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La parte buona

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Luigi Casagrande, Mainstream

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LUIGI CASAGRANDE

LA PARTE BUONA

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LA PARTE BUONA Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-424-6 In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Marzo 2012 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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A mio padre

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Terra e libertà Una terra verde, liscia e spianata come un tavolo da biliardo: solo lievi alture si notano appena nei campi e avvallamenti, qualche volta, dove ri-stagna per un po’ l’acqua piovana. Una terra di pianura, con pochi alberi, e nulla che impedisca, non solo di coltivarla, ma di costruirci strade e ca-se, paesi e fabbriche. Una terra prodiga che ti ridà centuplicato il seme e che se la raccogli si sbriciola tra le mani; qua e là, la solcano fiumi e fos-si e canali rigogliosi d’erbe, che iniettano la vita in questo immenso cor-po. In certe estati senza pioggia, delle pompe a motore estraggono l’acqua dai fossati o dal sottosuolo, alimentando, attraverso lunghe tubature in acciaio, dei getti che la spruzzano alta e lontana innaffiando il mais e i vigneti. Passando per la strada in mezzo alla campagna riarsa, si notano in gran numero questi archi d’acqua che compiendo una parabola scro-sciano sul terreno e, guardando attentamente, si può osservare il riflesso dell’arcobaleno. D’inverno i contadini bruciano tralci secchi di viti e rami di alberi morti in angoli persi nel labirinto dei campi. Colonne di fumo bianco s’alzano lontano e l’offerta al cielo si innalza come da altari pagani, propiziando la buona annata. Vagabondando sulle stradicciole che costeggiano i fos-si, incontri i volti contriti dei contadini col forcone in mano, vecchie ca-micie di flanella e stivali che fanno scricchiolare il terreno gelato, che ti guardano come fossi un alieno sbarcato or ora sul pianeta. La terra è così fertile, scura e buona che è un peccato costruirci sopra qualcosa o gettare ghiaia per farci una strada. Ma l’uomo non è un coni-glio che si fa la tana sottoterra e neanche un eremita che si fa un riparo nel deserto. Così hanno costruito i paesi, tanti, vicini e sparsi come semi gettati sulla terra. Una strada lunga, larga e diritta taglia a metà il paese che farà parte dello scenario di questa storia. Alle spalle, una catena di monti azzurri; davanti, intuito in fondo al cielo che si abbassa, il mare, a nemmeno un’ora di macchina.

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Questo mondo ti dà la libertà, se vuoi, ma può anche diventare una pri-gione. Tutto dipende da te, da come vivi, da come ti muovi e se sai stare bene con te stesso. Non c’è confine, non c’è filo spinato, né muro nuovo eretto; non c’è divisione tra le razze e i popoli, non c’è motivo d’odio, non c’è niente che porti invidia: c’è solo quello che tu crei, solo tu puoi rovinare tutto e costruirti attorno i muri della tua prigione. La libertà la senti sotto la pelle, si scatena dai tuoi muscoli e nulla la trattiene; non c’è limite né ragione. Ma per quanto abbandonato sia quest’angolo di mondo, nulla si può compiere alle spalle di Dio. Nulla si può compiere senza che venga l’ora del giudizio, senza che ti venga chiesto conto del tuo operato, senza che nel tuo essere interiore divampi il rammarico e la colpa. Se scavi nel tuo passato trovi sempre qualcosa; a volte sono inezie, pic-colezze o cose importanti solo per noi o solo offese per cui non abbiamo chiesto scusa ma che gli altri nemmeno rammentano; sassolini rimasti nelle scarpe ma che cambiano di poco il corso della vita. Altre volte però sono fatti più importanti, conti sospesi, faccende che vanno chiuse; peg-gio ancora segreti piuttosto pesanti o misfatti rimasti nascosti negli anni; qualcosa che va contro la legge, contro la morale, che ha leso l’incolumità altrui e minato alle basi la società. Quel lungo fiume che passa vicino al paese porta tutto a valle, sul filo delle sue acque. Se ci viene gettata una carcassa d’animale qualche volta se l’inghiotte, ma può anche avvenire che la pancia dell’animale si gonfi d’aria e questo galleggi sull’onda, dove tutti possono vederlo. Poi il fiu-me corre ancora, porta tutto verso il mare e infine ogni cosa finisce nell’oblio. Così, in una casa un po’ distante dal centro del paese, un destino è rie-merso dal passato per trovare il suo compimento.

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La casa di Ettore L'erba cresce dentro la grondaia della casa abbandonata. La pioggia, ca-duta già molte volte da quando la casa è stata chiusa e messa in vendita, ha arrugginito e bucato la grondaia che ora spande disordinatamente l'acqua per terra; si è formato uno strato di terriccio sulla lamiera dove il seme portato dal vento o dagli uccelli ha fatto crescere dei gialli fiori di campo. Più o meno tutto è rimasto al suo posto ma le case, dove non c'è più la presenza dell'uomo, tendono a lasciarsi andare e a lasciarsi morire a poco a poco, come gli anziani quando sono abbandonati dai parenti. Quella manutenzione spicciola corrisponde alle piccole cure di ogni giorno di cui un vecchio ha bisogno e se viene a mancare tutto si intristisce e va in deperimento. Poi l'acqua comincerà a infiltrarsi tra le tegole del tetto, a rosicchiare piano piano i solai e a erodere gli intonaci; il resto lo faranno le gelate invernali, le immobili giornate umide, i torridi pomeriggi d'esta-te, il vento che spinge per passare da porte e finestre, fino a quando la casa crollerà su sé pezzo per pezzo con dei tonfi sordi uditi di notte dai vicini. Prima sprofonderà il tetto, poi i pavimenti e le pareti interne; ca-dranno le imposte, poi un pezzo alla volta i muri portanti, fino a che non resterà che un ammasso di macerie. Ma per fortuna la casa di Ettore è in vendita e, se troverà un compratore che vorrà spenderci un bel mucchio di quattrini in ristrutturazioni e si-stemazioni varie, potrà tornare a vivere e risplendere e accogliere tra le sue braccia di mattoni e travi una nuova famiglia, un nuovo risuonare di voci e un viavai di persone. Per arrivarci devi uscire dal paese, attraversare il ponte sul fiume e subito dopo girare a sinistra e percorrere la strada stretta che costeggia l’argine; giunto a un crocicchio con un’altra strada asfaltata che gira verso i cam-pi, proprio di fronte troverai la casa di Ettore: sul cancello scorrevole sta appeso il cartello “Vendesi”. La pompa artesiana getta ancora il suo flut-to, ma più modestamente di una volta, forse perché la vena sotterranea

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sta andando lentamente a esaurirsi; su un paletto della recinzione è infila-to un bicchiere di vetro dimenticato. A sinistra della costruzione, la ba-racca con la rimessa degli attrezzi: il torchio per il vino, un vecchio car-retto, il banco da falegname, barattoli di vernice aperti su una mensola, una mola per affilare gli utensili attaccata al muro. La casa è dipinta di bianco, austera, ma le muffe, sui muri in ombra, hanno sgretolato lo stucco disegnando inedite carte geografiche. Sul tetto in fase di cedimen-to svetta ancora l’antenna della televisione, le imposte sono scrostate e il nudo legno offre il petto alle intemperie. Sulla veranda stanno due sedie una accanto all’altra come se attendessero ancora di vedere arrivare i pa-droni. Dietro la casa, l’orto e il vigneto decadenti; in fondo l’argine squadrato e spoglio del fiume s’innalza sullo sfondo del cielo e si ode il mormorio dello scorrere dell’acqua. La porta d’entrata, ancora integra e con le tende appese, è chiusa chiave; se tu vi potessi entrare troveresti un divano sfondato e una stufa con la piastra arrugginita, nient’altro, poiché il resto della mobilia è stato a suo tempo portato via. Percorrendo le stanze solo malinconia e vuoto, assen-za, abbandono, disfacimento; un ciclo interrotto, un percorso di vita a un certo punto lasciato a metà, qualcosa di incompiuto, un diffuso sentore di cose estinte. E dappertutto pitture che si sfaldano e polvere che cala e copre ogni oggetto con un velo grigio. Pochi anni or sono si sono svolti gli avvenimenti di cui andremo a parla-re e una buona parte si sono svolti proprio qui, in questo pezzo di terra verde lambita dal fiume, in questa casa ora in sfascio dove Ettore e sua moglie Clelia vissero i loro giorni felici, fondarono una famiglia e creb-bero dei figli, con le mani nella terra e gli occhi rivolti al cielo.

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Anni andati Arrivarono qui, Ettore e Clelia, dopo anni bui e travagliati, quando la forza giovane dirompeva e rinnegava l’autorità dei padri e dello Stato; lui, dopo aver sprecato la sua migliore giovinezza a rincorrere quella che chiamava “madama Utopia” (ossia un’idea tanto affascinante quanto im-possibile da realizzare), come studente universitario tra manifestazioni e riunioni interminabili; lei, operaia in un grande stabilimento di frigoriferi e lavatrici, tra ore e ore in catena di montaggio e scioperi e lotte per ave-re migliori condizioni di lavoro. Tutti e due in cerca di un mondo più giusto e tutti e due sbattendo la testa contro una dura realtà: il loro incon-tro era avvenuto in quel periodo, in una manifestazione di studenti e ope-rai, tra spranghe e manganelli, botte e spintoni, solidarietà e repressione. Scelsero questo luogo forse semplicemente perché era la migliore delle possibilità, se non anche l’unica fattibile. Da queste parti, infatti, Clelia aveva una zia, ora vedova, che possedeva una casa lasciatale in eredità dal marito, il quale vi abitava con la sua famiglia di origine prima di spo-sarsi. La casa era vuota e zia Carmela, saputo del bisogno della nipote, le offrì di poterla abitare per tutto il tempo che le abbisognava. I due accet-tarono subito ripromettendosi di ripagare la parente per il disturbo appe-na avessero potuto. Una di quelle scelte che non ci pensi molto, perché sai che se ci pensi po-tresti cambiare idea e ripiombare di nuovo nell’indecisione. Una scelta fatta quasi come un innamoramento, che arriva senza motivo e rimane per tutta la vita inspiegabile, o forse una fuga lontano da tutto e tutti in un rifugio irraggiungibile; c’era bisogno di partire da capo, di azzerare le vicissitudini di una vita antecedente non vissuta abbastanza spensierata-mente, di costruirsi un mondo nuovo fondato sulla loro unione e su quell’amore che credevano forte e duraturo, di essere veramente autori del proprio destino. Del resto si era anche imposta una certa urgenza, in quanto la donna si trovava ora in stato interessante.

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La nuova casa aveva bisogno di molte manutenzioni ma era comunque già abitabile. Arrivarono una sera, accesero la luce in cucina, scaricarono i pochi bagagli e salirono in camera per le scale polverose. Si addormen-tarono tenendosi la mano e pensando alla nuova vita che avevano davan-ti. Il posto sembrava buono e il verde della campagna accogliente, ma non avevano che pochi soldi e tutto era da fare. Lavoro se ne trovava, bastava la volontà e un poco di sacrificio e che il vento della buona sorte avesse sempre soffiato nella loro vela, cosa che nel recente passato non sempre era accaduta. Ettore e Clelia avevano vissuto, fino ad allora e per motivi diversi, nella stessa città; lui, come studente, nonostante la fervida intel-ligenza non si era laureato, non aveva concluso niente e se ne tornava in-dietro a mani vuote; lei, giovane operaia venuta dalle campagne obbliga-ta dalla miseria, doveva mandare alla famiglia quasi tutti i soldi che gua-dagnava. Fra tutti e due non avevano altro che quel che basta per com-prare una culla e i vestitini per il bimbo in arrivo. Ettore proveniva dalla montagna dove i suoi avevano un albergo che rendeva piuttosto bene poiché era situato in una valle su una strada di grande passaggio; il padre lo aveva mandato a studiare nella lontana città di pianura per farsi vanto di avere un figlio ingegnere e per liberarsene, dopo averlo picchiato e sgridato per tutta l’adolescenza, non sopportando l’animo ribelle di un ragazzo che scappava sui pendii per dar fuoco ai fienili abbandonati o gli prendeva di nascosto il fucile da caccia per spa-rare alle luci dei lampioni. Clelia aveva quattro fratelli ed era la figlia maggiore; il padre era invalido e sprecava i pochi soldi per bere: da mu-ratore era caduto dall’impalcatura e non ci stava più con la testa; lei era partita per la città a lavorare a quattordici anni e della vita conosceva quasi solo le rinunce. Nel terzo anno di università, il signor Gerolamo, padre di Ettore, si era ammalato gravemente: un tumore ai polmoni lo aveva colpito come una pugnalata di sorpresa in un vicolo buio. Aveva bestemmiato e imprecato per tutta la durata della malattia per quanto fiato aveva; la moglie, in ul-tima gli aveva detto piangendo: «...se avessi fumato un po’ meno di due pacchetti al giorno...» L’altro, a cui la montagna aveva indurito il cuore fino a renderlo un masso informe, le aveva risposto, rantolando gli ultimi respiri: «Crepa anche tu! Non sono state le sigarette!» Teneva la sua rab-bia anche sul letto d’agonia. Subito dopo era morto e la moglie era rima-

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sta col secondo figlio, uno scellerato che si spese il denaro rimasto al gioco e a donne. Ettore era andato al funerale e aveva gettato sulla terra appena smossa un fiore raccolto in una scarpata; non ritornò più. Si svegliarono la mattina del primo giorno e per prima cosa si dettero da fare per accendere la stufa: si era ai primi di dicembre e tra poco arrivava Natale; quella casa, a lungo chiusa, aveva bisogno di sentire di nuovo il calore del fuoco e la presenza delle persone. Uscirono per recuperare un po’ di legna e respirare l’aria del nuovo giorno: faceva freddo ma l’aria era asciutta e buona. Nella legnaia un gatto dormiva; presero la legna che era secca e avrebbe bruciato facilmente. Misero prima degli stecchi e carta di giornale, gli dettero fuoco con l’accendino e dopo aggiunsero un po’ alla volta dei pezzi piccoli di legno e infine un bel ciocco. Era il loro primo fuoco; non avevano molta esperienza di come si accendeva un fuoco o si conduceva una casa ma seppero arrangiarsi. Erano ancora e-stranei in quel posto ma un po’ alla volta sarebbe diventata la loro casa: in questo credevano e avevano forza e coraggio per realizzare le proprie aspirazioni. In due si combatte meglio la battaglia di ogni giorno, in due ci si sostiene e quando uno si demoralizza l’altro gli fa forza. Il gatto di prima, un bel gattone selvatico dal pelo rosso, si presentò sotto la finestra alzando la testa come ad annusare l’aria: gli dettero due croste di pane rimaste dalla colazione. Sorrisero all’animale, forse uno spiritello del luogo, che era venuto a dare loro il benvenuto. Sotto Natale successe, però, che i figli della zia, sposati e con famiglia, probabilmente istigati dalle rispettive mogli, pretesero un affitto dalla coppia in attesa di un bambino. Zia Carmela si oppose inutilmente; Etto-re rifiutò e si impegnò invece, con contratto scritto, ad acquistare la casa pagando un tanto al mese; i cugini lo considerarono un buon affare, es-sendo coscienti che nessuno voleva prendere in affitto quella casa fuori-mano e tantomeno acquistarla perché era vecchia e da riadattare, senza riscaldamento, e tutti volevano andare negli appartamenti nuovi già for-niti di tutto e in centro paese. Risolta la questione non rimaneva altro che lavorare e pagare il debito. E la casa lungo il fiume sarebbe diventata la loro casa.

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Nuova famiglia Si sposarono nel municipio del paese, davanti a un sindaco distratto, sen-za parenti, con due testimoni presi a prestito tra gli impiegati del comu-ne, con gli abiti di tutti i giorni, senza tanti festeggiamenti che non a-vrebbero potuto permettersi. Faceva freddo, era il gennaio del 1980 e l’aria dell’inverno gelava la campagna spoglia. Tutto l’insieme era un po’ triste ma l’amore riscaldava l’ambiente e faceva apparire tutto meno difficoltoso. Nemmeno tutti gli inverni del mondo e di tutte le epoche a-vrebbero potuto raffreddare il sentimento che li univa e il frutto di quell’amore sarebbe maturato di lì avanti con i primi soli dell’estate. Ettore almeno, in mezzo a tutta questa indigenza, ebbe la fortuna di en-trare in possesso di una macchina: infatti suo Zio Egidio, fratello del pa-dre, aveva una vecchia 127 che stava per dare allo sfasciacarrozze e che invece decise di regalargli. Appena saputo che il nipote andava a stare nella pianura lontana e ignota, scese giù dalla montagna a bordo di quell’auto sfiancata da anni di saliscendi su strade piene di neve e sale. Si orientò con la carta geografica attraverso il reticolo di strade che taglia in lungo e in largo campi e borghi, arrivò nei pressi del paese e chiese informazioni con l’indirizzo in mano. Si presentò alla nuova casa di Etto-re e gli consegnò la 127 sgangherata ma funzionante, che in fondo era meglio di niente. Sulle prime il giovane si rifiutò e voleva pagarla ma lo zio gli disse: «Vuoi che non possa fare un regalo a mio nipote? E poi che vuoi che me ne faccia? A me basta la motorella per dove devo andare!» Poche riparazioni essenziali e fu pronta per accogliere in clima di auste-rità i nuovi sposini. Il buon zio Egidio era partito all’alba e si fermò fino a metà pomeriggio per poi tornare a casa in corriera. Per Ettore era stato come un secondo padre, forse più importante del primo; si era sempre chiesto perché il pa-dre vero fosse sempre così arrabbiato e intrattabile, come mai ce l’aveva sempre su con lui e se gli girava lo riempiva di ceffoni per poi minaccia-re anche la madre se cercava di difenderlo. Beveva e fumava, questo è

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vero e più beveva più fumava e viceversa. Il tabacco e il vino gli inacidi-vano il cuore e gli gonfiavano lo stomaco, e i polmoni gli erano diventati sacchi sfilacciati da cui sfogava una tosse scura. Ma Ettore era convinto che la sua cattiveria non fosse dovuta solo a quei vizi che lo intorpidiva-no ma fosse qualcosa di più radicato, qualcosa da cercare in avvenimenti passati, qualcosa la cui origine forse era lontana e già si perdeva negli anni giovani e nell’infanzia di suo padre. Pensava che il mondo è come una ruota che gira e il vecchio e il giovane non sono che la stessa perso-na in età diverse, che quello che è successo succederà di nuovo in un’alternanza e in un ripetersi perpetuo, che non c’è novità ma solo me-moria per rifare agli altri quello che è stato fatto a noi. Di suo padre, Et-tore voleva però salvare qualche buon ricordo, qualche immagine felice, come un bel fotogramma estrapolato da un brutto film: una mattina di pesca in riva al lago, una partita a carte tra i tavoli del bar, una gita tutti insieme, genitori e figli, nell’alta valle dei caprioli. Magari poche ore in mezzo ad anni di tormenti ma ricordi necessari a rendere la sua vita pre-cedente giustificabile. Comunque, quello che lo salvò nell’adolescenza, fu lo zio Egidio che era l’esatto contrario del padre. Buono per natura, senza ipocrisia, sempre incline al riso e allo scherzo, quasi un adolescen-te anche lui, un ragazzo mai cresciuto. Non era mai stato sposato e vive-va con la vecchia madre ai piedi della montagna, in una casa mezza di legno e mezza di pietra, con un appezzamento di terreno che s’inerpicava verso la salita, mezzo a vigneto e mezzo a fieno, e una voglia di vivere e stare all’aria aperta, mezza felice e mezza incosciente. Lì Ettore aveva imparato i rudimenti di come curare la vigna, come piantare e tirare su l’orto, come fare il fieno e dar da mangiare alle bestie nella stalla, come costruire un muretto, come fare lavori con il legno, come saldare il ferro; insomma i lavori di tutti i giorni di un uomo di lassù ma anche come far-si da mangiare se nessuno vuole fartelo, come conservare i cibi, come spennare i polli e i tacchini o come assistere il parto di mucche e capre; e infine come orientarsi nei boschi, come sopravvivere per giorni in mon-tagna senza provviste, come prevedere se pioverà soltanto o ci sarà una bufera e altro ancora. Suo padre vero, il signor Gerolamo, gestore di un albergo e di un ristorante con bar, sapeva di questo e diceva: «È un bene che impari, io non ho tempo per queste cose.» Ma ingannava se stesso perché sapeva che non era solo questione di tempo: in ogni caso lui non aveva né pazienza né bontà per insegnare tutto questo al figlio, soprattut-

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to a causa del proprio carattere bestiale. In conseguenza del suo lavoro a continuo contatto con la gente, del resto, non poteva certo presentarsi con un carattere burbero e attaccabrighe; forse per questo, sfogava in fa-miglia quello che non poteva sfogare sul lavoro; l’animo ribelle di Ettore per di più gli ispirava ancor maggiormente la rabbia e la brutalità. L’altro figlio, Giustino, lavorava anch’egli nell’albergo e soprattutto stava al bar dove poteva divertirsi nei giochi delle carte, al flipper o al calcetto. Usa-va scommettere spesso a chi vinceva, gli brillavano gli occhi e provava un fremito strano quando teneva tra le mani le banconote; già allora non resisteva alla tentazione di prendersi di nascosto piccole somme di dena-ro dalla cassa per poi giocarselo tutto. Ma nonostante ciò, poiché sapeva farsi benvolere, era il prediletto. In ogni modo, Ettore e lo zio Egidio fecero un giro d’ispezione alla nuo-va casa, visitando prima l’esterno. Il vigneto era cadente e le piante sec-che: era da reimpiantare completamente ma più piccolo, perché doveva bastare solo per le esigenze di famiglia, poiché a vendere il vino si pren-devano pochi soldi. Col terreno rimasto si poteva fare un bell’orto, in quanto gli ortaggi erano molto più necessari e non comprandoli si sareb-bero risparmiati un po’ di soldi; però era da farlo esposto al sole per fa-vorire la crescita e la maturazione. All’ombra si poteva fare il pollaio e in una baracca riparata si potevano mettere i gabbiotti dei conigli, l’erba da far fieno c’era sotto il vigneto e sull’argine. Per l’irrigazione c’era la pompa artesiana nel cortile sul fianco destro della casa, da cui si poteva collegare un tubo che avrebbe portato l’acqua sul retro; recintare il cam-po era una spesa inutile, poiché chi avesse voluto rubare lo avrebbe fatto lo stesso, meglio piantare nel perimetro del campo degli alberi da frutto, tipo meli, peri, peschi e prugni. «Le mele non saranno buone come le no-stre ma insomma...» disse lo zio; infine il fiume era buono per la pesca, l’argine era alto ed erano al sicuro dalle inondazioni. Poi dettero un’occhiata alla casa. Staccata, disposta lungo il confine della proprietà, c’era la rimessa degli attrezzi, usata anche come legnaia, co-struita parte in muratura e parte con assi di legno e chiusa con serramenti di recupero, che sarebbe tornata utile anche per farci piccoli lavori e ripa-razioni; a fianco dell’abitazione c’era uno stanzone, probabilmente usato un tempo come ricovero per il trattore e il carro e ancor prima come stal-la, che poteva ora essere utilizzato per farci il garage, ma il portone di legno era da cambiare; sopra, un bel fienile di mattoni rossi, con tre fine-

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stroni ad arco e una scala a pioli appoggiata. La casa vera e propria era dotata di un portico: la copertura era da riparare e le colonne di legno di sostegno da riverniciare. Subito dentro c’era la cucina, abbastanza gran-de, a fianco il tinello e la scala che portava di sopra; in fondo alla cucina una porta conduceva al retro della casa attraverso un corridoio, dove da un’altra porticina si scendeva in cantina. Di sopra c’erano le camere, due grandi e una piccola, e il bagno, uno solo; da sotto il portico, una porta si apriva su un’altra stanza vuota a uso non ben precisato, forse un magaz-zino. La casa era provvista di un minimo di arredamento in quanto i pro-prietari pensavano fino all’ultimo di affittarla; tutto però era piuttosto de-crepito ma per fortuna la vecchia stufa funzionava bene e il camino tira-va, altro riscaldamento non c’era. Uomo pratico e intelligente, a cui stava a cuore il destino di quella nuova famiglia che stava nascendo, Egidio decretò così: «Le stanze sono tutte da imbiancare. Fallo tu Ettore così spendi meno. Compra del colore a tempera normale e basta. I mobili tieniti quelli che già ci sono, col tempo aggiusta quelli scassati e dagli una riverniciata; i materassi, i cuscini e le coperte cambiateli, non è igienico usare quelli vecchi; i piatti, le pentole e le posate lavali bene, Clelia, due volte con acqua calda e aceto; e anche i pavimenti stesso trattamento. Il tetto è da ripassare, sicuramente filtra acqua, ho visto una pila di tegole nel fienile, usa quelle, Ettore; la struttu-ra della casa è vecchia ma tiene bene, non ha bisogno per ora di restauri, solo stucca la malta dove si è scrostata e i serramenti sono tutti da ricolo-rare e sostituire le parti di legno sul lato a Nord che la pioggia ha marci-to. Con tanta pazienza e buona volontà potete farcela.» La nuova coppia di sposi ascoltò con attenzione e nella loro mente già si immaginavano alle prese con tutti questi lavori. Fuori erano già le ultime ore di luce; zio Egidio riprese: «Ora devo andare, sennò la nonna bronto-la a casa. Ascolta Ettore, so che soldi non ne avete, perciò dovrete ri-sparmiare e nessuno vi aiuterà. Comunque, eccoti un assegno che mi ha dato tua madre per te: non è molto, ma servirà per cominciare. D’altronde è solo questo che ti spetta come eredità; come sai l’albergo non è andato molto bene da quando hanno aperto l’autostrada e tutti i tu-risti passano sopra il viadotto e vanno alle stazioni di sci sui monti alti e, alla fine, con la morte del tuo povero padre e tua madre che non era ca-pace di mandarlo avanti da sola, hanno dovuto chiuderlo. Poi tuo fratello,

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quello stupido, ha sperperato i soldi rimasti. Questo è tutto quello che tua madre è riuscita a salvare.» Clelia lo ascoltava col viso bellissimo e sognante che hanno le donne in-cinte: le incutevano un certo rispetto le rughe sul volto di quell’uomo an-ziano e quella pelle scottata dal sole ma soprattutto quegli occhi pene-tranti che sembravano vedere attraverso le cose. Pensava infine che ne-anche da parte della sua famiglia avrebbe ricevuto molto, quindi c’era solo da tirarsi su le maniche e iniziare praticamente da zero. Il problema principale era trovare un lavoro. Zio Egidio, in cortile, nell’accomiatarsi da Ettore, gli aveva detto: «Ho visto, venendo qui, che qua in pianura ci sono tante fabbriche e c’è lavoro di più che da noi. Qualcosa troverai, poi la casa è su un bel posto e abbastanza grande per una famiglia. Allora state contenti e abbiate fiducia nel futuro, vedrai che andrà tutto bene.» Ettore, non avendo terminato gli studi, accettò il primo lavoro che gli proposero: apprendista in una fabbrica di mobili. Clelia aveva il figlio piccolo da pensare e per ora stava a casa.

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Un solo destino Non era facile. Non fu mai facile, per quanto nella nostra mente il futuro a volte si disegni radioso, pieno di entusiasmo, salvo poi rivelarsi irto di difficoltà, diverso da come ce l’eravamo immaginato. Erano estranei in quei luoghi e quel mondo gli era estraneo. C’era da abi-tuarsi, entrare in sintonia, acquistare familiarità; in senso esteso, impara-re ad amare quel mondo ed esserne riamati. I primi giorni, in particolare, non furono facili. La notte era silente; nei loro letti, nella camera fredda, percepivano i propri respiri e gli scric-chiolii dei vecchi soffitti in legno, qualche parola scambiata al buio pri-ma di dormire confermava all’uno la presenza dell’altro. Di giorno la lu-ce era immensa, abbagliante, il cielo si estendeva in distanze incompren-sibili. Quando salivano all’argine e si guardavano intorno vedevano la terra arata e gli alberi che ornavano l’orizzonte, il paesetto poco distante e rade case sparse tra i campi. Sporadica era la presenza umana: qualcu-no che passava per la strada, contadini affaccendati nei loro lavori, il po-stino che non si fermava mai, un arrotino girovago che una volta suonò il campanello. Non erano più abituati alla vita di campagna, anche se era da quel genere di ambiente che in fin dei conti provenivano. La vita in città, dove avevano passato diversi anni, era stata molto diver-sa. Là di notte si udiva il rombo delle auto a tutte le ore, i clacson, le si-rene, voci di gente che scendeva e sbatteva le portiere e altre voci e mo-vimenti negli appartamenti attigui, chi tira lo sciacquone, chi si fa la doc-cia alla due: tutto questo poteva disturbare ma serviva ad attenuare il senso di solitudine. Il cielo era ristretto tra le vie cittadine, segato dai profili dei palazzi, la luce era torbida, offuscata, il sole introvabile: cer-tamente poco poetico ma si usciva dal portone e si trovavano i riferimen-ti abituali, come il giornalaio, il tabaccaio, il bar all’angolo, l’autobus con le stesse persone ogni giorno e gente, gente dappertutto. Il caos fre-netico della città contrapposto all’ordine calmo della campagna: tutta questione di abitudine.

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Sopportato il primo impatto, piano piano, i nuovi sposi si avvezzarono e col tempo tutto divenne normale. A distrarli c’era il bimbo che tirava calcetti nella pancia e il battito del suo cuoricino che anche Ettore inten-deva appoggiando l’orecchio. La promessa di una nuova vita in arrivo li faceva guarire da tutte le malinconie. Il lavoro era un’esperienza relativamente nuova per Ettore ma, da allora in poi, avrebbe caratterizzato tutta la sua esistenza e sarebbe stato al tempo stesso salvezza e maledizione. Egli compiva in quell’epoca ven-totto anni e, fino a quel momento, aveva fatto solo dei lavori saltuari, tanto per tirare avanti negli studi, visto che la famiglia ormai non gli mandava quasi più soldi: cameriere in pizzeria, lavapiatti in un ristorante, parcheggiatore, facchino di un supermercato e perfino la comparsa in un film d’azione che al botteghino non incassò nemmeno le spese. Non che fosse uno scansafatiche ma madama Utopia l’aveva stregato e ben altro era il suo impegno. In fabbrica, quando iniziò a lavorare, gli vennero affidate le mansioni di un operaio alle prime armi, cioè di un ragazzino, e del resto, per dirla in termini crudi, non sapeva fare niente. Quando si rese conto di iniziare solo allora a far qualcosa di concreto e di non essersi mai guadagnato ve-ramente il pane, lo prese l’ansia per tutto il tempo perduto; infatti aveva finora tergiversato parecchio e rincorso illusioni che gli avevano lasciato solo pugni d’aria. Ma adesso era deciso ed era tempo di andare. Aveva tutte le motivazioni, e ben forti: una famiglia, la casa e il debito da paga-re, un figlio in arrivo e le tasche praticamente vuote. Dunque cancellò le sue vicende precedenti e si gettò anima e corpo nel lavoro, perché era l’unica possibilità che aveva, l’unica garanzia nel futuro. Ebbe fede nelle proprie mani, nelle proprie capacità e lasciò da parte tutti gli studi fatti e inconclusi che non potevano fruttargli nulla. Si considerò (come infatti era) l’ultimo degli apprendisti; gli crebbe la volontà di im-parare il mestiere e, umilmente, come un corridore rimasto indietro, si mise a pedalare di buona lena per riacchiappare il gruppo. Entrò quindi a far parte del mondo del lavoro e dei lavoratori; di quel ce-to operaio per il quale egli stesso aveva combattuto, che anzi era il perno di tutte le rivendicazioni; di quella schiera di anonimi lavoratori in nome della quale qualcuno ebbe la folle idea di compiere una rivoluzione, ossia di sovvertire l’ordine costituito. Solo un romantico “qualcuno” che vede-

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va la fabbrica da fuori poteva avere questa idea, perché se ci fosse vissu-to dentro avrebbe acquisito senza dubbio quel senso pratico che serve a far quadrare i conti in famiglia a fine mese. Come facesse tutta quella gente a entrare tutti i giorni per quel portone, a compiere le stesse operazioni per svariate ore, a vivere quelle giornate tutte uguali solo nell’attesa che arrivasse il fine settimana, senza mai chiedersi se questo fosse l’unico destino possibile e desiderabile, Ettore ancora non lo sapeva, ma andava intuendo, a mano a mano che passava le sue giornate là dentro, che non era solo rassegnazione ma quasi un a-dagiarsi sull’onda del fiume e lasciarsi portare, affidarsi a quel destino e lasciare che ti porti senza farti male: sia come sia, era comunque un mo-do di vivere e di campare. Certi giorni, addirittura, sembrava che le ra-gazze e i ragazzi andassero al lavoro come se si trattasse di un’allegra vendemmia; avevano alle loro spalle generazioni di contadini e andavano nella fabbrica come una volta andavano nel campo, sapendo che quando il sole tramonterà si saranno guadagnati il pane, non importa se con fati-ca e in quali condizioni. E conservavano nella loro eredità genetica quell’antica astuzia contadina che non affronta di petto i problemi ma li aggira e li imbroglia in modo che quel pane che si deve guadagnare sia il meno oneroso possibile. In ogni caso, il giovane Ettore si accorse subito, non senza una punta d’amarezza, che anni di lotte, di scioperi e proteste, non avevano portato a sostanziali miglioramenti. A parte una maggior tutela dei diritti, la conquista più evidente era stata ottenere una busta paga di maggior spes-sore, ma nel contempo i prezzi aumentavano e la psicologia pubblicitaria creava nuovi bisogni, per cui i soldi erano sempre pochi. Quello che fa-ceva quadrare i conti erano le ore straordinarie, meglio se esentasse; lì si poteva portare a casa un bel gruzzolo a fine mese, però era un gioco al rialzo: più ore uguale più soldi, più lavoro meno tempo libero. Del resto si era in una regione che si avviava a essere tra le prime della classe come produttività e benessere: la fabbrica si era sostituita al cam-po e la voglia di riscatto di questi ex contadini o discendenti di contadini era tanta. Voleva dire avere soldi da spendere, una bella casa e un’auto nuova, cancellare un passato di miseria e di fame. All’inizio quello che arrecava maggior dispiacere a Ettore era la consta-tazione che l’operaio era sempre considerato come un numero, materiale umano da sfruttare, da prendere quando serve e lasciare quando non c’è

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più bisogno, facilmente sostituibile dalle macchine man mano che la tec-nologia ne realizzava di nuove. E ancor più lo indispettiva il fatto che questi lavoratori sembravano inconsapevoli di ciò. Ma subito dopo si di-ceva: «No, questi non sono stupidi, lo sanno. Fanno finta di mangiare la foglia e di essere degli sprovveduti ma sono intelligenti invece, perché capiscono bene come funziona il lavoro e non se ne importano, perché tanto sanno che non si può cambiare niente e cercano di sfruttare al me-glio la situazione. Si adattano e sono contenti come sono.» A volte, anche in questa gente pacifica, montava la rabbia come una feb-bre di riscossa ma presto svaniva con le sbronze del sabato sera e, per i meno giovani, con la consapevolezza che i figli, una volta fatti, bisogna nutrirli. Per molti mesi le ore passarono lente tra il cigolare delle macchine e gli utensili che rabbiosamente mordevano il legno. Tempo per pensare ce n’era ed Ettore pensava a Clelia, a casa, che aspettava di partorire. Lei sì che era abituata al lavoro di fabbrica e non ne avrebbe sofferto più di tan-to: era stata questa la sua vita, per anni non aveva conosciuto altro. Sa-peva cos’era il sacrificio, la fatica, il tempo interminabile di una settima-na di lavoro, il caporeparto che sgridava chi non teneva dietro alla cate-na, i piccoli dispetti tra colleghi, le invidie ma anche la fratellanza, la co-scienza di esser parte di uno stesso destino. Era abituata a essere attiva, a lavorare sempre ed essere costretta a casa senza poter fare quasi niente, per lei era come esser prigioniera. Mano a mano che la pancia cresceva, era sempre più limitata nei movimenti e sempre meno poteva sopportare gli sforzi. Avrebbe voluto lavorare an-che lei, sfuggire alla monotonia di quella casa vuota e contribuire alla scarsa economia familiare ma non se ne parlava: nessuno avrebbe assun-to una donna incinta. Ettore le diceva: «Riposati, hai tutta la vita per la-vorare. Il bambino ha bisogno di tranquillità per crescere.» Allora lei sor-rideva, quasi convinta, rispondendo: «Hai ragione, sai.» Ma poi tornava a crucciarsi e cercava qualcosa da fare. Per fortuna c’era zia Carmela che veniva quasi ogni giorno a trovarla, arrivando in bicicletta dai limiti del paese. «Ragazza mia, bisogna avere pazienza» le diceva sempre. «Vedrai che bel bimbo avrai.» Intanto, la buona donna, avendola presa in simpatia, le teneva compagnia, chiac-chierando e dando consigli e aiutandola nei lavori di casa.

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Clelia, a volte, era assalita dai dubbi sulla correttezza della loro scelta. Si vedeva davanti un’impresa troppo grande: troppe erano le difficoltà e lo-ro due ancora inesperti su molte cose. Ma non aveva dubbi sul suo uomo e questo era un grosso punto di forza; e dubbi sul suo futuro di madre nemmeno, e questa era una garanzia. Quando aveva paura, di solito non le durava mai molto, subito reagiva e ciò denotava una grande volontà. Solo la tormentava il fatto di non poter agire liberamente e dare una ma-no. Questo faticava ad accettarlo anche se, razionalmente, non poteva fa-re altrimenti. Essere madre, col tempo lo capì, significava anche rinun-ciare a se stessa. Che l’incertezza facesse capolino fra i suoi pensieri non cambiava la rot-ta della nuova famiglia, solo metteva un po’ di malinconia. E che avesse-ro fatto la scelta giusta o sbagliata, ormai uno solo era il loro destino.

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Il padrone di queste terre Prendere la terra tra le mani e sentirne l’odore, sentirne tra le mani la consistenza, lasciarne scorrere i granuli tra le dita, tingersene la pelle. Un pezzo di terra tuo, sognare di piantarci quello che vuoi. Affondare la vanga nel terreno e ribaltare la zolla, frantumarla, togliere le erbacce, stendere la terra con il rastrello e gettarci i semi e poi ricoprirli con terra più fine; attendere lo spuntare dei germogli, innaffiarli, vederli crescere e raccoglierne i frutti. Tutto creato dalle tue mani, dal tuo lavoro, dalla pa-zienza, dall’umile speranza. Questo Ettore pensava, con pensieri suoi, guardando il suo piccolo appezzamento di terra... ma fu risvegliato nelle sue meditazioni da uno schiamazzo: «Ehi, ehi tu! Ma... barbaduncane! Non sai che questa terra è mia, è tutta mia, è terra mia?» «Scusi, ma non capisco» disse Ettore, che stava sarchiando il terreno do-ve pensava di poter fare il nuovo orto, quando gli si piazzò davanti que-sto emerito sconosciuto. «Come, barbaduncane! Non sai che tutta la terra dalla riva del fiume a cinquanta passi in qua appartiene a me, Geraldo Pancreato, che l’ha ere-ditata dai suoi antenati da secoli e secoli?» L’uomo aveva un aspetto a dir poco stravagante: una camicia di flanella a quadri rossi e grigi, brache di velluto color sabbia sostenute da bretelle, un cappello a tese brevi con piume multicolori ivi appuntate e un ombrello nero dalle stecche rotte che usava a mo’ di bastone appoggiandovisi e puntandolo verso il suo interlocutore. Una bicicletta scassata e tutta ruggine era buttata sull’argine; da lì era sceso sorprendendo alle spalle Ettore. «Ma... veramente, io ho un regolare contratto d’acquisto» rispose Ettore che iniziava a dubitare seriamente che il tizio ci stesse con la testa. «Contratto d’acquisto? Abbia pazienza ma come può lei, buon signore, avermi comprato il terreno se io non l’ho mai vista prima d’ora?» «Beh...» sembrava quasi che il matto fosse lui «In realtà io l’ho comprato dalla signora Carmela, che è la zia di mia moglie.»

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«Carmela? Carmela Nascimbeni? Ah quella buona e strana donna ormai comincia a sragionare, non sa più quello che fa. Ma... per tutti gli stemmi araldici della mia famiglia! Lei sa che io sono in possesso di un docu-mento molto importante e antico firmato in calce dall’Imperatore del Sa-cro Impero d’Oriente che attesta il mio diritto inalienabile su queste ter-re? È stato firmato in presenza di papa Faustino III, sa?» Evidentemente confondeva i dati storici. Nel suo cervello strambo si affastellavano noti-zie divergenti andando a formare bizzarri sproloqui, oltretutto conditi con imprecazioni di sua esclusiva invenzione. «Beh, vede, io sono nuovo di qui, sono appena arrivato e...» «Per tutte le sciabole stralucidate dei miei antenati! Mi meraviglio che il sindaco non l’abbia messa al corrente del fatto!» «Okay, allora se la terra è sua prenda la vanga e se la lavori!» rispose Et-tore tra lo spazientito e il divertito. Il signor Geraldo spalancò la bocca e strabuzzò gli occhi come fosse sta-ta appena pronunciata la più infame delle eresie, alzando le braccia in segno di scandalo tanto bruscamente che l’ombrello gli si aprì rivelando-si del tutto sfasciato. «Per le ossa sbiancate e rosicchiate dai cani randagi dei miei avi che ora si rivoltano nella tomba! Ma... barbaduncane, si ren-de conto di cosa sta dicendo? Un discendente della mia stirpe come me che prende in mano quel volgare attrezzo e vanga la terra? Lei sta va-neggiando! Non sia mai, non sia mai che sia così infangato il buon nome della mia famiglia!» «Ma se non la coltiva che se ne fa?» ora si divertiva a punzecchiarlo. «Ma benedetto uomo! I grandi possessori di terreni come me vivono di rendita. Lasciano lavorare la terra ai villani, se vogliono, e ne incassano i proventi, solo controllando di tanto in tanto che tutto proceda per il verso giusto e che non ci siano ladruncoli. Nel suo caso, però, non esiste nes-sun patto né verbale né scritto di subaffitto o mezzadria! Quindi mi vedrò costretto, come si dice, a cacciarla! Mi perdoni ma la nobiltà del mio ca-sato mi obbliga a tale atto.» «Quand’è così, se è una questione di nobiltà...» «Ma non se ne abbia a male» lo interruppe ancora lo svitato, che non gli lasciava mai finire una frase «troverà altra e più comoda sistemazione. Per tutti gli stemmi araldici e gli annessi stendardi! C’è tanta terra qui in giro!» e sollevò l’ombrello con le stecche pendenti indicando a caso i campi distanti.

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«Preparo le valigie allora...» In quel mentre si stava avvicinando a passi fiacchi Clelia col suo pancio-ne di sei mesi, la quale, udendo da dentro casa tutto quello sbraitare, era uscita per vedere cosa mai stesse succedendo. Il proprietario terriero e nobile possidente, alla vista della donna incinta, si levò subito il cappel-lo, si mise l’ombrello sotto il braccio e si protese in un inchino. «Madame, non mi era stato detto della vostra presenza, tanto più che vi-sto il vostro stato... E tu, zotico zappaterra! Perché non fai le presenta-zioni?» si rivolse così a Ettore. «Signore, questa è mia moglie Clelia, ma... io non ricordo il vostro no-me.» «Non essere insolente!» e rivolgendosi alla signora accennò un baciama-no: «Geraldo Pancreato, discendente da nobile stirpe e che annovera tra i suoi antenati cavalieri, mercenari, inventori e panettieri.» «Molto lieta...» «Nessuna bellezza eguaglia la vostra, mia signora» e le baciò veramente il dorso della mano. «Vista la situazione» declamò il nobile spiantato «in omaggio alla grazia e alla beltà di madame Clelia e per rispetto della sua gravidanza che an-drà ad aumentare l’esiguo numero di abitanti di questo paese, io, Geraldo Pancreato, discendente da questo e quello, rinuncio ai miei diritti su que-sti terreni e decreto a voi l’usucapione, l’usanza e la perduranza, per quanto voi vogliate zappare e seminare e poi innaffiare, su questo campo per la durata di anni novantanove. E tanti auguri!» Così dicendo, prese il gran passo, salì il terrapieno, inforcò la bicicletta e sparì, dondolando sulle ruote sbilenche. Se ne andò senza neppure mette-re per iscritto, non si sa mai in futuro, quanto dichiarato. Ettore e Clelia si guardarono e scoppiarono in una gran risata. «Ridi pure che fa bene al bambino» disse affettuosamente Ettore, che in quel periodo era trasognato e felice e non vedeva l’ora di accogliere il nuovo arrivato. «E sei più bella ancora.» Clelia arrossò un po’ sulle guance: «Torno in casa, mi fa male la schie-na.» «Non poteva mancare il matto del villaggio» commentò Ettore. «Però ha delle trovate originali e sembra aver fatto qualche studio.»

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«Bisogna chiedere alla zia chi è questo» disse la donna che già si avvia-va; quel giorno era più del solito affaticata ma si fece forza e coraggio: lo faceva per il suo bambino.

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Maternità “Ninnolo appena nato, creatura del Signore, fagottino di pelle non ancora macchiato dalle offese della vita. Pargoletto, gioia mia, che in grembo per nove lunghi mesi ti portai, che con dolore misi al mondo, ora mi ri-paghi mille volte di tutto. Frutto dell’amore, di un’ora di passione, con vero amore concepito, si riflette in te la nostra unione. Sei volato dal cie-lo su un letto bianco sceso, ho squarciato le mie carni, macchiato di san-gue le lenzuola bianche, ho gridato e gridato ancora, ma il dolore si di-mentica e resta un bimbo che ti guarda, che ti chiede il seno, che si fa cullare in braccio, che vagisce e poi si addormenta. Vai, vai vita mia, vai dove vuoi; nel mio bimbo ho la mia forza, la mia ragione di vivere. E quest’uomo che mi guarda e non parla, saprà proteggerci, tenere salda la nostra casa, mentre ora una piccola lacrima di gioia gli scende dagli oc-chi.” Questi erano i pensieri di una partoriente che allattava il suo bimbo su un letto d’ospedale. Era Clelia, dura e ruvida nella sua vita dove più volte aveva dovuto aggredire per poter meglio difendersi, dove le umiliazioni e le ferite non si contavano; era Clelia ora, a cui il cuore si scioglieva di fronte al miracolo della vita nuova, di fronte all’innocenza fattasi carne. Clelia che amò e dall’amore trasse nuovo respiro. E ancora pensava ma i suoi pensieri erano senza parole, erano solo im-magini: “Luce sulla mia fronte, dolce vagito tra le mie braccia, fresco vi-setto immacolato, bontà divina senza fine. E tu più di tutto importante, solo tu, immensamente tu, che le mie vene nutrirono, che il mio respiro fece respirare e il tuo cuoricino che batté insieme al mio in un unico bat-tito. Tu la meraviglia, il prodigio della nascita, l’impossibile che diviene realtà, la speranza che diventa grande e che fa vivere purché tu viva. Tu solo, tu solo sei importante. Tu per sempre, tu angioletto che poco fa hai parlato con Dio, suo piccolo messaggero che porti la pace tra noi...»

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Per Ettore la nascita era il mistero più grande: come può quasi dal niente nascere e crescere la vita, come può un piccolo seme generare una pian-ta, da dove viene una spinta così grande e potente, dov’è il motore che manda avanti l’universo? “Sembra un miracolo, un esserino così nato e a noi somigliante” pensava. La natura è guidata da un gesto più grande a noi incomprensibile, eppure così meraviglioso nella sua perfezione. Nul-la eguaglia la mano dell’Autore. Il loro primo bambino fu maschio e il padre volle chiamarlo Libero, in memoria dei suoi anni ribelli. Tre anni più tardi nacque anche una bam-bina e Clelia disse: «Questa volta il nome lo scelgo io.» E fu chiamata Sofia. Gli anni passavano come le perle sgranate da un rosario, i bimbi cresce-vano, la vita era dura, ma una volontà irresistibile mandava avanti la nuova famiglia che una geometria di casualità aveva condotto in quella casa lungo il fiume.

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Molti anni dopo Un salto in avanti fino a un sabato pomeriggio di fine marzo di venti-quattro anni dopo. In mezzo, un buco nel tempo che faticheremo a riem-pire con ricordi e spezzoni di memoria, ma questa storia si svolgerà in buona parte durante il corso di quest’anno, ovvero il 2004. «Ti vengono i calli alle mani e il manico del badile diventa liscio come fosse levigato ma è il sudore che lo fa liscio. E questa terra sopra è tenera perché il sole l’ha scaldata, ma sotto è ancora dura per il gelo dell’inverno ed è fatica spingere giù la seconda vangata.» Il sudore gli imperlava il volto. Ogni tanto trovava un lombrico che prendeva e butta-va alle galline; quella più svelta lo pigliava col becco poi scappava con le altre che la rincorrevano e lo inghiottiva mentre correva. «C’è sempre da lavorare e più lavori meno guadagni, perché i soldi non valgono niente, i prezzi aumentano, raddoppiano anche, e le paghe son sempre quelle. Quello che prendi ti basta per vivere e per pagare le tasse, se risparmi qualcosa e lo vuoi investire non ti danno niente di interessi. C’è Sofia che va all’università; devo lavorare senza pensarci tanto perché le spese bisogna pagarle ma voglio dare almeno un futuro ai figli, voglio che abbiano una posizione, una vita senza tanti pensieri, un po’ di rispet-to. Se non studi non sei nessuno, un titolo di studio deve essere almeno una laurea, sennò non vale niente. Libero, invece, lui lavora e si mantie-ne, però il diploma non gli è servito e fa un lavoro dove gli basta la terza media ma lui dice che è contento così, io invece mica tanto. Clelia ha passato una vita in fabbrica e ora, con la sventura che gli è successa, sta a casa ma io devo lavorare ancora e non perdermi...» Intanto sulla strada un uomo di mezza età, in tuta sportiva, passa in bici-cletta facendosi trainare dal suo cane che tiene al guinzaglio; più avanti si ferma a farlo bere nella vasca di una fontana. Nei giardini spiccano i gialli fiori stellati di calicanto, che spuntano sui rami nudi prima delle foglie e, anch’esse senza foglie ancora, le magnolie dai fiori rosa; la pri-

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mavera sta ancora tra il sonno e il risveglio ma è sul punto di rompere le cateratte e dilagare in tutta la sua magnificenza. «Quand’ero giovane volevo morire prima di invecchiare. Ora, invece, penso solo a invecchiare con decenza. Ho fatto le mie, certe cose non le rifarei, non sono di quelli che dicono di non pentirsi di niente solo per fare i gradassi. Io le mie colpe me le prendo, anche se credo che qualcu-no dovrebbe vergognarsi di più. Ma quello che è stato, è stato, ed è me-glio pensare a vivere bene adesso.» Ettore rivoltava ancora la terra per preparare l’orto e si asciugava il sudo-re con la manica appoggiandosi al badile, mentre Clelia aveva svuotato la lavatrice e ora era uscita a stendere il bucato. Doveva muoversi con accortezza: non era ancora abituata del tutto a camminare con un pezzo di gamba in meno. Aveva cinquant’anni tondi e da quasi tre aveva subito l’operazione: no, non ci si abitua mai, a meno di essere senza amor pro-prio. Si cerca quel pezzo di gamba, se ne sente la presenza come ci fosse ancora, lo si vuole usare ancora, si vuole poggiare il piede al suolo, senti-re la terra ribattere il calcagno. I primi mesi, specialmente, il cervello ri-ceveva ancora i segnali dai nervi recisi, avvertiva la sensazione del dolo-re di una parte del corpo che non esisteva più, provava una nostalgia bio-logica per il ramo staccato dal tronco, come se la mente ancora chiamas-se all’appello quella parte ormai perduta. Tutto iniziò con un semplice formicolio al piede destro, accompagnato da un dolore al nervo sciatico e il medico di famiglia le prescrisse un pal-liativo, non avvisando gli estremi di alcunché di grave. Ma i disturbi non si attenuavano e Clelia tornò dal medico: quegli le palpò la gamba e sentì che l’arto era freddo, ma ormai era tardi: il piede era morto, il sangue non arrivava. Un’ischemia, il blocco del flusso del sangue verso il piede, l’ostruzione dell’arteria, un embolo partito da chissà dove, un grumo sanguigno, un’ignobile trappola e una tragedia casuale. All’ospedale un dottore occhialuto con i capelli untuosi e una raffica di penne infilate nel taschino disse che bisognava amputare per evitare la cancrena. «Amputare, sì, è l’unica soluzione. Tagliar via la parte malata e si torna a vivere. Non si preoccupi, ne facciamo ogni giorno, con un arto artificiale non ci si accorge di niente. Vedrà, tra un anno tornerà a correre» proclamò, come si trattasse di una cosa più che normale. Clelia e Ettore restarono di sasso: per loro non era una cosa da niente e per ac-cettarla ci voleva il suo tempo. Quando tornarono a casa in macchina,

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Clelia taceva e guardava fissa davanti, senza vedere; Ettore, anche lui zitto, alla fine esplose: «Amputare, facile a dirsi, non è mica come toglie-re un dente! Denti ne hai tanti ma gambe solo due! Per loro ci vuole po-co, per loro è un’operazione di routine ma la pellaccia è nostra, acciden-ti!» E due lacrime gli scesero dagli occhi, che egli subito nascose: Clelia, in tanti anni, solo una volta lo aveva visto piangere ma erano due lacri-mucce di gioia per la nascita del loro primo figlio; ora invece erano la-crime di dolore e di rabbia contro il destino che veniva a far del male a chi amava. «Se serve farlo, lo faremo. Se non si può fare altrimenti, è meglio stare senza gamba che morire» gli rispose Clelia; era lei a dargli coraggio, anche se lei stessa ne avrebbe avuto bisogno, ma in seguito la forte unione tra i due sposi li avrebbe aiutati a superare quel momento difficile: quando viene la bufera uno sostiene l’altro ed è soltanto l’amore che evita che ognuno pensi solo a salvare se stesso. «Proprio a-desso che mi mancava poco alla pensione» commentò amaramente la sfortunata. Tagliarono l’arto sotto al ginocchio lasciando quel tratto di moncone che basta per appendere la protesi. Durante il giorno, le vicine e zia Carmela, per quel che poteva dato che aveva i suoi malanni, si davano il turno nell’assistenza; i due figli aiutavano e davano il proprio affetto, sebbene abbattuti per la disgrazia, ed Ettore, quando tornava dal lavoro, la curava e le usava tutte le premure. Fino a che le cose si assestarono e la vita ri-prese più o meno normale. «Vuoi un caffè?» gli strillò Clelia dalla finestra. I panni, stesi su una cor-da tirata tra due pali, si agitavano leggermente al vento come bandiere della vita domestica. «Sì» rispose solo l’uomo e continuò a pensare: “Sposarsi è come un’alleanza, in due ci si dà una mano e si riesce a venirne fuori. Mia mo-glie non è di quelle che rompono tanto le scatole. Un po’ brusca certe volte, è vero, ma almeno quello che deve dirti te lo dice. Sofia non ha preso da lei, è più dolce, è sempre gentile, una vera signorina. Però anche lei delle volte ti dà di quelle stoccatine...” Sulle testate del vigneto Clelia aveva avuto la bella idea di piantare dei cespi di rose, ognuno di diverso colore; ora da dentro casa guardava le sue rose e il suo sposo che lavorava con la vanga e poi ogni tanto che si fermava, prendeva fiato e si tirava su ancora le maniche. Lei lo appog-giava e riponeva la sua fiducia in lui; del resto egli non era il tipo che a-

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scoltava le critiche ma caparbio e orgoglioso, lei lo sapeva, e non dava retta a nessuno. Eppure un uomo è un vero uomo quando si assume delle responsabilità e se sbaglia paga di tasca sua e per questo lo rispettava. Ma, per quanto se ne dica, un uomo non è mai completo in se stesso se non ha almeno un vero amico, un’altra persona in cui riconoscersi: ov-viamente con caratteristiche opposte alle sue, come se cercasse nell’altro la sua parte mancante. Anche il fiero Ettore poteva vantarsi di averne uno, che compariva sempre prima o poi nelle sue giornate portando una ventata di buonumore. L’amico Pietro arrivava sempre dalla parte del campo, camminando su quel tratto di terreno che sta tra l’argine e i poderi coltivati, un sentiero erboso che serve per comunicare tra un campo e l’altro o per le manovre di inversione dei trattori nel loro “va e vieni” quando arano, seminano, concimano, disinfestano. Tranne i giorni che pioveva, quando arrivava con l’ombrello dalla stradina asfaltata, o quando il terreno, dopo che a-veva smesso di piovere, era ancora troppo fangoso. «Ehilà, Ettore, ho dato il fieno ai cavalli e sono venuto a fare un salto qua» attaccò Pietro; infatti possedeva un piccolo maneggio, fatto di un recinto e una tettoia di riparo con cinque cavalli che affittava saltuaria-mente a chi avesse voglia di fare piccole escursioni in campagna o sem-plicemente di apprendere, pressappoco, l’arte di cavalcare. «Hai fatto bene, mi serviva giusto una mano.» «Eh, ben volentieri, ma lo sai che ho mal di schiena.» «Sempre la stessa scusa» scherzò ancora Ettore. «Eh, avessi tu questi dolori non ti muoveresti nemmeno dalla cucina.» «Che esagerato! Fatti portare al ricovero.» «Ho la mia età ormai e devo starmene calmo.» «Guarda di non calmarti troppo.» Pietro era di una bonomia inarrivabile e all’opposto di Ettore anche fisi-camente, ovvero bassotto e robusto, che usava le sue energie al risparmio e difficile da smuovere se proprio non si trattava di fatti di estrema gravi-tà; per il resto amava starsene tranquillo e fuori dai guai ma gli piaceva chiacchierare, diversamente da Ettore che parlava l’indispensabile, a me-no che non fosse in giornata di gran vena, ed era di fisico alto e secco, sempre nervosamente attivo. Perlopiù tra vecchi amici ci si intende alla perfezione e le battute vengono fuori sciolte e spontanee.

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«I miei cavalli pensano a mangiare il fieno di oggi e per domani si vedrà: se muore il padrone, se ne trovano un altro oppure si arrangiano in qual-che modo, mica si preoccupano mai» proseguì Pietro giocondamente. «Prova a lasciarli senza fieno e vedrai che ti vengono a mangiare in tavo-la!» «Beh, lascia che vengano, io non mando mai via gli ospiti.» «Gli metti anche il tovagliolo intorno al collo?» «Quelli sono intelligenti sai, a volte sembra che vogliano parlarmi. Mi guardano con quei loro occhioni che sembrano persone...» «Gli animali che parlano! Che altro vuoi inventarti?» «Ehi, una volta da militare avevo un mulo che, quando andavamo in marcia, mi svegliava alla mattina e mi portava gli scarponi...» «E il caffè a letto no?» «No, ma mi portava il sacchetto col pane per fare colazione.» «Allora era quasi più intelligente di te!» «Eh sì, tu ridi ma è proprio così. Lo so, neanch’io ci crederei al posto tu-o, ma io scommetto che le bestie non sono poi così bestie e un’anima ce l’hanno!» «Certo che sì e forse sono meno bestie di altre persone...» E via così, tra amici si può prendersi in giro senza offendersi e fare di-scorsi senza senso ma che in fondo qualche senso ce l’hanno. Scherzare serve a sdrammatizzare un po’ i problemi della vita e ridere è una grande medicina. Su due grandi pilastri si poggia l’esistenza di un uomo: l’amicizia e l’amore. Ed Ettore aveva la fortuna di disporre di entrambi. Ma più di tutto è curioso come nella vita si incontrino e si conoscano una svariata quantità di persone, eppure solo certe ci colpiscono, solo dei determinati tipi hanno con noi una perfetta affinità e, se abbiamo fortuna, questi fini-scono per viverci accanto. Poi i nostri umori cambiano come cambia il tempo, ci prendiamo a vi-cendevoli cornate, malediciamo il giorno del nostro primo incontro ma, alla fine, se l’affetto è vero, si riesce a passare sopra ai torti subiti; sap-piamo bene di non poter permetterci il lusso di perdere qualcuno che ci vuol bene. Ma altre cose che andremo a raccontare successero tra l’orto e il cortile, la casa e la strada, il fiume e il campo, in questo posto qualsiasi che a suo

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modo è speciale, tra queste persone normali che però possono sorpren-derci.

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Una domenica pomeriggio La primavera era arrivata un po’ in ritardo: l’aria si era fatta d’improvviso tiepida e sonnacchiosa dopo le due precedenti settimane di un freddo, inconsueto per il periodo, frammisto a piovaschi e rovesci più o meno intensi, che vennero dopo qualche bella giornata di sole modera-to che avevano fatto presagire un avvio prematuro della primavera ma erano in realtà una falsa partenza; da qualche anno le stagioni non erano più quelle, conseguenza del riscaldamento globale e, si diceva, per l’inquinamento, il buco nell’ozono, l’effetto serra, troppe bombolette spray, troppi gas di scarico, troppi abitanti nel pianeta e i paesi industria-lizzati che consumano e inquinano più di tutti gli altri messi insieme. Il delicato equilibrio formatosi nelle ere precedenti della Terra mostrava vistosi segni di cedimento; lo sviluppo industriale e consumistico dell’umanità, cresciuto in modo esponenziale, metteva a rischio, si dice-va, la sopravvivenza stessa del pianeta. Il tempo atmosferico era come impazzito, senza regola: si passava direttamente dall’inverno all’estate e tornavano le gelate che stecchivano i germogli appena spuntati, poi di nuovo caldo record e piogge torrenziali, grandinate frequenti, uragani tropicali e ancora alluvioni dopo periodi siccitosi; poi l’estate si inter-rompeva anzitempo con giorni di gelo e si entrava in un autunno mite che lasciava il posto direttamente alle nevicate in pianura a cui seguivano temperature elevate per il periodo: insomma, ogni giorno poteva essere un cambio di stagione. In generale, però, si avevano inverni mediamente meno freddi ed estati calde e afose interrotte da tempeste improvvise; in quanto alle stagioni intermedie non si capiva bene quale fosse la loro col-locazione o se effettivamente se ne potesse ancora parlare. L’uomo qua-lunque, che non capiva niente di meteorologia, intuiva solo che tutte queste bolle di alta e bassa pressione si fossero come, a un certo punto, bucate, e se ne andassero a spasso sulla superficie del globo terracqueo senza un senso apparente, come giganti accecati e divenuti folli per la disperazione: fronti di aria calda e di aria fredda, anticicloni e perturba-

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zioni, masse d’aria provenienti dalla Siberia o dalle Azzorre, tutto si mi-schiava senza rispetto delle leggi in una folle danza di giganti sopra un popolo di formiche. Poi il cielo in generale era divenuto più triste; l’aria, quasi sempre, era come opaca e impenetrabile, una nebbiolina umida e biancastra vi resta-va sospesa rendendo il sole smorto e rare erano le giornate limpide in cui si poteva contemplare l’azzurro gioioso del cielo. Dentro tutte queste particelle d’acqua sospese, indubbiamente sostavano diverse sostanze avvelenate che il sole rifletteva e rimandava sulla superficie del pianeta, rendendo malsana e guasta l’aria che si respirava. Diverso, per fortuna, il pomeriggio di cui andremo a parlare. Soffiava, infatti, un venticello vivace tra le foglioline appena spuntate del pergolato d’uva dove Ettore sedeva intento a leggere e sfogliare il gior-nale steso sul tavolo, ogni tanto abbassandone gli angoli sollevati dal vento dispettoso; i ciliegi erano in fiore e nei prati verdi occhieggiavano margherite e denti di leone. Egli aveva una sedia personale che usava lui solo, anche perché nessuno la voleva; era una sedia da bar di trent’anni fa che aveva preso da Geraldo, che oltre a essere mezzo matto, o meglio completamente matto, faceva anche il robivecchi, pagandola quasi nien-te; era fatta con tubolare di acciaio verniciato di nero e stringhe di plasti-ca arancione intrecciate che formavano il sedile e lo schienale; i braccioli fatti con un tubo di ferro piegato e le stringhe avvolte e strette attorno; una sedia fatta per stare fuori dei bar la sera, semplice e comoda, fatta per starci come sospesi a chiacchierare e quando si rompeva una stringa la potevi riannodare. La panca e il tavolo che arredavano il modesto giardino, invece, se li era fatti da sé. Una volta, prese delle tavole di faggio di montagna, che da molto tempo erano riposte nella baracca, e si costruì panca e tavolo pial-lando e segando le assi, inchiodandole e ricoprendole con due mani di vernice. Per Ettore tutto andava costruito con maestria e ragionamento, trovando l’accordo tra la bellezza delle forme e l’uso a cui il manufatto era destinato, stando attenti a non sprecare inutilmente materiale, cercan-do i sistemi per sveltire intelligentemente il lavoro. Alla fine ricopriva il tutto di vernice, trasparente o colorata, in modo da preservarlo dall’insulto del tempo; costui non risparmiava niente e tendeva a corro-dere e consumare quello che l’uomo preparava con lunghe ore di pazien-za. E il tempo di pazienza ne aveva ancora di più e usava i mezzi più

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svariati per trasformare come meglio gli piaceva la materia: fuori all’aperto usava la pioggia per scalfire, la nebbia per marcire, il vento per scrostare, il gelo per formare crepe, la vampa del sole per arrostire e dila-tare; all’interno delle case si avvaleva principalmente dell’umidità e della muffa per ammorbidire e poi sfaldare, ma anche delle infiltrazioni d’acqua e del sole battente che entra dalle finestre aperte e infine del tar-lo per rosicchiare il legno e della ruggine per il ferro. Intanto sulla stradina asfaltata una bicicletta procedeva saltellando alle-gramente tra il verde sgargiante delle rive e la terra arata e l’acqua che gorgogliava nei fossi; ai bordi della strada un contadino guardando verso i campi meditava cose note solo a lui, che forse a sera al banco dell’osteria, dopo tre o quattro buoni bicchieri, avrebbe rivelato al primo che capitava. La bicicletta era guidata, con ferma ed estrema convinzio-ne, da don Dario, il giovane parroco del paese, alla ricerca di aria più re-spirabile di quella aleggiante tra le navate della chiesa, intrisa di cera, polvere e odore di pietra e marmo che hanno attraversato i secoli. Mentre il sole come un occhio di diamante sorvegliava lo svolgersi degli eventi, il prete tirava la leva del freno e andava a fermarsi sulla ghiaia del cortile di Ettore che si ridestava dalla sua lettura alzando la testa e pro-tendendosi in un saluto: «Ehilà, don Dario, come mai da queste parti? Son contento di vederla!» Clelia, sul divano in cucina, nella pigrizia della domenica, guardava il programma pomeridiano con tanto di zuccherosi e tronfi presentatori as-sistiti da smorfiose vallette che sorridevano per nulla e sfoggiavano le loro forme da bambole di plastica: “Il mondo della bella apparenza...” pensava “mostrarsi belli fuori per non far vedere che si è sporchi dentro. Bah, è meglio la pubblicità!” Allertata dalle voci di fuori, si alzò con cautela dal divano per via della gamba e andò alla finestra facendo finta di dar acqua ai gerani. «Ah, il prete, va benone» disse fra sé e tornò a buttarsi sul divano tirandosi su la copertina. «Gli ossi dei vecchi son sempre freddi... accidenti alla vecchiaia!» disse, anche se proprio vecchia ancora non lo era. La pompa artesiana, tra l’orto e il cortile, gettava il suo flutto con un ge-mito ininterrotto che veniva dal ventre profondo della terra. «No, non prendo vino, grazie, un bicchiere d’acqua fresca piuttosto» disse il prete, quindi si prese il bicchiere che era infilato a testa in giù in un paletto e lo riempì alla pompa.

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La donna, intanto, lanciava sbadigli e teneva d’occhio un paio di mosche che ronzavano e si inseguivano senza uno scopo apparente; il gatto entrò, annusò in giro e se ne tornò subito fuori, giudicando poco interessante quell’ambiente. Dopo dieci minuti, Clelia si alzò per andare alla finestra. “Di cosa mai staranno parlando quei due?” «Tu solo sai il mio segreto...» diceva accoratamente don Dario. «E tale resterà per sempre, per quel che mi riguarda» rispose Ettore. «Vedi, è così difficile a volte vivere la vita ed essere coerenti con se stes-si. Gli eventi accadono inaspettati, ti prendono in mezzo delle cose che non sai fronteggiare, a cui non eri preparato. Vivi nel tuo equilibrio e credi quasi che durerà per sempre, ti addormenti la mente e sei in pace. Poi tutto salta e non sai più cosa fare...» «Lei è giovane, è normale che certe cose le accadano.» Ettore dava del lei al sacerdote non per ossequioso rispetto ma per una sorta d’istinto che gli impediva di mettersi sullo stesso piano di persone con una certa posizione, per così dire. Don Dario, invece, sebbene molto più indietro con l’età, gli dava del tu, vedendolo piuttosto come una sorta di padre buono, con cui si può confidarsi e parlare in amicizia. «Sì, sono giovane, sono un uomo giovane, ma sono prima di tutto un prete. Che mi piaccia o no e anche se a volte non lo rammento, sono prima un sacerdote che un uomo.» «Non si tormenti...» cercò di consolarlo Ettore. Clelia sbirciava tra la feritoia della finestra socchiusa e ascoltava i di-scorsi, che però erano confusi dal rumore dell’acqua scrosciante. “È chiaramente turbato” pensava vedendo il viso apprensivo del prete. «Ora sono diviso» riprese il giovanotto «non sono né di qua né di là. Ho peccato verso il Signore, anche se solo col pensiero, e quel che è peggio non so neanche pentirmi del tutto. E poi non so abbandonare quest’idea, questo sentimento che mi prende alla gola e mi scuote il petto. Questa ragazza ha risvegliato in me quello che credevo da tempo assopito, mi ha portato indietro ai tempi prima del seminario quando la mia vocazione non era decisa e ancora potevo pensare a queste cose. Mi sembra di esse-re tornato sui banchi di scuola quando il professore spiega e i maschi di-stratti spiano le ragazze.» «Che male c’è in fondo?» «Di male niente ma se io mi comprometto, comprometto anche lei.» «Eh sì, in effetti...»

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E a questo punto i due presero a bere, uno l’acqua e l’altro il vino, com-prendendo di essere arrivati al punto essenziale del problema. Il sole, senza disperarsi anche lui, continuava a illuminare e scaldare la giornata abbagliando di luce anche la donna alla finestra. «Se Dio avesse voluto che noi preti non si desiderasse la donna, ci a-vrebbe creato non di carne ma solo di spirito!» «Non dica così, in fondo nessuno sa veramente perché è stato messo al mondo.» «No Ettore, certe cose vanno dette. Non siamo noi che scriviamo le leggi ma chi le scrive tiene forse conto di quella che è la realtà della vita? Io osservo le regole ma Dio mi ha dato la ragione perché potessi giudicare cos’è il giusto e l’ingiusto. Non mi ha messo la benda agli occhi come il mulo che gira la macina!» Ora il prete si stava infervorando, sudava sulla fronte e gli occhi gli luccicavano di una rabbia repressa non molto indi-cata per un uomo del suo ruolo. «Se è amore, è bene. Se io amo, adempio al più grande dei comandamenti. Se amo il mio prossimo, posso anche amare con maggiore intensità una donna. Ciò non mi distoglie dai miei doveri, non macchia la mia integrità, non è peccato perché... io lo sento... lo sento che non lo è.» «Così lei mi va a finire, con tutto il rispetto, nell’eresia.» «No, non è questo. Dio è uno solo per i fedeli di tutte le Chiese e ama chi lo rispetta. Io ho ricevuto i voti in Cristo e per Cristo e lui mi ha insegna-to a essere un uomo libero e a pensare liberamente. Se amo una donna non faccio torto a nessuno, neanche a Dio.» «Lei esagera, si calmi un po’. Nessuno di noi sa veramente cosa vuole Dio.» Il prete sembrò colpito da quell’affermazione e capì che era il caso di frenare il suo impeto. Altresì riaffermò: «Io dovrei saperlo più degli altri, almeno. È per questo che indosso la tonaca, per fare da guida alla comu-nità dei credenti, per esserne il pastore. Se io vacillo, cosa dovrebbero fare le altre persone, allora? Io sì, dovrei essere d’esempio, non farmi prendere da questi dubbi e cacciarmi in questi guai.» Poi fece una pausa fissando un punto qualsiasi fra la ghiaia del cortile, mentre un gallo fuori orario cantava. Di nuovo riprese, stavolta con occhi sognanti: «Vedessi com’è bella, Ettore, ha il volto di un angelo e gli occhi che brillano, la pelle bianca e si muove proprio come un angelo, come puoi non innamo-

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rartene, non perdere la testa?...Oh, ma che dico... non dovrei dire queste cose.» Alla fine Ettore, vedendo l’amico così combattuto e triste nel suo smar-rimento, sentenziò con aria bonaria apposta per smorzare quel momento angoscioso: «Se non sa risolvere il problema, lasci fare al tempo. Forse, senza che lei lo voglia, si risolverà da sé.» Ma lo diceva senza crederci troppo. Intanto, un corteo di galline dal piumaggio rosso ruggine che se ne anda-va razzolando liberamente s’infilò tra i gamboni del tavolaccio e le gam-be dei due uomini continuando a raspare tra i sassi e la terra in cerca di lombrichi. Clelia, che aveva inteso pochi spezzoni del discorso, disse sottovoce: «Per me questi sono due balordi che se la raccontano.» E rien-trò in cucina proclamando: «Stasera per cena uova e asparagi, telegiorna-le, partita a scopa e poi a nanna.» Anche se il sole era ancora alto. Ci sono cassetti, angoli nascosti, libri mai finiti di leggere, dove anche gli scettici tengono, magari senza ricordarsene, vecchi santini sgualciti con l’immagine di qualche santo cui raccomandarsi, che senza farsi nota-re veglia sulle loro vite. Perché non si sa mai. Ci sono anche posti, che ci sorprendono negli angoli della campagna, dove anche gli scettici più convinti a volte si ritrovano a loro modo, mai si crederà, a pregare.

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Capitelli La fede dei semplici e degli umili non sempre ha bisogno di grandi altari arredati con sfarzo e di solenni cerimoniali con profusione d’incenso e canti corali accompagnati dall’organo. A volte basta una candela accesa e una preghiera sommessamente recitata con sincera devozione perché lo spirito sia gratificato e sia stabilito un seppur effimero contatto con Dio. Questo è il caso dei capitelli che si incontrano ai crocicchi delle stradine di campagna o magari presso antiche masserie un po’ isolate o ancora in certi punti ai bordi delle grandi strade statali, immersi nelle nuove co-struzioni oppure assediati dalle tetre zone industriali. Sono i residui di un’antica fede rurale, sparsi nel territorio fin nelle più sperdute contrade. Se ne prendono cura, di solito, le pie donne che abitano nelle case vicine, come se fosse un altro locale aggiunto agli altri che hanno da pulire e te-nere in ordine. Queste donne, custodi del focolare domestico, instancabili lavoratrici, con coraggio indomabile, perseveranza, zelo e pazienza, sono colme di spirito sempre acceso che manda avanti la famiglia e di forza inestinguibile; queste donne, dunque, dopo aver riassettato le stanze, la-vato, stirato e cucito, preparato il desinare, sparecchiato e ripulito e tanto altro ancora, trovano il tempo di assolvere un compito a cui nessuno le obbliga, pur che sia continuata una tradizione della loro terra e pur che qualcosa se ne conservi. Nella frenesia giornaliera e nella baraonda senza testa né coda del mondo globale, dove tutto ha un costo e tutto deve ave-re un utile, loro sole hanno il coraggio di chiudere la porta dietro di sé e attendere alle cose dello spirito le quali possono aprire porte ben più grandi. Così escono da casa e da un’aiuola in giardino recidono un piccolo fascio di rose o, ancor più modestamente, colgono un mazzetto di fiori di cam-po e vanno a recarlo ai piedi dell’immagine sacra. Spolverano un po’ l’altarino del capitello e accendono un piccolo cero, recitando un’Avemaria o qual altra preghiera sbocci dal loro cuore.

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Una fede semplice, dove alle navate delle chiese si sostituiscono le nava-te del cielo, più grandioso e naturale scenario dove lo spirito umano non trova ostacoli per innalzarsi. E come inginocchiatoio un basso scalino di scabra pietra che ci ricorda la durezza della vita e che il tepore diffuso della prece riesce ad ammorbidire un poco. E per la musica e i canti, le minuscole gole degli uccellini nascosti tra i rami rimpiazzano le canne d’organo ed elevano inni alla meraviglia della natura. E nei fossi d’acqua sorgiva puoi intingere la mano come in un’acquasantiera per il segno della croce, e con un Amen ritornare a casa con il cuore allietato, poiché Cristo ha chiamato a sé solo le persone umili, esclusivamente gli umili. Non ha voluto il ricco, il vanitoso, il superbo e ha respinto l’avaro, il saccente, l’ipocrita. Ha voluto con sé gli ultimi e ne ha fatto i suoi disce-poli, i discepoli di Dio. E di certo questi capitelli di campagna non amano mettersi in mostra, si-tuati come sono nei luoghi meno evidenti e meno frequentati; ma dall’alto tutto il mondo è uguale e un capitello ha la stessa dignità di una cattedrale. Poi, anche l’animo dell’uomo è dappertutto uguale, e la fede non è certo legata al luogo ma è piuttosto una predisposizione, una voca-zione, la manifestazione di una grazia. Non minimamente toccata da questi ragionamenti ma mossa dall’istinto, Clelia avanzava sul ciglio erboso della strada per raggiungere, a pochi passi da casa sua, il capitello intitolato alla Regina della Pace. Clelia non si poteva certo definire una credente; anzi detestava chiese, preti e messe in genere o, più che detestarli, provava una certa repulsione dovuta forse a negative esperienze passate ed era, per sua stessa definizione, anticleri-cale, fuorché per il caso di don Dario, forse perché questi era giovane ed entusiasta e parlava come parla la gente, si metteva al loro livello, era in-somma un prete alla mano. Ma, sia stato per scaramanzia o per il riaffio-rare di un bisogno di fede, Clelia si recava spesso, quasi di nascosto, al capitello e lì, con la testa china, stava qualche minuto a riflettere e, a modo suo, a pregare. Più il nostro passato si estende e più i nostri errori si accumulano, e viene sempre il momento in cui i rimorsi diventano troppo pesanti per poterli tenere tutti dentro; allora in qualche modo bisogna purificarsi e rimettere i nostri debiti a Dio. Non che nel mondo d’oggi la gente, in genere, sia abituata a farsi tanti esami di coscienza oppure ammetta in qualche modo

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di aver sbagliato o si mostri afflitta da tormentosi sensi di colpa o si fac-cia scrupoli morali, né tantomeno si sogni di chieder perdono a Dio o al prossimo; ma, se per quasi tutti è quasi tutto lecito, c’è sempre qualcuno che, anacronisticamente, usa porsi delle domande sulla correttezza della propria condotta, sebbene ciò sia scomodo e metta in qualche modo dei freni a una vita che altrimenti sarebbe senza regole. Un altro buon motivo per pregare può essere per le nostre persone care, per i cari defunti e poi anche per la nostra anima, perché non sappiamo comunque cosa ci attende dopo la morte e da questo non si può esimersi. Ma Clelia aveva un dubbio diverso da questi: che fine aveva fatto quella gamba amputata? L’aveva in qualche modo preceduta in Paradiso, se mai ce n’era uno? E si sarebbe a lei ricongiunta? Razionalmente era impossibile ma a questa donna pratica a volte piaceva fantasticare. Allora immaginava la sua mezza gamba tenuta in mano da un angelo vestito di bianco assiso su una nuvola, il quale pazientemente l’aspettava per ricucirle il suo pezzo mancante. Da bambina la mamma le raccontava degli angeli e le diceva che c’era un angelo tutto per lei che da lassù la guardava e le dava consigli soffiandole in un orecchio; lei al-lora guardava in alto, tra le nuvole, tentando di scorgerlo e qualche volta le pareva di vedere due ali bianche muoversi dietro una nuvola. Da gran-de abbandonò l’idea e non ci credette più come non credette più a molte altre cose, ma ora le piaceva pensare che il suo angelo avrebbe riattacca-to la gamba con ago e filo e con un magico liquido versato da una fiala avrebbe risaldato l’osso e la carne e, almeno dopo morta, sarebbe ritorna-ta tutta intera. Sì, un bel sogno, che si vergognava a confessare ma che la faceva sorridere tra sé. Per il resto, Clelia affrontava la vita con caparbietà e durezza, giorno per giorno, senza mai mollare la presa, cosciente che il destino della sua fa-miglia dipendeva anche dal suo coraggio, dalla sua voglia di andare a-vanti. Preghiere non ne conosceva o non voleva ricordarne e aveva trop-po orgoglio per inginocchiarsi, ma una fede quasi istintiva la induceva a credere che qualcosa ci dev’essere al di là delle apparenze e, comunque, sta sempre bene raccomandarsi a Dio, se mai ci fosse, se non altro per avere una qualche protezione sui propri familiari. Grossi peccati di cui chiedere perdono non riteneva di averne, pensava che le nostre azioni il più delle volte sono il frutto delle circostanze, che si è tirati dentro nel vortice della vita senza poterne cambiare il senso.

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Forse, però, oscurava a se stessa, in qualche modo, certe vicende della propria vita non del tutto irreprensibili. Ma anche per Clelia, un giorno, le spoglie di qualche errore del tempo andato, di qualche intrigo, di un’oscura faccenda, sarebbero ridiscese lungo il fiume.

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Nebbia e misteri Una giornata di nebbia è l’ideale per andare a nascondere qualcosa. È difficile essere veduti ma si vede bene a pochi passi e se si conoscono bene i posti ci si orienta lo stesso; se qualcuno si avvicina lo si sente e ci si può subito allontanare o affrettarsi a nascondere l’oggetto misterioso. E quel mattino – ma siamo tornati indietro nel tempo fino a un impreci-sato anno, poiché questa breve narrazione servirà a chiarire gli avveni-menti che si svolgeranno in seguito – Ettore qualcosa da nascondere ce l’aveva, qualcosa che era retaggio di un passato oscuro a cui ancora un filo lo legava. Si trattava propriamente di quell’oggetto, una cassettina di ferro scolorita e rugginosa, che teneva sotto il braccio strettamente men-tre guardingo camminava verso il limite del suo campetto. L’aveva tolta dal fienile dov’era sepolta in un angolo sotto un voluminoso mucchio di fieno. Ma la notte dormiva male e nel dormiveglia vedeva il fienile pren-der fuoco, magari toccato da un fulmine o per un mozzicone gettato, e la cassetta distrutta, avvolta dal fuoco e fusa dal gran calore; oppure sogna-va topi, prima sparuti poi a frotte nel fienile, che armeggiavano incuriosi-ti e famelici attorno alla cassetta finché riuscivano a rodere la lamiera, anche se razionalmente non era possibile che mangiassero il metallo; op-pure qualcuno, proveniente da quel passato, che di notte trovava il na-scondiglio e portava via il misterioso oggetto, anche considerando che il locale era esterno all’abitazione e non chiuso a chiave. Quest’ultima ipo-tesi lo tormentava più di tutte. E poi c’era Clelia; lei non doveva sapere. Non gliel’aveva mai detto, non ne aveva mai avuto il coraggio. L’uomo che gliel’aveva consegnata gli aveva ordinato: «Non farne parola con nessuno.» Quel segreto gli pesava e lo angustiava non potersi confidare con la moglie; tenere quel segreto era un po’ come tradirla e quando ci pensava lo assaliva il senso di colpa. Se lei l’avesse trovata gli avrebbe chiesto semplicemente: «Cos’è? Cosa contiene?» A quella domanda co-me avrebbe risposto? «Non è mia. Non è roba mia. Non lo so...» O forse avrebbe dovuto rivelarne la tenebrosa origine? Meglio era che non ne sa-

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pesse niente per non rimanere coinvolta e poi chissà che un giorno la faccenda si risolvesse e quella cassetta sparisse per sempre dalla sua vita. In che modo non si immaginava, visto che chi doveva reclamarne il pos-sesso e mettere fine all’affidamento si trovava in carcere e sarebbe dovu-to rimanerci ancora per molti anni. All’angolo del vigneto vi era una grossa pietra squadrata che forse un tempo fungeva da cippo di confine. Ettore spostò il masso facendo leva con il piccone, poi scavò una buca abbastanza profonda guardandosi sempre intorno nel timore di essere visto. Vi depose la cassetta che aveva avvolto con molte fasciature di nylon per evitarne il deperimento; ricoprì la buca pressando bene il terriccio e vi riposizionò sopra il grosso sasso bianco. Nessuno l’avrebbe spostato; non ne avrebbe avuto motivo: la ter-ra smossa era ricoperta e non rimaneva segno dell’operazione. L’erba bagnata dalla nebbia era schiacciata dalle impronte degli scarponi e un po’ di terriccio rimaneva sparso; Ettore provvide col rastrello che si era portato ad arruffare l’erba e a disperdere le tracce di terra. Tutto era fatto. Che quella cassetta maledetta se ne stesse lì per un bel po’.

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Confessioni Il confessionale era di legno di noce intagliato da abili mani di artisti fa-legnami, verniciato in tinta scura con tende viola sopra la porticina bassa e una vistosa croce anch’essa di legno sul sommo del tettuccio; ai due lati si appoggiavano i due predellini consunti dalle ginocchia dei fedeli che per decenni erano andati a purgarsi delle proprie nefandezze avvici-nando il viso alle grate nere come il peccato attraverso le quali s’intuiva il busto rassegnato del sacerdote. Don Dario ogni sabato pomeriggio alle cinque attendeva le confessioni. Più tardi c’era la messa della sera e sarebbe andato direttamente in sacre-stia per indossare i paramenti, assistito da uno o due chierichetti, mentre gli ultimi penitenti scontavano in orazioni i loro peccati alla luce di qual-che candela. Sabato, a quell’ora, pochi venivano a confessarsi. Era, per tutti, un pome-riggio di riposo dopo una settimana di lavoro; oppure era il momento giusto per fare certi lavoretti a casa o per andare a far spese in città. In-somma, alla fine arrivava solo qualche donna anziana o qualche ragaz-zetto nell’anno della prima comunione. E un sabato come un altro, all’inizio dell’inverno appena passato, una lieve malinconia attraversava i pensieri del giovane prete, mentre spiava, in una sottile fessura tra la tenda e lo stipite, i banchi vuoti e un Cristo in croce con gocce di sangue sulla fronte e una ferita aperta sul petto. “Chi verrà oggi?” pensava. “Sempre gli stessi o forse qualcuno in meno, per-ché oggi, anche se fa un po’ freddo, è una bella giornata di sole e di que-sto ringrazio Dio e starei volentieri anch’io fuori all’aria aperta o magari andrei in giro in bicicletta... Ma cosa dico? La mia missione, il mio com-pito, il mio dovere è qua e faccio un grave torto al Signore avendo di questi pensieri.” Intanto un fascio di luce scendeva dai finestroni alti, quando udì aprirsi la porta della chiesa e subito richiudersi. “Chi sarà ve-nuto?” si chiese.

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Una giovane donna era entrata ed era andata a inginocchiarsi in uno degli ultimi banchi; portava un velo nero sul capo com’era usanza una volta, anche i capelli erano neri e il velo le scendeva appena sulla fronte adom-brandone la pelle bianca; teneva gli occhi chini e le mani congiunte in preghiera; anche i vestiti, una gonna e un golfino, erano neri, il maglion-cino invece era di un blu avio e si chiudeva casto intorno al collo. Don Dario la conosceva, come conosceva tutti quelli della sua comunità. Sedeva sempre, durante la messa, a metà della navata o un po’ più in giù dalla parte destra, in compagnia della madre, anch’essa sempre in nero. Era un segno di lutto, il padre della ragazza era morto circa un anno pri-ma di tumore al pancreas: cinque mesi di calvario e poi via, come tanti altri, e don Dario aveva dovuto mestamente celebrarne i funerali fra il pianto e la disperazione dei parenti. Con la madre aveva parlato: «Signo-ra, si faccia coraggio, siamo nelle mani di Dio» ma la ragazza se n’era stata dietro in disparte, spaurita come un animaletto ferito. Altre volte era venuta alla confessione ma era prima della morte del pa-dre ed egli non ne aveva un particolare ricordo; ora, nondimeno, era im-provvisamente divenuta più donna sia nel contegno che nell’aspetto fisi-co. Chissà perché ora si era ripresentata, perché quell’intervallo, chia-miamolo così, di riflessione, e perché pregava a lungo ancor prima di confessarsi, come se i suoi peccati avessero bisogno di una profonda e-spiazione sia prima che dopo essere stati confidati; erano veramente così gravi o era lei che ne aumentava spropositatamente l’importanza? E quel periodo di qualche mese passato dall’ultima confessione era forse dovuto a un momento di smarrimento conseguente alla terribile malattia e alla morte del padre? Sempre, in occasione della scomparsa prematura di persone che sono state oneste e buone in vita, ci si domanda perché Dio abbia voluto chiamarle a sé, quale sia il suo disegno e quale giustifica-zione ci dobbiamo dare. Alla fine si presentò dietro la grata recitando le formule e confessandosi sempre con gli occhi bassi. Cosa disse, come si sa, è segreto e non è cer-to questo il luogo dove si possano commettere simili violazioni. Qual-cos’altro però iniziò a farsi largo nella mente del sacerdote, qualcosa di strano e inusitato per lui, un misto di ammirazione e meraviglia, qualcosa che gli ricordava la sua fanciullezza, quando non aveva ancora indossato gli abiti talari.

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La guardava nel viso e gli dava la sensazione di qualcosa di puro, di soa-vemente angelico. Gli ricordava, indubbiamente e incredibilmente, il vi-so di una Madonna, ovvero il viso della Madonna come lui se l’era da sempre immaginata; un viso sereno, materno nel senso più intimo, che consola e reca dolcezza. “Se la Regina dei Cieli” pensava “dovesse un giorno ridiscendere tra noi avrebbe senza dubbio un volto molto simile a questo”. Poi si sorprese a guardarne le spalle, il collo, le braccia e i seni piccoli e rotondi appena intuibili sotto il golfino... ma subito distolse gli occhi, per non cadere in tentazione. Si chiamava Anita e da quel giorno tornò ogni sabato alle cinque in chie-sa. Se fosse per il conforto spirituale che vi trovò o per altre ragioni, que-sto lo sapremo in seguito.

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Anita Anita, bambina dalle lunghe trecce nere un tempo, ora già grande con i capelli sciolti al vento, sogna un abbraccio e un bacio, forse. Forse gli occhi hanno già visto ma frugano ancora, tra la gente che cammina per strada o tra i banchi del mercato, dentro ai finestrini delle macchine, nel-le vetrate dei bar. Occhi che desiderano l’inconfessabile: acqua che spenga l’ardore, pane per una bocca digiuna, braccia e muscoli in una presa di ferro. Se ne sta per ore in attesa di avvistare la sua nave nel por-to o una prua che emerga dal mare e immagina i suoi passi sulla tolda e di partire per un viaggio lungo una vita. Anita, bella come un tramonto, un’alba o qualsiasi ora del giorno che ci allieti il cuore e ci faccia dire: «Beato chi vive, beato chi in quest’ora vi-ve!» Pura come l’acqua della pioggia raccolta nelle mani a coppa, dolce e bianca come il latte nel secchio la mattina presto, dalla pelle morbida che se la sfiori è simile a seta. I suoi pensieri miracolosamente intatti, privi di malizia, dolci e soavi come la bocca che li tramuta in parole; i suoi pensieri si volgono al giorno e amano il sole, non c’è niente che li deturpi perché son come fiori in un alto prato protetto da una catena di monti. Di notte sogna di correre tra l’erba alta che le struscia sui fianchi, la luce tenue del sole filtra tra gli alberi e il vento le s’infila sotto le vesti tentan-do di scoprire il suo corpo candido e la dolcezza dei suoi seni, mentre si smarrisce in una selva e allunga le braccia per scostare dei rami importu-ni; poi si distende e a occhi aperti sogna ancora le nuvole. Quando l’inverno stringe in una morsa le piante del giardino e le gela il cuore come un sasso nella terra, di notte, quando sogna e il vento di tramontana fa cigolare le imposte, allora si rammenta che il padre è morto ed è stato neanche un anno fa. Allora i suoi sogni si fanno lugubri; sono funerali e bare, scorrere di funi, occhi gonfi di pianto e marmo, tanto marmo fred-do, grigio e bianco, squadrato e ancor più gelido.

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Anita, il tuo amore sbagliato nemmeno sai dove ti porterà. Nemmeno sai se è sacrilegio o solo peccato. Solo ti lasci trasportare, lasci che siano i tuoi sensi a portarti. Non ti chiedi mai cosa sarà, non ti curi mai delle conseguenze. La tua giovinezza è un fiore che vuol essere colto. È un fiore che non si chiede perché è nato, se diventerà frutto o appassirà, se domani ci sarà pioggia a dissetare o arsura che raschia la gola. La giovi-nezza vive tutti i momenti senza pensare e non se ne importa del domani; la giovinezza non ha tempo, non ha tempo di aspettare, impiega tutte le sue forze solo per gioire un momento. Nasce e muore e ancora rinasce, finché un giorno ti abbandona e ti accorgi che quel tempo è passato e quel che è stato è stato, senza rimedio. Mentre don Dario annotava sul suo quadernetto personale che teneva sempre in tasca: “Anita, sogno illibato, a ogni alba riappari nelle visioni della mia mente e ogni notte, nei sogni, mi siedi accanto.” FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...