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L’Istituto Comprensivo “G. Leopardi” di Saltara è lieto di presentarvi il Progetto SCUOLE APERTE “corso di miniguide” 1

L’Istituto Comprensivo “G. Leopardi” di Saltara è ... · dal mondo che l’arte, ma non c’è legame più sicuro con esso che l’arte. J. W. Goethe 6. ... raffigurante un

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L’Istituto Comprensivo“G. Leopardi” di Saltaraè lieto di presentarvi il

Progetto SCUOLE APERTE

“corso di miniguide”

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Il corso “MINIGUIDE” è stato realizzato nell’anno scolastico 2009/2010 nell’ambito di un progetto di scuola – aperta che prevede l’attivazione di alcuni corsi pomeridiani gratuiti offerti ai ragazzi con lo scopo di approfondire argomenti e contenuti attinenti ad alcune discipline e comunque di svolgere percorsi culturali di potenziamento. Il corso di Mini Guide, nello specifico, si è posto come obiettivo prioritario quello di far conoscere ai ragazzi, che vi hanno partecipato, le peculiarità artistiche e storiche del territorio in modo piacevole e coinvolgente. Oltre a favorire dunque negli alunni un atteggiamento di consapevolezza e attenzione nei confronti del territorio e del patrimonio artistico, sono stati potenziati anche altri importanti obiettivi di carattere formativo quali

• la capacità di manifestare i propri interessi attraverso linguaggi diversi;

• di stimolare l'autonomia personale e l'assunzione di responsabilità;

• di accrescere il senso di autostima, di identità e di appartenenza al gruppo;

• di sperimentare le modalità di funzionamento di un gruppo e di promuovere lo spirito cooperativo, la socializzazione e l'integrazione;

• di sviluppare le potenzialità individuali; di ampliare le idee e la sfera degli interessi;

• di conoscere il proprio territorio per diventare cittadini consapevoli e attivi.

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Il corso si è svolto durante tutto l’anno scolastico, per un totale di 42 ore di insegnamento svolte ogni lunedì pomeriggio con incontri di 2 ore ciascuno.Partendo dal centro storico di Saltara, con i suoi monumenti e le sue chiese, si è cercato di allargare la visuale anche all’arte dei centri circostanti e ai maggiori artisti che hanno operato nelle Marche e non solo, come Antonio Bellinzoni, Francesco di Giorgio Martini, Federico Barocci, Giovanni Francesco Guerrieri.Durante la prima parte del corso gli alunni hanno raccolto e selezionato notizie da materiale di vario tipo, libri d’arte, documenti iconografici, Internet che, poi, in un secondo momento, hanno assemblato e organizzato in un unico testo diviso in tre tappe: breve storia di Saltara, monumenti e principali chiese e, infine, tradizioni e antichi mestieri, a cui seguono una serie di interessanti schede di approfondimento sugli artisti sopraccitati e su altre curiosità per chi vorrà ulteriormente approfondire certi argomenti.L’idea di suddividere il testo in tappe ci è venuta in quanto Saltara costituisce una tappa importante del Giro d’Italia e per l’antica passione che gli abitanti di Saltara nutrono per il ciclismo.Per lo stesso motivo abbiamo deciso di inserire, nella copertina, una ragazza, visto che il corso è stato frequentato da sole alunne femmine, che, appunto, in bici, accompagna simbolicamente il visitatore in questo virtual tour per le vie di Saltara.Dunque … buona visita !!!

P.S.Le alunne hanno voluto inserire questo messaggio di ringraziamento:ci ha fatto molto piacere riscoprire la storia del nostro territorio, conoscere i suoi monumenti e le sue opere d’arte, come ci ha coinvolto e appassionato la possibilità di conoscere la vita e i dipinti di alcuni importanti artisti. Abbiamo avuto la possibilità di analizzare alcuni dipinti, di comprendere meglio come si “legge”

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un’opera d’arte e di approfondire una disciplina alla quale, purtroppo, vengono dedicate poche ore. Per questo i nostri più sinceri ringraziamenti a chi ci ha dato questa possibilità, alla Dirigente Scolastica, Prof.ssa Rosanna Valeri, che ha concesso l’attivazione del corso e alla Prof.ssa Romina Vitali, che ci ha guidate in questa avventura.

Bonanno Sabrina II CKlahr Leonora II CBudini Elizabeta II DOrdonselli Viola II DXhihani Kristela II DBiagiotti Elena III CBrunori Margherita III CCappellini Carolina III CBoni Chiara III DMazzanti Sara III D

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Non c’è via più sicura per evaderedal mondo che l’arte, ma non c’è legame più sicuro con esso che l’arte.

J. W. Goethe

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Prima tappa: Cenni storici

“Prima di iniziare il nostro percorso, sulla storia ci dobbiamo soffermare!”

L’etimologia del nome ………………………………………………………… p. 10

Cenni storici ………………………………………………………………………… p. 13

Breve cronologia …………………………………………………………………. P. 17

Seconda tappa: Chiese e monumenti

“Un giro per le vie del borgo…”

Il centro storico:

Le mura ………………………………………………………………………………… pp 20-22

La torre ……………………………………………………………………………….. pp 20-22

I mercati coperti ……………………………………………………………… pp 20-22

I giardini pensili ……………………………………………………………….. pp 20-22

Le Chiese:

Chiesa del Gonfalone……………………………………………………… p. 23

Chiesa di San Pier Celestino ………………………………………. P. 25

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Chiesa del SS. Sacramento………………………………………… p. 29

Chiesa di San Francesco in Rovereto ………………………… p. 35

Villa di San Martino o del Balì………………………………….. P. 38

Santuario della Villa………………………………………………………….. p. 41

Terza tappa: Usi, costumi, tradizioni e antichi mestieri

“Un viaggio nel passato …”

Antichi mestieri:

Il cappellaio …………………………………………………………………………… p. 44

Il cordaio …………………………………………………………………………… p. 48

Il fabbro ………………………………………………………………………………. P. 51

Il calderaio…………………………………………………………………………… p. 53

Antichi giochi:

Il gioco del bracciale …………………………………………………………….. p. 55

Il gioco del tamburello …………………………………………………………. P. 57

Schede di approfondimento…………………. P.58

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PRIMA TAPPACenni storici:“prima di iniziare sulla

storia ci dobbiamo soffermare…”

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Saltara: l ‘etimologia del nome

Tutti i tentativi di formulare ipotesi sul nome di questo paese sono rivolti alla parte finale del termine; infatti, mentre tutti gli storici concordano riguardo alla prima parte del nome, cioè SALTUS (termine latino che indica bosco o selva), non si trovano d’accordo sulla parte terminale e propongono diverse tesi.

Le varie ipotesi:

1. Un’ antica leggenda narra che un altare venne innalzato sulla collina di S Martino per placare, con sacrifici, un drago che abitava i boschi e terrorizzava le popolazioni del luogo; di qui Saltus ara (altare del bosco).

2. un'altra ipotesi tende a collegare l'origine del nome Saltara con la tradizione romana. C'è chi lo vuole derivante da Saltus aeris, ossia bosco del bronzo, se si vuole credere che l'origine sia derivata dall'abbandono delle armature, in questi boschi, da parte dei Cartaginesi, dispersi dopo la clamorosa sconfitta da parte dei romani (II Guerra Punica - 207 a.C. con la nota vittoria che i consoli romani Marco Livio Salinatore e Caio Claudio Nerone inflissero all’esercito cartaginese di Asdrubale che cercava di portare rinforzi al fratello Annibale deciso a debellare la potenza di Roma.)

3. ma l'interpretazione che risulta più credibile si basa sul vocabolo latino, di derivazione longobarda, Saltarius. (cioè guardiapascoli, sorvegliante forestale). Una interpretazione che al Billi (storico locale da cui si attingono le principali notizie riguardanti Saltara) risulta. credibile Questa teoria potrebbe essere avvallata dalla presenza di un pluteo o paleotto di origine longobarda nella chiesa di San Pier Celestino che presenta moltissimi elementi comuni a una transenna longobarda della chiesa Collegiale di Cividale.

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Chiesa di San Pier Celestino, pluteo del VI secolo

4. Un’altra interpretazione, datata 1562, formulata da Vincenzo Francescucci di Fano, presupponeva che il centro fosse così denominato perché localizzato fra due colline selvose (lat. inter saltus), ma il canonico Billi, nel 1866, esclude tale ipotesi perché la traduzione avrebbe dovuto essere “Tersalo” o “Intersalto”.

5. La versione che convince maggiormente il Billi fa derivare la seconda parte di Saltara dalla parola greca ARIUS o ARRIUS che è tradotto in latino con il vocabolo Mars vale a dire Marte. (Aria è l’accusativo di Arius) Da qui il nome Bosco di Marte o sacro a Marte.

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Cividale, chiesa collegiata, transenna

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La comprova dice di trovarla nell’Esperide Fanese la quale cita: “VETUSTUM MARTIS TEMPLUM DIVO MARTINO DEVOLUTUM”. Era conforme all’uso ecclesiastico cambiare la parola da Marte a Martino. Con questa ipotesi avvalora la tesi che i Cartaginesi stessi, dopo la disastrosa sconfitta subita, costruirono un altare a Marte, (dal greco “Ares”) , dio della guerra, per placarne le ire.

Il primo documento storicamente attendibile in cui compare il nome di "Saltara" è una bolla papale di Papa Giovanni VII (872-882) nella quale viene citato fra tanti paesi e territori: Mansum Saltariae come appartenente alla Badia di S.Paterniano di Fano.

Viene poi nominato nello statuto di Modena (rubrica 370 f. 74) dove si legge che: “Saltarii teneantur custodire ed salvare clausuras, terras, hortos, vites, prata segetes et arbores hominum civitatis mutinae” e cioè “I saltari sono tenuti a custodire e salvare i luoghi chiusi, le terre, gli orti, le vigne, i campi arati e gli alberi dei cittadini”.Quindi i saltari non erano altro che guardie campestri o guardaboschi. Probabilmente sotto la dominazione longobarda, i monaci benedettini della badia di San Paterniano, presso le mura di Fano, possedendo terreni in Saltara, vi avranno inviato un custode o castaldo, vale a dire un SALTARIUS longobardo o SALTUARIUS latino.Il nome sarà poi stato usato per denominare quel gruppo di case che man mano andò a crescere fino a formare un paesello, poi una terra e quindi un castello col nome di SALTARA.

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Un po’di storia

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La nascita di Saltara avvenne probabilmente all’inizio del XII secolo.Il primo documento in cui apparve il nome del paese è una bolla papale di Papa Giovanni VIII (872-882). Tra tanti paesi e territori

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viene citato Mansum Saltariae come appartenente alla Badia si San Paterniano di Fano.L’origine di Saltara è simile a quella di altri comuni .Le popolazioni, dopo lo sfacelo dell’impero Romano e le invasione dei barbari si raccolsero sulle alture e costruirono alti castelli.Qui era più facile la difesa e si potevano controllare gli assalti degli invasori. Tutto ciò rendeva più sicura la vita della popolazione . È grazie alla Flaminia che Saltara assunse un importante ruolo di centro commerciale.Il castello era comandato da un capitano che dipendeva dalla città di Fano.Nel 1343, Galeotto Malatesta di Rimini (figlio di Pandolfo) occupò militarmente la città di Fano e quindi anche Saltara passò sotto la signoria dei Malatesta.Iniziava così il periodo della signoria dei Malatesta: fu un fatto molto significativo per Saltara, che da questo momento adottò lo stemma della famiglia, vale a dire un drago alato con zampe di leone sopra un altare in cui si trova la scritta “pax sit huic domui”; fu probabilmente Novello Malatesta a proporre questo simbolo come stemma di Saltara. Nella biblioteca di Cesena si trova infatti un bassorilievo commissionato da Andrea Malatesta, zio di Novello, raffigurante un San Giorgio che uccide il drago, dove la figura del drago presenta tratti molto simili al drago scolpito in pietra nel palazzo di giustizia di Saltara.

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Drago alato rappresentato Nel palazzo di giustizia malatestiano di Saltara

Drago alato del bassorilievo della Biblioteca Malatestiana di Cesena

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Durante il periodo Malatestiano fu effettuata la fortificazione del castello, il vero centro storico del paese, costituito da vie strette, antichi portici e mercati coperti, mentre la costruzione del fossato intorno al castello avvenne nel 1352; tale fortificazione fu necessaria per far fronte ai continui attacchi dovuti sia alle posizioni politiche assunte dai Signori di Rimini sia per evitare le continue minacce dei comuni limitrofi, in particolare di Cagli e Fossombrone.Dal 1387 fino alla presa di Fano da parte di Pio II (1458-1464) non si trovano altri documenti riguardanti Saltara, ad eccezione del saccheggio subito nel 1445 da parte delle truppe di Francesco Sforza..Un’altra data fondamentale è il 1463-64, quando Federico da Montefeltro venne in aiuto del papa e strappò Saltara a Sigismondo Pandolfo Malatesta; il duca di Urbino avrebbe infatti voluto annettere alla sua signoria i territori di Fano ed i castelli ad essa assoggettati, quindi anche Saltara.Pertanto, da questo momento i territori acquistarono la cosiddetta “libertas ecclesiastica” cioè la soggezione alla Santa Sede, che inviò nuovi capitani a governarli.Il comando di Saltara fu affidato a Simone Rinalducci, cui seguirono altri capitani, sempre nominati da Fano, col titolo di Castellani; Saltara fu infatti sempre sotto la giurisdizione di Fano anche se non mancavano tentativi di sottrarsi all’autorità fanese da parte dei cittadini saltaresi.Nel 1656 papa Alessandro VII dispose un censimento delle anime nei suoi territori, a Saltara risultavano 795 abitanti, che aumentarono a 928 nel censimento del 1701 e a 1361 in quello del 1810.

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Anche Saltara subì il passaggio delle truppe napoleoniche; nel febbraio del 1797 tutti i castelli passarono infatti nelle mani dei francesi e il 10 giugno 1810, per ordine di Napoleone I, tutti gli ordini religiosi vennero sciolti e i conventi passarono nelle mani della municipalità che ne fecero ospedali, archivi e biblioteche.Dopo la caduta dell’impero napoleonico le Marche ritornarono allo Stato Pontificio.Va infine ricordato il terribile bombardamento subito da Saltara, durante la seconda guerra mondiale, nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1945, che provocò la morte di numerosi civili; durante il bombardamento, che doveva facilitare il passaggio degli alleati per lo sfondamento della linea gotica, fu in parte abbattuta la torre civica, considerata osservatorio tedesco.La ricca storia del comune di Saltara è riscontrabile nella presenza di numerosi monumenti, religiosi o civili, cui verrà dedicata la seconda parte del presente lavoro e dei quali si dà di seguito un breve elenco:

1. le quattro chiese del centro storico: la chiesa della Fonte (sec. XV), la chiesa del Gonfalone (1649), la chiesa di San Pier Celestino, il Santuario della Villa (1792)

2. il convento di San Francesco in Rovereto (primo nucleo risalente al sec. XIII)

3. il palazzo di San Martino o Villa del Balì (primo nucleo del sec. XII, struttura attuale del 1625)

4. il centro storico con il Palazzo Municipale e la Torre Civica entrambi di età Malatestiana.

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Breve cronologia• 207 a.C. : Battaglia del Metauro tra Romani e Cartaginesi combattuta

ai piedi di Saltara.

• 882: Bolla papale che cita Mansum Saltariae.

• 1156: papa Adriano IV riconferma Saltara tra i territori assoggettati all’abbazia di S. Paterniano.

• 1283: Saltara viene annessa al comune di Fano, che nomina un capitano a capo del castello.

• 1343: Saltara passa alla signoria dei Malatesta di Rimini.

• XIV: dominazione dei Malatesta e compimento delle mura del borgo di Saltara.

• 1445: Saltara viene presa e saccheggiata dalle truppe di Francesco Sforza.

• 1463-64: Federico da Montefeltro viene in aiuto del papa e strappa Saltara a Sigismondo Pandolfo Malatesta; da questo momento Saltara fa parte dei possedimenti ecclesiastici e risulta, in particolare, sotto la giurisdizione del Comune di Fano che invia nuovi capitani per governarla

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• 1516: Lorenzo De’ Medici, col suo esercito, si stabilisce a Saltara per combattere il duca d’Urbino Francesco Maria I della Rovere; Saltara rimane possedimento della Chiesa

• 1656: papa Alessandro VII dispone un censimento delle anime nei suoi territori, quindi anche a Saltara

• 1797: Saltara subisce il passaggio delle truppe napoleoniche e nel febbraio di quell’anno tutti i castelli passano nelle mani dei francesi

• 1815: dopo la caduta dell’impero napoleonico Saltara ritorna sotto il dominio dello Stato della Chiesa

• 1861: Saltara diventa comune con l’Unità d’Italia

• 1945: terribile bombardamento subito da Saltara, durante la seconda guerra mondiale per facilitare il passaggio degli alleati

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SECONDA

TAPPA

SECONDA TAPPA

Chiese e monumenti: “un giro per le vie del

borgo…”

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Il centro storico Il centro storico di Saltara è completamente “avvolto” dalle mura e si può raggiungere percorrendo le scale che partono dalla piazza principale.L’intera fortificazione del Castello fu compiuta tra il XIII e XIV secolo e fu realizzata per difendere il paese dalle continue incursioni dei Comuni di Fossombrone e Cagli, che rappresentavano una minaccia costante alla pace del paese. Per lo stesso motivo il castello venne costruito con la forma particolare di un vascello con la punta rivolta verso la valle, proprio per difendersi meglio dagli attacchi nemici. Di sicuro fu progettato ispirandosi ai tanti castelli e rocche che Francesco di Giorgio Martini ideò in questo territorio.

All’interno di questa fortificazione si sviluppa il vero e proprio centro storico; attualmente il centro storico si può raggiungere o salendo la gradinata di 106 gradini,

eseguita nel 1934, che parte dalla piazza principale del paese, oppure percorrendo Via Corridoni che è delimitata, sul lato sinistro, dalla cinta muraria, ancora ben conservata. Si arriva così alla piazza principale di Saltara dove si affacciano due edifici di epoca malatestiana:

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il Palazzo Municipale, costruito fra il 1500 e il 1600, che conserva ancora, situato sopra il portale, il “drago alato”, stemma dei Malatesta. Di pregevole in questo edificio è il portale, all’esterno, e un camino, all’interno, situato al primo piano del palazzo; fino a diversi anni fa era presente anche un dipinto su tavola di scuola marchigiana, delle dimensioni di 90x60 cm, raffigurante una Crocifissione (secolo XIV), di notevole pregio, che fu poi trasferita nella Galleria Nazionale delle Marche di Urbino.

Sulla piazza sui affaccia anche la torre civica, sempre di epoca malatestiana, più volte ristrutturata, dove di trovano ancora due antiche iscrizioni in caratteri gotici che ricordano la funzione di Luogo di Giustizia di questo edificio.

Tipicamente medievale risulta la presenza ravvicinata dei luoghi che rappresentano i tre diversi poteri: Comune (politico), Chiesa di S. Lucia (religioso), Mercati coperti (economico).

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Un monumento particolare e caratteristico di Saltara sono proprio i mercati coperti; nel periodo medievale questo luogo era utilizzato per il passaggio dei carri,

mentre negli anni successivi al 1449 questo spazio fu utilizzato per il mercato settimanale, di solito il mercoledì; si trattava di uno dei più importanti mercati dell’intera valle del Metauro. Dai mercati coperti si arriva, attraverso una scaletta, ai giardini pensili: un piccolo spazio circondato da mura,con una suggestiva vista sul paesaggio circostante e sulla piazza di Saltara. (Questa piccola area verde è stata recuperata e valorizzata dall’Istituto Leopardi con il contributo di altre scuole di Fano e Pesaro).

Torre malatestiana trasformata dalVenturelli nel 1786 Torre oggi

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Chiesa del Gonfalone

La Chiesa del Gonfalone si trova sulla strada che, uscendo dal centro storico di Saltara, porta a Cartoceto; è così chiamata perché un tempo vi si trovava la sede della Confraternita omonima, detta anche del S.S. Crocefisso; si tratta della Confraternita più antica e più numerosa di Saltara.La Chiesa, con facciata a capanna, in stile tardo rinascimentale, presenta, nella parte superiore, due finestre strombate con arco a tutto sesto. L’ingresso principale, a cui si accede attraverso una piccola gradinata, è caratterizzato da una inquadratura con ornamenti vegetali che richiamano lo stile del periodo sopra citato. Nel fregio superiore si trova una iscrizione in latino, Anno Domini 1649; il tutto è sovrastato da un Crocefisso in pietra. E’ possibile che tale data si riferisca ad un rifacimento dell’edificio, infatti nel resoconto di una Visita Pastorale del Vescovo Lapi, avvenuta nel 1610, la chiesa viene nominata e ricordata come sede della Confraternita del SS. Crocifisso e di quella della Concezione. Nei secoli XVII e XVIII fu più volte trasformata.

Superato l’ingresso principale si può subito osservare una cantoria con un organo ligneo del XVIII secolo di produzione veneta; a destra dell’altare maggiore vi è una tela raffigurante l’Assunzione della Madonna in cielo, mentre a sinistra si trovava il dipinto di S. Antonio da Padova di Francesco Guerrieri da Fossombrone, attualmente nella chiesa del SS. Sacramento.Se rivolgiamo lo sguardo verso l’alto, possiamo ammirare il soffitto ligneo a

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cassettoni, completamente intagliato con decorazioni a motivi vegetali dorati e dipinti con una vivace policromia di color giallo, verde e arancio.

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Chiesa di San Pier Celestino

Si tratta della chiesa principale del paese, di origini tardo cinquecentesche, ma rifatta nel XVIII sec.L’edificio sembra essere stato ricostruito sopra una chiesa precedente; nel corridoio che porta alla sacrestia è esposta una lapide con questa iscrizione latina la cui traduzione corrisponde a : ”A DIO OTT. MASS. A MERITISSIMO CLEMENTE VIII PONT. MASS. E TEODOSIO BOLOGNESE GENERALE DEI CELESTINI NON PER ORNAMENTO MA PER NECESSITA’ FU ELEVATA LA FONDAZIONE – L’ANNO DI CRISTO 1601”.La chiesa è dedicata a Pietro Murrone, monaco Calabrese proclamato papa con il nome di Celestino V, presente nelle processioni in occasione della morte di qualcuno. La chiesa è stata, fino al 1819, sede del convento dei padri Celestini; fu poi donata alla parrocchia di San Giovanni, la cui chiesa, (poi Ospedale Morioni) che era all’interno delle mura castellane, era in

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quei tempi in condizioni fatiscenti. I Celestini abbandonarono chiesa e convento al tempo della soppressione napoleonica.

Un tempo era la sede della Confraternita dell’Addolorata, unica confraternita di Saltara composta esclusivamente da donne.

La chiesa è a navata unica con due altari addossati alla parete sinistra e due alla parete destra. Gli elementi decorativi di tipo classicheggiante, in legno intagliato, che ornano gli altari, così come gli stucchi con elementi floreali e volute, con cartigli e cherubini, che decorano le finestre, l’arco trionfale e l’abside vanno datati al XVIII secolo.Appena entrati, nella controfacciata, si nota una notevole cantoria in legno con decorazioni dipinte databile tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII secolo: alla base si può notare una decorazione a motivi geometrici e a finto marmo, mentre sulla balaustra, nella parte centrale, è raffigurato Il collegio dei cardinali riunito di fronte a papa Celestino V che depone la tiara, il copri capo papale, rinunciando al suo pontificato (Dante per questo rifiuto metterà Celestino V nell’Inferno, nel girone degli ignavi, quelli che nella vita non hanno fatto niente né di bene né di male). A destra di tale raffigurazione vi è Santa Cecilia che suona l’organo e a sinistra un Santo Profeta, non identificato, che suona l’arpa. All’interno della chiesa, sul primo altare a sinistra, è collocata la tela raffigurante Santa Irene che cura San Sebastiano trafitto dalle frecce. I due Santi rivelano una discreta fattura, nello studio proporzionato dei corpi e nella della resa dei dettagli; intorno ai due santi vi sono rami di piante secche e, sullo sfondo, si intravedono due uomini con una spada in mano, sembra che stiano parlando. Il primo ha un vestito con colori accesi (rosso), il secondo ha un vestito blu scuro; sullo sfondo è raffigurata una città, dove si vedono una torre, come un campanile, e delle stradine che portano su una collina. In alto, nel cielo, sopra una nuvola, si vedono degli angeli con vesti color arancio.

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Il dipinto è di scuola baroccesca (fine del ‘500 circa).

San Sebastiano è il patrono di Saltara e viene festeggiato il 20 gennaio. Visse al tempo dell’ imperatore Diocleziano e per la sua militanza fu condannato a morte tramite frecce.

Sul secondo altare a sinistra è collocata una statua lignea devozionale raffigurante Cristo in preghiera.Si arriva così all’abiside: sull’altare maggiore una tela raffigura L’elezione a papa di Pietro da Murrone con il nome di Celstino V; la tela piuttosto scura e in parte rovinata mostra una discreta fattura.Ai lati di questo dipinto altre due tele molto buie e quasi illeggibili raffigurano rispettivamente, quella a destra San Mauro che solleva San Placido dalle acque e, quella a sinistra, L’annuncio della elezione al Pontificato Romano di San Pier Celestino. Le caratteristiche stilistiche che si riescono a intravedere nei dipinti suggeriscono una datazione al XVIII secolo.Dietro l’altare si trova un coro ligneo, costituito da sette sedili divisi da semicolonne con capitelli in legno intagliato databile tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo circa.Proseguendo, sulla parete destra della chiesa, nel primo altare si trova un dipinto raffigurante La morte di San Giuseppe; anche se l’opera mostra una discreta fattura, la tela risulta molto rovinata e scura.Di seguito si trova il pulpito in pietra, quindi un altro altare decorato da una statua devozionale della Madonna.

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Chiesa della Fonte o del SS.Sacramento

Si tratta di un piccolo edificio a navata unica con due cappelle laterali, che sorge appena al di fuori dalle mura del centro storico di Saltara; è dedicata alla "Divina Maria delle Grazie sopra la Fonte di Saltara", in quanto venne costruita proprio vicino ad una fontanella. Il nome della chiesa fu poi abbreviato dai fedeli e diventò semplicemente "chiesa della fonte" o "chiesa Madonna della fonte".Poiché, in seguito, diventò la

sede della pia Confraternita del Santissimo Sacramento (una delle tre più antiche che esistevano già fin dal '500), essa venne anche chiamata "chiesa del SS. Sacramento". Come ricordo di questa confraternita, sopra il portale d’ingresso, in mezzo al timpano, è stato scolpito un calice con un’ostia.

Non si conosce l'anno di costruzione della Chiesa, ma solo l'anno del primo restauro (1595), come ricorda la lapide conservata sulla parete di sinistra, che riporta fra l’altro anche il nome della Chiesa stessa: D. O . M . T E M P L U M D I V A E M A R I A E GR A T I A R U M SUP E R SAL T A R I E F O N T E M V E T U S T A T E CO L L A B E N S CO R P . XP I SO C I E T A S INS T A U R A N D U M AT Q U E AU G E N D U M C U R A V I T AN N O AB

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I N C A R N A T D O M I N I C A M D X C V SUB PR I O R A T U JO H D O M I N I C I SE R B A L D I E T M A T T H E I H A D R I A N ITraduzione: A Dio ottimo massimo. La Società del Corpus Cristi ha curato il restauro e l'ampliamento della chiesa della divina Maria delle Grazie sopra la fonte di Saltara in rovina per l'antichità nell'anno 1595 dopo la festa dell'Incarnazione (25 marzo) sotto il priorato di Gian Domenico Serbaldi e Matteo Ariani.

All'interno dell’edificio sono conservate diverse opere.

Una tela di Scuola baroccesca posta sull'altare maggiore raffigurante L’Ultima Cena , di recente attribuita all’allievo del Barocci Giovanni Andrea Urbani (1568/1632), riproduzione esatta del dipinto che Federico Barocci (1535-1612) realizzò per il Duomo di Urbino, ancora conservata nella Cappella del Sacramento del Duomo.

Una tela, posta invece sul lato destro, raffigura Sant'Antonio da Padova a cui appare la Madonna con Gesù Bambino, attribuita a Francesco Guerrieri da Fossombrone (1589-1657).

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In questo dipinto appaiono la Madonna con Gesù Bambino e Sant’ Antonio. Quest’ultimo indossa miseri abiti da frate, mentre Maria ha una tunica rossa, in segno di amore e passione, e azzurra come simbolo di purezza. In terra c’è un giglio che significa anch’esso purezza ed è il tipico attributo iconografico del Santo. In alto vediamo dei cherubini e una colomba al centro, simbolo dello Spirito Santo. Infine, se si osserva attentamente la tela, si scopre che oltre ai tre personaggi in piena luce (Maria, Gesù e Sant’Antonio da Padova), c’è un quarto personaggio in ombra; sulla parte sinistra, infatti, si scorge un frate, seminascosto da una porta, che osserva la scena.

Del dipinto in esame esiste un’altra versione quasi identica che si differenzia solo per alcuni dettagli, come la mancanza della colomba in alto al centro e della porta aperta a sinistra, conservata ad Arezzo.

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La Madonna con il Bambino e Sant’Antonio da Padova, Arezzo, Chiesa di Strada nel Casentino

Le opere comunque di maggiore interesse artistico risultano gli affreschi attribuiti a Giovanni Antonio Bellinzoni (1417 ca.- 1477 ca.) situati nella cappella di sinistra e raffiguranti la Madonna della Misericordia nella sua iconografia più classica, quella con l'ampio mantello che protegge i fedeli in preghiera con, ai lati, i Santi Sebastiano e Maria Maddalena, a sinistra, e San Bernardino e Sant’ Antonio, a destra.

La Madonna è circondata da angeli ed in alto domina la figura del Padre Eterno benedicente. Da notare, infine, l’iconografia, ancora di retaggio medievale, della mandorla che racchiude il Bambino, nella pancia di Maria.

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San Sebastiano e Maria Maddalena San Bernardino e Sant’Antonio

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Infine, possiamo osservare il

soffitto ligneo dipinto della cappella della Madonna delle Grazie, decorato con rose quadripetali tipiche dell’emblema dei Malatesta. Questo motivo decorativo è riproposto anche nella parte superiore dell’affresco absidale della chiesa di San Francesco in Rovereto del sopraddetto Giovanni Antonio e ricorda la dominazione della famiglia riminese a Saltara.

Dello stesso autore è l’affresco che raffigura La Madonna in trono con Bambino collocato in una stanza laterale (sacrestia) della chiesa. L’opera è caratterizzata da colori accesi, si noti in particolare il vivace accostamento fra il vestito rosso della Madonna e lo sfondo turchese, delimitati da profonde e sinuose linee di contorno. Pur non essendoci ancora uno studio accurato e scientifico della prospettiva, il pittore tenta, comunque, di dare una certa profondità al dipinto, nella struttura del trono. Di notevole interesse risultano infine tutti gli elementi decorativi che ornano l’opera e le raffigurazioni laterali con Angeli.

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Oggi la chiesa non è utilizzata per funzioni religiose ma come spazio per mostre e attività culturali.

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Chiesa di san Francesco in

Rovereto

La chiesa sorge a circa un Km da Saltara, su una collina circondata da boschi di querce (roveri) ed è raggiungibile dalla via Flaminia.La tradizione vuole che in

questo luogo S.Francesco abbia fondato un convento. Fu costruita nel 1215 ed è stata riedificata da Magister Marcus nel 1434, come indica l’iscrizione sull’abside “Magister Marcus fecit” in stile tardogotico.Il convento è uno dei più importanti delle Marche.Della originaria costruzione rimane oggi traccia nella cappella che si apre nel fianco sinistro della chiesa; il convento, che prese il posto delle vecchie case dei religiosi, come ricorda un documento del 1493, fu costruito sul finire del XV secolo da Maestro Bernardino e da Maestro Norberto.

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La chiesa come si presenta oggi è data dalla fusione della piccola chiesetta originaria con quella più grande costruita nel 1400 ad "aula tardogotica"; all'esterno la facciata, l'abside ed il fianco occidentale della chiesa presentano un cornicione decorato con una fascia di archetti pensili in laterizio; il campanile quadrangolare è stato aggiunto successivamente.L'interno della chiesa è stato restituito, da un recente restauro, alla originaria semplicità quattrocentesca ravvivata però da splendidi affreschi. In particolare, si distingue l’affresco absidale raffigurante, nello spazio centrale, la Crocifissione con ai lati S. Giovanni e la Madonna, mentre in alto volano alcuni angeli e uno in particolare raccoglie in un calice il sangue di Cristo; nei riquadri laterali a sinistra S. Pietro, S. Paolo e S. Mustiola, a destra S. Sebastiano, S. Francesco d’Assisi ed il Beato Galeotto Roberto Malatesta, tutti opera di Giovanni Antonio Bellinzoni.

Notevoli risultano anche gli elementi decorativi che separano i riquadri descritti, dove si può riconoscere anche il motivo stilizzato della rosa quadripetale tipica dei Malatesta.

Questi motivi decorativi, che separano le figure dei santi, sembrano ricordare la tipologia del polittico; d’altra parte il pittore aveva realizzato un notevole polittico per la chiesa di San Ermete a Gabicce Monte, di cui rimangono dei frammenti

conservati alla Pinacoteca Civica di Pesaro raffiguranti i santi Nicola, Silvestro ed Ermete, databili tra il settimo e ottavo

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decennio del ‘400 e molto vicini da un punto di vista stilistico agli affreschi di Saltara.Un altro affresco, collocato nel nucleo primitivo della chiesa, opera

di Allegretto Nuzi, eseguito nella seconda metà del Trecento, rappresenta la Crocifissione con S. Francesco, in ginocchio, ai piedi della croce, insieme alla Vergine e S. Giovanni. Altri affreschi, attribuiti a pittori locali, sono stati ultimamente restaurati.Nell’edificio si possono osservare anche interessanti testimonianze del periodo

barocco, possono essere attribuiti infatti a quest’epoca l'altare maggiore e la cantoria in legno dorato nella cappella laterale.

Ora il convento è stato restituito alla vita monastica e attualmente ospita un centro di spiritualità.

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Villa di San Martino o Villa del BalìL’elegante Villa del Balì, sui colli fra Saltara e Cartoceto, vide le sue origini nel XVII secolo ed acquistò l’aspetto attuale nel Settecento. Per secoli fu proprietà della nobile famiglia fanese dei Negusanti, che la usarono

anche come osservatorio per lo studio della volta celeste. Il museo che oggi ha sede nella villa si rifà a questa antica tradizione scientifica. La villa, ampliata e ristrutturata nel corso dei secoli, ha assunto il definitivo aspetto esterno, oggi visibile, nel XVIII secolo, quando è stata addossata alla facciata una scalinata di accesso centrale, che le dona imponenza e sobrietà. Adiacente alla villa si trova la cappella dedicata a San Martino che ha una storia tutta sua, ma strettamente collegata con le alterne vicende dell’edificio residenziale. La villa del Balì ha già nella sua denominazione qualcosa che incuriosisce, dal momento che Balì non è certo un vocabolo di uso comune: con questo termine si indica un grado specifico nella gerarchia di alcuni ordini cavallereschi. Uno dei tardi proprietari della villa, il conte Antonio Marcolini, era Balì dell’ordine dei cavalieri di Santo Stefano, come altri componenti della sua famiglia. Da qui la denominazione della villa. In epoca romana il colle dove sorgono la chiesa di S. Martino e le case adiacenti era consacrato a Marte e infatti era presente un tempietto dedicato al dio stesso. Nel 1165 l’edificio fu donato ai canonici della cattedrale di Fano. In seguito divenne proprietà del conte Vincenzo Negusanti

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che fece costruire una vasta residenza di campagna adiacente alla chiesa di San Martino, da lui stesso riedificata (1568) e alla quale aggiunse quattro torri che utilizzava per i suoi studi di astronomia, trasformando quindi la villa in un osservatorio astronomico. Sotto la Villa si può accedere a suggestivi sotterranei, che, in realtà, costituiscono una componente abbastanza tipica nelle ville e nelle residenze di campagna della zona. Entrando dal retro della villa, al livello del seminterrato, si trovano alcuni ambienti che ancora presentano i segni di un loro uso come cucine, dispense e magazzini. Procedendo verso il fronte della villa, si giunge in un ampio spazio in cui si trova, sulla destra, una stretta e buia galleria sotterranea che si estende sotto il prato antistante l’edificio. Immediatamente dopo, procedendo nella grotta, per tutta la sua estensione, si percepisce la sensazione di una forma particolare. Infatti la planimetria mostra, nell’insieme, l’immagine di una grande croce latina a sua volta composta da quattro croci patriarcali.Il braccio lungo della croce termina in una cripta quadrangolare la cui volta, a botte, è rivestita di mattoni e è decorata da un’immagine dipinta che rappresenta una croce rossa profilata di nero su fondo bianco.Il corridoio che porta alla cripta è in forte pendenza e in direzione ortogonale rispetto al braccio corto della croce latina, per cui tale ambiente sotterraneo viene a trovarsi in corrispondenza del piazzale antistante la gradinata esterna della villa.

Dal tardo Seicento, la villa di San Martino cambiò nome in “Villa del Balì”. Più tardi, a partire dal 1852 fino al 1861, è stata di proprietà dei Gesuiti; con la soppressione degli Ordini religiosi imposta dal

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decreto Valerio, la villa passò al Collegio Convitto Nolfi fino al 1944, quando divenne proprietà del Comune di Fano. Oggi la Villa del Balì è concessa in comodato trentennale al Comune di Saltara che ne ha fatto un museo della scienza, un progetto che vede finalmente coronato il sogno dell’astronomo conte Vincenzo Negusanti.

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Chiesa della Madonna della Villa Sulla strada secondaria che da Saltara porta a Cartoceto sorge la chiesa della Madonna della Villa.

La sua costruzione, avvenuta nel 1790, fu affidata a tre architetti: la facciata a Cesare Selvelli, la gradinata ed il parapetto a Prospero Selvelli, entrambi di Fano e l’interno

ad un architetto di Senigallia.

L’edificio è un tempietto a pianta ottagonale, l’interno è scandito da colonne decorate da ricchi capitelli. La facciata principale è rivestita in mattoni e presenta una serie di semicolonne in rilievo; al centro, nella parte superiore, vi è una grande apertura a forma di finestra, che sovrasta il grande portale centrale con timpano triangolare; sulla sinistra si eleva il campanile.

All’interno è conservato un dipinto su tavola rappresentante la Madonna del Rosario eseguito dal fanese Sebastiano Ceccarini in sostituzione di una più antica immagine della Madonna del Rosario, ormai rovinata. Per questo motivo i rettori del piccolo santuario decisero di commissionare un’opera con lo stesso soggetto al pittore danese, intorno al 1760. Ceccarini per creare continuità con l’immagine precedente, decise di usare lo stesso supporto su tavola e, in secondo momento, ritagliò le figure.

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Egli raffigurò la Madonna nell’atto di donare il rosario ai fedeli che si inginocchiavano di fronte a lei. Il dipinto si inserisce pienamente nell’ambito dell’opera del pittore che riesce a rendere il tema sacro intimo e umano.

Da notare, infine, il caratteristico organo a canne di anonimo marchigiano del ‘700, restaurato di recente e, lungo le pareti, quattro tele raffiguranti figure di Santi: San Luigi Gonzaga, San Pietro, San Giuseppe e San Francesco. Sotto ogni dipinto sono ricordate le famiglie saltaresi che contribuirono alle spese relative alla realizzazione di queste opere. Questo Santuario era la sede della Confraternita del Rosario.

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TERZA TAPPA

Usi, costumi, tradizioni e

antichi mestieri:

“un viaggio nel passato…”

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Il Cappellaio

Il mestiere del cappellaio a Saltara è sicuramente più remoto di quanto attestano i documenti rinvenuti negli

archivi.Il più antico atto in nostro possesso risale all’ 11 aprile del 1618 e cita un certo “ mastro Bastiano, già di Pierangelo della Bruna, cappellaio di Cartoceto, abitante a Saltara…” (archivio di Stato di Fano, frammenti di Filze b30 11 aprile 1618)Si tratta forse del primo cappellaio in Saltara ?Le nostre ricerche non ci permettono di dare a questa domanda una risposta sicura. È comunque provata da documenti d’archivio la presenza di un discreto numeri di cappellai nel paese alla fine del Settecento e nei primi anni del Ottocento.Quella del cappellaio, a Saltara, resta comunque, anche negli anni successivi, un’attività artigianale diffusa. Il cappellaio è proprietario della sua bottega, che spesso è anche la sua casa, collocata o sulla piazza o lungo le vie del centro del paese; qui lavora, conserva gli attrezzi della sua arte e vende i prodotti.

La manifattura dei cappelli da uomo a Saltara si distingue in due rami principali e diversi: quella dei cappelli di lana e quella dei cappelli di pelo di coniglio o di lepre.Il cappello di lana è più richiesto perché dura più a lungo e costa di meno; nel 1823 un capello di lana costava, secondo i documenti, 45 baiocchi (moneta di rame dello stato pontificio equivalente a 5 cent.) e, nel 1911, 3 lire.Il cappello di pelo invece è più caro, è un cappello speciale, da grandi occasioni, per una clientela più esigente.Le tinte più richieste sono il grigio, il nero e il marrone in varie tonalità; il cappello maschile prodotto a Saltara conserva

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pressappoco la stessa forma, anche se, nel tempo, subisce alcune modifiche per quanto riguarda la grandezza e l’altezza della calotta, la dimensione della falda, che poteva essere, a seconda della richiesta, larga, stretta, rococò, rivolta in alto, e la qualità del materiale: fettuccia, cotone, raso o cuoio.

Dopo la scelta delle pelli migliori si passa alla disrognatura, per ripulire il pelo dalla polvere e dalle impurità e quindi alla sbarratura, ossia all’eliminazione della peluria molle e corta.Il cappellaio effettua il segretaggio, strofina cioè le pelli con una spazzola di cinghiale.La successiva feltrazione consiste in una serie di operazioni (taglio o strappo dei peli, mischia, accordellamento o intrecciatura dei peli con arco e arsone), fino a realizzare un solo cono (cloche).In tempi più recenti, l’artigiano non provvede più personalmente alla feltrazione, ma si rifornisce di feltri trasformati in “cloche”, presso fabbriche sorte a questo scopo a Montevarchi, Arezzo, Chiavari…., che, per ottenere feltri migliori, mescolano il pelo di conigli italiani con quello di conigli australiani e francesi.Il cono viene quindi sottoposto alla follatura, immergendolo in una caldaia di acqua bollente perché abbia maggior consistenza. Si passa poi alla formatura introducendo a forza nel cono la forma sostenuta dal dormiglione.Per la tintura dei cappelli vengono usati prodotti naturali (carminio, campeggio,verderame,tartaro di botte etc.); segue quindi la prima lucidatura: il cappello, irrobustito con un leggero passaggio di gomma arabica molto diluita, viene fatto asciugare al sole; con il “pilota”, tampone di stoffa inumidito e scaldato viene lucidato, dando al pelo un verso circolare e infine viene misurato con il misuratore.Si passa quindi alla bordatura, mediante la quale si fa prendere al capello la forma desiderata, servendosi di un cordone e di un passacordone o “voloir” e alla battitura della falda, bagnata con colla di tipo tedesco e aggiustata con le forbici.

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La falda viene quindi posata nel cavalletto perché prenda forma e infine stirata, protetta da un panno, con ferro scaldato sul fornello a carbone. Il “pilota” inumidito e scaldato, viene passato sul cappello per dare al pelo il verso definitivo e la giusta lucentezza.

Formatura: il cappello grezzo viene messo sulla forma

Aggiustamento della tesa con le forbici

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La rifinitura è la fase finale della manifattura del cappello e consiste nel foderarlo con tela cotonina bianca colorata o con raso, e nel collocare il marocchino, striscia in cartone o pelle, e nel guarnirlo del nastro di seta .

Stiratura della tesa protetta da un panno con ferro scaldato a carbone

Alcune fra le famiglie più importanti di cappellai sono: Agostani, Berardi , Berloni , Bonazzelli , Cappellacci , Castelletti , Ceccarelli , Ciavarini , Ciacci , Curina , De angelis, Del Signore , Di Ambri, Fabbri , Fulvi , Mascarucci , Martinelli , Serrallegri , Tonelli , Verzolini , Vitali.

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Il Cordaio

Il mestiere del cordaio era molto importante nel periodo che seguì la seconda guerra mondiale, quando, nella vallata del Metauro, l'attività principale era costituita dall'agricoltura. Questo perché un tempo i lavori agricoli non venivano praticati con mezzi meccanici, bensì utilizzando buoi e mucche che trainavano l'aratro, il carro e altri strumenti agricoli.Questi animali, infatti, venivano attrezzati con gioghi e, per regolarne l'andatura, si utilizzavano delle corde che venivano collegate agli animali mediante un anello (muraglia) in un punto sensibile, quello delle narici; in questo modo l'agricoltore poteva frenare o sollecitare i due buoi.

Le corde erano quindi uno strumento assolutamente indispensabile al lavoro agricolo e gli abitanti di Saltara si specializzarono nella loro lavorazione.

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Fasi di lavorazione della corda e strumenti: per lavorare la corda, era innanzitutto necessario che il cordaio avesse a disposizione una certa quantità di canapa (=pianta erbacea). Questa pianta, una volta raggiunta la maturazione, veniva tagliata, legata a fasci e consegnata al cordaio.

A questo punto il cordaio portava la canapa vicino ad un corso d'acqua e qui la lasciava macerare; poi, quando si era ammorbidita, la batteva con forza e quindi la

metteva ad asciugare dietro i pagliai e la passava al "canapino", attrezzo formato da tanti aghi metallici che serviva a pettinarla.

La canapa era così trasformata in fili sottilissimi, che venivano uniti per ottenere un filo di corda più grosso e compatto che si passava alla "grande

ruota"; al centro di questa si trovavano, su di un lato, una manovella (fatta girare da ragazzi in età scolare o da donne), sull'altro, invece, venivano applicate delle forme. A questo punto il cordaio faceva girare la ruota e la corda veniva allungata lungo un sentiero.Infine, all'estremità della corda, era applicato un uncino che era

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sistemato ai fianchi di un ragazzino, il quale, allontanandosi pian piano dalla ruota, formava una corda. La corda era quindi arrotolata ed era pronta per essere venduta.

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Il Fabbro

Un tempo, quando l’attività prevalente era l’agricoltura, ma non si usavano ancora mezzi meccanici per i lavori rurali, fra gli attrezzi più utilizzati vi erano la falce per mietere il grano, la falce fienaia per tagliare i vari tipi di foraggio, la zappa, per ripulire il campo dall’erbacce, i vomeri e le lame triangolari applicate agli aratri, che erano trainati da mucche o buoi e che servivano a rimuovere la

terra.

Di conseguenza, uno dei mestieri più comuni del passato era quello del fabbro, particolarmente diffuso anche qui a Saltara, dove l’agricoltura era uno dei settori principali dell’economia almeno per

tutta la prima metà del Novecento.Il fabbro, il più delle volte, doveva modellare tutti gli attrezzi sopra citati: accendeva la forgia che alimentava con carbone e quando questo diventava incandescente, vi appoggiava sopra l’attrezzo.Una volta arroventato modellava gli strumenti sull’incudine, con il martello.Il fabbro era anche in grado di proteggere gli zoccoli dei buoi costruendo ferri a forma di mezzaluna.Un altro compito del fabbro era l’affilamento di lame, forbici, coltelli; per questo accendeva la mola,

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ossia una pietra, vi faceva scendere un po’ d’acqua per ammorbidire le lame e poi precedeva nel suo lavoro di affilatura.

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Il CalderaioFin dai tempi antichi il calderaio era un lavoro piuttosto diffuso nella nostra zona.A Calcinelli era presente una bottega appartenente alla famiglia Carletti.Gli attrezzi occorrenti per praticare questo mestiere erano, oltre alla forgia, martelli in legno o metallo e forme in rame.

Le fasi per la lavorazione di un caldaio erano le seguenti:il caldaio veniva scaldato, quindi lo si immergeva nell’acqua e lo si lavorava con un martello a legno.Per renderlo più resistente si faceva scorrere, ai lati e sul fondo, una borchia in metallo e la si batteva con un martello sempre in legno.Successivamente veniva lucidato: lo si bagnava con acido e successivamente lo si asciugava con della segatura.

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I caldai, un tempo, venivano realizzati in serie per risparmiare tempo. Una volta pronti erano portati alle fiere. L’utilizzo era vario: scaldare acqua per cuocere pasta e verdure, per farci la polenta nei mesi invernali o anche, quando era di grosse dimensioni, scaldare l’acqua per l’uccisione del maiale.

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Il Gioco del braccialeIl gioco del bracciale ha appassionato i saltaresi fin dagli anni trenta del Novecento; il gioco si disputava fra due squadre che si lanciavano reciprocamente la palla che doveva essere colpita con questo particolare strumento in legno chiamato appunto bracciale. Il bracciale era costituito da un unico pezzo di legno a forma cilindrica, ricoperto da punte sempre di legno dette bigoli o becchi . La palla era formata da due parti: una esterna, la corazza, formata da otto spicchi di pelle di vacca cuciti insieme, ed una interna, che non era altro che una camera d’aria.Saltara aveva la sua squadra, la quale si confrontava con quelle di paesi vicini, ma anche con quelle di paesi più lontani come Faenza (Romagna). Quando si giocava “in casa” le partite si disputavano in uno spazio vicino alle mura chiamato “sferisterio”.Ogni squadra era formata da quattro giocatori:il battitore, la spalla, il terzino e il mandarino.Il battitore partiva dal trampolino (un piccolo piano inclinato) con lo scopo di agevolare la rincorsa, mentre il mandarino, che gli stava più avanti, gli alzava la palla in modo che potesse colpirla al volo.Aveva così inizio la partita.I giocatori indossavano, di solito, pantaloncini bianchi alla zuava ed una camicia anch’essa bianca; in vita portavano una fascia colorata e ai piedi calze bianche e scarpe da tennis.Dall’alto delle mura che delimitavano un lato del campo di gioco, i saltaresi seguivano i vari momenti della partita.

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Fasi di lavorazione del bracciale:

il legno viene suddiviso in tante parti all’ altezza del bracciale, poi, con un compasso, si traccia una circonferenza, quindi si passa a tagliare con l’accetta la parte esterna alla circonferenza tracciata e, infine, il legno viene levigato.

Poi, con uno scarpellino o martello, l’artigiano ricava la parte interna del bracciale.Successivamente si prende uno scalpello che viene utilizzato per tracciare tante righe equidistanti, sopra le quali vengono effettuati tanti fori con una macchina bucatrice.Per costruire le punte del bracciale si prende un’asta di legno e con una macchina si modella in modo che poi, tagliandola, si ottengono tante punte acuminate che hanno una parte appuntita, ma anche una parte sottostante che va ad inserirsi nei fori fatti in precedenza.Infine, con la fase d’incastro il bracciale si va a ricoprire di bigoli o becchi.Il bracciale, nella parte superiore, aveva un bullone di ottone che serviva ad evitare che il bracciale di legno, quando strisciava sulla parete, si rovinasse.Dopo aver finito la fase di lavorazione l’artigiano rifinisce con lo scalpello il bracciale per abbellirlo.

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Il Gioco del tamburelloUn gioco molto praticato a Saltara fin dalla metà del secolo scorso era quello del tamburello.

Il gioco si disputava fra due squadre, ogni squadra era formata da cinque giocatori: due, i più alti, costituivano la spalla, uno, il più preparato, occupava la posizione centrale, e altri due, davanti, in prossimità della linea di divisione del campo, fungevano da terzini. I due campi da gioco erano delimitati da linee bianche e al centro non erano suddivisi da una rete. I campi da gioco erano delle seguenti dimensioni: 70 X 40 cm per i ragazzi, 80 X 40 cm per gli adulti. La palla veniva lanciata da uno dei due giocatori, che costituivano la spalla, con un tamburello di forma ovale chiamato ”tamburella” e così aveva inizio la partita.

I primi tamburelli avevano il bordo in legno e il fondo in pelle, quindi erano più delicati di quelli attuali.

Vinceva la partita la squadra che raggiungeva per prima i 15 set, ma a volte, se le due squadre erano forti, la partita si protraeva anche per qualche ora e nel corso della partita era partita era possibile fare dei cambi.Le squadre di Saltara hanno sfidato inizialmente le squadre dei Comuni vicini come Mombaroccio, riportando anche diversi successi, poi hanno affrontato anche squadre di centri più lontani come Treia, Ancona.

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Alcuni approfondimenti

Di seguito abbiamo inserito alcune schede di approfondimento che rimandano al testo principale dove sono state evidenziate in giallo delle parole chiave e le schede seguono l’ordine di comparsa delle parole stesse. Chi avrà ancora la pazienza e la curiosità di procedere nella lettura potrà conoscere tante notizie in più.

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A caccia di draghi…

Come hai appena letto attorno a Saltara esiste un’antica leggenda che racconta di un drago terribile che minacciava la città e i suoi abitanti. Le leggende sui draghi sono sempre molto affascinanti, ora più che mai, basti pensare ai numerosi libri per ragazzi, film d’animazioni e fumetti che continuano ad uscire nelle sale e a venir pubblicati ogni giorno.Di certo per Saltara questa antica leggenda continuò a rimanere negli animi, tanto che il drago compare anche nello stemma della città.Ti proponiamo un piccolo gioco per allenare la tua memoria visiva: dopo aver fatto un giro per Saltara e aver visitato i monumenti che ti proponiamo nella guida, prova a ricordare dove hai visto i draghi che ti proponiamo nelle foto di seguito.Se non li hai riconosciuti tutti, niente paura, gira pagina e leggi le didascalie.

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Didascalie

1 - torre della casa di giustizia (1444);

2 – Chiesa di San Piero in Celestino (1601), altare;

3 – fontana Via Mazzini(1868)

4 - portale municipio (1500/1600);

5 – cantoria Chiesa della Villa(1786);

6 – stemma portale municipio;

7 – stemma comunale;

8 – porta sul retro della chiesa di S.Piero Celestino (1602);

9 - gruppo draghi del giardino pensile.

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Borghi e CastelliNelle zone limitrofe a Saltara esistono numerosi borghi e castelli ancora ben conservati; tra questi abbiamo scelto quelli che, secondo noi, sono forse i più interessanti da un punto di vista architettonico

MONDAVIOIl comune di Mondavio sorge su di un colle, a circa 20 km dal mare adriatico, da cui si può benissimo vedere il monte Catria ed il Nerone. Il paese si trova tra due fiumi marchigiani, a sinistra il Metauro e a destra il Cesano, al centro delle rispettive vallate. La rocca di Mondavio, risalente probabilmente agli anni compresi tra il 1482 e il 1492, fu commissionata da Giovanni della Rovere, insieme ad altre rocche del ducato, all'architetto Francesco di Giorgio Martini. Non avendo mai subito attacchi è ancora in ottimo stato. Il mastio ad otto facce domina la maestosa fortezza e si collega ad un camminamento, protetto da un torrioncino, che porta ad una massiccia torre semi-circolare, unita con un ponte al rivellino d'ingresso.Le forme sinuose dell'intero complesso fortificato, dalle alte muraglie che svettano al di sopra di un largo fossato, si sarebbero ulteriormente accresciute se fosse stato edificato un'ulteriore

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torrione rotondeggiante, previsto sul versante occidentale e non realizzato.Gli ambienti interni corrispondono in gran parte alle strutture originarie. Nel mastio, gli spazi residenziali si trovavano al livello superiore dell'edificio, con gli alloggi del castellano e l'accesso alle bocche da fuoco. Attualmente questi ambienti sono destinati a spazi espositivi e museali, tra cui una pregevole collezione di armature e strumenti di uso militare.

SAN LEOSan Leo conserva uno dei castelli più belli e interessanti tra quelli ancora conservati; il Forte, così viene chiamato, è considerato una delle opere militari più imponenti d’Italia, sia per la sua vastità, sia per la sua posizione davvero unica, sulla cima di una rupe. La storia particolarmente antica e

travagliata di San Leo fa pensare che in questo stesso punto sia esistita un’opera militare già dai tempi più remoti. Va ricordato che San Leo è stata anche capitale del Regno Italico di Berengario II, il quale, dopo essere stato sconfitto a Pavia, nel 961 d.C., da Ottone I di Sassonia, si rifugiò proprio a San Leo, dove resse l'assedio per due anni prima di cedere all' avversario. Per tutto il Medioevo San Leo continuò ad essere una roccaforte

molto ambita, ma il merito dell’ampliamento del castello, nonché di tutte le strutture ancora visibili, deve attribuirsi all’architetto

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Francesco di Giorgio Martini che, chiamato da Federico Montefeltro, duca di Urbino, cinse la rocca di enormi mura e di quattro torrioni, di cui oggi ne restano soltanto due.

A San Leo è inoltre ancora conservata una delle più antichi Pievi d’Italia, un vero gioiello architettonico risalente al secolo IX, con una tipica struttura preromanica, probabilmente sorta sul luogo dove San leone costruì un primo sacello dedicato alla Madonna.

SASSOCORVAROLe origini del borgo di Sassocorvaro non si conoscono precisamente. Le prime fonti scritte in cui viene citato il Castello di Monte Rotondo, sito in prossimità dell'attuale luogo ove sorge il paese, risalgono al 1061 e attestano la presenza di una fortezza con annessa una cappella dedicata a San Giovanni Battista.

Il suo centro continuò poi a svilupparsi nei secoli successivi, fino al 1200, epoca in cui il piccolo borgo di Castrum Saxi Corbari era retto da una famiglia locale fedele ai ghibellini.

Anche l'origine del suo nome non è chiara e vi sono tuttora diverse ipotesi: secondo alcuni studiosi potrebbe derivare da "Sasso nido dei corvi", animali che tuttora si annidano sulla collina, secondo altri da "Corbarius", cavaliere

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templare presunto fondatore del borgo, oppure dal termine latino "Corbis" che significa "Cesta", e ricorca la forma particolare della sommità del colle.

La Rocca, opera dell’architetto senese Francesco di Giorgio Martini, costituisce il primo esempio di fortificazione studiato per opporsi agli attacchi con la terribile arma che si stava affermando sempre più, la bombarda. La grandiosità della struttura e la possanza delle mura sono bilanciate dall’eleganza delle superfici curve che conferiscono alla rocca una forma del tutto innovativa e particolare, unica nel suo genere. All’interno s’impone il cortile d’onore, su cui si affacciano le sale, una loggia e la rampa di scale elicoidale che conduce al piano superiore dove attualmente ha sede il Museo Civico.

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Francesco di Giorgio Martini(Siena, 1439 – 1501)

Nella prima fase della sua produzione artistica, intorno al 1460, Francesco di Giorgio Martini si esercita soprattutto come pittore, fin quando, a partire dal novembre 1477 viene chiamato a vivere ad Urbino presso la corte di Federico da Montefeltro, di cui diviene fedele consigliere e dove viene impegnato soprattutto come architetto civile e militare, nella costruzione dei palazzi ducali residenze del Duca sia ad Urbino che a Gubbio e nella realizzazione di numerose fortificazioni nei castelli del Ducato di Urbino. Durante il periodo urbinate la sua fama crebbe molto e divenne così, nella sua poliedricità, una delle figure più importanti dell'arte ingegneristica ed architettonica rinascimentale.

Nel 1488, a causa delle cariche politiche e diplomatiche affidategli dalla Repubblica senese, torna nella sua città natale dove, nel 1499, viene nominato capomastro dell'Opera del Duomo di Siena.

Nel 1490 incontra a Milano Leonardo da Vinci in occasione di una sua consulenza architettonica per l'erezione del tiburio del Duomo di Milano, commissionata da Ludovico Sforza. Nel maggio 1491 è impegnato anche nel Napoletano e per il duca di Calabria ad ispezionare le fortezze locali. Nel 1500 torna nuovamente nelle Marche per un sopralluogo alla cupola della Basilica di Loreto che presentava problemi di staticità.

Francesco si cimentò quindi in diversi ambiti artistici: pittura, architettura militare, architettura religiosa e civile, scultura e ingegneria.

Tra le opere di architettura militare ricordiamo la rocca di Mondavio, di San Leo, di Sassocorvaro, di Mondolfo, di Pergola.

Tra i palazzi da lui progettati vanno menzionati il Palazzo Ducale di Ubino, di Gubbio, di Urbania e il Palazzo della Signoria di Jesi.

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Progettò anche diverse Chiese tra cui la Chiesa San Bernardino degli Zoccolanti a Urbino.

Dipinse anche alcuni quadri, ora dispersi.

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Le ConfraterniteLe Confraternite sono associazioni pubbliche di fedeli finalizzate all'incremento del culto, ad opere di carità, di penitenza e di catechesi. Si diffusero nel Medioevo allo scopo di preparare l’esistenza ultraterrena, anche se poi vennero coinvolte sempre più in attività di carattere sociale e in risposta ai bisogni delle famiglie più povere. Fin dall’inizio i primi Confratelli e Consorelle si vestivano con rozze tuniche di lino o di juta, che erano le stoffe più comuni e povere dell'epoca; poi, quando definirono sempre più la propria funzione pubblica, scelsero un preciso abito confraternale che divenne uno dei principali simboli identificativi. Cominciò presto l’usanza da parte delle famiglie più benestanti di lasciare a queste associazioni cospicue eredità con l’obbligo di far celebrare delle messe di suffragio. Grazie a tali beneficenze le confraternite riuscirono a mantenere e a volte anche a costruire chiese, a sostenere famiglie povere nell’espletamento di alcuni sacramenti e in generale a fare opere di carità. Queste associazioni locali di laici cattolici erano riconosciute dai Vescovi, ma fondate e gestite in modo autonomo dai loro membri. A Saltara, già fin dal ‘500, come risulta da alcuni documenti, esistevano tre Confraternite: ognuna di esse aveva una “divisa”, denominata Cappa, ed una sede in una chiesa o in una cappella di una chiesa.

Stendardo della confraternita del Gonfalone

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Le prime tre Confraternite furono quelle:

del SS. CROCIFISSO con tunica bianca e manto rosso e con sede, dal 1649, nella chiesa del Gonfalone.

del ROSARIO con tunica bianca e manto giallo. La sua sede iniziale era nella chiesa di S. Pier Celestino, poi, dal 1792 nella chiesa della Madonna della Villa. Si riuniva ogni mese per la recita del Santo Rosario

del SACRAMENTO con tunica bianca e manto azzurro ebbe sede nella chiesa della Madonna della Fonte o del Sacramento. Aveva come simbolo l’Ostensorio e si riuniva in occasioni di processioni e nella terza domenica di ogni mese.

Più tardi presero vita altre Confraternite: nel ‘600 la CONFRATERNITA DEL SUFFRAGIO con tunica bianca e manto nero e con sede nella chiesa di S. Pier Celestino;

nel 1586 la CONFRATERNITA DEI CORDIGERI, compagnia voluta d Sisto V, che aveva come simbolo penitenziale il cordone Francescano;

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infine il 16 maggio 1846 prese vita la CONFRATERNITA DELL’ADDOLORATA o “Dei Dolori”, con tunica nera e manto rosa e con sede nella chiesa di S. Pier Celestino: era l’unica Confraternita formata da sole donne ed era presente nelle processioni e in occasione della morte di qualcuno.

Stendardo della Confraternita dell’Addolorata

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Celestino VCelestino V viene ricordato come il Papa del gran rifiuto: nato a Isernia il 1215 ca., morto nel castello di Fumone nel 1296, divenne Papa nel 1294, ma abdicò dopo soli cinque mesi di pontificato.Al secolo Pietro Angelieri o del Morrone (dal nome del monte presso Sulmona, dove fu a lungo eremita), divenne monaco Benedettino all’età di 17 anni.Preferendo la vita solitaria, si ritirò sulle montagne abruzzesi, dove attirò numerosi fedeli che formarono il primo nucleo del suo ordine eremitico. Fondò verso il 1264 una congregazione di eremiti chiamati in seguito “Celestini”, un ramo dei Benedettini.Fu eletto a Pontefice il 5 Luglio 1294, assunse il nome di Celestino V e fu consacrato Papa il 29 agosto 1294 a l’Aquila.Tale nomina derivò essenzialmente dalla sua fama di santità, non meno che dall’influenza di Carlo d’Angiò.Infatti Celestino nominò subito alcuni napoletani alti uffici della curia, creò dodici nuovi cardinali di cui sette francesi e ai primi di novembre si lasciò condurre a Napoli dove pose la sua residenza a Castelnuovo.Al principio dell’Avvento volle chiudersi in una cella e lasciare il governo della Chiesa a Cardinali di sua fiducia.Ma la situazione era insostenibile. Le mire politiche di Carlo d’Angiò, favorite dal Cardinale Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII, dominavano la Curia e Celestino.Dopo una esperienza di 5 mesi, il 13 dicembre, lesse in Concistoro la sua rinuncia solenne al Papato.Il Caetani, forse non estraneo alle decisioni di Celestino V, ebbe partita vinta e dopo l’abdicazione di Celestino, fu eletto Papa il 23 dicembre 1294 col nome di Bonifacio VIII.Dante Alighieri, nemico di Bonifacio VIII, colloca Celestino V nell’Inferno nel girone degli “Ignavi” come colui “che fece per viltade il gran rifiuto”.Intanto Pietro, al quale era stato negato l’autorizzazione di ritornare al suo eremo ed era costantemente controllato, fuggì segretamente; lo inseguirono l’Abate di Montecassino ed il Camerlengo di Bonifacio VIII, che lo raggiunsero a Vieste, sul

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Gargano e lo riportarono ad Anagni nella residenza di Bonifacio VIII. Qui lo rinchiusero con qualche discepolo nel castello di Montefumone presso Alatri. Pietro morì il 19 maggio 1296 a 87 anni. Clemente V lo canonizzò il 5 maggio 1313.I Celestini furono una congregazione di eremiti seguaci della regola benedettina più rigida, fondata nel 1264 sotto Urbano IV da Pietro Angelieri o da Morrone.Scopo dei Celestini era quello di restaurare l’ideale del monachesimo cristiano delle origini.Essi si propagarono largamente in Italia ed in Francia dove ebbero monasteri assai ragguardevoli, come quelli dello Spirito Santo al Monte Maiella (che fu culla dell’ordine), di S. Eusebio in Roma, di San Michele in Napoli, dell’Annunziata a Parigi.I Celestini ebbero le loro regole ben precise, scritte dallo stesso fondatore e poi confermate da Bonifacio VIII, Clemente V ed altri.Indossavano una tunica bianca con scapolare e cappuccio nero.Erano obbligati a povertà strettissima e alla più rigida astinenza. Furono aboliti prima in Francia, durante la rivoluzione del 1789, da Papa Pio VI, poi in Italia, sotto Napoleone, fra il 1807 e il 1810.

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Federico Barocci e la sua scuola(Urbino 1535 - 1612)

Si tratta del più importante pittore marchigiano alla fine del Rinascimento, caratterizzato, fin dalle prime opere, da una inconfondibile cifra stilistica, che influenzerà tutta la pittura italiana dell’epoca. Dopo un breve soggiorno a Roma, ospite del cardinale Giulio Feltrio Della Rovere, fratello del Duca di Urbino Guidobaldo II, Barocci tornò a Urbino, con la scusa di un presunto avvelenamento che nascondeva, in realtà, problemi di natura psicologica e da questo momento non si allontanò più dalla sua città natale. I dipinti di Barocci sono caratterizzati da una complessa costruzione dell’impaginazione spaziale delle figure che compongono l’immagine, le quali figure vengono però rese con una profonda umanità; tutti i temi trattati, anche quelli di carattere religioso, sono inseriti in un’atmosfera di domestica intimità. Un’altra caratteristica del pittore è la predilezione per colori accesi e cangianti. Fra le opere del pittore ricordiamo l’Ultima Cena (1599) per il Duomo di Urbino, perché una replica della tela si trova proprio qui a Saltara, nella chiesa di San Pier Celestino e l’Annunciazione che realizzò per la Cappella dei Duchi nella Basilica di Loreto. L’Ultima Cena viene affrontata dal pittore come una grande e complessa scena teatrale, con tanto di scenografia sullo sfondo, sulla quale ogni personaggio compie un suo specifico movimento; ogni dettaglio è studiato in maniera minuziosa e anche i colori vivaci e cangianti ricordano quelli di una rappresentazione teatrale. Per quanto riguarda invece

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l’Annunciazione, si tratta forse del dipinto più celebre di Barocci, di sicuro il più replicato (quasi tutti i paesi, anche i più piccoli e sperduti, delle Marche ne conservano una copia); si noti, sullo sfondo, la presenza del Palazzo Ducale di Urbino con i due famosi

torricini. L’opera ebbe una vicenda travagliata: fu prelevata dalle truppe di Napoleone nelle spoliazioni del 1797; poi, nel 1815 il papa, usando come intermediario Antonio Canova riuscì a farsi restituire molte opere derubate e, tra queste, anche il dipinto in esame, che, però, una volta raggiunta Roma, non venne più restituito e oggi si trova alla Pinacoteca Vaticana. A Urbino, Barocci aprì una fiorente bottega di pittura

che venne frequentata da molti pittori dell’epoca, dando vita ad una vera e propria scuola. Gli allievi studiando le opere del maestro, copiandole e riproducendole, anche con disegni e incisioni, contribuirono a diffondere lo stile di Barocci sia nel territorio marchigiano, che in quello italiano. Paradossalmente, pur non lasciando mai Urbino, Barocci fu uno dei pittori più copiati dell’epoca. Fra gli allievi di Barocci ricordiamo Antonio Visacci detto Cimatori, Andrea Urbani, Ventura Mazza, Alessandro Vitali, per citarne solo alcuni. Tutte le chiese del territorio conservano ancora opere che vengono riferite appunto a Scuola Baroccesca e spesso, in mancanza di documenti, risulta molto difficile distinguere la mano specifica di un allievo.

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San Sebastiano

Sebastiano nacque a Narbonne in Francia meridionale nel 256 circa e morì a Roma il 20 gennaio del 288.

Sebastiano, cresciuto e vissuto a Milano, fu subito indirizzato alla fede cristiana, ma quando si trasferì a Roma, nel 270, dove intraprese la carriera militare, intorno al 283, dovette nascondere la sua fede cristiana agli imperatori Massimiano e Diocleziano, che lo stimavano per la sua lealtà e intelligenza, tanto da promuoverlo persino a tribuno della prima coorte della guardia imperiale a Roma. Grazie alla sua funzione, poteva aiutare con discrezione i cristiani incarcerati, curare la sepoltura dei martiri e riuscire a convertire militari e nobili della corte, dove era stato introdotto da Castulo (anche lui probabilmente cristiano), domestico della famiglia imperiale, che poi morì martire. Sebastiano riuscì a far convertire molti personaggi di un certo rango, come prefetti e nobili. Quando fu scoperto che molti cristiani si nascondevano tra il personale del palazzo, tra cui anche Sebastiano, egli fu condannato ad essere trafitto dalle frecce: venne legato ad un palo in una zona del colle Palatino chiamato ‘campus’ e venne colpito seminudo da tante frecce; i soldati, credendolo ormai morto, lasciarono il suo corpo in pasto agli animali selvatici. Ma la nobile Irene, vedova di Castulo, andò a recuperarne il corpo per dargli degna sepoltura, secondo l’antica usanza dei cristiani, i quali sfidavano il pericolo pur di rispettare le proprie tradizioni. Irene si accorse che Sebastiano era ancora vivo, si occupò di lui e lo accudì fino a quando riuscì a guarire (proprio questo è l’episodio dipinto nella tela conservata nella chiesa di S. Pier Celestino di Saltara). Nonostante il consiglio degli amici di fuggire da Roma, egli, che cercava il martirio, decise di proclamare la sua fede davanti a Diocleziano e Massimiano. Diocleziano ei suoi prefetti ancora molto scossi dalla ricomparsa del martire, ascoltarono i suoi rimproveri sulla persecuzione dei cristiani e, infine, decisero di flagellarlo a

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morte; l’esecuzione avvenne nel 304 ca., il corpo fu gettato nella Cloaca Massima (il più grande condotto fognario del tempo), affinché i cristiani non potessero recuperarlo. L’abbandono dei corpi dei martiri senza sepoltura, era inteso dai pagani come un castigo supremo, credendo così di poter trionfare su Dio e privare loro della possibilità di una resurrezione. La tradizione dice che il martire apparve in sogno alla matrona Lucina, indicandole il luogo dov’era approdato il cadavere e ordinandole di seppellirlo nel cimitero “ad Catacumbas” della Via Appia, oggi chiamate appunto di San Sebastiano.La figura del martire diventò talmente popolare tra i pellegrini, che nel 680 gli si attribuì la fine di una grave pestilenza a Roma. Il santo venerato il 20 gennaio, è considerato il terzo patrono di Roma, dopo i due apostoli Pietro e Paolo. Le sue reliquie, sistemate in una cripta sotto la basilica, furono divise durante il pontificato di papa Eugenio II il quale ne mandò una parte alla chiesa di S. Medardo di Soissons (Francia settentrionale); Dopo parecchi spostamenti da una chiesa all’altra, le reliquie del santo vengono tuttora venerate e si trovano nella Basilica dei Santi Quattro Coronati. San Sebastiano è considerato patrono degli arcieri e archibugieri, dei tappezzieri, dei fabbricanti di aghi e degli omosessuali, che lo hanno scelto, di recente, per l’aspetto femminile ed elegante con il quale è stato rappresentato nella storia dell’arte.. Nell’arte antica S. Sebastiano fu raffigurato come anziano, uomo maturo con barba e senza barba, vestito da soldato romano o con lunghe vesti. Dal Rinascimento in poi diventò nell’arte l’equivalente degli dei ed eroi greci celebrati per la loro bellezza come Adone o Apollo, pittori e scultori cominciarono quindi a raffigurarlo come un bellissimo giovane nudo, legato ad un albero o colonna e trafitto dalle frecce.E’ stato sempre invocato nelle epidemie, specie di peste, così diffusa in Europa nei secoli addietro. Può essere riconosciuto grazie agli attributi iconografici quali le frecce e la Palma del Martirio.

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Di seguito abbiamo inserito alcune interpretazioni del Santo di importanti artisti; quella più facilmente raggiungibile è costituita dal bellissimo dipinto di Federico Barocci, conservato presso il Duomo di Urbino.

Marco PalmezzanoSan Sebastiano

Budapest

Federico BarocciMartirio di san SebastianoUrbino, Duomo

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Jusepe De Ribera

S. Sebastiano,Dresda

Antonello da MessinaSan SebastianoNapoli

Paolo VeroneseMartirio di S.

Sebastiano (particolare)

Venezia

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Giovanni Francesco Guerrieri(Fossombrone, 1589 – Pesaro, 1657)

Figlio di un notaio, di famiglia nobile, già all’età di diciassette anni, il Guerrieri si era dedicato alla pittura, cominciando a copiare le opere di Federico Barocci; il suo vero apprendistato si svolse però a Roma, dove si recò nel 1606 e dove rimase per circa dodici anni (le notizie sulla biografia del pittore sono state tramandate dal canonico Vernerecci in Di tre artisti fossombronesi: G.F. Guerrieri, Camilla Guerrieri e Giuseppe Diamantini, Fossombrone 1892).A Roma Guerrieri fu profondamente colpito dall’arte di Caravaggio, che studiò con attenzione e su cui si esercitò, come dimostra la copia che eseguì della Deposizione di Cristo, opera realizzata per la città marchigiana di Sassoferrato, ora conservata presso la chiesa di S. Marco a Milano. Il pittore cercò comunque,dopo queste prime esercitazioni, di interpretare l’opera del maestro con uno stile personale e ne offre un esempio notevole nel dipinto con La Maddalena penitente, ora conservata presso la Fondazione della Cassa di Risparmio di Fano. Si tratta della prima opera firmata e datata del pittore, che, a soli 22 anni, nel 1611, decide di inviare a Fossombrone un dipinto, forse a dimostrare i suoi progressi nell’arte, una sorta di saggio della propria acquisita abilità da mostrare ai suoi concittadini. Il dipinto è stato per molto tempo in una collezione privata di Fossombrone, passato poi nel mercato

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antiquario, fu acquistato dalla Fondazione nel 1993. Si tratta di un’opera notevole, sia nella minuziosa cura dei dettagli, sia, soprattutto, nell’uso già sapiente della luce e del chiaroscuro, di evidente ispirazione caravaggesca, che nel passaggio dalle ombre dello sfondo alla diafana carnagione della santa crea un effetto altamente suggestivo.Il pittore continuò per tutto il soggiorno romano ad inviare opere in territorio marchigiano, finchè poi, nel 1619, lasciò la capitale e tornò definitivamente a Fossombrone, dove eseguì importanti opere per la Chiesa di San Filippo. Da non dimenticare, infine, i dipinti che realizzò per la chiesa di San Pietro in Valle di Fano, ora presso la Pinacoteca Civica della stessa città.

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Giovanni Antonio Bellinzoni(Pesaro, 1417 ca – Pesaro, 1477 ca)

Giovanni Antonio Bellinzoni nacque a Pesaro intorno al 1417 da Giliolo di Giovanni Bellinzoni, pittore di origine parmense giunto a Pesaro verso il 1410. Gli inizi artistici di Giovanni Antonio vanno collocati in relazione alla cosiddetta “scuola della costa”, una scuola pittorica che, come dice la parola stessa, operava lungo tutta la costa marchigiana con tratti e caratteristiche comuni. Le prime testimonianze che riguardano il pittore lo ricordano a Fano, nel 1437, accanto al padre, pittore al servizio di Malatesta Novello, e ad Ancona, nel 1441, per eseguire degli affreschi, tutti ormai perdutiLe opere più antiche rimaste di Giovanni Antonio, oltre alle Storie di San Biagio (Roma, Museo di Palazzo Venezia e collezione privata), sono proprio gli affreschi in San Francesco di Rovereto a Saltara, eseguiti con tutta probabilità non lontano dal 1432, anno di morte del beato Galeotto Roberto Malatesta, che vi è rappresentato. Le figure hanno una espressività che li accomuna per alcuni aspetti ad Antonio Alberti e denotano una decisa adesione alla pittura dei più famosi Pietro di Domenico da Montepulciano e di Giacomo di Nicola da Recanati, ai quali il nostro non ha nulla da invidiare, ma anzi rivela una maestria nell’uso dei colori e nella precisione dei tratti decisamente notevoli, come segnalò Federico Zeri quando, per primo, scoprì il valore del pittore.

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Madonna in trono con BambinoAffresco staccato; cm 162,5x144,3Fano, Pinacoteca Civica

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Un pittore molto vicino ad Antonio, forse lui stesso, come sostengono alcuni studiosi, eseguì un’altra serie di affreschi sempre a Saltara, nella chiesa di San Pier Celestino, di cui due interessanti frammenti sono conservati presso la Pinacoteca Civica di Fano. I frammenti raffigurano Una Madonna in trono con il Bambino e una

Santa Barbara e mostrano alcune caratteristiche stilistiche che possono essere ricondotte alla prima produzione di Giovanni Antonio in collaborazione con il padre Giliolo Bellinzoni.

In particolare si notino i tratti del volto, la forma degli occhi dallo sguardo obliquo e le tipiche lumeggiature che risultano quasi una firma del pittore. Vanno inoltre osservati i motivi decorativi a nastri e racemi che incorniciano le figure e che risultano molto simili a quelli che ornano gli affreschi di San Francesco.Il pittore è autore, inoltre, della cosiddetta Madonna dell’Argilla conservata nella chiesa di Santa Maria dell’Arzilla a Pesaro; sotto il dipinto si legge: “Anno Domini 1462 die VIII Decembris hanc picturam Mariae Misericordiae fecit fieri Comunitas Candelariae”. In fondo al quadro si vede il nome del pittore: “Johannes Antonius Pisaurensis Pinxit. Ave Maria”.La pittura risulta di buona fattura.Altre opere riferibili all’artista si trovano nella controfacciata e nella parete sinistra della chiesa di San Esuperanzio a Cingoli, dove gli angeli della Madonna di Loreto trovano un'eco e una somiglianza con quelli delle opere di Saltara.Le fisionomie che distinguono queste opere, l'espressività un po' arcigna, gli occhi grandi e dilatati ricordano ancora le più antiche opere di Jacobello del Fiore e di Nicolò di Pietro; quest’ultimo, in particolare, aveva lasciato, a Pesaro, un polittico di destinazione

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Santa BarbaraAffresco staccato; cm 162x123,5Fano, Pinacoteca Civica

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agostiniana nel corso del secondo decennio del Quattrocento con Storie di San Biagio e di San Paolo (Pesaro, Museo Civico), al quale, di sicuro, Giovanni Antonio si ispirò, come dimostrano le elegantissime figure di Santi, eseguite attorno al 1448, per la città di Pesaro e conservate presso la Pinacoteca della stessa città.Si tratta di opere molto raffinate, dalla stesura pittorica morbida e precisa, segno di caratteristiche espressive che ricorrono in quasi un cinquantennio di attività; un percorso che dovette chiudersi non molto prima del 18 maggio 1478, quando un tale Corradino chiede di riscuotere un suo credito presso gli eredi del pittore, sintomo di quanto recente fosse stata la scomparsa di quest'ultimo.

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S.Terenzio San Nicola, San Silvestro e Sant’ ErmeteTempera su tavola, Tempera su tavola, cm 86 x 71 a cm 174x94 ciascunPesaro, Pinacoteca Civica Pesaro, Pinacoteca Civica

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Sebastiano Ceccarini(Fano, 1703 – 1783)

La produzione pittorica di questo pittore è quasi tutta rivolta verso la città di Fano dalla famosa tela giovanile (1726), con La Madonna e i quattro Santi protettori di Fano (Paterniano, Orso, Fortunato; Eusebio) conservata presso la Pinacoteca Civica della città stessa, fino ai più tardi ritratti di illustri personaggi fanesi. Egli ritrasse in pratica tutti i componenti delle famiglie nobili di Fano (Mariotti, Rinalducci, Gabuccini, Alavolini ecc.) e questa attività gli diede un’ampia fama e gli consentì di mantenere fino alla morte una fiorente bottega.

Ritratto del Marchese Ritratto della ContessaGian Ottavio Gabuccini Maddalena Ferretti GabucciniFano, Pinacoteca Civica Fano, Pinacoteca Civica

Egli fu allievo di Francesco Mancini da Sant’Angelo in Vado e apprese da tale maestro una propensione per una pittura dal gusto classico e intimo al tempo stesso; i temi trattati, da quelli di carattere religioso a quelli profani, come appunto i ritratti, vengono svolti cogliendo l’aspetto più umano del soggetto. A tal proposito abbiamo scelto un bel dipinto raffigurante La Madonna col Bambino e San Rocco in adorazione, conservato presso

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la Pinacoteca Civica di Fano, frutto della collaborazione di maestro e allievo. Vanno riferiti a Mancini la figura di San Rocco, mentre a Ceccarini gli altri elementi; si notino, in particolare, i dettagli del cane e del pezzo di pane appoggiato sul gradino, elementi piuttosto inusuali in un soggetto sacro come questo, un’Adorazione, ma che rendono l’immagine più intima, più quotidiana. Va inoltre ricordato che Ceccarini realizzò anche diversi dipinti con il soggetto della Natura Morta, genere molto di moda all’epoca.Dopo alcuni viaggi giovanili, seguendo il maestro nelle sue commissioni, e un’inevitabile soggiorno di formazione romano, imprescindibile per un giovane pittore dell’epoca, Ceccarini rimase sempre a Fano, dove morì nel 1783.

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