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Le elezioni primarie nel sistema italiano. Uno studio di genere
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Noemi Trino
Le sfide della partecipazione
Le elezioni primarie nel sistema italiano: uno studio di genere
CMCS Working Papers
II CMCS Working Papers
La sfida della partecipazione III
Noemi Trino
La sfida della partecipazione. Le elezioni primarie nel sistema
italiano: uno studio di genere
Prefazione di Emiliana De Blasio e Michele Sorice
Rome CMCS Working Papers © 2011
IV CMCS Working Papers
La sfida della partecipazione V
Published by Centre for Media and Communication Studies “Massimo Baldini” LUISS University Department of History and Political Sciences Viale Romania, 32 – 00197 Roma RM – Italy Copyright in editorial matters, CMCS © 2011 Copyright CMCS WP04/2011 – La sfida della partecipazione. Le elezioni primarie nel sistema italiano: uno studio di genere – Noemi Trino © 2011 ISBN 978‐88‐6536‐012‐5 All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system or transmitted in any form or by any means without the prior permission in writing of the publisher nor be issued to the public or circulated in any form of binding or cover other than that in which it is published. In the interests of providing a free flow of debate, views expressed in this CMCS WP are not necessarily those of the editors or the LUISS University.
VI CMCS Working Papers
La sfida della partecipazione VII
Sommario Prefazione IX
Introduzione 3 Capitolo 1 Le primarie nel sistema italiano. Un esperimento tra personalizzazione politica e democrazia interna 17 1.1 Primarie e democratizzazione dei processi di selezione 1.2 Primarie, democratizzazione e crisi organizzativa dei partiti 1.3 Dimensioni e fasi della democratizzazione 1.4 Selectorate e democratizzazione 1.5 Candidacy e democratizzazione 1.6 Partiti, primarie e “politica personale” Capitolo 2 Le primarie della Sinistra italiana 2.1 Quali primarie? 2.2 Le primarie della Regione Puglia 2.3 Le primarie per il candidato premier: l'esperienza italiana 2.4 Le primarie come antidoto all’antipolitica? 2.5 Le primarie del Partito democratico 2.6 Tra partecipazione e affermazione della leadership: un tentativo di analisi 2.7 Le primarie del 25 ottobre 2009: “Fai vedere che ci tieni” 2.8 Who votes, who counts. Tra elettorato mobilitabile ed elettorato mobilitato: un'analisi del selectorate
VIII CMCS Working Papers
2.9 Tra micro‐personalizzazione e macro‐personalizzazione. Un profilo della candidacy Capitolo 3 Primarie e politiche di genere. Prospettive di ricerca 3.1 Discorso di genere e rappresentanza politica. Note preliminari 3.2 L'esempio di Hillary Clinton: leadership e candidacy di genere 3.3 La questione di genere nell'elettorato: “Is a woman fit to lead a Country?” 3.4 Sulla questione di genere in Italia: le diverse dimensioni della partecipazione politica 3.5 Reti sociali, attivismo e partecipazione di genere 3.6 Partecipazione, rappresentanza di genere ed elezioni primarie: occasioni, prospettive e spunti di riflessione 3.7 Donne per le donne: le primarie e la rappresentanza femminile. Interviste semi‐strutturate alle donne del Pd 3.8 Le elezioni primarie come strumento di gender policy: una proposta per il riequilibrio della rappresentanza politica di genere
La sfida della partecipazione IX
Prefazione
Emiliana De Blasio e Michele Sorice
a discussione sul ruolo e il valore democratico
delle elezioni primarie rappresenta uno dei terreni
di scontro più aspri della politica italiana. Il
dibattito interno al Partito Democratico, che pure
ha per primo (e meritoriamente) sperimentato l’esercizio
demoocratico della partecipazione popolare nella scelta
del leader e della classe dirigente, rappresenta un caso
esemplare. L’intuizione di Romano Prodi che, insieme a
molti altri dirigenti e studiosi, aveva promosso l’uso delle
primarie come strumento di “democratizzazione interna”,
costituì un elemento di grande novità in un paese poco
abituato a innovazioni strutturali della politica.
Non si trattava, com’è noto, della semplice
riproposizione del sistema statunitense: troppo diversi i
sistemi istituzionali dei due paesi, troppo radicate le
tradizioni politiche italiane e, soprattutto, troppo diversi i
due sistemi elettorali. Il successo di partecipazione
L
X CMCS Working Papers
popolare delle prime elezioni primarie (che si chiusero
con un consenso plebiscitario per lo stesso Prodi) non
costituì però un viatico per il sistema. Si aprirono, infatti,
quasi subito molte discussioni: alcune riguardavano le
modalità di svolgimento delle primarie, altre i meccanismi
di rappresentanza e partecipazione, altre ancora
insistevano sul rischio del plebiscitarismo in assenza di
una vera consultazione “diffusa” come quella prevista nel
sistema statunitense. Alcuni commentatori arrivarono
finanche a negare il valore democratico delle primarie,
ritenendolo funzionale solo a un’élite politica già
affermata e legittimata dalla sua stessa presenza nei
media. In altre parole, le primarie vennero considerate al
tempo stesso uno strumento di democratizzazione e
innalzamento qualitativo della classe politica e il suo
opposto, un artificio capace di reiterare “effetti setaccio”1
delle élite politiche a tutto vantaggio di volti già noti o
“populisticamente mediatizzati”.
Fino a questo momento, la sintetica analisi di quella
prima stagione delle primarie in Italia è stata narrata
usando l’imperfetto e il passato remoto. In realtà, la
1 M. Sorice, La comunicazione politica, Roma, Carocci, 2011
La sfida della partecipazione XI
discussione sul valore e/o sulle modalità organizzative
delle primarie è ancora molto forte all’interno del Partito
Democratico, nonostante lo strumento sembra ormai
avere ottenuto un’ampia legittimazione.
Nel corso degli ultimi anni, poi, anche il centro‐destra
ha iniziato una complessa discussione interna sul ruolo
delle elezioni primarie come strumento di selezione della
classe dirigente. Il PdL, infatti, ha iniziato un percorso di
lento e difficile superamento della sua iniziale
configurazione di “partito proprietario”, anche a causa
delle critiche che il Presidente della Camera (e co‐
fondatore del PdL), Gianfranco Fini ha espresso verso
l’assenza di democrazia interna. Come è noto le critiche di
Fini, accanto a diversità di posizioni politiche rispetto a
Silvio Berlusconi (che qui sarebbero troppo complesse da
affrontare), hanno poi condotto lo stesso Presidente della
Camera a dare vita a un nuovo soggetto politico (Futuro e
Libertà).
Le primarie del Pd, prima, e la scossa provocata nel
sistema politico italiano dalla svolta di Gianfranco Fini,
poi, hanno avuto come esito l’apertura di un’ampia
discussione – ormai trasversale ed estesa pressoché
XII CMCS Working Papers
all’intero arco politico nazionale – sulla necessità di una
maggiore democrazia nella scelta della classe dirigente
politica. La grande svolta, infine, rappresentata dai
referendum del maggio 2011, con la forte evidenza di una
volontà di partecipazione più ampia e democratica da
parte dell’elettorato, hanno accelerato il dibattito sulle
elezioni primarie.
Resta il fatto che il discorso sociale sulle primarie si
accompagna ad alcuni dei temi più spinosi della
comunicazione e della scienza politica: come creare
circuiti virtuosi nell’accesso alla politica? E, ancora, come
fare della “democrazia dei partiti” una vera democrazia ad
alto tasso di partecipazione e non una “oligarchia delle
classi dirigenti”? In realtà, il tema dell’accesso dei cittadini
alla politica si intreccia con una questione
tradizionalmente negletta (purtroppo) sia dalla ricerca sia
(ancor di più) dalla politica e dalla società italiana: la
grande e mai risolta questione del gender. In termini più
chiari: come far crescere la presenza delle donne nella
politica italiana o, che è anche più importante, come
traformare la politica da “affare per uomini” a impegno
per le cittadine e i cittadini?
La sfida della partecipazione XIII
Va chiarito subito che l’assenza delle donne dalla
politica italiana non costituisce una specificità dei sistemi
istituzionali di rappresentanza ma investe l’intero tessuto
della società italiana: le donne, in effetti, pagano il retaggio
di una società maschilista anche nell’Università, nel
mondo delle professioni, e così via. Le “donne mancanti” –
per usare una bella espressione di Amartya Sen – sono
purtroppo uno dei bugs più evidenti a livello planetario.
Per quanto attiene all’Italia, poi, il deficit di presenza nella
politica è il frutto di un deficit di potere nella società, come
opportunamente metteva in luce Giuditta Brunelli già
diversi anni fa2.
Il saggio che qui presentiamo rappresenta un tentativo
importante di studiare il fenomeno delle primarie alla luce
proprio della questione del gender. Non a caso uno dei
temi che – nella cornice della ricerca sulla comunicazione
politica – il CMCS sta affrontando in maniera molto decisa
e con l’entusiasmo di chi ritiene che l’Università non debba
necessariamente limitarsi a descrivere i fenomeni sociali.
Il lavoro di Noemi Trino, allora, si pone come un primo
esempio “di scuola”, per certi versi persino pionieristico.
2 G. Bunelli, Donne e politica, Bologna, Il Mulino, 2006
XIV CMCS Working Papers
Sicuramente utilissimo per introdurre la dimensione del
gender fra i topics del dibattito sulle primarie e, più in
generale, su quelli di più ampia prospettiva sulle logiche
della partecipazione e sui processi di democratizzazione
della democrazia3.
3 A. Giddens, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Bologna, Il Mulino, 2000
La sfida della partecipazione XV
Noemi Trino
La sfida della partecipazione. Le elezioni primarie nel sistema
italiano: uno studio di genere
2 CMCS Working Papers
La sfida della partecipazione 3
e democrazie contemporanee sono democrazie dei partiti. Sono i partiti politici, le “istituzioni centrali dei governi democratici”, per usare le parole di Richard S. Katz, a detenere un numero di funzioni
chiave in ambito governamentale, tra cui la mobilitazione e la canalizzazione dell'elettorato militante, la formulazione di alternative, il reclutamento e la formazione delle leadership. Il party government teorizzato da Katz nel 1987 non
può più costituire il modello ideale di riferimento. I partiti contemporanei sono andati incontro a un processo di graduale ma inesorabile trasformazione delle loro funzioni primarie, al punto che molti esperti non hanno esitato a parlare di “crisi dei partiti”. Non è questa la sede per affrontare il dibattito sullo
stato di salute dei partiti contemporanei: ciononostante, non si può negare il fallimento della pretesa di un monopolio rappresentativo dei partiti, la cui funzione di rappresentanza ha subito un processo di graduale svalorizzazione a favore di funzioni di mediazione. Le elezioni primarie, in tale frangente, possono essere
considerate come uno degli anticorpi sistemici che i partiti mettono in atto nel tentativo di esaurire, in modo esclusivo, le composite, articolate e spesso conflittuali aspettative del corpo sociale che sembrano sfuggire loro. In tal senso, il grado di apertura alle elezioni primarie è
stato letto come emblematico dello stato di salute dei
L
4 CMCS Working Papers
partiti e tale tipo di confronto elettorale è stato inserito nella più generale tendenza alla democratizzazione interna dei partiti contemporanei. Di democratizzazione interna aveva già parlato nel
1984 Norberto Bobbio, sottolineando come essa consentisse il fondamentale “passaggio dalla democrazia politica in senso stretto alla democrazia sociale, ovvero l'estensione del potere ascendente (bottom‐up) che sinora aveva occupato quasi esclusivamente il campo della grande società politica al campo della società civile nelle sue articolazioni, dalla scuola alla fabbrica”4. Le elezioni primarie rappresenterebbero quindi un
antidoto per dei partiti sempre più deboli e dalla struttura in continua evoluzione, che devono affrontare un elettorato fluttuante e per questo profondamente diverso da quello del passato, nei cui confronti è necessaria una costante strategia di fidelizzazione. La progressiva disaffezione da parte dei cittadini alla
vita politica e la conseguente diminuzione nel grado di partecipazione sociale si accompagnano a nuove tipologie di relazioni tra partiti e cittadini che incidono profondamente sui meccanismi di costruzione dl consenso. La tendenza più comune è quella che si è estrinsecata in
processi di personalizzazione e leaderizzazione della politica, elementi strutturali di quella che è stata definita una permanent campaigning. Tale concetto, utilizzato per la prima volta nel 1976 da Pat Cadell, un consigliere del presidente Usa Jimmy Carter, inerisce alle tendenze delle società avanzate in cui le dinamiche comunicative delle campagne elettorali non si limitano ai tempi ordinari della
4 N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi 1984, p.50.
La sfida della partecipazione 5
vita politica ma tendono a travalicarli. Come scrive Michele Sorice, “le campagne elettorali non hanno più come unico scopo quello di mobilitare il consenso attorno a un candidato o un partito, bensì di raggiungere quella sempre più vasta fascia di elettorato incerto e/o fluttuante”, i cosiddetti floating voters, che, di fatto, sono andati a strutturarsi come l'obiettivo primario “di una comunicazione politica meno ancorata agli apparati ideologici provenienti dallo sviluppo degli Stati nazionali postottocenteschi”5. Questo ha determinato delle conseguenze importanti:
come scrive Mauro Calise, ”l’apparato collegiale, di tipo organizzativo e ideologico, col quale operavano i partiti della Prima Repubblica è stato, in gran parte, smantellato e sostituito con un apparato personale. I partiti stanno diventando macchine personali al servizio di questo o di quel leader politico”6. Una personalizzazione che ha assunto caratteristiche
diverse a seconda dei sistemi politici in cui è andata affermandosi. In Italia, essa è andata a vestire gli italici panni dell'impersonalità e, spesso, dell'irresponsabilità. Una vera e propria “democrazia mediatica, affollata di
volti e nomi noti e visibili. Che, tuttavia, ha ridotto e quasi abolito la possibilità, per gli elettori, di esprimere scelte e preferenze "personali". Visto che ormai la costruzione delle rappresentanze politiche e parlamentari è un fatto praticamente esclusivo dei partiti, ridotti a cerchie di gruppi dirigenti ristrette e centralizzate”7, come nota il
5 M. Sorice, Comunicazione politica, in D. E. Viganò (a cura di), Dizionario della comunicazione, Roma, Carrocci, 2009. 6 M. Calise, Il partito personale, Bari, Laterza, 2000, p. 15. 7 I. Diamanti, Perché non avremo mai un Obama o un Mc Cain, “La Repubblica”, 7 settembre 2008.
6 CMCS Working Papers
sociologo Ilvo Diamanti. Gli effetti del processo di mediatizzazione sono di tipo
strutturale, dal momento che insistono sulla struttura del sistema politico e pongono con urgenza la questione relativa al progressivo depauperamento del potenziale sociale dei partiti in favore di forme diverse da quelle originarie. Per questo, le elezioni primarie possono essere
considerate come una tappa del percorso che i partiti devono compiere per recuperare il proprio ruolo naturale sulla base di valori e delle funzioni di pubblico interesse che la Costituzione prevede. In vista di tale obiettivo è necessario incentivare quel
processo di democratizzazione interna che, come nota Oreste Massari, deve necessariamente estrinsecarsi lungo tre direttrici principali. In primis, tale democratizzazione deve essere rivolta a
quei processi di diffusione orizzontale e verticale della platea che sceglie un candidato. Si tratta del cosiddetto selectorate, la cui ampiezza oscilla lungo un continuum la cui variabile primaria riguarda il grado di inclusiveness. Il secondo frangente è quello, assai complesso, della
candidacy: riguarda quindi la funzione di selezione interna e di democrazia infra‐partitica a livello delle cariche, la capacità di selezione e coltivazione di classi dirigenti davvero in grado di incarnare le composite aspettative di un elettorato sempre meno ancorato ai classici meccanismi di fidelizzazione e inserito in strutture di disintermediazione sociale. Il terzo frangente è quello relativo alla legislazione
elettorale, o legislazione di contorno. È un aspetto che, con riferimento alle primarie, incontra molti ostacoli nel sistema italiano, dal punto di vista costituzionale ma anche
La sfida della partecipazione 7
politico e di fronte al quale, al momento, sembra vincere la tradizionale ritrosia del legislatore nazionale a qualsiasi forma di intervento normativo a livello dei processi di democrazia infra‐partitica. L'analisi del ruolo delle elezioni primarie nei sistemi
politici contemporanei può essere condotta seguendo queste tre direttrici, tenendo in considerazione i diversi sistemi politici in cui esse sono state introdotte e quanto queste diverse peculiarità intrinseche agiscano anche sulla configurazione che le primarie hanno assunto nei vari Paesi. Una prospettiva comparata fornisce la base per una
critica sistemica, e consente di inquadrare i differenti assetti che le democrazie occidentali stanno assumendo per affrontare la dimensione dialogica che presiede lo scambio e il confronto dei contenuti di interesse pubblico‐politico prodotti dal sistema politico, dal sistema dei media e dai cittadini/elettori. È necessario partire, come scrive Mazzoleni, da quello
che è “un carattere fondante della comunicazione politica, ossia il suo legame con il contesto e le regole della democrazia: lo scambio delle risorse simboliche per la conquista del potere, per dirla alla Lasswell, la dialettica tra le parti è possibile solo in un contesto di libertà e non di coercizione”8. Questo perché le elezioni primarie agiscono in un
sistema politico, quello italiano, su cui il processo di mediatizzazione ha già esercitato i propri effetti politici. Effetti che afferiscono alle logiche di interazione tra sistema mediale e sistema politico e concernono direttamente i meccanismi di funzionamento dei sistemi 8 G. Mazzoleni, La comunicazione politica, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 16.
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politici. L'adozione di un approccio basato su quella che Blumer
e Gurevitch hanno definito “ermeneutica dell'interazione media‐politica”, consente un'indagine sugli effetti del processo di mediatizzazione nei diversi sistemi politici. Lo spazio semantico del fenomeno si manifesta secondo
le dimensioni di un continuum che, come spiega Mazzoleni, si declina in due direzioni: • quella del parametro sistemico, che riguarda la
subordinazione‐autonomia dei media in un dato sistema politico; • quella del parametro massmediale, che si occupa
dell'orientamento professionale dei (news) media. Il primo parametro, elaborato da Blumer e Gurevitch
nel 1975, è imperniato sul grado di controllo statale sulle istituzioni mediali, sul livello di partisanship dei media, sul grado di integrazione nelle élite politico‐mediale, e sull'indice di affermazione della consapevolezza della funzione sociale e politica della professione giornalistica. Un'indagine comparata sulla base di tali dimensioni ha portato Giampietro Mazzoleni all'individuazione di quattro modelli esplicativi dell'interazione media‐politica. Si tratta in primis del modello avversario, in cui i media sono concepiti non come latori delle istanze dei singoli gruppi sociali ma, al pari delle altre istituzioni politiche, come rappresentanti degli interessi generali della società, e insieme come fonti di informazione per i singoli cittadini e come espressione dell'uomo e della donna comune. In tali sistemi, i partiti hanno già dovuto necessariamente aprirsi a una strutturazione più democratica, adottando così pratiche di incentivo a quelle dimensioni peculiari di una democrazia di qualità che Morlino aveva individuato nel grado di accountability e in quello di responsiveness.
La sfida della partecipazione 9
Gli Stati Uniti, che storicamente appartengono a quest'area di Paesi, sono la prima nazione a prevedere una legislazione statale dei meccanismi interni di selezione delle élite dirigenti. È qui che, all'inizio del '900, compaiono le elezioni primarie, come strumento di lotta ai meccanismi clientelari interni ai partiti, e come contributo ai requisiti di responsabilizzazione verticale e orizzontale delle classi dirigenti di fronte ai propri elettori. Ecco perché il modello statunitense costituisce il
presupposto ineludibile da cui partire per un’analisi del ruolo delle elezioni primarie nel sistema italiano, un sistema complesso, che rientra in quello che Mazzoleni ha definito il modello collaterale. In questi contesti, una delle prassi più diffuse è l'uso dei
media come strumenti per intervenire nel mondo politico. La radicalità delle divisioni ideologiche e l'asprezza del conflitto politico hanno reso problematico per il sistema mediale il distanziamento dalla politica, hanno ostacolato il sorgere di una cultura professionale e l'organizzazione della professione indipendente dalle opzioni politiche. Il ritardato sviluppo delle istituzioni liberali,
l'affermazione limitata dell'autorità razionale‐legale ha portato, in Paesi come il nostro, a una sfera pubblica strutturata in modo diverso rispetto ai Paesi liberali, in cui la ragione principale della comunicazione politica è il tentativo degli attori in campo di raggiungere il pubblico di massa dei privati cittadini. Qui invece, il cuore della comunicazione politica è il processo di negoziazione che ha luogo tra partiti, fazioni e attori sociali a essi alleati. L'esito di tale processo di negoziazione non è fondato su regole condivise a causa di una cultura politica molto più incline al particolare che all'interesse generale, che apre lo spazio all'affermazione di pratiche clientelari.
10 CMCS Working Papers
Bisogna sottolineare come uno degli effetti che la mediatizzazione ha avuto sulla vita e sul funzionamento dei partiti politici nel nostro Paese sia stato il trasferimento dei meccanismi di reclutamento del ceto dalle macchine di partito ad agenti esterni al sistema partitico, che adottano criteri alieni e fuori dal controllo dei tradizionali selezionatori di partito. Non si tratta ovviamente di un processo registrato
uniformemente, ma di una diffusa influenza del sistema dei media e delle sue manifestazioni, sulla selezione delle élite, sia nelle fasi preliminari che in quelle di voto. Proprio a partire da tali presupposti non si può
nascondere il fatto che, se nel sistema statunitense le primarie si sono consolidate non solo uno strumento interno di democrazia partitica, ma anche e soprattutto un meccanismo istituzionalizzato di selezione della classe dirigente quanto più trasparente e scevro da meccanismi clientelari interni, non è scontato che accada lo stesso nel nostro Paese. In questo, come abbiamo visto, il ruolo dei media, e le caratteristiche del sistema politico in generale giocano un ruolo fondamentale. E in un sistema politico come quello italiano, ancora
attraversato da profonde fratture e fasi di transizione, senza una radicata autorità razionale legale, e con un potere partitico così penetrante, le elezioni primarie rischiano di divenire un mero strumento di acclamazione mediatica di un candidato scelto dalle élite di partito. Nel nostro paese per elezioni primarie si considerano,
secondo la definizione di Fusaro, “quei procedimenti finalizzati a influenzare e/o a determinare la selezione dei candidati a successive elezioni, alle quali, in via di principio partecipi, ancorché con alcune limitazioni e ad alcune condizioni, lo stesso corpo elettorale di queste
La sfida della partecipazione 11
ultime, e che siano promossi da quanti (partiti e c.d. gruppi elettorali, da soli o in associazione tra loro) intendano appunto presentare candidati per l'elezione di cariche esecutive monocratiche ovvero per l'elezione a cariche rappresentative in assemblee, a qualsiasi livello di governo”9. L’Italia ha un'esperienza limitata del ricorso alle
elezioni primarie. Innanzitutto perché esse sono state scelte da una sola fazione politica, il centro‐sinistra, che negli ultimi tempi è andato incontro a numerosi riassestamenti e riforme interne. Poi perché le elezioni primarie italiane non sono
disciplinate da una normativa vincolante, e costituiscono una scelta deliberata e non sottoposta ad alcun meccanismo di controllo o sanzionatorio dall'esterno. Infine perché esse hanno incarnato un dilemma atavico
dei partiti politici italiani, da sempre inclini a meccanismi autoreferenziali e clientelari e incapaci di canalizzare gli slanci e delle istanze di un elettorato sempre più distante. In tale prospettiva, le elezioni primarie sembrano tuttora in volo a mezz'aria, in perenne tentennamento tra quell'istituto di partecipazione e democratizzazione interna che vorrebbero poter essere e quello strumento di lotte intestine e di acclamazione collettiva di processi di cooptazione interni che hanno finito per rappresentare in taluni casi. Un'esperienza ancora troppo recente e che tuttavia ha
dimostrato come le elezioni primarie possano, nell'ambito di una più ampia strategia complessiva, sopperire ad almeno tre funzioni cruciali: 9 C. Fusaro, Elezioni primarie: prime esperienze e profili costituzionali, in “Quaderni dell'Osservatorio Elettorale”, n. 55/2006, p. 43.
12 CMCS Working Papers
• la funzione di mobilitazione e motivazione interna; • la funzione di legittimazione della leadership; • la funzione di comunicazione all'esterno. Primarie che, come ha notato Gianfranco Pasquino,
“lungi dall'essere una sfida ai partiti esistenti che li svuoterebbe buttandoli via come gusci vuoti, hanno messo in evidenza che i partiti del centro‐sinistra sono circondati da reti associative, che sono potenziali collaboratori dei partiti su un piano di reciprocità e di parità e, nella misura possibile, contribuire alla loro trasformazione”10. Esse garantirebbero quindi la partecipazione degli
elettori in un meccanismo specificatamente dedicato alla selezione, contribuendo a canalizzare verso metodi riconosciuti e legittimati dal sistema quella spinta partecipativa che da anni caratterizzava alcuni lembi della cosiddetta società civile, spogliandoli di quella opacità che li rendeva difficilmente individuabili e leggibili. Si tratta di quei movimenti della cosiddetta antipolitica,
nella cui rete espressiva le primarie possono trovare uno strumento significativo per la realizzazione di forme comunicative e di mobilitazione che si sottraggono al monopolio televisivo e mostrano di sapersi avvalere di canali alternativi. Un passo, ancora, che consente di introdurre con forza nuovi attori sulla scena, capaci di dar vita a una rappresentazione della politica alla quale non si assisteva da tempo. È questo uno dei modelli tramite cui si potrebbe
costruire un clima mobilitante tale da costituire una risposta appropriata alla domanda di partecipazione espressa da tutti coloro che desiderano partecipare, e di 10 G. Pasquino Democrazia, partiti, primarie, in “Quaderni dell'Osservatorio elettorale”, n. 55. giugno 2006, p.36.
La sfida della partecipazione 13
fatto hanno partecipato, alle primarie. A conferma di questa ipotesi, il fatto che molti dei
partecipanti alle elezioni primarie non mostrano alcun grado di affiliazione partitica, mentre risultano inseriti in reti di attivazione e partecipazione civica, le cui istanze e la cui insoddisfazione non avevano trovato realizzazione nel momento elettorale, preferendo confluire in opzioni astensionistiche. A tal fine, è necessaria una struttura e una dinamica
organizzativa che permetta di attivare meccanismi permanenti di accountability e di responsiveness dei gruppi dirigenti nei confronti della base associativa, e meccanismi di partecipazione attiva della stessa membership, in grado di legittimare, discutere e valutare l’operato dei dirigenti e, soprattutto, di contribuire all’elaborazione politica e programmatica del partito. Al tempo stesso, non si può omettere il fatto che le
primarie italiane abbiano contribuito al consolidamento di quei meccanismi di leaderizzazione di cui abbiamo già parlato e che ha caratterizzato trasversalmente l'intero spettro dei partiti del nostro Paese. Se è vero che, come scrive ancora Calise, “in luogo di un
sistema sullo spirito di partito e sull'unità di partito come principale risorsa da preservare, si afferma un nuovo stile politico che fa risaltare individualità e personalismi”11, così, inevitabilmente, il dibattito politico finisce per ruotare principalmente sulle iniziative di singole personalità. Una personalizzazione che influenza i meccanismi di
scelta di voto: con l'indebolimento delle funzioni di identificazione e di acculturamento politico dei partiti
11 M. Calise, Il partito personale, p. 15.
14 CMCS Working Papers
molti autori sottolineano come sia la leaderizzazione a costituire la chiave di volta del momento di scelta elettorale. L'effetto primario consiste, necessariamente,
nell'estrema riduzione dell'intermediazione partitica e nella valorizzazione, viceversa, dell'importanza del consenso personale riscosso dal leader in occasione del confronto elettorale . È proprio l'afflosciarsi dei partiti, il loro disgregarsi e
isterilirsi a fare emergere nel quadro politico nuovi soggetti, nuovi gruppi e nuovi individui, che possono essere portatori di novità, rispetto a obiettivi e contenuti dell'attività di governo, ma anche di stili, metodi e strumenti. Le donne sono uno di questi gruppi, tradizionalmente escluso dalla partecipazione politica o strumentalmente relegato in posizioni specificatamente correlate al gender dalle gerarchie partitiche. Ai nostri giorni, in presenza di democrazie acefale che
attraversano crisi sociali ed economiche di portata internazionale, una leadership diversa può emergere portando con sé un profilo di outsider che, in condizioni normali, non sembrerebbe avere alcuna chance di successo. Sulla base delle teorizzazioni di Max Weber sulle
democrazie plebiscitarie, molti studiosi hanno notato come i leader outsider trovano spazio per emergere soprattutto nelle fasi di crisi della politica tradizionale, cioè quando quest'ultima non riesce più a soddisfare le aspettative che i cittadini nutrono nei suoi confronti. Aspettative che non sono riducibili a mere istanze di tipo politico‐ programmatico, ma che, invece, devono essere ricondotte all'iperuranio dei modelli di ispirazione ideologica e morale.
La sfida della partecipazione 15
L'interrogativo da porsi è, a questo punto, se sussista una relazione di qualsiasi tipo tra lo stato di salute delle istituzioni e delle classi politiche e una maggiore disponibilità a prendere in carica una candidatura che in tempi “normali” non avrebbe alcuna chance: è il caso di un candidato “donna”. A riprova di questo, gli atteggiamenti degli elettori
rispetto alla possibilità dell'affermazione di una leadership femminile sono mutati radicalmente in senso possibilista, nel corso del tempo. Una leadership femminile che emerge in concomitanza
a una dimensione partecipativa dell'elettorato, che ha assunto i toni di una “mobilitazione cognitiva”, un fenomeno definito da Dalton come un coinvolgimento astratto e psicologico nella politica, che si ha quando gli individui dispongono delle risorse necessarie per essere politicamente mobilizzati, senza la necessità di supporti e indicazioni esterne. Tale tipo di mobilitazione, associata a un mutamento dell’universo valoriale degli elettori, tenderebbe non a rafforzare, ma a sostituire le tradizionali forme di mobilitazione politica, attivando forme di coinvolgimento innovative, fino alla “sindrome del cittadino critico” postulata da Pippa Norris nel 1999. Tale sindrome è ben descritta da un evidente paradosso: sempre più Paesi sono conquistati alla causa della democrazia, sempre più cittadini delle vecchie e nuove democrazie sono insoddisfatti per come la democrazia funziona. Da tale insoddisfazione verso le élite politiche
tradizionali potrebbe sorgere e manifestarsi una conseguenza che garantirebbe il sistema politico stesso, pur soddisfacendo le istanze dei cittadini critici: la ricerca di nuove leadership che manifestino discontinuità rispetto
16 CMCS Working Papers
alla gestione clientelare e cooptativa dei partiti tradizionali e che si mostrino in grado di rappresentare un elettorato sempre più informato e sempre più desideroso di partecipare. In tale frangente, le elezioni primarie potrebbero essere
considerate come un importante strumento per il riequilibrio della rappresentanza di genere. Esse consentirebbero insieme l'affermazione di una classe politica, quella femminile, storicamente relegata ai margini dell'arena politica, e i cui compiti pubblici, nel nostro Paese, hanno assunto spesso i caratteri della riproduzione sociale dei ruoli naturalmente attribuiti al genere femmineo. Al tempo stesso, le elezioni primarie possono costituire
un espediente fondamentale per garantire partecipazione e ascolto a un gruppo sociale, quello femminile, che ha storicamente presentato peculiarità specifiche. Come ha scritto Pippa Norris la propensione femminile al coinvolgimento e alla partecipazione si mantiene piuttosto omogenea rispetto al genere in attività di protesta, mentre si manifesta una scarsa disposizione femminile alla partecipazione ad attività di mobilitazione promosse da partiti e gruppi politici, nonché all’iscrizione a partiti o ad associazioni professionali12. Per questo, l'adesione alle elezioni primarie
costituirebbe per il sesso femminile una sorta di iscrizione indiretta ai partiti politici, e una forma più pragmatica di affiliazione e di partecipazione, sulla base delle proprie istanze, anche (ma non solo) di genere. Anche perché l'elettorato femminile è radicalmente
cambiato nel tempo, al punto che il differenziale di genere, 12 Cfr. P. Norris, Lovenduski e J. Campbell R. Gender and political Participation, Research Report, London, 2004.
La sfida della partecipazione 17
almeno per quanto riguarda il ricorso alle elezioni, sembra essersi annullato nel tempo. La cosiddetta women's autonomy thesis collega questa
maggiore partecipazione politica delle donne con il processo di emancipazione derivante dal rigetto delle dinamiche relazionali tradizionali responsabili dell’associazione tra gli interessi delle donne ed il mantenersi di una struttura di potere esclusivamente male‐dominated. A questi cleavages sociali si erano aggiunti altri tasselli
di tipo culturale, relativi al livello di istruzione, di informazione, al posizionamento all'interno di reti familiari e sociali. Lo specifico orientamento di genere verso differenti
tipologie di mobilitazione deriva da una diversa scala di priorità valoriali, nonché da diversi meccanismi sottesi all’attribuzione di fiducia. Per questo appare necessario, per cominciare uno studio sulle elezioni primarie come strumento per il riequilibrio della rappresentanza di genere, affrontare il problema dell’incidenza della strutturazione dell’universo valoriale e delle dinamiche di coinvolgimento in reti relazionali sulla partecipazione civica e politica in una prospettiva gender oriented.
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Capitolo 1 L’avventura delle primarie in Italia e il modello statunitense
La sfida della partecipazione 19
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1.1 Primarie e democratizzazione dei processi di selezione Prima di parlare di primarie e del ruolo che esse ricoprono o dovrebbero ricoprire nel sistema italiano, è necessario delineare in maniera generale alcune delle trasformazioni che hanno accompagnato i regimi democratici occidentali negli ultimi decenni. Terminata la transizione dalle forme autoritarie e post‐
belliche quasi tutte le democrazie occidentali hanno accettato la sfida della “qualità della democrazia”, che dipende anche dalla qualità delle leadership, di quelle minoranze organizzate che conquistano il potere politico. Quando Norberto Bobbio parla di “contenuto minimo” delle democrazie, vi individua “un insieme di regole che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive e con quali procedure”.13 Questo perché, “affinché una decisione presa da individui possa essere accettata come collettiva, occorre venga presa in base a regole che stabiliscano quali sono gli individui autorizzati a prendere le decisioni vincolanti per tutti i membri del gruppo e in base a quali procedure”14. La qualità della democrazia, così come delineata da
Morlino e Diamond, riguarda regimi ampiamente legittimati, i cui cittadini possono sorvegliare l'applicazione della rule of law, valutando l'efficacia decisionale e la responsabilità politica circa le scelte fatte dal personale eletto anche rispetto alle domande espresse dalla società civile. 13 N. Bobbio, Il futuro della democrazia, p.4‐5. 14 Ibidem.
La sfida della partecipazione 21
Non a caso, tra le cinque dimensioni che secondo Morlino caratterizzerebbero il livello qualitativo di un regime democratico, vi sono il grado di “accountability, cioè la responsabilità verticale (degli eletti verso gli elettori) e orizzontale (fra le diverse componenti della classe politica) e la responsivness, ovvero la capacità di rispondere alle sollecitazioni della società”15. In tale frangente, le elezioni primarie costituiscono uno
dei canali attraverso cui si manifesta una “democrazia di qualità” e un importante strumento non solo di selezione delle classi dirigenti ma, come vedremo più avanti, di raccordo tra la struttura partitica e un elettorato sempre più mobile, in un sistema politico come quello italiano ancora attraversato da profonde e instabili fratture, tanto da far coniare a Nicola Tranfaglia l'espressione di “transizione italiana”. Una transizione verso il modello bipolare, in cui una compiuta strategia politica e comunicativa non può trascendere dall'esigenza di una democratizzazione interna dei partiti, in vista della quale le primarie rivestono un ruolo fondamentale. Numerosi esperti di politica e comunicazione
concordano nell'individuare un trend inequivocabile nella crescente democratizzazione dei processi di selezione delle élite politiche. Una democratizzazione, ammoniva già nel 1984
Norberto Bobbio, “se di democratizzazione si può parlare, che consiste non tanto, come si dice erroneamente, nel passaggio dalla democrazia rappresentativa alla democrazia diretta, quanto nel passaggio dalla democrazia politica in senso stretto alla democrazia sociale, ovvero nella estensione del potere ascendente (bottom‐up) che 15 L. Morlino, Democrazie e democratizzazioni, cit. in D. Palano, La democrazia senza qualità, Trento, Uni Service 2010, p. 146.
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sinora aveva occupato quasi esclusivamente il campo della grande società politica al campo della società civile nelle sue articolazioni, dalla scuola alla fabbrica”16. Le ragioni di tale democratizzazione sono molteplici e
risiedono quindi nelle profonde trasformazioni della politica contemporanea. Risiedono nell'estrema personalizzazione della politica,
che ha spostato il baricentro elettorale nelle capacità comunicative dei partiti, e in molti casi dei loro leader. Risiedono nell'aumento della volatilità elettorale e
nell'emorragia di consensi dei partiti tradizionali. Risiedono nel successo e nella rapida ascesa di organizzazioni partitiche capaci di politicizzare le nuove fratture incarnando le istanze di un elettorato sempre più sfiduciato e lontano da una classe politica, quella tradizionale, che appare sempre più arroccata. Si situano, nell'immediato, come vedremo, nelle
sconfitte elettorali e nelle crisi organizzative dei partiti, nell'esigenza di ampliare la partecipazione, di immettere aria nuova nel circuito della rappresentanza e delle procedure democratiche. La nozione di procedure democratiche è quanto mai
generica: secondo Gianfranco Pasquino si tratta di dinamiche che “coinvolgono nella selezione delle candidature gli attori e gli elettori rilevanti ai vari livelli e lo fanno consentendo loro di esprimersi non con generici cenni di approvazione/acclamazione, ma attraverso manifestazioni di voto specifiche e vincolanti”17. Le primarie gestite dai partiti, in quest'ottica,
rispondono a una scelta di esternalizzazione della selezione delle candidature attraverso il coinvolgimento 16 N.Bobbio, Il futuro della democrazia, p.50. 17 G. Pasquino Democrazia, partiti, primarie, p. 25.
La sfida della partecipazione 23
degli elettori, sia che si tratti di un'autentica e veritiera espressione dell'esigenza di allargamento della partecipazione democratica, sia che, come nel caso italiano, risponda alla necessità di superare lo storico impasse decisionale che caratterizza i partiti politici, e in particolare le forze della sinistra italiana. Sottolinea ancora Pasquino: “In un momento storico di
affievolimento della componente ideologica e di diffusa disaffezione dell'elettore, queste primarie possono essere interpretate come una forma indiretta di iscrizione ai partiti e l'elevato coinvolgimento potrebbe esprimere una riaffermazione della volontà di partecipare, sottolineata dalla disponibilità a schierarsi e a farsi identificare come parte di uno schieramento, al di là del contributo dato alla selezione del candidato”18. Quando si parla di democrazia interna si fa riferimento
al grado di democraticità relativo all'intero processo di decision‐making di un partito. Democrazia interna che di per sé non implica forzatamente la democratizzazione dell'intero sistema, se è vero, come ammonisce Giovanni Sartori, che “la democrazia in grande, di insieme, non è una somma statica delle organizzazioni che la compongono; è, invece, il prodotto dinamico delle loro interazioni”19. Non a caso, invertendo l'ottica (ma non
l'argomentazione) di Sartori, ai partiti politici italiani è stato concesso, sin dalla Costituzione, largo raggio di manovra. La carta costituzionale stessa è stata letta come un profondo atto di fiducia nei confronti dei partiti, che hanno acquisito un potere sempre più ampio. I partiti 18 Ibidem. 19 G. Sartori, cit. in R. De Mucci, Voci della politica, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2004, p. 131.
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hanno costituito l'asse portante del sistema italiano e la funzione di indirizzo politico ha spesso subìto una deviazione, dal governo al Parlamento, al sistema dei partiti. Un sistema di partiti fortissimo che nell'ambito della cosiddetta conventio ad excludendum si è imposto con una struttura fortemente centralizzata, in grado di condizionare accordi e alleanze sia a livello locale che nazionale. Tutto questo in un sistema, quello italiano, che è stato, e
per certi versi è ancora, caratterizzato da un “multipartitismo estremo”, nonostante gli effimeri sforzi di razionalizzazione verso un modello bipolare. Un multipartitismo che ha visto la presenza di partiti anti‐sistema in un quadro di forte frammentazione, con alleanze instabili ed effimere, e un potere di ricatto fortissimo ai partiti minori. E paradossalmente proprio un margine di manovra così
ampio ha significato, a un certo punto, la crisi del sistema. Il progressivo affievolimento delle capacità di dibattito interno è degenerato nell'implosione di partiti in balia delle correnti. Dopo la crisi dei primi anni '90, che ha sancito la morte delle vecchie compagini, i partiti non sono riusciti ad acquisire di nuovo quel ruolo di fondamentali agenzie di socializzazione politica che avevano svolto sin dal dopoguerra nel nostro Paese. Pertanto la fase successiva, quella definita appunto della “transizione”, è stata caratterizzata da un lato dal tentativo di superare il multipartitismo estremo, dall'altro dal sorgere di partiti politici caratterizzati da nuove forme organizzative: si è mantenuto “uno «Stato dei partiti» con partiti che spesso non sono più tali; che hanno perso non soltanto quella capacità di «protezione sociale» che avevano svolto nella fase precedente, ma anche la capacità di essere luoghi
La sfida della partecipazione 25
effettivi di elaborazione di linee politiche condivise”20. Da qui è partita la ricerca verso soluzioni per
“rilegittimare il sistema politico e ridare ad esso una parte del consenso”21 perduto.
1.2 Primarie, democratizzazione e crisi organizzativa dei partiti
Nel 1961 Robert Dahl pone un interrogativo che sarebbe divenuto proverbiale nella storia della scienza politica contemporanea. Who governs?, cioè come si struttura, nei fatti, la conquista e la gestione del potere, e quindi come si delineano i processi di selezione delle classi dirigenti? Lo studioso americano, partendo dalle dinamiche di
potere della piccola comunità di New Haven, in Connecticut, si è addentrato nei processi di policy making e nell'analisi delle variabili che intervengono a influenzare l'affermazione delle élite di potere. L'interrogativo rimane attuale e a livello generale
appartiene a tutte le democrazie contemporanee e il modo con cui squadre di governanti concorrono per ottenere il consenso dei cittadini, secondo la schumpeteriana teoria competitiva della democrazia, oggi più che mai riguarda le strategie, in primis comunicative, dei partiti politici. L'assunto di partenza è che, per usare le parole di
Schumpeter, il metodo democratico può essere definito come un “assetto istituzionale per arrivare a decisioni politiche nel quale alcune persone acquistano il potere di 20 S. Gambino, Elezioni primarie e rappresentanza politica, Soveria Mannelli, 1995, p. 8 21 Ibidem.
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decidere mediante una lotta competitiva per il voto popolare”.22 In questa lotta, come scrive Richard S. Katz, le
democrazie contemporanee non possono prescindere dal ruolo fondamentale dei partiti politici, che ne costituiscono l'asse portante, al punto che lo studioso adotta la pregnante definizione di party governments: “Political parties have been considered the central
institution of democratic governments. Disraeli wrote «I believe that without party parliamentary government is impossible»”.23 Il party government teorizzato da Katz nel 1987 è un
modello ideale. A livello descrittivo, esso assegna ai partiti un numero di funzioni chiave in ambito governamentale, tra cui la mobilitazione e la canalizzazione dell'elettorato militante, la formulazione di alternative, il reclutamento e la formazione delle leadership. E dalla strutturazione interna e dallo stato di salute dei
partiti dipende anche lo stato di vitalità sociale della democrazia. Come scrive Gianfranco Pasquino, “da Michels in poi, sappiamo che i partiti sono il veicolo ovvero il canale attraverso il quale passa praticamente la quasi totalità, con pochissime eccezioni, dei prescelti per le cariche elettive. E poiché i partiti non possono o non vogliono (“legge ferrea dell'oligarchia), non sanno o non riescono a diventare soddisfacentemente democratici nel loro funzionamento interno e nelle modalità di selezione dei candidati, si impone la ricerca di nuove modalità che democratizzino quanto meno le procedure di scelta dei 22 Schumpeter, J. A., Capitalismo, socialismo, democrazia, Etas Kompass, Milano 1964, p. 269. 23 R. Katz, in F. Castles, R. Wildenmann, Visions and realities of party governments, European University Institute, Berlino 1986, p.32.
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candidati alle cariche elettive”24. Di crisi dei partiti si parla in realtà già da diverso tempo.
Nel 1995 Silvio Gambino, pur riconoscendo ai partiti il ruolo di asse portante della democrazia, scriveva: “Quando si parla di una crisi dei partiti occorre fare bene attenzione alle manifestazioni di tale crisi. La crisi dei partiti è innanzitutto una crisi che riguarda la concezione che essi hanno di sapere/potere esaurire, in modo esclusivo, le composite, articolate e spesso conflittuali, aspettative del corpo sociale”. In altri termini, la pretesa di un monopolio rappresentativo dei partiti ha fallito: essi non sono riusciti a incarnare nessuna delle istanze che hanno fatto invece riferimento ai movimenti collettivi sorti nel Paese, nel corso degli anni, a difesa, di volta in volta, di interessi più o meno diffusi e più o meno settoriali. La funzione di rappresentanza ha subìto un processo di
graduale svalorizzazione a favore di funzioni di mediazione. Una vera e propria delegittimazione del sistema dei partiti cui si accompagnano fenomeni elettorali come “l'astensionismo, le leghe, le coalizioni referendarie”, sorti come risposte sistemiche alla scarsa permeabilità dei partiti alle nuove domande sociali. È per questo, continua Gambino, “che la nostra debole democrazia ha urgente necessità di recuperare il ruolo democratico dei partiti rifondati in conformità ai valori e alle funzioni di pubblico interesse che la Costituzione prevede.”25 D'altronde, già nel 1957 scriveva ancora Katz: “When
party is the primary channel for public participation, demand articulation and aggregation, and communication 24 G. Pasquino Democrazia, partiti, primarie, in “Quaderni dell'Osservatorio elettorale”, p. 24. 25 S. Gambino Elezioni primarie e rappresentanza politica, p.151.
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from leaders to followers, party governments will be stronger. Where other structures, e.g. mass media and interest groups, share in performing these functions, party control over politics will be weaker”26. La questione se i partiti godano ancora di buona salute
o, invece, siano entrati in un’irreversibile crisi terminale rimane ancora aperta. La risposta tra l'altro non è univoca: a fronte di partiti italiani deboli e sul rischio rottura, abbiamo partiti europei che ancora riescono apprezzabilmente a sopperire al proprio ruolo e alle proprie funzioni. In generale, però, come nota Gianfranco Pasquino, è
“dallo stato di salute dei partiti che deriva la loro disponibilità ad aprirsi alle primarie, ovvero il loro cedimento”. Le primarie sono così un farmaco, che i partiti malaticci si auto‐somministrano per lenire i sintomi di un male insanabile, che lentamente li trascinerà alla consunzione e al decadimento. Dall'altro lato, molti commentatori considerano le primarie il colpo di grazia, una dolce eutanasia per partiti che oscillano tra una condizione di malattia cronica e il progressivo irreversibile esaurimento. In sostanza, i cosiddetti “fautori delle primarie”
sostengono che il crescente affievolimento dell'affiliazione di tipo ideologico che ha generato un elettorato deluso e disaffezionato, possa ritrovare nelle elezioni primarie una forma indiretta di affiliazione e iscrizione ai partiti e l'elevato coinvolgimento potrebbe, sul lato del selectorate, esprimere una ritrovata e rinnovata volontà di partecipazione. Non a caso, per votare alle primarie italiane c'è bisogno di identificarsi e palesarsi 26 R. Katz, in F. Castles, R. Wildenmann, Visions and realities of party governments, p. 59.
La sfida della partecipazione 29
necessariamente come appartenente a uno schieramento. In un tale frangente, l'esigenza da cui muove la
democratizzazione della selezione dei candidati all'interno dei partiti oscilla sempre tra due opposti pericoli: quello delle decisioni prese dalle oligarchie politiche, che, Michels insegna, sin dalla nascita sono mossi da élite chiuse e autoreferenziali, e, dall'altro lato, quello di evitare un'eccessiva apertura come conseguenza di una (legittima) richiesta di democrazia interna dei partiti. Un problema di ordine funzionale, un altro di tipo strettamente democratico. È la sfida della democratizzazione, che, infatti, è una strada tutt'altro che in discesa.
1.3 Dimensioni e fasi della democratizzazione In un quadro politico complesso come quello delineato sommariamente, la democratizzazione non può essere un processo immediato e omogeneo. Si tratta invece di una tendenza più generale, che investe più aspetti relativi all'organizzazione e alle dinamiche interne di partiti sempre più mutevoli al proprio interno. Oreste Massari, analizzando le primarie nelle
democrazie occidentali, individua alcune principali fasi:
• la prima, che è inerente al processo di diffusione orizzontale e verticale della platea che sceglie un candidato. “La lingua inglese ‐ scrive Massari ‐ “ha un termine per esprimere questa entità: è selectorate”27. Il termine indica con sintesi efficace il gruppo di coloro
27 O. Massari, Le primarie nelle democrazie occidentali, in Italianieuropei, 5/2002, p.2
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che sono chiamati a scegliere, a selezionare, in sostanza, se non esaurisce l'annoso interrogativo quis custodiat custodes? quantomeno tenta un primo approccio. Come spiega ancora Massari, le dimensioni di questo selectorate sono variabili, in un contiuum, dalla massima inclusività (ed è il caso di primarie i cui elettori possono votare indipendentemente dall'appartenenza o affiliazione partitica), alla massima esclusività. Casi intermedi possono essere grandi convention di partito, pure sempre più ampie dei soli gruppi parlamentari o degli organismi esecutivi dei partiti.
• la seconda dimensione inerisce all'altro aspetto, quello attivo, del momento elettorale: riguarda quindi i candidati, o, per usare le parole di Massari, la candidacy. Anche qui, come nel primo caso, assistiamo a un continuum tra un minimo e un massimo di esclusività. Così, si oscilla tra il modello statunitense, in cui chiunque, sulla carta, può concorrere alla nomination, (anche se poi, come nota ancora Massari, “lo può fare ormai chi possiede o può raccogliere ingenti risorse finanziarie),28 e quello anglosassone (del Labour Party), che estende la corsa ai soli parlamentari. La questione candidacy è, ovviamente, di straordinaria
importanza per l'intero processo di selezione. Il rischio è duplice: da un lato, un'eccessiva chiusura riconduce al problema di partenza, e cioè all'eccessiva autoreferenzialità delle élite dirigenti che, troppo spesso, hanno selezionato i propri membri senza alcuna democraticità, ricorrendo alla cooptazione semplice.
28 Ibidem.
La sfida della partecipazione 31
Dall'altro lato, in concomitanza col sorgere di movimenti cosiddetti antipolitici, e con l'emergere del fattore personale come punto di volta nella scena politica mondiale, un'eccessiva apertura extra‐partitica potrebbe far perdere ai partiti una funzione fondamentale che ne ha costituito l'essenza primaria: la funzione di formazione e selezione della classe dirigente. Il rischio, osserva Massari, è che “troppi candidati di disturbo e persino eccentrici” si presentino alle primarie “interessati a cavalcarle per portare avanti issues particolari o per acquisire visibilità”. Restando alle primarie italiane, il tentativo di candidatura del comico e attivista Beppe Grillo alle elezioni primarie del partito democratico ha evidenziato questa falla sistemica. L'ammissione alle primarie di un personaggio che gode di un ampio consenso nei movimenti extra‐partitici ma che fino a quel punto non aveva mostrato alcuna affiliazione partitica per il Pd ha posto le gerarchie partitiche di fronte all'interrogativo. Essendo l'unico requisito di candidacy il tesseramento al partito, si è optato per il diniego alla domanda di tesseramento e, di conseguenza, all'impossibilità, per l'aspirante candidato, di correre per la nomina. Una scelta complessa, non scevra da polemiche anche interne al partito, che dimostra al contempo come “i requisiti, le regole, le sedi o gli organi che presiedono alla candidatura alle primarie costituiscono il vero punto di snodo dell'intero processo, il filtro attraverso cui si può determinare un equilibrio tra esigenze di apertura e democratizzazione e esigenze di responsabilità e funzionalità”29. • la terza dimensione riguarda invece l'aspetto
cosiddetto “di contorno”. Normalmente è definita “di
29 Ibidem.
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contorno” la legislazione elettorale per le elezioni vere e proprie. Nel caso delle primarie in Italia, le questioni sono molte. In primis le modalità di esercizio del voto: in sezioni elettorali, voto postale, per internet, per telefono. E poi ovviamente se le primarie sono di partito, o di coalizione. E se il voto è a un turno, o a più turni. Se, ed è questo il punto più importante, esse sono disciplinate da leggi statali, o regionali, (e in Italia finora abbiamo avuto la sola regione Toscana, che ha comunque emanato un regolamento non vincolante di disciplina delle elezioni primarie), o se invece, come si è trattato finora per le primarie a livello nazionale, si tratta di regolamenti interni di partito. Si tratta di un punto di cruciale importanza, perché da esso dipendono le garanzie di correttezza del procedimento, e la possibilità di contestazione e di denunce di violazioni, così come la possibilità di usare le infrastrutture pubbliche.
1.4 Selectorate e democratizzazione. Abbiamo visto come la questione del ruolo e della composizione del selectorate sia la prima delle tre dimensioni considerate da Massari. In particolare, Rahat e Hazan nel 2001 hanno rappresentato graficamente l'andamento dell' inclusiveness, ossia dell'ampiezza (o meno) del gruppo di persone deputate a scegliere i candidati alle cariche pubbliche:
La sfida della partecipazione 33
Un'analoga tipologia di classificazione è stata elaborata
da Gallagher e Marsh, che, nel libro “Candidate selection in a comparative perspective” del 1988 hanno distinto sette distinte tipologie di selezionatori: 1. I simpatizzanti di partito (e dunque potenzialmente
chiunque); 2. Gli iscritti al partito; 3. Un gruppo di iscritti legato a un collegio elettorale; 4. L'organizzazione locale del partito (anche a livello
regionale); 5. Il comitato esecutivo nazionale del partito; 6. I leader nazionali del partito; 7. Il solo leader partitico. A partire da questo schema Taylor ha aggiunto alle
categorie di selezionatori l'elettorato sic et sempliciter e il candidato che si auto‐seleziona.
1.5 Candidacy e democratizzazione
34 CMCS Working Papers
Anche per quanto riguarda l'aspetto della candidacy facciamo riferimento alla tipologia elaborata da Hazan:
“Why would a party adopt more inclusive, ore exclusive,
candidacy requirements?” si domandano i due autori. E non c'è una risposta univoca, poiché la ratio alla base del grado di flessibilità del sistema è quasi sempre di natura multiforme. In linea generale, come notano i due autori, “the more
common requirements set by parties for candidacy are less demanding, such as minimal lenght of membership prior to the presentation of candidacy and pledges of loyalty to the party”30. Lo schema incrociato inclusiveness/exclusiveness
individua quindici zone o opzioni che risultano dalla combinazione tra le singole possibilità del selectorate e le singole possibilità della candidacy:
30 Rahat G. and Hazan Y. R. , Candidate Selection Methods, in “Party Politcs”, vol.7, n.3, 2001, p. 310.
La sfida della partecipazione 35
1.6 Partiti, primarie e “politica personale” “Chi conosce il diritto costituzionale classico e ignora la funzione dei partiti ha un’idea sbagliata dei regimi politici contemporanei; chi conosce la funzione dei partiti e ignora il diritto costituzionale classico ha un’idea incompleta ma
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esatta dei regimi politici contemporanei”31. Così scriveva nel 1961 Maurice Duverger. A
cinquant'anni di distanza, i partiti contemporanei non riescono più a imporsi come agenzie di mobilitazione, stentano a comunicare con la società, a incarnarne gli umori e le istanze. Ed è anche a causa di questa distanza da un elettorato sempre più difficilmente mobilitato e mobilitabile che ha potuto svilupparsi una degenerazione della loro vita e del loro funzionamento interno. È così che, venendo meno la partecipazione, si sono rarefatti gli “anticorpi” della vigilanza interna sui comportamenti dei gruppi dirigenti, sempre più selezionati per cooptazione. L'indagine su questa progressiva e reciproca
estraniazione fra vita dei politici e vita dei cittadini chiama in causa fenomeni più profondi, la cui genesi non è direttamente riconducibile alla politica: scrive Pierluigi Castagnetti “I processi di mediatizzazione e di informatizzazione della comunicazione, che hanno lentamente e inesorabilmente trasformato la società civile italiana in soggetto non più attore ma spettatore della politica, hanno indotto la politica ad adeguarsi alla logica stringente del mercato dello spettacolo mediatico, che insegue forme nuove di agonismo e inevitabilmente di personalizzazione delle leadership”32. Il tentativo che ha caratterizzato le forze politiche nel
nostro Paese ha mirato a incanalare tale fenomeno secondo modalità innovative che riuscissero nell’arduo compito di conservare e, insieme, rinnovare le potenzialità democratiche di tale spinta. 31 M. Duverger, cit. in M. Vaudagna, Il partito politico americano e l'Europa, Feltrinelli, Milano, 1991, p. 104. 32 P. Castagnetti, Quale «forma partito» per l'alternanza? La sfida della democrazia interna, in “Aggiornamenti sociali”, Febbraio 2007.
La sfida della partecipazione 37
La costante matrice personalistica che ha caratterizzato la politica italiana (e non solo) negli ultimi anni ha cercato di riannodare quel filo diretto tra governanti e governati che la nuova dimensione mediatica della scena pubblica reclamava con forza. Dall’intreccio tra questo copione personale e questa arena pubblica all’ultimo livello di mediatizzazione ha scritto ancora Castagnetti, è sorto ed è andato consolidandosi “un nuovo tipo di voto, il voto “impressionista”, un voto in cui i leader contano molto più dei partiti; la personalizzazione ha così la meglio sui programmi e le impressioni finiscono col prendere il posto delle opinioni” 33. È questa la genesi del “partito personale”, secondo la definizione di Mauro Calise. Giustamente ha rilevato Norberto Bobbio: “Partito personale è una contraddizione in termini. Il partito per definizione è una associazione di individui che stanno insieme per raggiungere uno scopo comune”34. A tal proposito si è parlato di una “partitocrazia senza
partiti”. Il perdurare del controllo partitico sulla macchina di governo si accompagna all’affermazione di partiti politici profondamente diversi da quelli del passato. “La differenza principale”, continua Calise, “consiste nel fatto che l’apparato collegiale, di tipo organizzativo e ideologico, col quale operavano i partiti della Prima Repubblica è stato, in gran parte, smantellato e sostituito con un apparato personale. I partiti stanno diventando macchine personali al servizio di questo o di quel leader politico"35. Il logico corollario di un sistema partitico basato sulla
figura determinante e coagulante del capo è di 33 Ibidem. 34 N. Bobbio, Contro i nuovi dispotismi: scritti sul berlusconismo, Bari, Edizioni Dedalo, Bari, 2008, p. 63. 35 M. Calise, Il partito personale, p. 15.
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straordinaria importanza, poiché investe le dinamiche profonde in cui la vita politica si manifesta e si esaurisce. Così, all’appartenenza partitica fondata sulla lealtà, sull’ideologia condivisa, si sostituisce un legame tra capo e seguaci fondato su nuove e diverse basi. In questo frangente, il ruolo di collante è svolto da sollecitazioni emotive o interessi particolari. Una storica teorizzazione delle determinanti del voto,
formulata nel 1966 da Campbell, Converse, Miller e Stoke36, individua una batteria di elementi, che sono: • L’identificazione con un partito; • Le tematiche salienti; • La personalità dei candidati. Tornando alla classificazione proposta da Calise, nel
nuovo sistema politico italiano “dove, fino a ieri, regnava la logica dell’azione di gruppo, organizzata e orientata a un fine esplicito, oggi prevale la strategia individuale mirata a un vantaggio immediato, preferibilmente nascosto, oppure la mobilitazione di massa dettata dall’adesione improvvisa a un nuovo idolo.” Appare appropriato, in questo frangente, il richiamo alla
celeberrima classificazione delle tipologie di potere elaborata da Max Weber. Come annota ancora Calise, “stiamo assistendo (nella vita dei partiti) a un ritorno del potere patrimoniale e carismatico ai danni di quello legale‐razionale su cui si erano fondate le antiche burocrazie di partito”37. In sostanza, al potere radicato nella credenza della
legalità degli ordinamenti statuiti, su cui si fonda la legittimazione dei governanti all’esercizio delle proprie 36 G. Pasquino, Sistemi politici comparati, Bologna, Bononia University Press, 2003, p. 34 37 M. Calise, Il partito personale, p. 33.
La sfida della partecipazione 39
funzioni, si va sostituendo quella forma di potere (o meglio, di autorità, per utilizzare la terminologia weberiana), che trova la propria ragion d’essere nella dedizione straordinaria verso un individuo e le sue gesta. Una personalizzazione impersonale e irresponsabile,
quella che caratterizza la politica italiana. “Una democrazia mediatica, affollata di volti e nomi noti e visibili. Che, tuttavia, ha ridotto e quasi abolito la possibilità, per gli elettori, di esprimere scelte e preferenze "personali". Visto che ormai la costruzione delle rappresentanze politiche e parlamentari è un fatto praticamente esclusivo dei partiti, ridotti a cerchie di gruppi dirigenti ristrette e centralizzate”, scrive il politologo Ilvo Diamanti. 38 In generale le modalità di coordinamento dell’offerta
dei candidati e dei partiti con le modalità di persuasione degli elettori dipendono dai sistemi elettorali e da quelli partitici, con riferimento alla volontà dei dirigenti di ricorrere ad alleanze e alla disponibilità degli elettori a tenere conto delle indicazioni dei partiti e alle loro informazioni in materia. Restando in tema di legge elettorale, in Italia la costruzione delle rappresentanze politiche e parlamentari è affidata ai partiti. L'ultima legge elettorale italiana ha infatti introdotto un sistema proporzionale seppure spurio, per cui i candidati «eletti» in Parlamento sono di fatto predeterminati dai vertici di partito, con un sistema di liste bloccate che esclude ogni facoltà di scelta per gli elettori. Non a caso, nelle note introduttive dell'incontro sul
tema Le primarie in Italia: selezione dei candidati o legittimazione della leadership? tenutosi a Firenze il 2 38 I. Diamanti, Perché non avremo mai un Obama o un Mc Cain, “La Repubblica”, 7 settembre 2008.
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dicembre 2005, Riccardo Nencini poneva l'accento sul “circolo perverso che si determina tra l'oligarchia politica, che accede ai mezzi di informazione e in essi si rafforza, e il ruolo dei mezzi di informazione come canale di legittimazione della stessa oligarchia politica.” Una forma di personalizzazione, quella italiana, molto diversa dal modello statunitense, essendo fondata su un meccanismo che Nencini non esita a definire “un circolo perverso”, al punto che, talvolta, “l'indice di rappresentatività di un politico si misura più sull'indice di gradimento televisivo, o meglio, sul tempo di esposizione mediatica, che sulla vera legittimazione che questi riceve dagli elettori”39. Un percorso, quello di affermazione della propria
autorità attraverso il mezzo televisivo, a cui non si sottrae nessuna delle forze in campo. Perché si è leader se si va in televisione, e si va in televisione solo se e quando si riesce a vincere la battaglia intestina nell'ambito dei vari gruppi dirigenti. Al punto che lo stesso confine tra comunicazione
politica e comunicazione elettorale risulta sempre più assottigliato, dal momento in cui si sviluppa la cosiddetta campagna permanente, o permanent campaigning. Come scrive Michele Sorice, “la campagna permanente rappresenta un nuovo tipo di relazione fra partiti/candidati e cittadini e costruzione del consenso”40. Si tratta di un fenomeno, continua ancora Sorice, alla cui radice vi è lo “sviluppo concomitante di diverse variabili: la centralità del medium televisivo, la diminuzione della
39 R. Nencini, Le primarie in Italia: selezione dei candidati o legittimazione della leadership? Introduzione agli atti del Convegno, n “Quaderni dell'Osservatorio elettorale”, n. 55. giugno 2006. 40 M. Sorice, Comunicazione politica, in D. E. Viganò (a cura di), Dizionario della comunicazione, Roma, Carrocci, 2009.
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centralità del servizio pubblico radiotelevisivo, l'accentuazione dei fenomeni di leaderizzazione e spettacolarizzazione della politica, la frammentazione e crisi delle grandi ideologie a favore di un maggiore peso della personalità dei singoli leader, il cambiamento in senso maggioritario di alcuni sistemi elettorali, l'affermazione di nuovi modelli sociali (performing society) spesso basati su logiche di spettacolarizzazione e autorappresentazione. L'affermazione personale si manifesta prima di tutto di
fronte ai propri avversari interni, e solo in secondo luogo di fronte alle opposizioni e al proprio bacino elettorale. D'altronde molti importanti autori avevano sottolineato il ruolo politico della carta stampata nel nostro paese: “Il giornale”, scriveva Umberto Eco nel 1971, “è il bollettino di un gruppo di potere che fa un discorso ad altri gruppi di potere.”41 E già nel 1959 Enzo Forcella, cronista politico del
quotidiano torinese La Stampa, denunciava l'assoluta autoreferenzialità della stampa politica del Belpaese, un mero instrumentum regni piuttosto che un moderno mezzo di comunicazione di massa: “Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i ministri e i suoi sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, altri prelati e qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende 300mila copie.”42 Una commistione, quella tra mondo dell'informazione
41 U.Eco, Guida all'interpretazione del linguaggio giornalistico, in V. Capecchi e M. Livolsi, La Stampa quotidiana in Italia, Milano, 1971, p. 375. 42 E. Forcella, Millecinquecento lettori. Confessioni di un giornalista politico, Roma, Donzelli editore 2004, p. 3.
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(e della comunicazione) e sistema politico che, di fatto, situa i partiti le loro gerarchie in una zona d'ombra tra i due universi, i cui confini appaiono confusi e indefiniti, contribuendo a cementificare quelle classi dirigenti chiuse e autoreferenziali che dovrebbero invece essere cosa ben diversa dai partiti. Pur tuttavia, insieme ai fenomeni già descritti, della crisi
dei partiti e della personalizzazione della politica, non possiamo non sottolineare come uno degli effetti che la mediatizzazione ha avuto sulla vita e sul funzionamento dei partiti politici sia stato il trasferimento dei meccanismi di reclutamento del ceto dalle macchine di partito ad agenti esterni al sistema partitico, che adottano criteri alieni e fuori dal controllo dei tradizionali selezionatori di partito. Non si tratta ovviamente di un processo registrato
uniformemente, ma di una diffusa influenza del sistema dei media e delle sue manifestazioni, sulla selezione delle élite, sia nelle fasi preliminari che in quelle di voto. Come scrive Michele Sorice, “gli effetti del processo di
mediatizzazione sono di tipo strutturale dal momento che insistono sulla struttura del sistema politico”43. Secondo una distinzione di Giampietro Mazzoleni, gli effetti possono essere racchiusi in due macrocategorie, effetti mediatici ed effetti politici. “I primi ‐ nota ancora Sorice ‐ riguardano principalmente gli aspetti concernenti l'uso dei media nella comunicazione politica, mentre i secondi vanno collocati nel meccanismo di funzionamento del sistema politico.”44 Per quanto riguarda le elezioni primarie negli Usa, molti
autori hanno fatto riferimento al cosiddetto winnowing 43 M. Sorice, Comunicazione politica. 44 Ibidem.
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effect, o, potremmo definirlo in italiano, “effetto setaccio”. Continua Mazzoleni, “I newsmedia puntano i riflettori su alcuni candidati che essi ritengono più media‐genici”, cercano di drammatizzare la loro campagna, assicurano un'intensa copertura informativa, fino a creare candidati‐personaggi, a scapito di altri che rimangono fuori dal fascio di luce dei riflettori.”45 L'effetto è esattamente quello di un setaccio, e mira alla
selezione di quei candidati che poi avrebbero qualche chance di vittoria finale: in questo senso, l'azione dei media è totalmente sostitutiva di quella selezionatrice che ha caratterizzato le moderne macchine partitiche. Scrive Giovanni Sartori “la televisione ha tradotto la
politica in videopolitica, che tende a distruggere ‐ dove più, dove meno”, il partito, o quantomeno, il partito organizzato di massa che in Europa ha dominato le scene per quasi un secolo. Non è che la televisione è strumento di e per candidati anziché medium di e per partiti: è anche che il rastrellamento dei voti non richiede più un'organizzazione capillare di sedi e di attivisti”46. Le decisioni di voto, in un orizzonte di partiti così
indeboliti e soggetti alle logiche personalistiche della comunicazione mass‐mediale sono mosse da molteplici fattori, elencati da Giampietro Mazzoleni. Essi sono: • la preferenza politica negativa, che si traduce in
un'avversione (spesso a priori) per un candidato o un partito; • l'identificazione partitica, che, come abbiamo detto,
rimane una variabile centrale pur diminuendo di peso; • l'identificazione di area, ossia l'autocollocazione
45 G. Mazzoleni, La comunicazione politica, p. 127. 46 G. Sartori, Homo videns. Televisione e post‐pensiero, Roma‐Bari Laterza 1997, p. 77.
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dell'elettore su un continuum sinistra‐destra; • l'immagine del leader, e siamo al punto cruciale,
perché la valutazione, in questo caso, non avviene sulla base del partito di appartenenza (al massimo continua ad avere un peso l'area), ma sulla base del carisma, della personalità e dell'immagine complessiva del leader. È proprio su quest'ultimo aspetto che si impone con più
urgenza il legame, ormai ineludibile, tra decisione elettorale e comunicazione di massa, come spiegano Renato Mannheimer e Giacomo Sani, con riferimento alle campagne italiane del 1993, 1994 e 1996: “Come arrivino i cittadini a formarsi un'idea dei diversi
partiti è un tema ancora poco esplorato, ma ci pare ragionevole supporre che gli elettori siano influenzati anche e soprattutto dalle immagini dei leader che la televisione porta loro in casa col telegiornale, le tribune politiche e altri programmi. Del resto, l'importanza del fattore leadership nelle contese elettorali negli Stati Uniti e in alcune democrazie europee è ben nota ed è stata documentata in diverse ricerche. Il leader può funzionare come fattore risolutivo per gli incerti dell'ultima ora e può anche riuscire a strappare più di un voto dal campo opposto”47. Tra gli aspetti negativi di un'eccessiva
personalizzazione, e, conseguente, esposizione mediatica, della campagna elettorale per le primarie, vi è, indubbiamente, quello di vedere sovradimensionata la questione horse racing, la rivalità tra i due aspiranti nominees, e come essa viene drammatizzata, e quindi proposta agli spettatori/elettori in base a criteri di newsworthiness, dai mezzi di comunicazione di massa. 47 R.Mannheimer, G. Sani, Il mercato elettorale,Identikit dell'elettore italiano, Il Mulino, Bologna 1987 p. 107‐127.
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Non a caso la comunicazione è stata definita la base “epistemologica” su cui una campagna elettorale si sviluppa e si conclude. Tale base si fonda sulla necessità di costruire un ideale ring, su cui possa giocarsi la battaglia, sulla base del principio mediatico per cui no contest‐ no coverage.
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Capitolo 2 Le primarie della sinistra italiana
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2.1 Quali primarie?
La pubblicistica italiana ha inteso, come nozione comune di elezioni primarie, “quei procedimenti finalizzati a influenzare e/o a determinare la selezione dei candidati a successive elezioni, alle quali, in via di principio partecipi, ancorché con alcune limitazioni e ad alcune condizioni, lo stesso corpo elettorale di queste ultime, e che siano promossi da quanti (partiti e c.d. gruppi elettorali, da soli o in associazione tra loro) intendano appunto presentare candidati per l'elezione di cariche esecutive monocratiche ovvero per l'elezione a cariche rappresentative in assemblee, a qualsiasi livello di governo”48. Quando parliamo di selezioni primarie ci riferiamo a
una serie di metodi di selezione, che differiscono sulla base del grado di limitazione dell'elettorato attivo. Con riferimento all'esperienza europea, e soprattutto italiana, tuttavia, occorre introdurre una nuova nomenclatura, sulla base della natura normativa dell'elezione primaria. Omnis comparatio claudicat, bisogna ammetterlo.
Quella tra le elezioni primarie così come concepite e strutturate nel loro alveo originario, gli Stati Uniti, e il nostro Paese, risulta una comparazione, oltre che zoppicante, anche azzardata. Perché se da un lato si tratta di primarie istituzionalizzate, e interiorizzate dal sistema, dall'altra, nel modello italiano, non abbiamo che pochi esempi e tentativi condotti da una sola fazione politica. Il confronto appare utile tuttavia rispetto alle finalità e
agli obiettivi, di cui entrambe le forme di primarie condividono la natura più profonda, fatte salve le dovute differenziazioni tecnico‐politologiche. 48 C. Fusaro, Elezioni primarie: prime esperienze e profili costituzionali, in “Quaderni dell'Osservatorio Elettorale”, n. 5/2006, p. 43.
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Non è questa la sede per elaborare una discussione sull'opportunità di dotare il nostro Paese di una disciplina pubblicistica sulle elezioni primarie. Sappiamo che l'art. 49 della Costituzione considera i partiti soggetti di diritto privato, la cui disciplina interna è demandata a loro stessi. È questo il motivo per cui, in assenza di un intervento del legislatore, nel nostro Paese le primarie sono state considerate come facoltative e i loro esiti non sono vincolanti. Nel nostro Paese il 2005 ha costituito l'anno chiave per
l'introduzione delle primarie. In quell'anno, l'Unione, una coalizione che ha riunito dal 2005 al 2008 i partiti di centro‐sinistra, e precisamente Democratici di Sinistra, La Margherita, Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi, Italia dei valori, Sdi, Udeur e Movimento repubblicani europei, ha investito i propri elettori del compito di designare i propri candidati in tre occasioni: c) la scelta del candidato alla presidenza della regione
Puglia; ci) le elezioni regionali in Toscana, in cui la legge 70
del 2005 aveva regolamentato le primarie; cii) l'individuazione del candidato alla presidenza
del consiglio.
2.2 Le primarie della Regione Puglia. Il primo caso, quello della Regione Puglia, è emblematico della ratio con cui i vari esponenti del centro‐sinistra siano arrivati alla scelta di ricorrere alle primarie. Lo scontro finale si è svolto tra Francesco Boccia, esponente della Margherita, e Nichi Vendola, sostenuto da Rifondazione comunista. La logica coalizionale avrebbe imposto un
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accordo tra le parti, che è stato impossibile raggiungere. Così, il ricorso alle primarie è sembrato l'unico metodo di risoluzione dell'ennesima impasse causata dalle lotte intestine in seno alle forze di centro‐sinistra. Riguardo alla tipologia di primarie, il “Regolamento per
le elezioni primarie del Centro‐sinistra pugliese” ha previsto, per quanto riguarda i requisiti di selectorate, che potesse votare: 1. qualsiasi elettore munito di documento di identità; 2. residente nel Collegio elettorale; 3. disposto a versare un euro come contributo alle
spese; 4. disposto a sottoscrivere una dichiarazione di
condivisione del programma politico del centro‐sinistra. In occasione di tale consultazione i votanti sono stati
circa 80mila, circa il 7,7% di tutto l'elettorato del centro‐sinistra pugliese. Il candidato investito della scelta è stato, a sorpresa, Nichi Vendola con il 50,8% di voti, mentre Francesco Boccia, sostenuto dagli apparati partitici di Ds‐Margherita, ha ottenuto il 49,2% dei consensi. Alcuni punti da sottolineare: dell'elettorato che ha
deciso di votare alle primarie, ben il 60% non possedeva tessere partitiche. Un dato emblematico, che sottolinea come l'iniziativa delle primarie sia riuscita a intercettare l'interesse di una parte dell'elettorato, e della cd società civile, che evidentemente, pur anelando spazi di partecipazione e confronto, non si ritrovava negli schemi di affiliazione partitica. Un esperimento, seppur limitato per proporzioni e caratterizzazione regionale dell'elettorato, che ha però mostrato tutte le potenzialità dello strumento. Tanto più che, a differenza dell'altra regione dove le primarie sono state introdotte, e cioè quella Toscana che storicamente è parte delle “roccaforti
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territoriali” della Sinistra, e che ha da sempre un'alta tradizione di associazionismo civico e di partecipazione della società civile, la regione Puglia non presentava nessuna di queste caratteristiche. Una delle critiche principali all'esito delle primarie in
Puglia è stata quella, che appartiene anche alla tradizione politologica statunitense, di costituire l'espressione di un elettorato radicale, estremista. In una competizione come quella italiana, in cui il voto dell'elettorato centrista è storicamente indispensabile per la conquista e il mantenimento del potere, la scelta di un candidato proveniente dall'ala sinistra, avrebbe significato, secondo molti commentatori: 1. che le primarie, di fatto, consentono la sola
espressione e partecipazione di fasce estremiste a scapito degli elettori moderati; 2. che una scelta di questo tipo avrebbe significato una
sconfitta quasi inevitabile alle successive elezioni finali. Per dirlo in altre parole, le elezioni primarie
sacrificherebbero la competitività finale sull'altare dell'idealismo estremista. Perfino Giovanni Sartori, all'indomani della prima
vittoria di Vendola, non esitava a dichiarare, dalle pagine del Corriere della Sera “La scelta di Vendola faciliterà la vittoria di Fitto”. Cosa che invece non è avvenuta. Non solo Nichi Vendola
ha sconfitto, seppur di misura, il presidente uscente del centro‐destra Raffaele Fitto (che oltre che del fattore incumbency godeva di un fortissimo radicamento sul territorio, grazie alla decennale esperienza politica paterna tra le file della Democrazia Cristiana locale), ma ha ribattuto nuovamente lo stesso Francesco Boccia nelle successive elezioni primarie indette il 24 gennaio 2010.
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Questa volta, i partecipanti alle primarie hanno toccato quota 192.000. Di questi, ben il 67,24 % ha premiato il presidente uscente. Che, subito dopo, ha riconquistato la presidenza della Regione con il 48,7% delle preferenze. Insomma, un'esperienza vincente, quella delle primarie
pugliesi, che sono riuscite a sopperire, nell'ambito di una più ampia strategia complessiva, ad almeno tre funzioni cruciali: • la funzione di mobilitazione e motivazione interna; • la funzione di legittimazione della leadership; • la funzione di comunicazione all'esterno. Non c'è dubbio che, riguardo alla capacità di
mobilitazione, le primarie di Nichi Vendola abbiano saputo costruire nuovi canali di motivazione e partecipazione dell'elettorato, canali che hanno saputo superare l'effimero momento elettorale e l'entusiasmo passeggero della vittoria per approdare nell'esperienza della Fabbrica di Nichi Vendola, una rete di attivazione volontaria e permanente che utilizza il web per radicarsi nel territorio e trovare forme di espressione e di coordinamento nazionale. Per quanto riguarda la questione leader, la vicenda del
presidente pugliese ha dimostrato, se necessario, che c'è un elettorato da ascoltare e da tenere in considerazione che desidera smantellare il potere delle macchine partitiche e delle loro scelte oligarchiche. Infine, per quanto riguarda la comunicazione, gli effetti
delle primarie pugliesi hanno avuto un valore multiforme: se, infatti, sono riuscite efficacemente a comunicare una ritrovata volontà e un impegno di democratizzazione interni delle forze di Sinistra, dall'altra hanno fornito un'immagine contraddittoria dell'Unione, che è apparsa una compagine ancora attraversata da lotte intestine, e da
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un'élite di vertice che in troppe occasioni è apparsa come l'ostacolo più consistente agli slanci propositivi della propria base elettorale e della società civile in senso più ampio.
2.3 Le primarie per il candidato premier: l'esperienza italiana Il 2005, l'abbiamo detto, è stato l'anno delle primarie per il centro‐sinistra italiano. Al fine di regolamentare tutta la procedura, l'undici luglio 2005 è stato redatto il Regolamento quadro per le primarie 2005. Il documento ha, in calce, la firma di tutti i leader della coalizione: Romano Prodi, Piero Fassino (segretario Ds), Francesco Rutelli (Margherita), Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi), Antonio Di Pietro (Italia dei valori), Luciana Sbarbati (Repubblicani europei), Fausto Bertinotti (Prc), Oliviero Diliberto (Pdci), Clemente Mastella (Udeur) ed Enrico Boselli (Sdi). Il regolamento contiene alcuni importanti spunti di
riflessione. Con riferimento alle candidature, non è richiesto alcun requisito particolare se non la titolarità del diritto di voto attivo e passivo per le elezioni della Camera dei deputati. Ogni candidato deve presentare una lista di non meno di 10.000 firme di cittadini, titolari dei diritti politici, firmatari del “Progetto per l'Italia”. In questo senso, il limite di 10.000 firme è stato posto per evitare candidature prive del minimo sostegno e di quella rappresentatività necessaria a chi si presenta a questo tipo di elezione, per cui è fondamentale il radicamento presso gli elettori. Anche per questo, le 10.000 firme devono essere raccolte in almeno dieci regioni.
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Questa prima scrematura ha portato alla designazione di sette candidati: Romano Prodi, Fausto Bertinotti, Antonio di Pietro, Clemente Mastella, Simona Panzino, Ivan Scalfarotto e Alfonso Pecoraro Scanio. Sul frangente candidacy, la scelta è andata verso le
primarie semi‐chiuse. Gli elettori devono essere: cittadini con diritto di voto, sottoscrittori del “Progetto per l'Italia”, disposti a versare almeno un euro come contributo alle spese organizzative. Appare chiaro che i requisiti posti all'espletamento dell'esercizio elettorale non sembrano sufficienti, di per sé, a sopperire alle finalità per cui sono concepite le primarie chiuse e cioè evitare le possibili interferenze esterne, ad esempio da parte dei militanti di altri partiti (una “teoria radical‐chic”, quella degli infiltrati, secondo alcuni illustri commentatori), che potrebbero votare in massa per un altro concorrente, con lo scopo di avvantaggiare uno degli outsider che risulterebbe perdente alla competizione elettorale. Pur tuttavia, come scrive Gianfranco Pasquino, alcuni
criteri contano più di altri: • come abbiamo detto, l'accesso dei candidati
attraverso un numero di firme deve bloccare le candidature folkloristiche senza comprimere però la possibilità delle associazioni di presentare propri candidati; • la previsione di alcuni confronti tra i candidati di
fronte all'elettorato; • la facilità dell'espressione di voto da parte degli
elettori. Romano Prodi è il vincitore annunciato di queste
primarie di coalizione, che hanno raccolto 4.300.000 di voti, di cui solo un milione proveniente dagli iscritti al partito. La cifra di un milione doveva essere considerata lo
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zoccolo duro dell'elettorato primario del centro‐sinistra. Alcuni autori, come abbiamo visto, sottolineano il
carattere “estremo” degli elettori delle primarie. Si tratterebbe, secondo questi studiosi, di preferenze intense che in questa competizione del 2005, trovavano espressione nell'elettorato post‐comunista di Fausto Bertinotti e in quello, “estemista di centro” di Clemente Mastella, il quale ha giocato sul proprio radicamento territoriale nelle regioni del Sud, tanto da essere paragonato da Gianfranco Pasquino ai favorite son di alcuni stati delle primarie statunitensi. Quello che si evince con più facilità dall'analisi di queste
prime primarie è che l'influenza maggiore è stata esercitata da quelle reti associative che circondano i partiti, specie quelli di centro‐sinistra. Scrive ancora Gianfranco Pasquino, “lungi dall'essere una sfida ai partiti esistenti che li svuoterebbe buttandoli via come gusci vuoti, le primarie hanno messo in evidenza che i partiti del centro‐sinistra sono circondati da reti associative, che sono potenziali collaboratori dei partiti su un piano di reciprocità e di parità e, nella misura possibile, contribuire alla loro trasformazione”49. Insomma, l'analisi delle primarie del 2005 deve andare
al di là del risultato elettorale in sé: non si può non sottolineare infatti, l’ esperimento delle elezioni primarie andato in porto il 16 ottobre 2005 abbia costituito, per alcuni aspetti, la fase prodromica di quel processo che ha elaborato i passi necessari alla costruzione del Partito democratico. Un vero e proprio viaggio, che è iniziato alla chiusura delle urne: un percorso fatto di incontri, votazioni e dibattiti (talvolta infiniti), in cui quel
49 G. Pasquino, Democrazia, partiti, primarie, p.36.
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«meccanismo ad altissima politicità» rappresentato delle elezioni primarie ha avuto un ruolo cruciale. Tale meccanismo ha, di fatto, estrinsecato il proprio
potenziale nelle molteplici di funzioni utili agli elettori, ai partiti e alla democrazia. Quando si parla di elezioni primarie, infatti, si fa riferimento a una molteplicità di obiettivi che travalicano la mera selezione dei candidati. In questo senso, Fusaro ha individuato almeno sette obiettivi: 1. la ricerca di una legittimazione popolare del
candidato; 2. il confronto tra possibili candidati finali, preliminare
alla campagna elettorale vera e propria; 3. la mobilitazione dell'elettorato; 4. la verifica dell'impatto delle proposte
programmatiche; 5. l'apertura a nuovi candidati, poco noti all'elettorato; 6. la separazione (è questo un punto cruciale
nell'ambito della politica italiana) tra competizione intra‐partitica e competizione esterna; 7. infine, la partecipazione degli elettori in un contesto
specificatamente dedicato alla selezione.
2.4 Le primarie come antidoto all’antipolitica? Quest'ultimo punto merita una riflessione a sé. Il successo delle elezioni primarie in Italia consiste anche e soprattutto nell'aver saputo incanalare alcuni fenomeni, o almeno nel tentativo di cominciare a farlo. Per dirlo con altre parole, si è tentato di canalizzare verso metodi riconosciuti e legittimati dal sistema quella spinta partecipativa che da anni caratterizzava alcuni lembi della cosiddetta società civile, spogliandoli di quella opacità che
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li rendeva difficilmente individuabili e leggibili. Si tratta della cosiddetta antipolitica, di quei movimenti che, non trovando espressione tramite l'affiliazione partitica e il meccanismo elettorale, richiamavano l'attenzione su una rinnovata esigenza di democratizzazione. I circa 4.300.000 cittadini che si sono diligentemente
recati a votare hanno versato un contributo economico, sostenuto lunghe code, sottoscritto un programma e che, infine, hanno espresso la propria scelta infilando una scheda in un’urna, delineano una società civile che si è avviata verso il superamento di quell’annosa frattura che poneva la politica in una dimensione di separazione e distanza rispetto a un elettorato sempre più mutevole La scelta di vestirsi dei panni dell’elettore il 14 ottobre ha contribuito a far emergere con ineludibile urgenza una sete di politica, una necessità di politica che non tutti avrebbero sospettato appartenere al nostro Paese. Non a caso, alla vigilia dell'appuntamento elettorale con
le primarie, la stima sull'affluenza elettorale si aggirava sul milione, milione e trecentomila persone. Questo perché i cosiddetti movimenti dell’antipolitica erano stati esclusi dalle stime relative all’elettorato potenzialmente mobilitabile. La chiave di lettura utilizzata confinava tali movimenti nell’alveo del comportamento collettivo fuori dagli schemi di partecipazione tradizionale. Al contrario, se è vero che, per utilizzare le parole di Alberoni, un movimento “è il processo storico che ha inizio con lo stato nascente e che termina con la ricostituzione del momento quotidiano istituzionale”50, ecco che anche la ritrovata partecipazione dei fautori dell’anti‐politica trova una chiave lettura soddisfacente. Come a dire che tali
50 Alberoni, 1981, 374.
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movimenti, dopo una prima fase (uno stato nascente appunto) di rottura e di contestazione, hanno finito per andare alla ricerca di una forma di istituzionalizzazione che impedisse una loro effimera (e forse inevitabile) dissoluzione. Secondo tale prospettiva il ruolo delle primarie nel
2005 è stato di (inaspettata) importanza: esse hanno infatti fornito a tutta quell'area proveniente dalla società civile e non dagli apparati partitici la possibilità di manifestare la propria esistenza e di incidere sulle modalità di accesso ai canali di partecipazione politica e nello spostare i rapporti di forza. Un contributo straordinario, ancora più importante se si
ripensa che la genesi di queste elezioni primarie ha dovuto (e saputo) fare a meno del medium di propaganda e mobilitazione per eccellenza: la televisione. Nei mesi di gestazione delle primarie, infatti, i mezzi di comunicazione di massa hanno riservato alla genesi del fenomeno un’attenzione intermittente, superficiale e sospettosa, uno sguardo riduttivo e distratto. Ciononostante, la partecipazione elettorale è stata notevole. Un ruolo diverso è stato svolto però dai nuovi media: il “popolo della rete” e i vari siti dedicati all'evento hanno riempito il silenzio televisivo e ha consentito la circolazione delle informazioni e la creazione di un clima di opinione attorno all'evento. In questo senso i nuovi media, o “media non tradizionali” hanno indebolito il tradizionale potere di negoziazione che la televisione e i mass media hanno sempre avuto nei confronti della politica e hanno garantito ai vari gruppi di pressione di bypassare la mediazione intrusiva e fastidiosa del medium tradizionale per stabilire con il pubblico/elettorato contatti rapidi, immediati e interattivi.
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Si tratta, per dirla con Graber, di tutta una serie di cambiamenti che i nuovi media inevitabilmente impongono alla comunicazione politica, e che sono51:
1. la moltiplicazione dei canali di comunicazione politica;
2. la fine della “tirannia degli orari”, visto che internet e le tv satellitari sono attive 7/24;
3. la diminuzione del ruolo di gatekeepers affidato ai giornalisti come selezionatori e produttori della notizia e come mediatori tra opinione pubblica e potere politico.
Non si può, a questo punto, evitare l'interrogativo su come, in assenza del consueto coverage televisivo, e in un paese dove la TV ha avuto e continua ad avere un potere simile, una simile partecipazione possa essersi affermata. Assumendo a riferimento una pluralità di dimensioni è
possibile individuare elementi utili a comprendere quanto è accaduto e sta accadendo in Italia. Pippa Norris nel 199752 ha proposto di dividere il percorso evolutivo delle campagne elettorali in: 1. Campagne “Pre‐moderne” (fino al 1950 circa); 2. Campagne “Moderne” (fino a metà anni ’80); 3. Campagne “Post‐moderne” (quelle attuali). Le differenze tra queste tre fasi non riguardano solo la
durata della campagna, che da breve passa a lunga e poi a permanente, ma anche ad altri elementi, come: o L’orientamento dell’elettorato (il voto si caratterizza
prima come stabile, poi fluttuante, poi intermittente). o L’organizzazione della campagna (da principalmente
locale diventa esclusivamente nazionale, per essere poi 51 G. Mazzoleni, La comunicazione politica, p. 94. 52 Cfr. P. Norris, Politics and the press: the news media and their influences, Library of the Congress, 1997.
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gestita ad un doppio livello, locale‐nazionale). o La presenza o meno di consulenti politici. o Il tipo di comunicazione politica prevalente (nella
prima fase interpersonale e locale, nella seconda mediale e nazionale, nella terza integrata e locale/nazionale). o L’entità dei costi (da modesti a elevati a molto
elevati). Farrell e Webb nel 2000 hanno ripreso lo studio di
Pippa Norris del 1997 e hanno elaborato uno schema analogo di tripartizione delle campagne elettorali, da cui Farrell deriva l’analisi che presenta nel 2006 in un saggio contenuto nell’Handbook of Party Politics a cura di Katz e Mair. Questa analisi consiste in una nuova esemplificazione
dello sviluppo della professionalizzazione e, più in generale, delle campagne elettorali, che vengono suddivise in tre fasi: 1. La prima fase si caratterizza per un basso progresso
tecnico e una comunicazione interamente gestita attraverso il partito. Inoltre, il partito è il principale agente per quanto riguarda le risorse, sia per la raccolta fondi che per la ricerca di attivisti volontari. Ancora, è la campagna locale ad essere predominante, mentre limitati sono la centralizzazione e il coordinamento. Per quanto riguarda le tematiche, gli eventi sono costruiti sulla base di un leader cui è demandato il rapporto diretto con un pubblico costituito da gruppi dalla origine sociale stabilita. Da ciò deriva che è molto più forte la volontà di mobilitazione piuttosto che quella di persuasion 2. La seconda fase vede lo sviluppo tecnologico dei
mezzi di comunicazione di massa, e in particolare dall’avvento della televisione. Questo determina una serie di conseguenze tra cui l’allungamento delle campagne
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elettorali, la necessità di professionisti con competenze specifiche e in grado di guidare i candidati, e, infine, una maggiore necessità di fondi. Ancora, la campagna si nazionalizza, potere e risorse si accumulano quindi al centro e viene attribuita maggiore centralità al leader di partito. Infine, cambia anche il pubblico di riferimento, che diventa ampio e diversificato socialmente al suo interno. 3. La terza fase della professionalizzazione si colloca
nell’epoca delle ultime evoluzioni tecnologiche dei mezzi di comunicazione di massa, come quella satellitare e internet. Tra le caratteristiche di questa terza fase c’è, in primo luogo, l’avvento della campagna permanente. In secondo luogo, la realizzazione delle campagne elettorali è in genere affidata a uno staff di professionisti. Per quanto riguarda il messaggio, si tende sempre più alla costruzione di messaggi mirati, con un grande uso della rilevazione del feedback, che comporta la scelta di adattare il messaggio al pubblico. In tale contesto ritornano con rilevanza le interazioni
che si stabiliscono tra gli individui all’interno delle reti sociali delle quali fanno parte. La campagna postmoderna, quindi, continua a ricorrere alla comunicazione televisiva ma, contemporaneamente, ricorre ad altri mezzi comunicativi legittimando come attori della campagna tutti quei soggetti che producono interazioni comunicative all’interno di una rete di rapporti. I suddetti elementi caratterizzanti la campagna postmoderna fin qui elencati permettono di considerare l’esperienza delle primarie come un passo significativo verso la realizzazione di forme comunicative e di mobilitazione che si sottraggono al monopolio televisivo e mostrano di sapersi avvalere di canali alternativi. Un passo, ancora, che ha introdotto con forza nuovi attori sulla scena, capaci di dar vita a una
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rappresentazione della politica alla quale non si assisteva da tempo. Abbiamo già delineato, seppur brevemente, il quadro di
più ampia mediatizzazione della società, nel cui ambito assumono progressiva rilevanza assunta nuovi attori, al punto che la costruzione della dimensione politica è responsabilità di un vasto apparato di soggetti che non trova o non vuole trovare spazi di visibilità esclusivamente all’interno di uno schermo televisivo. Questo perché si tratta di un'azione politica che trova il
proprio fondamento nelle relazioni interpersonali e nelle stesse che nascono e attraversano spontaneamente la Rete, sulla scorta di una sollecitazione prodotta dall’azione dei cittadini che ha avuto la propria compiuta consacrazione nel momento elettorale delle primarie. Sappiamo che nel nostro Paese, per molti anni, la
televisione è stata la variabile indipendente di molti cambiamenti sistemici, culturali e politici registrati nel tempo. Come ha scritto Mazzoleni, essa è stata “co‐protagonista insieme ai grandi attori che l'hanno usata (o strumentalizzata), oppure testimone, a volte suo malgrado, di drammi spaventosi o di eventi eccezionali, oppure agente essa stessa dei grandi e piccoli cambiamenti che hanno modificato gli scenari politici nazionali e anche mondiali”53. Ebbene, a questo punto, dopo un'epoca di campagne televisive così forti, la frammentazione dell'offerta e la diversificazione dovuta al pluralismo culturale e mediale hanno determinato una battuta d'arresto Altri soggetti hanno affiancato il mezzo televisivo nei processi di lettura e interpretazione della realtà. L’affiliazione individuale a reti sociali, seppure di
53 G. Mazzoleni, La comunicazione politica, p. 89.
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tipo così differente a quelle del passato, offre ritrovi e modalità comunicative prive di quella ufficialità, rilevanza e visibilità che offre la mediazione televisiva, ma dotate di un'efficacia diretta. Accanto alla narrazione affidata all'attore televisivo,
altri attori che si muovono in riferimento ad aree e segmenti diversificati producono nuovi forme di rappresentazione elaborate in sedi diverse: nei gruppi di discussione on line, nei siti delle associazioni e dei partiti, ma anche nelle occasioni di contatto che quotidianamente l’esistenza ci offre. Si tratta insieme di un’evoluzione in senso moderato,
per certi versi naturale, dell’antipolitica, che tramite le forme di campagna postmoderna ha trovato una canalizzazione propositiva che ha trovato la propria realizzazione più compiuta nel movimento delle primarie. A questo punto però, la palla deve passare alle forze politiche tradizionali. Spetta a loro riuscire a elaborare una proposta politica mobilitante e di diffonderla in un clima di civile confronto, per salvaguardare, e in qualche modo, raccogliere, lo slancio propositivo di questa parte dell'elettorato. Si tratta di un compito arduo, considerando che le forze di centro‐sinistra attraversano una stagione non particolarmente facile. La scomparsa delle forze più estreme dal Parlamento, l'esperimento del Partito democratico che si trova ancora a dover affrontare sanguinose faide intestine tra le correnti interne, non contribuiscono certo a mantenere intatta quella spinta che ha portato milioni di cittadini non solo a votare, ma anche e soprattutto a fornire un’interpretazione del significato di quella nuova forma di partecipazione politica. Non si può negare, (non ancora almeno) che la
grammatica del mezzo televisivo incida ancora in modo
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considerevole sul funzionamento della politica. Ciononostante, dal momento che, come si è detto, siamo entrati nella fase delle campagne postmoderne, come l’esperienza delle primarie sembrerebbe farci ritenere, non si può continuare a considerare la televisione come l’unica arena alla quale accedere. È necessario invece innescare un circolo sulla base di rinnovati tempi, codici e stili di comunicazione frutto dell’interazione tra piazza, reti e televisione con tutti i soggetti dotati di una forte valenza comunicativa. Questo circolo, che al suo interno comprende il mezzo televisivo, ha però un vantaggio dal punto di vista dell'attivazione attoriale: all'origine del processo comunicativo, infatti, vi sarebbero soggetti diversi a cui è necessario dare spazio nella costruzione della prossima campagna elettorale. E il movimento delle primarie, lungi dall'essere un mero momento di protesta e o di scontento, può e deve essere considerato quale momento di aggregazione, instrumentum di approccio in prima persona alla realtà, senza la mediazione di attori esterni. Il comune impegno di mobilitazione in questo modo può trovare il proprio compimento in quella naturale propensione degli individui ad aderire alla rete e di utilizzarla per rendere nota e visibile una proposta o una protesta. Non è questo il luogo in cui affrontare il discorso sulle enormi opportunità offerte dalle nuove tecnologie della comunicazione per creare circuiti di comunicazione e interazione verticali e orizzontali: tuttavia, non si può non sottolineare che questo è uno dei modelli tramite cui si potrebbe costruire un clima mobilitante tale da costituire una risposta appropriata alla domanda di partecipazione espressa da tutti coloro che hanno partecipato alle primarie.
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2.5 Le primarie del Partito democratico Il 2007 è un anno di svolta per la sinistra italiana. I Democratici di Sinistra e La Margherita decidono infatti di riunirsi sotto la bandiera del nascente Partito democratico. La creazione della nuova formazione partitica arriva al termine di un processo travagliato, al centro di numerose polemiche circa l'opportunità e i tempi di realizzazione dell'obiettivo. Proprio le elezioni primarie hanno costituito l’atto
costituente di quello che è andato configurandosi come il principale partito del centrosinistra italiano; così, ancora una volta, tramite le primarie si è proceduto alla designazione del Segretario Nazionale e alla convocazione della cosiddetta Assemblea Costituente. La consultazione elettorale ha avuto luogo il 14 ottobre
2007, raccogliendo 3.554.169 elettori, secondo i dati forniti dagli organizzatori stessi dell'iniziativa. Il processo di genesi di queste elezioni primarie prende
vita ufficialmente il 31 luglio 2007 quando il Coordinamento Nazionale comunica le candidature alla Segreteria Nazionale del Pd di Mario Adinolfi, Rosy Bindi, Pier Giorgio Gawronski, Enrico Letta, Jacopo G. Schettini e Walter Veltroni. Si tratta di un'elezione dall'esito già scontato, essendo
stato Walter Veltroni l'animatore di quel “soffio vitale” che ha costituito il nascente partito: molti osservatori, non a caso, hanno parlato di una investitura per acclamazione popolare, più che di una elezione. E in effetti, con un totale di 2.694.721 voti (75,82%)
Walter Veltroni è stato eletto il successivo 14 ottobre Segretario Nazionale del Partito Democratico.
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A seguito di una serie di confronti tra le anime del nascente Pd, viene individuato in Walter Veltroni, all'epoca sindaco di Roma, il candidato designato alla guida del nuovo partito, sostenuto dalla larga parte della Quercia e da ampi settori della Margherita, affiancato. La candidatura di Veltroni, presentata a Torino, il 27 giugno in quello che è stato definito “il discorso del Lingotto”, propone di essere una sintesi delle tematiche‐chiave che dovranno animare il nascente partito: ambiente, patto generazionale, formazione, sicurezza. Un “partito aperto”, per definizione del suo stesso
fondatore, “in primo luogo, ai giovani. Il gruppo dirigente dovrà essere composto, a tutti i livelli, dai nuovi ragazzi che nei partiti come nella società hanno voglia di spendersi per il loro futuro e per quello del Paese”. Un’apertura non solo generazionale, ma trasversale e intrinseca alla natura del partito stesso: “Aperto ai cittadini, a quei movimenti che nel corso di questi anni hanno interpretato meglio la domanda di cambiamento, di rinnovamento della politica, che veniva dalla società italiana.” La sfida della partecipazione è aperta e coinvolge tutte
le fasce storicamente escluse, e che, invece, manifestano con urgenza le proprie istanze e la propria volontà di partecipare, come spiega il futuro segretario: “un partito nuovo può dirsi davvero nuovo solo se sarà composto, a tutti i livelli, almeno per metà, da donne. Negli organismi, nei governi. Quelle donne che hanno realizzato conquiste fondamentali per sé e per la società intera. Le liste che saranno collegate ai candidati alla segreteria abbiano, ad esempio, un'alternanza di genere anche tra i capolista.” E proprio a proposito di donne, dopo l'annuncio della candidatura di Veltroni, la prima a scendere in campo è il
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ministro della Famiglia Rosy Bindi, che si presenta con un manifesto dal titolo Partito democratico, davvero e con il sostegno di Arturo Parisi e di una larga fascia di prodiani. Il programma della candidata, proveniente dalle fila della Margherita, è incentrato sui temi della pluralità, di un bipolarismo maturo, nonché sulla legalità, sulla laicità, sulle donne. In seguito il sottosegretario Enrico Letta, anch'egli di
provenienza diellina, decide di scendere in campo, annunciando la propria candidatura via web con un video messo in rete su Youtube nel quale lancia la sfida dei quarantenni, puntando sul ricambio generazionale. Tre candidati di provenienza partitica, cui si aggiungono
tre outsider, a rappresentanza delle varie istanze della società civile: in primis il giornalista e blogger Mario Adinolfi, che nel 2006 aveva fondato l'associazione Generazione U e che il 18 luglio presenta la sua candidatura alle primarie con una dichiarazione pubblicata sul quotidiano la Stampa. Vi è poi l'economista Pier Giorgio Gawronski,
economista e giornalista, che in passato era stato parte attiva dei comitati dei “Cittadini per l'Ulivo”, non risparmiando alla dirigente in carica numerose critiche nonché l'accusa di aver provocato il “deterioramento delle istituzioni”. Completa il quadro l'economista Jacopo Gavazzoli
Schettini54 che è il primo ad annunciare la propria partecipazione alle Primarie dopo Veltroni, il 3 luglio 2007, tramite una lettera aperta in cui dichiara la propria discesa il frutto di “sinistra liberale e rigorosa, non ideologica, ma pragmatica, meritocratica, e a forte
54 Dal novembre 2007 Schettini Gherardini.
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connotazione europea”. Sono sei, dunque, le candidature accettate, che saranno ufficializzate dal Partito democratico a fine luglio, dando l'avvio ufficiale alla campagna per le primarie del 14 ottobre. Vi è poi la vicenda degli esclusi, e, nello specifico, di Furio Colombo, Marco Pannella e Antonio di Pietro le cui candidature, per ragioni diverse, hanno subito il veto partitico. Vi sono poi Enrico Andreoni e Lucio Cangini che non hanno raccolto le 2000 sottoscrizioni necessarie e Amerigo Rutigliano, all'epoca segretario nazionale di Unità Democratica Sinistra Europea, le cui 2000 sottoscrizioni necessarie erano state consegnate in ritardo. La vicenda è diversa in riferimento ai primi tre esclusi.
Furio Colombo, ex direttore del quotidiano L'Unità e senatore in quota Ds, è al centro di un curioso intreccio. La sua candidatura era stata dapprima ammessa con riserva per motivi procedurali. Il Partito si riserva di verificare la sussistenza dell'ammissibilità per il fatto che il Senatore Colombo aveva presentato le 2000 firme necessarie tramite fax, e non in originale come previsto dal Regolamento. In particolare, l'ufficio tecnico‐amministrativo del "Comitato 14 ottobre", promotore del Pd, ammette la sua candidatura "con riserva", richiedendo gli originali entro 48 ore. Un atteggiamento, quello del partito, che Colombo non esita, dalle pagine dell'Unità, a tacciare di burocratismo di vecchio stampo, più in linea con il vecchio apparato comunista che con il Partito democratico aperto. Per questo motivo il senatore decide di ritirarsi dalla competizione. Non si ritirano invece Marco Pannella e Antonio Di Pietro, le cui candidature costituiranno motivo di polemica intra ed extra partitica. Pannella, storico leader dei radicali italiani, aveva annunciato pubblicamente la propria candidatura alcuni
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giorni prima della scadenza. Il problema principale risiedeva nel fatto che il Partito radicale non aveva mai manifestato l'intenzione di aderire al Partito Democratico. L'istrionico leader radicale, sostenuto anche dalla decennale compagna di partito Emma Bonino, ha spiegato la propria scelta come motivata "non solo dall'opportunità, ma dalla necessità di proseguire nella strategia radicale di assicurare al nostro Paese un'alternativa pienamente liberale, pienamente laica, pienamente socialista e radicale”55. Una vera e propria operazione di ambush marketing,
per utilizzare un termine mutuato in termini recenti dal linguaggio pubblicitario, presiede la candidatura di Antonio Di Pietro. Il ministro e leader, tramite il proprio portavoce, presenta le sottoscrizioni a favore della propria candidatura il 30 luglio alle ore 21, pochi minuti prima della scadenza del termine ultimo. L'Ufficio tecnico‐amministrativo del "Comitato 14
ottobre" ai sensi dell'art. 1 comma 2 e art. 7 comma 4 del regolamento, si pronuncia contro entrambe le candidature, individuando i due aspiranti candidati come “leader riconosciuti di forze politiche nazionali delle quali non hanno dichiarato lo scioglimento in modo esplicito ed impegnativo. “L'indicazione, infatti, è quella che ‐ per partecipare alle primarie ‐ bisogna manifestare l'intenzione seria e duratura di aderire al Pd e di sciogliere (così come hanno deciso di fare DS e DL) i partiti all'atto di nascita del Pd”. Opposte le reazioni al diniego dei due politici: Di Pietro
si trincera dietro la caustica dichiarazione ”Chi non ci vuole, non ci merita”, rinunciando così alla corsa; Pannella,
55 Cit in La Repubblica, 21 luglio 2007.
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invece, fa ricorso, dapprima davanti al Comitato, e in seguito al Tribunale Civile. Entrambi gli istituti respingono l'istanza e così i candidati rimangono i sei sopra elencati. Per quanto riguarda l'esito, abbiamo già fatto
riferimento al trionfo annunciato di Walter Veltroni. Il grafico illustra l'esito definitivo, con i risultati ottenuti dai
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diversi candidati: (fonte: www.repubblica.it) 2.6 Tra partecipazione e affermazione della
leadership: un tentativo di analisi Abbiamo visto come il 14 ottobre 2007 l'allora costituendo Partito democratico abbia scelto proprio indetto l'elezione primaria per eleggere direttamente il Segretario nazionale e i delegati dell'Assemblea Costituente nazionale del Pd, così come i suoi segretari regionali ed i componenti delle assemblee costituenti regionali. Bisogna precisare come alcuni autori abbiano rigettato
la nozione di primarie in riferimento a tale tipologia di consultazione, preferendo quella di “congresso en plein air” o, per utilizzare le parole di Michele Salvati, di un'Opa, intesa come “un'Offerta pubblica di adesione al nuovo partito”56 a cui tutti i cittadini disponibili a offrire un piccolo obolo e, elemento più importante, a fondare un nuovo partito avrebbero potuto partecipare. Non intendiamo in questa sede intervenire in questa
diatriba tra politologi: ci limiteremo quindi a considerare tale elezione a suffragio universale diretto dei dirigenti di un partito in via di formazione una forma di elezioni primarie. Il metodo delle primarie, d'altronde, è sancito dallo
Statuto nazionale del Pd, che parla di ricorso alle primarie in occasione di “elezioni che hanno ad oggetto la scelta dei candidati a cariche istituzionali elettive”. Le primarie del 14 ottobre, pur lette nell'ottica di
un'assemblea costituente, hanno avuto, come effetto di secondo grado, quello di selezionare la leadership in vista 56 M. Salvati, Manuale democratico per il nuovo partito,Bologna, Il Mulino, 207, p.603
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delle, seppur non programmate, elezioni politiche. Con l'elezione alla guida del neonato Partito
democratico, infatti, Walter Veltroni, è stato investito della carica di candidato naturale alla Presidenza del Consiglio in vista delle (anticipate) elezioni legislative del 2008. La scelta della data del 14 ottobre, a detta di molti, non
è certo stata casuale, ma mirava appunto a richiamare quella domenica "mitica" di due anni prima (16 ottobre), durante la quale Prodi venne scelto e legittimato leader del centro‐sinistra. Appare pleonastico precisare che le primarie del 14
ottobre 2007 sono differenti da quelle, idealtipiche e mitiche, del 16 ottobre 2005, che hanno selezionato Romano Prodi come candidato premier della coalizione di centro‐sinistra, per le caratteristiche del selectorate, ma, soprattutto, per l'intima natura delle consultazioni. Il motivo per cui tanti esperti sono restii a considerare
le elezioni del segretario come reali primarie risiedono probabilmente nell'unicità dell'esperimento. Nessun partito, in Europa e non solo, ha mai adottato questa azzardata genesi “democratica”. Tuttavia, anche in questo caso possiamo ricondurre la
riflessione attorno alle primarie costitutive di tale partito nell'ambito degli stessi trend di sviluppo sperimentati dai maggiori partiti politici europei che abbiamo introdotto nel primo capitolo. Abbiamo visto come la crisi dei partiti tradizionali abbia
implicato una loro evoluzione, o quanto meno trasformazione: una palingenesi fondata su una spiccata personalizzazione della politica nonché sul crescente processo di democratizzazione a livello di quelle cruciali funzioni innate degli apparati partitici, tra cui, appunto, il reclutamento stesso del personale politico e dei candidati
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a cariche pubbliche. Il Partito democratico, creatura nuova e frutto in un
certo senso dei tempi che lo hanno generato, è solcato da entrambe questi tendenze, che, normalmente, sono strettamente intrecciate tra di loro. Abbiamo già definito, per grosse linee, il fenomeno della
personalizzazione in ascesa nei partiti politici contemporanei. Si tratterebbe, per dirla con Schumpeter, dell'ascesa
“dell'imprenditore politico”, il cui compito è, di fronte alle “autentiche volizioni di gruppo”, quello di renderle “attuali trasformandole in strumenti di azione politica”57 . Non si può negare come una delle motivazioni al voto degli elettori “primari” sia sempre stata la necessità di individuare un leader riconosciuto per una fazione politica troppo spesso divisa al suo interno. L'investitura di Veltroni, acclamato coram populi come
àncora di salvezza politica, avviene con una percentuale così alta da far apparire indiscussa la leadership interna. Non a caso, molti commentatori hanno parlato di un
Walter Veltroni plebiscitato, più che eletto, pater patriae del nascente Pd. D'altra parte, come nota Michele Sorice, “la memorizzazione dei candidati potenziali da parte del pubblico e la loro immagine percepita assumono una grande rilevanza strategica proprio nel tentativo di fidelizzare l'elettorato fluttuante58”. Nel caso del centro‐sinistra non si può parlare
propriamente di “partito personale” o “partito del leader”, come invece appare più appropriato fare in riferimento a Forza Italia a al Pdl, creature di Berlusconi per genesi, 57 J. A. Schumpeter, Storia dell'analisi economica, Boringhieri, Torino, 1982, p. 280‐281. 58 M. Sorice, Comunicazione politica, p.321.
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strutturazione della leadership e provenienza aziendale‐pubblicitaria del personale politico. Non a caso Marco Maraffi, nel tentativo di delineare il partito berlusconiano, parla di formazione “personale‐patrimoniale”. 59 Pur tuttavia, si possono rinvenire segnali di personalizzazione anche nel caso in cui il partito salvaguardi margini sostanziali di autonomia burocratica e procedurale. Come scrive Mauro Calise, l'identificazione dell'operato
del partito “e del suo profilo programmatico dipende sempre più strettamente dalla figura del suo leader”60. Anche il Pd si inserisce all'interno di quel trend
generale che avevamo individuato nella democratizzazione dei processi di selezione e, insieme, nella crescente personalizzazione della politica e nella maggiore disponibilità dell'elettorato ad identificarsi sempre più non, genericamente, con un partito, bensì con il leader che quel partito rappresenta ed impersona. In questo senso, dunque, la rapida ascesa al potere di
Veltroni all'interno del Pd e la sua ferma gestione del partito possono essere spiegati facendo riferimento ai già richiamati riferimenti comparati sul tema. Cavalli, in Governo del leader e regime dei partiti, individua due tipi di democrazie, una “democrazia con leader” e una “democrazia acefala” o dei partiti. Nel caso delle democrazie contemporanee è il leader a
imporre la propria personalità in opposizione sia “a soggetti collettivi come i partiti” che “a ogni configurazione collegiale dell'autorità”61 Una leadership, quella veltroniana, che potrebbe essere
59 M. Maraffi, Forza Italia, in la politica italiana. Dizionario critico 1945‐1995, Bari, Laterza 1995, p 249. 60 M. Calise, Il partito personale, p. 84. 61 L. Cavalli, cit. in G. Mazzoleni, La comunicazione politica, p. 124.
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ricondotta a quel modello di “partito personalizzato non‐carismatico”, elaborato da Ansell e Fish (1999) e basato, piuttosto che sul carisma, sull’”arte di rendersi indispensabili” da parte del leader. Al punto tale che, alla vigilia delle elezioni primarie, le stime pre‐elettorali assegnavano al Segretario un'agile vittoria, con un risultato superiore al 70%. A fronte di tale ridotta (potremmo dire assente)
competitività, il vero elemento che merita attenzione e analisi è rintracciabile nella straordinaria partecipazione al voto del 14 ottobre. L'ingente afflusso elettorale, in un’occasione che assume i toni plebiscitari piuttosto che quelli referendari, può e deve essere necessariamente ricondotta a quel processo di democratizzazione interna dei partiti che abbiamo già delineato nel primo capitolo. Kittilson e Scarrow, dopo una dettagliata analisi delle
modalità di selezione dei dirigenti e della classe politica nelle maggiori democrazie occidentali, osservano come “il risultato innegabile di tali manovre per il consenso elettorale ed intra‐partitico è che i partiti stanno aprendo in misura crescente il procedimento di selezione dei candidati e dei leader per dare voce agli iscritti o per rafforzare le organizzazioni locali dei partiti”62 . Anche in questo caso, dunque, la democratizzazione
intervenuta durante l'atto fondativo del Pd si inserisce lungo un trend che riguarda anche molti altri partiti europei. C'è però qualcosa che differenzia la vicenda del Pd dal
trend sopra delineato e queste peculiarità risiedono 62 M.Kittilson e S. Scarrow, Political Parties and the Rhetoric and Realities of Democratization, in B. Cain, R. Dalton e S.E. Scarrow (a cura di), Democracy Transformed? Expanding Political Opportunities in Advanced Industrial Democracies, Oxford, Oxford University Press, 2003, p. 75.
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rispettivamente nel processo di selezione dei dirigenti come momento fondante del nuovo partito, nonché nella natura aperta della consultazione non solo agli iscritti, ma a tutti i potenziali elettori della nuova formazione politica. Numerosi studiosi hanno rimproverato al Pd, sin dalla
sua costituzione, la mancanza di un'identità propria, di quella che Michele Salvati aveva definito “soffio vitale”. D'altro canto, le stesse condizioni di genesi del partito
costituivano un fattore di supporto a questa teoria: nato dalla fusione a freddo di due organizzazioni di partito relativamente recenti, il Pd non era (e forse non lo è ancora) dotato di una sovra‐struttura politicamente fondante, che fornisse al proprio elettorato strumenti ideologici in cui trovare ragioni di identificazione e legittimazione comune. La scelta di ricorrere, sin dalla prima occasione
congressuale, a una elezione aperta e dai caratteri così inclusivi mirava al riconoscimento, non solo dal punto di vista denominativo, di un'intima natura democratica della nascente compagine politica. Venute meno le ideologie del passato, il comune imprinting democratico è la chiave di identificazione e di riconoscimento reciproco in cui il popolo delle primarie può e deve riconoscersi. In questo senso, si situa l'inedita scelta di un congresso a cielo aperto, inserita, come abbiamo detto, all'interno di un comune processo, in bilico tra personalizzazione e democratizzazione, che accomuna buona parte dei partiti politici in Europa. Ovviamente, come molti detrattori hanno fatto notare,
la genesi democratica di un partito non implica necessariamente che il partito sia di per sé al suo interno organizzato democraticamente. Il dibattito attorno al concetto di democrazia intrapartitica si è spesso
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soffermato sulla sussistenza o meno, in un sistema partitico, della possibilità, per gli iscritti, di esercitare una forma di controllo sui propri leader. Un controllo che può avvenire, ex ante, cioè nel momento della selezione delle classi dirigenti, ma anche ex post. Entra qui in gioco il grado di accountability. Il perno del concetto di accountability è la definizione di
Eckart: essa è legata al concetto di who is accountable, to whom, and for what; di conseguenza, la condotta politica della classe dirigente deve essere valutata in base alla sua capacità di produrre valore per la comunità di riferimento. Essa deve inoltre essere misurabile e conoscibile perché gli elettori possano rendicontare le proprie azioni decidere, in base a tale valutazione, l'ottimale allocazione della propria risorsa di voto. In altre parole, in base al concetto di accountability, possiamo ritenere democratici quei partiti che, dotando gli iscritti di sufficienti informazioni e adeguati strumenti di punizione o ricompensa, costringe alla responsabilità la classe dirigente. Una responsabilità che scaturisce dalla possibilità, per la base, di valutare le opere e le omissioni dei propri leader. Caratteristica peculiare e indispensabile a tale modello
concettuale, dal punto di vista teorico, è che si situa su un ineludibile rapporto bi‐univoco tra rappresentanza e partecipazione, basato su un flusso comunicativo tra rappresentanti e rappresentati. In altre parole, è necessaria una struttura e una
dinamica organizzativa che permetta di attivare meccanismi permanenti di accountability e di responsiveness, dei gruppi dirigenti nei confronti della base associativa, e meccanismi di partecipazione attiva della stessa membership, in grado di legittimare, discutere
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e valutare l’operato dei dirigenti e, soprattutto, di contribuire all’elaborazione politica e programmatica del partito. L'instaurazione di un processo di questo tipo è la
conditio sine qua non per l'attivazione di un percorso di qualità nell'ambito di quel processo di decision‐making delle politiche di un partito. Imprescindibile è in tale frangente, il costante apporto di conoscenze, competenze ed esperienze che può venire da una rete associativa ampia e ramificata, in grado di interagire e comunicare con i luoghi deputati alla decisione, che siano a loro volta caratterizzati da un’effettiva collegialità. Un modello che è stato definito di “partecipazione
selettiva” (o selezione partecipata), per valutare la cui democraticità si fa riferimento, ancora una volta, ai quattro criteri individuati da Rahan che abbiamo già descritto: 1. inclusività del selectorate; 2. inclusività della candidacy, cioè delle persone a cui è
permesso candidarsi; 3. livello (funzionale o territoriale) di centralizzazione o
decentramento della selezione; 4. sistema utilizzato per la selezione, ovvero nomina o
elezione, e, in quest'ultima, quale tipo di sistema elettorale. Le primarie del Partito democratico, almeno nella
strutturazione attuale, non possono soddisfare i quattro suddetti requisiti. I più accesi detrattori obiettano come, in realtà, solamente il primo relativo all’inclusività del selectorate sia stato tenuto in conto dai fautori delle primarie del nuovo partito. Abbiamo già visto, infatti, come l'unico requisito necessario alla partecipazione elettorale fosse il pagamento di un euro e la sottoscrizione
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del cosiddetto “Manifesto dei Valori”, che qualificava i soggetti sottoscrittori come “fondatori” e non come “membri” del partito. Se sul fronte selectorate persiste l'apertura più ampia,
la tendenza opposta colpisce, invece, il fronte candidacy. Il cosiddetto Regolamento‐quadro, all'articolo 1 comma 2, prescriveva che l'unico requisito necessario alla candidatura individuale fosse la previa dichiarazione, da parte degli aspiranti candidati, della volontà di “partecipare al processo costituente del Partito Democratico”: si tratta dunque di un requisito che implica un massimo grado di apertura. Tuttavia l'articolo 7 comma 4, si vietava la candidatura a “persone notoriamente appartenenti a forze politiche o ad aspirazioni ideali non riconducibili al progetto dell'Ulivo‐Partito Democratico”. Grazie a tale norma, sono state escluse le candidature di Antonio Di Pietro, a capo dell'Italia dei Valori, e di Marco Pannella, storico leader del Radicali Italiani. I requisiti di candidacy, in sostanza, si sono ricondotti ai due partiti fondatori, Ds e Margherita, e ad alcuni candidati provenienti dalla cosiddetta società civile. A proposito del metodo di selezione dei candidati, pur
trattandosi in effetti di una elezione diretta, il voto dell'elettore era limitato da liste bloccate di candidati senza alcuna possibilità di incidervi direttamente ed efficacemente da parte dei partecipanti. In generale possiamo affermare la genesi “democratica”,
attraverso le primarie, del Partito democratico, non è di per sé sufficiente a definire la futura democraticità complessiva della compagine. Le funzioni principali cui sopperiscono le elezioni
primarie rappresentano una risorsa utile al partito per selezionare al proprio interno ma anche per mobilitare il
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proprio elettorato attorno a una persona, o una issue. Per usare le parole di Johns, “they provide for a fair competition in the sense of allowing for a reasonable degree of influence from the membership “63 Per quanto riguarda la selezione di candidati (o, in
questo caso, del Segretario di partito), appare doveroso il riferimento a Marsh. Lo studioso inglese, analizzando le elezioni primarie con riferimento all'esempio britannico64, nota come “il processo di selezione può condizionare lo stile e il comportamento degli eletti, sia a causa delle risorse richieste, sia per la necessità di riassicurarsi la ri‐selezione qualora necessario”65. Questo proverebbe come “visto che la selezione di leader è una delle decisioni più importanti prese dai partiti, l'analisi di questo processo ci dice qualcosa sul partito nella pratica, sulla sua filosofia, sul suo stile organizzativo e la sua distribuzione interna del potere"66 . Il discorso ovviamente può e deve essere applicato al
Partito democratico, sin dal momento in cui esso ha cominciato a strutturarsi come un partito compiuto. Nell'indagine sulla tipologia di leader selezionato
attraverso l'utilizzo delle elezioni primarie possiamo ricorrere a un modello "dinamico" di espressione delle 63 Johns 2000, cit. in I. Marsh, Political parties in transition, The Federation press, 2006, p. 38. 64 In Gran Bretagna tutti e tre i maggiori partiti concedono oggi in qualche modo il voto agli iscritti nella selezione dei candidati. Ciononostante, i due partiti principali conservano un forte controllo sulle selezioni partitiche. Per quanto riguarda il partito laburista, esso non prevede elezioni primarie vere e proprie: gli iscritti infatti scelgono fra candidati potenziali già filtrati dal partito. Il partito conservatore conserva invece una forte influenza attraverso l’approvazione delle liste nazionali dei candidati. 65 M. Marsh, cit. in R. Mulé, Political parties, games and redistribution, Cambridge University Press, 2001, p. 99. 66 Ibidem.
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preferenze da parte degli elettori, che riesca a tenere in conto la reciproca interazione tra preferenze di lungo e corto periodo. Tale modello di interazione dinamica è stato descritto da Boiney e Paletz67, che si sono basati su una rassegna della ricerca soprattutto statunitense. In tale prospettiva, le principali direttrici interpretative di influenza sull'elettorato sono: 1. l'identificazione di partito, che, pur rimanendo una
variabile centrale, negli ultimi anni ha perso considerevole peso;
2. l'immagine del candidato, ossia come questo viene ideologicamente percepito e veicolato dai media;
3. il posizionamento dei candidati sulle varie issue, un fattore che ha assunto crescente importanza con lo svuotamento ideologico dei partiti;
4. la scelta individuale. 5. le aspettative in merito alla capacità che qualche
candidato ha di vincere la nomination68; Queste componenti sono ovviamente strettamente
connesse tra di loro. Le qualità del candidato considerate dagli elettori saranno aspetti specifici e ben delineati, dalla cui interazione scaturisce “quella rappresentazione cognitiva sintetica del candidato nei suoi tratti essenziali, tradotti, al momento di dare un giudizio, in questi pochi
67 Cit. in G. Mazzoleni, La comunicazione politica, p. 316. 68 A tale proposito, gli studiosi hanno descritto alcuni comportamenti elettorali derivanti dalle aspettative che gli elettori nutrono rispetto ai candidati, e da una serie di elementi esterni, come ad esempio i sondaggi pre‐elettorali. Tra gli effetti più noti c'è “l'effetto bandwagon”, o di salita sul carro del vincitore, che si verifica quando gli elettori decidono di votare il candidato che appare in vantaggio rispetto agli altri. Viceversa, l'effetto opposto, o “effetto underdog”, che porta il cittadino a scegliere il candidato che appare quasi sicuramente perdente.
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attributi politico‐personali di fondo”69 . Va da sé che, tra i tratti fondamentali di tale
rappresentazione vi è quello relativo alla capacità di vincere, innanzitutto, la nomination (viability), e, successivamente, l'elezione generale (electability). Non a caso, anche con il supporto della appena citata
tassonomia statunitense, la vittoria di Walter Veltroni alle primarie del Pd risulta comprensibile e, a tratti, scontata. Tutti i sondaggi sulla consultazione del 14 ottobre lo
davano, infatti, come inevitabile vincitore della disputa interna per la segreteria, ma addirittura. Tra le valence issues, ossia, tra le motivazioni che hanno influenzato la scelta dell'elettore in base al candidato, quello che emerge con più forza è stata la capacità di incarnare l'idea di rinnovamento. Il peso più forte si è avuto, forse, dal vero e proprio voto
personale, e solo successivamente dal cosiddetto “voto d'appartenenza”; influenza minore al voto d'opinione, riferito al programma dei candidati. In altre parole, la capacità di fare leva su alcune delle
istanze e delle aspettative dell'immaginario collettivo, quali la necessità di un ricambio al vertice, di un rinnovamento della classe politica dirigente, di apertura ai giovani e alla società civile, sono riusciti a catalizzare l'elettorato su un candidato già di per sé forte, perché sostenuto dall'apparato partitico. Questa cospicua influenza degli aspetti intangibili della
scelta di voto, rispetto a quelli più strettamente programmatici ha promosso una tendenza dei candidati a rimanere ambigui in merito alla definizione dei loro programmi. 69 M. Barisione, L'immagine del leader: quanto conta per gli elettori? Bologna, Il Mulino 2006, p. 91.
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In tale frangente, le primarie servirebbero agli elettori per esprimere ai candidati le loro preferenze o attitudini, e, a questi ultimi, per conoscere l'orientamento generale del proprio target elettorale di riferimento, in vista, soprattutto, dell'elezione generale.
2.7 Le primarie del 25 ottobre 2009: “fai vedere che ci tieni” “Ci tengo”: con questo slogan si aprono le seconde primarie del Partito democratico, quelle che hanno luogo il 25 ottobre 2009 per individuare il segretario nazionale, i segretari regionali e i membri dell'assemblea nazionale e delle assemblee regionali del Partito Democratico. Un meccanismo complesso, “su due turni”: il sistema si
basa infatti su un congresso ‐ anzi una Convenzione, com'è ufficialmente chiamata ‐ a cui seguiranno le primarie, e poi forse un ulteriore voto dell'assemblea nazionale. La scelta del prossimo segretario del Pd avverrà a ottobre, con una serie di passaggi un po' tortuosi previsti dal regolamento. In sostanza, si prevede che dapprima votino solo gli
iscritti (circa 820 mila in tutta Italia), per scegliere i delegati da mandare alla Convenzione. Ciascuno di tali delegati è collegato alla piattaforma di uno dei tre candidati alla segreteria. Dopodiché, l'undici ottobre, viene dato il via alla
Convenzione, nel cui ambito i delegati si misurano e discutono eleggendo la nuova assemblea nazionale. A essi non spetta però la designazione del segretario, il
cui nome uscirà dalle urne dalle primarie previste per il 25 ottobre, e sarà eletto fra i candidati che hanno avuto almeno il 5 per cento dei delegati.
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Anche in questo caso alle primarie possono partecipare tutti, senza doversi iscrivere al partito: l'unico requisito è la previa registrazione e un contributo alle spese organizzative di due euro. Vi è poi nel Regolamento la previsione di un secondo
turno. Nel caso in cui, infatti, alle primarie nessuno dei tre
candidati alla segreteria non raggiunga almeno il 50 per cento dei voti, è previsto un ballottaggio, in cui potranno votare, a scrutinio segreto, tutti i membri dell'assemblea nazionale del Pd. Una vera e propria gimkana, cui seguirà però uno
svolgimento lineare della funzione elettorale. La Direzione Nazionale del partito ha fissato il
congresso ("convenzione" secondo lo statuto del partito) all'undici ottobre, e le successive, conseguenti, elezioni primarie, il 25 ottobre. Il segretario uscente, Dario Franceschini, che a lungo
aveva mantenuto il riserbo circa la possibilità di ripresentarsi, il 24 giugno, infine, aveva palesato ufficialmente la volontà di candidarsi al Congresso e per le primarie. Una scelta, quella del segretario, che aveva aperto a non poche polemiche interne al partito. Tra i sostenitori della candidatura di Franceschini vi sono Piero Fassino, Franco Marini, Marco Minniti, Giovanna Melandri, Tiziano Treu, Enrico Morando, Marina Sereni, Antonello Soro, Cesare Damiano, Pierluigi Castagnetti, Paolo Gentiloni, Sergio Cofferati, Rita Borsellino, Mario Adinolfi e David Sassoli. L'ex segretario del Pd Walter Veltroni, pur dichiarando di voler rimanere fuori dalle vicende congressuali, ha avuto parole di apprezzamento per la candidatura di Franceschini Ancora una volta, però, emergono con prepotenza le diverse correnti intestine, e
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l’ex presidente del Consiglio, Massimo d’Alema non nasconde la propria ostilità rispetto alla scelta di Franceschini. Ostilità così accesa che, quando l’ex ministro dello
Sviluppo Economico Pierluigi Bersani scende in campo e propone la propria candidatura, l’endorsement di D’Alema è pressoché immediato. Tra i sostenitori della candidatura di Bersani, oltre a
D’Alema, ci sono Rosy Bindi, Enrico Letta, Rosa Russo Iervolino e Livia Turco. Una campagna, quella dell’ex ministro, focalizzata sulla necessità di conciliare le due anime storiche del partito e quindi i valori cattolico‐popolari con quelli del socialismo democratico e della socialdemocrazia. In opposizione a quello che a molti appare l’ennesimo
cartello delle gerarchie partitiche per mantenere saldamente il controllo del partito si forma una corrente interna, composta da giovani attivisti, perlopiù under 40, che, dapprima chiedono all’europarlamentare Debora Serracchiani di candidarsi, e poi, di fronte al rifiuto della stessa, decidono di sostenere il candidato uscente. Ed ecco il turno del terzo candidato, rappresentante
della società civile e delle frange più laiche e impegnate, afferenti all’area del centro‐sinistra più che al Partito democratico stesso. A scendere in campo è Ignazio Marino, chirurgo di fama internazionale, di fede cattolica, con slogan "Vivi il Pd, cambia l'Italia" e un programma che punta sul rilancio del merito e dei diritti civili, sulla salute, la laicità e l'ambiente. Una candidatura, quella di Marino, che apre a non poche
polemiche all’interno del partito. In particolare, le posizioni laiche del senatore su alcuni temi come
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eutanasia e testamento biologico70, gli avevano attirato l’aperta ostilità dell’area cosiddetta teodem del partito, all’epoca guidata da Paola Binetti. Anche queste primarie hanno un casus controverso. Si
tratta della candidatura di Beppe Grillo, il comico genovese, che, dopo anni di attivismo, l’8 marzo dello stesso anno aveva promosso numerose liste civiche in varie città italiane, accompagnate dalla redazione della "Carta di Firenze", con cui ogni lista si impegnava a sostenere e promuovere in maniera trasparente alcuni impegni relativi all’ecologia, all’acqua pubblica, alla dotazione di connessioni web gratuite per tutti i cittadini, allo sviluppo delle fonti rinnovabili e delle produzioni locali. Inoltre, ed è il tema su cui Grillo ha costruito più spesso le proprie invettive contro l’attuale classe politica, i candidati devono non aver subito condanne in via definitiva, non essere stati eletti per più di due mandati ed essere residenti nel comune per il quale sono candidati. Le Filippiche di Grillo non avevano tra l’altro
risparmiato lo stesso Partito democratico, più volte oggetto di feroci critiche. Quando Beppe Grillo decide perciò d'iscriversi al Pd in
Sardegna e di raccogliere le firme necessarie per la candidatura alla segreteria, il partito si trova davanti a un dilemma politico, oltre che tecnico: il Regolamento per le primarie, infatti, come abbiamo visto, non pone particolari vincoli, né lungo il frangente del selectorate, né lungo
70 Il 29 aprile 2008 il senatore Marino ha presentato un disegno di legge sul testamento biologico. All’inizio del gennaio 2009, nel tentativo di superare le divergenze e portare avanti una legge largamente condivisa, ha lanciato assieme ad alcuni parlamentari e personalità di rilievo appello per il diritto alla libertà di cura L’appello ha raggiunto 120.000 adesioni.
La sfida della partecipazione 87
quello della candidacy. Abbiamo visto nel 2007 come le uniche candidature a essere state rigettate dall’ufficio tecnico‐amministrativo del "Comitato 14 ottobre" siano state quelle di Antonio Di Pietro e di Marco Pannella, ai sensi dell’articolo dell'art. 1 comma 2 e art. 7 comma 4 del regolamento, avendo individuato nei due esponenti politici i leader riconosciuti di forze politiche nazionali delle quali non avevano dichiarato lo scioglimento in modo esplicito ed impegnativo. Ma Beppe Grillo non è a capo di un partito, anzi, ha
sempre deplorato la partitocrazia italiana, tacciandola come la matrice di tutti i mali storici italiani: il clientelismo, la mancanza di ricambio generazionale, l’immobilismo, la demagogia. E, tra i partiti attaccati con cotanta veemenza, vi è
sempre stato anche il nascente Partito democratico, cui ora il comico sostiene volersi iscrivere. Per questo la sua candidatura, ritenuta inopportuna e
provocatoria, viene rigettata grazie a una norma tecnica: il comico ha infatti presentato la sua iscrizione in Sardegna, e non a Nervi (Genova), dove egli è residente. Per questo motivo, egli non può essere ammesso alla corsa. Il 23 luglio il Comitato per il Congresso ufficializza
dunque 4 candidature: quelle di Pierluigi Bersani, Dario Franceschini, Ignazio Marino e Amedeo Rutigliano. Proprio quest’ultima candidatura, tuttavia, il 28 luglio è respinta dallo stesso Comitato, poiché delle 1542 firme presentate dal candidato, 500 sono risultate appartenenti a persone non iscritte al Pd . Alla prima fase congressuale prendono parte 820 607
iscritti. I risultati definitivi dei 7221 congressi di circolo
vengono divulgati l'8 ottobre dalla stessa Commissione
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Nazionale: Pierluigi Bersani ottiene 255189 voti pari al 55,13%, seguito da Dario Franceschini con 171041 voti pari al 36,95% e da Ignazio Marino con 36674 voti pari al 7,92%. Tutti e tre i candidati sono quindi ammessi a partecipare alle elezioni primarie del 25 ottobre 2009. Il 25 ottobre, I seggi rimangono aperti dalle ore 8 alle
20. Questi sono i dati elettorali, divisi per regione di appartenenza:
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(fonte: www.partitodemocratico.it) Le tabelle successive, invece, illustrano l'affluenza
generale e le percentuali ottenute nel complesso dai tre candidati:
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2.8 Who votes, who counts. Tra elettorato mobilitabile ed elettorato mobilitato: un'analisi del selectorate
Come nota Ilvo Diamanti, le primarie del 2009 “si concludono senza contraddizioni sostanziali fra il voto degli iscritti e quello degli elettori, alle (cosiddette) primarie”71. Nonché senza bisogno di ricorrere al ballottaggio. Il Partito democratico ne esce con un'eredità sostanziale: in primis un segretario, Pierluigi Bersani. Ma, ed è questa l'eredità più preziosa in prospettiva futura, il Pd si è scoperto sostenuto da una base enorme su cui far perno, e cioè quei quasi tre milioni di elettori e simpatizzanti che hanno deciso di recarsi alle urne. I risultati ricalcano anche questa volte le aspettative,
71 I. Diamanti, Quel patrimonio di tre milioni, “La Repubblica”, 27 ottobre 2009.
La sfida della partecipazione 91
nell'esito più che nelle proporzioni. Come previsto Bersani, con il 53,23% dei voti validi, ha distanziato gli altri due candidati. Ciononostante, gli altri due hanno ottenuto conferme importanti. Il solo Franceschini ha guadagnato un terzo dei voti. L'outsider, se così si può definire, Marino, ha raccolto il 12,49%, ben il 4% in più rispetto al voto degli iscritti. L'eredità più forte rimane l'immagine di questa grande partecipazione. ”Un investimento sulla fiducia‐ continua Diamanti ‐ che sarebbe irresponsabile dissipare ancora”72. Il primo aspetto da considerare riguarda dunque il
fronte partecipazione. Si sono recati alle urne 3.102.709 persone. Anche se dobbiamo considerare che erano ammessi al voto anche i giovani oltre i 16 anni e gli immigrati regolari, è comunque un risultato ingente.. Nota ancora Diamanti, si tratta di “circa il 35% degli elettori alle europee. Più di un elettore su tre. Nonostante la delusione verso un partito disorientato. Un'opposizione incerta. Una leadership indefinita”. Nonostante il Pd, secondo molti, fatichi ancora a trovare un'anima identitaria e una linea politica, oscillando tra le spinte centripete e le correnti centrifughe, in un percorso di collocamento, nel panorama politico italiano, che non ha ancora completato il proprio assestamento. Una partecipazione così vasta ha diverse radici. Si tratta
di un atto di profonda fiducia verso un partito in difficoltà, che si trovava ad affrontare, per la prima volta, una reale competizione al proprio interno. Abbiamo visto come nel 2005 le primarie siano servite,
più che a individuare un leader, a sancire in maniera ufficiale l'investitura di Romano Prodi, la cui figura era
72 Ibidem.
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l'unica legittimata a candidarsi per la corsa da premier. Tanto è vero che alcuni tra i detrattori delle primarie
hanno scritto, proprio in riferimento alle consultazioni del 2005, che esse, strumento inefficace, siano servite la prima volta, a puntellare il secondo governo di Prodi. Nel 2007 Walter Veltroni aveva già preso in mano, col
discorso del Lingotto, le redini del partito, un partito che di lì a poco avrebbe affrontato una crisi di governo e che ha acclamato Veltroni pater patriae alla ricerca di una leadership comune. Miguel Gotor, dalle pagine del Sole 24 Ore, accusa: “Nel 2007 lo strumento venne escogitato per rafforzare Veltroni alla segreteria del Pd. L’ex sindaco di Roma accettò di guidarlo solo se la sua elezione fosse stata accompagnata da un plebiscito popolare, pensando così di potersi mettere al riparo dalle tempestose conseguenze del primo rovescio elettorale”73. Quello che è certo è che, al di là delle polemiche, nel
2009 si è trattata di una battaglia vera e propria, basata sui programmi personali, sulle correnti di sostegno, sulle proposte concrete, e, perché no, sulle personalità degli aspiranti leader. Un'altra, spiccata differenza rispetto alle precedenti primarie costituisce la corsa alla lunga fase congressuale precedente le elezioni vere e proprie. Come sostiene Diamanti, essa ha avuto l'innegabile
merito di creare e rinsaldare “una rete di tifosi e sostenitori organizzata e diffusa in tutto il paese”74. Una rete che ha trovato le proprie feconde radici in un elettorato, quello di centrosinistra, il cui grado di mobilitazione è sempre stato maggiore rispetto 73 M. Gotor, Quer pasticciaccio delle primarie, “Il Sole 24Ore”, 25 ottobre 2009. 74 I. Diamanti, Quel patrimonio di tre milioni “La Repubblica”, 27 Ottobre 2009.
La sfida della partecipazione 93
all'elettorato moderato. Per ciò che concerne la distribuzione territoriale della
partecipazione alle primarie, sappiamo, come nota Diamanti, che in generale “essa raggiunge il massimo nelle zone rosse e nel Nordest. La partecipazione appare rilevante anche al Sud, mentre è più ridotta nel Nordovest e nelle regioni centromeridionali: Lazio, Abruzzo e Molise”. Le ragioni sono molteplici. Sappiamo che storicamente le Regioni del Nord hanno
dei livelli di mobilitazione e di partecipazione più alti di quelli del centro Sud. C'è poi il caso delle cosiddette subculture politiche territoriali, cioè di quegli zoccoli duri, rappresentati dalle Regioni rosse, in cui già la media nazionale degli iscritti ai partiti è superiore di due volte e mezzo la media nazionale. In queste regioni, la partecipazione alle primarie rispecchia tale proporzione. Il fatto che le percentuali di partecipanti risulti più bassa nel Centro‐Sud e nel Sud e nelle Isole è legato a caratteristiche storiche del comportamento elettorale. Come nota ancora Diamanti, se “nelle regioni del Nord, in particolare, sottolineano l'importanza del voto di opinione. Espresso da elettori disposti a sostenere il Pd, ma senza atti di fede” e “nelle regioni rosse, invece, la partecipazione alle primarie si è appoggiata, anche in questa occasione, alle tradizionali reti di appartenenza partitica”, nel Sud e nel Centrosud, come al solito “sembrano aver pesato maggiormente i meccanismi del voto personale e delle lobbies localiste. Mentre la mobilitazione sollecitata da motivi di identità e d'opinione appare meno propulsiva che altrove”. Si tratta, a grandi linee, delle stesse caratteristiche attribuibili al comportamento elettorale in occasione delle elezioni finali. Le circostanze sociali e le disposizioni psicologiche personali influenzano i singoli
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atti di scelta, e tra questi la scelta elettorale che sembra aver subito l'azione di diversi filtri: 1. nelle regioni del Nord, in particolare, sembrano
esercitare una grossa influenza le identificazioni di area, nonché l'immagine di un leader e il suo posizionamento rispetto alle issue a cui quel determinato segmento elettorale attribuisce maggior contingenza;
2. nelle regioni rosse, rimane di fondamentale importanza l'identificazione partitica, intesa, per usare le parole di Campbell, come quella “grande vicinanza psicologica tra attore e oggetto, rapporto che genera un sentimento di appartenenza.”75
3. nelle regioni del Sud, invece, ancora una volta hanno avuto un peso determinante quelle dinamiche clientelari e personalistiche che Edward Banfield aveva efficacemente riassunto con l'espressione “familismo amorale”76. In tali regioni, i canali di attivazione risentono ancora, e purtroppo in maniera consistente, dell'influenza di quelle reti personali e familiari basate sulle dinamiche imposte dalle lobbies locali, da quelle élite dirigenti che consolidano il proprio strapotere su un sub‐strato elettorale fatto di scarsa cultura civica, forme di disincentivi alla discussione e alla partecipazione, informazione ostacolata o comunque insufficiente.
2.9 Tra micropersonalizzazione e macro 75 Cit. in G. Mazzoleni, La comunicazione politica, p. 317. 76 E. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Bologna, Il Mulino, 1976.
La sfida della partecipazione 95
personalizzazione. Un profilo della candidacy L'altra direttrice analizzata da Diamanti riguarda il voto ai candidati. Si tratta, lo abbiamo visto, di candidati molto diversi tra di loro, per personalità, carisma, stile di leadership, ma anche per le issue di base dei propri programmi. Le osservazioni sulla candidacy in questa sede, sono strettamente avvalorate dalle ipotesi che abbiamo fatto sulla personalizzazione della politica contemporanea. Come scrive ancora Calise, “in luogo di un sistema sullo
spirito di partito e sull'unità di partito come principale risorsa da preservare, si afferma un nuovo stile politico che fa risaltare individualità e personalismi”. Così, inevitabilmente, “il dibattito politico finisce per ruotare principalmente sulle iniziative di singole personalità”77. Una personalizzazione che influenza i meccanismi di
scelta di voto: con l'indebolimento delle funzioni di identificazione e di acculturamento politico dei partiti molti autori sottolineano come sia la leaderizzazione a costituire la chiave di volta del momento di scelta elettorale. Come notano Silvia Bolgherini e Fortunato Musella,
“sotto il profilo delle relazioni che si possono instaurare tra candidato/eletto ed elettore al momento delle elezioni vi sono due tipi di personalizzazione: macro‐personalizzazione e micro‐personalizzazione”78. Si parla di macro‐personalizzazione, secondo i due
77 Cit. in G. Mazzoleni, La comunicazione politica, p. 122. 78 S. Bolgherini, F. Musella, Le primarie in Italia: ancora e soltanto personalizzazione della politica?, in “Quaderni dell'Osservatorio elettorale” n. 55/2006.
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autori, ogni volta che si fa riferimento a personaggi che ricoprono ruoli politici ai vertici delle istituzioni, e che, intessono con il proprio elettorato un rapporto su grande scala, necessariamente di tipo indiretto. Proprio per una questione prospettica, i rapporti di
macro‐personalizzazione caratterizzano le reti costituite a partire da candidati con grande visibilità, che hanno, nella maggior parte dei casi, già ricevuto legittimazione della propria leadership da parte del proprio elettorato. In tale frangente macro‐personalistico, la scelta di voto
dell'elettore non è guidata dal possibile ottenimento di un beneficio personale o una contropartita diretta, né scaturisce da un contatto diretto con il candidato in campagna elettorale. In altre parole, utilizzando il linguaggio micro‐economico, l'elettore non effettua una scelta razionale per ottimizzare le proprie risorse. Piuttosto che su una scelta di questo tipo, il voto è incoraggiato da meccanismi di identificazione dell’elettorato con i leader, innescati da un uso strategico della comunicazione. In questo senso, l’elezione è più simile a un processo di consenso plebiscitario. Siamo di fronte infatti a un leader che assume posizioni di spicco nei confronti degli altri candidati, dell’elettorato e anche nei confronti del partito che lo sostiene, tanto da alimentare un consenso autonomo, concentrato sulla sua figura. Come scrive Gianfranco Pasquino, “il candidato fa aggio
sulla sua organizzazione di appartenenza. Il suo nome diventa più significativo della sua organizzazione e da essa svincolato. Ciò che il candidato dice assume più rilevanza del programma del suo partito. Infine, quasi irresistibilmente l'immagine, in special modo fisica, del candidato, diventa più importante di qualsiasi altra qualità
La sfida della partecipazione 97
o caratteristica del candidato stesso.” 79 L'effetto primario, consiste, necessariamente,
nell'estrema riduzione dell'intermediazione partitica, e nella valorizzazione, viceversa, dell'importanza del consenso personale riscosso dal leader in occasione del confronto elettorale. Il secondo modello individuato da Bolgherini e Musella si fonda sul concetto di micro‐ personalizzazione. Si tratta qui, di reti di interazioni basate sullo scambio
di risorse, che talvolta possono degenerare in rapporti di tipo clientelare. Non a caso, il consenso elettorale è basato sul contatto diretto fra candidato ed elettore, non mediato dai partiti. Il discrimine tra i due modelli risiede, ovviamente, nella dimensione della leadership. Trattandosi di una tipologia di potere (nel senso weberiano del termine), fondata soprattutto sui rapporti interpersonali, la componente del territorio e delle reti locali risulta d'importanza decisiva e il comportamento di voto deriva qui da un uso strategico della scelta elettorale per ottenere benefici e contropartite immediate o nel breve periodo. Con riferimento alla competitività, appare opportuno
introdurre il concetto, introdotto nel 2006 da Salvatore Vassallo, di "contendibilità delle cariche", concetto che implica che ogni carica, interna o pubblica (riferibile al partito stesso), debba essere contendibile, cioè aperta alla competizione tra diverse persone. Per le elezioni primarie del 2009 si può parlare di contestability, (in italiano meglio concorrenzialità), che sta appunto ad indicare la possibilità che esista una pluralità non definita di persone a concorrere per l'ottenimento di un oggetto o un
79 Cit. in G. Mazzoleni, La comunicazione politica, p. 122.
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determinato bene (in questo caso il voto). In riferimento alla macro‐personalizzazione, possiamo
vedere come essa abbia influenzato i target elettorali e le dinamiche di voto dei candidati80. La base elettorale che appare più caratterizzata è
certamente quella di Marino. Non a caso, il candidato outsider, espressione più che dell'apparato partitico, di una certa fascia di società civile, ha ottenuto i livelli più elevati nelle regioni del Nord e nelle province metropolitane, dove ha ottenuto sempre più del 15 dei voti. Si tratta di un candidato che ha portato avanti un programma estremamente progressista, fondato su issue ispirate ai principi di laicità, meritocrazia, scienza e libertà. Tutte tematiche che, per attecchire, necessitavano di un target elettorale dai solidi strumenti intellettuali e dalle consolidate reti personali. Tutti temi improntati sulla personalità del candidato, chirurgo di fama mondiale, impegnato in prima persona nelle battaglie per i temi della laicità. Una componente, tra le scelte di voto ottenute da Marino, in cui un ruolo positivo può aver giocato il già richiamato effetto underdog: in altre parole, Marino, percepito già come perdente, ha ottenuto il voto di protesta di coloro che non si riconoscevano nei candidati con più alte chances di vittoria, e un sostegno più forte dell'apparato partitico. Pierluigi Bersani ha ottenuto ben il 60% nelle regioni
del Sud toccando punte di oltre il 70% in Calabria, e nelle Isole. Tuttavia, in questo caso non è possibile un collegamento immediato tra il candidato di punta e l'elettorato che lo ha votato più massicciamente. Bersani 80 Per una disamina completa, cfr Francesca Daniela Gentile, Democrazia e partecipazione. Le primarie del Partito Democratico. Roma, CMCS Working Papers, 2010.
La sfida della partecipazione 99
infatti ha vinto in quasi tutte le regioni, ottenendo ottimi risultati anche al Nord e nelle regioni rosse. Si tratta di una personalizzazione in senso carismatico: Bersani era il candidato di punta, quello percepito come più forte dai mass‐media e dall'elettorato e, insieme, quello che sembrava incarnare il desiderio di un progetto stabile che il Partito democratico, e il centro‐sinistra prima, sembrano rincorrere affannosamente. Il voto a Franceschini è invece quello che, appare il più
trasversale dal punto di vista della distribuzione territoriale dei consensi, ma anche della tipologia di elettori. Egli ha saputo infatti intercettare circa un terzo dei voti su tutto il territorio. Un modello di personalizzazione a metà tra quello
dell'outsider di Marino e quello istituzionale di Bersani. Un elettorato, quello di Franceschini, su cui può aver pesato favorevolmente la scelta di voto strategica degli elettori che, pur volendo esprimere una scelta di opposizione alle élite del partito, hanno optato per quello, tra i rimanenti candidati, che aveva maggiori possibilità di vittoria: l'effetto bandwagoning, per dirlo con altre parole, potrebbe aver aiutato il candidato Franceschini.
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Capitolo 3 Primarie e politiche di genere. Prospettive di ricerca
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La sfida della partecipazione 103
3.1 Discorso di genere e rappresentanza politica. Note preliminari.
Abbiamo visto come le elezioni primarie possano costituire una risorsa strategica nel percorso di affermazione e di comunicazione dei partiti politici contemporanei. Esse rappresentano in taluni casi “una ventata di
ossigeno” in un sistema sclerotizzato, una linfa vitale a cui partiti sempre più inesorabilmente svuotati delle proprie funzioni storiche possono e devono attingere per rinvenire nuove e durature forme di legittimazione. Le elezioni primarie, secondo questa strategia, possono aiutare i partiti a intercettare le preferenze di un elettorato sempre più volatile e a canalizzare le crescenti istanze di partecipazione emerse da fasce di elettorato storicamente estraneo a un associativismo di tipo politico. È proprio l'afflosciarsi dei partiti, il loro disgregarsi e
isterilirsi a fare emergere nel quadro politico nuovi soggetti, nuovi gruppi e nuovi individui, che possono essere portatori di novità, rispetto a obiettivi e contenuti dell'attività di governo, ma anche di stili, metodi e strumenti. Le donne sono uno di questi gruppi, tradizionalmente escluso dalla partecipazione politica o strumentalmente relegato in posizioni specificatamente correlate al gender dalle gerarchie partitiche. In quest'ottica, non si può non affrontare il problema
della partecipazione di genere, una questione storica nell'analisi dei comportamenti elettorali e che si lega imprescindibilmente all'altro versante, quello della rappresentanza femminile. Si tratta di una declinazione in chiave di genere di quel
processo di democratizzazione di cui abbiamo brevemente
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delineato i caratteri salienti. In altri termini, le istanze associative e partecipative
femminili sono intimamente connesse al processo di emersione di una leadership al femminile che caratterizza la maggior parte delle democrazie contemporanee e pongono una sfida di genere sul doppio versante del selectorate, e della candidacy. È questa la sfida che le primarie possono e devono
raccogliere per divenire uno strumento strategico di rinnovamento delle funzioni partitiche e per interpretare a pieno il processo di democratizzazione del corpo elettorale che, paradossalmente, nasce e si sviluppa proprio dalle ceneri dei sistemi partitici tradizionali. Il discorso della rappresentanza di genere è molto
complesso ed è stato affrontato da molteplici punti di vista. In questa sede non ripercorreremo il lungo e complesso discorso legato agli strumenti individuati in questo cammino. Ci chiederemo tuttavia se esistono delle caratteristiche peculiari nell'elettorato e nella leadership femminile e in che modo le elezioni primarie potrebbero essere funzionali al riequilibrio di una rappresentanza di genere e nell'ascesa di una leadership rosa, attraverso le (poche) analisi effettuate sul tema. È necessaria innanzitutto una premessa terminologica.
Il termine genere ha da sempre subito definizioni e interpretazioni diverse. Esso rimanda a una classificazione grammaticale ma anche a una costruzione sociale, a una teoria filosofica come a una categoria storica, costituisce forse un indice d’identità valido sul piano giuridico. Genere è una parola che traduce – senza però
costituirne l’esatta corrispondenza – l’inglese gender. Il termine risale etimologicamente all’inglese medievale gendre, dal latino genus, e dalla radice indo‐europea gen,
La sfida della partecipazione 105
indicante specie, tipo. Adottata nei primi anni Settanta dal femminismo di
lingua inglese, di qui si è estesa successivamente al resto del mondo. La graduale introduzione del termine nell'analisi
politica e nel in quella intellettuale ha, senza dubbio, contribuito a combattere il pregiudizio secolare che concepisce femminilità e mascolinità come costruite interamente su fondamenta naturali: esso è concepito con una connotazione opposta a quella di sesso proprio per evidenziare la natura di costruzione socio‐culturale delle identità sessuali, proprio in opposizione a concezioni basate soltanto su caratteristiche anatomiche, biologiche o fisiologiche. Il paradosso conseguente è che, proprio il termine
genere, scelto per la sua aura di neutralità in sostituzione di concetti ideologicamente connotati e connessi alla pragmatica femminista, col passare degli anni ha acquisito un gran numero di significati provenienti da settori eterogenei, a riprova dell'impossibilità di ridurne la ricchezza di significati e implicazioni a un’angolazione unica. Come ha osservato giustamente Robert Connell, l’approccio al genere richiede “una prospettiva trasversale rispetto ai confini convenzionali tra le discipline”. 81 L’avvio di una questione teorica intorno al ‘genere’ può
esser fatta risalire a un saggio del 1975 nel quale, sviluppando le analisi di Margaret Mead, secondo cui il genere dipende da molte conformazioni sociali diverse e solo parzialmente dal sesso biologico, l’antropologa Gayle Rubin critica i fondamenti delle
teorie di Lévi‐Strauss sullo scambio delle donne, e ipotizza 81 R.W. Connell, Questioni di genere, Il Mulino, Bologna 2006, p. 25.
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l’esistenza di un “sistema sesso/genere”, inteso come serie di dispositivi socialmente prodotti e costruiti, alla base dell’oppressione delle donne. Per la precisione, la definizione di Gayle individua nel
genere un "set of arrangements by which a society transforms biological sexuality into products of human activity, and in which these transformed sexual needs are satisfied"82. È l'avvio di un'era di interrogativi e dibattiti, il cui
culmine arriva alla fine degli anni Ottanta quando Joan Scott, nel saggio intitolato Genere. Un’utile categoria dell’analisi storica pubblicato sulla American Historical Review, introduce il gender come categoria esplicativa della realtà, per superare la distinzione di stampo essenzialista tra maschile e femminile per giungere a concepirlo come “un elemento costitutivo delle relazioni sociali fondate su una cosciente differenza tra i sessi, e un fattore primario del manifestarsi dei rapporti di potere”. Per la studiosa parlare di genere significa quindi riferirsi a un’area di contestazione, un territorio sociale e simbolico dove si confrontano posizioni diverse intorno a specifiche identità, diritti, comportamenti, obblighi, pratiche. Una prospettiva connessa all'analisi delle dinamiche
della rappresentanza di genere. Nelle moderne democrazie rappresentative, le assemblee parlamentari periodicamente elette sono l’espressione concreta di un meccanismo di rappresentanza che, allo stato attuale, è il prodotto di una democrazia, nata e sviluppasi, monosessuata. Anche oggi, nonostante l’ottenimento in quasi tutti i
82 G. Rubin, The Traffic in Women: Notes on the Political Economy of Sex, in R. REITER (a cura di), Toward an Anthropology of Women, Monthly Review Press, New York 1975.
La sfida della partecipazione 107
paesi del diritto di voto attivo e passivo da parte delle donne, (per quanto spesso in grande ritardo rispetto al suffragio maschile), i rappresentanti sono in larga maggioranza uomini. Nelle analisi teoriche delle studiose femministe il
riequilibrio della composizione di genere nelle istanze elettive è sovente definito un completamento della democrazia, come se i sistemi politici a quasi totale monopolio maschile e nei quali le donne sono poco presenti costituissero sistemi democratici “incompiuti”. In tali regimi l'ascesa della presenza delle donne nelle assemblee elettive di per sé non è sufficiente modificare compiutamente la forma della democrazia, limitandosi a intervenire sulla la composizione sessuata delle élites politiche. Ecco perché il riequilibrio della rappresentanza di genere costituisce un requisito fondamentale nel percorso di realizzazione di un’uguaglianza “sostanziale” tra uomini e donne secondo una prospettiva di giustizia sociale. Sulla necessità di riequilibrare la rappresentanza
politica dei generi, negli ultimi anni si è introdotta, da più parti, la nozione di democrazia paritaria. Si fa riferimento con tale espressione alla necessità di
realizzare un’equa presenza numerica dei due sessi nelle istituzioni politiche e rappresentative. Come spiega Gian Luigi Petrillo, “il problema della
scarsa presenza delle donne nel cuore pulsante delle istituzioni democratiche del Paese è un problema reale, ed è un problema della democrazia stessa; non una questione di “genere”, quanto, piuttosto, di civiltà”83. Per questo, la funzione primaria di tale democrazia
83 G.L. Petrillo, Democrazia paritaria, «quote rosa» e nuovi statuti regionali, in www.retepariopportunita.it/Rete_Pari.../saggio_petrillo.pdf
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paritaria risiede nella soppressione della “matrice monosessuale” della politica, “una nuova matrice della politica, che accolga la differenza sessuale e abbia le caratteristiche della multidimensionalità”84. Le politiche di pari opportunità, oggi, pongono il
problema di riconoscere e valorizzare la differenza di genere, puntando l’accento sulla necessità di creare una “contro‐matrice” fatta di donne che diano vita ad una vera e propria cultura politica femminile, in grado di apportare un profondo rinnovamento della politica. Una più completa democrazia necessita di un ceto politico fatto di donne e uomini. Il concetto di democrazia paritaria non ha una precisa definizione, non è dunque cristallizzato in un’unica versione, ma trova la sua espressione in diverse traduzioni ed applicazioni. In primis, la democrazia paritaria parte dal riconoscimento della cittadinanza duale e del suo carattere universale. In altre parole, poiché la partecipazione politica
richiede l’articolazione e la difesa del gruppo o dei gruppi rappresentati, ci si deve interrogare se le donne debbano essere considerato un gruppo sociale con interessi specifici. Al di là della mera ‘sessuazione’ dei corpi non si può non negare che i due generi abbiano vissuto un percorso sociale differente. Storicamente private dei diritti politici, li hanno acquisiti in ritardo rispetto agli uomini; subiscono ancora segregazioni verticali e orizzontali nel mondo del lavoro; trovano maggiori difficoltà degli uomini a mettere insieme i tempi e le attività della loro vita. Come nota Silvio Gambino, “L'analisi della realtà
evidenzia come le donne da sempre (e tuttora) risultano 84 M. Cacace, in Differenza di genere e democrazia. Idee, sperimentazioni e percorsi, Seminario Internazionale Equal “Donne in politica”, RADEP, pp.20‐21.
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fattualmente escluse, per le ragioni più variegate, oltre che da molti ambiti professionali e sociali, da quello dell'elettorato politico passivo. Con specifico riferimento alla questione dell'accesso delle donne alle cariche elettive, tuttavia, le motivazioni risultano ancora più immotivate, in quanto rinviano, con atteggiamento culturale evidentemente discriminatorio e comunque fondato su un pregiudizio odioso, ad una presunta inaffidabilità delle donne nella gestione della cosa pubblica, in ragione di una loro subordinazione per motivi connessi alla sensibilità femminile”85. Per questo, secondo lo studioso, una democrazia paritaria “potrebbe costituire un valore aggiunto nella funzione rappresentativa, viene assunto come un disvalore giustificativo della loro inutilizzazione e inutilizzabilità nelle cariche elettive, nonché in quelle di componenti degli esecutivi.”86 Il percorso verso l'electability sembra latore di ostacoli
più importanti per le donne che per gli uomini e in grado di limitare l’accesso alle arene decisionali, almeno a un gran numero tra loro. I criteri di eleggibilità sono validi per entrambi i sessi, ma hanno anzianità diverse per gli uomini rispetto alle donne, con l’effetto di far apparire come credibile e competente una classe politica esclusivamente maschile e di relegare permanentemente le donne al profilo di outsider. Anche la fase del reclutamento presenta elevati profili di criticità. Secondo alcuni pregiudizi molto diffusi le donne non sarebbero prese in considerazione per ragioni legate agli obblighi imposti dai ruoli sociali dei due sessi: in particolare non sarebbero in possesso delle caratteristiche psicologiche e 85 S. Gambino, Verso la democrazia paritaria ... cavalcando le lumache, in Astrid, Rassegna 2005, volume 1, pp. 1 ‐20. 86 Ibidem.
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sociali necessarie, quali l’ambizione politica, la scolarità, le professioni adatte, spesso associate alla carriera politica. Questa congiuntura avrebbe come effetto di porre le donne al di fuori di una certa rete informale attraverso cui le élites politiche emergono e sono reclutate. La conseguenza del limitato accesso delle donne alle
strutture di potere è, in primis, la riduzione del processo di politicizzazione delle questioni che riguardano in maniera prevalente la popolazione femminile. Un circolo che, lungi dall’abbatterlo, contribuisce a consolidare quel sistema di dominio/subordinazione che caratterizza anche le democrazie liberali. Come vedremo in seguito, molte ricerche hanno
individuato, negli ultimi tempi, l'affievolimento del pregiudizio sfavorevole alle candidature femminili: le donne non sono, in generale, percepite come candidate peggiori degli uomini. Il dato è però meno roseo se l'intervista riguarda il livello di fiducia attribuito nella gestione di compiti tradizionalmente attribuiti a un universo maschile. Un altro elemento che deve essere preso in
considerazione è senza dubbio quello dei media che abbiamo già indicato come rilevanti agenti di socializzazione politica. In effetti, sovente è la produzione e la rappresentazione
a fornire al corpo elettorale gli strumenti atti all'adozione di criteri di valutazione differenziati in base al genere. Il trattamento riservato alla politica femminile da
queste istituzioni creatrici d’opinione pubblica oscilla dal semplice ridimensionamento a un trattamento ancora più odioso, perché intriso di quegli odiosi stereotipi acquisiti propri della cultura nazionale. Così, quando i riflettori si accendono sulle candidate capita che sottolineino
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particolari legati alla loro apparenza fisica e alle loro possibilità di successo, piuttosto che indagarne le opinioni su questioni di interesse nazionale. Per questo sono necessari interventi di tipo
volontaristico che agevolino il cosiddetto processo di empowerment. Il termine può sommariamente tradotto in italiano
come “conferimento/acquisizione di poteri e autorità” o “messa in grado di”. Quindi con empowerment facciamo riferimento sia al processo attraverso il quale raggiungere il risultato, cioè dare strumenti e eliminare ostacoli per permettere l’acquisizione del potere, sia all’esito prodotto, quindi lo stato del soggetto dotato di potere. La strategia di empowerment può essere ricondotta a
un progressivo allargamento della cittadinanza che si realizza tramite un percorso dal duplice sbocco: una riguarda l’estensione dei diritti esistenti a nuove categorie di persone e l’altra la creazione di nuovi elementi per definire la cittadinanza. Si tratta di una prospettiva che affronta la cittadinanza dal punto di vista dinamico di un processo in costruzione, e che identifica i diritti di cittadinanza con un insieme preciso di pratiche concrete, sia che si tratti del diritto di voto, della libertà di parola o di disporre del proprio corpo, oppure del diritto alla sicurezza sociale. Tale concetto di cittadinanza va tradotto soprattutto nella capacità di usare una pratica insieme conflittuale e consensuale: • Una pratica conflittuale legata al potere e alle lotte
per il riconoscimento degli attori considerati come protagonisti di rivendicazioni legittime; • Una pratica consensuale in cui si realizzi la
partecipazione alle strutture di rappresentanza e di formazione delle politiche pubbliche; si tratta di un
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consenso sulle regole del gioco che definiscono le modalità di risoluzione dei conflitti. La strategia di empowerment può essere considerata,
per utilizzare la definizione dell'Oecd (Organization for Economic Co‐operation and development), “un processo di presa di coscienza e acquisizione di capacità che porta a una maggior partecipazione, a un maggior potere decisionale e controllo e ad azioni trasformative”. Il problema da porsi, è, per usare le parole di Bianca
Gelli, quanto le donne percepiscano o meno la politica come “una dimensione strutturante la loro personalità” e quanto su di loro possa incidere “il senso di poca fiducia in se stesse in quest’ambito dell’esistenza o un’aspettativa negativa, strumentale o meno che sia, degli uomini e, in parte, delle stesse donne. Quanto, di fatto, l’identificazione tra potere e politica giochi in senso negativo sulle scelte di fondo delle donne”87. Questo anche a causa della storica mancanza di una
“memoria e narrazione di sé come attrici della sfera della politica: manca una storia, mancano modelli di azione e di intervento sulla realtà sociale alle quali le donne, individualmente e in gruppo, possano fare riferimento. Manca la memoria di un potere che è esercizio della politica”88. La soluzione prospettata dall’autrice per rendere le
donne più inclini all’attivismo politico consiste nel superamento dell’attuale concezione del potere, “quello forte, istituzionale, legittimo e riconosciuto”, normalmente proprio degli uomini, in favore di “forme nuove, più flessibili, limitate, basate sulla competenza, sullo scambio, 87 Gelli B. R. Voci di donne discorsi sul genere, Lecce, Edizioni Manni. 2003, p. 28. 88 Ivi, p. 29.
La sfida della partecipazione 113
sulla parzialità”. Gelli contrappone infatti il potere all’autorevolezza: il primo, comunemente associato all’area maschile, può per certi versi prescindere dal consenso, mentre l’autorità e l’autorevolezza implicano un rapporto di fiducia legato alle relazioni interpersonali, sfera in cui il genere femminile è per costruzione culturale piuttosto esperto. Proprio su questo frangente, vedremo, si è consolidata
quella leadership femminile che è andata affermandosi negli ultimi anni in molte democrazie occidentali. Un trend inequivocabile, frutto del processo di
empowerment che ha coinvolto il sesso femminile nei due frangenti dell'elettorato attivo e passivo, e che ha portato, di recente, molte donne a posizioni di vertice, anche in ambiti che sarebbero tradizionali roccaforti maschili. Una leadership che, come vedremo può essere
analizzata in virtù delle modifiche assunte dagli attuali sistemi politici.
3.2 L'esempio di Hillary Clinton: leadership e candidacy di genere
A partire dalle premesse appena enucleate, appare necessario affrontare una questione preliminare: il manifestarsi della leadership femminile è da attribuirsi alla pura contingenza o è da porsi in relazione a una qualche caratteristica degli attuali sistemi politici? Max Weber in quegli scritti sulla democrazia
plebiscitaria che hanno caratterizzato gli ultimi anni della sua produzione si è interessato alle dinamiche di formazione della leadership nei periodi di maggior cambiamento sociale e politico.
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Secondo David Beetham, “Negli ultimi scritti di Weber, la leadership politica è presentata come un fatto individuale, che si svolge entro un contesto di istituzioni politiche, sulla base di reazioni politiche con un elettorato di massa”89. La svolta teorica di Weber risiede nel passaggio da una
concezione che collocava la creazione di leadership democratiche e autorevoli nel parlamento e nei partiti a una concezione che si consegna a un ineluttabile destino di creazione della leadership attraverso meccanismi plebiscitari. Ai nostri giorni, in presenza di democrazie acefale che
attraversano crisi sociali ed economiche di portata internazionale, una leadership diversa può emergere portando con sé un profilo di outsider che, in condizioni normali, non sembrerebbe avere alcuna chance di successo. Sulla base delle annotazioni weberiane, molti studiosi
hanno notato come i leader outsider trovano spazio per emergere soprattutto nelle fasi di crisi della politica tradizionale, cioè quando quest'ultima non riesce più a soddisfare le aspettative che i cittadini nutrono nei suoi confronti. Aspettative che non sono riducibili a mere istanze di tipo politico‐ programmatico, ma che, invece, devono essere ricondotte all'iperuranio dei modelli di ispirazione ideologica e morale. Indubbiamente, l'ascesa di una leadership al femminile
rappresenta un elemento di rottura e novità rispetto al passato, anche rispetto a pratiche consolidate e reiterate nei tradizionali processi di decision‐making. La carica di novità che un'immagine femminile al potere
89 G. Pasquino, Plebiscitarismo, in Vocabolario delle Scienze sociali, Istituto Enciclopedico Treccani, da www.treccani.it
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comporta potrebbe, pertanto, non essere estranea al fatto che alcune donne leader credibili con concrete chance di vittoria, (in taluni casi realizzate, in altri no), siano comparse sulla scena proprio in una fase in cui la democrazia dei partiti ha mostrato cedimenti e il desiderio di un nuovo modo di fare politica coinvolge tutte le democrazie avanzate. L'interrogativo da porsi è, a questo punto, se sussista
una relazione di qualsiasi tipo tra lo stato di salute delle istituzioni e delle classi politiche e una maggiore disponibilità a prendere in carica una candidatura femminile90. Per farlo dobbiamo necessariamente allargare la
prospettiva al di fuori del nostro Paese, che in questo frangente, lo accenneremo, ha ancora molta strada da fare. E, poiché nel nostro studio sulle primarie abbiamo
considerato inevitabile il paragone con la matrice statunitense del fenomeno, il primo caso di studio non può che essere statunitense. Hillary Rodham Clinton è sempre stata una figura
pubblica polarizzante, dalla sua ascesa come first lady fino alla candidatura alle primarie del Partito democratico in vista delle elezioni presidenziali. Il tratto peculiare, che ha reso la figura della Clinton così
rilevante nel panorama politico di genere, è stato il modo in cui ha interpretato il suo ruolo di donna, mettendo in discussione stereotipi e linee di demarcazione tra ruoli di genere consolidati. Anche se la successiva vittoria di Barack Obama, primo
candidato di colore della storia, ha ridotto la portata 90 Sul tema, cfr. D. Campus, C. Vaccari, “Candidate alla presidenza. Casi a confronto: Hillary Clinton e Ségolène Royal”, in Polena, 2/2007.
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dell'evento, la candidatura della Clinton alla presidenza degli Stati Uniti rappresenta un fatto potenzialmente storico. Anche perché la questione di genere resta un tratto fondamentale della sua proposta politica. Come notano Janette Kenner Muir e Anita Taylor, la
partnership che i Clinton mettono in atto può essere considerata, a tutti gli effetti, “a marker of gender dynamics, in the ways that their roles mesh, contrast, and are interpreted”. Secondo le due studiose, “i Clinton incarnano il gender issue, come individui e come coppia, secondo modalità che travalicano le linee di demarcazione tradizionali delle aspettative di genere nel loro milieu sociale e culturale di appartenenza”. 91 La campagna di Hillary Clinton per le presidenziali del
2008 è stata considerata, da molti, un evento storico: mai, infatti, una donna era arrivata così vicina alla conquista della nomination per uno dei due partiti maggiori. E pur tuttavia, questo successo è frutto di una lunga gestazione politica, che passa per le candidature precedenti di donne come Margaret Chase Smith, Shirley Chrisolm, Patricia Schroeder e Elizabeth Dole. Quest’ultima, in particolare, condivide con la Clinton
una caratteristica fondamentale del proprio percorso politico: entrambe sono state infatti first lady prima di scendere in campo, ed entrambe hanno, nei propri discorsi, “messo in evidenza la propria femminilità normalizzandola nei tradizionali ruoli di genere”. 92 Come notano Dow e Tom infatti, la ricorrenza di quello
che definiscono “feminine style” può essere dovuta al fatto 91 J.K. Muir e A. Taylor, Navigating gender complexities, in J. L. Edwards (a cura di), Gender and political communication in America, Lexington books 2009, p. 2. 92 Ivi, p. 42.
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che, nonostante le opportunità storicamente offerte alle donne in senso di partecipazione e rappresentanza si siano moltiplicate negli ultimi decenni, così non è per le aspettative che la società nutre nei loro confronti. Questo spiega perché, in generale, i ruoli sociali che esse sono chiamate a rivestire consistono, nella maggior parte dei casi, nella riproduzione pubblica dei ruoli privati e tradizionali. La donna come zoon politikon è pubblica nutrice, empatica e sensibilizzata verso tematiche di tipo emozionale. Non a caso, numerose ricerche hanno provato come gli
elettori riconoscono, o credono di individuare, alcune qualità specifiche come distintive di una leadership femminile. Una ricerca del Siena Research Institute del 200793 rileva che, secondo l'elettorato statunitense, un presidente donna sarebbe più in grado di affrontare le questioni legate allo stato sociale, e quindi istruzione, sanità e pensioni, nonché far fronte agli stati di emergenza derivati, ad esempio, dalle calamità naturali. Secondo lo stesso cluster di elettori, vi sono tematiche su cui il genere influenzerebbe significativamente la condotta e la capacità di un presidente. In particolare, il ruolo che gli intervistati ritengono andrebbe attribuito specificatamente a un uomo, perché più adeguato al compito, è quello di “comandante in capo nel caso di una crisi militare”. Questi fattori hanno determinato la forzata inclusione di
uno stile femminile nella retorica politica degli scorsi decenni. Uno stile che ha implicato l'abolizione di tutte le cosiddette macho strategies e l'adozione di un approccio collaborativo piuttosto che competitivo. Scrive Jamieson, “Consistent with social sanctions against aggressive 93 Cfr. D. Campus, C. Vaccari, Candidate alla presidenza. Casi a confronto: Hillary Clinton e Ségolène Royal, in Polena, 2/2007.
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speech by women, they are also less likely than men to speak on controversial topic”. 94 Attraverso lo studio del discorso pubblico, Blankeship e
Robson hanno identificato cinque caratteristiche peculiari dello stile di leadership femminile: 95 1. la produzione di giudizi politici sulla base di concrete
esperienze vissute; 2. la valorizzazione del concetto di inclusività sociale e
della natura relazionale dell'essere umano; 3. la concettualizzazione del pubblico potere come la
capacità di far sì che le cose siano realizzate secondo una gestione condivisa del potere stesso;
4. lo spostamento delle gender issues al centro dell'arena pubblica. Il suddetto modello non è tuttavia sufficiente a spiegare
quello che è stato lo stile di leadership di Hillary Clinton, nella sua lunga campagna, a fianco del marito prima, da sola (ma con Bill a sostegno) poi. I coniugi Clinton richiedono un tipo di analisi multi‐
livello, proprio perché essi si sono sempre proposti come una coppia paritetica, quasi dal momento originario della loro ascesa come duo politico. Le premesse di fondo sono tre. In primis, non bisogna
omettere il fatto che, come abbiamo visto, il genere è una costruzione di gruppi sociali e culturali. Il concetto di gender è il frutto cioè di un contesto
relazionale, quello delle interazioni comunicative tra individui. E il riconoscimento del ruolo fondamentale dell'interazione tra comunicatori nello stabilire e 94 K. H. Jamieson, Eloquence in electronic age: the transformation of Political Speechmaking, New York, Oxford University Press, 1988, p.46. 95 Cit. in L. Edwards (a cura di), Gender and political communication in America, Lexington books 2009, p. 43.
La sfida della partecipazione 119
mantenere consolidate dinamiche di genere implica la necessaria adozione di un rinnovato approccio all'interazione tra il leader e il suo uditorio. Per comprendere pienamente come e quanto il genere sia implicato nel rapporto costruito dai Clinton e il proprio bacino elettorale di riferimento, gli analisti considerano il genere come una degli elementi discriminanti, ma non l'unico. In altre parole, la teoria femminista fornisce la
prospettiva necessaria per comprendere i Clinton come team politico, non soltanto come due candidati dal notevole spessore individuale, né, riduttivamente, come la tradizionale coppia politica in cui la moglie fornisce il supporto e l'aura di legittimazione domestica necessaria al marito per raggiungere la vetta del successo. La base di partenza è lo schema elaborato da Sandra
Bem96, che, per spiegare le caratteristiche intrinseche all'arena politica statunitense, utilizza la metafora di una triplice lente, costruita su tre fondamenti: l'androcentrismo, la polarizzazione del genere e il cosiddetto essenzialismo biologico97, in base a cui è il genere del leader a determinarne, in modo ineluttabile, lo stile di leadership e la stessa configurazione identitaria pubblica. Il percorso di Hillary in realtà è molto più complesso. In
più di trenta anni di vita pubblica, infatti, Bill e Hillary Clinton sono riusciti a regolare la rotta delle aspettative di 96 Ivi, p. 7. 97 Il termine “essenzialismo”, qui, si riferisce a quelle spiegazioni della vita sociale per cui i fenomeni sono “essenze a‐priori” totalmente sottratte per principio alla disponibilità dell’attività umana. Determinismo biologico ed essenzialismo di fatto si sostengono a vicenda, poiché il primo ancora queste essenze al livello biologico, naturale e pre‐sociale di strutture corporee la cui presenza e dinamica sociale è spiegata in termini evolutivi di specie.
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genere e a costruire, entrambi, delle stupefacenti carriere politiche. Le loro vite e le loro scelte retoriche confermano
l'ipotesi per cui, lungi dal costituire una caratteristica pre‐determinata (come il sesso), il discorso di genere a livello politico è, a tutti gli effetti, un processo in via di evoluzione, che acquisisce forma dalle interazioni comunicative tra gli individui e i propri pubblici. Le tradizionali aspettative dell'elettorato basate sulla
relazione coniugale dei Clinton e sul milieu culturale di appartenenza non trovano corrispondenza nelle strategie di Hillary, che ha spesso deliberatamente deciso di violare tali aspettative. Come scrivono ancora Kennet e Taylor “Essentially, the Clintons were living gender in new ways by blending characteristics and challenging cultural norms98”. Il risultato, spesso, si estrinseca in una sistematica inversione delle aspettative: mentre Bill in pubblico è notoriamente caloroso e focalizzato sull'instaurare relazioni durature, Hillary è più fredda e riservata. Pur tuttavia, non si tratta di caratteristiche permanenti dei due personaggi. Anche perché, Hillary, almeno nella prima parte della propria carriera, ha compiuto significative gendered choices per aiutare l'ascesa del marito. Di fatto, ha scelto di modificare la propria identità professionale, rivelando di saper evitare, con abilità, le trappole delle tradizionali aspettative di genere. Così, ecco che l'orgogliosa Hillary Rodham decide di abbandonare il proprio cognome per prendere quello di Bill, e di adottare lo stile di vita consono alla moglie di un servitore pubblico, la cui pubblica identità deve essere definita dal proprio compagno. 98 L. Edwards (a cura di), Gender and political communication in America, p. 14.
La sfida della partecipazione 121
E, nello stesso tempo, Hillary ha avuto un ruolo centrale nelle campagne e nell'attività amministrativa di Bill. Una campagna forte, che ha affrontato la crisi matrimoniale rimanendo ancorata al proprio ruolo di moglie, dimostrato la stessa temerarietà nelle prime fasi della propria ascesa politica. Al punto che, le prime critiche che le vengono mosse nel
2008 sono proprio relative al carattere freddo e poco incline all'ironia, che la candidata sembra dimostrare. Da qui la reazione: “Hillary tried to lighten her image by making some light‐hearted jokes ad her videos appeared on the Web site Youtube”, scrivono ancora le due studiose. Un atteggiamento di apertura al gender‐expected behavior, che è culminato nel momento di pubblica commozione durante il convegno in New Hampshire. E che non le ha risparmiato numerose polemiche: “Hillary's teary‐eyed response was criticized by some as being too emotional, others suggested this was a moment that underscored her humanity, and yet others claimed it was a calculated attempt at anhancing her self‐image99”. Sempre oggetto di critiche e polemiche relative proprio
alle modalità di declinazione del problema di genere, Hillary sembra però essersi riuscita a smarcare meglio dall'immagine di “donna che si occupa di questioni di donna”: è entrata nella Commissione Forze armate al Senato e ultimamente si è dedicata alla politica militare e internazionale. In sintesi, il tentativo di Hillary Clinton, se da un lato
dimostra l'importanza del fatto che le candidate si sentano investite dal mandato di rappresentare gli interessi delle donne, gruppo normalmente maggioritario nell'elettorato,
99 Ivi, p. 16.
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ma ampiamente sotto‐rappresentato nelle cariche elettive, dall'altro dimostra come tale aspettativa non debba tradursi in una sorta di divisione del lavoro tra uomini e donne, in quanto ciò può costituire una limitazione forte all'emergere di influenti leader femminili. Che devono confrontarsi con un elettorato particolare,
quello delle donne, che non è disposto, come vedremo, a votare sulla sola base dell’affinità di genere.
La sfida della partecipazione 123
3.3 La questione di genere nell'elettorato: “Is a woman fit to lead a Country?”
Gli atteggiamenti degli statunitensi rispetto alla possibilità di una donna presidente sono mutati radicalmente in senso egualitario, nel corso del tempo. (rielaborazione propria da: www.gallup.com)
Come riporta un sondaggio Gallup del 2005, se “nel
1937 solo il 33% degli elettori si dichiarava disponibile a votare per una donna alla Casa Bianca,” negli anni la percentuale è, in generale, cresciuta costantemente: Tuttavia, una delle distorsioni più diffuse in questo tipo
di ricerche deriva dal fatto che i soggetti intervistati potrebbero non rivelare le proprie convinzioni nel caso in
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cui esse fossero in contrasto con le norme del political correct, o, semplicemente, con le norme sociali assodate. Per questo, un utile metodo per sondare il campo può essere quello di indagare il clima d'opinione. E così, alla domanda “Gli Stati Uniti sono pronti per una
donna alla presidenza?”, solo il 61% risponde affermativamente. Questa risposta potrebbe fornirci, indirettamente anche un indizio sul livello di electability100 e di likeability101 attribuiti alla candidata. Questi due criteri costituiscono la struttura di
leadership, cui si collegano elementi valoriali, definiti dall’appartenenza partitica e dalle convinzioni personali, ed elementi programmatici.
100 S'intende per electability l’insieme di qualità soglia che mettono in mostra la potenzialità elettorale del candidato, quanto è completa e potenzialmente vincente la sua figura. Sono tre gli elementi principali: l’essere percepiti come sinceri, la voglia (o l’ambizione) di impegnarsi, l’efficacia dimostrata o presunta da precedenti esperienze. Chi dimostra di avere queste qualità è competitivo, supera la soglia per essere presi in considerazione dall’elettorato. 101 La likeability è invece qualcosa di molto più sfumato e variabile come lo sono le relazioni umane. Essa è la capacità di piacere, di ispirare fiducia, di colpire la sensibilità emotiva delle persone.
La sfida della partecipazione 125
(rielaborazione propria da The pew research for the people and the
press) Ovviamente non tutti gli elettori mostrano la stessa
propensione a votare per un candidato donna. Secondo una ricerca di The Pew Research for the people and the press, infatti, vi sono alcuni settori della popolazione che mostrano minor favore a una candidatura femminile: ecco come rispondono alla domanda Are Americans not ready for women in top political offices? Come si evince dalla tabella, sono gli elettori più anziani
e meno istruiti ad avere il tasso di scetticismo più alto nei confronti di una ipotetica presidenza femminile, mentre le opinioni più favorevoli si riscontrano fra i giovani, i neri, gli elettori con un tasso di istruzione più alto. Si tratta, in sostanza, di un elettorato più aperto verso la
modernità che considera auspicabile una carriera pubblica
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a consacrazione del rinnovato ruolo sociale della donna. Al contrario, proprio per i motivi opposti, e cioè proprio per timore di un abbandono del ruolo tradizionale di moglie e madre e per la considerazione dell'inopportunità di una leadership femminile, le fasce più conservatrici mostrano gradi di apertura più bassi. C'è poi la questione delle elettrici donne. Si è spesso
sottolineato come la carenza di supporto di genere sia uno dei tratti distintivi delle lotte quotidiane per l'emancipazione femminile. Le donne appaiono spesso il più grande ostacolo a se stesse e all'ascesa di rappresentanti del proprio genere. Una forma di boicottaggio, su cui incide, nel caso
elettorale (ma non solo), il sub‐strato culturale e relazionale in cui esse sono inserite. Non a caso, nella tabella presentata le donne appaiono,
in via teorica, solidamente orientate a votare per un candidato donna. E in effetti Hillary Clinton aveva ottenuto ben il 73% dei consensi femminili. Ciononostante, alla fine delle elezioni primarie, la scelta delle donne si sposterà sul candidato di colore, Barack Obama:
La sfida della partecipazione 127
(http://www.sociol.unimi.it/docenti/barisione/index.it) Le donne votano per Obama, piuttosto che per un'altra
donna. È innegabile tuttavia che la scelta di un candidato prima (e di un presidente poi) rappresenti una svolta epocale per la società statunitense. E in tal senso l'elettorato giovane si è mosso verso la proposta più innovativa e sensibile verso le tematiche supportate da Obama. Non è questa la sede più opportuna per indagare tale comportamento elettorale, a cui sono state dedicate numerose pubblicazioni. Quello che preme invece sottolineare, è, invece, come alcuni strati dell'elettorato femminile sia ancora largamente influenzabile nel proprio giudizio (e pregiudizio) pre‐elettorale. In generale, l'ultimo trentennio ha visto l'affermazione
di un divario, o gender gap,102 tra il voto e le identificazioni partitiche di uomini e donne. In base a tale spostamento, gli uomini si sarebbero spostati verso preferenze repubblicane, le donne verso la fazione democratica. Come si evince anche dall'inchiesta condotta da Gallup nel 2008, in cui si osserva: “Clearly, married Americans (especially married men) form a large part of the Republican base”.103 Si tratta di una differenza di voto che si è attestata su
una media di 7,5 punti percentuali annui, e che fa delle donne una parte maggioritaria della base elettorale democratica. E siccome le donne costituiscono la maggioranza sia di coloro che si sono registrati al voto, sia dei votanti effettivi, esse sono decisive.
102 Il termine gender gap indica il divario di genere in termini di opportunità e di accesso alle risorse, ed è declinabile nei vari campi in cui tale gap si estende. 103 Fonte: http://www.gallup.com/poll/104335/Love‐Politics‐Valentines‐Day.aspx
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Non tutte le donne, però, presentano un comportamento elettorale omogeneo. L'indagine di Gallup prosegue infatti individuando una importante frattura sociale: quella tra donne sposate e donne nubili. Le prime, infatti, tendono a simpatizzare per i Repubblicani, così come i loro coniugi, dimostrando in questo senso di subire l'influenza delle reti sociali in cui esse sono inserite piuttosto che degli aspetti programmatici o più prettamente politici:
(fonte: www.gallup.com) Il comportamento elettorale ricalca quello suggerito da
un'altra frattura: quella tra donne che lavorano e che non lavorano. Anche qui, le prime sono più inclini a votare per il partito democratico, mentre le seconde sono potenziali (ed effettive in parte) elettrici repubblicane. In definitiva, la campagna per le primarie di Hillary Clinton è emblematica di alcune caratteristiche che i sistemi politici contemporanei vanno assumendo.
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Da diverso tempo, infatti, tutte le ricerche comparate illustrano una generale, preoccupante diminuzione del tasso di fiducia nelle istituzioni politiche, e nei politici che tali istituzioni rappresentano. Parallelamente, non a caso, si è parlato di una nuova dimensione della dimensione partecipativa dell'elettorato, che ha assunto i toni di una “mobilitazione cognitiva”, un fenomeno definito da Dalton come “un coinvolgimento astratto e psicologico nella politica, che si ha quando gli individui dispongono delle risorse necessarie per essere politicamente mobilizzati, senza la necessità di supporti e indicazioni esterne”. Tale tipo di mobilitazione, associata a un mutamento dell’universo valoriale degli elettori, tenderebbe non a rafforzare, ma a sostituire le tradizionali forme di mobilitazione politica, attivando forme di coinvolgimento innovative, fino alla “sindrome del cittadino critico” postulata da Pippa Norris nel 1999. Tale sindrome è ben descritta da un evidente paradosso: “Sempre più paesi sono conquistati alla causa della democrazia, sempre più cittadini delle vecchie e nuove democrazie sono insoddisfatti per come la democrazia funziona”. Questo presuppone l'esistenza di settori crescenti della popolazione con le risorse e le capacità di comprendere realtà politiche complesse e prendere decisioni autonome e che sono dunque, meno propensi ad accettare modalità di partecipazione gerarchiche ed imposte dalle élite. Da tale insoddisfazione verso le élite politiche
tradizionali potrebbe sorgere e manifestarsi una conseguenza che garantirebbe il sistema politico stesso, pur soddisfacendo le istanze dei cittadini critici: la ricerca di nuove leadership che manifestino discontinuità rispetto alla gestione clientelare e cooptativa dei partiti tradizionali e che si mostrino in grado di rappresentare un
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elettorato sempre più informato e sempre più desideroso di partecipare. Una leadership democratica, che apra a quelle fasce di popolazione storicamente escluse dalla rappresentanza post‐elettorale nella garanzia delle proprie issues. È la sfida della rappresentanza femminile, e i tempi
sono maturi perché le donne possano provare a raccoglierla.
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3.4 Sulla questione di genere in Italia: le diverse
dimensioni della partecipazione politica
Il dibattito teorico relativo agli studi sulla partecipazione politica ha assunto nel tempo tonalità molto differenti. Il percorso di rielaborazione è partito dalla definizione del fenomeno per poi tentare di delinearne in maniera esaustiva i relativi processi e le varie forme di manifestazione. La maggior parte degli autori concorda sul fatto che la
partecipazione elettorale non è che una delle forme di partecipazione politica, cui si devono sommare le forme di coinvolgimento, convenzionali e non, che si sono gradatamente affermate in ragione e in virtù di una dialettica tra le istanze di un elettorato sempre più attivo e l'accresciuto ruolo dell'apparato politico‐amministrativo delle democrazie contemporanee. Sin dagli anni Settanta, quindi, ulteriori attività sono
state ricondotte all'alveo della “partecipazione politica”: si tratta di attività che incidono sulle decisioni di policy making seppure nei modi più svariati. Tra queste rientrano azioni di tipo non convenzionale,
che includono, ad esempio "scrivere ad un giornale, aderire a un boicottaggio, autoridurre tasse e affitto, occupare edifici, bloccare il traffico, firmare petizioni, fare un sit‐in, partecipare a scioperi selvaggi, prendere parte a manifestazioni pacifiche, danneggiare la proprietà o, ancora, usare forme di partecipazione estreme e illegali come violenza contro le persone" (Dalton 1988). Secondo Gianfranco Pasquino, per partecipazione
politica possiamo intendere un insieme di atti e di atteggiamenti tesi ad “influenzare in maniera più o meno
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diretta e più o meno legale le decisioni dei detentori del potere nel sistema politico o in singole organizzazioni politiche, nonché la loro stessa selezione, nella prospettiva di conservare o modificare la struttura e quindi i valori del sistema di interesse dominante”. 104 La tassonomia introdotta da Giacomo Sani aiuta ad
afferrare la varietà del fenomeno. Lo studioso, in particolare, distingue tra forme “visibili”
e “non visibili” di partecipazione, e ancora forme “istituzionalizzate” e “non istituzionalizzate” e arriva a postulare un lungo elenco di comportamenti che rientrano nell'alveo della partecipazione politica e che sono: 105 • mantenersi informati attraverso mezzi formali o
informali su questioni politiche; • discutere frequentemente di politica con vicini, amici
e colleghi; • segnalare alla comunità problemi di interesse
generale ed eventualmente suggerire soluzioni; • contattare organi di governo o personale politico per
ottenere la soluzione di determinati problemi; • cercare di convincere gli altri della bontà del proprio
punto di vista; • esercitare regolarmente il diritto di voto nei diversi
tipi di elezione; • iscriversi a partiti o movimenti politici o a
organizzazioni politicamente rilevanti; • svolgere attività in associazioni più o meno connotate
politicamente; • partecipare a manifestazioni pubbliche a carattere
104 G. Pasquino, Nuovo corso di scienza politica, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 71.. 105 G. Sani, Partecipazione politica, in Enciclopedia delle Scienze sociali, Roma, Istituto Enciclopedico Treccani, 1996.
La sfida della partecipazione 133
politico (riunioni, cortei, dimostrazioni, assemblee); • prestare la propria attività nel Corso di campagne
elettorali; • prendere parte a iniziative di comunità a protezione
di particolari interessi o valori (petizioni, raccolta firme, contatti con mezzi di informazione, pressioni sugli organi di governo, ecc.); • partecipare a manifestazioni di protesta o a sostegno
di determinate cause (occupazione di edifici, blocco di sedi stradali o ferroviarie, dimostrazioni, marce, ecc.). Anche con riferimento agli studi di genere le analisi
sulla partecipazione politica si sono a lungo tempo concentrate sulle specificità riconducibili alla partecipazione elettorale o all'identificazione partitica, a partire dal contesto personale femminile. Duverger, per esempio, nel lontano 1955 notava come, in un'epoca in cui la dimensione sociale femminile si esauriva tra le mura domestiche e la posizione sociale era definita da quella del marito, la partecipazione politica autonoma rispetto al contesto familiare era pressoché assente. A lungo si è quindi associata l'interpretazione del
comportamento politico femminile al modello centro‐periferia, sulla base della storica posizione di marginalità della donna rispetto all'arena politica: come scriveva Milbrath " le persone vicine al centro della società sono più inclini a partecipare in politica delle persone vicine alla periferia"106. Una prospettiva limitata che si è ampliata solo con il passare del tempo, quando lo studio sulla partecipazione politica in generale e di quella femminile in particolare ha preso in considerazione fattori
106 Cit in G. Pasquino, Nuovo corso di scienza politica, p. 82.
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motivazionali e relazionali, tra cui la disponibilità al coinvolgimento in associazioni e il grado di mobilitazione. A questo proposito, bisogna sottolineare che, allo stato
attuale, non si riscontra un gender gap significativo connesso alla partecipazione elettorale, almeno per quanto riguarda il mero atto di recarsi alle urne per votare. Diverso è il discorso per le altre forme di partecipazione. In questo caso, invece, anche i più recenti lavori nell’ambito hanno rinvenuto una tendenza di calibro minore, da parte delle donne, a occuparsi di aspetti meramente politici. Le stesse donne appaiono invece più invece disponibili a intraprendere azioni sociali legate al contesto con una forte connotazione relazionale. Come nota Pippa Norris 107“la propensione femminile al
coinvolgimento e alla partecipazione si mantiene piuttosto omogenea rispetto al genere in attività di protesta, mentre si manifesta una scarsa disposizione femminile alla partecipazione ad attività di mobilitazione promosse da partiti e gruppi politici, nonché all’iscrizione a partiti o ad associazioni professionali”. In sostanza, secondo Norris si registrerebbe un
incremento della partecipazione e iscrizione femminile che riguarda l'adesione a organizzazioni umanitarie e di volontariato. Un'annotazione che rafforza l'ipotesi del maggiore potenziale di attrazione che le compassion issues ovvero le tematiche sociali, umanitarie ed assistenziali hanno sulle donne. L'ipotesi è che “ alcune di queste compassion issues siano associate con le istanze delle minoranze razziali nella rappresentazione mediatica, e, di conseguenza, in quella dell'opinione pubblica”. Indagando sul ruolo di queste issue nella tradizionale
107 P. Norris, Lovenduski J.e Campbell R. Gender and political Participation, Research Report, London, 2004.
La sfida della partecipazione 135
socializzazione di genere, si ipotizza che il gap tra uomini e donne derivi dal fatto che “i due generi reagiscano in maniera differente ai tentativi di sensibilizzazione messi in atto dai candidati nei confronti dei gruppi sociali più vulnerabili”108. Come nota Simona Gozzo, "la dimensione in cui più si
manifesta la specificità di genere sembra essere quella motivazionale, dal momento che alle donne viene attribuito un limitato senso di efficacia politica. Questo spiega anche perché le donne stesse si percepiscano meno capaci di incidere sulle scelte politiche o di comprendere questioni politicamente rilevanti rispetto agli uomini, anche a parità di istruzione ed informazione politica"109. Il tentativo di individuare la variabile fondamentale di
partecipazione riconducibile al genere si è a lungo concentrato sulla struttura relazionale e sulle dinamiche motivazionali sottese al coinvolgimento, fino all'incremento del gender gap sulle preferenze di voto registrato nei Paesi anglo‐americani e più in generale nelle democrazie occidentali. Questo fenomeno elettorale ha costretto gli studiosi ad ampliare la prospettiva, alla luce di alcune linee di tendenza specifiche. Come abbiamo già visto in riferimento al panorama
statunitense, se nel primo dopoguerra viene osservata da più parti la propensione delle donne al voto conservatore, a partire dagli anni Ottanta negli Stati Uniti si registra un ridimensionamento del differenziale di genere, attribuito ad un supposto incremento del consenso femminile per la
108 V. L. Hutchings, N. A. Valentino. T. S. Philipot e I. K. White, The Compassion Strategy: Race and the Gender Gap in Campaign 2000, Public Opinion Quarterly,Oxford Journals, Volume 68, issue 4, 4 December 2004 pp. 512‐541. 109 S. Gozzo, Il colore della politica, Bonanno Editore, p. 49.
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sinistra. Al fenomeno sono state date, in effetti, diverse spiegazioni, sulla scorta di un progressivo processo di omologazione dei criteri di scelta del voto, operata sia da parte degli uomini che delle donne, con conseguente riduzione del relativo gap riferito alla variabile in analisi. Si può ritenere che il decremento del differenziale di
genere sia dovuto a un cambiamento in senso conservatore dell'elettorato maschile. Tuttavia, come abbiamo visto in relazione al comportamento di voto femminile statunitense, la riduzione del gender gap è più plausibilmente sintomo della tendenza delle donne a spostarsi su posizioni progressiste. Particolare rilevanza viene attribuita, in questo senso, all’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e alla conseguente acquisizione di autonomia in interessi e scelte di voto, sia rispetto al coniuge che alla famiglia di origine. Nel contesto italiano si è affermata ipotesi che
l'appartenenza al ceto medio dipendente o al lavoro autonomo abbia inciso in maniera determinante sulle scelte di voto e sulle dinamiche di identificazione di partito110. L'ipotesi sottesa è che si sia venuta a costituire, nel
contesto italiano, una nuova frattura che attraversa quello che è la corrispondenza biunivoca fra alcuni ceti sociali e schieramenti politico‐elettorali. Gli studiosi parlano in particolare di un “allineamento dei ceti medi privati, insieme alla borghesia, sulle posizioni del Centro‐destra, dei ceti medi pubblici, sulle posizioni del centro‐sinistra”111. Se a tale ipotesi incrociamo l'appartenenza di genere si
110 Cfr. M. Caciagli, P. Corbetta, Le ragioni dell'elettore: perché ha vinto il centro‐destra nelle elezioni italiane del 2001, Bologna, Il Mulino, 2002. 111 Ivi, p. 161,162.
La sfida della partecipazione 137
giunge alla conclusione che, anche in Italia, “con l'emancipazione della donna, l’inserimento nel mondo del lavoro e la progressiva crescita del livello di istruzione, le donne sono diventate meno conservatrici e più sensibili verso quei partiti che hanno inserito l’emancipazione femminile come tema cruciale della loro agenda politica”112. L'ipotesi di una convergenza tra l’incremento del voto
femminile progressista e l’ingresso e il consolidamento della posizione delle donne nel mercato del lavoro è riconducibile alla cosiddetta women's autonomy thesis, che collega la maggiore partecipazione politica delle donne con il processo di emancipazione derivante dal rigetto delle dinamiche relazionali tradizionali responsabili dell’associazione tra gli interessi delle donne ed il mantenersi di una struttura di potere esclusivamente male‐dominated. Secondo Susan J. Carrol, “the autonomy thesis combined both economic and gender explanations of the gender gap”.113 Non tutti gli esperti, però, ritengono il genere una
variabile rilevante nell'analisi della partecipazione elettorale. Nel corso del tempo, si è infatti sviluppato un filone che considera il genere un fattore scarsamente rilevante, riconducendo l’emergere di un eventuale gender gap ad altre variabili sopravvenute, riconducendo le prospettive emerse a evoluzioni del modello delle risorse o modello centro‐periferia. Una analisi che conferma tale spostamento è quella che
Pippa Norris e Ronald Inglehart hanno compiuto sul 112 Cuturi V., Sampugnaro R., Tomaselli V. L'elettore instabile: voto/non voto Milano, Franco Angeli 2000, p. 28. 113 J. A. Flammang, Women's political voice, Temple University Pres, Philadelphia 1997, p. 132.
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divario politico di genere tra il 1980 e il 2000 in 74 nazioni. Secondo tale studio in tutte le società il processo di modernizzazione, nel promuovere una riduzione delle differenze sociali tra uomini e donne, comporta anche una riduzione di quel tradizionale gender gap fino a un suo completo annullamento. Tale processo, nelle società più avanzate è andato oltre e ha portato all'affermazione di quello che è stato definito modern gender gap, dove le donne sono "più a sinistra" degli uomini (cfr Corbetta e Ceccarini 2011). Tale teoria da sola è insufficiente. L'esplorazione dei
fattori che conducono alcuni individui a una maggiore politicizzazione e quindi alcuni gruppi a manifestare un tasso di interesse e partecipazione più alto deve infatti, come nota Gianfranco Pasquino, "essere ricondotta a un insieme di fattori che attengono alla e derivano dalla cultura politica e dalla struttura politica del sistema e dei sottosistemi in esame"114. Quasi tutti gli autori concordano sull'incidenza di
condizioni strutturali quali età, livello di istruzione, classe sociale. Criteri a cui devono essere necessariamente affiancate altre fonti di variabilità del comportamento politico. "Fra le generalizzazioni maggiormente confortate dalle ricerche empiriche ‐ continua ancora Pasquino, ‐ le più sicure per quel che riguarda l'inclinazione degli individui a esercitare il diritto di voto riguardano, da un lato, alcuni orientamenti psicologici, dall'altro, alcune componenti che potremo definire ambientali". L'analisi del gender gap riferito alla partecipazione
politica ha portato, in effetti, ad attribuire rilevanza crescente a quella che potremmo definire la dimensione
114 G.Pasquino, Nuovo corso di scienza politica, p.77.
La sfida della partecipazione 139
valoriale, a livello individuale e collettivo. Da un lato, infatti, riguarda il cosiddetto senso di efficacia individuale, ovvero la convinzione di poter influenzare la scelta con il proprio voto; dall'altro inerisce alla dimensione dell'attivismo e delle reti sociali che consentono l'estensione di una socialità fondata in primis su specificità legate al genere.
3.5 Reti sociali, attivismo e partecipazione di genere. Abbiamo visto come secondo Giacomo Sani “partecipare vuol dire prendere parte alla vita politica della società in cui si vive, alle attività politiche della propria comunità”115. L'elemento cruciale che caratterizza spiccatamente la
partecipazione politica rispetto alle altre forme di partecipazione, risiede nella sua intima connessione alla “ polity, cioè allo Stato e alle istituzioni e organizzazioni politiche (parlamento, partiti, voto, referendum, ecc)”116. Si tratta di una forma partecipazione che trae senso e
piena legittimazione da quel senso di comunità definito da Seymour Sarason, come un concetto che “rimanda ai processi attraverso i quali gli individui si riconoscono come appartenenti ad una collettività stabilendo un sistema di rapporti e interdipendenze a cui subordinare i propri interessi particolari” 117. Ovviamente, una forma di influenza così postulata è qui
115 G. Sani, Partecipazione politica, in Enciclopedia scienze sociali, Istituto Enciclopedico Treccani, 1996. 116 Ibidem. 117 S. Sarason, cit in C. Rollero, Essere attive nella gestione della polis: uno studio su partecipazione e differenze di genere, Quaderni di donne e ricerca, 1/2006, p. 21.
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intesa in senso necessariamente bidirezionale. Perché abbia completa realizzazione, il singolo deve nutrire la percezione di una possibile influenza sulle deliberazioni di gruppo e, contemporaneamente, il gruppo deve poter incidere sulle scelte dei soggetti che ne fanno parte. La partecipazione è facilitata dall'appartenenza a reti
formali o informali. In particolare, l'interesse verso alcune cause svolge una importante funzione cognitiva, rafforzando le motivazioni iniziali. Una studio di William Davidson e Patrick Cotter118 sulla
relazione tra il senso di comunità e partecipazione politica misurata su una scala a cinque pioli (e cioè esercitare il diritto di voto, fare campagna elettorale, contattare uomini politici, lavorare sui problemi della collettività e parlare di politica) ha dimostrato una corrispondenza tra alti livelli nella scala utilizzata per misurare il senso di comunità ed elevati punteggi nell’impegno politico. In altre parole, la partecipazione, di tipo elettorale e
non, sarebbe strettamente connessa a quelle dinamiche civiche individuate, tra gli altri, dallo studioso statunitense Robert D. Putnam che, con riferimento al nostro Paese, rintraccia le differenze profonde tra le regioni proprio a partire dalla nozione di "comunità civica" intesa come “il tessuto sociale in cui si intrecciano l'impegno sociopolitico e la solidarietà”. 119 Il comportamento dei cittadini favorisce il
funzionamento delle istituzioni quando è di tipo community oriented, al punto che secondo Putnam la qualità della vita pubblica e il rendimento delle istituzioni sono potentemente influenzate dalle norme e dalle reti 118 Ibidem. 119 R. D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, cit. in P.Pezzino, Senza stato: le radici storiche della crisi italiana, Laterza, Bari, 2002.
La sfida della partecipazione 141
dell'impegno civico. Tale propensione all'associazionismo è la molecola
originaria di ogni democrazia, il luogo "mentale" prima che istituzionale in cui i cittadini, spontaneamente sviluppano il massimo dei comportamenti community oriented. Più associazioni ci sono in un territorio, più i cittadini sono disposti a "perdere" il loro tempo per scopi collettivi, più funzionano, "rendono" le istituzioni ‐ che sono le associazioni pubbliche per antonomasia ‐ più in ultima istanza funziona la democrazia. A tal proposito Pippa Norris, nell'indagine sulle
conseguenze politiche dell'ascesa delle knowledge societies rileva un rafforzamento della partecipazione democratica e dell'impegno civico. Anzi, secondo la studiosa “the primary impact of knowledge societies in democratic societies will be upon facilitating cause‐oriented and civic forms of political activism, thereby strenghthening social movements and interest groups, more then upon conventional channels of political participation exemplified by voting” 120. In sostanza, secondo la Norris121 vi un parallelo tra gli
stili di consumo critico e le dimensioni dell'attivismo nelle democrazie rappresentative da un lato e le differenti forme di partecipazione a disposizione del cittadino dall'altro. La studiosa utilizza una classificazione che prevede: 1. attività campaign‐oriented, che riguardano azioni
120 P. Norris, The Impact of Internet on political activism, in D. F. Norris, Current issues and trends in e‐government research, Cybertech Publishing 2007, p. 22. 121 Cfr. E. Cioni, A. Marinelli, Le reti della comunicazione politica. Tra televisioni e social network, Firenze University Press, 2010, p. 140.
142 CMCS Working Papers
atte a influenzare i membri del Parlamento, per lo più attraverso partiti politici ed elezioni; 2. attività civic‐oriented, che riguardano capitale sociale
alla base dell'associazionismo civico e dell'impegno volontario; 3. attività cause‐oriented, fondate su specifiche issues
tradizionalmente escluse dall'agenda politica e/o mediatica. Si tratta di tipologie che estendono il concetto di
partecipazione politica tradizionale e comprendono le diverse forme di mobilitazione tese a incidere, direttamente o indirettamente, su politiche pubbliche e processo decisionale. Una partecipazione che è quindi intesa come
declinazione di quel fenomeno che è l'attivismo civico, orientato ad una causa e politico. Nel nostro discorso di genere una diversa propensione al coinvolgimento è individuabile sulla base di una vasta varietà di fattori non solo socio‐demografici ma anche di ordine motivazionale, psicologico, contestuale o relazionale. Le azioni civic oriented, cause oriented e campaign
oriented possono essere utilizzate come parametri di riferimento per l’analisi della partecipazione nel contesto italiano, utilizzando i dati di un’indagine Itanes condotta nel 2006 su un campione rappresentativo, per caratteri socio‐demografici, dell’elettorato italiano. L'influenza esercitata dalla condizione di genere si
riscontra in riferimento alla diversa propensione al coinvolgimento per ciascuna delle tipologie sopra elencate. Il gender non è però l'unico fattore di determinazione
della tipologia di attivismo: esso si combina in modo differenziato con una serie di meccanismi riconducibili
La sfida della partecipazione 143
all’intervento di fattori socio‐psicologici (struttura di personalità, fiducia interpersonale ed istituzionale ed orientamenti di valore), sociali (livello di istruzione, stato civile, area di residenza), relazionali e motivazionali. Abbiamo già visto, con riferimento alle primarie
statunitensi, come, nell'ambito degli studi più generali sul comportamento elettorale femminile, oltre al fattore di genere, numerosi altri elementi concorrono a determinare il posizionamento civico femminile. Sono state individuate infatti due fratture principali, sulla base dello stato civile (quindi tra donne nubili e donne coniugate), e della situazione lavorativa (quindi tra donne lavoratrici e non). A questi cleavages sociali si sono aggiunti altri tasselli di
tipo culturale, relativi al livello di istruzione, di informazione, al posizionamento all'interno di reti familiari e sociali. Si è già brevemente sottolineato come che lo specifico
orientamento di genere verso differenti tipologie di mobilitazione derivi da una diversa scala di priorità valoriali, nonché da diversi meccanismi sottesi all’attribuzione di fiducia. Per usare le teorie di Carol Gilligan, le donne, “come rappresentanti di un genere tradizionalmente escluso, sono portatrici dei valori e delle regole di un’altra matrice, i quali si sono formati nel contesto di quella sfera privata che alla sfera pubblica è stata contrapposta”122. Di conseguenza, la propensione al coinvolgimento può
ragionevolmente sviluppare meccanismi di mobilitazione differenziati in relazione al genere. Un esempio più generale, con riferimento alle primarie
italiane, è fornito dallo studio Partecipazione alle primarie 122 Cfr. C. Gilligan, In a Different Voice: Psychological Theory and Women's Development , 1982.
144 CMCS Working Papers
dell'Unione: non solo attivisti di partito presentato da Vittoria Cuturi, Simona Gozzo, Rossana Sampugnaro e Venera Tomaselli in occasione del convegno, già richiamato, dal titolo Le primarie in Italia organizzato dalla Regione Toscana il 2 dicembre 2006. L'analisi delle studiose si è concentrata su due basilari
interessi conoscitivi, uno relativo alle dimensioni quantitative e qualitative della partecipazione, l'altro alle motivazioni e significazioni attribuite individualmente alle elezioni primarie. L'indagine che le studiose hanno svolto si è concentrata
su un campione di 1008 soggetti che hanno votato alle primarie dell'Unione del 2005 e a cui è stato sottoposto un questionario semi‐strutturato. Tale questionario prevedeva informazioni di tipo strutturale (e quindi genere, titolo di studio, condizione lavorativa) e domande di indagine sul coinvolgimento relazionale, sull'orientamento e la sollecitazione esterna nella scelta della modalità di voto e nell'uso della preferenza elettorale. In particolare, scrivono le autrici, “una grande attenzione è stata rivolta alla dimensione motivazionale che agisce sul comportamento partecipativo, ed, infine, al rapporto con le forme e gli strumenti di informazione mediatica attiva nei momenti di preparazione all'evento elettorale”. 123 Il profilo globale che emerge da tale indagine è quello di
un soggetto attivo, interessato e partecipe alla vita politica e sociale. Per quanto riguarda le donne, esse pesano, nel gruppo
dei non coinvolti, per il 55,3%. Nell'analisi del gruppo dei cittadini il fattore età
123 Atti del convegno Le primarie in Italia, in Quaderni dell'osservatorio elettorale, Edizioni Regione Toscana n. 55/2006, p. 169.
La sfida della partecipazione 145
fornisce alcuni spunti di riflessione. La distribuzione tra le classi di età nella bassa
attivazione è abbastanza equilibrata e va dal 22% dei soggetti compresi tra 45 e 54 anni al 12 % di coloro che hanno un'età ricompresa tra i 55 e i 64 anni. Il 16,8% rappresenta invece la percentuale di soggetti di età compresa tra 35 e 44 anni e le due classi estreme, fino a 24 anni e 65 anni e oltre. Alcune annotazioni, di fronte a questi dati: (fonte: Quaderni dell'osservatorio elettorale, n. 55/2006).
Per i più giovani, le primarie sono l'occasione per
compiere quella sorta di prima attivazione, la prima
146 CMCS Working Papers
chance che la vita politica offre loro per schierarsi e prendere una posizione. Più problematica è l'analisi di quella che stata definita l'attivazione tardiva dei soggetti con più di 65 anni. Con riferimento al coinvolgimento attivo in reti
organizzative o partitiche, quindi, secondo la stima, gli ultra‐sessantacinquenni di oggi sono meno inclini al coinvolgimento diretto rispetto alle altre fasce d’età. Nulla osta tuttavia che gli stessi soggetti, in giovane età, fossero più coinvolti sul piano civico e/o politico rispetto all’attua1e nuova generazione. Simona Gozzo nello studio Il colore della politica
affronta il tema della partecipazione di genere secondo una prospettiva diacronica. Nell'analisi dei fattori di attivazione, quello che sembra influire maggiormente è la fase della vita che il soggetto sta attraversando. In particolare, nei soggetti femminili, emerge un minor coinvolgimento sia al livello dei più giovani che degli anziani, cioè di quelle donne meno interessate da problematiche socio‐politiche che, nel primo caso non hanno ancora svolto, nel secondo non svolgono più, un ruolo attivo sul piano sociale. Per quel che riguarda le attività che richiedono un
maggior coinvolgimento diretto e attivo, come la partecipazione a manifestazioni e cortei o l’acquistare/rifiutarsi di acquistare prodotti per motivi etici e politici, Simona Gozzo osserva come le donne tra i 35 ed i 44 anni si mobilitano più degli uomini così come le donne d’età successiva (45‐54enni), sebbene lo scarto sia ridotto e la partecipazione complessivamente limitata (a prescindere dal genere), delle 55‐64enni. Secondo i dati raccolti dalla Gozzo, la propensione a
firmare per l'approvazione di leggi e referendum cresce
La sfida della partecipazione 147
col crescere dell’età per poi subire un crollo tra gli ultra 65enni. Le differenze in relazione al genere sono minori tra i più
giovani e quasi si annullano considerando quella che e stata definita la generazione del baby boom, i 45‐54enni, caratterizzati da un elevato livello di istruzione accompagnato però da scarso coinvolgimento sia civico che politico. Fondamentale il discorso sulle attività campaign
oriented, che impone una differenziazione delle formazioni associative in relazione alla specificità politica e al grado di istituzionalizzazione. Per cui, se ben il 70,5% di coloro che hanno votato alle primarie è iscritto a organizzazioni e strutture associative, molti, nel campione di coloro che si dichiarano estranei a tali organizzazioni, prediligono diverse modalità di attivismo, di tipo campaign oriented, per cui la percentuale di estraneità totale, diretta e indiretta, si riduce al 19%. Per quanto riguarda coloro che sono iscritti a reti associative lo studio sulle primarie del 2005 rileva124: Partiti o sindacati 36% Associazioni di vario tipo 30% Movimenti 4,5% Nessun inserimento 27% Non risponde 2,5% Totale 100 Con riferimento a queste attività, le donne partecipano
meno degli uomini considerando tutte le forme di coinvolgimento campaign oriented e la differenza risulta
124 Atti convegno, p. 178.
148 CMCS Working Papers
particolarmente marcata considerando le attività che implicano un elevato coinvolgimento attivo, diretto e propositivo, come discutere di politica o contattare/conoscere politici. Il gap di genere tende ad aumentare sino a raggiungere
un punto nodale in corrispondenza dei 25‐34 anni per poi stabilizzarsi. La maggior partecipazione delle donne a cortei, nello specifico, si presenta direttamente associata alla giovane età delle stesse mentre quella degli uomini è discontinua e presenta due picchi in corrispondenza dei 25‐34 e 45‐64 anni. Le donne più giovani sono particolarmente coinvolte
solo in relazione a questa azione (la partecipazione a cortei e manifestazioni) mentre presentano, complessivamente, uno scarso livello di attivazione in relazione al coinvolgimento campaign oriented. Spinosa la questione dell’iscrizione al partito. I dati
parlano di una tipologia di partecipazione molto più diffusa tra gli ultra‐cinquantenni e sempre meno tra i più giovani, sulla scorta di quello che è stato definito un progressivo allentamento nel rapporto tra partiti e base sociale, soprattutto in riferimento alle nuove generazioni. Complessivamente, in relazione alla partecipazione
campaign oriented si evidenziano differenze rilevanti rispetto al genere anche considerando le fasce di età. La propensione alla partecipazione politica da parte
delle donne, seppure limitata in tutte le fasce d’età e in particolare considerando l’iscrizione ai partiti, aumenta tra le 45‐64enni e tra le più giovani che presentano, quindi, una maggior quota di soggetti attivi. Le motivazioni non sono difficilmente rintracciabili. Nel
primo caso, infatti, si tratta di una generazione, quella delle cosiddette ex‐sessantottine, che è storicamente più
La sfida della partecipazione 149
orientata alla partecipazione politica convenzionale, contro quella forma di segmentazione orizzontale che ha sempre ritenuto l'affiliazione partitica come una attività prevalentemente maschile e al contempo come manifestazione della volontà di partecipare in maniera diretta alle scelte politiche. Nei capitoli precedenti abbiamo accennato al processo
di socializzazione: ritornando a quella tassonomia, possiamo dire che, nel caso della fascia di età in esame, il clima politico e culturale che ha caratterizzato l'adolescenza e la giovinezza, e che, di conseguenza, è stato vissuto come l'evento primario socializzante, ha verosimilmente inciso su tale peculiarità riscontrabile rispetto alle altre fasce. Più complesso il discorso che riguarda le più giovani.
Come scrive Gianfranco Pasquino, "l'accresciuta partecipazione dei giovani e delle donne si esprime per lo più non soltanto e non esclusivamente attraverso l'affluenza alle urne, ma in forme nuove e inusitate". Ecco perché, queste giovani donne, socializzate alla partecipazione in un clima caratterizzato (paradossalemnte) dall'antipolitica, finiscono per essere poco o per nulla attive nelle forme di partecipazione convenzionale (in particolare l’iscrizione ai partiti). Le stesse, viceversa, si mobilitano più facilmente se si
tratta di partecipare a comizi o contattare politici o, semplicemente, discutere di politica. Le donne più giovani sembrerebbero, quindi, vivere la dimensione politica in termini attivi, avvicinandosi di più al coinvolgimento indiretto o all’attività di informazione, mobilitandosi solo per il sostegno di determinate cause e senza che ciò comporti una forma di partecipazione convenzionale. E d'altronde proprio il numero degli iscritti costituisce
150 CMCS Working Papers
uno degli indicatori fondamentali del mutamento dei partiti stessi (Ignazi 1996). La maggior parte dei partiti ha subito un declino più o meno accentuato dei propri iscritti. L'elettorato femminile ha seguito questa linea di tendenza, mostrando viceversa un più alto grado di partecipazione ad azioni di tipo civic oriented. La propensione alla partecipazione civica viene qui
misurata considerando iscrizione o coinvolgimento dei soggetti nelle attività di associazioni di vario tipo ed in relazione a tale dato emerge un gap limitato rispetto al genere o vantaggioso per le donne. Evidentemente la limitata propensione all’attivismo
politico non è dovuta, per quanto riguarda questa fascia d’età, alla scarsa sensibilizzazione nei confronti dei problemi sociali, quanto forse alla mancanza di fiducia nei confronti della politica e delle istituzioni politiche, percepite come distanti dagli effettivi problemi sociali o incapaci di dare risposte adeguate e/o alla mancanza di interesse per la politica. Le donne di 35‐44 anni, che mostrano comunque
adesioni sul piano civico, non perdono quella diffidenza e quel distacco verso la politica che le porta a scegliere il coinvolgimento in attività di sostegno e partecipazione civica, più in generale, verso quelle tipologie di mobilitazione sostenute da compassion issue.
3.6 Partecipazione, rappresentanza di genere ed elezioni primarie: occasioni, prospettive e spunti di riflessione
Abbiamo già sottolineato l'importanza del coinvolgimento
La sfida della partecipazione 151
attivo in reti associative degli elettori nella definizione delle dinamiche e della partecipazione civica. L'informazione assume una certa rilevanza, come punto di riferimento, se si vuol analizzare la propensione all’impegno socio‐politico di coloro che scelgono di mobilitarsi. Per dirla con Almond e Verba, se i cittadini “non sono bene informati non sono profondamente impegnati, né particolarmente attivi e il loro modo di elaborare la decisione di voto non ha granché a vedere con un processo di calcolo razionale.” 125 Non a caso l'elettorato delle primarie appare più mobilitato e già inserito in un fitto tessuto di relazioni sociali dell'elettorato finale. Questo consente di azzardare un'ipotesi relativamente
all'importanza degli effetti di socializzazione e della dimensione valoriale sulla diversa propensione alla partecipazione, oltre che sull'influenza che le specificità legate al genere eserciterebbero su quella particolare porzione di elettorato che è quella femminile, particolarmente incline a coinvolgimento e mobilitazione. Vittoria Cutuli, Simona Gozzo, Rossana Sampugnaro e
Venera Tomaselli hanno cercato di indagare questa presunta correlazione in occasione delle primarie del 2005 di cui abbiamo già esplicitato i caratteri salienti nel precedente capitolo126. Lo studio, che si è basato su questionari di auto‐
somministrazione ai votanti127, non ha, come specificano
125 G. Almond e S. Verba, The civic culture, Boston, Little Brown, 1963,p. 474. 126 in A.A. V.V., Atti del convegno Le primarie in Italia, “Quaderni dell'osservatorio elettorale”, Edizioni Regione Toscana n. 55/2006.
152 CMCS Working Papers
le stesse autrici, una valenza scientifica né di generalizzazione delle evidenze empiriche ottenute128. Si tratta però di uno strumento utile alla ricostruzione di linee di tendenza generali che appaiono supportate dai fenomeni generali descritti in precedenza. Nello studio gli indicatori di partecipazione civica,
sociale e politica sono stati ricostruiti sulla base di quelle dimensioni che abbiamo già affrontato. In particolare: 1. per quanto riguarda l'indagine sull'indicatore di
attività cause oriented, le studiose hanno optato per gli items “firma leggi”, “invia lettere”, “partecipa a cortei”; 2. per quanto concerne l'attività campaign oriented gli
items selezionati sono stati “firma per presentare un candidato”, “dedica tempo ad attività di partito”, “è parte di organismi rappresentativi”; 3. relativamente all'attività civic oriented si è fatto
ricorso agli items “iscritto ad associazioni di volontariato”, “iscritto ad associazioni culturali”, “iscritto ad associazioni religiose”, “iscritto ad associazioni ambientali” e infine “iscritto ad altre associazioni”.
128 Esso, pertanto, risente di un campionamento di tipo non scientifico, e degli errori connessi alla volontarietà della collaborazione richiesta.
La sfida della partecipazione 153
In sostanza, i dati incrociati della partecipazione alle
primarie scissa per genere, e della tipologia di risposte fornite dai partecipanti all'indagine forniscono alcune linee guida molto interessanti. Innanzitutto, permettono di individuare una complessiva, generale, maggiore propensione al coinvolgimento politico. Una tendenza che si inserisce in quel processo di democratizzazione della scelta delle cariche partitiche che Oreste Massari aveva definito “un trend generale delle democrazie occidentali contemporanee”. I partecipanti alle primarie mostrano un
coinvolgimento politico (di tipo campaign oriented) superiore al dato fornito da Itanes con riferimento alle elezioni finali.
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Diverso è il discorso relativo all'appartenenza a reti civic oriented, che vede un minore coinvolgimento in reti relazionali ed associative in occasione delle primarie nazionali, e, viceversa, una forte influenza della quota di soggetti mobilitati da strutture di partito o affini. Per ciò che concerne la dimensione di genere della
variabile partecipativa, in generale si riscontra una maggior propensione degli uomini alla partecipazione campaign oriented. Una tipologia di mobilitazione fortemente connotata sul
piano politico‐ideologico. Non a caso, a riprova dell'importanza del grado di
coinvolgimento individuale in reti di relazioni sociali e politiche e dell’incidenza di queste sulla propensione partecipativa alle primarie, è proprio l’adesione diretta ad associazioni ed organizzazioni di natura politica e/o civica che può considerarsi misura del grado di permeabilità dell'organizzazione e di mobilitazione dell'elettorato. In occasione delle primarie nazionali la differenza tra
elettori ed elettrici in riferimento alla tipologia di organizzazioni considerate è considerevole: partiti e movimenti si configurano come tipi di organizzazioni frequentate soprattutto dagli uomini, mentre le associazioni di volontariato e culturali sono selezionate soprattutto dalle donne. Anche qui emerge la maggior propensione degli uomini
a iscriversi a organizzazioni di partito e delle donne a non iscriversi ad alcuna organizzazione. Viceversa, è maggiore la propensione femminile ad aderire ad associazioni di volontariato, religiose e ambientali. Questo consente l'ipotesi di una netta specificazione
delle scelte di adesione in relazione al genere: la preferenza degli uomini per le organizzazioni di carattere
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politico e delle donne per quelle più aderenti ad una dimensione civica/culturale/ricreativa, può essere, almeno in via teorica, ricondotta a un diverso universo valoriale di riferimento. In riferimento alla condizione occupazionale è possibile
individuare un particolare andamento connesso al genere: alle primarie nazionali gli intervistati, occupati e non, si mostrano particolarmente attivi sul piano del coinvolgimento specificamente politico (rispettivamente il 44% ed il 41% delle adesioni complessive espresse dai soggetti appartenenti alla categoria) mentre le intervistate si collocano, soprattutto, tra i soggetti che non aderiscono ad alcuna organizzazione. Nonostante ciò, le occupate mostrano di condividere lo
stesso interesse degli uomini in misura maggiore delle non occupate. Come abbiamo già visto in riferimento all'esempio
statunitense, l'acquisizione dell’indipendenza economica da parte delle donne sembra, quindi, avere una certa rilevanza, fungendo da filtro per un eventuale coinvolgimento attivo in reti di partecipazione politica più che civica, da cui l’emergere di un effettivo interesse e maggiore autonomia di scelta in tale ambito. La partecipazione alle primarie coinvolge una tipologia
di individui verosimilmente particolarmente sensibilizzata nei confronti della dimensione politica, anche per la specificità della collocazione partitica. L’incidenza del genere sulla tipologia di associazione si
mantiene, invece, una dimensione come sempre significativa.
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3.7 Donne per le donne: le primarie e la rappresentanza femminile secondo le donne del Partito democratico
Il dibattito intorno al riequilibrio della rappresentanza di genere si è assestato soprattutto, in Italia come all’estero, attorno all’introduzione delle cosiddette “Quote rosa”, che agiscono sul sistema elettorale finale garantendo quote minime di presenza femminile all'interno degli organi politici istituzionali elettivi e non. Non affronteremo in questa sede il dibattito relativo
all’opportunità del ricorso a incentivi di questo tipo, che implicherebbero necessariamente una riflessione sull’attuale sistema elettorale, a liste bloccate e su una sua riforma. Il nostro Paese, peraltro, ha già tentato la strada delle
“Quote rosa” nel 2005, con il disegno di legge mai definitivamente approvato. Nel nostro lavoro, abbiamo cercato di evidenziare,
anche grazie agli studi e alle indagini di Stefano Catalano (che vedremo) e Simona Gozzo (di cui abbiamo già parlato), come l’istituto delle primarie possa fornire un importante contributo alla questione della rappresentanza femminile in Italia. Elezioni primarie che garantiscano la partecipazione e
la possibilità di scelta del corpo elettorale e rifuggano dai pericoli in cui si può facilmente cadere sono utili a recuperare parte del voto femminile che normalmente si astiene, o che considera una propria eventuale partecipazione come scarsamente incisiva rispetto a quella maschile. Non a caso, nel gruppo dei non coinvolti
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in occasione delle elezioni primarie del 2005, le donne hanno pesato per il 56%. Una percentuale che, abbiamo visto, in parte rappresenta una conseguenza diretta di un tipo di associativismo, quello politico, che ancora stenta a diffondersi tra le donne. Un genere da sempre più orientato a un coinvolgimento
di tipo pragmatico, correlato a un impegno e ad aree d’intervento in cui sia possibile sperimentare l’efficacia della propria azione associativa. Paradossalmente, il vantaggio che elezioni primarie ben
congegnate possono fornire in tal senso, è proprio quello di riuscire a garantire un momento di coinvolgimento femminile pre‐elettorale: un’attivazione che dovrà poi essere canalizzata e veicolata verso forme meno aleatorie e passeggere, nell’ottica di una compiuta strategia di empowerment. In altre parole, se le elezioni primarie in Italia riescono
a sfuggire al pericolo “plebiscitario”, quindi si affermano non come consacrazione del fenomeno di personalizzazione della politica e di consacrazione mediatica di un candidato cooptato dalle élite di partito, possono costituire uno di quegli strumenti atti al recupero di quella che è stata definita una “disaffezione di genere”. In tal senso si è espressa Anna Finocchiaro, capogruppo
del Partito democratico al Senato della Repubblica e già ministro delle Pari Opportunità. Fautrice dell’opzione “quote rosa”, alla domanda “In che modo le primarie possono servire alle politiche di gender e le politiche di gender, viceversa, alle primarie?” ha risposto: “Credo che le primarie, se sono davvero aperte alla società e non referendum preconfezionati su rose di candidati cooptati dagli apparati, possano essere utili ad agevolare l'accesso delle donne alle candidature politiche anche di alto profilo.
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Come dimostra la grande esperienza maturata nelle autonomie locali dalle amministratrici dal centrosinistra, le donne sono capaci ed efficienti anche in politica, ma devono godere di reali pari opportunità di accesso. Una condizione che le primarie possono contribuire a creare. Di converso, le politiche di gender possono avvicinare le donne alle primarie, perché le cittadine sono interessate alla soluzione concreta dei problemi, sia femminili che del resto della società”. Una garanzia della parità di accesso e un modo per
avvicinare le donne alla politica attraverso le politiche di gender, che, da sempre, costituiscono il terreno privilegiato di manifestazione pragmatica delle proprie istanze. Solo a partire da questo terreno, è possibile allargare la partecipazione femminile a quello più ampio della piena cittadinanza politica. Dello stesso parere Anna Paola Concia, deputata del
Partito democratico e storica attivista del movimento LGBT, che alla stessa domanda risponde: “Le primarie possono servire alle politiche di gender se sono momenti reali di verifica del consenso con regole certe. Io credo che siano un’opportunità di democrazia che serve a tutto il Paese e quindi anche alle donne”. Una tappa verso una democrazia “compiuta” che deve
fare i conti con una generale disaffezione nei confronti della politica che assume i caratteri di una “disaffezione di genere”, per usare l’efficace espressione di Anna Finocchiaro. La seconda domanda che abbiamo posto alla senatrice Pd riguardava infatti l’astensionismo di genere e la ricerca di fonti di attivazione peculiari: “Secondo uno studio sulla partecipazione alle primarie del 20051, l'elettorato femminile ha pesato, nel gruppo totale dei non votanti, per il 55,3%.
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L'attivazione più ampia si è avuta tra le due fasce di età: 1) 18‐24 2) 65 e oltre Quali pensa che potrebbero essere i canali di attivazione
e mobilitazione di quella larga fascia di elettorato femminile che non ha partecipato alle primarie?” Secondo Anna Finocchiaro vi sono vari elementi da
considerare: “Ritengo che la mancata partecipazione alle primarie di una larga fascia dell'elettorato femminile, concentrata peraltro nelle classi centrali d'età, possa in parte configurarsi nella più generale disaffezione alla politica che ha causato un aumento progressivo dell'astensionismo nelle ultime tornate elettorali. Esiste però anche quella che chiamerei "disaffezione di genere". Perché le donne dovrebbero avvicinarsi alla politica, e dunque anche alle primarie, se la politica dimentica i loro problemi come la disoccupazione femminile, la carenza di servizi alla famiglia e alla persona, la mancanza di reali pari opportunità nell'accesso, appunto, alla politica, alle carriere direttive, e in genere al potere, l'assenza di pari diritti nel lavoro e nella società? Si tratta di un problema serio, che rappresenta un circolo vizioso al quale solo le quote rosa, come ho già detto, e primarie ben utilizzate, possono porre rimedio. Una democrazia può dirsi compiuta solo se dà rappresentanza anche alle donne, che peraltro oltre a rappresentare la maggioranza dei cittadini ne costituiscono, attualmente, anche la componente più dotata di capacità innovativa e, nel caso delle giovani, di più alti livelli di istruzione e merito.” Una “disaffezione di genere” strettamente connessa
all’incompiutezza del processo di empowerment e che ha condotto a quella consapevolezza della scarsa incisività della propria azione politica da cui scaturiscono fenomeni
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di astensionismo e associazionismo civico ai minimi storici. Per riparare a questa emorragia, non solo elettorale, ma
anche partecipativa non basta però, una declinazione in chiave di genere delle campagne elettorali, è necessario formare una classe dirigente femminile adeguata al compito che le si chiede di portare a termine. Come nota ancora Anna Paola Concia, “per riattivare
l’elettorato femminile occorrerebbe semplicemente fare delle politiche pubbliche credibili, che vadano incontro alle esigenze delle donne italiane e poi selezionare una classe dirigente, femminile e maschile, che sia all’altezza di questo compito”. Questo perché le donne non votano per le donne a
prescindere: la possibilità di incrementare la presenza femminile nelle istituzioni non è cioè condizione sufficiente a orientare la scelta femminile verso una candidatura in rosa. Non a caso, alla domanda “Pensa che una
tematizzazione più efficace delle questioni di genere nella campagna delle primarie potrebbe costituire un incentivo alla partecipazione elettorale femminile? In altre parole, ritiene che le donne votino per le donne (e per le questioni che le riguardano), o che invece si tratti di un problema più vasto, che investe il fattore partecipazione nel suo complesso ed è scisso dalle problematiche di genere?”, Anna Finocchiaro risponde: “I sondaggi dimostrano che non sempre le donne al momento del voto preferiscono una donna. Nella mia esperienza lo fanno a determinate condizioni: e cioè che il personale politico femminile in questione venga percepito come autorevole e autonomo. Sempre che le elettrici possano scegliere, perché non dobbiamo dimenticare che con la legge elettorale vigente
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non è possibile esprimere preferenze. All'interno del problema di un ridimensionamento della partecipazione, c'è come ho detto una "disaffezione di genere": le donne sono più concrete e dunque soffrono con maggiore intensità della distanza tra la politica e i problemi quotidiani dei cittadini. Come la storia politica ha più volte dimostrato, tuttavia, le donne sono capaci di grandi coalizioni anche bipartisan per risolvere questioni femminili. Dunque, una maggiore tematizzazione più efficace delle questioni di genere da parte di una candidata potrebbe certamente spingere le elettrici a votare donna”. Le donne italiane, in altre parole, non sono disponibili a
dare fiducia a prescindere in base alla condivisione di un fattore naturale, come l’appartenenza al sesso femminile. E d’altronde, storicamente, proprio perché nella maggior parte dei casi avulso da affiliazioni partitiche, il voto delle donne è stato assimilato a quello dei cosiddetti swing voters, quelli più fluttuanti e quindi più sensibili a proposte trasversali rispetto alle ideologie. Alla stessa domanda Anna Paola Concia risponde così:
“Il voto delle donne non è qualcosa che può essere ascrivibile ad una categoria. Ognuna di noi, quando si reca a votare, porta con sé la propria storia, i propri valori e le proprie idee. Detto questo, credo che occorrerebbe senz’altro rimettere al centro della discussione politica il valore sociale delle donne e le questioni di genere con l’obiettivo, non più procrastinabile, di modernizzare questo paese. Non è democratico il Paese che tiene fuori dal governo vasto la metà della popolazione; quella femminile. Quel Paese che tiene fuori le donne dalla responsabilità pubblica è un Paese che rinuncia a metà delle sue energie. Quindi è un Paese più povero”. Un Paese impoverito, è vero, da anni di dominio di una
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politica monosessuata e clientelare. Che però vede innanzitutto nell’affievolimento del gender gap partecipativo (almeno con riferimento alle elezioni finali) un segnale prodromico di una nuova fase. Due cleavages sociali, lo abbiamo visto, hanno contribuito a forgiare un nuovo elettorato femminile, più consapevole che le proprie prerogative vanno al di là delle rivendicazioni femministe o di quelle di stampo “assistenzialistico”. Le donne sono entrate nel mondo del lavoro e si sono affermate a prescindere dal ruolo materno e di moglie e a questo si è associato, negli Stati Uniti come nel nostro Paese, una nuova consapevolezza. Quello di poter incidere con efficacia sulla scena
politica. Questa apertura si scontra con un diffuso pregiudizio,
che però sembra indebolirsi. L’esempio di Hillary Clinton, ma anche quello di Ségolene Royal, Angela Merkel, Michelle Bachelet e molte altre ancora, ha dimostrato che la diffidenza verso una leadership femminile può essere superata. Così alla domanda “Con riferimento alle primarie Usa è stato scritto: ‐Gli Americani preferiscono votare un nero piuttosto che una donna‐. Pensa che sia ancora così forte il pregiudizio nei confronti di una possibile presenza femminile alla guida di una nazione? Crede che l'Italia sia pronta a scegliere un candidato
prima, e un primo ministro poi, di sesso femminile?” Anna Finocchiaro ha risposto: “Io credo che i tempi siano maturi sia per avere in Italia un Presidente del Consiglio che un Presidente della Repubblica donna”. Un auspicio che diventa una necessità per Anna Paola Concia, per la quale, se è vero che “la misoginia attraversa tutte le società, anche quella americana”, bisogna però sottolineare come quella dell’empowerment femminile sia una sfida non più
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a lungo procrastinabile, per la salute della nostra democrazia. Per questo, conclude l’onorevole Concia, “l’Italia, se vuole costruire il futuro, deve essere pronta ad accelerare sulla leadership femminile. Non è una scelta, ma una necessità”. Come questa istanza debba essere soddisfatta, lo
vedremo tra poco, è una questione tutt’altro che risolta, nell’ambito del dibattito attorno alle primarie in Italia.
3.8 Le ‘elezioni primarie’ come strumento di gender policy: una proposta per il riequilibrio della rappresentanza politica di genere
Abbiamo visto come il tema della rappresentanza politica di genere abbia assunto crescente importanza, in virtù dell'affermazione del già richiamato processo di empowerment femminile. Il riequilibrio della presenza femminile nelle istituzioni costituirebbe la fase ultima, il punto di arrivo di tale processo. Si potrebbe dire, forzando una storica tassonomia, che
le donne devono ancora attraversare tutte le soglie istituzionali individuate da Stein Rokkan (1970), oltrepassando le quali si esercita compiutamente la partecipazione politica. Così, alle già superate soglie di legittimazione e di incorporazione, si aggiungono quelle di rappresentanza e quella del potere esecutivo. L'effettiva ricomposizione di queste ultime due fratture dipende dalla struttura delle opportunità politiche, ovvero dalle modalità di organizzazione della sfera politica e dalle potenzialità dell'integrazione politica (Pasquino 2007). Per questo entra qui in gioco il fattore "normativo". Il
problema riguarda, a monte, la difficoltà relativa
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all'individuazione di una disciplina normativa sulle elezioni primarie. Soprattutto perché, per rendere "vincolante" il ricorso alle primarie, che troverebbe una soluzione nel caso venisse introdotta una disciplina legislativa che dettasse, in maniera più o meno dettagliata, dei criteri per garantire il corretto funzionamento delle primarie. Posto che la disciplina interna dei partiti è demandata a
loro stessi e che l'art 49 Cost. si riferisce direttamente ai cittadini senza nulla imporre circa la struttura interna degli stessi, bisogna andare a cercare nella Costituzione e nella giurisprudenza della Consulta dei limiti all'introduzione di una disciplina pubblicistica del ricorso alle primarie, che possono incidere su quelle attività dei partiti che hanno una specifica rilevanza pubblica. Gli unici due articoli della Costituzione a cui ci si può
eventualmente agganciare sono l'articolo 48, che al comma 1 recita: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”, e l'art. 51, secondo cui “Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. L'ultimo punto appare molto importante, anche perché
si tratta di una recente aggiunta, frutto dell'art. 1 della legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1. Una prospettiva rinnovata, che rende ipotizzabile un
intervento dal punto di vista legislativo, almeno su due piani. Da un lato la modifica costituzionale sembra fornire
indicazioni in tal senso, potrebbe essere il legislatore a dettare apposite disposizioni, dal contenuto astrattamente
La sfida della partecipazione 165
assai vario, dall’altro sarebbe ipotizzabile che l’obiettivo venga perseguito volontariamente dai partiti politici, il che consentirebbe di bypassare la questione della legittimità costituzionale dell'introduzione di una disciplina pubblicistica. L’alternativa di più semplice realizzazione è infatti
quella che demanda ai partiti lo spontaneo perseguimento di un maggiore equilibrio dei sessi all’interno delle assemblee elettive. Questo eluderebbe i problemi di legittimità costituzionale che, invece, vi sarebbero nel caso di quote introdotte per legge. Proprio una simile impostazione è stata seguita in molti
Paesi europei dove, appunto, il problema è stato risolto “alla radice” grazie alle strategie poste in essere dai soggetti politici. Emblematico è l’esempio dei Paesi scandinavi. In Svezia, Norvegia e Finlandia, i partiti, prevedendo spontaneamente, sia pur in maniera diversa, un sistema di quote, hanno conseguito il risultato di far eleggere una percentuale di donne che va dal 35 al 40% dei componenti delle Camere. Fermo restando, però, che i partiti politici hanno un
ruolo essenziale nella soluzione del problema, un'importanza che persiste anche nel caso in cui si preveda nelle liste elettorali una quota di posti riservata al sesso sotto‐rappresentato. Come precisa Stefano Catalano, “uno strumento assai
utile al fine di raggiungere l’obiettivo sopra indicato sembra quello dell’introduzione delle cosiddette elezioni primarie. Il meccanismo potrebbe essere previsto legislativamente, oppure scelto volontariamente dai partiti. Nel primo caso si porrebbe, poi, un’ulteriore alternativa. Infatti, la legge avrebbe la possibilità, da una parte, di rendere le primarie obbligatorie, dall’altra di
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limitarsi a disciplinarne le modalità di svolgimento lasciando, quindi, ai partiti la facoltà di decidere se avvalersi o meno di un tale strumento.”129 Ovviamente, una tale ipotesi è possibile solo ove non
costituisca un intralcio eccessivo per l’azione dei partiti e si adatti alla presenza di questi ultimi. La scelta delle candidature è una delle principali
mansioni svolte, nei regimi democratici, dai partiti, una delle più importanti “funzioni sistemiche” attribuite a tali soggetti. E nella prospettiva italiana l’abolizione del voto di
preferenza e l’introduzione, con la nuova legge elettorale nazionale, delle liste bloccate hanno rafforzato la condizione di privilegio di cui godono le segreterie di partito, che, lo abbiamo detto nel primo capitolo, godono di un potere enorme, che spesso degenera nella reiterazione di comportamenti scarsamente trasparenti e pone un serio problema di democrazia intra‐partitica. Le elezioni primarie, proprio perché ampliano in misura
esponenziale il numero delle persone coinvolte nella scelta dei candidati, dovrebbero diminuire il peso esercitato dalle oligarchie partitiche, nonché costituire uno strumento razionale per il riequilibrio della rappresentanza di genere. È pur vero che, come sottolinea ancora Catalano, “ove
esiste una modalità di selezione trasparente maggiore risulta la partecipazione e la presenza delle donne. In tal senso si esprime la relazione al disegno di legge, poi approvato, di modifica dell’art. 51 della Costituzione in cui si evidenzia la circostanza che le donne ricoprono con più facilità le cariche pubbliche per le quali sono previste 129 S. Catalano, Le elezioni primarie come strumento per il riequilibrio della rappresentanza di genere.
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procedure trasparenti.”. Il punto focale della questione riguarda quindi la
regolamentazione delle primarie. Una prima soluzione è quella di lasciare ogni decisione
ai partiti, e quindi ai loro statuti interni, cui spetterebbe la previsione di quote riservate al sesso sotto‐rappresentato. Gli eventuali meccanismi potrebbero essere molteplici: ogni persona potrebbe esprimere un doppio voto, a seconda del genere, o fra un ventaglio di candidati in cui vi sia garantita una soglia minima di esponenti di ciascun genere. Questo consentirebbe di ricondurre la scelta alla libera
determinazione dei partiti cui spetterebbe stabilire, fra l’altro, il grado di vincolatività dei risultati delle primarie. Così in effetti si è espressa la Corte costituzionale130. In
questo modo, però, che i soggetti politici non hanno alcun obbligo né in merito all’introduzione delle primarie né per quel che riguarda la loro concreta regolazione. Attualmente solo lo statuto del Partito democratico fa
esplicito riferimento alle primarie come un possibile strumento per la scelta dei candidati senza prevedere, sul punto, specifiche garanzie per il sesso sottorappresentato. All'articolo 3 lo statuto del partito recita: “Il Partito Democratico si impegna a rimuovere gli
ostacoli che si frappongono alla piena partecipazione politica delle donne. Assicura, a tutti i livelli, la presenza paritaria di donne e di uomini nei suoi organismi dirigenti ed esecutivi, pena la loro invalidazione da parte degli organismi di garanzia. Favorisce la parità fra i generi nelle candidature per le assemblee elettive e persegue 130 Con la sent. n. 203 del 1975, infatti, la Corte ha precisato che “sia la scelta effettiva dei candidati, sia il loro ordine di elencazione è fatto interno proprio delle organizzazioni promotrici”.
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l’obiettivo del raggiungimento della parità fra uomini e donne anche per le cariche monocratiche istituzionali e interne. Il Partito Democratico assicura le risorse finanziarie al fine di promuovere la partecipazione attiva delle donne alla politica”. All'articolo 24 esso prevede inoltre, la costituzione di
una “Conferenza permanente delle donne democratiche”, di cui “fanno parte le iscritte e le elettrici che ne condividono le finalità.” Si tratta di “un luogo di elaborazione delle politiche di genere, di promozione del pluralismo culturale, di scambio tra le generazioni, di formazione politica, di elaborazione di proposte programmatiche, di individuazione di campagne su temi specifici”. Il comma tre dello stesso articolo 24 impone inoltre che
“Le forme organizzative della Conferenza, improntate ad autonomia e flessibilità, sono disciplinate da un Regolamento approvato con il voto favorevole della maggioranza assoluta delle donne che vi aderiscono”. La conferenza permanente delle donne Democratiche si
propone gli obiettivi di: 5. rafforzare l’autonomia e l’autorevolezza politica delle
donne, nella consapevolezza che la loro presenza nella vita pubblica può produrre cambiamenti culturali, sociali ed economici rilevanti 6. affermare il punto di vista di genere sui grandi temi
del nostro tempo: crisi strutturale dell’economia e dell’attuale modello di sviluppo, sostenibilità ambientale, welfare e politiche sociali, temi etici 7. promuovere e sostenere la presenza delle donne e
del loro punto di vista nei luoghi della decisione politica, economica e sociale; il perpetuarsi dell’assenza o della marginalità dei pensieri e delle parole delle donne nella
La sfida della partecipazione 169
vita pubblica costituisce un intollerabile spreco di capitale umano e un inaccettabile limite della democrazia di intraprendere conseguenti ed efficaci azioni per la pari rappresentanza di genere nelle assemblee elettive ad ogni livello territoriale, negli enti di secondo livello, nelle aziende partecipate dello Stato e degli Enti Locali, concorrendo al pieno adempimento del principio della pari rappresentanza, quale principio fondante del Pd 8. favorire l’incontro e il confronto con le donne della
società civile, dei sindacati, delle associazioni di categoria, nonché delle associazioni di donne, per raccogliere istanze, riflessioni critiche e proposte, al fine di costituire solide reti di relazione tra donne; 9. organizzare confronti con le donne del Pd elette ad
ogni livello istituzionale, per contribuire agli orientamenti politici e programmatici; 10. progettare e realizzare sul territorio occasioni di
formazione politica, soprattutto rivolte alle giovani per acquisire strumenti che permettano una lettura di genere della realtà. 11. Per questo, scrivono le firmatarie della proposta,
“le regole del Pd garantiscono, adesso, la presenza paritaria delle donne: sta a noi rafforzare con il nostro pensiero e la nostra azione questa opportunità irripetibile. Sarebbe insopportabile defraudare le future generazioni di donne di questo loro diritto che si consolida solo con il nostro essere capaci di fare politica oggi”. La seconda via percorribile è quella di un intervento
diretto del legislatore che potrebbe, come si è detto sopra, rendere le primarie obbligatorie oppure limitarsi a disciplinarne le modalità di svolgimento lasciando, quindi, i partiti liberi di decidere se avvalersi o meno di un tale strumento. Un’ulteriore ipotesi, riconducibile a questa
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seconda alternativa, sarebbe quella di incentivare esclusivamente il ricorso alle primarie. Naturalmente la legge avrebbe, fra l’altro, la possibilità d’introdurre regole specificamente volte alla tutela del genere meno favorito. In entrambi i casi, come nota ancora Stefano Catalano,
persistono numerose problematiche costituzionali131. Esse paiono minori ove la legge optasse per le soluzioni
meno vincolanti. Secondo Catalano, “pochi dubbi si possono nutrire circa la legittimità delle norme che subordinassero almeno una parte del finanziamento pubblico ai partiti allo svolgimento di elezioni primarie da tenersi in modo tale da garantire una quota minima di partecipanti di ambo i sessi”. Infatti, come è stato efficacemente osservato, non può essere in contrasto con l’art. 49 Cost. una disciplina che imponga ai partiti interessati a “usufruire di denaro pubblico” di sottoporsi al rispetto di regole precise”. L'unica forma di sanzione sarebbe il non ricevere
sovvenzioni statali: si tratta, per certi versi, di un incentivo indiretto e rendere attuabile una maggior presenza di donne sia nelle liste elettorali sia nelle Assemblee rappresentative. Con il risultato che, come scrive Salvatore Vassallo, esse
possono “ svolgere una doppia funzione: sanno sollecitare la partecipazione delle persone e sono uno strumento per esprimere critiche e canalizzare richieste di cambiamento”. 132
131 Per una esaustiva analisi dal punto di vista giuridico e costituzionale, rimandiamo a C. Fusaro, Elezioni primarie: prime esperienze e profili costituzionali, in Atti del convegno, Le primarie in Italia, Edizioni Regione Toscana, 2006. 132 S. Vassallo: è finita l'epoca dei candidati imposti dall'alto, in La Stampa, 25 gennaio 2011.
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In realtà, la già richiamata legge della Regione Toscana n. 70, approvata il 17 dicembre 2004, si era già spinta in tal senso. Essa, che ha come finalità espressa l'impegno nel
“promuovere la partecipazione democratica dei cittadini ai processi di selezione dei candidati”, riguarda solo i soggetti che intendano avvalersi di questo strumento: le primarie sono cioè uno strumento opzionale, e non un'imposizione giuridica generalizzata. Eppure vari e ripetuti sono i riferimenti all'obbligo di garantire una corretta rappresentanza di genere nelle liste elettorali; anche se, bisogna precisarlo, l’unica sanzione prevista per l’ipotesi in cui non vengano seguite tali indicazioni è la mancata restituzione della cauzione di cinquemila euro che tutti i partiti debbono versare per poter accedere alle primarie. La disciplina della regione Toscana, pur nella sua
limitatezza, appare di grande importanza. Essa mira a modificare positivamente il ruolo complessivo dei partiti e sulla partecipazione dei cittadini : quindi mira a rendere più trasparente il procedimento di selezione dei candidati e
garantisce agli elettori la possibilità di esprimere in più sedi la propria volontà, ponendosi come alternativa al voto di preferenza che, invece, è stato eliminato ad opera della legge elettorale regionale. Come nota ancora Catalano, “apprezzabile risulta
l’impegno profuso al fine di raggiungere un maggior equilibrio nella rappresentanza di genere. Le norme sopra ricordate si muovono nella giusta direzione agendo, come auspicato fra l’altro dalla Corte costituzionale, nei confronti dei partiti nella fase precedente all’avvio della vera e propria competizione elettorale. Esse, poi, possono
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rientrare fra i provvedimenti di cui parla la Costituzione sia nell’art. 51, primo comma, sia nell’art. 117, settimo comma.” Stando così le cose, se i movimenti politici non
volessero collaborare, le ‘buone intenzioni’ espresse dal legislatore toscano potrebbero rimanere in gran parte sulla carta. A tutela del sesso sotto‐rappresentato rimangono, comunque, le disposizioni dettate dalla legge elettorale toscana. Per quanto riguarda un disegno di legge
sull'introduzione delle primarie, secondo Catalano “nell’impostazione tradizionale, che segue le linee emerse dal dibattito svoltosi in Assemblea Costituente, non sarebbe possibile una disciplina pubblicistica dettata al fine di regolamentare l’attività dei partiti politici soprattutto per quanto concerne la loro organizzazione interna” e “di conseguenza non sarebbe ammissibile una normativa legislativa con cui si imponesse una particolare modalità di selezione dei candidati.” Il dibattito rimane aperto, anche perché lo scorso 14
Aprile, il senatore del Partito democratico Stefano Ceccanti ha depositato un disegno di legge (il cui primo firmatario alla Camera è Walter Veltroni) dal titolo: "Norme sulla democrazia interna dei partiti e sulla disciplina delle elezioni primarie". Il disegno si occupa della questione della rappresentanza di genere in due punti in particolare. In primis all'articolo 3 comma d, quando si prescrive
che lo Statuto di ogni partito individui "le modalità per assicurare negli organi collegiali che nessun genere sia rappresentato in misura superiore al cinquantacinque per cento". Il riferimento alle Pari Opportunità ritorna all'articolo 4, che si occupa specificatamente di elezioni primarie e che impone, congiuntamente al ricorso alle
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primarie (che comunque non è obbligatorio, la redazione di un apposito regolamento all'interno del quale si stabiliscano " le condizioni per la presentazione delle candidature" in modo da assicurare "pari opportunità tra uomini e donne nell’accesso alle candidature". Un passo avanti, almeno dal punto di vista
regolamentare e, insieme, un tentativo di affrontare quello che, a detta di molti, può essere considerato, più della vacatio legis, il problema alla base di questo cronico squilibrio e cioè la mancanza di controllo sulla democraticità delle procedure infra‐partitiche. Un dibattito complesso, lungi dal giungere a una
conclusione. Perché, se da un lato, la nostra stessa Repubblica è nata e si è consolidata su un atto di immensa fiducia verso i partiti politici, è pur vero che, come già all'epoca faceva notare Costantino Mortati, lo Stato non può e non deve “disinteressarsi delle modalità con cui viene esercitato il potere di selezione delle candidature dal momento che tale attività limita il diritto dei cittadini di poter scegliere i propri rappresentanti”.
Riferimenti bibliografici
174 CMCS Working Papers
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CMCS Working Papers Series. This series is intended to:
• Present high quality research and writing (including research in‐progress) to a wide audience of academics, policy‐makers and commercial/media organisations.
• Set the agenda in the broad field of media and communication studies.
• Stimulate debate and research about political communication.
• Stimulate and inform debate and policy. • Bridging different fields of communication and politics
studies Editorial Board • Series Editor: Michele Sorice, LUISS University • Series Deputy Editors: Emiliana De Blasio, LUISS University and Gregorian University and Paolo Peverini, LUISS University Board Members • David Forgacs, New York University, USA • Guido Gili, University of Molise, Italy • Matthew Hibberd, University of Stirling, UK • Michael Higgins, University of Strathclyde, UK • Giuseppe Richeri, USI, CH • Bruno Sanguanini, University of Verona, Italy • Philip Schlesinger, University of Glasgow, UK • Debra Spitulnik Vidali, Emory University, USA • Michael Temple, Staffordshire University, UK • Dario Edoardo Viganò, Lateran University and LUISS, Italy President of the Advisory Board • Leonardo Morlino, LUISS University
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Centre for Media and Communication Studies “Massimo Baldini” LUISS “Guido Carli” Viale Romania 32 – 00197 Roma Tel. + 39 06 85 225 759 [email protected]
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LE SFIDE DELLA PARTECIPAZIONE. LE ELEZIONI PRIMARIE NEL SISTEMA ITALIANO: UNO STUDIO DI GENERE
Noemi Trino è laureata in Scienze di governo e della comunicazione pubblica alla LUISS “Guido Carli”, dove è borsista e collabora alle attività di ricerca del CMCS