Upload
others
View
3
Download
0
Embed Size (px)
Citation preview
LA RESPONSABILITA’ DELLA STRUTTURA SANITARIA E
DELL’ESERCENTE LA PROFESSIONE SANITARIA ALLA LUCE
DELLA LEGGE 8 MARZO 2017, N. 24 (C.D. LEGGE GELLI-BIANCO)
*****************
PREMESSA.
La Riforma Gelli, in punto di responsabilità, riguarda gli esercenti le
professioni sanitarie. Ma chi sono gli esercenti le professioni
sanitarie?
La normativa vigente, seppure frastagliata, consente di rispondere
che debbono considerarsi esercenti le professioni sanitarie:
- il farmacista ex Dlgs n. 258/1991;
- il medico chirurgo ex Dlgs n. 368/1999;
- l’odontoiatra ex L. n. 409/1985;
- il veterinario ex L. n. 750/1984;
- lo psicologo ex L. n. 56/1989;
- l’infermiere ex L. n. 905/1980 e D.L. n. 70/1997;
- l’ostetrico ex L. n. 296/1985;
e in generale tutti gli operatori sanitari che pongono in essere “atti
medici”.
Sembra possano essere escluse dall’ambito applicativo della Riforma
l’operatore di interesse sanitario (L. n. 403/1971 e L. n. 43/2006) e le
arti ausiliarie delle professioni sanitarie (massaggiatore, ottico,
odontotecnico, puericultore), ciò in quanto si tratta di soggetti che
svolgono un’attività che ha sì rilevanza sanitaria, oppure di
affiancamento, ma non costituiscono esse stesse attività sanitaria,
mentre l’art. 7 della Riforma pretende un esercizio di attività sanitaria.1
1) GENESI E RATIO DELLA RIFORMA GELLI.
La c.d. Legge Gelli arriva al termine di un travagliatissimo percorso
nel quale, in assenza di significativi provvedimenti legislativi, almeno
fino al Decreto Balduzzi (pubblicato in G.U. il 13 settembre 2012,
convertito in legge dalla Legge 8 novembre 2012, 189) la materia
della responsabilità del medico e della struttura sanitaria era stata
regolamentata dalla giurisprudenza, con significativi apporti della
migliore dottrina civilistica, sulla scorta delle norme del codice civile.
Il percorso inizia con l’affermazione di una responsabilità
prettamente aquiliana e poi, attraverso la teoria del contatto sociale
di matrice giurisprudenziale (Corte di Cassazione 22 gennaio 1999, n.
589, in Danno e Responsabilità, 1999, 294, con Nota di Carbone “La
responsabil ità contrattuale del medico ospedaliero come
responsabilità da contatto”; in Resp. Civ. e Prev., 1999, 653, con nota
di Forziati “La responsabilità contrattuale del medico dipendente: il
contatto sociale conquista la Cassazione”; in Foro It., 1999, I, 3332,
con nota di Di Ciommo “Note critiche sui recenti orientamenti in tema
di responsabilità del medico ospedaliero” e di La Notte “L’obbligazione
del medico dipendente è un’obbligazione senza prestazione o una
prestazione senza obbligazione?”), passa per l’affermazione della
responsabilità contrattuale, sia della struttura sanitaria, sia
dell’esercente la professione sanitaria, per concludersi, nei termini
individuati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la
famosa (per i giuristi) sentenza 11 gennaio 2008, n. 577 che, nel
definire il regime degli oneri probatori delle parti processuali in
ambito sanitario, ha rimandato appunto all’art. 1218 c.c..2
In conseguenza di ciò, si è assistito ad una sempre più crescente
tutela dei diritti dei pazienti fino a determinare una reazione - per certi
versi comprensibile - del mondo medico, culminata con un altrettanto
crescente ricorso alla c.d. medicina difensiva, ovvero, alla
prescrizione, da parte dei medici, di molteplici prestazioni
diagnostiche e terapeutiche, spesso non necessarie per non dire
potenzialmente pericolose per la salute. Si è assistito addirittura al
rifiuto da parte dei medici a effettuare interventi sanitari ritenuti ad alto
rischio con conseguente venir meno di quel rapporto di fiducia che
deve intercorrere tra il medico e il proprio paziente.
Quanto descritto ha determinato, prima di tutto, conseguenze
negative per la salute dei cittadini ma anche un aumento della spesa
sanitaria: le risorse (più che mai preziose in tempi di congiuntura
economica sfavorevole) venivano male impiegate, per non dire
sprecate, in quanto anziché essere indirizzate verso prestazioni
sanitarie di cui i cittadini avevano effettivamente bisogno (e quindi,
diritto), venivano utilizzate per prevenire ipotesi di responsabilità, sia
penale che civile, in capo ai medici e più in generale agli esercenti la
professione sanitaria.
A ciò si aggiunga che la (anche qui) comprensibile preoccupazione di
essere chiamati a rispondere giudizialmente del proprio operato
anche nelle ipotesi in cui il professionista sanitario avesse svolto la
propria prestazione nello scrupoloso rispetto delle buone pratiche
cliniche (ma che non riusciva a dimostrarlo in giudizio) ha
determinato, in questi anni, una vera e propria fuga dalle
3
specializzazioni mediche maggiormente esposte al c.d rischio
giuridico.
Non bisogna, infine, dimenticare che molti professionisti sanitari,
proprio a causa del proliferare del contenzioso, non riuscivano
materialmente a ottenere un’adeguata copertura assicurativa a causa
dei costi eccessivamente elevati delle polizze assicurative.
Il culmine di questo percorso si è avuto nell’autunno del 2010
allorquando una sentenza della Corte di Cassazione Penale (la n.
8254 del 23 novembre 2010) riconobbe la responsabilità penale di un
medico che dimise, nel presunto rispetto delle linee guida (invero mai
prodotte e accertate come esistenti), un paziente con trascorse
patologie cardiovascolari poi deceduto di lì a poco.
La sentenza suscitò molto scalpore e venne vista, anche dai media,
come la minaccia più grave rivolta dalla Magistratura al mondo
medico e al tempo stesso come il crollo dell’ultima barriera possibile
per cautelarsi preventivamente dalle richieste risarcitorie dei pazienti
ritenuti sempre più aggressivi e viene ricordata come la madre della
medicina difensiva.
In questo contesto, con il fine di porre un argine al diffondersi sempre
più massiccio delle cause contro i medici e per porre rimedio al
fenomeno della c.d. medicina difensiva, intervenne il Decreto
Balduzzi, sopra citato, che con il suo articolo 3) intendeva, ferma
restando la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, così
come elaborata dalla giurisprudenza (teoria del contatto sociale),
attenuare la responsabilità degli esercenti la professione sanitaria
dipendenti delle strutture sanitarie, sia pubbliche che private, 4
introducendo, per questi ultimi, la responsabilità extracontrattuale ex
art. 2043 c.c..
Purtroppo la non felice formulazione dell’art. 3 non riuscì a superare
l’orientamento della c.d. responsabilità da contatto sociale che da
circa 15 anni comportava la responsabilità di natura contrattuale del
medico, cosicché si aprì un aspro contrasto in giurisprudenza tra i
fautori della tesi della responsabilità extracontrattuale e i fautori della
tesi della responsabilità contrattuale degli esercenti la professione
sanitaria nell’ambito delle strutture sanitarie, sia pubbliche che private
per le quali invece era pacifica la responsabilità contrattuale.
A fronte di una spaccatura così forte anche nell’ambito di diverse
Sezioni del medesimo Tribunale (emblematico il caso del Tribunale di
Milano che con sentenza n. 14320 del 17 luglio 2014 - Giudice
relatore, Dott. Patrizio Gattari - accoglieva la tesi della responsabilità
extracontrattuale e con sentenza n. 13574 del 8 novembre 2014 la
respingeva affermando la responsabilità contrattuale) le superiori
esigenze di certezza del diritto imponevano una presa di posizione
definitiva del Legislatore in grado di adottare una linea chiara su una
tematica che coinvolge, evidentemente, non soltanto il mondo dei
professionisti sanitari quanto l’intera collettività.
Ed eccoci alla c.d. Riforma Gelli intervenuta per riequilibrare un
sistema sanzionatorio degli esercenti la professione sanitaria che, a
causa dell’imprescindibile e sacrosanta esigenza della tutela del diritto
alla salute perseguito dalla Magistratura, aveva spostato il c.d.
pendolo della giustizia in posizioni da non pochi operatori del settore
ritenute eccessivamente sbilanciate a danno del c.d. mondo medico.5
La Riforma Gelli ha inteso agire lungo 3 macro direzioni:
i) Una maggiore tutela del sanitario sotto il profilo penalistico,
avvertendosi la necessità di tranquillizzare l’operatore sanitario
(anche nell’interesse del paziente stesso) costretto a lavorare,
talvolta, in condizioni di particolare difficoltà, rispetto al rischio di
ledere proprio quel bene salute che si doveva tutelare e proteggere:
doveva essere chiara la differenza tra chi sbaglia nel complesso
esercizio di una professione volta a tutelare il bene salute, rispetto a
chi si comporta in spregio dei diritti e beni altrui.
ii) La tutela del professionista sanitario, pubblico e privato, anche sotto
un profilo civilistico attraverso la traslazione del rischio e del costo del
risarcimento del danno alla salute sulla struttura sanitaria,
valorizzando al tempo stesso tutte le iniziative finalizzate alla gestione
del rischio clinico e alla prevenzione degli eventi avversi nell’interesse
della collettività.
iii) Il maggiore coinvolgimento del mondo assicurativo nella duplice
convinzione che un’adeguata gestione dei volumi monetari legati al
risarcimento del danno da trattamento sanitario non sia altrimenti
gestibile se non con il supporto e il coinvolgimento delle
assicurazioni private e che la presenza delle stesse potesse fornire
maggiori garanzie di un giusto risarcimento delle pretese del
paziente rispetto alle talvolta carenti casse pubbliche.
6
2) LA MACRO DIVISIONE TRA RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE
DELLA STRUTTURA SANITARIA E RESPONSABIL ITA’
EXTRACONTRATTUALE DELL’ESERCENTE LA PROFESSIONE
SANITARIA.
La soluzione legislativa, prevista dall’art. 7 della Legge Gelli-Bianco, è
quella fatta propria, se si vuole, dalla sentenza del Tribunale di Milano
n. 14320 del 17 luglio 2014 - Giudice relatore, Dott. Patrizio Gattari,
interpretativa dell’art. 3 del Decreto Balduzzi, nella quale veniva
ipotizzata la macro divisione tra responsabilità contrattuale ex artt.
1218 e 1228 c.c. delle strutture sanitarie e responsabilità
extracontrattuale ex art. 2043 c.c. del professionista sanitario
dipendente della medesima struttura.
2.1) LA RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE DELLA STRUTTURA
SANITARIA.
Uno dei punti fermi della responsabilità sanitaria che la Riforma Gelli
non ha in alcun modo modificato riguarda appunto la natura
contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria, sia essa
pubblica o privata.
Ma che significa, in concreto, che la struttura sanitaria assume
responsabilità contrattuale nei confronti dei pazienti?
Significa che la struttura sanitaria è responsabile per l’inadempimento
e/o inesatto adempimento delle prestazioni dovute in virtù del
contratto di spedalità o di assistenza sanitaria conclusosi per fatti
concludenti per effetto anche della sola accettazione del malato nella
struttura (teoria del contatto sociale). E ciò in virtù dei criteri sanciti 7
dall’art. 1218 c.c. che definisce la responsabilità del debitore:
dell’eventuale errore del personale sanitario di cui l’azienda si avvalga
risponde la stessa ai sensi dell’art. 1228 c.c. in virtù del quale il
debitore che per adempiere l’obbligazione si avvale dell’opera di terzi
risponde anche dei fatti dolosi o colposi da quest’ultimi posti in essere.
In caso di responsabilità contrattuale, il diritto al risarcimento dei danni
si prescrive nel termine ordinario di 10 anni.
Sotto il profilo dell’onere probatorio è onere del debitore convenuto
(quindi della struttura sanitaria) fornire la prova di aver esattamente
adempiuto le sue prestazioni, ovvero che il danno lamentato dal
creditore (quindi il paziente), che può limitarsi ad una mera
allegazione qualificata dei fatti nei termini individuati dalla citata
sentenza dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 11 gennaio
2008, n. 577, non gli è imputabile, ciò che ha reso molto ardua, per la
struttura sanitaria, la prova liberatoria.
E’ contrattuale, ovviamente, anche la responsabilità del medico libero
professionista che è tale perché operante in virtù appunto di un vero e
proprio contratto intercorso tra il medico e il paziente.
8
2.2) LA RESPONSABILITA’ EXTRACONTRATTUALE DEL MEDICO
DIPENDENTE.
Il terzo comma dell’art. 7 della Legge Gelli stabilisce che l’esercente la
professione sanitaria risponde del proprio operato ai sensi dell’art.
2043 c.c., salvo che abbia agito nell’adempimento di un’obbligazione
contrattuale assunta con il paziente.
Tale precetto chiarisce definitivamente il contenuto della
responsabilità del medico dipendente dopo le diverse interpretazioni
date dalla giurisprudenza all’art. 3 del Decreto Balduzzi culminate con
lo scontro tra due diverse sezioni del Tribunale di Milano, cui sopra si
è fatto cenno.
Quindi al medico dipendente è attribuita una responsabilità “attenuata”
nel senso che sarà tenuto al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.
solo se il paziente riuscirà a dimostrare il fatto materiale, cioè la
condotta dell’agente, il danno subito, il rapporto di causalità tra la
condotta e il danno, nonché la colpa o il dolo dell’agente, ciò che
processualmente parlando non è affatto agevole.
In caso di responsabilità extracontrattuale, il diritto al risarcimento dei
danni si prescrive nel termine di 5 anni.
E’ naturale che affermare o prevedere la responsabilità
extracontrattuale del medico non significa affatto la sua
deresponsabilizzazione ma non si può negare che il raggiungimento
della prova dell’errore sarà ben difficile per il paziente che, seppure
coadiuvato da un consulente, avrà serie difficoltà a dimostrare
accadimenti o trattamenti errati eziologicamente collegati alla condotta
colposa o dolosa del medico e sotto questo profilo non vi possono 9
essere dubbi sul fatto che la Legge Gelli possa contribuire a una
maggiore serenità professionale dei medici dipendenti.
Il cumulo delle azioni - quella contrattuale nei confronti della struttura
sanitaria e quella extracontrattuale nei confronti dell’esercente la
professione sanitaria, con conseguenti oneri probatori e termini
prescrizionali del tutto differenti - non costituisce, del resto, una novità.
Anche la giurisprudenza antecedente la teorizzazione del contatto
sociale aveva applicato in numerose occasioni il c.d. “cumulo
improprio” come, per esempio, per il danno subito dal trasportato su
mezzo pubblico a cui è stata concessa la possibilità di svolgere, sia
l’azione contrattuale nei confronti del vettore, sia l’azione
extracontrattuale nei confronti dell’autista del mezzo stesso.
Sotto un profilo teorico, dunque, viene a configurarsi sul piano
processuale un doppio regime di responsabilità tra medico dipendente
- obbligato ex delicto - e struttura sanitaria - obbligata ex contractu -
sicché nel medesimo giudizio la prova nei confronti del medico
potrebbe ritenersi non raggiunta (proprio perché più difficile da fornire)
ma, al tempo stesso, potrebbe essere condannata la struttura
sanitaria che non è riuscita a fornire la prova liberatoria del proprio
inadempimento, ciò che, nelle intenzioni del Legislatore, dovrebbe
scoraggiare azioni giudiziarie nei confronti del personale medico
dipendente, anche se ciò non è avvenuto quantomeno sul versante
penale (v. dichiarazione riportata da Repubblica del 8 ottobre 2018 del
P.M. aggiunto di Milano, Dott.ssa Tiziana Siciliano).
L’art. 8 della Legge Gelli prevede una c.d. condizione di procedibilità
dell’azione giudiziaria individuata nella alternativa e indifferente (che 10
poi indifferente non è) proposizione di un ricorso per accertamento
tecnico preventivo ai fini della composizione della lite ex art. 696 bis
c.p.c. ovvero nell’espletamento del procedimento di mediazione ai
sensi dell’art. 5, comma 1 bis del Dlgs 4 marzo 2010, n. 28.
11
2.3 LA RIVALSA DELLA CORTE DEI CONTI
Nell’ipotesi che la struttura sanitaria venga condannata al risarcimento
del danno nei confronti del paziente per un errore commesso
dall’esercente la professione sanitaria, la struttura medesima ha, ai
sensi dell’art. 1 della Legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato
dall’art. 3 del decreto legge 23 ottobre 1996, n. 543, azione di rivalsa
nei confronti di quest’ultimo che è esercitata dal Pubblico Ministero
presso la Corte dei Conti, ipotesi disciplinata dall’art. 9 della Legge
Gelli.
E’ la c.d. responsabilità amministrativa che può essere definita come
una responsabilità incombente su un soggetto legato a una pubblica
amministrazione da un rapporto di servizio che, in violazione di
obblighi o doveri da questo derivanti, provochi un danno alla propria o
ad altra Amministrazione dello Stato commettendo un illecito con dolo
o colpa grave.
Deve ritenersi colpa grave l’evidente e marcata trasgressione di
obblighi di servizio o di regole di condotta che si sostanzia
nell’inosservanza di quel minimo di diligenza richiesto nel caso
concreto o in una marchiana imperizia o un’irrazionale imprudenza
(Corte dei Conti, sezioni Riunite, 10 giugno 1997, n. 56/A).
A prescindere dai danni patiti dal paziente, ciò che rileva in tema di
danno erariale indiretto (cioè quello di cui si sta discutendo) è
l’effettivo pregiudizio dell’Erario che il comportamento del dipendente
ha provocato, ferma la possibilità per il giudice contabile di valutare
liberamente le risultanze processuali del giudizio civile o penale.
12
La responsabilità civile e quella amministrativo-contabile, si fondano,
infatti, su presupposti differenti: i due giudizi (civile di risarcimento del
danno al paziente e di responsabilità amministrativa per danno
erariale) si sviluppano su piani differenti e tra loro autonomi in quanto
finalizzati a definire rapporti giuridici soggettivamente ed
oggettivamente diversi (Stato e paziente) e perché diverse sono
anche le norme cui fare riferimento.
La Corte dei Conti deve quindi valutare autonomamente i fatti
accertati nel processo civile o penale perché le sentenze di condanna
a carico della Pubblica Amministrazione non esplicano efficacia
vincolante nel giudizio di responsabilità amministrativa, se l’esercente
la professione sanitaria non è stato parte del giudizio.
Le strutture sanitarie, ovvero le compagnie di assicurazione, debbono
comunicare all’esercente la professione sanitaria l’instaurazione del
giudizio promosso dal danneggiato nei loro confronti (così come pure
l’avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato) entro 45 giorni
dalla notificazione dell’atto introduttivo, a pena di inammissibilità
dell’azione di rivalsa.
E’ importante sottolineare che la Riforma Gelli prevede comunque un
tetto all’azione di rivalsa, tetto che di fatto altro non costituisce che
l’espressione dell’istituto del potere riduttivo (previsto dall’art. 52 del
regio n. 1214/1934) cui la Corte dei Conti aveva fatto ricorso anche
prima della Riforma.
L’importo della condanna per la responsabilità amministrativa e della
surrogazione di cui all’art. 1916, c.1, c.c., per singolo evento, in caso
di colpa grave, non può superare una somma pari al valore maggiore 13
della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti
nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno
immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo,
salvo che per gli esercenti al professione sanitaria indicati nell’art.
10.2., cioè i liberi professionisti.
Il limite sopra previsto per l’azione di rivalsa, nonostante qualche
isolata opinione contraria, vale anche per gli esercenti la professione
sanitaria presso strutture sanitarie private stante il tenore letterale
dell’art. 9 che fa espresso riferimento al termine “rivalsa”. La casa di
cura privata aveva ed ha tuttora un’azione di natura contrattuale
contro il suo ausiliario per la cui responsabilità ha dovuto sostenere un
esborso risarcitorio, ma tale azione è assoggettata ex lege a
limitazioni qualitative (dolo o colpa grave del medico) e quantitative (il
tetto previsto dall’art. 9) e questo basta per qualificare l’azione come
“rivalsa” e non come “regresso” che invece comporterebbe il
superamento dei limiti previsti dalla norma.
Per i 3 anni successivi al passaggio in giudicato della sentenza di
condanna della Corte dei Conti, l’esercente la professione sanitaria
nell’ambito delle strutture sanitarie o socio sanitarie pubbliche non può
essere preposto a incarichi professionali superiori rispetto a quelli
ricoperti e il giudicato costituisce oggetto di specifica valutazione da
parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori.
In ogni caso, afferma l’art. 9, che ai fini della quantificazione del danno
si tiene conto della situazione di fatto di particolare difficoltà, anche di
natura organizzativa, della struttura sanitaria o socio sanitaria
pubblica in cui l’esercente la professione sanitaria ha operato, che 14
costituisce un’ulteriore applicazione ex lege del potere riduttivo, ciò
che rivela una cattiva coscienza organizzativa del mondo pubblico e
delle effettive responsabilità che debbono ricadere in chi opera in
contesti a volte gravemente inadeguati.
La limitazione della rivalsa anche per gli esercenti le professioni
sanitarie in strutture private, ai soli casi di dolo o colpa grave e il
massimale dell’azione di rivalsa connessa alla responsabilità
amministrativa costituisce, anch’esso, un ulteriore contributo a una
maggiore serenità professionale dei medici dipendenti.
Quanto appena detto mi fa venire in mente le criticità conseguenti la
responsabilità amministrativa dei c.d. claim manager ospedalieri,
nuove figure professionali sorte per fronteggiare il fenomeno della
scomparsa dal mercato assicurativo delle tradizionali coperture per
responsabilità professionale sanitaria che ha determinato la
translazione del rischio di responsabilità civile dal settore assicurativo
privato alla Pubblica Amministrazione, ora limitatamente a parti del
rischio (le c.d. s.i.r. self insurance retention, cioè quote di ritenzione
del rischio) ora alla sua interezza, con conseguente esposizione
dell’Erario alle pretese di pazienti (e relativi familiari) che si ritengano
lesi da (errate) prestazioni sanitarie. Un tema che esula dal presente
incontro ma che meriterebbe un convegno a sé.
Mi limito a segnalare che la Legge Gelli riguarda, come detto in
premessa, i soli professionisti sanitari, ergo: che succede al legale
interno che autorizza una transazione ritenuta sbagliata? Opera il tetto
della rivalsa della Corte dei Conti? Parrebbe proprio di no ..... Un 15
interessante aspetto da approfondire in altre sedi anche sotto il profilo
della costituzionalità di una tale esclusione.
16
3) PRIME IMPRESSIONI. LA CRITICA. L’AUTOSUFFICIENZA DEL
CODICE CIVILE.
Sulla Legge Gelli sono stati fatti numerosi convegni in cui ho sentito
chi la apprezza, chi la critica e chi la disprezza.
Premesso che la Legge deve trovare ancora completa attuazione (v.
per esempio la figura del difensore civico e l’istituzione dei Centri
Regionali per la gestione del rischio clinico, oppure l’Osservatorio
Nazionale delle buone pratiche, istituito con decreto dello scorso
marzo unitamente al Sistema Nazionale Linee Guida, ma non ancora
funzionante, oppure il Fondo di garanzia per i danni derivanti da
responsabilità sanitaria non “coperti”) la mia impressione è che il
sistema delineato dalla Riforma Gelli abbia inteso perseguire un
equilibrio tra i vari interessi in gioco ma che non ci sia completamente
riuscita: il paziente danneggiato, per quanto sopra detto, dovrebbe
essere indotto (sul versante della responsabilità civile, mentre sul
versante della responsabilità penale, ciò non è avvenuto, come detto
a pag. 10) ad agire nei confronti della struttura sanitaria la quale, una
volta pagato il risarcimento, in ipotesi di ritenzione del rischio, avrà
azione di rivalsa amministrativa (sussistendone le condizioni),
attraverso il P.M. presso la Corte dei Conti, nei confronti dell’operatore
sanitario responsabile che quindi non dovrebbe risultare
completamente deresponsabilizzato, ovvero trasferirà il costo del
risarcimento sulla compagnia di assicurazione in ipotesi che la
struttura sanitaria risulti assicurata.
Purtroppo però questa seconda opzione non risulta, allo stato,
praticabile.17
Il riferimento è a quanto stabilito dall’art. 10 della Riforma che prevede
l’obbligatorietà dell’assicurazione per le strutture sanitarie e per i
professionisti che vi operano, salvo altre analoghe misure, obbligo
al quale non corrisponde un paritetico obbligo a contrarre in capo
all’assicuratore.
La crescente tutela accordata dalla giurisprudenza ai diritti dei pazienti
con conseguente esponenziale aumento del costo dei risarcimenti ha
determinato, non solo il fenomeno della c.d. medicina difensiva ma
anche il sostanziale ritiro dal mercato delle principali compagnie
assicurative italiane che hanno lasciato spazio a pochi assicuratori
stranieri che non dovevano scontare le passività sopportate negli anni
precedenti dai loro predecessori.
La Riforma vorrebbe far ritornare le assicurazioni ma a tal fine certo
non basta normare circa l’obbligo di assicurazione imposto alle
strutture sanitarie, peraltro senza un corrispondente obbligo di
contrarre imposto alle compagnie di assicurazione.
Non è obbligando le strutture sanitarie ad assicurarsi che si riportano
le compagnie di assicurazione sul mercato, bensì favorendo la loro
presenza attraverso una condivisione dei rischi tra assicuratore e
assicurato. Una condivisione dei rischi che è minata alla radice dalla
locuzione “salvo analoghe misure”, che altro non sono che aree di
ritenzione del rischio, a volte totali e a volte parziali (le c.d. s.i.r.) che
svuota di significato l’obbligo di copertura assicurativa imposto alle
strutture sanitarie e che ha determinato la rottura di quella alleanza tra
assicurato ed assicuratore che costituisce la ratio di ogni contratto di
assicurazione e che crea inevitabili conflitti di interesse nella gestione 18
dei sinistri allorquando al potenziale superamento della s.i.r. scatta il
coinvolgimento di entrambi i soggetti con esigenze contrastanti.
L’assicuratore avrà infatti maggiore interesse a liquidare un sinistro
del valore di 1.000.000,00 di euro allorché la s.i.r. sia di 800.000,00
euro rispetto alla struttura che in tal caso dovrebbe sopportare l’80%
del costo finale del risarcimento.
Non è quindi imponendo agli assicurati di assicurarsi che si ottiene la
partecipazione del mondo assicurativo alla gestione del rischio clinico,
bensì favorendo il senso di responsabilità degli operatori sanitari ed
evitando automatismi risarcitori che altro effetto non avranno che
alzare il costo delle assicurazioni e conseguentemente privare il
mercato di un ausilio tecnico indispensabile per il corretto
funzionamento del sistema sanità.
La Legge Gelli avrebbe potuto forse favorire meglio questa alleanza
tra assicurato e assicuratore che era tra i suoi auspici e che nei fatti,
invece, non si è realizzata anche perché forse è risultata troppo
marcata (o è stata percepita come tale) l’esigenza di protezione del
personale sanitario dipendente in favore di una responsabilità quasi
oggettiva della struttura sanitaria, ciò che evidentemente non è
piaciuto molto al modo assicurativo.
Che se poi l’intento del Legislatore fosse solo quello di tranquillizzare
l’esercente la professione sanitaria non mi pare che ciò sia riuscito
efficacemente dato che per gli esercenti la professione sanitaria non è
per niente la stessa cosa, avere la struttura sanitaria, presso la quale
prestano la loro opera, assicurata o non assicurata e quindi in regime
di ritenzione del rischio.19
Le c.d. “analoghe misure”, non sono per niente “analoghe” in quanto
se la struttura sanitaria è assicurata ai sensi dell’art. 10, stante
l’esclusione del diritto di surroga ex art. 1916 c.c. dell’assicuratore nei
confronti dell’assicurato (quale deve considerarsi anche l’esercente la
professione sanitaria), il pagamento da parte dell’assicurazione
elimina, in radice, l’azione di rivalsa della Corte dei Conti non
sussistendo evidentemente alcun danno per l’Erario, mentre se la
stessa non è assicurata, in caso di pagamento, scatterà
automaticamente l’azione di responsabilità amministrativa, pur con i
limiti previsti dall’art. 9 della Legge Gelli, ciò che non contribuisce
evidentemente alla serenità dell’esercente la professione sanitaria.
La stessa Corte dei Conti (Corte dei Conti Lombardia n. 163/2016), in
una interessante sentenza, ha applicato il potere riduttivo nei confronti
di un dipendete della ASL che aveva introdotto un’ampia franchigia, a
dimostrazione di come ben diversa sia la posizione del dipendente di
un ente pubblico con s.i.r. o non assicurato e quella del medico che
possa contare su una copertura assicurativa in suo favore fin dal
primo euro.
La serenità sul posto di lavoro e la necessità di non dover assistere i
pazienti con il codice civile e penale in mano è certamente
comprensibile e il pendolo della giustizia - come detto - si è spesso
spinto verso la parte del paziente anche forzando alcuni istituti
giuridici come il nesso causale o allargando l’applicazione di una
figura, dagli incerti confini, come la perdita di chance, (anche se
ultimamente, devo rilevare, le cose stanno un po’ cambiando e si sta
assistendo ad una netta inversione di rotta dal momento che 20
l’orientamento giurisprudenziale più recente - v. Cass. 19 luglio 2018,
n. 19204 - afferma il principio (a mio avviso sacrosanto) per cui anche
nelle cause di responsabilità medica, sia di natura contrattuale che
extracontrattuale, il nesso di causalità è elemento costitutivo del diritto
al risarcimento del danno e deve essere provato dall’attore
danneggiato, sulla scorta del principio generale previsto dall’art. 2697
c.c., per cui chi agisce in giudizio deve provare i fatti che ne
costituiscono il fondamento, ciò che può essere visto anche come un
ulteriore merito della Riforma Gelli), ma la sostanziale impunità del
responsabile non è comunque, in generale, auspicabile in quanto,
oltre a togliere uno strumento fondamentale all’assicuratore per la
gestione del rischio assicurativo, non contribuisce, a mio parere, a
favorire l’attuazione delle buone prassi terapeutiche sotto il profilo
della corretta tenuta della cartella clinica, dell’attuazione dei migliori
protocolli prevenzionali e di tutte quelle buone prassi che portano al
miglioramento delle prestazioni e ad una sempre più sicurezza nelle
cure (si parla del c.d. “senso di responsabilità” che fa aumentare
fisiologicamente l’attenzione e la concentrazione).
E’ chiaro che non spetta al giurista fornire soluzioni. Tuttavia, devo
rilevare che il codice civile italiano, come spesso (o quasi sempre)
accade, contiene in sé, a mio modesto avviso, le norme e i principi
generali in grado di regolamentare anche la materia della
responsabilità sanitaria, come del resto era accaduto prima del
Decreto Balduzzi.
21
La legislazione settoriale raramente s’impone e spesso, in Italia
almeno, produce più danni che benefici (come per esempio nel caso
del TUF e del TUB).
Il codice civile italiano, che è senz’altro uno dei migliori al mondo,
(come ci è riconosciuto anche all’estero) definisce già, sia la sfera di
responsabilità della struttura sanitaria all’art. 1218, sia la sfera di
responsabilità del prestatore d’opera professionale all’art. 2236 che,
unitamente ai principi generali sottesi al codice civile medesimo
(come, per esempio, il principio dell’affidamento, le clausole generali
di diligenza, correttezza e buona fede), consentirebbero alla
giurisprudenza di elaborare un efficace modello di responsabilità
sanitaria, magari rivedendo quelle interpretazioni troppo integraliste
che avevano condotto allo sbilanciamento di tutela in danno del
mondo medico con l’effetto magari di attrarre nuovamente il mondo
assicurativo che costituisce, a mio avviso, un attore imprescindibile
per un’efficace gestione del rischio clinico, senza considerare che ciò
consentirebbe un più facile adeguamento dei criteri di risarcibilità alle
mutevoli esigenze sociali.
E non bisogna neppure dimenticare che quand’anche s’inquadrasse
la responsabilità dell’operatore sanitario dipendente nell’ambito della
responsabilità contrattuale, la sua obbligazione sarebbe pur sempre
un’obbligazione di mezzi e non di risultato dove non conta il “risultato”,
appunto, ma la diligenza, la prudenza e la perizia nell’esecuzione
della prestazione che rappresentano i tipici strumenti dell’assicuratore
nella valutazione del rischio assicurativo.
22
Del resto, non credo si possa negare che l’affermazione della
responsabilità extracontrattuale dell’esercente la professione sanitaria
rappresenti una forzatura dato che quest’ultimo non può essere
paragonato a un qualunque soggetto che cagioni ad altri un danno
ingiusto, per usare le parole dell’art. 2043 c.c.; così come, parimenti,
costituisce una forzatura l’affermazione della responsabilità
contrattuale della struttura sanitaria stante la atipicità e particolarità
del rapporto che si instaura tra paziente e struttura sanitaria (il c.d.
contratto di spedalità), tant’è che, come si è visto, prima del Decreto
Balduzzi, la giurisprudenza, per affermare la responsabilità
contrattuale della struttura sanitaria, aveva dovuto elaborare,
coerentemente con il sistema dei principi generali sottesi al codice
civile, la teoria del c.d. contatto sociale, ciò che conferma, a mio
avviso, il principio dell’autosufficienza del codice civile italiano.
23
4) LA RESPONSABILITA’ PENALE E IL SOPRAVVALUTATO RUOLO
DELLE LINEE GUIDA.
Anche sul versante della responsabilità penale l’art. 6 della Riforma,
che ha aggiunto l’art. 590 sexies, c.p., oltre che intrinsecamente
contraddittorio, non rassicura pienamente gli esercenti la professione
sanitaria.
La disposizione assume infatti che un evento morte o lesioni possa
verificarsi per imperizia quale conseguenza di una condotta del
sanitario rispettosa delle regole di perizia contenute in Linee Guida
adeguate alle specificità del caso concreto. Si ipotizza, in sostanza,
che vi possa essere imperizia nonostante l’osservanza di regole
tecniche. Il che è illogico.
Lo schematismo semplicistico della norma nel suo voler seguire la
strada di una scriminante buona da essere utilizzata in tutti i casi
rischia, in realtà, di non sortire alcun effetto depenalizzante come
posto in evidenza dalla sentenza della Cassazione, nota come
sentenza De Luca-Taraboni, che ha sostenuto addirittura che il
Decreto Balduzzi fosse da ritenere norma più favorevole, dato il
riferimento alla colpa lieve quale esimente della responsabilità.
Ed infatti, nel febbraio scorso, è intervenuta la Corte di Cassazione
Penale a Sezioni Unite, (sentenza n. 8770 del 22 febbraio 2018, c.d.
sentenza Mariotti) che ha stabilito che l’esercente la professione
sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali
derivanti dall’esercizio dell’attività medico-chirurgica:
a) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o
imprudenza;24
b) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia
quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle
Linee Guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
c) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nella
individuazione e nella scelta di Linee Guida o di buone pratiche che
non risultino adeguate alla specificità del caso concreto;
d) se l’evento s’è verificato per colpa grave da imperizia
nell’esecuzione di raccomandazioni, di Linee Guida o buone
pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di
rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto
medico.
Lo scopo della Riforma Gelli era evidentemente quello di trasmettere
ai medici un messaggio rassicurante - rispettate le Linee Guida
(purché accreditate e adeguate al caso concreto) e andrete esenti da
responsabilità penale - ma ciò, come spiegato dalla Cassazione
Penale, non è possibile perché, in realtà, per individuare le
responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, non c’è bisogno
di fare riferimento alle Linee Guida la cui funzione è quella di costituire
un riferimento alle migliori pratiche cliniche e non certo quello della
giustificazione dei comportamenti errati del personale sanitario.
Se è vero che il rispetto delle Linee Guida potrebbe contribuire (con le
limitazioni stabilite dalla Corte di Cassazione Penale) ad escludere la
responsabilità del sanitario è anche vero, infatti, che esiste un limite,
sempre affermato dalla giurisprudenza, secondo il quale le Linee
Guida non possono essere invocate per escludere la responsabilità
degli esercenti la professione sanitaria allorquando il paziente presenti 25
un quadro clinico che imponga una condotta diversa da quella
raccomandata dalle Linee Guida.
La legge Gelli ha avuto certo il merito di tipizzare (o tentare di farlo) il
sistema delle Linee Guida - è stato pubblicato lo scorso marzo il
decreto che istituisce il Sistema Nazionale Linee Guida e
l’Osservatorio Nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella
sanità - ma rimangono alcune perplessità di non poco conto.
In primo luogo si auspica che il SNLG elimini tutte le Linee Guida non
affidabili che vengono stimate nel 50%.
In secondo luogo, le Linee Guida, per loro natura, non potranno mai
avere la precettività propria delle norme giuridiche.
In terzo luogo, risulta che la classe medica ha riscontrato oggettive
difficoltà nell’applicare una sola Linea Guida, sia perché ce ne sono
tantissime, sia perché si trova spesso di fronte a pazienti
pluripatologici, laddove la Linea Guida esprime una regola di condotta
per una sola determinata patologia.
E infatti, la Corte di Cassazione, certamente almeno sul versante
civile, continua a fondare le proprie sentenze attributive di
responsabilità medica sui criteri della colpa e del nesso di causalità e
affermando anzi il principio secondo il quale l’esercente la professione
sanitaria deve disattendere le Linee Guida ogni qualvolta le particolari
condizioni cliniche del paziente lo richiedano. Del resto, la medicina
difficilmente può essere standardizzata anche in considerazione della
costante e rapida evoluzione scientifica e le Linee Guida non potranno
mai sostituire l’autonomia del medico nelle scelte terapeutiche sulla
persona assistita in quanto permangono sempre le variabili individuali 26
dei pazienti, tenendo anche conto del principio di libertà terapeutica
espresso dagli artt. 9, 32 e 33 della Costituzione.
Le cose sono dunque migliorate? Non lo so. La prassi giudiziale rende
assai complesso infatti stabilire se l’errore abbia avuto le
caratteristiche della negligenza, dell’imprudenza o dell’imperizia unica,
che, accompagnata all’esatta esecuzione della Linea Guida
individuata, costituisce causa di non punibilità. E poi pensare a Linee
Guida che seguite parossisticamente si pongano come protezione o
giustificazione di qualsivoglia imperizia appare difficile da immaginare.
E poi ancora quali Linee Guida dovrà seguire il medico in pazienti con
multipatologie?
La sensazione è che la Riforma Gelli abbia lasciato ancora ampi
margini di discrezionalità alla Magistratura Penale, che non so se era
proprio quello che aveva in mente il Legislatore.
27
5) LA MEDICINA IDEALE. QUELLA CHE TUTTI NOI VORREMMO.
Come deve operare allora l’esercente la professione sanitaria per
andare esente da responsabilità? Questa forse è la domanda che, alla
fine del mio intervento, vi starete ponendo.
Signori, la medicina non è una scienza esatta. Anzi, la medicina non è
una scienza ma una pratica (un’arte viene anche definita), una tecnica
- nel senso ippocratico del termine - dotata di un suo proprio sapere,
conoscitivo e valutativo e che differisce dalle altre tecniche perché il
suo oggetto è un soggetto: cioè l’uomo (definizione tratta da “Il
mestiere del medico” Giorgio Cosmacini, Raffaello Cortina Editore,
2000, pag. 11). E se anche la si volesse considerare come una
scienza, essa non è una scienza come tutte le altre in quanto include
regole e leggi naturali, dimensioni, sì biologiche, ma anche
psicologiche.
Limitarsi a un approccio meramente analitico, focalizzato solamente
sui dati obbiettivi della malattia, sulle condotte da tenere per tentare di
essere in regola con la legge, sui formalismi, non basta e risulterebbe
vano. L’operatore sanitario rischia così di non ascoltare più il paziente
e di trattarlo come una macchina guasta.
Lo stato di salute, o di malattia, è il risultato di una serie di condizioni
apparentemente infinita.
Il sociologo Arthur W. Frank, che sperimentò di persona l’esperienza
di una grave malattia, nel suo libro “The wounded storyteller”,
(traduzione “Il narratore ferito”), descrive benissimo la sensazione che
il malato ha di essere ferito nella voce per non aver la possibilità di
28
farsi ascoltare, sensazione che ho vissuto anch’io e che quindi
comprendo bene.
Ogni malato è diverso dall’altro: ognuno ha la sua storia, i suoi
problemi familiari, economici, esistenziali. Diversi sono il carattere, le
condizioni professionali e ambientali. Il malato inoltre ha pregiudizi,
convinzioni, timori, certezze rispetto alla salute e alla malattia.
Diverso quindi è per ciascuno il modo di sentirsi ammalati.
Ogni malato non si sentirà mai malato come un altro malato.
Una medicina che abbia cura della persona non può essere
meccanicistica ma dev’essere risolutamente umanistica.
L’esercente la professione sanitaria deve aver cura dell’uomo
malato. Deve pensare sempre che “gli altri siamo noi”, come recita un
ritornello di una canzone di Umberto Tozzi.
Umanizzare la medicina significa anche capire, appunto, che è
essenziale il tempo dedicato all’ascolto del malato che oggi, grazie
anche alla Legge n. 219/2017 (c.d. Legge sul biotestamento), è
espressamente considerato come tempo di cura.
Il medico e il malato sono prima di tutto due esseri umani. Dal loro
incontro la “scena medica” prende vita, senso e significato.
Affinché si realizzi una efficace relazione di cura sono necessarie, a
mio avviso, 3 condizioni:
1) innanzitutto il medico, come ogni altro operatore sanitario, deve
avere le necessarie conoscenze tecnico-scientifiche, ciò che
comporta un continuo aggiornamento delle proprie conoscenze da
mettere a disposizione del paziente (competenza teorica);
29
2) poi deve avere un’abilità pratica cui concorrono intuito, sesto
senso, senso critico e capacità di giudizio (competenza
attitudinale);
3) infine deve possedere quello che possiamo chiamare “ethos
umanitario”, cioè un’etica antropologica che gli permette di
riconoscere nel malato, prima di tutto, una persona.
Il medico deve avere la capacità d’instaurare un rapporto di empatia,
avere cioè la capacità di sentire dentro, di comprendere i pensieri, gli
stati d’animo e lo stato emotivo del paziente in modo immediato,
talvolta senza far ricorso neppure alla comunicazione verbale.
Il medico, in sostanza, dev’essere un generoso, che è un concetto
che va oltre il concetto di empatia, e che è il modo con cui una
persona comprende e agisce tenendo conto della comunione tra la
vita di un altro e la propria.
Si potrebbe obiettare: ma non tutti sono o possono essere generosi.
Ebbene, io risponderei che non tutti debbono, per forza, fare il
medico. Ci sono altri mestieri e professioni che non richiedono, come
caratteristica peculiare, di essere generosi ma per esempio,
equilibrati, se si fa il magistrato, coraggiosi, se si fa il vigile del fuoco,
ecc. ecc. Ma la medicina, sì: richiede generosità. Non a caso si dice
che “fare il medico è una missione” e non tutti, evidentemente,
possono essere missionari.
Se il medico, come ogni altro operatore sanitario, soddisferà queste 3
condizioni, non solo non avrà mai problemi con la giustizia ma non
avrà problemi proprio, ottenendo, anzi, gratificazione e benessere
30
dall’esercizio della sua professione che, per certi versi, rappresenta
indubbiamente anche un privilegio.
Questo modo di esercitare la professione sanitaria farà sì che
l’operatore sanitario avrà adeguatamente informato il paziente e che
sarà sempre in grado di giustificare e documentare le ragioni delle
proprie scelte terapeutiche che costituisce, di per sé, espressione di
quella prudenza, perizia e diligenza che i giudici richiedono
all’operatore sanitario, sicché l’esercente la professione sanitaria che
sa spiegare ex ante la decisione che ha preso è esercente in re ipsa
diligente.
Il bravo professionista non ha bisogno di negare contro ogni evidenza
ma sa spiegare al paziente anche l’esito infausto in quanto sa di avere
la coscienza tranquilla e di non aver tradito quella alleanza terapeutica
che costituisce la base del rapporto medico-paziente.
Quando una richiesta di risarcimento per responsabilità professionale
interviene in un simile contesto vi sono, evidentemente, chiare chance
di successo, diversamente saranno altrettanto chiare le probabilità di
condanna.
31
6) UN’IMMAGINE SUGGESTIVA.
Nel 1987, il National Geographic premiò come foto dell’anno “Anxious
Eyes” di James Stanfield, scattata nella sala operatoria di un ospedale
in Polonia.
L’immagine ritrae il cardiochirurgo Zbigniew Religa che controlla i
parametri vitali del paziente ancora addormentato alla conclusione del
trapianto del suo cuore durato 23 ore.
In un angolo della sala operatoria, un assistente, esausto, dorme per
terra. Si trattava del primo intervento di questo tipo eseguito in
Polonia.
L’esito fu così fausto che il paziente, Tadeusz Zytkiewicz, è
sopravvissuto allo stesso chirurgo che gli ha salvato la vita (morto nel
2009).
Quest’immagine mi fa venire in mente che, all’essenza delle cose,
medico e paziente non sono parti avverse ma persone che insieme
generano il miracolo della cura.
Questo dev’essere il legame che è dovere di ogni Legislatore tutelare,
ponendo le condizioni affinché esso possa svolgersi nella necessaria
serenità ed approntando un sistema ragionevole per l’accertamento
degli errori medici.
! Grazie
Macerata, li 9 novembre 2018! ! ! Avv. Fabio Messi
32
33