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11 CAPITOLO PRIMO La scuola “digitale” 1. Un paesaggio in rapida trasformazione: la Mobile Revolution Negli ultimi dieci anni il mondo della comunicazione, dai supporti ai servizi, è cambiato profondamente, forse in maniera più sensibile di quanto non sia successo in precedenza. Gli attori di questo cambiamen- to sono stati soprattutto il Web 2.0 e la diffusione dei dispositivi mobili, in particolare lo smartphone e il tablet. Il Web 2.0 ha spostato in modo deciso la “piattaforma” dell’agi- re digitale dal software al Web (O’Reilly, 2004) preparando la strada al cloud computing 1 . Per lavorare su un’applicazione 2.0 non ho bisogno di “scaricarla” sul mio computer: restano nel Web sia l’applicazione che i contenuti che attraverso di essa genero, modifico e condivido, con il risultato che, per assurdo, gli unici due software di cui ho realmente bisogno sono il sistema operativo e un browser per navigare nel Web. Di più: le applicazioni 2.0 sono fortemente interattive e si predispon- gono facilmente alla costituzione di reti sociali. Cambia in relazione alla loro diffusione il modo di costruire e di far circolare le informazioni (blog, Twitter), di produrre la conoscenza (Wiki, Google Drive), archiviarla e organizzarla (Dropbox), pubblicarla e condividerla con altri (YouTube, Slideshare, Scribd ). Allo stesso modo cambia il nostro modo di allestire e 1 Il cloud, la nuvola, è la metafora con cui si fa riferimento alla situazione attuale dei dati che giornalmente scambiamo, modifichiamo, archiviamo: essi non sono più presenti compatti nel nostro hard-disk, ma circolano proprio come una nuvola nel Web disaggregati e messi in ridondanza dai server.

La scuola “digitale” · to sono stati soprattutto il Web 2.0 e la diffusione dei dispositivi mobili, ... quando una tecnologia a forte ... capaci di ragionamento argomentativo;

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CAPITOLO PRIMO

La scuola “digitale”

1. Un paesaggio in rapida trasformazione: la Mobile Revolution

Negli ultimi dieci anni il mondo della comunicazione, dai supporti ai servizi, è cambiato profondamente, forse in maniera più sensibile di quanto non sia successo in precedenza. Gli attori di questo cambiamen-to sono stati soprattutto il Web 2.0 e la diffusione dei dispositivi mobili, in particolare lo smartphone e il tablet.

Il Web 2.0 ha spostato in modo deciso la “piattaforma” dell’agi-re digitale dal software al Web (O’Reilly, 2004) preparando la strada al cloud computing1. Per lavorare su un’applicazione 2.0 non ho bisogno di “scaricarla” sul mio computer: restano nel Web sia l’applicazione che i contenuti che attraverso di essa genero, modifico e condivido, con il risultato che, per assurdo, gli unici due software di cui ho realmente bisogno sono il sistema operativo e un browser per navigare nel Web. Di più: le applicazioni 2.0 sono fortemente interattive e si predispon-gono facilmente alla costituzione di reti sociali. Cambia in relazione alla loro diffusione il modo di costruire e di far circolare le informazioni (blog, Twitter), di produrre la conoscenza (Wiki, Google Drive), archiviarla e organizzarla (Dropbox), pubblicarla e condividerla con altri (YouTube, Slideshare, Scribd ). Allo stesso modo cambia il nostro modo di allestire e

1 Il cloud, la nuvola, è la metafora con cui si fa riferimento alla situazione attuale dei dati che giornalmente scambiamo, modifichiamo, archiviamo: essi non sono più presenti compatti nel nostro hard-disk, ma circolano proprio come una nuvola nel Web disaggregati e messi in ridondanza dai server.

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mantenere le nostre reti sociali sulla base dell’amicizia (Facebook, Google+), della passione per i libri (Anobii ) o per la fotografia (Picasa, Flickr), de-gli sviluppi professionali (Linked-in) ecc. L’impatto di tutto questo sulle pratiche di consumo è evidente. Comunicare diventa facile, la quasi to-talità delle applicazioni è free, tutto rimane sempre disponibile via Web, il problema di come proteggere i dati (dal rischio di perderli o di vederli violati telematicamente) si risolve grazie alle policies di sicurezza dei providers, di sicuro più efficaci di quelle che il singolo utente possa im-maginarsi di predisporre (anche se ingenuamente si può pensare di pro- teggerli meglio tenendoli sul proprio PC o su una memoria portabile).

Tutto quel che il Web 2.0 rende disponibile, grazie alla diffusione dei dispositivi mobili è accessibile real time in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo ci si trovi, con l’unica condizione di potersi avvalere di una connessione. Il mobile computing è il risultato dell’incontro, grazie alla rivoluzione digitale, tra il mondo della telefonia e l’industria dei dati e del trend insito nello sviluppo dell’informatica a produrre dispositivi sempre più piccoli, leggeri e potenti. Il mio primo computer, nel 1988, era un AT&T 8086 con una memoria RAM di 640k e un hard-disk di 30 megabyte. Qualsiasi telefonino oggi ha caratteristiche che fanno guardare con un sorriso a quel computer. Le sue dimensioni lo rendono indossabile (Silverstone, 2010), ne naturalizzano la presenza nel nostro ambiente quotidiano, ne fanno un prolungamento dei nostri sensi e del-le nostre attività sociali (Brancati, Ajello, Rivoltella, 2009). La tecnolo-gia, grazie ai dispositivi mobili, letteralmente “migra” dentro le nostre vite (Bell, 2000) diventando strumento e spazio per la costruzione e la circolazione della cultura. Anche per la costruzione, non solo per la circolazione, dato che una delle leve dei nuovi media digitali mobili è la loro autorialità, ovvero la facilità con cui grazie a essi si possono produrre e pubblicare messaggi (testo, immagini, video). Come è già stato ben detto dalle analisi di diversi studiosi, questo fatto produce una significativa discontinuità nel modo di fare comunicazione rispetto a un recente passato: la comunicazione si disintermedia (Missika, 2007), non necessita più di passare per gli apparati (la televisione, gli organi di stampa) per essere condivisa; diviene personale e non più di massa (Fer-ri, 2004); ridefinisce il concetto stesso dello spazio pubblico rendendolo permeabile e confondendone i confini con quelli dello spazio privato.

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Come si capisce, nella misura in cui queste trasformazioni investono il modo di “fare significato” e di “fare relazione” delle persone, esse interrogano in profondità le scienze umane e sociali. E come sempre è capitato in tempi di transizione, quando una tecnologia a forte impatto (come fu per la scrittura, o per la stampa) si è affacciata alla storia sociale della cultura, il dibattito si è subito polarizzato attorno a utopie e disto-pie contrapposte, spesso di natura mitologica (Rivoltella, 2003).

Su un primo versante stanno i discorsi di chi declina tutto al tem-po futuro: la scuola, gli insegnanti, la didattica (Anichini, 2012). L’idea implicita è quella di una discontinuità forte rispetto a un passato che occorre lasciarsi alle spalle dal momento che nuove sono le sfide che spetta alla scuola di affrontare, in primo luogo la necessità di intercetta-re interessi e bisogni delle nuove generazioni di “nativi digitali” (Ferri, 2011). In ogni caso le scuole del futuro sono sempre quelle degli altri. La retorica nuovista guarda inevitabilmente all’estero e così propone un primo modo di giocare al gioco del “noi e loro”: noi siamo fermi a gesso-e-lavagna, abbiamo edifici scolastici fatiscenti, siamo in ritardo su tutto; loro sono già passati al digitale da un pezzo, hanno scuole che sembrano l’astronave del Capitano Kirk, sono avanti su tutto. Loro sono gli svedesi, i finlandesi, il Regno Unito: sono le nuove mete dei pel-legrinaggi scolastici in cui si va a vedere come si fa a fare scuola. Senza classi, senza pareti, senza... scuola.

A questo primo discorso risponde quello “millenarista” che di fronte al futuro frena e prova a tutelare i valori che appartengono alla no-stra tradizione di scuola: i classici, la preparazione dei nostri studen-ti, la Cultura. Qui l’idea implicita è sempre quella di una discontinuità forte rispetto al passato, solo che in questo caso occorre farvi ritorno, conservarne le specificità resistendo alla tentazione di confondere la “stupidità” di Internet e dei nuovi media digitali (Carr, 2011) con l’ag-giornamento della didattica e della scuola. Non ci sono più le scuole di una volta e nemmeno gli studenti di una volta. È la seconda versione del gioco del “noi e loro”: noi (adulti) siamo figli della scrittura, siamo logici, capaci di ragionamento argomentativo; loro (i “nativi”) sono fi-gli dei videogiochi e dei cellulari, non sono più capaci di attenzione e concentrazione, sono superficiali, hanno perso la capacità di riflettere e ragionare. Che il loro cervello sia in via di trasformazione non è un dato

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di cui tener conto, ma un problema di cui preoccuparsi (Simone, 2012).La mia percezione è che in entrambi i casi si tratti di esempi interes-

santi di moral panic accademico. Le tesi dei fautori della scuola digitale e dei loro detrattori spesso fanno leva sul parere di chi (come Carr e Prensky, due giornalisti scientifici) non è un ricercatore; in ogni caso non si preoccupano di fare i conti con le evidenze, o quanto meno di controllare le proprie affermazioni. I presunti effetti miracolosi della digitalizzazione sugli apprendimenti, così come l’infinito discutere di nativi digitali, sono di fatto un alibi: non vi sono evidenze sperimentali né di quegli effetti, né della presunta mutazione genetica di cui i “nativi” sarebbero testimoni; semplicemente si usano le neuroscienze per legit-timare una tesi senza profondità.

Il problema vero della scuola, oggi, non è né di rincorrere il futuro e gli esempi stranieri nella speranza di assistere a un cambiamento, né di arroccarsi in difesa della Tradizione rifiutando il nuovo: ciò su cui occorre discutere non sono i cervelli diversi (?) dei ragazzi, o la riproget-tazione degli edifici senza (?) le classi, ma l’incapacità di sintonizzazione socio-culturale della scuola rispetto all’oggi. Non riuscire a fare questo significa, per la scuola, non riuscire più a svolgere la funzione che da sempre ha svolto e, di conseguenza, non potere aver futuro.

2. Il ritardo della scuola: il gap tra formale e informale

Ma qual è il compito che la scuola ha sempre assolto e che anche oggi, in tempi di Mobile Revolution, dovrebbe assolvere? Lo possiamo esprimere in tre sintetiche indicazioni2:a) Trasmettere il patrimonio culturale. Questo non significa dire che la scuola sia lo spazio in cui fare “idraulica cognitiva”, ma che in essa si possono avere occasioni per ricostruire e appropriare il sapere;b) Formare per il futuro. Compito dell’insegnare è mediare tra i saperi e chi li apprende. Non si tratta di trasferire conoscenze, ma competenze

2 Sono debitore, in questa impostazione, dell’intervento di Franco Floris a Verba-nia, il 19.11.2010, in occasione del seminario di studi su “Peer and Media Education” organizzato dall’Associazione Contorno viola, mimeo.

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di gestione della complessità. La scuola fornisce agli studenti chiavi di accesso alla loro cultura;c ) Accompagnare il percorso di ricerca del senso e di costruzione identitaria dei soggetti. Ogni volta che si fa questo in scuola si vive un’esperienza di de-mocrazia. Costruzione identitaria e formazione della cittadinanza sono due aspetti dello stesso fenomeno (Rivoltella, Bricchetto, Fiore, 2011; Botteri, Riva, Scotto di Luzio, 2012).

Se la trasmissione culturale non tiene più in adeguata considerazione le forme della cultura attuale, se l’insegnante va in crisi proprio nella sua funzione di mediatore dei saperi, anche l’accompagnamento degli stu-denti in ordine a cittadinanza e costruzione identitaria inevitabilmente si indebolisce. È quanto sembra stia succedendo nel frangente attuale, certo per la co-occorrenza di cause diverse – la perdita di autorità degli insegnanti (Bueb, 2007), la fine della corresponsabilità educativa con le famiglie (Meirieu, 2012), la crisi di una professione priva di riconosci-mento economico e di status sociale adeguati (Frabboni, 2011) – ma soprattutto per l’incapacità della scuola in quanto sistema di “leggere” e colmare il gap che, a diversi livelli, si è aperto e va allargandosi tra le sue pratiche e quelle diffuse nell’informale sociale3.

Vi è anzitutto un participation gap, uno scarto di partecipazione. In un primo senso, per la scuola, questo gap prende corpo nell’accesso diseguale, in larga parte ancora oggi per molti plessi scolastici, alle ri-sorse. Significa che la banda larga, un’adeguata copertura wireless, la disponibilità dei dispositivi sono ancora realtà molto lontane in scuola dai livelli della loro diffusione sociale. Questo comporta di negare a chi non vi ha accesso da casa la possibilità di usufruire delle opportunità dei media digitali, a chi ha già delle competenze di non poterle utilizzare. Ma in un secondo senso il gap è di partecipazione: lo è per il fatto che la

3 Quanto il problema sia consistente è possibile comprenderlo se si pensa che il gap tra i contesti formali e le pratiche informali delle persone non riguarda solo i più giovani. Se infatti è relativamente facile immaginare un gap tra insegnanti (adulti in ge-nere) e ragazzi, meno facile è accorgersi che il gap riguarda gli stessi insegnanti che, nel loro tempo informale, sono forti (e spesso esperti) consumatori di media digitali, salvo però dimenticarsi di tutto questo nel momento in cui quelle competenze andrebbero impiegate nella loro didattica. Lo ha rivelato in maniera interessante una ricerca compa-rativa condotta tra Italia e Brasile proprio su questo tema. Cfr. Fantin, Rivoltella (2012).

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cultura della scuola non è una cultura partecipativa (Jenkins, 2010), per tradizione. Cosa vuol dire? Vuol dire che mentre le logiche partecipative dei media digitali sono orizzontali e collaborative, le logiche di scuo-la sono ancora in larga parte improntate alla prestazione individuale: nell’informale sociale “ci si passano” i file, a scuola “non si copia”. Lo riprenderemo più avanti parlando del gap culturale.

A un secondo livello, più alto di quello relativo all’accesso, si colloca il language gap. Si può avere accesso (alla rete, ai media digitali, alle risorse di cui essi sono player) dal punto di vista tecnico ma non possedere gli alfabeti. Le cosiddette competenze informatiche di base sono una com-petenza-chiave di cittadinanza nella società odierna: occorre che le svi-luppino tanto gli studenti che gli insegnanti. Per quanto riguarda i primi occorre superare il luogo comune secondo cui i media digitali sareb-bero autoalfabetizzanti, ovvero non richiederebbero nessun intervento di istruzione per essere utilizzati. Usare in senso intuitivo, superficiale e sommario, e usare sfruttando appieno le possibilità dello strumento sono cose molto diverse. La ricerca dice che bambini e adolescenti si fermano spesso al primo tipo di uso: deve essere compito della scuola far crescere la loro competenza sul versante dei linguaggi, cioè nell’am-bito della padronanza delle grammatiche interne (Gee, 2013) del “gioco semiotico” di cui sono parte. Ma come può essere in grado la scuola di assolvere a questo compito se gli insegnanti non paiono attrezzati in tal senso? A questo riguardo – quello delle competenze degli insegnanti – è probabile che si debbano prevedere due scenari diversi: da una parte, occorre assicurare la prima alfabetizzazione dei “resistenti” (i tradizio-nalisti a oltranza, che si ostinano a non acquistare un cellulare, o a non aver bisogno del computer) o dei “neofiti” (sono quelli che “ci prova-no”, magari anche con entusiasmo, ma che sono assolutamente privi di qualsiasi benché minima competenza); dall’altra, vanno immaginate strategie di accompagnamento di coloro che nella vita di tutti i giorni sono già “digitali” (perché usano media e tecnologie) perché pensino a come usi e competenze del loro tempo libero possano diventare anche uno strumento professionale in classe (come anticipato alla nota 2 di questo stesso capitolo).

Il linguaggio, il controllo tecnico del mezzo e dei suoi alfabeti non sono tutto. Vi sono conoscenze relative al mondo della comunicazione

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digitale che non si possono ridurre alla padronanza del mezzo. È questo un ulteriore livello al quale registrare il gap, il livello della conoscenza (knowledge gap). Se non so cosa sia Ruzzle, o non conosco Giocatori brutti, se sul mio cellulare non ho scaricato What’s up?, mi manca qualcosa per comprendere i ragazzi che ho in classe. Qui il problema non è né di accesso, né di linguaggio: è di conoscenza. Se l’insegnante non dimostra di essere informato, se non sa nemmeno di cosa si tratti, gli sarà molto difficile legittimarsi, lo guarderanno subito con sospetto.

Proprio il tema della conoscenza consente, infine, di comprendere che i media sono sistemi culturali che modellano le rappresentazioni e i valori e costituiscono spazi di organizzazione dei significati e delle prati-che attraverso cui produrli (culture gap). Ruzzle non è solo un’applicazio-ne che consente a due giocatori, in quel momento collegati, di sfidarsi a una gara molto simile allo Scarabeo (vince chi, in un tempo definito, rie-sce a trovare più parole dotate di senso combinando un set di lettere che il software genera in maniera random ogni volta che si inizia una parti-ta). Ruzzle è oggi (e magari già quando questo libro arriverà in libreria avrà ceduto spazio a un nuovo gioco) un’occasione per “rimorchiare”, un gruppo di affinità, un passatempo, un argomento di discussione, un modo per essere cool. In altre parole è un dispositivo culturale attorno a cui si organizzano le pratiche di costruzione, circolazione e condivisio-ne dei significati degli adolescenti. Se non lo comprendi sei fuori.

Per poter adempiere al proprio mandato in funzione della trasmis-sione culturale, la scuola deve porsi il problema di questi gap – tecnico, di linguaggio, di conoscenza, culturale – cercando di colmarli sia al li-vello individuale di singoli insegnanti (attraverso lo sforzo di conosce-re, sperimentare, usare, acquisire competenze), sia a livello di sistema (immaginando modalità che consentano all’operatore di usare nell’in-tervento gli stessi strumenti, gli stessi linguaggi, le stesse logiche che animano le attività individuali e sociali con i media nel tempo e negli spazi dell’informale). Più nello specifico la scuola deve: – Favorire la ricomposizione dei saperi (di cui in larga parte i ragazzi sono già in possesso). Non possono esistere “due culture” – come denun-ciava Géneviève Jacquinot (2000) già diversi anni or sono –, una “di scuola” e l’altra “sociale”. Come osserva bene Philippe Meirieu (2012) occorre mantenersi equidistanti tanto dal formalismo (la pedagogia

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del bambino-alunno) che non guarda a quello che accade fuori da quel “luogo di quarantena” che è l’edificio scolastico, che dallo spontanei-smo (la pedagogia dell’alunno-bambino) che corre il rischio di appiattire la scuola sugli interessi del bambino, mentre invece il lavoro da fare è di chiedersi come poterlo interessare a quel che io come insegnante riten-go possa essere significativo per lui;– Promuovere l’interattività e lo scambio. La tradizione della più classica pedagogia di scuola è molto lontana da questo modus operandi. In essa, il compagno può essere al limite visto come risorsa dallo studente, an-che se in un senso spesso solo funzionale e utilitaristico (mi “passa” la verifica, mi fa copiare i suoi compiti, ci dividiamo tayloristicamente il lavoro quando si tratta di preparare i foglietti per il compito di Arte). Il sistema-scuola, invece, promuove l’individuo e la sua prestazione: ac-cade così dai tempi dei “tornei” sui verbi latini e delle classifiche di rendimento. Come torneremo a vedere nei prossimi capitoli la comuni-cazione in classe è spesso fàtica: simula il dialogo, ne scimmiotta le for-me, ma rimane abbondantemente al di qua di quello che una didattica collaborativa e dello scambio potrebbe (dovrebbe) promuovere;– Suscitare non solo domande, ma proposte provocatorie. La nostra società è lo spazio in cui le grandi narrazioni della religione e dell’ideologia hanno fatto il loro tempo. Questo non significa che – come ingenuamente teo-rizzato da molti – siamo quindi più liberi di progettarci, ma spesso, solo che siamo nettamente più disorientati di prima. In questo tipo di con-testo, il compito dell’insegnante è quello di fornire agli studenti gli stru-menti per “chiudere” il senso, piuttosto che aprirlo indefinitamente. In questo senso la domanda (che è sempre bene suscitare, perché è la via d’accesso principale alla costruzione dello spirito critico – Nussbaum, 2011) non basta più. Occorre affiancarla (o meglio, farla proseguire) in una pedagogia del progetto (Meirieu, 2012) che aiuti lo studente a coinvol-gersi nel mondo: questa pedagogia è fatta di proposte provocatorie per-ché nella nostra società del rischio servono colpi d’ala, serve “prendere il largo”, serve pensare in grande, ben oltre gli schemi minimalisti della socializzazione classica;– Farsi luogo di ricerca culturale, sociale ed etica. Occorre oggi sempre più abbandonare il modello dell’“educazione bancaria”, per ricorrere alla celebre immagine di Paulo Freire, ovvero di un’educazione pensata

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come trasferimento fisico della conoscenza. Inoltre occorre evitare che la centratura del lavoro scolastico sia esclusivamente sul cognitivo. I me-dia digitali e sociali oggi sono soprattutto frontiera etica poiché attorno a essi si giocano buona parte delle questioni che riguardano i diritti e le responsabilità di cittadinanza delle persone. Cucire il gap a questo livello significa fare in modo che la scuola possa fornire risposte e supporto ai più giovani su come essere protagonisti della loro cultura;– Fare cultura usando molti linguaggi insieme. Qui non occorre che antici-piamo quanto già diremo, in modo particolare nel Capitolo 3, a proposi-to del modello delle Multiliteracies: la scuola deve uscire dal territorio del- l’alfabetismo (leggere e scrivere) per occuparsi degli altri linguaggi con cui giornalmente si è chiamati a interfacciarsi, comunicare, discutere.

3. L’equivoco della lezione digitale

La cucitura del gap viene oggi spesso affidata a quella che enfatica-mente viene definita “lezione digitale”. Ma cos’è una lezione digitale? La risposta deve anzitutto passare dalla determinazione del significato dell’aggettivo “digitale”.

Esso potrebbe voler dire, in un primo senso, “non analogico”, se-condo il lessico della Scuola di Palo Alto. Per Watzlawick e collaboratori (1978) una comunicazione è digitale quando è tendenzialmente univoca nei suoi significati, non suggestiva, non plurivoca dal punto di vista semantico. Una simile comunicazione non lascia margine al lavoro di “punteggiatura” di chi ascolta: non può essere fraintesa. Se così fosse, allora parlare di lezione digitale significherebbe far riferimento a una lezione talmente esaustiva e precisa da risolvere il problema della comu-nicazione didattica. Ora, premesso che una simile comunicazione non appartiene nemmeno all’insegnante più abile ed esperto, probabilmente in classe serve anche una comunicazione analogica, che suggerisce, sti-mola, provoca, alimenta la curiosità dello studente. Non ci sono dubbi: l’aggettivo “digitale”, quando si parla di lezione digitale, non è utilizzato con il significato a esso attribuito dagli studiosi di Palo Alto.

Una seconda ipotesi potrebbe consigliarci di pensare che una lezione sia digitale quando viene “ridotta a contenuto digitale”. Sarebbe una lezione che diviene un Learning Object (o meglio, una Learning Ac-

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tivity), come accade nel caso delle videolezioni, delle clip didattiche. Sono lezioni in tal senso quelle di Kahn Academy, i video del canale di YouTube CGPGrey 4, o Vestibulandia 5, in cui Cesar Medeiros, ingegnere trentottenne di San Paolo, impartisce lezioni di matematica agli studenti dell’ultimo anno di scuola secondaria per la preparazione dell’esame di ammissione all’Università (che in Brasile si chiama Vestibular, appun-to). Avremo modo di tornare più avanti, nel libro, su questo modello didattico. Ma anche in questo caso non ci si potrebbe dire soddisfatti: mancherebbe completamente, infatti, l’interazione e una lezione senza interazione non è una lezione. Quindi una lezione digitale non può che alludere a una lezione “svolta con il supporto di media digitali”.

La lectio, nell’Università medievale, indica una forma didattica in cui qualcuno legge e commenta, gli altri ascoltano e apprendono. Avevano questa forma, ad esempio, nella Facoltà delle Arti Liberali, le lezioni in cui, attraverso il commento alle opere di Aristotele o alle Sentenze di Pietro Lombardo, gli studenti venivano condotti ad apprendere le strut-ture di base del ragionamento, della logica, del sapere. La lectio richiedeva magistralità: in questo stava il suo valore, nel consentire allo studente di essere guidato al commento di Aristotele da Tommaso d’Aquino, da Giovanni Duns Scoto, o più tardi, già nel Quattrocento, da Girolamo Fracastoro, Pietro Vettori, Lodovico Castelvetro. Vedere all’opera un maestro (se è veramente tale) è straordinariamente formativo: attraver-so il modeling, lo studente fa sue le pratiche, il metodo, l’approccio al testo, impara.

Il problema, nella scuola, è che questa magistralità capace di suscita-re imitazioni di eccellenza è merce rara. La lezione, così, perde spesso il suo valore di commento autorevole e rimane soltanto un momento di comunicazione informativa, spesso senza entusiasmi, a volte senza cul-tura nemmeno della disciplina su cui verte. Rendere tutto questo digita-le, cioè predisporre le cose perché si possa svolgere con il supporto dei media digitali, significa spostare il problema senza risolverlo: significa credere che la lezione divenga “nuova” solo in virtù della presenza dei

4 Cfr. in Internet, URL: http://www.youtube.com/user/CGPGrey. 5 Cfr. in Internet, URL: http://www.vestibulandia.com.br/.

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media e che proprio grazie a tale presunta novità favorisca e migliori gli apprendimenti degli studenti; significa pensare che il solo fatto di utiliz-zare strumenti “generazionali” riavvicini le due culture. La questione da porre, invece, non sta nei termini di una contrapposizione tra lezione tradizionale e lezione appunto “digitale” (dove l’implicito è di leggere la dialettica nel senso di vecchio e nuovo), quanto piuttosto di definire cosa renda eventualmente innovativa ed efficace la lezione “digitale”.

Quale può essere allora la proposta? La proposta è di ripartire dal-le tre categorie che Marc Prensky (2010)6 usa per definire i compor-tamenti digitali delle persone (stupidità, destrezza e saggezza digitale) trasferendole all’uso delle tecnologie nella didattica così da distinguere la stupidità didattica, dal tecnicismo didattico, dalla saggezza didattica.

Quando una didattica è stupida? Quando concepisce la scuola come una polis media-resistente, la organizza come una provincia mono-mediale, la pensa come strumento di una vera e propria controcultura (Böhme, 2006). Una didattica di questo genere non valorizza le com-petenze degli studenti, non prepara al futuro: arroccandosi sulle sue pratiche vecchie confonde la salvaguardia della qualità con la sua inca-pacità di rispondere alle esigenze dell’oggi. Ma una didattica è stupida anche quando confonde l’innovazione con l’aggiornamento tecnologi-co, agisce vecchie pratiche attraverso nuovi formati, mette al centro lo strumento e non i processi. Questa didattica non coglie il significato del cambiamento, inganna gli studenti, illude i genitori.

Quando una didattica è tecni(cisti)ca? Quando assolutizza la fun-zione dei linguaggi, porta in primo piano le competenze tecnologiche dell’insegnante, adotta con correttezza formati e strumenti contempo-ranei. Ma anche quando interviene sulle pratiche tradizionali, le modifi-ca e le aggiorna alla luce del nuovo, si pone questioni di efficacia rispetto agli apprendimenti dei soggetti. Questa didattica, pur nella correttezza del suo operare, spaventa i meno esperti, non riesce a vincere le resi-stenze ma rischia di rinforzarle, può diffondere l’idea che alcune disci-

6 Come è noto, Prensky è tornato nell’articolo cui qui facciamo riferimento alla sua categorizzazione dei nativi digitali ritenendola superata, tanto da proporre una nuova categorizzazione basata non tanto sulla distinzione di appartenenza anagrafica (nativo vs immigrante), quanto piuttosto di pratiche (stupido vs saggio).

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pline rimangano comunque impermeabili all’operazione, promuove la coabitazione di due culture, la vecchia e la nuova.

Come si capisce occorre lavorare in funzione della saggezza. Ma quando una didattica è saggia? Quando favorisce la riconcettualizzazio-ne della tecnologia come risorsa culturale “normale” per la didattica (è quanto avviene quando il cellulare, o il tablet, vengono usati in classe per svolgere attività di apprendimento). Ma anche quando riconosce il valore delle competenze che gli studenti sviluppano nell’informale ren-dendole funzionali agli apprendimenti di scuola (Jenkins, 2010). Infine, quando rideclina la propria vocazione strutturale sulla base di quanto stavamo argomentando nel paragrafo precedente.

4. Il lavoro dell’insegnante

Siamo in un frangente storico in cui, probabilmente, si è esaurita la spinta, perfettamente controbilanciata, del formalismo istruzionale da una parte e del costruttivismo democratico dall’altra. Il primo ha sempre rispo-sto al mandato di riproduzione culturale che la società ha fin dalla sua invenzione assegnato alla scuola (Bourdieu, Passeron, 2006) ma ha ben presto finito per mostrare la corda: rigidità dei programmi, centralità della lezione frontale, incapacità di catturare l’attenzione dell’alunno, scarsa profondità degli apprendimenti, sono alcuni dei limiti che a più riprese tanto la teoria che la pratica di scuola ne hanno evidenziato. D’al-tra parte, il costruttivismo democratico, se ha scardinato la centralità del libro e del maestro favorendo la collaborazione, la condivisione delle risorse, la costruzione partecipata della conoscenza, ha finito a sua volta per cadere in una serie di equivoci: la relativizzazione dell’importanza del contenuto, la convinzione che sia sufficiente “fare cose” in classe perché la didattica diventi laboratoriale, la configurazione di un sistema di cose in virtù del quale si lascia lo studente ad apprendere da solo. La ricerca didattica sta indicando vie intermedie praticabili tra questi estremi, che siano in grado di mantenere la significatività dell’intervento dell’insegnante e allo stesso tempo di favorire l’apprendimento attivo dello studente (Rivoltella, Rossi, 2012). Ma cosa si richiede all’insegnante perché sia possibile approfittare in classe delle opportunità offerte dal- le nuove tecnologie e dai media digitali? Ci limitiamo a tre indicazioni:

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Il lavoro dell’insegnante

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1. Superare la tentazione dell’arrocco. Nel gioco degli scacchi l’arrocco è la mossa con cui si prova a proteggere il re scambiandolo di posto con la torre. L’insegnante spesso fa altrettanto nei confronti delle tecnologie. Sentendosi sotto attacco, percependo che l’accettazione della sfida del nuovo gli comporterebbe troppa fatica, si mette sulla difensiva, con due argomenti principalmente: “Sono diversi da noi, non sanno più ragio-nare, non sanno più leggere, non sanno più andare in profondità sulle cose!”; “La Cultura è altro rispetto alle futilità dei media e la scuola deve continuare a essere lo spazio della Cultura!”. Il primo argomento scava un fossato rispetto alle giovani generazioni, proietta sulle loro incapaci-tà la deriva della didattica e la sua inefficacia. Il secondo indica altrove ri-spetto ai media e al nuovo quello che veramente conta per la scuola. Nel primo caso, proiettivamente, incapacità e scarsa motivazione dell’inse-gnante vengono rovesciate nella presunta inadeguatezza dell’alunno; nel secondo caso, con uno spostamento, il disagio che l’insegnante vive ri-spetto ai media viene giustificato come giusto disinteresse in favore dei contenuti e dei temi che veramente hanno valore. Si tratta in entrambi i casi di atteggiamenti che non pagano: non risolvono il problema, ma lo cristallizzano. 2. Cambiare la punteggiatura. Nel linguaggio della pragmatica della comu-nicazione umana (Watzlawick, Beavin, Jackson,1978), la punteggiatura è l’insieme di operazioni interpretative che gli interlocutori applicano alla comunicazione dell’altro al fine di comprenderne il senso. Spesso, soprattutto nelle situazioni comunicative problematiche se non addi-rittura compromesse, è la punteggiatura a decidere del significato delle parole addirittura a prescindere dalla (o addirittura in contrasto con la) intenzione di chi parla. Quando mi rivolgo a mia moglie rientrando a casa con: “Tesoro!” e lei mi risponde: “Non mi prendere in giro!”, vuol dire che la sua punteggiatura della mia comunicazione segue uno script che si è fissato negli anni e che la porta a ritenere che non ci sono dubbi: se mi rivolgo così a lei è solo perché la voglio prendere in giro. Ora, nella situazione canonica dell’insegnamento tradizionalmente inte-so, l’insegnante punteggia la comunicazione didattica comprendendo la difficoltà dei ragazzi ad apprendere o a sviluppare curiosità e interesse per l’acquisizione del dato culturale come una loro specifica mancanza: ma il problema potrebbero essere le pratiche dell’insegnante. In buona

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Capitolo primo - La scuola “digitale”

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sostanza, per riprendere quanto poco sopra stavamo argomentando, il problema potrebbe essere non che loro sono diversi, ma che noi siamo sempre gli stessi! Ed ecco come è possibile provare a cambiare la pun-teggiatura:

«E se la scuola, rinchiudendo l’insegnamento in figure rigide, avesse ucciso il desiderio di apprendere? E se fosse necessario ribellarsi all’imposizione arti-ficiale di questo “mestiere di allievo” per ritrovare la vera dinamica del cono-scere e la gioia del comprendere? E se l’obbligo di sottomettersi alle regole di un “mestiere” standardizzato avesse una spiacevole tendenza a scoraggiare la volontà di crescere? E se, semplicemente, esistessero bambini radicalmente refrattari al “mestiere di allievo”?» (Meirieu, 2012, 59).

3. Accettare il cambiamento. Il cambiamento non si produce miracolosa-mente, magari grazie al “technological push”, alla “spinta” che proviene dall’introduzione della tecnologia. Infatti, la cosa più naturale che può accadere quando questo avviene, non è tanto un cambiamento delle pratiche grazie alla tecnologia, quanto piuttosto un adattamento del-la tecnologia alle pratiche. Come già Walter Benjamin faceva notare, il potere della tradizione è formidabile: nessuna avanguardia gli sfugge! Il problema, allora, nel caso del rapporto dell’insegnante con la tecnolo-gia, è di accompagnarlo ad accettare il cambiamento aiutandolo a pen-sare come il nuovo possa costituire un’occasione per aggiornare le sue pratiche. In definitiva, lo sforzo che all’insegnante si richiede è uno sfor-zo di mediazione didattica, ovvero di trasposizione dei propri contenuti disciplinari nei nuovi alfabeti della cultura. Si tratta di un compito che da sempre qualifica il lavoro del docente: occorre non smettere di svolger-lo proprio nel momento in cui ce ne sarebbe maggior bisogno.

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