l'aridità intellettualistica e stilistica propria dei saggi cede il posto al lirismo intensamente vissuto e manifestato, prorompente da tutto ciò che viene via via delineato, come necessario tassello a rendere la giornata come quella «tipica giornata» cui nessuna altra dell'anno può -corrispondere. In essa tutto infatti, come gli autori tendono a dimostrare, presenta ed acquista la sua peculiarità: si assiste al coinvolgimento totale che, vissuto in quel particolare momento, diventa vero e pregnante, senza potervisi sfuggire, qualora si volesse obbedire alla «fredda ragione».

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Persino le statue e le immagini acquistano consistenza e vita. La loro personificazione diventa un fatto normale e si ha l'impressione che siano partecipi diretti di quella rappresentazione umana che è insita nella celebrazione del rito. I particolari delineati, il pathos descritto, i preparativi idonei a garantire la «rappresentazione» sono presentati dagli autori con spigliata sicurezza e viva spontaneità. L'apparato iconografico, inoltre, riesce a suscitare sensazioni fresche e immediate, come se si assistesse di persona a quanto descritto. Viene inoltre recuperata la vita di un popolo che in quelle manifestazioni si ritrova compatto come se avesse una sola mente e un sol corpo. Probabilmente qualche lettore nello scorrere la presentazione dei vari giorni, potrebbe obiettare che determinati riferimenti non corrispondono al «particolare» che gli autori si sono proposti di scandagliare. A queste obiezioni potrei rispondere che il riferimento a ciò che accomuna nella cristianità le celebrazioni della Settimana Santa è stato necessario, per poter rappresentare in modo completo il quadro religioso su cui vengono ad innestarsi le diverse tradizioni locali. In sostanza i riferimenti in questione come, ad esempio, la descrizione della liturgia del Sabato Santo, tendono a contornare degnamente l'atmosfera che promana dai giorni esaminati. Degna di menzione è la fedele presentazione e trascrizione dei canti popolari che certamente avranno richiesto un attento esame filologico e comparativo. Plaudo con sincerità a questa iniziativa degli autori, non solo perché in tal modo hanno arricchito con documenti il loro discorso, ma soprattutto perché sono rimasti fedeli a quel

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principio richiamato all'inizio della presente prefazione: la perennità della tradizione. Attraverso questi canti sento di accomunarmi agli uomini del passato, ne rivivo il modo di pensare, di proiettarsi nel quotidiano, di considerare gli avvenimenti relativi alla vita e alla morte di Cristo, come fossero cosa propria; ne rivivo la lingua attraverso il vernacolo asciutto e pregnante, magari a volte carente di musicalità, ma ugualmente pieno di senso e di poesia, pur non rivelandosi sempre comprensibile. In questa ottica si inserisce opportunamente il riporto originale di una testimonianza orale concernente il ritrovamento del Crocifisso. Concordo con gli autori sul fatto che non hanno inteso ritoccare minimamente il testo registrato; infatti dal racconto di tale testimonianza si evince l'autentica conservazione di un documento, che meglio di quelle parole non poteva ritrovarsi in eventuali puntualizzazioni senz'altro più fredde e meno toccanti. Barrafranca mancava di uno studio particolareggiato sui riti della Settimana Santa. Mi sembra che gli estensori del presente saggio abbiano assolto degnamente tale impegno. Essi con le loro ricerche hanno contribuito a regalare alla collettività uno studio che non si ferma soltanto alla considerazione di quanto accade a Barrafranca. Il saggio può servire a completare determinate altre imprese del genere che volessero nel tempo intraprendersi, in quanto può costituire un punto di riferimento per i richiami che si potranno effettuare nel ripercorrere le tradizioni pasquali nel centro della Sicilia. Ritengo che esso possa ugualmente servire allo storico che volesse cimentarsi nella incessante ricerca di completare con nuovi apporti il già conosciuto. Una testimonianza di quanto dico si ritrova nel presente saggio: i suoi autori, nel portare

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alla luce avvenimenti ormai messi da parte, hanno consentito di conoscere tradizioni e costumi di civiltà precedenti. Valga per tutti il richiamo agli Arabi e agli Spagnoli di tanto e tanto tempo fa. La tradizione vive. Altri studi sono stati effettuati sulla storia e sulle tradizioni, in generale, di Barrafranca, ma mai prima del presente saggio ci si era soffermati ampiamente su un periodo particolare o su una tradizione particolare. Con questo saggio il vuoto è stato colmato e mi sembra che l'intenzione degli autori sia stata coronata dall'avere saputo tracciare le caratteristiche di un popolo che nella tradizione continua a manifestare un fervore di vita e di atteggiamenti non certo cancellabili. La tradizione, quindi, continua a rivivere e a raccontare ai posteri il senso della storia.

Prof. Pino Giunta �

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PARTE PRIMA �

«MITO» E «RITO» NELLE TRADIZIONI DELLA

SETTIMANA SANTA �

����Un pomeriggio di primavera, quando si respira e si gode l'atmosfera olezzante di odori caratteristici del clima siciliano e l'aria è tiepida e pregna di profumi che annunziano il risveglio della natura e ognuno sente il bisogno di uscire per le strade, di immergersi in esse e di assaporare il fascino di una tale condizione, alcuni ragazzi, come per gioco, con i loro mezzi e le loro fanciullesche voci ripetevano i riti del Venerdì Santo, celebrato alcune settimane prima con una carica ben diversa e più virile dai grandi. Passanti casuali per quella via, in compagnia di un personaggio eminente del luogo, commentando familiarmente quel gioco, ci colpì una frase, in modo particolare, pronunziata da quel signore illustre, tendente a sottolineare quel tipo di manifestazione. Disse: «Vedete! Finché i ragazzi ripeteranno questo gioco, la tradizione del Venerdì Santo a Barrafranca non scomparirà». Questa frase, sicuramente spontanea, rivela una grande verità. Le tradizioni popolari, non solo non si possono sradicare dalla vita di un popolo, ma ne evidenziano i tratti culturali più caratteristici e più profondi. Infatti tutte le manifestazioni e i comportamenti, a volte inspiegabili, che si manifestano nella società attuale potrebbero trovare la loro

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spiegazione nei riti più reconditi ed ancestrali di un popolo. Se si vuole quindi conoscere un popolo è necessario calarsi dentro la sua realtà quotidiana, indagarne il comportamento di tutti i suoi strati sociali, perché solo così ci si può spiegare come siano avvenute certe trasformazioni, siano esse sociali, politiche o etiche. Cultura di un popolo, non è solo la produzione letteraria e artistica di una élite, ma piuttosto il complesso del concretizzarsi dei fenomeni antropologici diversamente manifestantesi. Anzi si può affermare con assoluta certezza che la produzione letteraria o artistica più valida affonda le sue radici in tale fertile terreno. Come dice la Amitrano Savarese: «Ogni festa è una tranche de vie, ogni tranche una tessera che si inserisce nel grande mosaico... che ha per tema la vita di un popolo privata e pubblica, materiale e morale, profana e sacra con tutte le sue infinite manifestazioni, nella gioia e nel dolore, nell'amore e nell'odio, nel culto palese del bene e nella malcelata inclinazione al male, nelle campagne e nelle città, sui monti e sul mare, dappertutto». Di conseguenza le tradizioni popolari siciliane, oltre a manifestare una matrice autoctona, prettamente indigena, rivelano un substrato culturale vario e complesso derivante, quasi sicuramente, dalle molteplici culture che si sono succedute nella nostra isola con il susseguirsi delle varie dominazioni. Si possono così riscontrare nelle varie tradizioni aspetti diversi che si richiamano ora alla cultura precristiana, ora a quella cristiana nelle varie sfaccettature normanne o spagnole. A dimostrazione di quanto si è affermato, ci viene in aiuto l'autorevole affermazione del Pitré che così dice: «Fu detto e ripetuto che la maggior parte delle credenze e degli usi

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popolari di oggi sono ne più ne meno credenze ed usi antichissimi venuti a noi con le teogonie di Grecia e di Roma». Se esaminiamo, per esempio, gli usi, le credenze e i riti della Settimana Santa, non solo di Barrafranca ma anche di molti altri centri siciliani e meridionali, come per esempio quelli dell'area geografica chiamata anticamente Magna Grecia, ci accorgiamo che è estremamente difficile sceverare quanto di sacro e di profano vi sia in essi e, se vogliamo scendere nei dettagli, non è sempre agevole scindere ciò che proviene dalla civiltà greco-romana da ciò che deriva da quella cristiana, nella sua manifestazione normanna, araba o spagnola che sia. Ogni atteggiamento o manifestazione umana, anche la più elementare e spontanea, è da ricollegarsi a fenomeni inconsci che trovano la loro spiegazione più credibile in riti ed espressioni religiose proprie della natura umana. Difatti, ciò che noi, per la nostra formazione culturale giudichiamo «profano», per la civiltà precristiana era «sacro» e profondamente religioso. Di conseguenza possiamo affermare che nel nucleo più recondito di ogni tradizione popolare si annida un embrione di religiosità, sia essa nella manifestazione più primitiva e animistica che in quella più razionale. Questo aspetto, insito nelle tradizioni popolari si evidenzia, in modo particolare, nei riti della Settimana Santa nei quali il substrato religioso-pagano, anche se strettamente connesso e intrecciato all'apporto cristiano, spesso è facilmente isolabile e ricostruibile. Non è forse da ricollegare ad un rito iniziatico pagano la prova di forza che emerge dall'ammassarsi intorno alle «baiarde» del Crocifisso, durante la processione del Venerdì Santo a

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Barrafranca? Mito e rito, dunque, si mescolano e si uniscono per rigenerarsi in forme nuove e attuali. Notevole è perciò l'apporto pagano nei riti e nelle tradizioni della Settimana Santa e in particolare in quelli della Pasqua. Il fatto che, per esempio, la sua celebrazione coincida con l'inizio della primavera, senz'altro è da riportare alla preoccupazione dei primi cristiani di sovrapporre feste cristiane a quelle pagane. In proposito, nel libro «Nel mondo dell'incredibile» pubblicato dal Reader's Digest si afferma che «la Pasqua, come il Natale, fu fissata dai primi cristiani, in modo che coincidesse con il calendario pagano. In questo modo, scelsero la festa primaverile di- Eostre, la dea germanica dell'aurora, che si teneva intorno all'equinozio di primavera, il tempo in cui giorno e notte sono di uguale lunghezza». Molti studiosi ed antropologi ricollegano le tradizioni della Settimana Santa ai riti magico-religiosi dei popoli antichi, legati al ciclo delle stagioni e al rigenerarsi della vita. A nessuno, ad un'attenta osservazione dello svolgersi delle stagioni, sfugge che in questo, sotto metafora, si nasconda il ciclo della vita, cioè di quel perpetuo alternarsi di vita e morte, di spirito e materia. Ognuno di noi, inoltre, ha acquisito l'abitudine di identificare le varie stagioni con una fase della vita umana. Chi non identifica l'inverno con il sonno^della morte, l'autunno con la tristezza della vecchiaia o con il declino della vita, l'estate con la maturità dell'uomo manifestantesi in un tripudio di forza e di vitalità e la primavera con la giovinezza, l'amore e la rigenerazione della vita? Certamente i popoli antichi, adusi a personificare le forze della natura e a dar loro un'anima, hanno rappresentato

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questo perpetuo ciclo della vita con il Dio Salvatore. Questa fra l'altro è l'opinione del Buttitta che così afferma: «Presso diversi popoli l'esigenza di rigenerazione della natura ha avuto proiezioni antropomorfiche». E il VAN DER LEEUW conferma: «La credenza del dio Salvatore ha la sua matrice nel bisogno periodico di salvazione della primavera. La vita si rinnova in aspetto di giovane dio e l'epifania di questo dio, il giorno del suo arrivo, è la vita che rinasce. Il dio Salvatore non possiede quell'eterna fissità che appartiene al dio del cielo e ad altra divinità; la sua potenza sempre si alterna, scende e sale, il ciclo della natura è insieme la cosa più triste che conosciamo e più letificante. Non soltanto la malinconia dell'autunno, ma la carestia dell'inverno; non solo la poesia della primavera, ma anche la sovrabbondanza dell'estate concorrono a formare la potente figura del Salvatore che muore e risuscita, dorme e si desta, è assente e ricompare». Il Buttitta addirittura per dimostrare il passaggio dalla circolarltà del tempo mitico all'andamento rettilineo del tempo storico accetta l'opinione del Lommel che afferma: «Perfino l'avvenimento supremo, quello che supera il tempo come supera il mondo, l'incarnazione di Dio, fu fissato in una data precisa, in un anno deteminato, e trasportato dal mondo del mito al mondo della storia». Tale opinione, se da una parte sembra trovare consenso per lo sforzo di ricerca, di studio e di intuizione, dall'altra parte è quanto mai cervellotica e ambigua dal punto di vista dell'ottica cristiana che considera l'evento dell'Incarnazione Passione e Morte di Cristo, figlio di Dio, un avvenimento vero e di fede e non certamente un mito.

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LA PASQUA EBRAICA

����Non si può parlare di Pasqua cristiana trascurando quella ebraica, in quanto entrambe sono strettamente collegate tra loro; infatti il valore e il significato della Pasqua cristiana consiste nella continuazione e nella trasformazione simbolica della Pasqua ebraica. Questa fu istituita da Mosé per ricordare il mirabile passaggio del Mar Rosso a piedi asciutti e la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dell'Egitto. Ancora oggi è la principale festa degli Israeliti e la fonte essenziale per la sua descrizione, a parte gli usi e le consuetudini introdotte nei vari secoli, rimane il brano biblico tratto dall'Esodo (XII 1-20): «II Signore parlò ancora a Mosé e ad Aronne in Egitto, e disse: Questo mese sarà per voi il principio dei mesi; sarà il primo mese dell'anno. Parlate a tutta l'assemblea d'Israele, dicendo: Nel decimo giorno di questo mese, ogni capo di casa provveda un agnello: un agnello per casa. Se la famiglia non è sufficiente a consumare un agnello intero, lo prenda in comune col suo vicino di casa più prossimo, secondo il numero delle persone, facendo il calcolo della quantità d'agnello che ciascuna persona può mangiare. L'agnello deve essere senza difetto, maschio, di un anno: potete scegliere un agnello o un capretto. Lo custodirete fino al quattordicesimo giorno di questo mese e tutta l'assemblea d'Israele, radunata, lo immolerà alla sera. Si prenda un po' del suo sangue e si spanda sopra i due stipiti e sopra il frontone della porta, nelle case in cui si deve mangiare. La carne si mangi in quella stessa notte, abbrustolita al fuoco, con pani azzimi ed erbe amare. Non ne mangerete crudo ne lessato nell'acqua; ma arrostito al fuoco, testa, gambe e interiora. Non lasciate nessun avanzo per il

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giorno seguente e quello che sarà rimasto allo spuntar del mattino, bruciatelo. Lo mangerete in questa maniera: avrete i fianchi cinti, i calzari ai piedi, il bastone in mano: mangiatelo in fretta: è il Passaggio del Signore. In quella notte io passerò per l'Egitto e percuoterò ogni primogenito del paese, sia degli uomini che degli animali, e farò giustizia di tutti gli dei dell'Egitto. Quel sangue servirà ad indicare le case dove voi abitate: quando io vedrò quel sangue, passerò oltre senza toccarvi, e non vi sarà in mezzo a voi nessun colpito a morte quando io percuoterò l'Egitto. Quel giorno sarà per voi memorabile, voi lo celebrerete come festa in onore del Signore; e per tutte le vostre generazioni voi lo festeggerete come legge perpetua». «Per sette giorni voi mangerete pane azzimo; anzi fin dal primo giorno voi toglierete ogni lievito dalle vostre case; poiché chiunque, fra il primo ed il settimo giorno, mangerà qualcosa di lievitato, sarà reciso tra i figli d'Israele. Nel primo giorno avrete una sacra radunanza, come pure nel giorno settimo. Non farete alcun lavoro in quei giorni. Potrete preparare solo quello che ciascuna persona deve mangiare. Osserverete la festa degli azzimi perché in quel giorno io ho tratto dall'Egitto le vostre schiere; perciò osserverete quel giorno di età in età come legge perpetua. Mangiate azzimi dal tramonto del quattordicesimo giorno del primo mese, fino al tramonto del ventunesimo giorno dello stesso mese. Durante questi sette giorni non si trovi lievito nelle vostre case, perché chiunque mangerà qualcosa di lievitato, sarà reciso dalla comunità d'Israele, sia egli forestiero o nativo del paese. Non mangerete pane lievitato; ma in qualunque luogo dimorerete mangerete pani azzimi». La parola Pasqua deriva dall'ebraico «pesah» divenuta in greco Traoda termine riportato nella traduzione biblica dei

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Settanta. Essa significa «passaggio» allusione al passaggio di Jahweh nell'Egitto per colpire i primogeniti degli Egizi, risparmiando quelli degli Ebrei le cui case erano state segnate con il sangue dell'agnello. «Un tal giorno sarà per voi ricordo, e voi lo festeggerete qual festa per il Signore, quale statuto perpetuo, per tutte le vostre generazioni, lo festeggerete». (Ex. 12, 11-14). La festa comprendeva due parti: la prima consisteva nella consumazione dell'agnello pasquale la sera del 14 o 15 msàn; la seconda nella festa degli azzimi che durava sette giorni. Ogni famiglia di Israeliti si procurava in tempo un agnello, lo conservava e la sera del 14 o 15 nìsàn lo immolava. La sera stessa doveva essere arrostito e mangiato con erbe amare e pani azzimi. Come si evince dal brano citato il pasto doveva essere consumato dai commensali in fretta con i lombi cinti, i calzari ai piedi, il bastone in mano in atteggiamento di chi sta per partire. Presso gli Ebrei la Pasqua viene vissuta come una festa comunitaria e già fin dall'inizio era stabilito che non poteva essere celebrata singolarmente. Da Giuseppe Flavio, infatti, apprendiamo che i commensali dovevano essere più di 10 e non oltre 20 (Beli. lud. VI, 9-3) e dal libro dell'Esodo che ad essa potevano prendere parte solo i circoncisi (EX. 43-49). A questo uso pare che si sia adeguato Gesù nella celebrazione dell'ultima sua Pasqua (Ultima Cena) raccogliendo intorno a sé i dodici Apostoli. Alcuni particolari della celebrazione pasquale appaiono anche dal racconto dell'Ultima Cena celebrata da Gesù, e dai testi tolmidici. La celebrazione della Pasqua ebraica consisteva principalmente nel banchetto pasquale che si svolgeva secondo un rigido rituale. Dopo la lavanda delle mani si mesceva un

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bicchiere di vino misto ad acqua. Dopo la benedizione del vino, da parte del capotavola, il calice passava e tutti ne bevevano. Subito dopo si portava in tavola l'agnello pasquale che a differenza di prima, col passare del tempo, si cominciò a consumare seduti, come si può ricavare dalla descrizione dell'Ultima Cena. Anche la lavanda dei piedi da parte di Gesù, certamente sostituisce la lavanda delle mani di cui si è già parlato. Dopo il primo bicchiere si portavano in tavola i cibi pasquali: pani azzimi, erbe amare, l'agnello arrostito, l'acqua salata e marmellata di frutti bolliti con aceto. Poi il padre spiegava il significato della Pasqua, si cantavano i salmi e quindi si beveva il secondo bicchiere di vino. A questo punto iniziava il vero e proprio pranzo. È verosimile che Gesù si sia attenuto al cerimoniale d'uso e che ai riti della cena ebraica, abbia aggiunto i riti con cui istituì l'Eucarestia. Si bevevano durante il banchetto quattro bicchieri di vino rosso (complessivamente mezzo litro) che scandivano i quattro momenti principali del pranzo pasquale. Il primo corrispondeva alla benedizione, il secondo alla spiegazione del senso della Pasqua, il terzo al ringraziamento dopo il pranzo e il quarto alla lode finale. Il banchetto non doveva superare la mezzanotte. Subito dopo, iniziava la festa degli azzimi che durava sette giorni. Non tutti i critici attribuiscono al racconto biblico un fondamento storico. Molti ritengono che esso non sarebbe altro che un'interpretazione ufficiale e tardiva di una festa antichissima del popolo di Israele, alla quale, in una certa epoca fu sovrapposto il valore di commemorazione dell'esodo dall'Egitto. Secondo altri la Pasqua ebraica doveva essere costituita dal sacrificio del primogenito del gregge, un agnello, che avveniva in primavera con l'offerta delle primizie per propiziarsi la divinità.

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Altri critici ritengono, ancora, che la Pasqua ebraica non sarebbe stata che una festività agricola in relazione al fatto che le altre due feste principali del calendario ebraico, la Pentecoste e i Tabernacoli, rispondevano a due periodi della vita agricola. La maggior parte di essi, ritengono, però, che bisogna ricollegarla al racconto biblico.

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LA PASQUA CRISTIANA �

����La Pasqua cristiana commemora la Resurrezione di Gesù Cristo ed è la più antica festa del calendario liturgico cristiano. Antichissime sono le sue origini e numerose sono le testimonianze che ci confermano la sua esistenza già nella tradizione apostolica. In un certo senso essa ricalca quella ebraica, però non la perpetua, ma la completa con il suo contenuto puramente cristiano della redenzione operata da Cristo con la sua Morte e la sua Resurrezione. Molte sono le analogie tra la Pasqua ebraica e la Pasqua cristiana e molti simboli ebraici sono passati nella tradizione cristiana con diverso significato. L'immolazione dell'agnello oltre che carattere commemorativo aveva anche quello sacrificale e su questo specifico carattere si fonda la tipologia dello stesso agnello rilevata da S. Paolo (I Cor. 5-7). Nel sacrificio della croce che non fu seguito dallo spezzamento delle gambe di Cristo, come si era solito fare, S. Giovanni vide quello che era stato prescritto (Ex. 12, 46): «Ne osso alcuno romperete». Oltre al simbolismo dell'agnello è stato rilevato, spesso, un altro aspetto figurativo della Pasqua, cioè l'esodo degli Ebrei dall'Egitto, come figura dell'esodo cristiano e quindi come liberazione dal peccato o come passaggio dalla vita terrena alla vita eterna, la cui premessa era stata la Morte e la Resurrezione di Cristo. Le prime testimonianze sicure della celebrazione della Pasqua cristiana provengono dalla famosa «Questione Pasquale» (sec. II e III). È questa una lunga e complicata controversia tra la Chiesa

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Orientale e quella Occidentale circa la determinazione della data della celebrazione della Pasqua. Nell'Asia, infatti, si celebrava nel giorno della morte di Cristo, il 14 nisàn in qualunque giorno della settimana cadesse; nell'Occidente, invece, sempre la domenica seguente il plenilunio di primavera. La controversia, come si è già detto, fu lunga e delicata e si fu sul punto addirittura di provocare uno scisma. Gli usi romani erano validamente sostenuti dal vescovo Vittorio, mentre quelli orientali dal vescovo di Efeso Policrate. La questione, comunque, fu risolta dal Concilio di Nicea del 325 che impose a tutti l'uso romano. I Greci ortodossi accolsero il comando del Concilio, ma la loro Pasqua cade dodici giorni dopo quella dei Latini non essendo stata accettata la riforma gregoriana del calendario. Come si è avuto modo di rilevare, la Pasqua cristiana è una festa mobile, si celebra di domenica, ma non in data fissa; comunque Dionigi il Piccolo, nel 525, escogitò un computo in base al ciclo alessandrino, fissando così la Pasqua fra il 22 marzo e il 25 aprile (Pasqua bassa e alta). La Pasqua cristiana, nei primi tempi, ricordava l'«Ultima Cena», avvenuta il giovedì precedente l'ultima Pasqua di Gesù. In base, poi, a passi di antichi scrittori, Tertulliano e Lattanzio, si è sostenuto che la Pasqua fosse la commemorazione della crocifissione di Cristo. In seguito, la Chiesa Occidentale celebrò la Pasqua solo nel giorno della Resurrezione, la domenica, collegandola all'Eucarestia e riconoscendo nell'una e nell'altra la Resurrezione di Gesù. Sin dal sec. IV, comunque, si dette ai singoli giorni della Settimana Santa il nome corrispondente al corso degli avvenimenti storici, secondo l'uso della Chiesa di Gerusalemme descritto dalla pellegrina Eteria nel suo Itinerario. Il giovedì si commemorava la Eucarestia, il venerdì

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la Passione; la Pasqua si celebrava la notte seguente al sabato. Dai primi Padri si dava il nome di Pasqua al giorno della Passione, ma S. Cipriano cominciò a chiamare Pasqua anche il giorno della Resurrezione. Il rito pasquale nella Chiesa Orientale si è svolto sempre nella notte seguente il sabato, ma non sempre è avvenuto così per la Chiesa Occidentale, dove dal secolo IX questo rito fu anticipato verso la mattina del sabato. Tuttavia l'uso di celebrare il rito a mezzanotte è stato ripristinato da Pio XII nel 1951.

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CALENDARIO DELLA SETTIMANA SANTA A

BARRAFRANCA �

����La trattazione della Pasqua ebraica e di quella cristiana ci ha un po' distolti ed allontanati dall'obiettivo che ci eravamo prefisso e cioè l'esame delle tradizioni della Settimana Santa concernenti la nostra cittadina. Ovviamente i riti della Settimana Santa nel nostro paese, per quanto riguarda la loro struttura generale, sono da ricollegare al rituale del calendario liturgico romano, ma nei vari secoli essi, per alcuni aspetti si sono arricchiti per l'apporto di usi e costumanze provenienti da altri centri, per altri hanno subito modifiche o adattamenti derivanti dal substrato culturale già preesistente. Nel nostro paese, in modo particolare, i riti e le tradizioni pasquali hanno il seguente svolgimento. La domenica precedente quella della Pasqua si celebra l'entrata di Gesù a Gerusalemme con processioni e benedizioni di palme e rami d'ulivo; il lunedì e il martedì sono giornate aliturgiche; il mercoledì, da un po' di tempo a questa parte in qualche parrocchia si è ripreso l'uso della «predica della Passione», che prima si effettuava il giorno seguente; il giovedì, la denudazione degli altari, la lavanda dei piedi, l'esposizione solenne del Sacramento in un ciborio in un ambiente particolarmente addobbato chiamato impropriamente «Saburcu»; il venerdì si svolgono due processioni: la mattina quella dell'Addolorata accompagnata da S. Giovanni e la sera quella del Crocifisso, dell'Addolorata e del «Signore dell'Urna», che richiama una grande folla di gente per il particolarissimo modo in cui si svolge; la sera del sabato, in alcune Chiese, a mezzanotte, si celebra il rito pasquale

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durante il quale avviene la benedizione del fuoco, del Cero pasquale, dell'acqua del fonte battesimale e la Resurrezione di Cristo. La Domenica, a mezzogiorno, in una piazza del paese, si svolge una rappresentazione sacra particolare chiamata «Giunta» e la sera la processione, introdotta da qualche anno, di Gesù risorto, della Madonna e dei dodici Apostoli.

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ORIGINI DELLA «GIUNTA» A BARRAFRANCA �

����In una tale cornice, nel nostro paese, sono stati inseriti riti particolari, talvolta molto strani, dei quali è difficile collocare la loro origine nel tempo. Sono questi, riti risalenti all'antico Convicino o introdotti dopo, nel nuovo insediamento chiamato Barrafranca? Rispondere a tale domanda, alla luce dei documenti di cui si è a conoscenza, è molto difficile. Possiamo solo riferirci a datazioni che non riguardano il nostro paese in particolare, ma la Sicilia in generale: ovviamente intendiamo riferirci alle rappresentazioni sacre. Dice il Pitré che: «...in Sicilia tutta, nel secolo XIV ...si rappresentassero opere sulla Passione di Cristo, ed anche innanzi, ben si può con una certa ragione affermare. In un tempo in cui la Sicilia, ...accogliea Toscani e Liguri: e mercanti pisani e fiorentini e genovesi vi teneano banchi e fondachi e con gli Spagnoli gareggiavano di devozione nelle sacre compagnie, egli è ben facile il supporre che tutti vi cercassero di trapiantare, di introdurre o rinfrescare spettacoli simili ai loro «martori» alle loro «storie», alle loro sacre rappresentazioni». Ricaviamo sempre dal Pitré: «La legislazione ecclesiastica della Sicilia è unanime nel farci sapere che dalla metà del XVI secolo le sacre rappresentazioni popolari erano abbastanza antiche tra noi». Ancora, da quanto leggiamo nel Pitré, il quale afferma che certi spettacoli sacri .iniziati per vera devozione, in seguito per introduzione di innovazioni «destassero riso e ilarità e che i luoghi sacri fossereo divenuti teatri di scene ridicole di fatti apocrifi... e che l'anniversaria memoria della passione di Cristo venisse profanata con deformità e terrore di maschere», potremmo supporre, un po' forzatamente per la verità, che l'origine della sacra rappresentazione della

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«Giunta» a Barrafranca potrebbe ricercarsi in questo periodo e che sia una tradizione propria dell'agglomerato chiamato Barrafranca, dato che in questo tempo, infatti, nel 1529, Matteo III Barresi da a Convicino il nome di Barrafranca. Riportare l'introduzione di tali spettacoli sacri alla data sopra riferita potrebbe essere una supposizione valida e sufficientemente suffragata, ma niente ci impedisce di retrodatare l'inizio di tali rappresentazioni, specie se riflettiamo su quanto troviamo riferito dallo stesso Pitré: «Dai Normanni a noi (e dal tempo dei Normanni datano per me molti spettacoli religiosi di carattere drammatico; se pure non si deve ritenere che la popolazione greco- bizantina in Sicilia conservasse tuttavia qualche resto di antichi misteri: il che sarebbe conforme al fatto di altre provincie e di altre contrade) lo spettacolo sacro non ismarrisce, non modifica la sua origine...». Possiamo quindi dedurre che le rappresentazioni sacre, in linea di massima e in generale, cominciassero a diffondersi in Sicilia con i Normanni, stranamente in un periodo coincidente con il manifestarsi in Umbria delle laude e del dramma sacro. Ma a differenza di altre località, in Sicilia tali rappresentazioni, almeno fino al secolo XV, ebbero uno svolgimento muto e di ciò ci da testimonianza il D'Ancona che riporta tali spettacoli al tempo della dominazione spagnola e dell'Inquisizione. In seguito nel XVI secolo le rappresentazioni sacre si cominciano ad effettuare con testi teatrali. Tenendo fede a quanto detto, possiamo far risalire l'origine della rappresentazione sacra a Barrafranca chiamata «Giunta», essendo muta, almeno al periodo della dominazione spagnola in Sicilia, cioè al XV secolo, quando, sotto la signoria dei Barresi, Convicino conobbe un certo risveglio culturale ed

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economico testimoniato da diverse fonti. A quando risale, quindi, la «Giunta»? È una tradizione di Barrafranca o dell'antico Convicino? Una risposta precisa ed esauriente non può essere data; si possono fare solo supposizioni e noi siamo propensi ad accettare la seconda ipotesi, quella cioè di Convicino. A parte tutte le congetture resta comunque il fatto che le tradizioni, le rappresentazioni e le processioni della Settimana Santa nel nostro paese sono, ancora oggi, più che mai sentite e vitali e ogni anno si ripetono sempre con ritmo costante, con un rito ben determinato nel tempo e nello spazio.

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LA «VIA DEI SANTI» �

����La citazione della parola «spazio» ci invita ad una riflessione e cioè che il rito sacro, sia esso sotto forma di processione o di rappresentazione, non perde il suo carattere di sacralità, anche se si svolge al di fuori della chiesa. Anzi possiamo dire che l'occupazione dello spazio esterno sottolinea il coinvolgimento e la partecipazione diretta dell'intera comunità al rito sacro. Testimonianza di ciò è il fatto che nel nostro paese esiste uno spazio sacro ben determinato e intoccabile chiamato «Via dei Santi». Esso è il percorso obbligato di tutte le processioni e non solo di quelle della Settimana Santa. Il suo tragitto non è più adatto alla Barrafranca attuale, che in questi ultimi decenni si è enormemente estesa. Si svolge solamente attraverso il centro storico snodandosi a volte a fatica lungo strette viuzze, non rispecchiando un percorso razionale e idoneo ad una maggiore fruizione da parte dei cittadini. Ovviamente ciò fa pensare che, nello stabilire tale percorso abbiano influito precise scelte sociali. Infatti in queste vie sono ubicate le abitazioni delle famiglie più in vista e più antiche del paese o quelle di qualche influente confrate le quali certamente allora fecero sentire il loro peso e la loro autorità. Ultimamente si sono registrati dei tentativi miranti a modificare o a correggere in parte il percorso della «Via dei Santi», ma questi sono stati vanificati dalla reazione popolare, che gelosa delle sue tradizioni, nulla vuole che sia mutato. Si accetta invece l'iniziativa di alcuni Parroci di allungarne il tragitto con strade della propria parrocchia.

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����A� titolo di documentazione, citiamo i nomi delle strade lungo le quali si snoda il percorso della «Via dei Santi», partendo dalla Chiesa Madre. Esse sono: Via Vittorio Emanuele fino all'altezza della traversa Via Bonfirraro; quindi si svolta a sinistra, si percorre una piccola parte della suddetta via e si imbocca a destra la Via Vasapolli, fino all'altezza della Via Bellanti. Qui a sinistra si passa attraverso la stretta Via Bollanti per imboccare a destra la Via Ciulla, che viene percorsa fino all'altezza della Via Nicotera. Qui si svolta a sinistra per immettersi sempre a sinistra lungo il Corso Garibaldi che viene attraversato fino all'altezza della Via Canale. Quindi si entra nella spaziosa e antica Piazza Fratelli Messina, nucleo originario del vecchio agglomerato barrese. A questo punto, attraverso la stretta e breve Via Macallé, passando davanti alla Chiesa Maria S.S. della Stella patrona di Barrafranca e percorrendo un brevissimo tratto della Via Madonna si gira a sinistra lungo la Via Mastrobuono per incontrare di nuovo il Corso Garibaldi e percorrerlo a sinistra fino all'altezza della Via Paterno Rossi. Imboccata questa fino all'angolo della Via Vasapolli si svolta a sinistra, si percorre questa fino all'altezza della Via Principe Scalea che si imbocca a sinistra e si giunge fino in fondo. Qui, sempre a sinistra si attraversa un breve tratto della Via Ugo Foscolo e si percorrono la Piazza Umberto I e il Viale Regina Margherita. Dopo di ciò si scende lungo il Corso Umberto I, per fermarsi a destra davanti la Chiesa Madre. Come si è in precedenza accennato, la «Via dei Santi» è una chiara testimonianza della dilatazione dello spazio sacro e del conseguente coinvolgimento dell'intera comunità. È proprio questa infatti che, specie durante la Settimana Santa, si impossessa del rito, del gesto, della teatralità della tradizione e ne diventa l'indiscussa protagonista.

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����Conferma tutto ciò il fatto che sono, o meglio erano, alcune famiglie del paese le proprietarie e le custodi degli arredi, delle statue e degli attrezzi che servivano allo svolgimento delle feste. In proposito sono sorti tra autorità religiose e i proprietari di questi simulacri o attrezzi dei contrasti, in seguito ai quali, alcuni di essi sono stati indotti a donarli alla Chiesa.

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METODO DI LAVORO �

Ci sembra che quanto riferito in questa prima parte del nostro lavoro possa bastare per inquadrare il problema nelle sue linee generali. Una doverosa puntualizzazione, però, è opportuno fare per quanto riguarda il metodo di lavoro che seguiremo. Esso sarà impostato soprattutto sulla conoscenza diretta «sul campo» della realtà. Esamineremo il «come» al presente si svolgono le tradizioni della Settimana Santa e li confronteremo con il «come» si svolgevano prima, servendoci di testimonianze scritte, ma soprattutto di quelle orali. Utilizzeremo interviste e resoconti dei diretti discendenti dei protagonisti degli avvenimenti più salienti inerenti alle tradizioni locali. Cercheremo di analizzare e coordinare con logicità le notizie a nostra disposizione, senza con ciò avere la pretesa di aver detto l'ultima parola; la nostra fatica anzi vuole essere di sprone e di stimolo per quanti vogliano continuare su questa strada. Lettura, quindi, riflessione e retroverifica sono i momenti fondamentali del metodo che seguiremo. Ci sembra senz'altro un valido metodo di lavoro e soprattutto ci conforta il fatto che sia quello suggerito da uno studioso come il Cocchiara ed adottato dalla scuola di Palermo (Bonanno, Buttitta, Rigoli). Significativo ci appare concludere con la seguente affermazione di Diego Carpitella: «Se gli studiosi di demologia avessero potuto in questi anni (lo possono ancora adesso) verificare questo movimento a tré fasi (lettura, riflessione, autoverifica) se ne saprebbe di più sull'identità storica, non soltanto in Sicilia, e non soltanto delle cosiddette classi popolari».

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PARTE SECONDA �

INTRODUZIONE �

����Viviamo nell'era spaziale in cui l'elettronica, l'informatica e la telematica spadroneggiano ed hanno incentivato in modo determinante un rapido cambiamento del comportamento umano. I mass-media, come possiamo constatare, sono talmente diffusi e progrediti che con il loro continuo martellare di notizie e di informazioni varie stanno contribuendo da una parte, in positivo, allo sviluppo culturale, ad un affinamento dei gusti e ad una maggiore padronanza della lingua madre; dall'altra, in negativo, stanno determinando un appiattimento generalizzato dei costumi e dei condizionamenti ideologici, cui si assiste, spesso, impotenti. Vittime principali di siffatta situazione sono certamente i grandi centri urbani, in cui, sia per una maggiore diffusione dei mass- media, sia per ir frenetico ritmo della vita moderna, molte caratteristiche e tradizioni locali vanno gradualmente scomparendo. Nei piccoli centri, invece, specie in quelli agricoli, dove il ritmo della vita appare più lento e a dimensione più umana, le tradizioni sono quanto mai vitali e vegete. Uno di questi centri è il nostro comune, Barrafranca. Grosso centro dell'entroterra siciliano, si regge, attualmente ad economia agricolo-pastorale, e in esso le tradizioni popolari sono fortemente radicate e tutto il popolo vi è gelosamente attaccato.

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«A TILEDDA»

����Per inquadrare bene la trattazione delle tradizioni popolari concernenti specificamente i giorni della Settimana Santa, non possiamo trascurare il periodo quaresimale che li precede. Anticamente la Quaresima a Barrafranca, stranamente aveva inizio l'ultimo giorno di Carnevale con «a calata da tiledda» nella Chiesa Madre, a conclusione delle «Quarantore». Questo avvenimento era talmente popolare da richiamare un grande concorso di pubblico per la sua spettacolarità. La Chiesa si presentava gremita già molto tempo prima che iniziassero le funzioni sacre e la gente, portandosi anche la sedia da casa, si prodigava per occupare un posto che consentisse una migliore visuale. Si dice che in tale occasione, a causa dello strabocchevole numero di fedeli, si siano verificate delle risse, anche con spargimento di sangue. Ma, sebbene avvenissero tali incresciosi fatti causati dai soliti facinorosi, tuttavia la tradizione della «calata da tiledda» si protrasse per lungo tempo. Questa era una tela di enormi dimensioni, alta una quindicina di metri e, nel momento in cui «calava», nascondeva quasi interamente tutta la parte absidale della chiesa. La parte superiore di essa si presentava in forma arcuata per adattarsi alle linee architettoniche dell'abside. La faccia rivolta al pubblico era di colore grigiastro e portava dipinte in forma monocroma, al centro una grande Crocifissione e intorno ad essa, episodi della passione di Cristo; in basso era raffigurata la sua sepoltura. Era azionata da un congegno di pulegge, funi e contrappesi, consistenti in sacchi pieni di sabbia. Essa, come uno spettacolo da tanto tempo atteso,

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quando alla fine del rito sacro «calava», suscitava tale entusiasmo che tutto il popolo erompeva coralmente in esclamazioni di meraviglia e di stupore, riecheggiate ed amplificate dalla struttura architettonica della Chiesa. Alcuni per gioco, nel momento in cui «calava», usavano nascondere con le mani gli occhi degli amici per privarli dello spettacolo e vanificare così la loro lunga attesa., È da ricordare ancora che nel momento della «calata» della tela il popolo intonava con fervore e devozione il «Popule meus» e le confraternite del paese, tutte presenti alla funzione, rivoltavano la fascia, che le contraddistingueva, dalla parte nera, e al suono della «scattiola» partecipavano al canto, finito il quale, iniziavano le tradizionali lamentazioni, che continuavano anche durante il percorso di ritorno alle loro sedi. Questa tradizione è ancora in uso in alcuni centri viciniori a Barrafranca, come Caltanissetta e Piazza Armerina e liturgicamente è segno di penitenza, poiché mette in evidenza i simboli della Passione e Morte di Cristo. Purtroppo nel nostro paese, agli inizi degli anni cinquanta, la tradizione fu interrotta drasticamente per evitare il grande disordine che si verificava in Chiesa. Ma questo provvedimento non fu bene accolto dalla popolazione, che lo accettò suo malgrado e non fece niente per farlo ripristinare. Ultimamente abbiamo anche tentato di ricercare e reperire questa tela per esaminarla, spinti dalla curiosità storica ed artistica; purtroppo non siamo riusciti ad averne notizia. Dove è finita? Nessuno ci ha saputo dare una risposta soddisfacente.

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LA QUARESIMA E GLI ESERCIZI SPIRITUALI

���Dal mercoledì delle Ceneri, secondo la liturgia, come in tutto il mondo cristiano, anche a Barrafranca ha inizio la Quaresima. Questa rappresenta per la cristianità tutta, un periodo di pe- nitenza e preghiera in preparazione alla Pasqua. Nel nostro paese in modo particolare, a mezzanotte del martedì di Carnevale, veniva portata in processione «a Cruci» e il suo passaggio faceva cessare le varie feste da ballo, dando inizio ufficialmente al periodo quaresimale. Attualmente anche questa tradizione è scomparsa e forse ciò è sintomo che la Quaresima è meno sentita. Infatti, prima, durante questo periodo, raramente si tenevano feste danzanti, non si celebravano matrimoni e si faceva più penitenza rispetto ad ora. Ogni venerdì; ad esempio, si digiunava ed, oltre ad astenersi dal mangiare carne, non si consumavano ne uova, ne formaggio, ne ricotta. Anche gli Esercizi Spirituali, periodo particolare di preparazione religiosa al precetto pasquale, seguivano un rituale ben preciso, cosa che adesso non avviene più. Nel periodo più antico, quando l'unica parrocchia era la Chiesa Madre, si predicavano solo in questa sede. Avevano la durata di sette giorni e in ogni giorno si sviluppava un tema prestabilito. Il primo giorno l'istruzione era incentrata sul «fine dell'uomo»; il secondo sul «peccato»; il terzo, «sulla morte»; il quarto, «sul Giudizio»; il quinto «sull'Inferno»; il sesto, «sul Paradiso»: in questo giorno veniva raccontata, con toni declamatori e con arte oratoria la parabola del «Figlio! Prodigo», alla quale i fedeli prestavano molta attenzione tanto da farsi prendere da un'intensa commozione che li portava

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fino alle lacrime. Il settimo giorno si concludeva con il precetto pasquale. Anche i canti che venivano eseguiti in tale occasione erano abbastanza popolari ed erano intonati ai temi trattati. Ne riportiamo alcuni che riteniamo più significativi. Il canto che introduceva la predica di ogni giorno, eseguito a strofe alterne tra predicatore e fedeli, era il seguente: Pensa sorella mia quel Dio che ti ha creato, per essere beata eternamente in ciel. Vedo l'Inferno aperto, il posto mio vi miro Oh, Madre del mio Dio! Usatemi pietà! Se tu non vuoi peccare, pensa al tuo fine eterno: Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso. La morte all'improvviso ti priverà di tutto, i tuoi piaceri in lutto finiranno. La tua final sentenza sarà pronunziata nell'ultima giornata del Giudizio.

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Oh, Dio! Che gran supplizio andare all'Inferno! Per sempre in eterno disperato ! Tra i tanti canti popolari che abbiamo raccolto, per la grande risonanza che aveva, volgiamo trascrivere quello del «Figlio! Prodigo», che si cantava il sesto giorno degli Esercizi Spirituali. Torna, deh-torna o figlio! Torna al tuo padre amante. Ahi, quante volte quante io sospirai per tè! (Ritornello) Pensa che figlio sei, pensa che padre io sono, torna che ti perdono, non dubitar di me. Tu mi lasciasti, ingrato con molti indegni e rei, schernisti i pianti miei, ridesti al mio dolor. (Ritornello) Pensa che figlio sei, ecc. Da che mi abbandonasti, pace non ebbe il core.

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Sempre languii d'amore, sempre pensai a tè. (Ritornello) Pensa che figlio sei, ecc. Te per le valli e i monti tre notti ti cercai, sempre gridando andai: «II figlio mio dov'è?» (Ritornello) Pensa che figlio sei, ecc. La terra e il cielo udirò più volte i miei lamenti, i dolorosi accenti udirò i sassi ancor. (Ritornello) Pensa che figlio sei, ecc. Anzi dolente e afflitto te, notte e dì cercai e ognor gridando andai: «II figlio mio dov'è?» (Ritornello) Pensa che figlio sei, ecc. Vieni! Ma già ritorni, io già ti stringo al seno;

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già son contento e pieno, altro bramar non ho. (Ritornello) Pensa che figlio sei, ecc. Il caro mio tesoro il figlio mio perduto, eccolo! È già venuto, già al padre suo tornò. (Ritornello) Pensa che figlio sei, ecc, ecc. Angeli della pace venite a me d'intorno; il sospirato giorno eccolo già spuntò. (Ritornello) Pensa che figlio sei, ecc. Voi che da Dio fuggiste, anime sventurate, tutte ai suoi piè tornate: Ei non vi sdegnerà. (Ritornello) Pensa che figlio sei, ecc.

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����La predica degli Esercizi Spirituali non si faceva per l'intera comunità, ma avveniva in ore diverse secondo le categorie di persone cui era rivolta. Così c'era un turno per le donne maritate, per lo più la mattina; uno il pomeriggio per le ragazze e i fanciulli; un altro la sera riservato agli uomini.

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DOMENICA DELLE PALME �

����Finita la Quaresima i riti della Settimana Santa si aprono con la celebrazione della festività della Domenica delle Palme. Con questa festa la Chiesa ricorda l'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, del cui avvenimento si ha sicura testimonianza in tutti e quattro i Vangeli. Sicuramente questa festività, a proposito della quale il Pitré dice che era ed è esclusivamente religiosa, affonda le sue radici in tempi remotissimi; e come in ogni religione, anche in quella cristiana, il rito sacro rappresenta e rinnova le vicende basilari su cui si fonda. Dice il Buttitta a proposito «che tutte le processioni della Settimana Santa hanno lo scopo di ripetere la vicenda mitica esemplare... Il suo riconoscimento da parte della comunità è rappresentato nella processione della Domenica delle Palme». Ovviamente «vicenda mitica esemplare» ha valore per il non credente e per chi trova analoghi il Vangelo e i miti delle religioni pagane. Nel nostro paese la festa conserva un carattere prettamente liturgico nel cui rito è inclusa una processione che si svolge nell'ambito delle varie parrocchie. Di solito-la processione parte da una Chiesa secondaria, in cui il Celebrante prima benedice le palme e i ramoscelli d'ulivo, poi li distribuisce al popolo, e quindi da inizio alla processione vera e propria che si conclude nella Chiesa Parrocchiale, in cui viene celebrata solennemente la messa che si suole chiamare «Missa du passiu», perché il Vangelo del giorno ha per tema la Passione e Morte di Gesù Cristo. A tale processione partecipano giubilanti ed osannanti sia adulti, che portano in mano ramoscelli d'ulivo o palme, sia un

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gran numero di fanciulli che sfoggiano allegramente le proprie palme «ntrizzati e 'ncannulati». (Vedi tav. n. 1)

La vera e propria tradizione popolare di questo giorno consiste nella palma «ntrizzata». Ogni bambino è bramoso di possederla, per cui molto tempo prima si tagliano rami interni di palme e si sotterrano, in modo tale che acquistino il caratteristico colore giallino. Poi si provvede con arte e fantasia ad intrecciarle in varie fogge, utilizzando la maggior parte delle lamine e lasciandone un ciuffo al centro, alla qual

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cosa provvede gente esperta e in grado spesso di produrre veri e propri gioielli d'arte a livello artigianale. La palma intrecciata, quindi, viene donata o venduta ai bambini i cui familiari provvedono ad adornarla principalmente con «cruci e panareddi» di foglie di palma e con fiori di stagione quali il «balacu» (violacciocca), margherite, garofani, gerani, ecc. I rami d'ulivo, certe volte, vengono particolarmente curati, argentati e chiusi in buste trasparenti da distribuire. I fedeli conservano con cura sia le palme che i ramoscelli d'ulivo, perché benedetti e li appendono di solito al capezzale. (Vedi tav. n. 2) In alcuni paesi della Sicilia, dice il Pitré, si scongiura il tuono e la tempesta accendendo un ramoscello d'ulivo o di palma, benedetto la Domenica delle Palme, e così acceso lo si getta dalla finestra. Ciò sta a testimoniare che l'attaccamento che certe persone manifestano verso gli oggetti sacri è così forte da attribuire a questi, superstiziosamente, poteri magici. Per quanto riguarda l'uso e il significato delle palme e dei rami d'ulivo, il Buttitta dimostra di ignorare il Vangelo, in quanto così asserisce: «La Chiesa ha tentato di attribuire un significato cristiano all'usanza dei rami d'ulivo e delle palme pasquali. Secondo essa i rami delle palme significano la vittoria che il Redentore avrebbe riportato sul Principe della morte e i rami d'ulivo «quella unzione di misericordia» che egli diffonde sopra la terra, e, spingendosi oltre, fa risalire tale uso ad un arcaico rituale agrario sottostante alla Pasqua, in cui i ramoscelli d'ulivo e le palme «conservano un valore magico-religioso e vengono usate in funzione apotropaica». Trattando sempre questo argomento, il Buttitta sostiene che la Chiesa anche in questo caso ha operato l'assorbimento «di certi rituali pagani,

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volgendo in positivo, quanto possibile, consuetudines non laudabiles». Le affermazioni del Buttitta, come abbiamo accennato, non ci sembrano validamente documentate per il fatto che, fermo restando che i rami d'ulivo o di palme conservino un valore magicoreligioso risalente anche a tempi molto remoti, il loro uso nella Domenica delle Palme risale inconfutabilmente ai brani evangelici. Infatti così si legge nel Vangelo di S. Giovanni (12, 12-13): «II giorno dopo la folla, accorsa alla festa, sentendo dire che Gesù si recava a Gerusalemme, prese dei rami di palma e gli andò incontro gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il Rè d'Israele...» e in S. Matteo si legge ancora (21, 8): «Allora la folla, numerosissima, stese i mantelli sulla via, altri tagliavano rami dagli alberi (presso il monte degli ulivi) e li spargevano sul cammino». È evidente, dunque, che l'uso di palme e rami d'ulivo durante la Domenica delle Palme si rifa chiaramente al Vangelo.

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LUNEDÌ, MARTEDÌ E MERCOLEDÌ SANTO �

����Nei primi tre giorni della Settimana Santa, fino a qualche anno fa, nel nostro paese non si svolgeva nessuna manifestazione di richiamo sia popolare che religiosa. Si è tentato di colmare questo vuoto, cercando di introdurre delle innovazioni che si richiamassero in senso lato, a tradizioni di paesi viciniori. A livello religioso, da parte della comunità ecclesiale e del Movimento Popolare si è cercato di dar vita, a partire dal 1982, ad una «Via Crucis», utilizzando uno spazio diverso da quello della «Via dei Santi» e percorrendo le vie principali del paese. Essa ha riscosso molti consensi e tanta gente devotamente e in preghiera vi ha partecipato, portando in mano delle fiaccole. Tale manifestazione non si è svolta ogni anno nello stesso giorno e addirittura nel 1986, per vari motivi non si è potuta organizzare (ma pare che la sua data si sia stabilizzata il venerdì precedente la Settimana Santa). Un'altra manifestazione a livello popolare, da tenere in grande considerazione, è «La Vasacra», un dramma sacro sulla Passione e Morte di Gesù Cristo. Ha avuto inizio nel nostro paese nel 1983 in seguito all'interessamento e all'entusiasmo del «Gruppo Spettacolo Arcobaleno» che riuscì a coinvolgere la comunità ecclesiale. Anche questa manifestazione, per motivi economici ed organizzativi, nel 1986 non ha avuto luogo. Negli anni passati si è svolta il pomeriggio del Mercoledì Santo. Essa viene drammatizzata, su scenari allestiti in località diverse del paese, in quattro parti: Getsemani, Caifa, Pilato e Crocifissione. (Vedi tav. n. 3) Sono da ammirare lo sforzo organizzativo e il coraggio con cui si è portata avanti questa iniziativa che, bene a ragione, potrebbe entrare a far parte delle nostre tradizioni popolari. Infatti la sua realizzazione, dai testi alle scene, dai

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�costumi alle musiche, è prettamente locale. Ispirati e sentiti sono i testi composti in vernacolo barrese dal prof. Carmelo

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Orofino e dal Sac. Alessandro Bernunzo, che con essi, hanno voluto sottolineare, attraverso il dolore del Cristo, la loro concezione della vita, sintetizzata nel seguente verso:

«Nni sta terra cu soffri è sempri sulu» Le scene sono state abilmente realizzate dall'ins. Gaetano Orofino e dal prof. Gino Faraci che si sono ispirati ai versi del testo. Ad esempio nella realizzazione di quella rappresentante la sede del Governatore romano hanno tenuto presente i seguenti versi:

«Di marmaru e culonni è lu palazzu tempiu di liggi e casa di gran sfarzu»

I costumi sono stati artisticamente creati dall'atelier Costa, mentre le musiche sono state composte ed eseguite da Sandro Gulino e Angolino Paterno. Queste fanno da colonna sonora alla sacra rappresentazione e ne evidenziano i vari momenti drammatici esprimendo un sentimento tragico e misterioso dell'evento, come si evince dai seguenti versi a cui si sono ispirati:

«Tutta na vota si livà lu vintu quasi chi l'aria sintissi u tradimintu»

Questa manifestazione ha richiamato una grande partecipazione di gente che ne ha seguito con vivo interesse i vari momenti, specialmente quello culminante della Crocifissione. Nel 1986, purtroppo, l'attesa è rimasta delusa e da molte parti si sono levate lamentele per la mancata realizzazione. Per concludere, riportiamo il testo integrale della «Vasacra».

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VASACRA PASSIONI DI CRISTU

GETSEMANI �

I (PRISINTIMINTU) Scinnì chiara la sira ...e sutta a luna trimavanu d'argentu a una a una di hulivi li pampini ...'Nni lurtu u Nazarenu, già ccu cori murtu, trasì ...L'accumpagnavanu l'amici, chiddi cchiù cunfìdenti chi si fici. L'aria era chiara e la sira duci, ma chiaru e scuru furmavanu na cruci! II (SUDURI DI SANGU) ...E nnu silunziu arcanu du Jardinu Cristu trimà pinsannu o so distinu. Sangu suda dda carni 'mmaculata comu si fussi già 'ncruci 'nchiauvata! Cadì la facci 'nterra 'nginucchiuni

Cristu: priannu: Patri, pirchì m'abbannuni? O patri santu, alluntana di mia stu calici di feli e d'agunia!

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Ma si scrittu mi fu tantu patiri sia fattu allura u santu tò vuliri! III (SULITUDINI) Ranni lu scantu e ranni l'amarizza mentri u sangu culava stizza stizza di dda carni 'nnucenti, marturiata già prima ancora d'esseri 'nchiuvata! Russa si fici l'erba unna pusava la carni santa chi sangu sudava! E nunni potti cchiù ...circa cunfurtu di cumpagni chi stavanu nni l'urtu... Ma li truvà sfiniti 'nsunnu chinu sutta i pampini muti du jardinu... Ahi quanta ranni fu la pena, ahi quant E Cristu dissi cu vuci di chiantu:

Cristu: Mancu un'ura vigghiastivu cu mia nni sta notti di sangu e d'agunia! Stati vigghianti chi Satana arranca: l'anima è forti, ma la carni è stanca! Ma l'amici ristaru 'nsunnu chinu sutta i pampini muti du jardinu...

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Nuddu ci detti amuri ne cunsulu: nni sta terra cu soffri è sempri sulu! IV (TRADIMINTU) Tutta na vota si livà lu vintu quasi chi l'aria sintissi u tradimintu. A luna si scura ...e fogghi e rami sbattivanu pinusi ...passi e brami s'intissiru nni l'urtu ...senza sciatu si sbugghià ogni apustulu scantatu. E già prima chi l'ucchiu si nni dduna, eccu, armata di spati e di vastuna, na ciurma di vuccazzi 'mmilinati comu cani di marcatu raggiati... Ahi cori amaru! Comu suspittatu c'era 'n testa ddu Giuda assatanatu... Si, propriu iddu, apustulu e ministru, ppi quattru sordi vinnì u so Maistru! Trenta dinari ci detti dda genti: ppi certuni na vita un costa nenti! Giuda echi fai? l'amicu nun tradiri si ancora 'ntimpu: tirati 'nnarriri!

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E�Cristu lu talia, sguardu d'agniddu duci e amurusu ...ma ccu tuttu chiddu trova u curaggiu e resta tali e quali e si fa avanti ppi dari u signali. O signu snaturatu! U tradituri tradisci a Cristu cu 'nsignu d'amuri! Ci va e u basa d'amicu liali chi ti duna u so cori ...A stu signali dda ciurma si rivota cchiu caina, afferra u Nazarenu e lu 'ncatina. Ed eccu allura tutti trasudati scappanu l'apustuli scantati. Nuddu ci detti aiutu ne cunsulu: uni sta terra cu soffri è sempri sulu! Sulu! 'mminzu ddi vucchi 'mmilinati, comu cani di marcatu raggiati! Sulu tra li manazzi di ddi genti: ppi certuni na vita un costa nenti! Sulu e 'nnuccenti, agniddu 'mmaculatu di Caifa o tribunali trascinatu...

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CAIFA

I (SINETRIU) �

Sta lu gran Sacerdoti nnu so scannu la vucca stritta e 'lucchi di 'ngannu. Tutti li farisei su radunati chi Cristu dissi sabburca 'mbiancati. Godi e sghignazza ognunu nnu so pittu, ora chi ddu profeta 'mmalidittu ci l'hanu 'mmanu, sulu e 'ncatinatu, di rumini e di Diu abbannunatu. II (BESTEMMIA! BESTEMMIA!) E parranu tri farsi tistimuni, cuscienza lorda, acqua di vadduni: ppi jccari a 'nnucenza dintra 'a fogna, è leggittima e bona ogni minzogna! Ma Cristu taci, la so vucca è chiusa, tantu chi Caifa, cu pompa maistusa,

Caifa: si susi e dici: Parrà, scilliratu! l'omu chi taci ammetti u so piccatu. Ma cu tuttu 'stu santu tribunali cerca giustizia ...allura? Chi signali,

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chi prova duni di la tò 'nnucenza? 'nsumma, ppi la Divina Onnipotenza, affermi ancora d'esseri so figghiu? Allura Cristu davanti ddu cunsigghiu d'armi dannati e cori privinutu leva lu sguardu d'angilu patutu:

Cristu: Chiddu chi dici tu, i propria sugnu e provi nn'haju datu e ti nni dugnu: allatu di l'Eternu Criaturi 'ncapu i nivuli, 'ntuttu u so splinduri, veni u figghiu di l'omu a giudicari ppi dari u santu premiu o cunnannari!

Caifa: Bestemmia! Bestemmia scellerata!

'Ntuppatici 'ssa vucca 'ssatanata! Caifa pari n'armali scatinatu l'ucchi di fora, russu lu palatu. Si strazza la vistina e grida forti:

Caifa: Lu sintiti si merita la morti! III (PUGNI E SPUTI) E già lu so distinu fu signatu, biancu gigghiu nnu fangu 'rruzzulatu...

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E�allura, comu lupi 'ncaniati di sciauru di sangu, ccu manali ccu sputi e pugna e parulazzi 'nfami saziarunu la siti e la so fami. C'è cu sfutti, cu 'mmutta cu ci ridi: 'nsurti e sfregi di mami e di pidi! Nuddu ci detti aiutu ne cunsulu: nni sta terra cu soffri e sempri sulu! Sulu! 'mminzu ddi vucchi 'mmilinati comu cani di marcatu 'rraggiati! Sulu! Tra li manazzi di ddi genti: ppi certuni na vita un costa nenti! Sulu e 'nnuccenti tutta dda nuttata di stiddi amari e luna 'nsanguinata! E si leva u matinu da cunnanna e Cristu fu purtatu a n'atra bbanna, a lu palazzu di Ponziu Pilatu 'ncatini comu latru trascinatu.

PILATU I (PONZIU PILATU) Di marmaru e culonni è lu Palazzu Tempiu di liggi e casa di gran sfarzu.

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Pilatu sta di judici rumanu ugnanti a 'nnomu di 'nu rè luntanu. Scuta e talia, quasi 'nfastidutu di dda ciurma di vucchi e'ha trasutu, 'mmuttannu n'omu comu fussi agniddu iccatu a li porti du maciddu. II (ACCUSA)

I Vuci: Na vuci grida: È ranni piccaturi: Ha dittu chi è figghiu du Signuri.

II Vuci: Ha dittu chi è re di li Giudei,

u Ridinturi attisu di l'Ebrei!

III Vuci: Farsu e 'mbrugghiuni comu nu sirpenti! chi parrà contru Roma e li putenti!

IV Vuci: Stutammuci la vita! A 'morti a 'morti! St'omu di stirru merita sta sorti!

VI Vuci: Tu scutaci grandissimu Ministru: u fruttu marciu si leva du cannistru! III ('NTIRRUGATORIU) Pilatu lu talia, pensa e ripensa, 'un sa senti d'avillu nna cuscienza...

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Ddu Nazarenu chi ci sta davanti iè forsi un pazzu comu cci 'n'è tanti, ma ddu sguardu d'agniddu e d'acqua chiara avi quarcosa ...na 'nnucenza rara chi ti lassa sturdudu ... S'avvicina

Pilatu: e ci dici: Sta genti ti trascina dinanzi a 'mia c'haiu lu putiri di vita e 'morti: a mia spetta d'aprir! e chiudiri li porti ...Dimmi allura: pirchì sta genti voli a tò svintura? E Cristu, l'omu giustu cchiu tradutu leva lu sguardu d'angilu patutu

Cristu: e ci rispunni: Tu, Ponziu Pilatu, hai un putiri chi t'ha statu datu da lu Re di li Re di tutti i genti e senza u so vuliri 'un si nenti.

Pilatu: Si propria pazzu, amicu, chi ragiuni di cilu e rosi e 'un ti nn'adduni chi la vita ti si pò livari pirchì i sugnu cca ppi giudicari. Chiuttustu, amicu, pensa a li tò guai: dici d'essiri rè! Ma d'unna mai?

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U re porta la spata, la curuna, e 'ngustii e sfregi nuddu ci 'ni duna! Ma dimmi: quali regnu t'ha 'mmintatu?

Cristu: U regnu di cui parru iè assai cchiu atu. E sugnu Re, ma nò di chistu munnu, e dicu veru, u veru 'nfina nfunnu!

Pilatu: A virità? Ma dimmi: unna sta

ssa 'rara cosa chiamata vrità?

Cristu: 'Un gnè luntanu: iè 'ccà davanti a tia e cu cerca a so vuci, trova a 'mia! IV (BARABBA) Pilatu sbarattatu di stu diri fici ricursu a tuttu u so putiri:

Pilatu: Vuliti chi vi liberi a stu Cristu o a Barabba, dilinquenti e tristu? E tutti ci gridaru a vuci forti:

I Vuci: Viva Barabba! E Cristu minti a 'morti! Nun gnera genti chidda chi gridava, ma fezza di taverna chi sbuccava:

II Vuci: A morti Cristu! A 'morti, a 'morti 'ncruci! Ahi! lami di cutiddu furi i vuci...

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Chiova e sangu si fìci ogni parola, sangu e chiova e nuddu lu cunsola!

Pilatu: È 'nnucenti! 'Nu puzzu cunnannari, basta sulu cu fazzu flaggillari. V (FLAGGILLAZIONI) Allura quattru guardi! lu pigghiaru, a la culunna strittu lu 'taccaru. Clangiti genti! Genti chi sintiti si di carni nnu pittu cori aviti! Tagghia l'aria lu nirbu comu spata, bruscia li carni comu na vampata. E scrusci e tagghìa! Strazza a carni viva di Cristu 'marturiatu chi pativa. O Cristu amuri, sangu di 'nnuccenti, ci riscatti ccu tanti patimenti! O Cristu santu! O vita chi si duna a nostra vita! O santu chi pirduna l'umana crita, ribelli e superba contr'u Signuri di stiddi e di l'erba!

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VI (CRUNA DI SPINI) �

Comu s'ancora un fussiru cuntenti di tantu sangu e di tanti patimenti, na cruna fanu ddi manu caini, cruna 'ntrizzata di zaugghi e spini!

I Vuci: Ppi dari onuri a faricci cchiù festa, sta cruna o 're mintimmuccilla 'n testa

II Vuci: Nu re chi si rispetta e chi cumanna avi lu scettru: dammucci sta canna!

III Vuci: Ppi fallu cchiù precisu tuttu quantu sapiti chi 'ci vò? 'Ci vò lu mantu!

IV Vuci: Evviva u 're! Scruscimmucci li manu! Baianu i vucchi comu firi cani, mentri Pilatu mustra lu Duluri fattusi carni secunnu i scritturi. VII (LAVATA DI MANU) La fudda 'llaannata 'un si sazia ppi dd'omu voli tanti atri strazia:

I Vuci: A 'morti Cristu! A 'morti, Crucifissu! S'ha cunnannari ora, ora stissu!

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Pilatu: Pilatu scoti a testa e disapprova: na curpa ppi daveru 'un si trova!

I Vuci: S'ha fattu 're! E contru di lu statu stu pazzu ppi li strati ha pridicatu!

Pilatu: Facili allura chiddu chi vuliti, ma li ma manu restanu puliti! Purtatimi un vacili e na tuvagghia: 'un sugnu i lu iudici chi sbagghia!

I Vuci: 'Mazzari un piccaturi comu a chissu iè secunnu la liggi: Crucifissu!

II Vuci: A 'morti, a 'morti! Chi si spetta ancora? Pigghiati a Cruci! Purtamulu fora!

III Vuci: U so sangu s'abbiviri u tirrenu! bedda ssa Cruci: Ti piaci Nazarenu?

IV Vuci: Forza di dducu! Tu chi nni fai tanti e'un sciusciuni sullevila all'istanti! E tra ddi brami chi inchiunu l'ariu Cristu porta a so Cruci a lu Carvariu...

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CRUCIFISSIONI

I (SPUGGHIATU) �

O�iurnu amaru, o iurnu di duluri, arriva a lu Carvariu lu Signuri! Giarna la facci, l'ossa rutti e stanchi e 'nsanguinati li so vesti bianchi... U suli già si 'muccia nni muntagni e sciaccanu la sira grida e lagni, e tra ddu 'nfirnu di risali e chianti spogghianu lesti li so carni santi. II (FELI) Cchiù l'ura s'avvicina, cchiù si spacca u cori di Maria chi 'un si stacca mancu un mumentu, un mumentu sulu du Figghiu senza aiutu ne cunsulu, du Figghiu marturiatu senza fini, u Figghiu sangu di so stessi vini! Di viviri lu feli veni l'ura, ma Cristu accetta la so sorti dura e c'un gestu di manu lu rifiuta. La ciurma di li guardii già s'aiuta

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ppi l'attu cchiù 'marnanti di sta scena ristatu a signu da cchiù ranni pena. Vrigogna ppi ccu vivi nni sta terra, vrigogna cchiù da fami e cchiù da guerra! III (CRUCIFISSIONI) E lu martiddu sona la 'ngunia chi si spanni luntanu ppi la via! Cchiù l'ura s'avvicina cchiù si spacca u cori di Maria chi 'un si stacca mancu un mumentu, un mumentu sulu du figghiu senza aiutu ne cunsulu... Du figghiu marturiatu senza fini, u figghiu sangu di so stessi vini Ora a Cruci nnu cilu spingi i vrazza e u chiantu di Maria l'aria strazza! Grida la Cruci all'ariu silenziusu, si 'llorda di lu sangu cchiù priziusu. CORO (INNO ALLA CROCE) Eccu u lignu di la Cruci di la morti e di la gloria, signu amaru nni la storia persa nni l'oscurità!

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Trunu e artaru du Signuri, lignu nobili ppu chiantu chi ci fici Cristu Santu ppi la nostra libirtà! Cruci aiutu di cu spera nni stu timpu di duluri, facci stari cchiù sicuri ppi la tua potistà! Tu funtana di saluti, ppi lu tò sacru misteru 'nsigna a strafa di lu veru a la nostra umanità! IV (CRUCIFISSU 'NSURTATU) Sempri vivu da Cruci scurri u sangu, sciumi chi lava tuttu u nostru fangu, china d'amuri chi riscatta u munnu! e cu tuttu c'è ancora 'ntunnu 'ntunnu quarchi vucca di diavulu chi ridi:

I Vuci: Si 'nu scinni da Cruci, cu 'ci cridi chi sì Figghiu di Dì? Forza, chi fai? Sarvasti a tanti genti n'minzu e guai e un pò fari un miraculu ppi tìa? lecca ssi chiova: tantu sì u Messia!

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V ('DDILURATA MATRI NOSTRA) �

Ma Cristu, già 'cu l'ucchi 'nnivulati, preia puru ppi ddarmi di dannati:

Cristu: Patri, Patri pirdunali: 'un sannu quantu duluri e quantu mali fannu! E vidinnu la Matri afflitta ranni accantu a Idda a pustulu Giuanni duna l'urtimu fruttu du so amuri u Crucifissu nostru Sarvaturi:

Cristu: Eccu tò figghiu, o Donna! O figghiu saggiu, eccu tò Matri: dunacci curaggiu! VI (SCANTU E DULURI) La Cruci contr'u cilu chi si scura minti nni tanti cori la paura, chi 'lluntananza si vidunu i lampi tagghiari l'aria 'ncapu di li campi... Preia Maria sutta di ddu lignu chi di la terra iè l'arbulu cchiù dignu: pari na statua, marmaru 'ncantatu, mentri clangi lu Figghiu svinturatu!

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CORO (INNU O DULURI) �

U duluri iè nu crividdu chi ti trasi nni la testa, è nu vintu di timpesta chi ti renni schiavu so. È nu toru scatinatu, è na petra senza forma è na funna scura gorna chi ti 'nghiutti comu vò. Cianci Maria, ciancinu li stiddi, cianci ccu i pugna 'ncapu li capiddi, cianci comu ciancinu li matri di murti 'mmazzati nni li strati! U duluri iè na ruvetta chi ti ppizza 'risina 'nfunnu, è la fezza di lu munnu chi si roba u sensiu tò. U duluri iè na muntagna chi ti cadi 'ncapu i rini, chi ti 'ntossica li vini, chi ti stocca comu vò. Cianci Maria, cianci a scatta feli e percianu l'ariu i laminteli! E sciddica nnu cori na vaiata da matri nostra, matri sfurtunata!

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Cianci comu na funtana chi ci 'mmazzanu lu figghiu, figghiu duci, figghiu gigghiu, propria sutta l'ucchi so! Rasca u funnu du duluri: mori u so figghiu valenti cunnannatu di 'nnuccenti, cunfurtari 'un si pò! U so duluri arriva atu atu, cianci Maria ccu tuttu lu creatu! U so duluri arriva 'nsina a Dì, cianci Maria e cianciu puru i! VIII (MORTI 'NCRUCI) Già u rintuccu sunà di l'ura nona, u cilu fu spaccatu di li trona, brama lu vintu comu n'arma pazza, trapassa li muntagni e li strapazza... Trona e lampi chi mintunu scantu: tutti capirli chi iera nu santu, a dda genti ci rizzanu li carni e si nni vanu ccu li facci giarni! Tuttu si chjui secunni li Scritturi e bagnatu di sangu e di suduri

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grida, mentr'i so forzi si nni vanu: Cristu: Affidu, Patri, l'arma nni tò manu!

Cala la testa, penni senza sciatu tutt'u corpu di Cristu marturiatu! CORO (MISERICORDIA) Misericordia di st'agiri assurdu: l'omu è comu urbu comu surdu. E mori 'ncapu a Cruci nostru frati u veru Figghiu di l'Eternu Patri. E mori 'ncapu a Cruci senza onuri, senza piccati tra li piccaturi! Misericordia di st'agiri assurdu: l'omu è comu urbu comu surdu. Nni sta valli di lacrimi e turmenti misericordia ppi tò patimenti!

Carmelo Orofino Don Sandro Bernunzo

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GIOVEDÌ SANTO �

����Un giorno chiave della Settimana Santa è certamente il Giovedì. Durante questo giorno, in un clima di attesa e di trepidazione si rinnova l'ultima Pasqua che Gesù Cristo celebrò insieme agli Apostoli e in cui istituì l'Eucarestia e il sacerdozio cattolico, due fondamentali pilastri della religione cristiana. L'Ultima Cena che il Cristo consumò insieme agli Apostoli ha affascinato ed incantato le fantasie di artisti e poeti che con le loro opere hanno fatto rivivere l'atmosfera magica e maliosa, nonché intrisa di religioso mistero, di questo evento che ha cambiato il mondo. Il suo riverbero si è riflesso nelle varie tradizioni popolari e nei riti sacri, che con regolare cadenza ogni anno si celebrano in ogni chiesa cristiana. Anche nel nostro paese in ogni parrocchia, il pomeriggio del Giovedì si rinnova ogni anno questo rito, alla presenza di un folto pubblico di fedeli che segue devotamente lo svolgersi delle funzioni religiose, e vi partecipa con canti sacri intonati alla liturgia. Si celebra in questo giorno la messa in «Caena Domini» durante la quale avviene la lavanda dei piedi. È superfluo ricordare che questo atto ricalca e ripete quello di Gesù Cristo il quale umile e dimesso si prostra davanti ai suoi discepoli e lava i loro piedi in segno di purificazione. In alcune parrocchie, dove questo rito rimane vivo, si imbandisce davanti alla mensa eucaristica una tavola ricoperta di una ricca e preziosa tovaglia, sulla quale vengono disposti in modo ben visibile pane, vino e arance. Una nota particolare merita il pane che viene preparato in varie forme, reso lucido dall'albume dell'uovo sul quale vengono cosparsi semi di «cucuzzedda» e «girgiullina» (semi di papavero). Rappresentano gli Apostoli dodici fanciulli che indossano

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tuniche bianche, mentre Gesù Cristo è impersonato dal Celebrante. Anni addietro a vestire le tuniche degli Apostoli venivano chiamati dei confrati che, data la matura età, partecipavano al rito con più senso religioso. Durante questa cerimonia il Celebrante consacra due ostie, una delle quali viene solennemente riposta in un'urna, esposta poi in un altare appositamente addobbato. In questo giorno la Chiesa sospende per un momento il lutto: ricopre il Crocifisso con un velo bianco, riveste i suoi ministri con paramenti di festa, canta il «Gloria» mentre suonano tutte le campane. Alla fine del rito il Celebrante procede alla denudazione degli altari per indicare che il sacrificio resta sospeso e fino a sabato non sarà più offerto a Dio; infatti il Venerdì Santo la Chiesa, tutta preoccupata dell'adorazione del legno della Croce, non osa rinnovare sull'altare l'immolazione del Golgota. Dopo il «Gloria», le campane restano silenziose, espressione che in dialetto si dice «'ttaccari i campani». Da questo momento il loro suono viene sostituito da quello ligneo della «scattiola» (troccola). Come si è già accennato, l'ostia consacrata, da utilizzare per il rito del Venerdì Santo, viene conservata in un'urna dorata ed esposta solennemente su un altare della Chiesa, il quale impropriamente viene chiamato «u saburcu». Prima a tale scopo si sceglieva un altare laterale, ma ora, specie dopo la riforma liturgica del Vaticano Secondo, spesso si suole usare anche l'altare centrale. Il Sepolcro viene allestito con particolare cura, utilizzando estro e fantasia per renderlo quanto più sontuoso possibile. Fiori e piante di varie specie contribuiscono ad abbellirlo ed il barbaglio delle luci che smaglianti si irradiano sui drappi di svariati colori, che si riflettono sull'oro dell'urna, e sui ricchi

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candelabri, che vibrano e traspaiono dai veli i quali mollemente vengono adagiati intorno all'urna, vi crea contrasti irreali e un'atmosfera strana e suggestiva. Suoi ornamenti particolari sono le palme, usate la Domenica precedente e i «lavuredda». In modo particolare la tradizione «du lavuriddu» è diffusa in tutta la Sicilia; esso viene preparato all'incirca, con leggere varianti, così come dice il Pitré: «Sopra un tondo (piatto) piccolo o grande che si voglia, slargasi tanta stoppa o canapa che basti a coprirlo, nel mezzo vi si sparge del grano, al di sopra quasi in secondo strato delle lenti, torno torno della scagliuola, e si ripone al buio, avendo cura di spruzzarvi sopra dell'acqua di due in due giorni. Tra pochi dì tutto è germogliato e grano e lenti e scagliuola vengono su a vista d'occhio bianchi come cera nel centro, rossastri in giro ...e venuto il mercoledì in cui le chiese apparecchiano il S. Sepolcro, quei piatti fioriti si mandano ad offrire legati e messi insieme i lunghi steli con larghe e bellissime fettucce color rosa». Ancora oggi quest'usanza nel nostro paese non è del tutto scomparsa e sebbene i fiori prevalgono nei Sepolcri, si intravedono in mezzo ad essi «i lavuredda». Tale usanza è certamente antichissima e il Buttitta vi riscontra una simbologia agraria, risalente ad antiche feste pagane. Dice infatti: «D'altra parte malgrado tutti i tentativi di dare un significato cristiano a quest'uso, le sue connessioni con i riti propri alla credenza precristiana in un dio che muore e rinasce col morire e il rinascere della vegetazione sono troppo evidenti... I «Giardini di Adone» piatti di semi di orzo, lattuga e finocchio, fatti germogliare al buio in onore del giovane dio amato da Afrodite sono il precedente più immediato dei nostri 'lavureddi'». A conferma di quanto sostenuto dal Buttitta si può dire che

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alla stessa simbologia agraria, a Barrafranca, si richiamano «le tavolate» di S. Giuseppe, le arance che si usano per imbandire la mensa per la lavanda dei piedi, la frutta usata per addobbare «i nuveri» di Natale e soprattutto le spighe di grano che vengono adoperate per ornare il fercolo di S. Alessandro, compatrono di Barrafranca. Un'altra tradizione, ormai del tutto scomparsa, era quella di abbellire i Sepolcri con ampolle ricolme d'acqua colorata, dietro le quali veniva collocata una candela o un lumino che serviva a rischiararle e a mettere in risalto i colori che si fondevano con l'intero apparato scenografico del Sepolcro. L'uso delle luci elettriche, dei neon e di altre moderne illuminazioni ha certamente determinato la scomparsa di questa usanza. Finito il sacro rito si accendono le luci del Sepolcro e le varie Chiese rimangono aperte per consentire la tradizionale visita. Per le strade, quindi, si nota un viavai di persone che in gruppi più o meno consistenti si incontrano, si mescolano e si dividono. Le Chiese appaiono affollate e movimentate. Uomini e donne, bambini e ragazzi, tutti si mettono in cammino e, percorrendo le vie principali del paese, si recano in visita ai vari Sepolcri: così ognuno, facendo bella mostra di sé e del proprio abbigliamento, si sposta dalla «Matrice» alla «Grazia», dal «Convento» all'«Itria». Le ragazze, in modo particolare, si agghindano con cura e seguite o in compagnia di giovanotti, partecipano anche loro a questo «rito». Tra questa folla che si accalca e si confonde, talvolta si intravedono ancora donnette vestite di nero che rosariando o smozzicando lamentose preghiere, anche loro rendono omaggio a Gesù sacramentato. Tutto il paese è dunque in festa e in questa atmosfera,

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mentre la luna piena, con la sua pallida luce, rischiara il cielo, le case e le strade, si sente il rullare dei tamburi della confraternità, anch'essa in giro, a cui risponde con cadenzato ritmo il suono della «scattiola», tra gli struggenti e penetranti lamenti di gruppi di persone che seguono la confraternita. Così i confrati della sola confraternita rimasta, quella del Crocifisso, ordinati in due file, con la fascia rivolta dalla parte nera, con ceri accesi in mano, si aprono la strada in mezzo alla folla e fanno ala ad una Croce di legno dalla quale pende una fascia bianca e una corona di spine, e percorrendo, per quanto possibile, la «Via dei Santi» si recano in visita ai Sepolcri. Ad una certa ora le Chiese chiudono i loro battenti. A poco a poco si placa il viavai della gente, ma il silenzio profondo in cui cade l'intero paese è interrotto dai lamenti di gruppi che ancora continuano il loro giro, dai canti di passione e dalle preghiere che altri elevano mestamente e con contrizione lungo la «Via dei Santi», soffermandosi un po' in preghiera davanti alle Chiese che si incontrano lungo il percorso. Si è già fatto cenno ad uno strumento di legno che dal pomeriggio del Giovedì fino al giorno di Resurrezione sostituisce le campane. Si tratta della troccola, in gergo locale «scattiola». È uno strumento di legno, costituito da una tavoletta centrale sulla quale è imperniata una tavoletta mobile per lato; il tutto finisce in alto con una impugnatura. Impugnandola ed imprimendo ad essa un veloce movimento di rotazione interno ed esterno, si produce un caratteristico suono a volte sordo, altre volte schioccante. (Vedi tav. n. 4) Esiste anche una variante più piccola, usata particolarmente dai bambini, composta da una tavoletta con impugnatura a manico, alla quale, attraverso due fori, vengono legate con spago altre due tavolette di uguale dimensione.

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Sul perché di questa usanza il Pitré si chiede: «Chissà che una volta non si facesse uso di campane di legno, perché un antico motteggio pronuncia la imminenza della Pasqua: «Campana di lignu, Pasqua 'mpressu»; se pure sotto la figura della campana di legno non voglia intendersi il silenzio che si fa a contemplazione dei dolori del Cristo». Frugando tra le pieghe della memoria popolare, abbiamo appreso che, quando le funzioni del Giovedì Santo si svolgevano nella mattinata, il pomeriggio nella Chiesa Madre si faceva la predica sulla Passione di Cristo, incentrata sulle quattordici stazioni della «Via Crucis» e sui «Sette Dolori di Maria». La gente vi partecipava con entusiasmo e in gran numero assiepava fino all'inverosimile la Chiesa. L'acme della cerimonia si raggiungeva nel momento in cui veniva presentata la statua dell'Ecce Homo e quando il predicatore prendeva la Croce e, tra toccanti invocazioni, schiodava il Crocifisso e gettava i chiodi ai fedeli. Questa tradizione è purtroppo definitivamente scomparsa e ci pare impossibile che venga ripristinata. Riportiamo, a questo proposito, un'antica poesia popolare sui «Sette Dolori di Maria».

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I SETTI DULURA �

Primo dolore A lu primu duluri figghiu fusti, quannu ti nutricaiu e parturiu, quannu a lu santu tempiu ti prisintaiu comu cumanna 'Dì e la santa liggi. Dda c'era u vicchiu santu Simeoni: Maria! Chi beddu figghiu nutricasti sarà cutiddu di la passioni.

Ritornello O figghiu, ppi lu vostru dolci amuri haiu 'ntisu un grandissimu duluri: 'nterra cascaiu e tutta stranguscenti cchiù di l'atri mammi afflitta e dulurenti.

Secondo dolore A li dui dulura figghiu fusti, quannu a Gerusalemmi ti 'nni isti dda c'era lu so patri spirituali: Maria, fuitinni in Egittu! Ca Erodi iè vinutu, tutti li picciriddi s'ha pigghiatu e lu nostru Gesù pigghiari si voli.

Ritornello O Figghiu ecc.

Terzo dolore A li tri dulura Figghiu fusti quannu ti persi tri notti e tri jorna. I' sula ppi li strati iva circannu, un vitti nuddu omu e nudda donna chi nova di tia ma vissu datu. Alzaiu l'ucchi e ti scariu

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a menzu li duttura studiavi. I' ti chiamaiu ccu na riverenza e tu mi rispunnisti ccu ranni sapienza.

Ritornello O Figghiu ecc.

A li quattru dulura Figghiu fusti quannu ti 'ttaccaru a la santa culonna. Strittu, ligatu, 'ncrucifissatu chinu di sangu e di sudura lavatu. 646 (o 363) furu li curpi di li scurrienti chi battiru lu nostru Signuri.

Ritornello O Figghiu ecc. Quinto dolore A li cinqu dulura Figghiu fusti,

quannu 'cchianasti dda aspra muntata la Cruci 'ncuddu, la catina a lu gula nudu, scazu iè siccu di la siti. Ha dumannatu acqua e u 'nni potti aviri: ci dittiru feli e acitu trapassatu. O Dì, chi ti putissi dati aiutu!

Ritornello O Figghiu ecc.

Quinto dolore A li sia dulura Figghiu fusti, quannu ti misiru a la santa Cruci e ti 'nchiuvaru di pidi e di manu, na lanciata a lu custatu ti traru: chi sangu priziusu chi curriva e l'angilu Gabriele lu cugghiva, cruni d'oru a li virgini faciva.

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Ritornello O Figghiu ecc.

Settimo dolore A li setti dulura Figghiu fusti, quannu ti scisiru di la santa Cruci, 'mbrazza di Maria t'hannu datu; a lu santu finimintu ti purtaru scumpagnatu d'amici e di parinti. Maria chi va gridannu a ata vuci: Figghiu mi'! Si murtu 'n Cruci!

Ritornello O Figghiu ecc. Trascriviamo, inoltre, la seguente preghiera popolare, poiché è strettamente collegata alla prima e ne costituisce il completamento.

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I SETTI DONITI �

O�santa Matri echi m'atu dittu e echi m'atu cuntatu sti setti dulura l'atu dittu pi mia. Ci forra qualchi omu o qualchi donna cinquanta iorna l'anno li dina. Cu 'nu li sapi si li facissi diri Tu Figghiu a lu primu dunitu chi ci daria? Ci dassi paci e concordia a la casa sua.

Ritornello: Lassatu dittu di la vucca mia

ppi lu vostru dolci amuri, o Matri mia! Tu Figghiu a li du duniti chi ci daria? La facissi netta e pura di piccati.

Ritornello: Lassatu...

Tu Figghiu a li tri duniti chi ci daria? 'un ci facissi vidiri lu 'nnimmicu a la morti

Ritornello: Lassatu... Tu Figghiu a li quattru duniti chi ci daria? La librassi di li peni di l'inferni.

Ritornello: Lassatu... Tu Figghiu a li cinqu duniti chi ci daria? Civatu d'erba e di radichi sicchi

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Ritornello: Lassatu... Tu Figghiu a li sia duniti chi ci daria? La seggia di so Patri accantu a lu Spirdu [Santu.

Ritornello: Lassatu... Tu Figghiu a li setti duniti chi ci daria? La gloria di lu santu Paradisu Ditta sta orazioni 'n cuntu nustru dicimmu na Firmarla e un Patri Nustru.

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ROSARIO DEL GIOVEDÌ E VENERDÌ SANTO

Mistero: O santa Cruci bedda di cu fustivu adurata di Marta ie Maddalena ie di la gran Matri 'Ddulurata (Pater Noster e Ave Maria) A lu pedi di la Cruci c'è la Matri 'Ddulurata ie la Maddalena cianci cu li lacrimi abbunnati. VISITA AI SEPOLCRI 'Ndi stu saburcu santu c'è chiusu nostru Signuri. Morsi 'ncruci e patì tantu ppi nuatri piccaturi. Ppi lu vostru santu sangu, pirdunatimi, o Signuri! (cinque volte)

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VENERDÌ SANTO �

����II�venerdì Santo è il giorno in cui si commemora la morte di Gesù Cristo sulla Croce. È giorno di gran lutto, e il dolore è il suo tema dominante. I patimenti dell'Uomo-Dio in questo giorno diventano l'emblema dell'umanità sofferente e ognuno si identifica nel dolore di Cristo, partecipandovi intensamente. È questa la festa più attesa dell'anno nella quale, specialmente durante il pomeriggio la corale partecipazione popolare raggiunge il culmine. Per i Barresi è la festa che «non si tocca», la quale, anche se con lievi cambiamenti dovuti all'evoluzione dei tempi, è rimasta integra nel suo significato intrinseco, forse perché in essa fede e folklore riescono a fondersi in una simbiosi inimitabile, che non consente il prevalere di un aspetto sull'altro. La mattina del Venerdì Santo si svolge la processione dell'Addolorata. Era tradizione che la processione avesse inizio dopo l'arrivo della Confraternità di S. Alessandro, la quale aveva diritto a portare il fercolo, in seguito ad un contratto stipulato con la Confraternita della Chiesa Grazia, chiamata del S.S. Sacramento. Tale contratto prevedeva la cessione da parte della Confraternita del S.S. Sacramento del diritto di portare l'Addolorata, in cambio dell'uso della cripta della Chiesa Madonna per seppellirvi i propri morti. Esistevano, infatti, nel nostro paese, secondo la testimonianza della popolazione più anziana, numerose Confraternite, come quella di S. Giuseppe, del S.S. Sacramento, e di S. Alessandro già citate, della Nostra Signora del Sacro Cuore, della Madonna della Catena, dei Terziari di S. Francesco ecc... Tutte partecipavano alla processione, ognuno con la propria bandiera, i propri tamburi e le troccole. Si disponevano su due file e indossavano la fascia che le distingueva dalla parte nera.

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����A�questo punto ci sembra doveroso fare un piccolo accenno alla organizzazione delle Confraternite. Esse servivano a tener viva la fede e prendevano parte a tutte le manifestazioni religiose della propria parrocchia nonché a quelle di carattere cittadino. I soci che si impegnavano a rispettare lo statuto, eleggevano il consiglio d'amministrazione, formato da un Governatore, da un vice Governatore, tré consiglieri, un segretario, un cassiere, un presidente di disciplina, due consiglieri di disciplina. Esistevano anche altre cariche, come quella degli zelatori in numero di tre con il compito di avvisare i componenti della confraternita. Accedervi non era facile. Chi sporgeva domanda, doveva prima superare, dietro un attento esame, il periodo di noviziato che durava un anno. Come si può evincere da quanto detto, gli scopi che le Confraternite si prefiggevano erano nobili ed alti ma, come purtroppo spesso avviene con il passare del tempo, essi non trovarono un'efficace realizzazione e si cominciò ad assistere ad un loro rapido declino e alla loro decadenza, fino al punto che, giovani preti, animati da spirito innovatore, le lottarono e nella maggior parte dei casi le sciolsero. L'unica che ancora sopravvive è quella del S.S. Crocifisso. Essa è composta da quarantaquattro soci; la contraddistingue una fascia a doppia banda una rossa e l'altra nera, al centro della quale spicca l'immagine del Crocifisso e termina con una nappa bianca. Ultimamente per interessamento del parr. Giuseppe Bonfirraro è stata rifondata, presso la parrocchia Maria S.S. della Stella, la Confraternita di S. Alessandro. (Vedi tavv. n. 19 e 7) Oggi, quindi, per iniziare la processione dell'Addolorata si attende solo la Confraternita del S.S. Crocifisso. Il giorno prima, intanto, è stato preparato il simulacro

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dell'Addolorata. La vestizione, curata da gente esperta, viene eseguita con abilità e devozione. Ad una struttura in legno, che costituisce la parte centrale ed interna del simulacro, vengono applicati la testa, le mani e i piedi in legno scolpito. Quindi si procede alla vera e propria vestizione. Per dare forma e consistenza alla struttura lignea, vengono utilizzate diverse sottovesti, alle quali si sovrappone una veste nera di tessuto prezioso, riccamente ricamata e decorata con perline e pagliuzze nere. Dal capo, scende giù un ampio mantello dalle larghe pieghe che l'avvolge tutta. La tonalità nera dominante, mette in risalto il volto cereo della Madonna, che è atteggiato ad una espressione di dolore profondo e rassegnato. Le gote pallide, esangui sono rigate da lacrime che sgorgano dagli occhi con le palpebre mestamente abbassate. Un pugnale argentato e finemente lavorato, simbolo del dolore umano, immagine concreta della profezia del vecchio Simeone, le trafigge il cuore. In una delle mani, inguantate di nero, tiene un candido fazzoletto, unico punto luminoso tra tranto nero, con il quale, di tanto in tanto, grazie ad un particolare congegno che le consente di alzare le braccia, si deterge le lacrime. Il simulacro viene collocato su una bara sormontata da un baldacchino di velluto nero orlato con frange argentate e sorretto da quattro aste metalliche inghirlandate. (Vedi tavv. n. 5 e 6) È difficile stabilire con esattezza l'anno in cui è stata istituita questa processione e di conseguenza la datazione del simulacro. Da interviste effettuate a persone anziane che rimembrano anche le testimonianze dei loro avi, si può dedurre che questa processione si svolgeva già nei primi anni del secolo scorso. Se a ciò si aggiunge che simulacri simili sono diffusi nell'intera area siciliana e che in molti paesi della Spagna sono

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�altresì diffusissime e radicate manifestazioni e processioni in cui si usano simulacri addobbati alla stessa maniera, si può supporre che la tradizione sia stata introdotta in Sicilia a seguito della dominazione spagnola. Considerato poi il fatto che tale processione è prerogativa della Chiesa Grazia e che non si ha nessuna notizia che altre processioni simili venissero

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effettuate in altre chiese, si può stabilire con certezza una data oltre la quale non esisteva tale manifestazione, e sarebbe il 1600 circa, data di fondazione della Chiesa. Vana è stata la ricerca di documenti concernenti il simulacro dell'Addolorata negli archivi parrocchiali del paese, per cui allo stato attuale delle ricerche, non possiamo riferirci a nessuna data precisa. Un certo valore artistico si può riscontrare nella delicata fattura del volto, nel quale l'anonimo esecutore ha saputo infondere con abili tratti, la tragedia umana del dolore. Suggestivo elemento coreografico della processione è la figura dell'Apostolo Giovanni. È questo uno degli imponenti «Santoni», di cui parleremo più diffusamente in seguito, sostenuto a spalla da un portatore celato dalla lunga tunica dell'Apostolo. Esso partecipa alla processione senza nessun ornamento e, in segno di lutto, indossa solo una fascia nera. Il suo volto, a confronto di quello degli altri santoni, è il più aggraziato e il più ben modellato, tanto che il popolo barrese lo assume a simbolo di bellezza. Infatti un detto popolare suona così:

«Biddu comu S. Giuanni». (Vedi tav. n. 5) Alcuni spari di mortaretti annunziano l'inizio della processione. Ad essi fanno eco il rullio cadenzato dei tamburi e il suono delle «scattiole». Lentamente dal sagrato della Chiesa si snoda la processione. Tra due ali di folla silenziosa, e a volte commossa, sfila la Confraternita del S.S. Crocifisso, a passo lento sottolineato dal mesto suono del tamburo; seguono delle bambine vestite da «monachelle» o da «addolorate»; quindi il simulacro dell'Addolorata portato a spalla da ragazze in divisa, accompagnato da S. Giovanni. Segue poi il gruppo dei lamentatori, la banda musicale che esegue tristi marce funebri, e il popolo.

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Particolare è la suggestione che emana da tutto l'insieme; e il popolo così coinvolto si stringe intorno al simulacro con intenso pathos religioso. A sottolineare tale clima contribuisce l'aspetto del cielo, spesso velato da nuvole grigio-chiare, tra le quali ogni tanto raggi luminosi di sole rischiarano le vie e riaccendono col loro apparire i colori.

In questa atmosfera si svolge la processione dell'Addolorata che dopo aver percorso la Via Ferreri Grazia, la Via Crispi e parte della Via Vittorio Emanuele, inizia la «Via dei Santi» dalla Chiesa Madre. (Vedi tav. n. 7) Questa processione rappresenta la ricerca del Figlio da parte della Madonna, accompagnata da S. Giovanni, Apostolo prediletto di Gesù, a cui dall'alto della Croce aveva affidato sua Madre. Così infatti dice il Vangelo: «Donna ecco tuo figlio»; poi

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disse al discepolo: «ecco la tua madre». E da quel momento il discepolo la prese con sé» (Giov. 19). Questo passo spiega la presenza di S. Giovanni, che di tanto in tanto, mentre l'Addolorata si asciuga col fazzoletto bianco le lacrime, si volta verso di lei in segno di protezione e conforto, con gesto carico di simbolismo religioso ed umano. Le «monachelle», come abbiamo già accennato, contribuiscono ad arricchire con la loro presenza la coreografia della processione. Queste sono delle bambine, che indossano alcune, un abito bianco che si usa di solito per la Prima Comunione, con appeso al collo un nastro nero da cui pende un Crocifisso; altre, «le addolorate», una lunga veste nera e un nero mantello ornato di stelle e lune argentate; nel loro abbigliamento spiccano un colletto e un grembiule bianco; (vedi tav. n. 8) altre ancora, si presentano vestite allo stesso modo delle «addolorate» con la sola variante del grembiule in cui è raffigurato il volto di Cristo, per cui si potrebbero denominare «veroniche». In modo particolare colpiscono e toccano l'animo del popolo gli struggenti canti di dolore che gruppi di persone guidate da un corifeo, il quale per autoascoltarsi dirige la voce con la mano davanti alla bocca verso l'orecchio, eseguono con passione e partecipazione in tutte le manifestazioni pubbliche del Giovedì e del Venerdì Santo. (Vedi tav. n. 7) Sono canti che ai vocalizzi isolati della voce solista fanno seguire, quasi eco penetrante le risposte del coro. Sono diffusi in molti paesi della Sicilia specie nelle province di Agrigento, Caltanissetta ed Enna. Da noi si chiamano «lamenti»; in altri paesi «ladate o lamentanze». Così li descrive il Buttitta: «Sono canti polifonici, dalla struttura polifonica modale, simile a quella del canto liturgico bizantino, che giocano i loro effetti sul prolungamento di certe note, in particolare le finali».

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����Le descrizioni in questi casi non sono sempre efficaci e spesso non riescono a farne gustare la bellezza, perché le parole diventano aride; la cosa migliore sarebbe ascoltarli dal vivo. Una descrizione comunque, confacente e completa ci sembra quella riportata dal Giornale di Sicilia di giovedì 27.3.1986 e riferita a don Salvatore Callari. La trascriviamo per intero: «II cantore solista, con gli occhi chiusi, ma rivolti al cielo, quasi per trame ispirazione e forza, scivolando sulle sillabe di un discorso melodicamente frammentario, declama, quasi gorgheggiando, i versi della laude, della «lamintanza». La sua voce si fa via via più insistente, accorata, si inerpica tra le asprezze del suono fatto sempre più acuto e quando il fiato pare esaurirsi in uno spasimo doloroso e lancia nell'aria l'ultima sua nota, interviene il coro che con incredibile destrezza la assorbe in una sonorità più ampia e riposante e consente agli ascoltatori di riprendere il respiro che sembrava bloccato, fissato tenacemente al delirio di quella voce ondeggiante». Diffìcile è stabilire a quale epoca risalgono tali lamenti; dalla melodia si direbbe che siano di derivazione orientale. I testi, aventi per tema la Passione di Cristo e i dolori di Maria, sono anonimi e si sono tramandati oralmente da padre in figlio. In alcuni passi notevole è il loro valore artistico, poiché rispecchiano con la loro semplicità e con la purezza della loro ispirazione il sentimento umano e religioso di tutto un popolo. A testimonianza di quanto affermato riportiamo alcuni brani da «U Visitu da Madonna»: Cu ha pirsu un figghiu lu pò cunsidrari comu rista l'amara di Maria: «Persi a ma Figghiu è comu vugghiu fari e di lu cori sa pirsu la via» (...)

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lè mentri mori murtarimi lu vuliti, quantu ci dugnu l'ultimi basati; mentri voli accussì lu Patri Eternu, Figghiu pati sta acerba Passioni. A mia mi manca la forza e la lena, chi ti ciancissi dulurusamenti forza nun haiu, Figghiu mi 'nnuccenti, chi ti ciancissi pietusamenti. Dai «Lamenti» Giuda ci dissi: Avanzammu lu passu, nun fari chi si 'mmuccia ppi la via, quant'avi chi circammu Gesù a sciammu cca davanti l'avimmu e l'adurammu. Ciancinnu si partì dda vera donna, chissà si lu vidissi in quarchi banna, si vota e lu va vidi a la culonna. Pilatu sta ppi fari la cunnanna «Ma tu Pilatu nun nunziari, taci, morti nun dari a lu Figghiu duci, ti pregu in curtisia, si ti piaci di mintiricci a mia supra sa Cruci». La spontaneità e la freschezza della fantasia chiaramente risaltano da queste brevi citazioni, che ci avvingono e ci commuovono con le loro toccanti espressioni, anche se spesso non sono tanto logiche e razionali. La processione, come si è detto, inizia il percorso della «Via dei Santi» dalla Chiesa Madre e si conclude davanti al sagrato della medesima Chiesa. Anticamente il rito liturgico del Venerdì Santo si effettuava la mattina e quindi, dopo la

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conclusione della processione, prima di riportare, sempre in processione, l'Addolorata nella sua Chiesa, si faceva sostare nella Chiesa di S. Giuseppe, ora demolita, sita di fronte alla Chiesa Madre, per consentire ai confrati delle numerose confraternite di fare «I tri caduti». Con questa espressione si soleva intendere l'adorazione della Croce, che non solo i confrati ma anche il popolo compivano a piedi scalzi, a due a due, inginocchiandosi tré volte lungo il corridoio della navata centrale della Chiesa Madre, prima di baciare i piedi al Crocifisso. Ora il rito liturgico del Venerdì Santo si svolge nel primo pomeriggio per rispettare il passo evangelico da cui si apprende che, quando Gesù spirò, era l'ora nona. Le differenze tra il rito antico e quello moderno non sono sostanziali. Il rito antico si componeva di quattro parti che si chiamavano: 1) Messa dei catecumeni, 2) Orazioni, 3)Adorazione della Croce, 4) Messa dei Presantificati, così chiamata perché non si trattava di una vera messa, ma di un rito durante il quale si consumavano le Sacre Specie consacrate il giorno prima. Di qui il nome di Messa dei Presantificati, essendo le offerte già santificate. Il rito moderno si compone anch'esso di quattro parti che in seguito alla riforma del Concilio così si chiamano: 1) Liturgia della pa- rola, 2) Grandi preghiere d'intercessione, 3) Adorazione della Croce, 4) Comunione. In alcuni paesi il rito del Venerdì Santo si suole chiamare con un'espressione impropria ma significativa «menza missa», per sottolineare che non si celebra la Santa Messa. Diffuso è in questo giorno l'uso del digiuno che non è tradizione popolare, ma precetto della Chiesa. Molte persone oltre a digiunare, il Venerdì Santo si astengono dai cibi preferiti per accentuare ed avvalorare la loro astinenza; altri,

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invece, prolungano il digiuno fino al sabato. A proposito dice il Pitré: «Molti, difatti, non gustano cibo dal Giovedì al Sabato Santo o alla Pasqua: ciò che si dice «trapassu» non ignoto a molte devote persone anche oggidì». Questo uso, specie tra le persone anziane, è ancora diffuso a Barrafranca. La processione dell'Addolorata si conclude verso le ore quattordici e da quel momento l'attenzione del popolo si rivolge alla processione del Crocifisso che sarà l'avvenimento centrale del pomeriggio e della serata. Enorme è l'interesse che il popolo barrese manifesta verso questa processione. È per esso come un rito intoccabile che, avuto in consegna dai padri, conserva gelosamente come un prezioso tesoro. Di essa si va orgogliosi ed ogni programma familiare per quel giorno è organizzato intorno a questo avvenimento. Il paese, allora, sembra gonfiarsi a dismisura e molti emigrati ritornano per assistere a questa processione o per inserirsi in essa da protagonisti. È il grande giorno in cui le potenzialità fisiche e psicologiche di ognuno vengono esaltate e la passionalità e l'esuberanza propria del popolo siciliano rompe i suoi argini e trabocca con forza travolgente. È il momento in cui le vie, le piazze, i vicoli, adiacenti al tragitto, si trasformarono in un grande palcoscenico sul quale ognuno recita la propria parte e da grande attore riceve la gratifica, il plauso e l'ammirazione degli altri. Si tramanda che il Crocifisso, che viene portato in processione, sia stato rinvenuto in contrada Rastrello in modo miracoloso. Si racconta infatti che l'impiegato di un contadino di nome Antonio Ingala, mentre arava il podere, si accorse che il vomere dell'aratro non riusciva ad andare avanti, poiché aveva incontrato un ostacolo. Volendo liberarlo, scoprì che si trattava di una lastra di pietra con un grosso anello di ferro al centro. Con stupore, dopo averla rimossa, si trovò davanti un

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Crocifisso al centro di una grande raggiera con lucerne incredibilmente accese. Riportiamo, a proposito una testimonianza di una discendente di Antonio Ingala, registrata alcuni anni or sono e interessante e preziosa, dato che la signora Rosa Ingala è ormai scomparsa. «C'era u' 'mpiegatu di ma catanannu, chi lavurava, giustu iè, ci 'mpiccica a punta d'aratu, a Rastiddu, giustu iè, unna stami livannu ssà rina, nnu puntu unna si sparti Petrapirzia cu Barrairanca, ncapu straluni, 'nfacci frunti du straluni, i sparti u vadduni, di sta banna c'è Barrafranca, di dda banna Petrapirzia. Allura, o nostru discursu, allura, ci 'mpiccica a punta d'aratru. A 'mpiccicata da [punta d'aratu, arraccà arraddà, arraccà arraddà, chiddu nun si putiva livari, ddi vistii nun si putivuni spidicuddari. Lassa i cuddani, iè vitti chi iera 'mpiccicata a vommira ndi na buccula tanta. «Mi- pa» dici, «mi! Cca grana» dici, «c'è, cca grana c'è». Richiesta l'epoca alla quale risale la scoperta, l'intervistata risponde: «Beh, beh, beh...! Avi cchiù di du cent'anni, du cent'anni e quartoddici, quinnici, sidici ... 'nsumma dducu sa rimina». Domanda: chi lo trovò? «Ma catanannu 'Ntoniu, ma catanannu 'Ntoniu, ma catanannu 'Ntoniu, u truvà. 'Nsumma o nusciu discursu. Allura, pigghià, chi fici u' 'mpiegatu? Ci tra u stirru di 'ncapu, u tirrenu di 'ncapu

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di dda valata, spingi a valata, iè gghiè truvà, sta spera, u Signuruzzu, no chistu, ma chiddu chi iè a Matrici. Chistu iddu ci u dittiru, chistu iddu ci u dittiru, iè vicchiu e iè di carta: Vidi chi ci stanu cadinnu i piduzzi? Ci stanu cadinnu i piduzzi, i vrazzudda vide. Ora fu! Nne chi fu airi! O nusciu discursu. Allura ha pigghiatu, figghiu mi, chiddu lassa tutti cosi e vinni. Ci su' du' finestri 'nda fossa, una di ccà... una di 'ntesta e una di pidi. U truvaru cu i lumeri di crita, chi ddumavanu, ancora ddumavanu i lumeri di crita! Grazia di Dì! La to fidi t'ha sarbatu. Gioia! Ha pigghiatu, figghiu mi, lassaru di lavurari iè vinni, vinni ma catanannu e dissi: «echi fa? Si ruppi a 'ratu, chi vinisti?» «Nonsi, dici, chistu, chistu, chistu, e chistatru». Allura, ma catanannu cch'aviva, ma catanannu, un frati parrinu chi ci dicivanu u' parrinu Carceranu... 'Nsumma pigghiani u' parrinu dici: «Lassammu scuriri, dici, chi u immu a pigghiari». Ficiru scuriri, mannò su purtavanu a Petrapirzia, aggiru a Cava. Ha pigghiatu, figghiu mi! Chi ficiru? U iè pigghiaru a sira. U parrinu Carceranu, a sira, su purtà 'ncasa, ccà 'nfacci frunti di mia, a facci frunti di mia. Su misi dducu, iè a [matina u Signuruzzu u truvà 'nterra, a Cruci misa, a spera misa, iè u Signuruzzu 'nterra. «Mipa, dici, chista un iè cosa giusta, dici, ccà u Signuri 'un iè 'ncasa so, dici». Chiddu u parrinu iè, si pirsuasi. Ha pigghiatu, «ora vidimmu, dici, dumani, dumani, [dici».

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O�'nnu mani matinu, arriri 'nterra. «Beh, beh, ^eh... dici, purtammulu 'nni quarchi chisa dici, nem vidimmu, dici, vidimmu». Ma catanannu cch'aviva? Cinqu figghi masculi e una fimmina, chi iera a catananna du parrinu Danieli...». Ha pigghiatu, [figghiu mi, chi fici? O 'mpassannu dumani matinu, arriri 'nterra. U purtaru a Madonna, tri matini 'nterra; «Purtammulu a Madonna, alii voti dda c'è a [Madonna, dici, dda, dici, ci sta»: 'nterra. U purtaru a Matrici: «nenti, ccà, dici, iè a so chisa, dici, ccà iè 'ncasa so». «Allura dici, m'ha dari cu tutta a spera, cu tutta a Cruci». «Chissu, dici, nenti! I, dici, aiu cinqu figghi masculi iè una fimmina iè anu tutti li figghi, iè ora u sapiti cu truvaiu, dici. Cca n'antri cent'anni, dici, l'eredi mia vanu apprissu o Signuruzzu, dici, «U truvà ma catanannu», dici, «cca voscia vucca sa echi vuliti diri diciti» ma avinnu u documentu, dici, ci cridinu». Ha caputu, gioia!» (Vedi tav. n. 12) In quale data collocare tale ritrovamento è difficile stabilire. Secondo il Giunta, la notizia più antica che si riferisce al Crocifisso, sarebbe un atto del 1662 e quindi arguisce che il suo ritrovamento sia avvenuto in data antecedente. Dice, infatti: «Negli atti di Notar Scipione Sortino si trova che i confrati del S.S. Crocifisso di S. Sebastiano gli vollero erigere una nuova cappella nel 1662». Sempre dal Giunta apprendiamo che «presso la famiglia

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Ingala si conserva ancora l'antica Croce su cui era collocato, come ancora la raggiera di legno che gli stava attorno». Abbiamo avuto modo, in proposito, di verificare personalmente l'esistenza presso tale famiglia degli oggetti citati dal Giunta e siamo rimasti colpiti dalla accurata rifinitura della raggiera che si presenta in forma ovale e ornata da piccoli angeli in legno scolpito. Sotto la coloritura attuale si può intravedere quella precedente di colore oro. Abbiamo inoltre constatato che, allo stato presente, alla raggiera manca qualche parte o qualche ornamento, poiché, dice la signora Rosa Ingala, i componenti della famiglia, nel corso dei secoli se ne sono impossessati per ricordo. Grande è la venerazione che il popolo barrese ha verso questo Crocifisso ed è proprio questo che viene portato in processione il Venerdì Santo. Ma da quando, ci chiediamo? Dato che le processioni del Venerdì Santo hanno un'origine molto antica in Sicilia, considerata la devozione particolare di cui è oggetto e i fatti miracolosi legati al suo ritrovamento, possiamo quasi certamente affermare che sia stato sempre questo Crocifisso ad essere portato in processione, ma non possiamo lo stesso dire quanto abbia avuto origine «U Trunu», cioè a dire la sua macchina processionale. L'unica data a nostra disposizione è quella del 1821, data in cui fu costruito l'attuale «firrizzu». Analogie con il nostro «Trunu», per quanto riguarda la macchina processionale, si possono riscontrare con «U Signuri di Fasci» di Pietraperzia, ma neanche di questo siamo a conoscenza di una data certa per quanto riguarda la sua istituzione che, secondo don Giovanni Messina, potrebbe collocarsi nel 1700. Il Crocifisso di stucco e cartapesta è un'opera interessante anche per quanto riguarda il valore artistico ed allo stato attuale, se non si vuole che vada in rovina, necessita

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di un'immediata opera di restauro, in quanto risulta deteriorato in molte sue parti. Così lo descrive il Vicari: «L'autore a noi sconosciuto ci pone davanti un Cristo umano e sofferente, scheggia contorta, che coinvolge emotivamente l'osservatore. Il brano chiave della composizione è il torso del Cristo, indagato e fissato con preoccupazioni naturalistiche, che trovano nella presenza corporea, condensata nell'anatomia, il fine di una ricerca precisa, operata sulla realtà visibile. La luce acuisce le asperità anatomiche e dà vita al modellato in un dettato variatissimo, dinamico, lancinante, anche se lontano dalla esasperazione tragica. Anche le braccia, pensiamo volutamente sproporzionate con le mani rispetto al resto del corpo, le gambe e il perizoma risultano attentamente risolti. La testa, già col rifiuto dell'angosciata inclinazione sulla destra, e i capelli, tesi e coinvolti nel tormento generale che ne determina lo sconvolgimento, riconfermano le intenzioni fondamentali dello scultore, che concede solamente al particolare della bocca socchiusa la presenza dell'agonia e della morte». La macchina processionale del cosiddetto «Trunu» è composto da diverse parti. Quella centrale e fondamentale che contiene i meccanismi i quali consentono di far sollevare l'asta centrale e in cui vengono inserite «le baiarde», viene chiamata «firruzzu», struttura parallelepipeda formata da travi di legno. Al centro di essa s'innalza una grossa asta di forma quadrilatera di cui ogni lato è cm. 20 anch'essa di legno, e alta circa due metri. Ai quattro angoli del «firruzzu» sono inserite altrettante piccole aste di metallo che portano in cima delle lanterne, a ricordo delle numerose lanterne che accompagnavano l'antica processione. (Vedi tavv. n. 13 e 15) L'asta sostiene in cima una grande sfera di circa un metro di diametro. Essa è costruita in lamiera di colore azzurro,

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sulla quale si notano delle piccole aperture rotonde, chiuse da vetri colorati. Un tempo dentro il globo, che rappresenta il mondo e che viene denominato «u munnu», venivano collocate delle lucerne, che facevano trasparire la luce attraverso i vetri. Sopra questo globo viene inserita «la spera», cioè la raggiera metallica che contiene il Crocifisso. Essa non regge minimamente il confronto con l'originale e, stranamente, non è neppure la sua imitazione. La manifattura non è tanto curata e non è opera di artigianato artistico, ma, a nostro parere, è stata costruita al solo fine di sostenere il Crocifisso e la grande quantità di «scocche» svolazzanti, che la ricoprono interamente, come una nuvola variopinta, da tutte le parti, lasciando appena intravedere il Crocifisso e gli innumerevoli ex-voto di oro che lo ricoprono e che mandano barbaglii luminosi sotto la luce intensa dei riflettori. (Vedi tav. n. 12) Offrire oggetti d'oro in ringraziamento di una grazia ricevuta è una caratteristica diffusa nel Meridione e paricolarmente in Sicilia. Nel nostro paese tale usanza è abbastanza praticata e prevale in questa occasione. Infatti, numerosissimi sono gli anelli, le collane, i bracciali e altri oggetti d'oro di cui i fedeli si privano per offrirli in dono a Gesù Crocifisso, quasi pegno e ringranziamento di una grazia ricevuta. Essi sono raggruppati e attaccati a dei panni rettangolari che rivestono quasi interamente il corpo e le braccia del Crocifisso. Non si sa con precisione chi, poi, custodisca questo piccolo tesoro, ma da fonti attendibili abbiamo appreso che viene conservato in una cassetta di sicurezza della Banca d'Italia. Tra gli ex-voto, particolare attenzione merita una pallottola, per l'avvenimento miracoloso a cui è legata. (Vedi tav. n. 12) Si narra, infatti, che durante una delle processioni sia

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avvenuta una sparatoria ma che miracolosamente nessuno sia rimasto ferito e che una pallottola sia stata ritrovata nella tasca del «giubbino» di uno dei portatori. Gli ex-voto tipici di questa festa sono le cosiddette «scocche». Esse sono costituite da due parti. Quella superiore si presenta a forma di grande fiore rotondo i cui petali sono formati da nastro colorato a forma di voluta, sostenuta all'interno da cartone. Tutto il centro della «scocca» è ripieno di stami e pistilli artificiali. La parte inferiore è costituita da due lunghi nastri svolazzanti a larghe bande che si dipartono l'una accanto all'altra dalla parte superiore e terminano con frange dorate. I nastri e le volute sono spesse ornati da fregi di carta dorata. Le «scocche» sono certamente un ornamento barocco e se sono prevalentemente usate in questa processione, qualcuna, cioè una o due al massimo, viene utilizzata anche nelle altre, allo scopo di attaccarvi le banconote offerte dai fedeli. (Vedi tav. n. 12) Tutto il congegno o la macchina processionale viene portato a spalla tramite due grosse e lunghe travi di legno che vengono chiamate in vernacolo barrese «baiarde». Esse hanno gli spigoli smussati e per la loro larghezza consentono ai portatori di disporsi in doppia fila, una esterna e l'altra interna. (Vedi tavv. n. 13 e 15) Dal Giunta apprendiamo che l'asta, alta prima un sei metri, fu accorciata nel 1926, in occasione del funzionamento della rete elettrica nel nostro paese, per non urtare i fili e i lampioni posti ad una altezza poco elevata. Si può presupporre a questo punto che in quella occasione siano state accorciate anche le «baiarde»: infatti abbiamo notizia che quelle antiche contenevano centoventi posti, mentre quelle attuali hanno cento posti in numero progressivo. È tradizione diffusa che

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per costruire una delle attuali «baiarde», sia stato utilizzato,un pino che cresceva anticamente nel luogo attualmente denominato Viale Regina Margherita. Le «baiarde» presentano alle quattro estremità dei rinforzi in ferro con filettature alle quali vengono avvitate le «buccule», che sono dei grandi e robusti anelli di ferro che servono a dirigere o a frenare la macchina processionale. Le «buccole» non sono di prorprietà della Chiesa, ma appartengono a determinate famiglie, che rivendicano tale diritto con atto notarile e se le tramandano da padre in figlio. Siamo a conoscenza che le due «buccole» anteriori appartengono alle famiglie Patti e Ingala, mentre quelle posteriori alle famiglie Avola e Farchica. I portatori «ufficiali» sono cento, suddivisi cinquanta per ogni «baiarda». Più portatori sono assegnati ai posti esterni; meno ai posti interni a causa dell'impedimento del «firrizzu». L'organizzazione della festa del Crocifisso è affidata dal parroco della Chiesa Madre a dieci confrati della omonima Confraternita, i quali formano così la commissione organizzatrice, composta da un presidente, da due confrati addetti al funzionamento della «maniglia» destra e da altrettanti addetti a quello della «maniglia» sinistra; da un confrate addetto al «chiodo» che serve per fissare e fermare l'asta; da un addetto alla «trafitta», bullone da inserire nel «chiodo». Un altro è assegnato alla «corda» che fa parte del congegno dell'argano, altri due, forti e robusti, prendono il posto sul «firrizzu» per essere pronti ad aiutare a sollevare l'asta. Un ultimo componente della commissione ha il compito di raccogliere e custodire le offerte, che vengono introdotte in una cassetta. La stessa commissione ha il compito di selezionare i portatori. Per questa operazione si segue una prassi ben

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precisa. Due domeniche prima di Pasqua e cioè la Domenica di Passione e la Domenica delle Palme si ricevono le iscrizioni delle persone maggiorenni che hanno intenzione di portare a spalla «U Trunu» e che di solito raggiungono un numero molto elevato. All'atto dell'iscrizione si da un'offerta. Il Martedì Santo, dato che le iscrizioni superano di gran lunga il numero di cento, si procede al sorteggio a cui assistono due vigili urbani. I sorteggiati vengono divisi in tre gruppi, secondo l'altezza. Fanno parte del primo gruppo coloro che superano l'altezza di un metro e settanta centimetri; del secondo chi ha un'altezza che varia da un metro e sessanta centimetri a uno e settanta; del terzo gruppo fanno parte i più bassi, da un metro e sessanta centimetri a uno e cinquanta. Questa suddivisione serve per disporre i portatori lungo le «baiarde»; infatti quelli del primo gruppo, in numero di quaranta vengono disposti lungo le «baiarde» anteriori; quelli del secondo gruppo, sempre in numero di quaranta, lungo le «baiarde» posteriori; i rimanenti, facenti parte del terzo gruppo, al centro. Ma tale disposizione viene rispettata solo nel momento dell'uscita dalla Chiesa, perché subito dopo tutti gli schemi vengono stravolti. L'uso del sorteggio è stato introdotto da poco, poiché prima era la commissione stessa a scegliere i portatori. Ma questo metodo faceva sorgere facilmente il malcontento in chi non veniva prescelto e suscitava tanta ira da spingere alcuni ad atti di minacce e di intimidazione nei confronti della commissione. Per non andare, quindi, incontro a conseguenze più gravi, si scelse il sistema del sorteggio che sembra essere il più obiettivo. La commissione, dopo il sorteggio, fornisce ai portatori i giubbini numerati, che sono confezionati in tela di olona o di canapa, rinforzati su una spalla. Non sono tutti dello stesso

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colore: bianchi sono quelli indossati dai portatori esterni, blu quelli dei portatori interni. Prima il segno distintivo dei portatori, però non erano i giubbini, ma delle fasce numerate intorno al braccio. Ci siamo dilungati già abbastanza nella descrizione dei particolari tecnici, ma ciò era necessario per dare un'idea, quanto più possibile completa, dell'insieme delle parti e dei meccanismi che compongono «U Trunu», cosa indispensabile per gli osservatori esterni. A questo punto il nostro interesse si rivolge in modo particolare alla processione e ai preparativi che la precedono. Il portone della Chiesa Madre, già alle prime luci dell'alba, all'incirca verso le ore sei, viene spalancato per consentire agli innumerevoli fedeli di offrire al Cristo Crocifisso gli ex-voto ed adempiere così «a prummisioni». Già il Crocifisso, in segreto, è stato prelevato dalla sua teca situata sull'altare del transetto destro ed esposto alla venerazione dei fedeli, spoglio di ogni ornamento, emblema del dolore umano, al centro del tempietto absidale della Chiesa ed illuminato da potenti riflettori. È stato anche predisposto un grande tavolo per accogliere le innumerevoli «scocche». Per le vie si nota un'insolita animazione e quando il sole non è ancora nemmeno comparso all'orizzonte, già le prime persone cominciano a comparire lungo le strade ancora adombrate ed umide per la notte da poco scomparsa. Avanzano in atteggiamento umile e devoto e molte, a piedi scalzi, portano in mano le «scocche», legate a volte a delle storie dolorose, le quali vanno ad ammassarsi sul tavolo già predisposto. Dentro la Chiesa non c'è il solito ordine ma un viavai continuo di persone. Alcuni offrono le «scocche», altri oggetti d'oro, altri ancora si prostrano devotamente davanti al Crocifisso ed accendono ceri che con le loro tre Tav. n. 1 –

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Processi mule e fioche fiammelle debolmente rischiarano la penembra dell'abside e del transetto destro. È un andirivieni continuo che gradualmente va intensificandosi col passare delle ore e col crescere della giornata. Una folla di curiosi, infatti ad un'ora un po' avanzata si accalca e fa ressa nelle navate della Chiesa e specie nel transetto per ammirare l'atmosfera strana che vi aleggia, per constatare e valutare la quantità degli ex-voto e soprattutto per andare alla ricerca del fatto inconsueto e inusitato. Spettacolo originale e stupefacente è per il fedele o per il visitatore l'enorme quantità di «scocche», che una sull'altra aumentano a vista d'occhio e nella fantasmagoria dei colori e il luccichio delle frange dorate si elevano sempre di più a guisa di una strana montagna dalle forme irregolari e cangianti. Questo flusso di gente che non accenna a placarsi fino a mezzogiorno, gradualmente va scemando fino a scomparire del tutto nel momento in cui il portone viene richiuso e cominciano i preparativi per l'allestimento della macchina processionale. Viene sgombrata la Chiesa dai banchi e dagli oggetti che potrebbero impedire la libera circolazione del popolo negli ampi spazi delle navate e nel centro della navata centrale viene preparato «u firrizzu», nel quale vengono inserite le «baiarde». È questo ora il grande protagonista e gigantesco campeggia al centro della Chiesa sotto la grande volta a botte del soffitto, ornato di stucchi e di tele dipinte. Viene preparata con cura e devozione la «spera» che viene ornata e addobbata con una grande quantità di «scocche» accuratamente selezionate tra le più vistose e le più artistiche. In mezzo a questo nugolo di seta e rasi dai mille colori e tra lo sfavillio delle fasce ornamentali di similoro, viene saldamente inserito il Crocifisso miracoloso, rivestito dagli ex-voto d'oro.

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Ora del Cristo Crocifisso si possono vedere solamente le mani, i piedi e il volto: commovente e rassegnato spettacolo di dolore; volto dalle linee e dal modellato delicato e raffinato da cui traspare, come da una sintesi tragica, il dolore umano accumulato nel corso dei secoli. Una corona d'oro ricopre il suo capo, stranamente non di spine, ma corona degna di stare sul capo dei re. È il Cristo che vince e sublima il dolore, lo purifica e lo rende superbo contrassegno della condizione umana. Tale corona, come tanti e svariati oggetti usati in questa festa, non è di proprietà della Chiesa ma per antichissima tradizione della famiglia Ciulla-Bellanti, che la custodisce come prezioso cimelio. (Vedi tav. n. 12) Dopo essere stata così accuratamente preparata, la «spera» viene collocata sull'altare maggiore, pronta per essere innestata nel globo metallico del Trono. Il pomeriggio, quando la Chiesa si riapre, immediatamente si riempie di gente di ogni età e di ogni condizione che animatamente discute e si aggira per la Chiesa, aprendosi un po' di spazio tra una grande marea di popolo tumultuante. La Chiesa a stento si può definire tale. Essa assume piuttosto l'aspetto di una piazza e i confini tra il saóro e il profano si perdono e, per una strana osmosi, si fondono in una nuova dimensione religiosa, dove con difficoltà si stenta ad individuare ciò che è spiritualità da ciò che è superstizione o ostentazione, rito magico o compenetrazione fideistica. In questa atmosfera con estrema difficoltà si riesce a celebrare il rito sacro del Venerdì Santo. L'attenzione e l'attesa si concentra sempre di più sulle «baiarde» e sul «firrizzu» e il popolo continua ad affollare fino all'inverosimile la Chiesa. Finito il rito sacro automaticamente tutti attendono il grande evento: l'uscita del «Trono». La Chiesa è ormai gremita in ogni sua parte. I portatori che

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indossano il tradizionale giubbino, scarponi pesanti e robusti e vestiti abbastanza resistenti, sono già ai loro posti e al grido di «a misilicordia», cominciano a dare spettacolo della loro aitanza. Gli animi si riscaldano e si esaltano e la folla che si accalca in Chiesa e si pigia intorno alle «baiarde» contribuisce con il suo mormorio ad accrescere la gran confusione che si è venuta a creare. Fuori intanto una marea di folla brulicante e tumultuante affluisce da tutte le parti e lentamente si va addensando ed ammassando nella Piazza Bongiovì, antistante la chiesa, lungo la Via Roma e la Via Vittorio Emanuele fino a perdita d'occhio, attendendo con ansia e impazienza la spettacolare uscita del «Trono». È impossibile praticamente aprirsi un varco tra essa, tanto è fitta e impenetrabile. Fuori si trovano anche il simulacro dell'Addolorata e S. Giovanni, arrivati dalla Chiesa Grazia, e il «Signore dell'Urna» che dalla Chiesa Madonna è stato portato in Piazza Bongiovì per aprire la processione. È questo un Cristo di cartapesta, forse del 1800, dall'aspetto dolente e sofferente. Il colorito delle sue carni è cianotico e il suo corpo è coperto di lividi e sangue. Rappresenta il Cristo che sceso dalla Croce è stato deposto nella bara. È, infatti, collocato in un'urna dalla struttura di legno che incornicia i vetri delle parti aperte. La parte lignea si presenta dipinta in bianco con fregi dorati, riccamente elaborata e tutto l'insieme è sormontato da un angelo, anch'esso in legno scolpito e intonato all'intera urna. Questa è stata scolpita nel 1958 dal signor Panvini, originario di Pietraperzia. Il Cristo ha inoltre le braccia snodabili e può essere utilizzato come Crocifisso. (Vedi tav. n. 9) Quando tutto è pronto il Parroco ora, il Quaresimalista prima, rivolge un brevissimo discorso al popolo e quindi sulla

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macchina processionale, che ha l'asta abbassata, viene inserita la «spera». Un immenso clamore si eleva allora

dalla folla e al grido di «a misilicordia» il «Trono», con l'asta sempre abbassata, preceduto da una fiumana di gente è portato a furor di popolo fuori, dove la folla galvanizzata ed eccitata dall'attesa e dall'insolito spettacolo erompe in un potente grido risonante e rimbombante da ogni parte. (Vedi tav. n. 10) Ora Gesù Crocifisso in cima al «Trono», in preda alla folla che si accalca e si pesta e che ondeggiante ora indietreggia ora avanza, un po' con l'aiuto degli argani, un po' con l'aiuto dei confrati che si trovano sul «firrizzu», viene innalzato, e il «Trono» si presenta così in tutto il suo splendore e in tutta la sua imponenza. (Vedi tavv. n. 11 e 12) Al suono della marcia funebre della banda musicale e allo

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scoppiettio dei mortaretti, la processione, aperta dal Signore dell'Urna, seguito dall'Addolorata e S. Giovanni e infine, dal Trono che ha segnato col suo movimento un'ampia Croce, si avvia e percorre la «Via dei Santi». Enorme è ormai la folla che accorre da ogni parte e che, occupando man mano le strade circostanti, prende posto nei crocevia, dove la vista è più suggestiva o dove il procedere diventa più pericolo, come, ad esempio all'incrocio tra la Via Sellanti e la Via Ciulla. Il Trono procede lentamente, talvolta barcolla o indietreggia, talvolta si inclina da una parte, talaltra si accosta ai marciapiedi o si allontana da essi. A portarlo non sono più i cento prescelti. È un numero incredibile di giovani che fanno ressa intorno alle «baiarde» e che come invasati ed ebri di protagonismo, si

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�lasciano guidare dai «bucculiri» i quali come se ubbidissero a incosci piani, dirigono a loro piacimento tutta la macchina processionale e tutta la folla di portatori e non, che, sempre al grido di «a misilicordia» e di «arripigghiammuni», avanza per le strade e tra il popolo il quale fa ala al loro passaggio in atteggiamento di compiacimento, di curiosità e anche di

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stupefatta meraviglia. Quando la processione si snoda per le viuzze dell'antico centro storico e a fatica sale per la Via Vasapolli, offre certamente una visione unica e incomparabile specie per certi scorci particolari che associano, nelle serate serene, alla visone della processione quello della pallida luna piena.

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�����Così il Trono, procedendo ora a fatica nelle salite, ora in modo più spedito nelle strade pianeggianti, raggiunge una visione d'insieme indescrivibile e spesso commovente, lungo il Corso Garibaldi, affollato oltre misura. (Vedi tav. n. 13) I portatori, sempre rinnovantisi sono spossati e prostrati tisicamente, e pigiati e affiancati strettamente l'uno accanto

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�all'altro, ci appaiono con i capelli arruffati e madidi di sudore, per cui nelle vicinanze del Trono si sente pungente un acre odore e «u fumuliggiu» si leva e si diffonde dal complesso della macchina processionale. (Vedi tavv. n. 14 e 15) Dopo, avere percorso la «Via dei Santi», il Trono verso le ore ventitré, arrivato davanti al portone della Chiesa Madre, abbassa lentamente l'asta e tra il clamore e le grida del popolo che sembra festeggiare un'impresa condotta felicemente a termine, rientra, portato dai ragazzini, in Chiesa, mentre i giovani portatori, madidi di sudore vengono accolti dai parenti che li avvolgono in scialli o coperte per evitare che prendano un malanno. Qui i confrati addetti a tale compito disinnestato la «spera», prelevano il Crocifisso e lo consegnano al Parroco

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�che, da qualche anno in qua, affacciandosi da un balcone della casa parrocchiale, dopo avere pronunziato un breve discorso, benedice la folla che ancora numerosa gremisce la piazza sottostante. A questo punto ci sembra legittimo porci una domanda. La processione del Venerdì Santo è stata sempre così disordinata? Il Nicotra che parla di questa festa nel 1907, non fa minimamente accenno a questo modo particolare di portare in processione Gesù Crocifisso e ciò ci sembra strano, poiché per un osservatore esterno la prima cosa che colpisce di più e che più lascia impressionati è questa grande ressa e confusione che si: verifica attorno alle «baiar de». Il fatto che non ne parli ci fa pensare che la processione avesse uno svolgimento quanto meno più ordinato di quello odierno. Il

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Giunta, che scrive nel 1928, invece così dice: «Non è proprio una processione ordinata, ma si potrebbe dire l'ordine nel tumulto il che la rende più commovente». L'espressione strana ed originale di «ordine nel tumulto», ci fa pensare che la processione col passare del tempo avesse assunto uno svolgimento non del tutto ordinato, ma che una parvenza di ordine si conservasse ancora ai tempi del Giunta. Oggi la processione si svolge, come abbiamo detto, in modo del tutto particolare ed unico, che ci porta a paragonarla ad un tumulto popolare in cui esplode una vitalità e una forza lungamente repressa che, scaricandosi in questo modo precipuo, nulla causa di male, anzi diremmo che si rivesta di una carica religiosa che la riassorbe in tutta la sua potenza. Come tutte le cose anche questa festa, pur conservandosi integra nella sua sostanza, si è evoluta ed adattata ai tempi. Le modifiche più vistose e appariscenti, come abbiamo appreso da testimonianze dirette, si sono avute in seguito all'introduzione dell'energia elettrica nel nostro paese. Prima, tutto il complesso era più imponente e più maestoso. Difatti l'asta alta sei metri innalzava il Crocifisso e la «spera» ad una altezza molto più elevata, consentendo così una visione più ampia, tanto che da molti punti del paese si poteva godere di questa stupenda vista, essendo le costruzioni, nella maggior parte dei casi, a piano terra. È tradizione ampiamente diffusa ancora oggi, illuminare le strade lungo le quali si snoda la processione, esponendo davanti le porte o sui balconi delle lampade elettriche. Ma prima, al calar della sera, fìtte tenebre coprivano il nostro paese, diradate ogni tanto dalla flebile luce di qualche solitario lampione a petrolio dislocato lungo le strade principali o dalla luna e le stelle che, nelle notti limpide, con il loro chiarore e la loro presenza accompagnavano e guidavano

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da amiche silenziose e lontane il cammino della gente e nella densa oscurità ne disegnavano le sagome dai contorni confusi. Allora, il Venerdì Santo, le tenebre consuete erano rotte dall'accendersi di un'incredibile numero di candele che venivano collocate nei posti più impensati, sui balconi o sui «purtedda», oppure venivano portate in mano a mazzetti o singolarmente dalla gran folla di piccoli e grandi che partecipava alla processione. Sviluppatissimo era in quel giorno il commercio delle candele e lungo le strade, in postazioni ben precise, erano dislocate delle bancarelle, dove si vendevano candele e qualcuno muovendosi lungo il tragitto, univa la sua voce che annunziava quella mercé, contenuta in panieri, al vocio e al mormorio che si levava da tutta la folla. Intorno al Trono un gran numero di lanterne di carta colorata di svariate forme, poste in cima a delle lunghe aste di canna o di agave portate da ragazzini o anche da gente adulta, contribuiva a sottolineare l'atmosfera suggestiva e impressionante che emanava da tutto l'insieme. Chi guardava dall'alto dei balconi o seguiva da lontano lo svolgersi e il procedere della processione restava ammirato nel vedere Gesù Crocifisso muoversi lentamente in mezzo a tutto quel nugolo di lanterne a forma di croce, di gallo, di urna o anche di semplici piramidi unite alle basi, con le facce di vari colori. Queste forme, dice il Buttitta, rappresentano vari simboli cristiani e precristiani. Ne sottolineavano l'incanto e il fascino, inoltre, il procedere lento delle numerose confraternite, il rullio dei tamburi e il suono delle troccole, rispondentisi l'uno con l'altro, e l'immenso numero di ceri accesi dalle luci tremolanti e moventisi lentamente lungo le strade. Tutto il popolo si sentiva coinvolto in prima persona in

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questa processione, che più propriamente potremmo chiamare rito, e le donne in particolare vi partecipavano vestite di nero, con gli scialli sul capo o sulle spalle come a volere in questo modo compenetrarsi del dolore della Vergine Addolorata che nella sua bara in gramaglie, gli occhi in pianto, sembrava invitare gli astanti a prendere parte al suo dolore. Sia il Nicotra che il Giunta sottolineano la suggestione che emana dalla processione ed entrambi in modo particolare parlano delle lanterne e dei ceri accesi. Riportiamo la testimonianza del Nicotra, sia perché è più antica, sia perché è più particolareggiata. Dice infatti: «Tutto il popolo con ceri accesi precede o segue il S.S. Crocifisso: ...fanno corona al Trono, sino alla sua sommità, centinaia di lanternoni di carta a vari colori e svariate forme di stelle, affissi a lunghe agavi (zambare) riunite e portate dai contadini con la massima devozione». La grande importanza di questa festa per il popolo barrese, ci induce a porci delle domande e ci spinge a delle considerazioni soprattutto di carattere interpretativo. Vorremmo spiegarci e dare delle risposte soddisfacenti al «perché» un gran numero di uomini si accalchi intorno alle «baiarde» e dia spettacolo della propria forza. Dare una spiegazione pienamente soddisfacente è quanto mai difficile. Vari e talvolta discordanti sono i pareri e le interpretazioni di coloro che si sono occupati di questa festa. A parte gli ovvi motivi, come quello di adempiere un voto o imitare gli altri, a noi sembra che la sua vera spiegazione originaria debba ricercarsi in un vero e proprio rito iniziatico che si è rivestito di religiosità. Nella sua attuale manifestazione è incancellabile e traspira da tutto il suo evidenziarsi l'atavico rito iniziatico, dove la prova di forza attestante la propria virilità era elemento

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indispensabile per i giovani per essere accolti nella sfera degli adulti, e segnava quindi il passaggio dalla adolescenza alla maturità. Riti iniziatici, infatti, ancora oggi sussistono presso alcune tribù africane e australiane che vivono allo stato primitivo. Non fa parte, forse, di un rito iniziatico l'esibizionismo di alcuni giovani che danno prova della loro forza, accalcandosi e sostenendo il peso delle «baiarde», e che mostrano poi, i lividi e le ferite riportate sulle spalle agli amici e soprattutto alle loro ragazze? Non cercano, forse, la loro ammirazione? Non è da sottovalutare neppure l'atteggiamento delle donne che sotto l'apparenza di paura e di pietà nascondono la soddisfazione e l'ammirazione per il coraggio e la forza estrinsecata dai portatori. Il senso religioso, evidentemente per quanto attiene questo aspetto, passa in subordine, ma non è del tutto da trascurare, poiché molti sono spinti a sopportare questa fatica per testimoniare la loro fede. A suffragare la nostra tesi ci viene in aiuto il Buttitta, che riscontra un rito iniziatico nella festa «di li schetti» di Terrasini. La sua interpretazione con relative e doverose varianti può essere accostata alla nostra. Così, infatti, dice: «La Domenica di Resurrezione gli scapoli del paese tagliano una pianta di arancio e la adornano, la fanno benedire e poi accompagnati dalla musica fanno il giro del paese. Ogni tanto, in genere davanti alle porte delle fidanzate il gruppo si ferma e i componenti si esercitano in prove di forza sollevando e tenendo in equilibrio la pianta. L'ideologia espressa da questa cerimonia è evidente. L'albero è un ideogramma cosmogonico e tutta la cerimonia è una rappresentazione e una stimolazione del rigenerarsi periodico della vita mediante l'esprimersi della forza e dell'eros. In questo senso si ricollega al valore rigeneratore delle orge nei

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riti agrari. L'orgia, infatti, "riattualizzando il caos mitico anteriore alla creazione rende possibile il ripetersi della creazione" (Eliade)» Chiarissima appare l'analogia con la nostra festa in cui il valore «cosmogonico» dell'«albero», si riscontra nel Trono; la prova di «forza e l'eros», nell'esibizionismo dei giovani, interpretato da noi come rito iniziatico; e l'«orgia mitica anteriore alla creazione», all'ammassarsi e al disordine sotto e intorno alle «baiarde». Il Buttitta trova ancora qualche analogia tra la festa «di li schetti» di Terrasini e quella «du Signuri di li Fasci» di Pietraperzia, che per molti aspetti è simile al nostro Trono. «Valore cosmogonico ha anche «u Signuri di li fasci» di Pietraperzia in provincia di Enna. In questo piccolo comune — continua il Buttitta — a prevalente economia agricola la sera del Venerdì Santo viene alzato un alto palo sormontato da una sfera che rappresenta il mondo su cui campeggia la statua del Cristo... In effetti sia l'uno che l'altro sono rappresentazioni simboliche dell'«albero della vita» che appunto per Pasqua rinasce col rinascere del Salvatore». È evidente che il Buttitta sconosce la nostra festa dove si riscontrano, come abbiamo detto, molte più analogie con la festa «di li schetti» di Terrasini, altrimenti l'avrebbe citata a preferenza di quella di Pietraperzia. Un aspetto rilevante da evidenziare in questa festa è, a parer nostro, la capacità non solo di sopportare il dolore con spirito di rassegnazione e umiltà, ma anche quello di procurarselo, quasi a volere purificare il proprio corpo con tale punizione. Questo processo di sublimazione e di catarsi, principalmente nella sua componente masochistica, è riscontrabile, come abbiamo già accennato, nei riti iniziatici e specificamente, per quanto riguarda la nostra festa, essa è da

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associare alla sua componente religiosa. Per antica tradizione, infatti, se si escludono gli ultimi tempi, la Chiesa ha predicato che fine ultimo dell'uomo è la salvezza dell'anima che si ottiene in modo particolare mediante la mortificazione del corpo e dei sensi, sorgenti di ogni male. Pensiamo, quindi, che molte manifestazioni di mosochismo religioso che oggi la Chiesa non incoraggia, quali le flagellazioni, i lunghi digiuni o come avviene da noi, i lunghi percorsi a piedi scalzi o nella fattispecie il sottoporsi alle «baiarde», siano da ricollegare ad atavici riti penitenziali. Non è neppure da trascurare la particolare atmosfera di euforia che aleggia intorno e sotto le «baiarde» e che nel ritmo frenetico delle esclamazioni di «a misilicordia» o «arripigghiammuni» e ultimamente di «uno, due e tre» trascina nell'esultanza dell'orgia che così diventa la gratificazione più immediata del dolore subito. Degna di nota ci sembra l'interpretazione che Carmelo Òrofino in un articolo su «L'Informatore Centro Siculo» da di questa festa. Egli infatti oltre a mettere in risalto il masochismo penitenziale e la prova di forza, ritiene che sia componente essenziale di questo rito il condividere da parte del popolo il dolore di Cristo. Così scrive: «Questa calca, ...per me, rappresenta, per un chiaro processo di mimesi penitenziale la volontà del popolo di condividere il supplizio del Figlio di Dio... Il popolo tutto, condivide fisicamente il peso dell'ingiustizia inferta al Dio che, facendosi uomo, fa parte dell'umanità ferita». Come si può ben constatare molte e complesse sono le interpretazioni e molteplici sono le componenti e le motivazioni che si rilevano in questa festa. Ma tutte, sia che esse si intreccino o si fondano, sia che prevalgano l'una sull'altra, o che rimangono allo stato latente, trovano il loro

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punto di fusione nella componente religiosa più o meno evidente. Un tentativo di riformare radicalmente questa festa fu messo in atto nel 1970 da parte del clero. Da poco tempo si era concluso il Concilio Vaticano Secondo che con i suoi documenti aveva impresso alla vita religiosa dei cattolici un maggiore senso di spiritualità. In particolare per quanto riguarda le feste, aveva consigliato di consevare solamente quelle prettamente religiose e di non introdurne di nuove. In linea con lo spirito conciliare il Clero di Barrafranca nel 1970 promosse una riunione presieduta dal Vicario Generale di allora, mons. Alessi. Era in quel tempo vescovo di Piazza Armerina mons. Antonino Catarella. In tale incontro si pose il problema di riformare o meno le feste di Barrafranca seguendo i dettami conciliari e, dopo varie discussioni si decise all'unanimità di riformare solo la processione del Crocifisso perché considerata poco religiosa, e di modificare la «Via dei Santi». Mons. Giovanni Cravotta, come parroco della Chiesa Madre, dopo tale decisione, fece costruire un nuovo congegno processionale che prevedeva un «firrizzu» più leggero, un'asta telescopica che così si poteva accorciare o allungare a piacimento, secondo le evenienze e la necessità, e «baiarde» meno pesanti e più corte, tali da potere essere portate da cinquanta persone. La notizia del tentativo di riforma si diffuse immediatamente per tutto il paese, incontrando pochissimi consensi. I più accaniti difensori della festa tradizionale cominciarono a fomentare il popolo e spingerlo a rifiutare la nuova riforma; cosa che il popolo, attaccatissimo alla festa, fece spontaneamente. Infatti, la sera del Venerdì Santo di quell'anno, quando il

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nuo vo Trono fu portato fuori dalla Chiesa, fu accolto con schiamazzi e fischi e si impedì che si svolgesse la processione. Vani furono i tentativi di mons. Cravotta di convincere il popolo, che ai reiterati appelli alla calma e al silenzio richiesti dal parroco dall'alto del nuovo «firrizzu», continuava a fischiare e a gridare lanciando improperi e minacce contro di lui. Ma questi seguitava ad insistere e ad alta voce chiese alla folla inferocita se volesse il Crocifisso o le «baiarde». La folla rispose con forza: «le baiarde». Quell'anno la processione non si fece. La cosa non si fermò lì; molti furono denunziati dal Parroco all'autorità giudiziaria, ma il processo non ebbe luogo per la sopravvenuta amnistia. Il Vescovo informato degli incresciosi avvenimenti di Barrafranca decretò l'interdizione di tutte le feste esterne fino a nuovo ordine. Intanto mons. Catarella si era dimesso e nel gennaio dell'anno successivo (1971) gli era succeduto mons. Sebastiano Rosso. Numerosissime furono allora le petizioni rivolte al nuovo Vescovo da parte del popolo barrese per ripristinare la tradizionale processione del Crocifisso. Il Vescovo rispose indicendo una riunione dei rappresentanti dei circoli, delle associazioni e dei partiti politici locali; ma ciò che doveva essere una ristretta riunione, per il particolare interesse che l'argomento rivestiva, si trasformò in una vera e propria assemblea popolare. Allora alla presenza del Vescovo, dopo avere vagliato le varie proposte, si decise di ripristinare l'antica festa e ci si impegnò a realizzarla in modo più ordinato. Mons. Cravotta, intanto, ritenendo di non essere tranquillo in coscienza avallando una siffatta processione, si rifiutò di organizzarla e dunque la festa fu avocata a sé dalla Curia fino alla nomina del nuovo parroco mons. Giuseppe La Verde, succeduto a mons. Cravotta morto prematuramente.

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�����L'ordine sotto le «baiarde» durò però solo quell'anno. Nel 1970 a causa dei quegli avvenimenti, venne diffusa tra la gente una poesia anonima in vernacolo barrese, che commentava in modo ironico ed originale i fatti avvenuti. Tale componimento si intitolava «U Crucifissu» ed era firmato «II Retrogrado». A molti allora fu attribuita la paternità di questa poesia, ma noi, in seguito ad accurate indagini, siamo venuti a conoscenza del vero autore, che interpellato, ce ne ha dato conferma e ci ha autorizzato a pubblicare il suo nome. Si tratta dell'insegnante Angelo Di Dio il quale ci ha gentilmente fornito l'originale della poesia che qui riportiamo. U CRUCIFISSU Vu chi siti scienti e llittiratu ie c'atu fattu 'nsina lu surdatu dicitimi, cumpari, senza 'ngannu d'unna praveni tuttu stu malannu. Chi vinni pari di 'stu cataminu, possibili c'un simprici parrinu, facinnu 'na pinsata luminusa, scavigghia la festa cchiù frujusa? Vi pari giustu chi lu Crucifissu, chi ppi tant'anni a statu sempr'u' stissu, ora u' gniè bunu cchiù l'anu livatu, pirchì vuliva d'essiri sguarratu? Lu paisi cumpari iè dispiaciutu chi perdi lu Signuri canusciutu e lu firrizzu e li baiardi santi chi purtavanu Cristu triunfanti.

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Siti gnuranti e testa di viddanu perciò facili tuttu 'stu baccanu! Lu firrizzu ccampatu, nun gniè sanu, chi bu mintiti 'ncapu 'u 'cantaranu? La baiarda iè lignu di gaddettu bona ppi fari... va, trava di tettu e nun gniè santa comu 'dda cassetta chi servi 'ppa limusina e l'offerta!!! M'a 'statu sempr'a 'ccussì lu Crucifissu cu' fìrrizzu pisanti nu subissu, cu lu trunu grussu, atu e gravusu di quannu'u' paparà iera carusu. Ora pirchì 'sta nuvità tutt'a 'na vota cu li baiardi e la vara divota? U' gniè ddaveru chi iè lign'anticu iè lu parrinu ch'è lignu di ficu!!! Puru li bucculi ccianu livatu, echi f fa mmidè avivanu ccampatu? 'u'nna ristatu mancu 'na nidduzzu, pari nudu nudu u Signuruzzu! Ma s'u Crucifissu pisa 'na mità comu Sangisippuzzu e Santruscià, chi 'nni facili cchiù di la gibbedda ci 'ttaccammu a scecca o a ciarvedda? O binidittu Santruscianniruzzu ma 'u'nnu viditi chi parrati a muzzu!

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Va ia cantari ccu lu marranzanu? 'U'nsi usa cchiù 'ssu cantaranu!!! Lu firrizzu c'è cu l'antinna e la spera, la baiarda, a ristatu comu iera, sulu chi va sguarrata ppi manera di rennila cchiù singula e liggera. Ma quali liggiu, quali cchiù pulitu, cumpà, cciatu livatu lu purritu, pirchì senza sudura e fumuliggiu s'à pirdutu tuttu lu prestiggiu! 'Ppi vaneddi unnu gira cchiù la Cruci, ora 'u'nsi usa cchiù: echi 'ssu 'sti vuci; livaru già lanterna e firriola e nun si senti cchiù 'na scattiola; La cunfratia ccu li torci 'mmanu, iera vecchia usanza di viddanu, la tiledda, chidda ranni a purtali, l'appiru a jttari 'ndu granali; Lu votu di purtari 'u Crucifissu, ora 'u'nsi usa cchiù, c'è lu prugrissu! Certu si continua 'stu guaju lu riducimmu a Signuri di maju. E mancu sona cchiù lu tamburrinu comu si fussi luttu cittadinu, 'nsumma si ci dammu largamanu n'atrannu lu ccumpagna Celentanu!

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Nun c'è l'artaru ccu lu bardacchinu, ora 'cianu misu un'tavulinu, u parrinu, senza tunica e bisogna, c'attaliallu veni la virgogna!!! Tutt'j cosi, cumpari anu cangiatu! A chjsa , pari c'avissiru spugghiatu! 'Nsina lu purpitu anu livatu! I' o' Signuruzzu pari straviatu. A missa 'u'nsi dici cchiù 'llatinu, iè meravigghia chi usan'u vinu! Ma s'ancora continua 'sta moda, l'anima cangiari cu lu wischy e soda. 'Nsumma da fidi di l'ebbica antica 'u'nna ristatu mancu 'na muddica! le bu diciti chi su cosi antichi, c'unsi usanu cchiù tutti 'sti 'ntrichi? Allura 'u Papa, quannu fu a Loretu, pirchì 'u'nnaviva mancu u'ntintu pletu? le caminava scazu, 'ncap'j 'spini! Chiffà 'u'nnaviva un paru di tappini? Il pedi di lu Papa, dinniscanza, ie parrannu cumpari cu crianza iè fattu di 'na sorti di sustanza chi 'ndi li chiova ci fa la cuntradanza! le pua gran sanapa ie 'ssaracinu, chi nenti 'nnaviti sensiu finu,

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'u'nnu capiti chi lu Vaticanu avi 'u'mazzu da tila 'ppi li manu? Lu parrinu avi sempri ragiuni, pirchì di lu Signuri iè lu patruni, chiddu preja di matina a sira e bu bastimmiati ...bonasira!!! Simmu d'accordu, lu preti è picuraru e 'nu l'amma scutari, chist'è chiaru, ma cumpà, parrammuni sinceru, chi ci parimmu, picuri daveru??? Aprile 1970 Ins. Angelo Di Dio Numerosi sono gli atteggiamenti e le azioni legate a questo giorno. Alcuni sono delle vere e proprie superstizioni, altri, aspetti devozionali che si manifestano attraverso preghiere o voti. Una delle ragioni fondamentali è da ricercarsi senza dubbio nell'origine di queste manifestazioni tradizionali che, tenendo fede al Pitré, non sarebbero altro, in molti casi, che una sovrapposizione cristiana a una pagana. Dice, infatti: «La teogonia pagana sotto l'impulso della religione di Cristo si modificò in guisa da originare una serie di credenze, di costumi e di tradizioni volgari. La Chiesa non potè, non dovette scrollarsi dalle fondamenta il vecchio edificio, e si contentò di fare accettare ai neofiti quanto del suo le fosse stato possibile. Da ciò venne che parte delle antiche credenze passarono quasi inalterate, parte modificate appena, parte trasformate affatto, aventi tutte o pressoché tutte un carattere mezzo tra l'antico e il nuovo, ma più da quello

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ritraente che da questo. Se non che, quando si consideri che il Venerdì cristiano (in generale) venne a prendere luogo del giorno di Venere pagana, sarà facile spiegare come e perché così grave, così profonda sia la trasformazione degli usi e credenze popolari nello stesso giorno presso i popoli del vecchio mondo pagano e del nuovo mondo cristiano. Un giorno sacro alla dea della bellezza e degli amori, giorno eminemente profano, non potea non dispiacere ai seguaci della nuova religione, che ricordavano essere morto in esso l'UomoDio ...però presero a riguardarlo come sacro e ad odiare qualunque pratica, che ne offendesse la santità. Una reazione pertanto avvenne, e risultato ultimo tra le plebi furono gli usi caratteristici del Venerdì». Anche tra noi, a ricordo di questo giorno, alcuni tradizionali comportamenti vanno scomparendo, mentre altri si conservano ancora. Una tradizione che è scomparsa del tutto ormai era quella che le donne in questo giorno si vestivano di nero, non si guardavano allo specchio, non tessevano al telaio, non si lavavano la faccia e non si pettinavano i capelli. Tale comportamento diffuso in tutta l'area meridionale, come attesta il Pitré, praticamente era conforme a quello che si teneva nel periodo del lutto per la scomparsa di un congiunto. Particolarmente per quanto riguarda il pettinarsi i capelli è abbastanza diffuso il detto: «Maliditta chidda trizza chi di Venniri si 'ntrizza! Biniditta chidda pasta chi di Venniri si 'mpasta Le donne, quindi, il Venerdì Santo, non curavano il loro aspetto esteriore, non ammiravano la loro bellezza e

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soprattutto non scioglievano le lunghe trecce in segno, oltre che di lutto, di penitenza e mortificazione. Il detto sopra citato è legato ad un racconto riferito alla vita di Gesù Cristo. Si narra che mentre Gesù insieme ai suoi Apostoli viaggiava e predicava per tutta la Giudea, un giorno di Venerdì avendo sete, chiese un po' d'acqua ad una donna che si pettinava e intrecciava i suoi lunghi capelli; essendosi la donna rifiutata per non interrompere quell'atto, si dice che Gesù Cristo abbia male-detto lei a la sua azione. Sempre nello stesso giorno continuando il suo cammino, chiese dell'acqua ad una che preparava il pane; questa generosamente gliela offerse e Gesù benedisse lei e il suo gesto. Ancora oggi molti di questi comportamenti sopravvivono ed essendo fortemente radicati nella mentalità popolare, vengono scrupolosamente osservati. Di venerdì, infatti, si evita di ridere, non ci si sposa e non si inforna il pane. Il venerdì quindi, ricorrenza della morte di Cristo, ha prodotto molte superstizioni e credenze fauste ed infauste ma ha anche ravvivato la fede e stimolato i fedeli a compiere atti devozionali e a recitare preghiere, che nulla hanno di superstizioso. Molti sono coloro che non solo in questo giorno, ma anche in altre ricorrenze sogliono fare delle promesse e dei voti. Ciò senza dubbio proviene da un atto di fede, che non sempre però è sostenuto da profonde convinzioni religiose. In proposito dice Alessandro Palassi: «La concezione della religiosità popolare tende ...verso un modello di Communitas di creati uguali, che si confrontano singolarmente nella loro individua umanità, privilegiando il momento contrattuale e il meccanismo dello scambio dei doni rituali, sacrifici e offerte, secondo il quale ...si creano l'obbligo e il bisogno di dare, di ricevere e di ricambiare ...alterando con un atto unilaterale

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l'equilibrio del proprio microcosmo, e poiché la divinità deve accettare il dono, il fedele deve ricevere ciò che chiede, ossia da in profano per ricevere in sacro, liberandosi di qualche bene si libera da qualche male». Diffusi sono gli atti devozionali legati alla Passione e Morte di Cristo soprattutto durante la Quaresima e in particolar modo durante il mese di marzo, mese in cui per tradizione morì Gesù Cristo. In questo mese, infatti, a partire dal primo marzo si comincia a recitare il primo Credo al quale se ne vanno aggiungendo uno al giorno. La recita di ogni Credo è preceduta dal seguente ritornello:

«Gesù mi, misu a la Cruci Vu sintiti la ma vuci

'ndi sti freniatri gghiurnati a ma d'essiri cunsulati.»

Un'altra preghiera diffusa in questo periodo, specialmente tra le persone anziane, è la recita dei «Setti duluri» della Vergine Addolorata. Sono queste delle preghiere piene di sentimento e di pathos e riflettono in modo evidente lo strazio e il dolore umano patito dalla Madonna per la morte del figlio. (L'intero testo è stato riportato nella parte di questo libro che riguarda il Giovedì Santo). Come si è potuto ben constatare, il nostro popolo è veramente attaccato a questa festa, diremmo quasi con morbosità e ci rendiamo conto che è oltremodo difficile modificarla o modernizzarla. Lo scorrere del tempo vi produce solo qualche modifica, ma non ne scalfisce minimamente la sostanza. La festa rimane sempre uguale, ed immutata rimane la devozione al Crocifisso, cosa che si tramanda da padre in figlio da molte generazioni. Un'ulteriore testimonianza di questa devozione è la celebrazione dell'«0ttava». Un gran numero di fedeli, in

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questo giorno, partecipa a tale rito che consiste nell'esposizione e nell'adorazione del Crocifisso. A chi devotamente si appressa a baciare Gesù Crocifisso, viene offerto un po' di cotone benedetto, che è stato collocato durante la processione dietro le spalle del Cristo morto. Il rito, che si svolge con la celebrazione della Messa accompagnata da canti di passione, e al quale prende parte la Confraternita del S.S. Crocifisso, viene ripetuto più volte nell'arco della giornata per consentire a quante più persone possibili di adorare Gesù Crocifisso, prima di essere collocato per un altro anno ancora nella sua teca. Gli avvenimenti descritti e le riflessioni fin qui messe in luce, forse non saranno sufficientemente confacenti a trasmettere la reale atmosfera e la vera essenza che caratterizza il Venerdì Santo a Barrafranca. Ogni parola, infatti, diventa vana e inefficace a ritrarli in maniera adeguata; perciò riteniamo necessario e indispensabile che in questa festa si sia presenti per viverla da protagonista. A conclusione della trattazione di questo giorno riportiamo tutti i canti popolari di lamentazione di cui siamo venuti a conoscenza. LA SALVE REGINA Di salvu di Rigina, Maria l'Addulurata, vi sia raccumannata l'arma mia. Na grazia vurria di lu ma cori 'ngratu. I l'aiu 'ffisu a Diu 'cu tanti gran piccati, 'ppi grazia a Diu priati a vostru figghiu. A nui dati cunsigghiu, lu modu comu fari cianciri e lacrimari lu nostru erruri. Stu cori cu' duluri spizzatilu vui, Signuri! Piccari 'un vugghiu cchiù, cchuttustu moriri.

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Di n'ura di cunfurtu finu all'ultima 'ngunia, vi pregu, Matri mia, nun mi lasciati, quannu 'n cilu st'arma purtati a vui matri amurusa 'ntornamenti. E a pui ccu latramenti gridammu quannu arriva: Viva la Matri mia Adduluratu. L'Addulurata sia, l'Addulurata sia lu 'nnomu di Gesù e di Maria. Lunedì Accuminsannu di lu Luni Santu tutta sta simana visitusa: visitusa Maria ccu tanta pena, visitusa la Chisa rumana chi ranni vampa di lu cori ci cchiana cunsidirannu ogn'arma cristiana. Martedì A scurutu lu luni ie si 'lluntana; li lacrimi di lu marti s'abbicina: Ciancinu sacerdoti e sagristana ie cianci tutta la fidi divina. Oh! Chi 'ssona rispittusa la campana! La morti di Cristu s'abbicina. Mercoledì Gesuzzu lu mirculi matina li so dudici Apustuli raduna 'ndi tuttu lu so corpu li anima. Figghiu chi 'nni sarà di la to pirsuna!

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Gesù ppi la so morti s'ncammina: «Pacinzia», ci dissi, e li 'bbannuna. Giovedì Lu juvi chi cunsà l'ultima cena, lu cori di Giuda si 'nnadduna e di tradillu urdiva la scena. All'urtu fu pigghiatu di liuna. Giuda lu tradì, cumpì la scena. Di tannu si 'ccumenza a la so pirsuna patiri trementi e ogni pena. Venerdì Marta e Maria Maddalena si partiru lu venniri matina ppi circarlu 'nni tutta la Giudena, ppi vidiri Gesù unna camina. Lacrimannu Maria ccu tanta pena lu va trova a Gesù 'ndi la ruvina. Li giudei senza nudda frena, facivanu sfreggi a la canina. Sabato 'Ncruci a finutu li so succannuna, 'mbrazza lu dittiru a so matri divina chi doppu du Crucifissu fu patruna.

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A MARIA ADDOLORATA �

Maria passa di 'na sfrata nova, 'na porta d'un firraru aperta iera: «O tu firraru, chi sta fannu a stura?» «Staiu facinnu tri pungenti chiova, staiu facinnu tri pungenti chiova ppi 'nchiuvari lu Figghiu di Maria». «O caru mastru nun li stari a fari, di nuvu ti la pagu la mastria!» «I vera donna nun lu puzzu fari, c'unna c'è Gesù ci mittunu a mia». La Beddamatri 'ntisi ssu duluri; fici cuddari lu suli ie la luna; La Beddamatri 'ntisi ssu turmentu, fici cuddari lu suli ie lu ventu. (...) E l'acqua di lu mari fici ugghiu, guardammucci lu venniri a ma figghiu! Cu 'un guarda lu venniri a ma figghiu, pozza ddumari comu dduma l'ugghiu! LA CERCA DI MARIA Stamatina gghiurnà lu Santu Venniri, la Beddamatri si misi 'n camminu. Ppi via l'ha scuntratu S. Giuanni: «Cara Matruzza, unna vinni jti?» «Vaiu circannu lu ma santu Figghiu

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chi l'aiu pirsu ie nun 'n sacciu nova». «Vaitivinni 'ncasa di Pilatu, dda lu jti a truvari 'ncatinatu». Tuppi, tuppi: «Cu ie a ssu purticatu? Sarà l'affriddaredda di ma matri!» Lu Gesù Cristu lu tuttu sapinnu, chi la so morti si jva abbicinannu: «Cara matruzza nun vi puzzu apriri ca li giudei m'hanu 'ncatinatu, m'hanu livatu la crini dda d'oru ie m'hanu misu la cruna di spini». SANTI APUSTULI MIA «Santi apustuli mia cchiù nun durmiti, chi sunnuzzu crudeli! Oh, pietati! Sintu viniri 'na gran cumpagnia, Giuda davanti ie apprissu li ludìa.» Giuda ci dissi: «Avanzammu lu passu, nun fari chi si 'mmuccia ppi la via, quant'havi chi circammu Gesù a sciannu, ca davanti l'avimmu ie l'adurammu». Ciancinnu si partì dda vera donna, cchissà si lu vidissi 'n quarchi banna. Si vota, ie lu va vvidi a la culonna: Pilatu sta ppi fari la cunnanna. «Ma tu Pilatu nun 'nziari, taci! Morti nun dari a lu ma figghiu duci! Ti pregu 'n curtisia, si ti piaci, di mintirici a mia supra ssa cruci».

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«le passu a passu nun tuccati ssa donna, mentri chi 'n putiri aviti a mia.» «Tu Figghiu, pirchì donna mi dicisti! di 'nonni «Santa Matri» un mi chiamasti?» «O mamma, si i' mamma vi diciva, lu vostru cori tuttu si duliva. O mamma chi si mamma vi chiamava, lu vostru cori tuttu s'nghiagava!» A Gesù lu pigghiaru quattru brutti, quattru l'hanu battutu finu a notti. Ma Diu si vota 'n pubblicu di tutti: «Pacinzia, matri mia, vaju a la morti!» U VISITU DI LA MADONNA Cu ha pirsu un figghiu lu pò cunsidrari comu rista l'amara di Maria. «Persi a ma figghiu ie comu vugghiu fari! E di lu cori sa pirsu la via. Sintu viniri na gran cumpagnia, sintu viniri tri milia genti, cu sa' si iè ma Figghiu veramenti, chi l'haiu pirsu ie nun 'ni sacciu nenti.» «I vi lassù, i vi lassù sicutari, vugghiu chi la giustizia taciti. U 'nna statu latru ie un 'mm'ha fattu stancari. Pirchì siti tantu crudiliggi? A l'atri matri ci murunu li figghi, ccu beddi 'nguenti e beddi midicini, ie biddi cuvirnati a lu so lettu;

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ie tu figghiuzzu, cuntrariatu ha statu! Ie mentri mori purtarimi lu vuliti, quantu ci dugnu l'urtimi basati. Mentri voli accussì lu Patri Eternu, Figghiu pati sta acerba passioni. A mia mi manca la forza ie la lena, chi ti ciancissi dulurusamenti. Forza nun haiu figghiu mi 'nnuccenti, chi ti ciancissi pietusamenti.» Si sdrivigghiaru li cani d'Erodi ccu na longa catina ie na ranni (profezia)(?) fora la jttaru l'amara di Maria. «Giuda, chi tradimintu mi facisti, chi lu ma figghiu tu tu li vinnisti, ti lu vinnisti ppi trenta dinari. Si vinivatu 'ndi mia cchiù di trenta ti 'nni dava, ie si cchiù cci 'nni vuliva u niuru mantu mi vinniva». «le veni ccà, Giuanni, a mia a guidari, portami nova di lu dolci Figghu. Di niuru ti lu purtu lu cummugghiu, tu pirdisti lu mastru e i' lu figghiu». «Ie i' lu vitti supra un truncu di cruci ccu li so carni fracillati a schina. Tutti li santi chi a vidìlu vanu, tutti vanu ciancinnu a ata vuci. Ora ciancimmu nu' Matri mischina,

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chi vostru figghiu ha fattu na funtana, funtana funna di milli scaluna». Cu dici chi', tri voti a la simana, i' piccu. Maria preia ie Diu pirduna. IUDA DI MARCU luda di Marcu fu lu cchiù crudeli: Chi 'na lanciata a lu pittu ci tira. Un venniri di marzu a vintun'ura, trema la terra e s'oscura lu suli, china lu capu ie mori u Redenturi.

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SABATO SANTO �

����Dopo gli spettacolari e attesi avvenimenti del Venerdì Santo, il Sabato Santo passa quasi inosservato. Si può dire che è un giorno di riposo e ognuno pensa ormai a prepararsi per la grande esplosione di gioia e di gaudio che sarà la Pasqua. L'unica cosa degna di nota è il rito della solenne Veglia Pasquale. Questo, sebbene sia il momento più alto della liturgia cristiana, non richiama nel nostro paese un grande afflusso di fedeli. Le Chiese non appaiono gremite e partecipano al rito solamente fedeli adusi ad assistere alla Messa domenicale. Eppure «La Veglia Santa, nella notte santa della Resurrezione del Signore, è considerata la madre di tutte le sante vigilie (S. Agostino): in essa la Chiesa attende vigilando la Resurrezione di Cristo e la celebra nei segni sacramentali» (Normae, n. 21). Un tempo, come abbiamo prima accennato, questa solenne liturgia si svolgeva nella tarda mattinata del sabato. Durante il rito, al Gloria, momento in cui si annunziava la Resurrezione di Cristo, nella Chiesa Madre, illuminata e parata a festa, si alzava «a tiledda» per scoprire la statua di Cristo risorto e per indicare la fine della Quaresima e l'inizio del periodo pasquale. Verso le ore dodici, quando il festoso scampanio di tutte le campane delle Chiese riecheggiava per il paese, allora donne, ragazzi e ragazze, con un bastone battevano il letto per scacciare il demonio dalla propria casa e ripetevano la seguente filastrocca che presentava diverse varianti:

Luni ssantu, marti ssantu, mirculi ssantu, juvi ssantu, venniri ssantu, sabatu ssantu,

a duminica di Pasqua lu vermi 'nterra casca, nisci fitenti,

ca 'a trasiri Dio Onnipotenti.

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����Il rito liturgico non si è svolto sempre nella stessa maniera. Esso ha subito qualche leggera variazione, rimanendo ostanzialmente uguale, in seguito alla riforma del Concilio Vaticano Secondo. Il rito preconciliare si svolgeva seguendo queste fasi: 1) Accensione e benedizione del nuovo fuoco fuori delle porte della Chiesa; 2) Benedizione dei cinque grani d'incenso; 3) Canto dell'Exultet e accensione del Cero pasquale nel quale venivano confitti a forma di Croce cinque grani di incenso e accensione di tutte le altre lampade della Chiesa; 4) Canto delle profezie; 5) Benedizione del fonte battesimale ed eventualmente battesimo di catecumeni; 6) Canto delle litanie dei Santi; 7) Celebrazione della Messa. Negli anni cinquanta il rito della Veglia pasquale fu spostato alla mezzanotte del sabato e con il Concilio è stato liturgicamente riformato. Oggi si è soliti celebrarlo a partire dalle ore venti in poi secondo la seguente liturgia: Litrugia della luce. È questo il momento più suggestivo del rito, durante il quale, fuori della Chiesa, tutti i fedeli con candele spente in mano assistono alla accensione e alla benedizione del nuovo fuoco. In Chiesa tutte le luci sono spente. Il sacerdote dopo avere acceso il Cero pasquale con la fiamma del fuoco benedetto, canta: «Luce di Cristo» e si avvia in processione verso l'altare. I fedeli intanto alla seconda invocazione «Luce di Cristo», accendono tutti le loro candele dal Cero pasquale. Giunto davanti l'altare, rivolto al popolo, il sacerdote canta per la terza volta «La luce di Cristo». A questo punto si accendono tutte le luci della Chiesa. In questo splendore il sacerdote annuncia la Pasqua, con il meraviglioso canto di «Esultino gli Angeli del Cielo». Alla fine di questo canto si spengono le candele e segue la seconda parte del rito: La liturgia della parola. La terza parte è caratterizzata dalla liturgia battesimale. La solenne Veglia

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Pasquale si conclude con la liturgia eucaristica. Il momento centrale e più ieratico della Veglia è certamente quello che avviene subito dopo la settima lettura: la Resurrezione. Allora il sacerdote intona solennemente il «Gloria», si suonano le campane, si illumina il Cristo risorto e l'organo prorompe negli accordi più festanti accompagnando gli esultanti canti pasquali. In questo giorno la Chiesa, dimenticando per così dire la terra, intona il canto ufficiale dell'allegrezza che S. Giovanni dice di avere udito in cielo: «Udii nel cielo come una grande voce di una folla immensa che diceva: Alleluia». (Apocalisse, 19, I). Fino al giorno dell'Ascensione il Cero pasquale, simbolo della presenza visibile di Gesù sulla terra, illumina l'assemblea con la sua fiamma radiosa e si usano paramenti bianchi che sono segno di gioia e di purezza. Oberate di lavoro sono le donne in questo giorno, indaffarate a preparare intingoli e pietanze speciali per il giorno di Pasqua e in alcuni casi anche i tradizionali dolci pasquali. Molto usato è in questo giorno il forno, tanto che abbastanza diffusi sono in alcuni paesi della Sicilia alcuni modi proverbiali che il Pitré riporta: «Aviri cchiù a fari di li fumi di Pasqua» e «A Pasqua e a Natali tutti li lagnusi diventanu massari». I caratteristici dolci tradizionali del nostro paese sono: i «palummeddi» o «panaredda», i «muscardini» e i «'mpanati», dolce quest'ultimo che non si prepara solo a Pasqua. Il più antico, caratteristico e tradizionale dolce pasquale, ormai scomparso, era «a palummedda» o «u panariddu». Non c'era bambino che la mattina di Pasqua non andasse fiero e non mostrasse il suo «panariddu». Quello dei più poveri era preparato con pasta adatta per le lasagne, mentre quello dei più ricchi con pasta per dolci. Aveva forma di un cestino appiattito, al centro del quale

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una colomba di pasta ricopriva uno o più uova sode. Completava il cestino un manico di pasta intrecciata. Il tutto, nella maggior parte dei casi, veniva ricoperto di glassa o ghiaccia, ornata di perline argentate, confetti colorati e dalla variopinta «diavolina». I dolci, invece, che ancora oggi resistono e vengono largamente consumati sono: «i muscardini». Ecco il modo di prepararli. Si impastano zucchero e farina in uguale quantità. Quindi dopo averne ricavati pezzi di varia forma, come rombi, cuori, stelle e soprattutto colombe, si lasciano riposare, prima in casa e poi si fanno imbiancare al sole. Dopo circa otto giorni si infornano e lo zucchero che va fondendo si allarga intorno alla parte bianca. In quasi tutte le famiglie si usa, poi, preparare un dolce a base di uova, farina e zucchero, chiamato «mbanata». Prima, tutti questi dolci venivano preparati a casa tra la gioia e l'esultanza dei bambini e per le strade si diffondeva la loro caratteristica fragranza. Oggi, purtroppo, forniscono questi dolci le pasticcerie. Riflettendo sulle forme di questi dolci tradizionali si può appurare con facilità che esse non vengono usate a caso, ma che hanno riscontri antichissimi e simbolici. In questi dolci, come nell'intera festa, si evidenziano, si intrecciano e si fondono simbologie pagane e cristiane. Due sono principalmente gli elementi simbolici che i nostri dolci esprimono: l'uovo e la colomba. Il primo sicuramente è quello che ha origini più remote. Esso è carico di simbolismo precristiano e si rifa certamente ad antichi culti pagani che inneggiano alla natura ed alla vita. Degna di nota su questo argomento è l'opinione del Buttitta, con la quale noi perfettamente concordiamo. Cosi egli scrive: «È noto il significato di simbolo della cosmogonia attribuito

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all'uovo dalle società antiche. In quanto rappresentazione cosmogonica è evidente il suo richiamo al significato primigenio della Pasqua, come rito inteso a rigenerare la natura». Alcuni vogliono far derivare l'uso delle uova pasquali dal fatto che esse ricomparivano sulla mensa pasquale dopo il periodo di quaresima, durante il quale anticamente erano vietate. Per quanto suffragata dai fatti, tale opinione ci sembra che non spieghi sufficientemente le motivazioni di tale uso e che non approfondisca la tematica legata alla simbologia dell'uovo nel suo significato più remoto. È risaputo e accertato infatti che l'usanza di giocare con le uova e di colorirle deriva da antiche costumanze pagane. Certamente, come abbiamo accennato, l'uso delle uova nella Pasqua cristiana è una sopravvivenza pagana e ne conserva ancora il suo intrinseco valore simbolico. A conferma del nostro discorso ci viene in soccorso la autorevole opinione del Pitré: «Fu uso comune a tutti i popoli agricoli di Europa e d'Asia di celebrare il nuovo anno mangiando delle uova. La festa ricorreva nell'equinozio di primavera, cioè nella Pasqua, nel tempo cioè della festa dei Giudei ricordante il loro passaggio dall'Egitto alla Terra promessa; il nuovo anno fu per i Cristiani riportato al solstizio d'inverno: ecco perché la festa delle uova è stata legata alle feste pasquali, associandovisi l'alto concetto che la Pasqua abbia pei Cristiani tutte le prerogative del nuovo anno, quelle d'essere il rinnovamento di ogni cosa, il trionfo del Salvatore del mondo sulla morte per la resurrezione. L'uovo rappresentava presso gli antichi popoli ora la divinità suprema, ora la vita del mondo, ora la fecondità della terra... A completare la figura del rinnovellamento della vita del mondo le uova si tinsero in vari colori e particolarmente in rosso».

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����Oggi la società dei consumi si è impadronita anche di questa antica tradizione; le industrie dolciarie, infatti, commercializzano le uova di cioccolato con sorpresa dentro, riccamente confezionate. Chiarissima, invece, è la simbologia cristiana che si riscontra nei dolci a forma di colomba. Dalle iconografie dei primi cristiani, è testimoniato l'uso della colomba come simbolo della pace. Essa possiede la caratteristica della mansuetudine e del candore e compare con grande rilievo, sempre come simbolo di pace, nel racconto biblico del diluvio: «Aspettò ancora sette giorni, poi fece uscire di nuovo dall'arca la colomba, la quale tornò da lui, verso sera: ed ecco essa aveva nel becco una foglia fresca d'ulivo». (Genesi). La pace è appunto argomento fondamentale della Pasqua cristiana, in cui è sottolineato il concetto di riconciliazione tra Dio e l'uomo, riscattato tramite il sacrificio di Cristo. Alcuni studiosi, invece, come Uccello e Buttitta oltre a leggere nella colomba una simbologia cristiana ve ne intravedono un'altra pagana. Dice Uccello infatti: «Qualcuno vi ravvisa, in taluni casi, figurazioni dell'uccello apportatore della primavera, una simbologia che proviene sicuramente da più remota origine». Il Buttitta, riprendendone il discorso così conclude: «Per quanto il richiamo alla colomba dell'Annunciazione sia evidente, la presenza dell'immagine di questo animale, già ricordato nel racconto biblico del diluvio con diverso significato, all'interno del rituale della Pasqua, costituisce un'ulteriore prova a favore della ipotesi che questa festività sia un rito di rigenerazione della vegetazione: donde la sua collocazione primaverile». Tali simbologie, ovviamente, sono oggetto di riflessione da

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parte degli studiosi, il popolo, invece, pur ripetendo inconsapevolmente un atto dalle origini antichissime, rivolge soprattutto l'attenzione all'atmosfera gioiosa e conviviale che i dolci contribuiscono a creare nella Pasqua. Possiamo perciò affermare che il Sabato Santo nel nostro paese, rappresenta soprattutto un momento preparatorio alla Pasqua specie sotto l'aspetto conviviale.

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DOMENICA DI PASQUA �

����La festosa e gioiosa allegria della Resurrezione ormai ha cancellato e spazzato via il dolore e la tenebrosa atmosfera del Venerdì Santo. Cristo con la sua Resurrezione ha trionfato sulla morte ed ha dissipato le tenebre del peccato. Infrante sono state le catene della morte e la vita riesplode e rinasce vittoriosa. Si accende in ognuno un grande desiderio di gioia e di tripudio e un'atmosfera di allegrezza aleggia per ogni dove. Di solito, in questo giorno, il nostro paese è inondato di sole che apparendo in tutto il folgorante splendore, contribuisce a sottolineare il clima del gaudio pasquale e accende con la sua luce i colori. Il paesaggio ci appare nitido e il cielo sereno e l'aria è pregna di profumi primaverili. Dappertutto si respira un clima di festa e già nella prima mattinata le strade ci appaiono insolitamente animate. Il paese è in festa ed ognuno, indossando abiti nuovi e primaverili, compenetrato dal messaggio pasquale di pace, si scambia gli auguri con gli amici ed i parenti. Nelle Chiese si cominciano a celebrare le prime Messe e per le strade cominciano a notarsi i primi Apostoli che attorniati da gruppi di ragazzini festanti, alcuni si dirigono verso la Piazza Fratelli Messina e precisamente nella Chiesa Maria S.S. della Stella a far corteo alla Madonna; altri raggiungono la Chiesa del Convento da dove, dopo la Messa, accompagneranno la statua del Cristo risorto nella piazza suddetta, dove si svolgerà la cosiddetta «Giunta». Un clima di giubilo e di esultanza invade il paese che sembra trasformarsi in un grande palcoscenico. Tutti infine si ritroveranno verso le ore dodici nell'antica Piazza Fratelli Messina che costituisce il vero centro d'attrazione per la Sacra Rappresentazione.

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����Da qualche anno, grazie al risveglio delle tradizioni popolari, vi partecipano quasi tutti gli Apostoli mentre prima, pur continuandosi la tradizione, tranne per S. Pietro protagonista principale, limitata era la presenza degli altri Apostoli: Alcuni erano assenti per il venir meno nei proprietari dell'interesse verso la tradizione, altri perché i possessori si trovavano a lutto. Questi sono dei giganteschi simulacri, alti circa tré metri. La struttura portante sulla quale sono innestate la testa, le braccia e le mani, è costituita da un leggero e consistente traliccio di legno chiamato «siggitedda». Tale struttura consente a un portatore di inserirvisi dentro e di portare con le spalle senza essere veduto tutto l'insieme. Una lunga tunica di colore blu riveste l'Apostolo e nasconde il portatore che ha la possibilità di guardare attraverso dei fori. Quando poi l'Apostolo si mette in movimento, con la sua grande mole sovrasta tutto il popolo ed è visibile da ogni parte. (Vedi tavv. n. 18 e 20) Tutti gli Apostoli presentano la medesima iconografia di base. Sono rappresentati frontalmente e si presentano con le braccia aperte quasi a mostrare gli oggetti che tengono in mano. La loro figura è statica; si distinguono dalla tipologia dei volti e dai simboli che portano in mano. Tutti inoltre, in questo giorno sono gioiosamente vestiti a festa e ornati di fasce, di «scocche» con ornamenti luccicanti in similoro, e di fiori, soprattutto «balacu» (violacciocca). Come è comunemente risaputo dodici sono gli Apostoli. Infatti, così si legge nel Vangelo: «Questi sono i nomi dei dodici Apostoli: primo Simone detto Pietro, e Andrea, suo fratello; Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni, suo fratello; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo il pubblicano; Giacomo figlio di Alfeo, e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda

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�Iscariote, colui che poi lo tradì» (Matteo, 10-2). Giuda il traditore, poi, fu sostituito da Mattia. Si legge così negli Atti degli Apostoli: «Poi tirarono la sorte e la sorte cadde su

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�Mattia che fu aggregato agli undici Apostoli» (Atti 1-26). Contrariamente alla testimonianza evangelica, da noi, almeno fino ad ora, gli Apostoli sono undici, tra i quali in più appare S. Paolo mentre mancano S. Filippo e un S. Giacomo. Ad Aidone, invece dove si rappresenta una simile azione scenica, i

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�nomi degli Apostoli corrispondono al dettato evangelico. Come mai, ci chiediamo, nel nostro paese i nomi non corrispondono a quelli riportati nel Vangelo? Ingenuità popolare oppure errore deliberatamente voluto per motivi a noi sconosciuti?

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����Anche questi simulacri appartengono a privati e si riconoscono facilmente dai simboli che tengono in mano. Da ricerche effettuate siamo venuti a conoscenza anche dei nomi dei proprietari. S. Pietro, che si riconosce dalle due chiavi «del Regno dei Cicli», appartiene al signor Salvatore Collura; S. Paolo che porta la spada e il libro, l'una a testimonianza della difesa della fede, l'altro a simbolo delle sue lettere, al signor Alessandro Gentile; S. Giovanni appartiene al signor Giuseppe Barrese e reca in mano un calice in riferimento al brano evangelico in cui Gesù gli chiede se può bere nel Suo stesso calice. Al signor Filippo Ferreri appartiene S. Andrea che si contraddistingue dal pesce che reca in mano, a ricordo dell'episodio evangelico della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Di proprietà della signora Rosalia Giusto è S. Mattia, contraddistinto dal libro; S. Giacomo, invece, è riconoscibile da una zucca e da un libro, ed appartiene al signor Salvatore Masuzzo; S. Tommaso appartiene al signor Vespasiano Bellanti e reca in mano solo fiori. Di proprietà del signor Salvatore Strazzanti è, invece, S. Simone il quale è contraddistinto da un libro. Appartiene al signor Filippo Bonaffini S. Matteo. S. Bartolomeo e S. Taddeo attualmente appartengono alla Chiesa del Convento: il primo si riconosce dal coltello in quanto fu scorticato vivo, mentre il secondo dalla rete e dai pesci. Si riconoscono anche, come abbiamo già detto, dai volti che attraverso un modellato ingenuo e a volte non ben definito caratterizzano il loro personaggio fissato dalla tradizione. S. Giovanni si presenta senza barba e dai lineamenti delicati e sul suo volto dal colorito roseo, spiccano due grandi occhi azzurri. Rispecchia fedelmente la tradizione che lo vuole giovane e bello. S. Pietro è rappresentato con il capo stempiato, con gli occhi aggrottati e con le guance ricoperte da una folta barba

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nera. L'espressione del volto truce e mesta nello stesso tempo, sottolinea il suo carattere forte e il pentimento per avere tradito il Maestro. Il materiale impiegato per creare le teste e le mani degli Apostoli nella maggior parte dei casi è il legno. S. Pietro e S. Simone sono modellati in cartapesta. Per S. Taddeo, creato ultimamente dall'insegnante Gaetano Orofino, è stato utilizzato del vetro-resina. Chiaramente siamo di fronte ad una tipica espressione di arte popolare la quale più che rispettare i canoni artistici tradizionali, si rifa ad una iconografia popolare, forse standardizzata. I volti rigorosamente frontali e simmetrici, gli occhi spalancati, la varietà della manifestazione psichica, la riduzione all'essenzialità nell'articolazione plastica, sono motivi che creano un'immagine severamente sacrale. Un'indagine più intima, però, accerta che la modulazione delle superfici, intese non come limiti di una sintesi plastica, ma come vibrazioni autonome nella tensione dei profili arcuati, sottintende una sottile animazione sentimentale e allude ad una presenza umana. Gli altri due simulacri protagonisti della «Giunta» sono Gesù Risorto e la Madonna comunemente chiamata «Madunnuzza da Giunta». Gesù Risorto esce dalla Chiesa del Convento ed appartiene alla famiglia Crapanzano che lo ha affidato in custodia a detta Chiesa. Si tratta di una scultura in legno policromo. In generale corrisponde alla iconografica del Cristo Risorto. La mano destra si protende verso l'alto in atteggiamento benedicente, mentre l'altra sorregge una bandiera. Il corpo coperto solo da un perizoma è rappresentato in tutta la sua floridezza e il suo vigore. Nel complesso l'intera composizione risulta statica. Il peso del corpo si scarica principalmente sulla gamba sinistra,

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�mentre un accenno di movimento si diparte dal piede destro, si comunica con difficoltà a tutto il lato e si conclude nel

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�gesto della mano benedicente e nel lieve alzarsi degli occhi verso il cielo. L'opera è dominata dalla luce che vibra leggermente sul modellato del petto e alla quale si espongono il volto e il corpo nella sua morbida tornitura di volumi pieni. (Vedi tavv. n. 16 e 17)

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����Anche questa statua per l'occasione viene adornata con «scocche» e risalta in mezzo a quattro ricche e variopinte composizioni floreali. La bandiera che porta in mano in segno di vittoria sulla morte oggi è di colore bianco, colore che da alcuni decenni ha sostituito il rosso per evitare stupidi equivoci di ordine politico. Scatenata ed intransigente era allora la lotta ideologica tra marxismo e cristianesimo, cosa che spesso inavvedutamente portava ad atti inconsulti e banali, sottolineati dalle solite diatribe vuote e provinciali. La Madonna della «Giunta» attualmente appartiene alla Chiesa Maria S.S. della Stella a cui è stata donata molti anni or sono dalla famiglia Ippolito. Questo simulacro nella sua struttura interna è simile a quello dell'Addolorata: se ne differenzia per l'abbigliamento, per l'espressione del volto e per il movimento delle braccia. La Madonna, dalla lignea testa policroma, è vestita di un ampio e prezioso abito bianco di raso, riccamente adornato e ricamato in oro zecchino. Un velo bianco le scende giù dalle spalle e ricade morbidamente sulla veste fino a coprire il piccolo globo azzurro su cui Ella si eleva. Un particolare congegno al momento opportuno permette alle sue braccia e alle sue mani di allargarsi e gettare via il manto nero che la ricopre per intero. Una preziosa e ricca corona cesellata in argento, posata sul suo capo mette in evidenza i lineamenti del volto da cui traspare freschezza e grazia infantile per la gentilezza dei tratti e per la luminosità dell'incarnato. L'immobilità del gesto e della positura è interrotta dall'ondeggiare della lunga veste e dal luccichio degli ori che ornano il collo, le dita e le orecchie, da cui pendono degli splendidi orecchini. Il suo sguardo fisso e poco espressivo a stento riesce a comunicare il sentimento di gioia appena appena accennato dall'abbozzo di una sorriso. (Vedi tav. n. 17)

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�����La tradizione la vuole ornata in questo modo per sottolineare il momento di festa e di giubilo ed Ella in certo senso, possiamo dire, rappresenti il tipo di eleganza propria

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�della donna barrese di molti anni fa. Infatti ancora oggi il detto popolare «Essere ornata comu a Madunnuzza a giunta» dimostra la pomposità e la ricchezza degli ori di cui andavano .fiere le donne, specie in seguito ad un fidanzamento ufficiale. Ora tante cose sono cambiate e le nostre donne si sono adeguate ai tempi. Tutti questi simulacri oggetto della nostra descrizione, dopo la celebrazione della Santa Messa, si ritrovano nella Piazza Fratelli Messina in cui avverrà la Sacra Rappresentazione. Ormai tutto è pronto perché questo antico rito possa compiersi. La grande Piazza, intorno alla quale sorgevano gli edifici più antichi e importanti di Convicino prima, di Barrafranca poi, ora diventa anch'essa protagonista principale e nello stesso tempo teatro naturale di questo evento. Ogni

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suo angolo è ricolmo di persone che muovendosi da un capo all'altro si scambiano gli auguri pasquali e numerosissimi sono i bambini che in compagnia dei loro genitori si dilettano a guardare e ad ammirare i giganteschi simulacri. (Vedi Tav. n. 22) Ormai il sole di mezzogiorno inonda la Piazza che si presenta così in tutta la sua solarità e splendore. In una delle sue estremità e precisamente vicino all'antica pescheria, prende posto il Cristo Risorto, mentre la Madonna, completamente avvolta in un manto nero (vedi tav. n. 18) e gli Apostoli, dalla Chiesa Maria S.S. della Stella si portano all'estremità opposta di fronte al Cristo, nel punto in cui inizia la stretta via Macallé. Comincia a questo punto l'azione scenica che rappresenta la cerca di Gesù da parte degli Apostoli e che culminerà nella «Giunta» tra Gesù Risorto e la Madonna. Il primo personaggio a presentarsi all'attenzione della folla è S. Pietro, inviato alla ricerca del Figlio da Maria, incredula ed esitante per la notizia della sua Resurrezione. L'Apostolo innalzandosi in tutta la sua mole, con gli occhi aggrottati avanza lentamente in mezzo alla folla, guarda ora da una parte, ora dall'altra, aprendosi il passaggio tra la gente che sorridente e partecipe lo segue nei suoi movimenti. Quando gli sembra di avere trovato la giusta direzione, lungo un corridoio formatesi tra la folla, al rullo dei tamburi, si mette a correre, ma alla fine rimane deluso perché non trova Cristo. Ritorna lentamente indietro e ricomincia di nuovo a cercare in altra dirczione. Ripete per tre volte la corsa tra là gente che gli fa ala e che allegramente rumoreggia additandolo ai bambini, taluni affascinati e meravigliati, altri un po' ritrosi per l'insolita visione. Come abbiamo testé detto le corse di S. Pietro sono, secondo la tradizione, tre e seguono ogni volta

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sempre le stesse direzioni: la prima verso la Chiesa del Collegio; la seconda verso il luogo dove sorgeva il carcere; la terza verso l'uscita della Piazza per il Corso Garibaldi. (Vedi tavv. n. 18 e 19) Compiuto questo rituale finalmente S.Pietro scorge in lontananza Gesù e gli corre incontro lungo un corridoio più largo aperto dalla Confraternita del S.S. Crocifisso. Da questo momento tutta la Rappresentazione si svolgerà lungo il tragitto tra la Madonna e Gesù Risorto. S. Pietro, quindi, inginocchiatesi davanti a Gesù corre a dare la lieta novella a Maria che lo rimanda indietro altre due volte per verificare la notizia. (Vedi tav. n. 20) Entra in scena ora l'Apostolo Giovanni, inviato per lo stesso scopo da Maria. Anche'egli compie i tré rituali tragitti, il primo molto lentamente, mentre gli altri due allegramente e a passo più svelto per avere trovato conferma della grande notizia. Successivamente è la volta di S. Tommaso che incede lentissimamente per la sua forte incredulità, riferita anche dai Vangeli. Ma la scoperta del vero dissipa ogni dubbio e ravviva la sua fede, così anch'egli, al rullo dei tamburi, compirà allegramente gli altri due viaggi. (Vedi tav. n. 21) La gente intanto, ora distrattamente, ora con interesse, esposta ai raggi del sole, segue lo svolgimento della rappresentazione scenica. Tutti gli Apostoli infine, al suono dei tamburi e allo sventolio delle bandiere compiono i rituali tré viaggi per avere piena conferma del grande miracolo. Ormai non sussiste alcun dubbio e la Madonna, gettato il manto nero, rivestita di bianco appare in tutto il suo splendore, adorna del fulgore della viva luce degli ori. (Vedi tav. n. 22) È immenso il giubilo e la gioia per la Resurrezione di Cristo!

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�Il Figlio e la Madre al suono festoso delle campane, alle acclamazioni gioiose della folla e allo scoppiettio dei mortaretti, compiono finalmente la «Giunta» correndosi incontro per tré volte, mentre le bandiere frapponendosi velocemente tra loro sembrano frenare il grande slancio e l'entusiamo festoso. (Vedi tav. n. 23) Cristo è ormai risorto e tutta la comunità può festeggiare solennemente il grande evento. Anche la natura sembra rallegrarsi e l'atmosfera festosa si irradia per tutta la piazza totalmente illuminata dalla luce del sole. Non è un caso, ci sembra, che la rappresentazione venga fatta a mezzogiorno. È, infatti, il momento in cui maggiore è la luminosità e più intenso il calore della giornata e luce e calore, per naturale evento, sono componenti essenziali della festa e della gioia. La banda musicale intona, intanto, solenni e festose marce e gli Apostoli seguiti dalla Madonna e da Gesù Risorto si

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�avviano in processione verso la Chiesa del Convento. (Vedi tavv. n. 24 e 17) Anche qui, nella Piazza antistante, tra gli Apostoli che fanno ala si ripete il rituale della «Giunta» e subito dopo, gli Apostoli, la Madonna e Gesù si ritirano nella Chiesa da cui la sera inizierà la solenne processione dei simulacri per la «Via dei Santi».

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����Apprendiamo dal Giunta che anticamente, dopo l'incontro, i protagonisti della Sacra Rappresentazione erano portati nella Chiesa Madre dove veniva celebrata la solenne Messa di Pasqua. Questa tradizione è scomparsa in seguito alle riforme e alle innovazioni liturgiche. La processione serale è di recente istituzione e serve soprattutto per riempire il vuoto della seconda parte del giorno di Pasqua. Di grande fascino è il suo effetto coreografico e sicura è l'attrazione che esercita sulla massa dei partecipanti. Impressiona vedere sfilare i giganteschi simulacri degli Apostoli l'uno dopo l'altro schierati in due file tra la Madonna e il Cristo Risorto, e guardarli ed ammirarli da lontano, produce meraviglia e stupore. Come di consueto questa processione si conclude con i giochi pirotecnici, mentre la Madonna e Gesù davanti alla Chiesa del Convento ripetono la tradizionale «Giunta». Nel 1986, purtroppo, per motivi organizzativi, questa processione non si è svolta, lasciando la popolazione delusa e scontenta. Dopo la festa ogni simulacro fa ritorno nella propria sede dove dovrà attendere un altro anno per ritornare a ripetere il solito rituale. Come si può ben appurare la Rappresentazione Sacra è muta e si ispira un po' liberamente al racconto evangelico che la fantasia popolare ha infiorato di vive e spontanee immagini, travisandolo ed adattandolo ad un racconto in cui emerge in primo piano l'evento della «Giunta» tra Cristo e Maria. È l'anima popolare che rivive e riaffiora una fede primitiva vibrante di semplicità e ingenuità, lontana dal sofisticato ragionare dei filosofi e dei teologi, ruvida e scabra e priva della retorica pomposa dei dotti. Si tratta dell'espressione istintiva del credere contadino pago del poco sapere, ma saldo nella sua essenzialità.

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����C'è certamente un rifarsi al racconto evangelico e ciò lo testimonia la centralità delle figure di S. Pietro, S. Giovanni e S. Tommaso. Così recita il Vangelo: «Maria Maddalena, appena giunta, dice a Simon Pietro e a quell'altro discepolo che Gesù amava: Hanno portato via dal sepolcro il Signore, e non sappiamo dove l'abbiano messo. Allora Pietro alzatesi, uscì con l'altro discepolo e corse al sepolcro... Arrivò intanto anche Simon Pietro ...e chinatesi per guardare, vide solo le bende lì per terra, mentre il sudario ...era ripiegato in un angolo a parte... I discepoli intanto se ne tornarono a casa. Ma Pietro ritornò meravigliato di quanto era avvenuto!» (Luca, 24, 12; Gv. 20). Questo brano potrebbe spiegare in parte la scena della pantomima di S. Pietro, ma non da piena ragione dell'intera azione scenica. Della Madonna, per esempio, il Vangelo non fa cenno, ne tanto meno accenna alla sua incredulità. È la fervida fantasia popolare che vuole Maria partecipe in prima persona a questo grande evento: sarebbe impensabile che Gesù non si fosse manifestato, dopo la Resurrezione a Sua Madre. È assai noto poi l'episodio evangelico legato a S. Tommaso. Così sta scritto nel Vangelo: «Ma Tommaso, uno dei dodici, detto Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero dunque gli altri discepoli: «Abbiamo veduto il Signore»! Ma egli oppose loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e non metto il mio dito nel posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». (Gv. 20, 24-25). Da ciò è nato il personaggio della Sacra Rappresentazione il quale con il suo incedere lento e con la sua incredulità tutto vuole verificare prima di dichiarare la sua fede. Anche il detto popolare «S. Tummasu tocca e mania» deriva senza alcun dubbio dall'episodio evangelico citato. Si può quindi dire che il Vangelo è il grande ispiratore dell'azione scenica, ma

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che il supporto del contenuto generale principale è costituito, come abbiamo detto, dalla fantasia popolare. Questa azione scenica non suscita il grande entusiasmo popolare così come avviene per il Venerdì Santo; non del tutto vivo è infatti l'interesse del popolo, che vi partecipa principalmente per ritrovarsi nella piazza in cui essa si svolge per scambiarsi gli auguri. D'altra parte la Sacra Rappresentazione ha uno svolgimento lento e coinvolge poco gli spettatori che sono attratti maggiormente dall'azione conclusiva, cioè dalla «Giunta». Neppure il Giunta esprime un giudizio positivo su questa festa, in particolare per quanto riguarda l'aspetto religioso. Egli così riferisce: «È una festa che rende il popolino ilare. Bisogna dire che manca della serietà ch'è propria delle feste religiose». In alcuni strati della popolazione, inoltre, era talmente diffusa l'opinione che la «Giunta» fosse una cerimonia adatta ai bambini e alla massa dei contadini che la Confraternita del Sacro Cuore (o dei «Mastri»), ritenendosi di estrazione sociale più elevata, non vi partecipava. Diverse volte il Clero e la Curia hanno sottolineato il suo scarso o diremmo quasi inesistente valore liturgico ed hanno esaminato la possibilità di sopprimerla, specie dopo il Concilio, ma non si è pervenuti ad alcuna deliberazione riconoscendole il grande valore folkloristico. Esaminando la festa sotto questo aspetto è innegabile il fascino che esercita sul popolo o sui turisti, specialmente per la grande spettacolarità degli Apostoli. Inoltre non sono da trascurare alcuni aspetti che potrebbero essere oggetto di studio della moderna scienza antropologica. Significative ci sembrano in proposito la ripetitività e la fissazione dei gesti teatrali, cose che ci riportano indietro nel tempo e ne avvalorano il rituale. A

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conferma di ciò citiamo il Buttitta: «Le statue, «i misteri», sono rappresentazioni figurate della memoria, quella memoria che abolisce il flusso del tempo e fa presente il passato. Da sole però, esse non sono sufficienti a ristabilire ciò che è accaduto nell'ilio tempore del mito. È necessario il gesto, l'atto, cioè l'azione drammatica... Il gesto tende a sostituire e a sovrapporre al tempo profano il tempo mitico e reificare «qui» e «ora» ciò che è accaduto in uno spazio e in un tempo altri». La ripetizione del gesto per tré volte consecutive, elemento degno di nota, ci riporta a sottolineare il valore magico e simbolico del numero tre. Tale ripetitività non è riscontrabile solo nella «Giunta», ma anche nelle comuni azioni giornaliere. Dice il Pitrè: «II numero tré, secondo il proverbio, si ritiene perfetto: ogni trinu è malandrinu; e difatti, esso entra frequentissimo nella vita, e governa le opere degli eroi e delle eroine delle novelle popolari come i giochi dei fanciulli e i canti...». Ogni fenomeno va studiato, oltre che nel suo attuale manifestarsi anche nel suo divenire storico. Ispirandoci a questo principio, ci siamo chiesti se la «Giunta» si è svolta sempre nello stesso modo e sempre con la presenza dei giganteschi Apostoli. Un'ipotesi che potrebbe rivelarsi valida sarebbe quella che un tempo si sia svolta in modo più semplice e che la parte degli Apostoli fosse interpretata da dodici persone scelte tra il popolo. A Pietraperzia, infatti, fino a qualche anno addietro si rappresentava la stessa azione scenica in cui gli Apostoli protagonisti erano gente del popolo. In un secondo tempo, sia perché altrove la manifestazione si era modificata, sia per consentire una maggiore visione e partecipazione, pensiamo che siano stati introdotti i giganteschi Apostoli attuali. Ma ciò è una semplice e timida

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ipotesi che non è testimoniata da documenti storici ne suffragata da testimonianze dirette. La riteniamo una intuizione da tenere in considerazione e da collocare tra i vari interrogativi che suscita ogni fenomeno umano. È certo, comunque, che la manifestazione così come avviene, evidenzia una certa puerilità tanto da sembrare un gioco; ma il gioco, come sempre accade, è rivelatore dell'«animus» popolare e tale rappresentazione nella sua ripetitiva gestualità sottende la ricerca spasmodica della verità, ricerca mai sopita e sempre risorgente. Tale fenomeno potrebbe inoltre rappresentare l'amplificazione dell'io infantile che manifestandosi attraverso la figurazione imponente dei simulacri, costituisce la liberazione della coscienza dalle pastoie delle frustrazioni ambientali. Atto liberatorio, dunque, che si esplica con il camuffarsi nella puerile gioia della Sacra Rappresentazione. Antichissima è l'origine della «Giunta» per la cui datazione rimandiamo a quanto detto in precedenza. Vogliamo solo ribadire che tali manifestazioni furono introdotte in Sicilia dagli Spagnoli e che si diffusero in molti paesi. Ci risulta infatti che la «Giunta» con diverse varianti è diffusa in molti centri della Sicilia come Prizzi, Palermo, Caltagirone, Aidone ed Aragona, mentre a Mazzarino è scomparsa. In particolare la presenza degli imponenti Apostoli si riscontra ad Aragona, Caltagirone ed Aidone. «La Giunta» non è diffusa solo in Sicilia, ma anche nel Nord Italia e perfino all'Estero. A tale proposito citiamo dal Giornale di Sicilia del 27/3/1986: «È inutile ricordare che statue processionali come gli Apostoli di Aidone troviamo in Belgio, Piemonte, Liguria, Veneto, come nei Giasanti di Mistretta, i Gialanti e la Gialantissima di Messina, e possiamo scorgere somiglianze analoghe di queste figurazioni nei

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Sanpaoloni di San Cataldo e in altre di Calabria, Puglia e Campania. «Tali manifestazioni» furono intorno al '500 e ai primi del '600 molto diffuse dagli Spagnoli a Palermo e in tutta la Sicilia. Talché se ne hanno ricordi e rievocazioni a Trapani, Caltagirone, Vizzini, Salaparuta, Barrafranca e altrove». (Enzo Evola). A Pasqua non ha solo importanza l'aspetto folkloristico, ma anche quello conviviale rappresentato da un pranzo sontuoso e speciale a cui partecipano con gioia tutti i componenti della famiglia, ancora da noi per certi aspetti «patriarcale», i quali con la loro presenza sottolineano così il senso di unità e di letizia. Il giorno di Pasqua conclude tutte le manifestazioni di una settimana ricca di folklore e di fede, in cui si manifesta il dolore e la gioia e in cui il popolo proietta tali sensazioni ed emozioni nei riti, che concentrati in pochi giorni esaltano i sentimenti umani nella loro spontanea genuinità.

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LA PASQUETTA �

����Un residuo di rito pagano misto a manifestazioni di fede popolare si può riscontrare anche nel giorno della Pasquetta, chiamata da noi e in molti altri centri della Sicilia «Pasqualuni». Essa si festeggia il lunedì di Pasqua, detto secondo il calendario «Lunedì dell'Angelo». Questo giorno è possibile ricollegarlo ai riti pagani celebrativi della primavera e quindi più propriamente si potrebbe chiama- re «Festa della Primavera». La comunità infatti lo trascorre in campagna a contatto con la natura, che si è ormai risvegliata dal lungo letargo invernale. A conferma di ciò, «a Merigliano — dice il Pitré — la gita avrebbe molta ras somiglianzà con la festa di Anna Perenna, descritta da Ovidio (Fasti I, III)». È un giorno di gioia e spensieratezza da trascorrere in allegra compagnia tra canti e suoni, all'aperto davanti alle case di campagna e in compagnia di amici e parenti. È d'obbligo, in questo giorno mettere al bando tristezza e noia e festeggiare e gioire quanto più possibile. Tutta la gente si riversa nelle campagne, lasciando il paese quasi vuoto. Dovunque si vedono allegre comitive di amici che o in macchina o a piedi, scorrazzano per le campagne, o fanno delle piccole escursioni. È tradizione trascorrere questo giorno divertendosi soprattutto con un tipo particolare di altalena chiamata in dialetto «naca» e allestita con una corda legata a due alberi. Caratteristica è la filastrocca che è recitata, in questa occasione, da colui che spinge la «naca». La riportiamo:

E iè l'urtimu nacuni e di Santa Catarina rina, rina, rina... e ti inghi u culu d'arina

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rina, rina, rina... Chistu iè ppi tò pà, chistu iè ppi tà ma, chistu iè ppi tò frati... (...) Chistu iè l'urtimu nacuni chi ti dugnu i.

L'intera giornata si trascorre all'aperto: alcuni giocano o si divertono in vario modo o raccolgono le mandorle ancora tenere; altri arrostiscono o preparano i tradizionali cibi, come le sarde, i carciofi, e le varie frittate. Le ragazze si dilettano, talvolta, a raccogliere fiori di campo e ad ornarsi con essi i capelli. Il momento culminante di questo giorno è il pranzo in cui si consumano le varie ed abbondanti pietanze portate da casa dagli invitati e in cui si mettono da parte l'etichetta e le fastidiose diete. Si socializza con facilità; si mangia a crepapelle e si beve molto. Qualcuno arriva anche ad ubriacarsi. Il pomeriggio di solito si trascorre facendo o ricevendo visite. Alcuni continuano la festa fino a notte tarda ballando e scherzando. Prima, essendo poche le famiglie che possedevano le case o le ville in campagna, la Pasquetta era una vera e propria festa campestre. La gente si impadroniva del territorio circostante e si spargeva per i prati, senza rispettare i confini di proprietà. Si improvvisavano delle vere e proprie feste comunitarie e si consumavano i cibi su tovaglie stese sul tappeto verde dei campi. In proposito così dice il Buttitta: «Un caso evidente di riappropiazione del territorio da parte della comunità è la cosiddetta Pasquetta, il Lunedì dopo Pasqua in cui senza riguardo per i confini di proprietà pubblica

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o privata la gente a gruppi si sparge per le campagne per trascorrervi l'intera giornata». Manifestazioni di fede popolare si riscontravano anticamente anche in questo giorno, ma esse sono totalmente scomparse, facendo prevalere di più l'aspetto laico e ludico in modo particolare. Era tradizione, già tra i primi cristiani, trascorrere tutta la settimana dopo Pasqua in continua festa. I neofiti si riunivano tutti i giorni nelle varie chiese per assistere alla Messa di rito trascorrendo comunitariamente il tempo rimanente della giornata. Fino a qualche tempo fa, in alcuni paesi della Sicilia si era soliti organizzare dei pellegrinaggi nelle chiese di campagna, vicine al centro abitato, i quali si trasformavano in gite campestri. Riportiamo dal Pitré cosa accadeva in particolare a Caltanissetta: «In Caltanissetta il lunedì si va alla chiesetta di Santo Spirito, a tre chilometri dalla città più che per devozione per divertimento... È un andare continuo di frotte, di comitive. Si chiacchiera, si ride, si schiamazza, così permettendo la giornata lungamente attesa tra le noie e i fastidi della Quaresima. A S. Spirito il piano formicola di gente, che verso mezzogiorno accoccolata sull'erba, stese tovaglie, messe fuori stoviglie e quanto ha portato da mangiare, paga «il solito tributo al famelico ventre e importuno», per dirla con B. Baldi. È la storia delle feste popolari...». Una usanza particolare del nostro paese era quella di fare «I novi cori di l'Angiuli». Due ragazzi o due ragazze, in età adatta al digiuno, cioè verso gli otto o i nove anni, stringevano un patto che consisteva nel digiunare il giorno della Pasquetta per nove anni consecutivi, tanti quanti sono i cori angelici. Il beneficio che se ne ricavava era quello che alla morte di uno, l'altro superstite si sarebbe adoperato a far partecipare al

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corteo funebre nove bambini vestiti di bianco con ceri accesi. È evidente in questa tradizione l'influsso cristiano misto alla spontaneità della fede popolare, che spesso rasenta la superstizione. Licata e Orofino nella antica Pasquetta del nostro paese, intravedono tratti caratteristici della società agricola che si contrappongono a quelli della società borghese. Essi scrivono: «La parità sociale, l'ospitalità e il dono, la valorizzazione del godimento sono valori questi che contestano i modelli di privatizzazione del benessere tipici della società borghese». Al di là di tutti i giudizi interpretativi, ci sembra che comunque la Pasquetta sia strettamente saldata alle feste pasquali e che ne rappresenti la parte conclusiva specie con la sua esplosione di spensierata allegria.

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DUE USANZE PARTICOLARI DEL PERIODO PASQUALE �

����Alle tradizioni pasquali sono da ricollegare anche il costume di compiere una pulizia generale e scrupolosa della casa e dei suoi arredi, e la «benedizione delle case». La pulizia della casa in questo periodo, potrebbe ricollegarsi al fatto che l'anno nuovo cominciava con la primavera e proprio per sottolineare il risveglio e la rinascita della natura si faceva una pulizia più accurata. Qualcuno pensa che quest'uso potrebbe essere collegato a costumanze risalenti ad innocui riti catartici dei pagani. Per quanto riguarda la «benedizione delle case» era uso da parte dei parroci di recarsi presso le case dei parrocchiani per benedirle e in questa occasione, ricevevano dei doni in natura, soprattutto uova.

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CONCLUSIONE �

����Tenace è l'attaccamento del popolo barrese ai riti della Settimana Santa, tanto che essi resistono ai mutamenti della mentalità e al progresso teconologico. Lo testimonia il fatto che molti emigrati (Barrafranca ne conta a migliala), pur essendo venuti a contatto con società industrializzate e diverse, in questa occasione ritornano a casa, per assistervi e parteciparvi; ed ancora, il fatto che molti tentativi di innovazione, i quali in altri paesi hanno avuto esito positivo, qui sono falliti. Dove e in che cosa, dunque, riscontrare il motivo più profondo dell'attaccamento e di conseguenza della persistenza delle tradizioni? Una risposta esauriente a questa domanda potrebbe essere quella del Buttitta alla cui citazione noi aggiungeremmo a «mitico», «sacro»: «II tempo "mitico" (e sacro) è una sfida al tempo profano: questo è una successione di tempi perduti, quello un perenne recupero di essi. I riti della Pasqua in Sicilia, anche quanto modificati rispetto al passato, non hanno smarrito il loro primitivo significato di instaurazione di ritmi temporali «altri» nello squallore del quotidiano». Profondo è il senso e il valore della Pasqua per ogni essere umano. Essa si richiama ad alcuni momenti chiave della vita, la morte e la resurrezione, in cui alcuni vi intravedono l'eterno fluire del tempo e il perenne presente della vita; altri specie i cristiani, il momento escatologico della Redenzione. Ci piace concludere questo nostro lavoro con un pensiero di Gaspare Barbiellini Amidei che si sembra esprimere il senso più profondo della Settimana Santa: «Nella religione cristiana la sconfitta della morte, la resurrezione del Cristo, che

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anticipa e permette la resurrezione di tutti i morti è la chiave di volta di un'architettura già disegnata dalla sapienza della tradizione ebraica. È il senso della Pasqua, che è festa del tempo, non del tempo lineare della storia, del tempo ciclico delle società tradizionali. Il tempo dove tutto torna, torna la morte del venerdì, torna la resurrezione della domenica. Ciò che oggi spesso sfugge all'uomo che ripete questi riti, è dove, perché torni questo tempo».

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APPENDICE �

Per conservare memoria, riportiamo in appendice alcuni canti popolari attinenti alla Settimana Santa che ci sembrano degni di nota. PARTI DI L'ANGILU GABRIELI L'angilu Gabrieli fu spunutu e di l'Eternu Patri cumannatu e di li ci eli 'nterra ha scinnutu, davanti di Maria s'ha prisintatu: «O Maria, i' ppi tia sugnu vinutu, fuiu di l'Eternu Patri cumannatu, lu tò 'nnomu sarà binidiciutu ppi nasciri Gesuzzu 'nnuminatu». Maria quannu 'ntisi ddu tinuri, povira donna, si misi a trimari, fici la vuluntà di lu Signuri chi di pai ora un si potti nigari. Maria parturì cun gran timuri, 'f faccia na stidda primu di gghiurnari, ie ha nasciutu lu nostru Signuri, patruni di li celi, terra e mari. E li tri re cent'anni caminaru ie apprissu di na stidda si 'nni jru. Un jurnu a Betlemme si truvaru e dintra di dda grutta già trasiru;

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a S. Giseppi ie a Maria si prisintaru, vidinnulu a Gesù lu nubiliru e tutti tri li fiori ci lasciaru, incensu, mirra ie oru ci cidiru. (...) Ma lu Bamminu uttu iorna aviva, ed Erodi arriri lu pirsicutava. Maria in Egittu s'inni jva sutta lu mantu lu figghiu 'mmucciava, a S. Giuseppi a la spalla l'aviva, chi sempri arma e curaggiu ci dava. Maria ppi lu figghiu si muria ca di sangu li lacrimi jttava. Trentatrì anni doppu timpu aviva, quannu di cilu a stu munnu calava, lu tistamintu iddu si faciva, pirchì la morti so si giudicava. Tannu dudici Apustuli tiniva, tannu lu munnu interu limava. L'angiulu santu chi iva e viniva chi li risposti di Diu ci purtava. Vosi fari cena lu Signuri ppi vuliri FApustuli 'mmitari di pani e vinu e di molti fiuri a tutti li fici saziari. E l'esempiu ci lu detti lu Signuri pirchì li pidi ci vosi lavari, di Diu di vuatri e di l'arruri cu mi tradisci e cu mi vò nigari.

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Giuda chi lu tradimintu lu urdiva, chi la so 'nfamità la studiava e drittu 'ndi Erodi si nni iva ca tutti li risposti ci purtava. Erodi a Gesù nun lu canusciva, Giuda la canuscenza ci la dava, l'urtu di Diu nun lu sapiva, Giuda a la so prisenza lu purtava. Giuda chi Gesù Cristu si vinniva, chi ppi trenta dinari lu cangiava, apprissu li purtava li ludia, ppi 'mpararicci Gesuzzu lu basava. L'hanu Tfirratu ccu tanta trannia e ognunu lu so corpu ci lu dava. Pietati nessunu ci 'nnavia, chi San Pitru tri voti lu nigava. Giuda l'appi d'argentu la munita e la so 'nfamità vinni appruvata, ma ccu Diu ci la persi la partita pirchì si fici dari la lanciata. Guadiri nun si potti la munita, nun si potti fari na bona mangiata. Diu lu cunnannà 'ndi l'atra vita: «Vai o 'nfirnu cu l'arma dannata». Fu pigghiatu di l'urtu lu Signuri chi ne fuiri potti ne scapppari. Giuda fu lu primu tradituri ca Gesù Cristu lu fici 'ristari, lu tuccaru e nun avivanu timuri,

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dannu mazzati senza rimuddari. Cadì la prima vota lu Signuri stancu e non si potti riarzari. Arza la manu lu Marcu iudia, na masciddata a lu Signuri dia. San Pitru si sdrivigghia chi durmia e cu na spata l'oricchia ci taglia. Gesù Cristu lu figghiu di Maria iera 'ttaccatu 'nterra e ha suspiratu: pigghia l'oricchia di chiddu iudia e novamenti ci l'ha 'mpiccicatu. L'hanu 'mputiri a Gesù Nazarenu. Di quantu guai e distridi ci fanu! La facci 'mpinta so cu lu tirrenu, e ancora iddi minnitta 'uni fanu. A viviri ci dittiru vilenu ppi fallu muriri a manu a manu. Maria chi lu 'ddivà 'ndi lu so senu cianci lu figghiu chi l'Ebrei l'hanu. Ma ddi pupuli abrei 'rrabiati, contra di Gesù ieranu accaniti. Ci 'nni dittiru tanti di lanciati chi 'ndi lu pittu l'appi la ferita. Nessunu ci n'aviva pietati, ieranu stanchi e murti di la siti furu di Gesù Cristu ributtati 'nterra cadiru tutti barruiti. (?)

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All'Ecce Homo 'mputiri l'aviti la Cruci 'ncuddu e li manu 'fiaccati, pietati chi nuddu ci n'aviti: fracillari ssi carni 'mmaculati, lu figghiu di Maria nun lu canusciti, ca tutti pugna e pidati ci dati! Chi 'ndi lu pittu l'appi la ferita, parunu di luntanu li lanciati. Ma Gesù Cristu l'aviva la russura, chi iera vistutu e lu iru a spugghiari, lu sputavanu tutti l'imposturi e pui 'nf accia nun lu vusuru guardar!. La Veronica si parti 'n timuri, la facci a Diu ci ha ghiutu a stuiari, lassa la stampa 'ndi lu muccaturi, la figura di Gesù prisenti pari. Diu chi scazu e nudu caminava, la so figura nun si canusciva, Erodi ppi magaru lu pigghiava chi vitti chi miraculi faciva. E la cruna di spini ci cchiantava e di la frunti sangu ci curriva. Tuttu lu munnu chiddu firriava ccu dda cruci pisanti chi finiva. Erodi 'rrabiatu lu ffirrava, 'ncatinatu fermu lu tiniva, 'ncasa di Pilatu lu purtava chi cunnannatu iddu lu vuliva.

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Lu prucissu a li manu ci lu dava e ddu poviru Pilatu lu ligiva, marnati Diu nun ci n'avi va e cunnannari unu lu vuliva. Tri voti cadi 'nterra lu Signuri du boni donni lu iru a scuntrari. Canuscinnu chi iera lu Signuri davanti si ci iru a 'nghinucchiari, priannulu di cori: «Redenturi, mio Dio, nnaviti a pirdunari!» Lu miraculu lu fìci lu Signuri, li fìci a tutti Diu santificari. Maria chi va circannu lu Signuri e d'ogni strata nun lu pò truvari, ciancinnu sempri: «Figghiu Sarvaturi, sula senza di tia comu aiu a fari! Ma di trentatrì anni, chi duluri! Sta morti nun mi putiva figurar!. A ghiri 'ncruci ppi li piccaturi, figghiu comu t'ha fari fracillari! Dimmillu s'ha fattu qualchi arruri, chi di 'nnuccenti nun ti putivunu 'ristari. I' mintiri ci vugghiu un professuri, spiru chi t'avissiru a librari. Dimmi cu iè lu iudici 'strutturi? Ccu la ma vucca ci vugghiu parrari, ci lu dicu chi iè ma figghiu Sarvaturi, ppi chista vota mi l'aviti a librari».

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Erodi ièra lu iudici 'strutturi, cuntu a Maria nun ci nni vosi dari. Ci dissi: «Donna! Andati ppi fauri, ca vostru figghiu s'ava 'a cunnannari». Li giurati si misiru 'ntimuri e tutti ccuminsaru a giarniari. Canuscinnu chi iera lu Signuri, nuddu cunnanna cci nni vosi dari. Diu era ttaccatu e ha suspiratu, quannu si vitti a menzu li iudia. Ccu la so vucca a San Pitru chiamava: «Pitru, vini ccà» ci diciva. San Pitru, misu arrassu chi scutava, si sintiva chiamari e nun ci iva, San Pitru di la forza si scantava, chi vitti a Gesù Cristu ca cianciva. Erodi iera lu primu rignanti, ca lu prucissu ci misi presenti, ppi cunnannari lu Rè di li Santi, lu Patri di nuatri eternamenti. Sunannu trummi e tammura fistanti, tutti l'abrei ieranu cuntenti. Si lu livaru a Diu di davanti, chi l'anu cunnannatu di 'nnuccenti. La cunnanna finì di lu Signuri. Lu purtaru a la cruci a fracillari. Erodi iera lu capu 'mposturi chiddu chi Gesù vosi cunnannari,

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spirava la smiraglia di valuri e li giurati so vosi 'mmitari, ssa forza ci la detti lu Signuri cu lu so scopu di farli sbingiari. Maria novamenti lu circava ie nun c'era vanedda ch'un ci iva e a tutti la genti ci spiava: «L'aviti vistu a ma figghiu», ci diciva. Nutizia nessunu ci nni dava a dda povira donna ca cianciva e ccu na vuci forti lu chiamava: «Figghiu 'nnuccenti 'mparami la via». Diu chi a lu Cravaniu cchianava e chidda cruci pisanti 'ncuddu aviva, Simuni e Cirineu l'aiutava chi si scantava chi Diu muriva e la cruci di 'ncuddu ci livava, 'ncapu la spalla so si la mintiva e quannu a lu Cravaniu arrivava a Gesù fermu lu tiniva. Ma Diu 'bbannunatu nun parrava chi a so matri nun ci rispunniva. Erodi ccu na manu lu scatinava, al tronu di la cruci lu stinniva, ccu lu martiddu chiova cci cchiantava, di manu e pidi sangu ci curriva, ccu la lanciata lu corpu ci dava e a ogni corpu na ferita aviva.

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Doppu misu a la cruci lu Signuri, tutti lu ccuminzaru a fracillari, a lu cicu lu dittiru 'mputiri: «Duna lanciati a nun ti spavintari». Lu cicu tantu nun putia curpiri, li curpi nun putia precisari. Diu la vista ci fici viniri ppi vi diri lu sangu scivulari. Diu pui chi appi la lanciata, ccu li tormenti ci scurzà la vita. Lu sangu chi curriva dda iurnata, stagnar! un ci vuliva la ferita! Barbara lancia echi fusti 'rrabbiata, a lu pittu di Diu fusti accanita! Maria va ciancinnu disprizzata, ndi lu so santu visu sculurita. «Figghiu chi a la strania mi lassasti, vorrà sapiri unna t'inni isti. I' ti 'ddivaiu, comu mi scurdasti! Pirchì di canuscenza mi pirdisti! I' a tia ti persi e tua a mia mi pirdisti! Chi duluri a lu cori chi mi dasti chidda iurnata quannu t'inni isti, lu risu di la vucca mi livasti». «Matri mia nun n'haiu chi fari, partenza amara chi mi nn'hai 'a gghiri e ppi lu munnu vuluri sarvari, la ma sintinza è data ppi muriri». Maria si partì ccu lu Signuri

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tutti dui ccuminzaru a lagrimari. Gesù Cristu chinu di suspiri, partì drittu ppi gghiri a muriri. Diu sei uri stetti a la cruci, ppi 'ccuntintari a tutti li nimici. Li populi abrei fanu vuci, facinnu cunsidrari la morti chi fici. Mentri chi iera 'ntrattu 'ndi la cruci a L'Eternit Patri priiera ci fici: «P Patri sugnu cunnannatu ppi la cruci pirdunati a mia iè a li ma nimmici». Giseppi Nicudemi rispunniva, cuntu di Gesù Cristu nni pigghiava, a lu populu abreu ci diciva: «Di mintilu a la cruci un vi tuccava» ma lu populu abreu ci diciva. Giseppi Nicudemi lu pigghiava, iddu di la cruci lu scinniva, ccu na longa tuvagghia lu calava. Maria ppi la strata caminava iera ccu San Giuanni 'ncumpagnia e quannu a lu Cravaniu 'rrivava, • trova lu figghiu a 'mmenzu li iudia. Ci dissi: «Figghiu di l'armuzza mia! I' ccu stintu e affannu ti 'ddivava ora ti truvu a 'mmenzu li iudia. Stu tradimintu nun lu suspittava».

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Maria cianci ccu suspiri amari: «Figghiu ti persi e nun ti potti aviri! leratu vivu e nun ti potti asciari, chi l'abrei t'avivanu 'mputiri! Ora a la cruci ti vinni a truvari, murtu di tunnu e nun ti vitti finiri! I' comu mamma ti vinni a 'bbrazzari! Figghiu ti cianciu com'è di duviri». Maria di la cruci nun si rrassava. Lu so nobili figghiu si cianciva, ccu li so manuzzi lu 'bbrazzava e 'ncapu li so ginocchia lu mintiva. L'Eternu Patri di cori priava, spirava ca lu figghiu nni vistiva e 'nda stu mentri la forza 'rrivava, ci lu livaru lu figghiu a Maria. Caifarsu, rè Erode e Pilatu, lu passaggiu di Gesù hanu liggiutu, chi iera statu a morti cunnannatu, chi comu Diu un fu canusciutu. 'Ndi na scura fossa fu purtatu, di tutti chiddi abrei sippillutu e dui ebrei chi l'anu guardatu, Gesù Cristu davanti eia spirutu. Dopu risuscitatu lu Signuri, l'angilu l'ha jutu a visitari e l'ha chiamatu «Santu Sarvaturi, vostra matri ppi vui nni spinna e mori. Vui aviti murutu ppi li piccaturi,

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comu v'aviti fattu fracillari.» Ora è risuscitatu lu Signuri e la grazia vostra un pò mancar!. Dducu, pronti rispusi lu Signuri: «P chista morti l'ha diviva fari, di esempiu ristirà a li piccaturi, chi cu nasci a 'stu munnu a da muriri. Angilu santu fammi stu favuri, a ma matri mi l'ha gghiri a diri». Giunta fanu Maria ccu lu Signuri, la manu destra ci ha iutu a basari. Ora sintiti cianciri a Maria. Davanzi di Diu si rispittiava: «P figghiu quannu 'ntisi la 'ngunia, la morti tua mi la figurava. Giuanni è statu l'assistenza mia, unna vuliva iri mi purtava. Quannu vitti lu sangu 'ndi la via ca 'nfina a lu Cravaniu 'rrivava». Diu rispusi: «Matri nun cianciti, pena di mia nun vi nni pigghiati. Ora a la spalla di mia caminati, 'n cilu ccu mia vi 'nni viniti, 'ndi 'stu munnu di mali nun ci stati. Li piccatura cchiù nun li viditi contra di mia sunu stati ostinati». Scutati l'asimpiu chi dici: Gesù Cristu ppi nui morsi 'ncruci.

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Di pui li pirdunà li so nimmici pirchì si pò diri a ata vuci. Cu va a lu 'nfirnu palati di pici e li so carni arsi di lu luci. Cianci Maria: «Ma figghiu echi dici lu fracillaru e lu misuru 'ncruci». Diu si dispunì e vosi muriri, ppi vuliri lu munnu riscattari. Tutti a !u 'nfirnu, ci avivumu a gghiri. Gesù Cristu 'nni vosi pirdunari. Lu iornu di lu Giudiziu a bbiniri ppi li vivi e li morti giudicar!. Tutti a la so prisenza 'namma a ghiri chi a unu a unu 'nni divi circari. «Matri, mi stati dannu 'ndi lu cori l'haiu videmma lu dispiaciri. Iddi, chi unn lu sanu chi si mori, pirchì nun fanu li cosi a doviri? Chi l'hanu a usu a bastimiari li so vuccazzi di lu malu diri, Matri si li vuliti pirdunari, tutti a la ma prisenza a na bbiniri». O piccaturi, tranni e dannusi, chi tutti Diu vi li fa l'offisi. Nuatri avimmu santi miraculusi chi un n'hanu nuddu, nessunu paisi. Nun l'amammu chi simmu sdignusi, pirch'issu Diu 'nni teni riprisi.

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L'armi nustri l'ayimmu priculusi comu li Turchi ccu li Germanisi. Ppi nuatri lu munnu iè bastardutu, lu bastardisci lu nusciu piccatu; - Diu di la so morti fu pintutu pirchì vitti lu nostru risurtatu. Fu di tutti l'Abrei scanusciutu com'n'omu qualunchi 'ncatinatu. Pilatu fu d'Erodi privinutu e la sintenza a morti ci ha datu. Oj iè la santa morti e passioni a Gesù Cristu visitu si teni. Si ci fa lu trapassu e lu diunu e di la santa chisa si va e veni, a Diu si preia 'nginucchiuni e cordogliu cu nu' nuddu nni teni, iddu iè patri e iddu iè lu patruni e 'ndi lu munnu iddu 'nni. susteni. I’ sugnu furmatu a 'sta religioni, pirchì haiu li sinzii sireni; di Diu vugghiu la precisioni fari la liggi santa mi cummeni. Cu avi fidi a la cunfissioni e di la santa chisa si va e veni, si Diu li so grazii disponi li spenni tutti a nui e nun s'inni teni. Simmu apprissu di Diu dibituri. Ogni arma di vissi cunsidrari,

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mi l'ha lassatu scrittu lu Signuri: L'omu chi l'ha fattu Diu nun l'ammazzari. Anchi 'nni lassa lu cunfissuri ca ognunu si divi cunfissari. Comu fu cunnannatu lu Signuri lu populu lu divi cuntintari. Si la ma vucca parrà e fa erruri, qualunchi mi duviti pirdunari. Preti nun sugnu e mancu cunfissuri la liggi santa vugghiu praticari. Siddu si prisenta lu pridicaturi, i' un passu 'nnarriri mi vugghiu tirari. Chiddu iè ministru di nostru Signuri lu populu lu divi cuntintari. Di parti n'haiu dittu già bastanza chini di verità e di sapienza. Mi pisu l'arma senza la valanza cuntu la ragiuni senza canuscenza. Ligiu li libra di na longa distanza, li ligiu comu forra di prisenza. Diu a mia l'ha datu la lustranza d'aviri fidi a la so 'nniputenza. Chisti su parti di riflissioni, su fatti ccu li sinsii sireni. Gesù Cristu ppi mia si disponi iè iddu chi a lu munnu 'nni manteni. La ma vucca nun havi suggizioni

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parrà a la svelta, comu veni veni. Mentri Diu m'ha datu 'sii duni chi i' parru cu li sinsh sireni. A 62 parti haiu 'rrivatu. Chista grazia Diu mi l'ha datu. Griditi amici chi nun haiu durmutu, mancu lu iurnu pani haiu mangiatu, la fini di Gesù Cristu l'haiu avutu. Tutti li iorna l'haiu recitatu. Ora chi 'sta poisia haiu finutu haiu ringraziatu a Diu chi m'ha 'mparatu. L'urtimu parrà lu poeta Giardino Ferdinando mintuatu. Di Diu v'haiu cuntatu lu segretu, ne notti e iurnu nun n'haiu avutu cuietu, pirchì ppi Diu c'iavimmu pinsatu, a lu parrari nun mi sintu letu chi iè gravusu assai lu ma piccatu. A 64 parti haiu 'rrivatu ppi parrarivi di la morti di Diu. Mi aviti a scusar! chi timpu nun n'haiu, ha terminatu 'stu sensiu miu, dannucci l'arma e 'stu cori miu. Ora nun parru cchiù fermu mi staiu viva la misiricordia di Diu.

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I PARTI DI VINTIQUATTR'URI �

Cristu a ura di notti detti un signu consa la cena Giuda miserenu, mentri la cena iva cunsannu lu tradimintu si iva uprannu. Ma Gesù Cristu lu tuttu sapinnu chi la so morti si va bbicinannu. A li dù uri li pidi ci lavaru iè li tri uri ci li pridicaru (?) A li quattr'uri all'ortu sinni iru A li cinqu'uri 'n'angilu cala E cummertiti ch'è lu nostru veru Dì A li se' uri la truppa arriva Cristu 'nni li so vrazza s'arrinnì A li sett'uri lu comunicaru (?) A l'uttu chi nni scanza di pietati A li novi fu tuttu maltrattatu A li deci di biancu fu vistutu All'unnici comu un poviru carzaratu A li dudici fu 'ncasa di Pilatu A li Iridici a la culonna fu battutu E lu 'ncurinaru a li quattordici uri Ccu na cruna di spini assai pungenti. Di russu lu vistiru a quinnici uri manna scrittu bianchi e farisei (?) A li sidici si mossi un gran rumuri gridannu «Crucifissu» li Giudei

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A�li diciassetti lu pedi a la Cruci ppi amari, supplì la nostra Luci A li diciduttu lu misiru 'ncruci tannu si 'ntisiru sazii l'Abrei A li diciannovi lu misiru 'ncruci gridannu la so mamma tantu affannu. Preia a vint'uri lu so Patri duci chi pirdunassi a tutti li 'nnimmici A vintun'ura acqua ha dumannatu ci dittiru feli ie acitu trapassatu Cristu a vintidù uri sinnutà (?) ca lu pedi a la cruci si batti Vintitrì uri l'hanu sdinchiuvatu chi murtu la lanciata ha ricivutu. Vintiquattr'uri l'hanu sippillutu Tannu si 'ntisiru sazii l'Abrei. PASQUA La matina di Pasqua c'è un fistinu, L'angiuli cu li santi festa fanu. Maria si partì ccu Cristu divinu, lu va circannu ccu lu mantu 'mmanu. 'Nsa chi lu trova 'nni fa gran fistinu, 'uni fa la grazia e 'nni spingi la manu. Cristu quannu partì di lu Cummentu ccu la bannera stritta 'ndi lu pugnu, li sacerdoti cu lu Sacramentu, l'Apustuli gridannu ppi lu munnu. Cristu vitti a Maria partì currinnu: «Chista iè la ma matri e nun mi 'nn'addugnu». (...) (...)

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� Sac. Giuseppe Giuliana, «La diocesi di Piazza Armerina», Caltagirone, 1967.

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INDICE

Prefazione ……………………………………………………………………………..Pag. 07

PARTE PRIMA «Mito» e «Rito» nelle tradizioni della Settimana Santa Pag. 14 La Pasqua ebraica …………………………………………………………………….» 19 La Pasqua cristiana ……………………………………………………………… » 24 Calendario della Settimana Santa a Barrafranca................» 27 Origini della «Giunta» a Barrafranca ………………………………. » 29 La “via dei Santi”..…………………………………………………………………..» 32 Metodo di lavoro ………………………………………………………………….. » 35

PARTE SECONDA Introduzione ………………………………………………………………………….. » 36 «A tiledda» …………………………………………………………………………….. » 37 La Quaresima e gli Esercizi Spirituali ……………………………… » 39 Domenica delle Palme …………………………………………………………… » 45 Lunedì, Martedì, Mercoledì Santo ……………………………………. » 50 Vasacra (testo) …………………………………………………………………….. » 53 Giovedì Santo ……………………………………………………………………….. » 73 I Setti Dulura (canto) ………………………………………………………….» 80 I Setti Duniti (canto) ………………………………………………………… » 83 Rosario del Giovedì e Venerdì Santo …………………………………» 85 Visita ai “Sepolcri” ………………………………………………………………..» 85 Venerdì Santo ……………………………………………………………………… » 86 U Crucifissu (poesia) ………………………………………………………….. » 111

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La Salve Regina (lamento) ………………………………………………… » 120 Lamenti (lunedì, martedì, ecc.) ……………………………………….. » 121 A Maria Addalorata (canto) …………………………………………. » 123 La cerca di Maria (canto) ……………………………………………….» 123 U visitu di la Madonna (canto) …………………………………….. » 125 luda di Marcu (canto) ……………………………………………………. » 127 Sabato Santo ………………………………………………………………….. » 128 Domenica di Pasqua ………………………………………………………… » 135 La Pasquetta ……………………………………………………………………. » 150 Due usanze particolari del perido pasquale ……………… » 154 Conclusione ……………………………………………………………………… » 155

APPENDICE Parti di l'angilu Gabrieli (canto) …………………………………. » 157 I parti di vintiquattr'uri (canto) ………………………………… » 174 Pasqua (canto) ………………………………………………………………… » 174 Bibliografia …………………………………………………………………….. » 177

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Finito di stampare dalla Tipografìa Lussografica

via Alaimo 36/46 Caltanissetta

nel mese di dicembre 1986

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Retro Volere conoscere l'io collettivo di un popolo è indagare e scandagliare il suo manifestarsi e consolidarsi anche attraverso le tradizioni popolari. Traguardo arduo è la pretesa di raggiungere tale obiettivo; pur tuttavia gli autori di questo saggio hanno contribuito al perseguimento di questo fine ed hanno aggiunto una tessera importante al grande mosaico di tale ricerca. Con meticolosità essi ci guidano alla riscoperta delle tradizioni popolari della Settimana Santa del loro paese e lungo questo viaggio rispondono a numerosi interrogativi e stimolano a pome altri. L'analisi inizia dalla Quaresima e via via, superando ostacoli critici notevoli, culmina nel Venerdì Santo che costituisce l'ossatura principale di questo saggio, e poi si dispiega con ponderatezza sulla Domenica di Pasqua, fino a completarsi nella Pasquetta. Non è un viaggio sterile e privo di partecipazione e la lettura di questo saggio potrebbe risultare stimolante. Particolarmente interessante si presenta la raccolta dei canti popolari che affidati prima alla sola tradizione orale, potranno, in tal modo, essere sottratti all'oblio del tempo ed eventualmente studiati dai cultori di tradizioni popolari. Questo saggio, sebbene sia limitato allo studio delle tradizioni popolari della Settimana Santa a Barrafranca, per alcuni aspetti, merita di uscire dall'angusto ambito della cultura provinciale e di essere annoverato tra gli studi di un certo rilievo.