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Corso annuale post lauream di perfezionamento
DIDATTICA DELLA FISICA
LLLaaa FFFiiisssiiicccaaa aaappppppllliiicccaaabbbiiillleee iiinnn cccaaammmpppooo
bbbiiiooommmeeedddiiicccaaallleee
Candidato: Prof. Simone Schiavon
Anno accademico 2014/15
Corso di Perfezionamento annuale 1500 ore Prof. Simone Schiavon
IND
ICE
0
INDICE
PREFAZIO pg. 1
1° CAPITOLO pg. 3
NOZIONI FONDAMENTALI PER LA COMPRENSIONE DEL TESTO
1.1 Cenni di citologia pg. 3
1.2 Cenni di istologia pg. 13
2° CAPITOLO pg. 19
LE LEVE E LE ARTICOLAZIONI
2.1 Componenti anatomico – funzionali dell’articolazione pg. 19
2.2 Storia delle macchine semplici pg. 26
2.3 Applicazione delle conoscenze fisiche in campo biofisico pg. 45
3° CAPITOLO pg. 55
APPARATO MUSCOLARE
3.1 Costituenti anatomici principali del muscolo pg. 55
3.2 Aspetti fisiologici correlati all’attività muscolare pg. 63
3.3 Termini energetici correlati all’attività muscolare pg. 65
3.4 La fisica che regola l’attività muscolare: meccanica muscolare. pg. 72
CONCLUSIONI pg. 75
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA pg. 79
[Digitare il testo] Pagina 0
PREFAZIONE
La moderna conoscenza scientifica del mondo si è costruita nel tempo, attraverso un metodo
di indagine fondato sull’osservazione dei fatti e sulla loro interpretazione, con spiegazioni e
modelli sempre suscettibili di revisione e di riformulazione. L’osservazione dei fatti e lo
spirito di ricerca dovrebbero caratterizzare anche un efficace metodo di sviluppo e
innovazione che porti ad esplorare nuove frontiere e creare legami fra le molteplici
discipline scientifiche, in modo che creino strada
Nuove e anfora inesplorate.
Questa tesi, nella più umile semplicità vuole sottolineare l’importanza di questo florido
legame che ha trovato un nome alla scienza neonata: la biofisica infatti si è occupata del
corpo degli organismi viventi in termini di macchina vicina alla perfezione, ma pur sempre
come macchina. Quindi studiando il sangue e il flusso sanguigno usando tutti i termini della
fisica dei fluidi, la temperatura corporea in termini di reazioni biochimiche e di
termodinamica, le interazioni fra radiazioni ionizzanti o non ionizzanti e le parti del corpo
viste come insieme di atomi e molecole. Tutto ciò è di indiscutibile valore ed interesse, ma
resta ad uno strato superficiale dell’essere umano. La Nuova Fisica, o anche la Fisica del
Corpo Energetico si occupa dell’essere umano nella sua completezza, quindi anche nei
rapporti dell’uomo con l’ambiente esterno, con gli altri organismi viventi, ma anche della
sua parte più profonda dove si ricercano le cause delle malattie: il corpo energetico. Questo
è altresì collegato alla sfera delle emozioni e dei pensieri, dove spesso si trovano le cause
profonde delle malattie. Lo studio delle conoscenze fisiche e meccano – dinamiche alla luce
del funzionamento umano è una nuova chiave conoscitiva che permette di esplorare sotto
una nuova luce le conoscenze fisiologiche e anatomiche che hanno trovato in passato
risposta; non solo per dare fiato a eminenti scienziati che popolano le sale universitarie, ma
nuova conoscenza la servizio del bene e della salute comune che dona nuove
apparecchiature di studio e ricerca in campo medicale e fornisce soluzioni concrete ai limiti
delle patologie che ancora ora attanagliano le coscienze dell’essere umano.
C’è tutto un mondo legato alla fisica, alla medicina e alla biologia che ci può aiutare ad
indagare nel grande mistero dell’uomo con nuovi strumenti intellettuali.
[Digitare il testo] Pagina 1
Lo studio del movimento umano prevede la misura di variabili che descrivono la cinematica
e la dinamica dei segmenti anatomici; ha lo scopo di raccogliere informazioni quantitative
[Digitare il testo] Pagina 0
relative alla meccanica del sistema muscolo-scheletrico durante l’esecuzione dell’atto
motorio. In particolare, è una disciplina che ha l’obiettivo di stimare le seguenti variabili: •
il movimento assoluto del centro di massa dell’intero corpo o di una sua porzione; • il
movimento assoluto di segmenti ossei o segmenti corporei; • il movimento relativo tra ossa
adiacenti (cinematica articolare); • le forze e le coppie scambiate con l’ambiente; • i carichi
risultanti trasmessi attraverso sezioni dei segmenti corporei o portate attraverso le
articolazioni (carichi intersegmentali); • le forze e le coppie trasmesse da strutture interne
(muscoli, tendini, legamenti, ossa); • le variazioni di energia di segmenti corporei; • il lavoro
e la potenza muscolari. Le grandezze fisiche e biofisiche che forniscono queste
informazioni possono essere misurate oppure stimate mediante modelli matematici morfo -
funzionali dei tessuti, degli organi, degli apparati, o dei sistemi coinvolti nell’analisi.
Così facendo, possono essere ottenute descrizioni quantitative delle funzioni a carico
dell’apparato locomotore in condizioni definite “normali”, nonché in alcune delle loro
variazioni (potenziamento o riduzione della funzione). Le variabili cinematiche sono
ottenute tramite i sistemi di analisi del movimento, mentre le variabili dinamiche si
ottengono indirettamente tramite la misura delle forze esterne agenti sul soggetto. Questo è
solo un sintetico esempio delle conoscenze che si creano attraverso sinergie fra studiosi
diversi: non esiste più colui che, competente in un campo, possa lavorare e ricercare da solo,
ma una equipe che con abilità diverse sviluppa scienza a largo spettro, applicabile in più
campi di scienza.
In tutto questo percorso vengono date sintetiche “pillole” conoscitive dei campi scientifici
trattati, poiché la preoccupazione prima dello scrivente non è stata quella di scrivere e
redigere una tesi compilativa, ma creare un percorso disciplinare attingendo da conoscenze
universitarie e rielaborare tutto alla luce dell’oggettiva spinta verso una divulgazione del
sapere chiara, precisa, sintetica (quando e quanto possibile), ma soprattutto atta a realizzare
una sinergia culturale al passo con le questioni che oggi sono campo di incertezza e
discussione aperta.
Le parole che hanno guidato il lavoro sono state di Dante:
“Porta attenzione a quel ch’io ti paleso, che non fa scienza,
sanzo lo non aver ritenuto inteso”
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1° CAPITOLO
NOZIONI FONDAMENTALI PER LA COMPRENSIONE DEL TESTO
1.1. Cenni di citologia
La cellula è il mattone di tutti gli organismi viventi, animali e vegetali. È l’unità strutturale e
funzionale più piccola che ha delle funzioni vitali. Il corpo umano è costituito da migliaia di
miliardi di cellule, il loro numero varia a seconda delle funzioni che devono svolgere ogni
attività umana è il risultato di un’azione coordinata e combinata di tutte le cellule del corpo
che sono diverse e svolgono funzioni diverse. Studieremo la citologia, quindi proprio lo
studio e la funzione delle cellule. Gli strumenti utilizzati per osservare le cellule sono: il
microscopio ottico, più semplice e più usato. Si considera un campione, un vetrino con una
fetta sottile di un tessuto di 4-5 micron. Il vetrino si poggia sul tavolino del microscopio e
viene attraversato da un fascio di luce bianca che incontra delle lenti e ci da un’immagine
ingrandita di quello che stiamo vedendo. Un altro microscopio, più moderno è il
microscopio elettronico a trasmissione nel quale il vetrino o campione viene attraversato da
un fascio di elettroni che incontrano delle lenti magnetiche e non più ottiche. L’immagine è
ancora più ingrandita e si possono osservare anche le strutture interne alla cellula.
L’immagine risultante viene osservata su uno schermo.
Un altro tipo di microscopio elettronico è quello a scansione che permette di osservare la
superficie esterna della cellula tridimensionalmente, e il fascio di elettroni va a colpire la
superficie delle cellule. Le cellule sono l’unità funzionale, strutturale, organizzativa del
corpo umano, costituiscono tutti gli esseri viventi animali o vegetali e qualsiasi cellula può
derivare solo dalla divisione di una cellula precedente. Questi concetti fanno parte della
teoria cellulare. Il principio di complementarietà tra strutture funzionali della cellula ci dice
invece che c’è una stretta relazione tra la struttura della cellula e la funzione che essa
svolgerà. Al loro interno però presentano tutte gli stessi tipi di organuli. L’unica differenza
potrebbe essere che un certo tipo di cellula ha un maggior numero di un tipo di organulo,
piuttosto che di un altro tipo e questo dipende dalla funzione che deve svolgere.
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Nel corpo si distinguono cellule riproduttive, cioè i gameti, e cellule somatiche, cioè tutte le
altre cellule. Osservando la cellula dall’ambiente extracellulare, la prima struttura che
vediamo è la membrana plasmatica (struttura membranosa). Essa si trova intorno alla
cellula, delimita la cellula, le da una forma e sostegno. È costituita da un doppio strato
fosfolipidico. I fosfolipidi sono costituiti da una testa idrofila (si scioglie nell’acqua) e due
code idrofobe. Essi sono disposti in modo tale da avere le teste rivolte verso l’esterno e le
code verso l’interno, formano due strati idrofili all’esterno che racchiudono uno idrofobico
all’interno. Oltre ai fosfolipidi nel doppio strato sono presenti anche le proteine, le quali
possono attraversare interamente la membrana, oppure occuparne solo una parte (fig.1).
Possono essere compatte oppure avere un foro all’interno e poi altre possono avere dei
carboidrati attaccati e cin questo caso la proteina viene chiamata glicoproteina. Se invece i
carboidrati sono attaccati ai lipidi abbiamo i glicolipidi. Un’altra componente importante
della membrana plasmatica è il colesterolo, inserito nello spessore della membrana; la sua
utilità in questo caso è quello di dare fluidità alla membrana perché si tratta di una struttura
fortemente modellabile perché contiene i componenti della cellula in modo molto elastico. Il
modello della membrana plasmatica per questo viene detto “a mosaico fluido”.
Fig 1.
La figura mostra
la disposizione
dei componenti
principali della
membrana
cellulare: in
particolare le
glicoproteine, il
doppio strato
fosfolipidico e le
proteine carrier
responsabili de
trasporto
membranario.
Le proteine di membrana sono molto diverse e hanno diverse funzioni. La membrana
plasmatica favorisce l’isolamento fisico, cioè contiene tutto il contenuto della cellula e lo
isola dall’ambiente esterno, poi regola gli scambi con l’ambiente esterno, sensibilizza delle
proteine che fungono da recettori per l’ambiente esterno, e supporta strutturalmente la
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cellula. Tale membrana è selettivamente permeabile, cioè grazie a dei canali che vanno
dall’esterno all’interno possono passare determinati tipi di sostanze (per es. ioni) ma non
tutte, è la cellula che decide selettivamente quale entrano e quali no. Tutta la cellula è
ripiena di citoplasma che viene suddiviso in citosol (parte fluida) e organuli (parte corpus
colata). Gli organuli possono essere non membranosi e membranosi. Quelli non
membranosi sono il citoscheletro, i ribosomi, i centrioli, le ciglie e i flagelli che
rappresentano le estroflessioni della cellula. Tra quelli membranosi abbiamo il reticolo
endoplasmatico, apparato del Golgi, i mitocondri, il nucleo, i lisosomi e i perossisomi. La
struttura che conferisce robustezza, volume e resistenza alla cellula è il reticolo
endoplasmatico che si trova in stretto contatto con il nucleo, e in alcuni punti entra in
contatto con la membrana nucleare. In particolare è in contatto con il nucleo il reticolo
endoplasmatico rugoso,costituito da cisterne, nel quale si trovano fissi i ribosomi sede della
sintesi proteica e si occupa del loro trasporto nell’apparato del Golgi dove vengono
modificate e preparate per essere espulse dalla cellula. Inoltre vi è il reticolo endoplasmatico
liscio costituito da canali; si occupa della sintesi dei lipidi e dei carboidrati, partecipa alla
formazione dei componenti delle membrane cellulari. L’apparato del Golgi, che come già
espresso è costituito da cisterne appiattite, immagazzinare le proteine e le sostanze prodotte
trasportate dalle vescicole di trasporto, per essere successivamente espulse. Da una parte
presenta delle vescicole di trasporto che contengono le proteine che provengono dal reticolo
endoplasmatico, le elabora e le porta fuori dalla cellula tramite le vescicole di secrezione.
Funzionano con un endocitosi1 in quanto le vescicole di secrezione che contengono le
proteine si avvicinano alla membrana plasmatica, si fondono, la vescicola successivamente
si apre e porta fuori le proteine, elaborate dall’apparato del Golgi.
La rete di tubuli e microtubuli più o meno spessi formata da proteine costituiscono nel loro
insieme il citoscheletro, nel quale possiamo distinguere microfilamenti, filamenti intermedi
1 Endocitosi il materiale viene introdotto nella cellula; esistono diversi tipi di endocitosi:
Fagocitosi.
Pinocitosi.
Endocitosi mediata da recettori.
Attraverso l’esocitosi invece, le cellule espellono prodotti di scarto o particolari prodotti di secrezione mediante la
fusione di vescicole con la membrana plasmatica. L’esocitosi determina l’incorporazione della membrana della
vescicola secretoria nella membrana plasmatica. Questo costituisce un meccanismo primario di accrescimento della
membrana plasmatica.
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un po’ più spessi, e tubuli. Vanno a costituire una vera e propria impalcatura. Servono infatti
a dare un sostegno a tutto il citoplasma e creano anche un’ impalcatura per i diversi organuli
che non sono completamente fluttuanti, ma sono mantenuti nella loro posizione dal
citoscheletro. Inoltre ancorano la membrana cellulare al citoplasma. Sono presenti anche dei
filamenti spessi che si ritrovano nelle cellule muscolari, i microfilamenti di actina e miosina
che hanno uno spessore intermedio necessario per la contrazione muscolare.
Altri corpuscoli cellulari immersi nella matrice citosol sono i:
Lisosomi e i perossisomi. I primi, sono diversi in ogni cellula e contengono degli enzimi
digestivi, che servono per distruggere delle sostanze che entrano nella cellula e che devono
essere distrutte
(per es. i batteri), vengono fagocitate nei lisosomi, i quali liberano degli enzimi che gli
distruggono. È molto importante che la membrana di questa vescicola sia integra perché se
malauguratamente uno di questi enzimi dovesse uscire si digerirebbe l’intera cellula. Per
questo i lisosomi prendono il nome di sistema digestivo della cellula. Sono molto presenti
nei globuli bianchi per la distruzione di agenti patogeni o batteri. I perossisomi invece, sono
molto più piccoli dei lisosomi e contengono anch’essi degli enzimi e in particolare
contengono la per ossidasi e la catalasi che sono due enzimi coinvolti nella distruzione di
sostanze tossiche e producono inoltre perossido d’idrogeno che nella cellula viene
trasformato nuovamente in acqua. Li troviamo soprattutto nel fegato e nel rene, organi
deputati alla disintossicazione dell’organismo e quindi alla distruzione delle sostanze
tossiche. Meritano un approfondimento i mitocondri, corpuscoli cellulari responsabili della
produzione di energia cellulare tramite il processo di respirazione cellulare, di ipotetica
derivazione endosimbiotica2. Sono costituiti da una membrana esterna e da una interna,
fittamente ripiegata su se stessa e immersa in una sostanza detta matrice. Nella membrana
interna sono presenti diversi enzimi che servono per le catene di reazione che producono
ATP, che rappresenta la fonte di energia per il metabolismo della cellula, attraverso il
2
Teoria dell’endosimbiosi: secondo la quale la cellula eucariote deriverebbe da una simbiosi, avvenuta nel corso
dell'evoluzione, tra piccole cellule procariote provviste di plastidi e una cellula più grande che le avrebbe inglobate per
fagocitosi, stabilendo un rapporto di cooperazione. La mutata composizione atmosferica (aumento dell'ossigeno) rese
vantaggiosa la presenza dei simbionti, capaci di catturare e convertire l'energia luminosa, i quali erano favoriti
dall'accesso alle sostanze nutritive prodotte dalla cellula ospite. I cloroplasti e i mitocondri delle cellule eucariote
avrebbero avuto questa origine, essendo derivati da antichi batteri in rapporto simbiotico con antiche cellule
progenitrici.
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processo di respirazione cellulare. Sono numerosi nel fegato e nelle cellule muscolari
scheletriche, dove c’è una intensa attività della cellula e quindi un alto bisogno di ATP.
Fig.2 Nel passaggio dal citoplasma al mitocondrio
avviene un’attivazione
importante: all’acido piruvico
viene sottratto il suo gruppo
carbossilico e ciò che rimane
viene attaccato al Coenzima
A (trasportatore) che lo
porterà al ciclo di Krebs.
Fondamentale per la cellula ed elemento distintivo filogenetico è la presenza di una zona
nucleare ben definita con una parete nucleare nella quale sono numerosi i pori attraverso si
ha il passaggio selettivo delle sostanze. All’interno del nucleo è presente il nucleolo,
condensazione di RNA3, il nucleoplasma che è la sostanza simile al citoplasma per la
cellula, e la cromatina che costituisce il DNA. Si trovano anche delle proteine chiamate
istoni che servono a far si che il DNA si possa avvolgere, diventare più compatto e prendere
la forma dei cromosomi. Dal dna si decide quali proteine debbano essere prodotte dalla
cellula e anche quante, ed è per questo che si dice che il DNA e il nucleo controllano la
struttura e la funzione della cellula, in quanto decidono quali e quante proteine produrre.
Siccome contiene il DNA è responsabile dell’ereditarietà e della trasmissione
dell’informazione genetica da una cellula all’altra, e dirige la sintesi proteica e tutte le
attività cellulari. Il nucleolo si trova all’interno del nucleo, è costituito da RNA e da
3 L’Rna ha un filamento unico, può formare delle anse e dei ripiegamenti nei quali si determinano i legami tra le basi
azotate. È presente l’uracile al posto della timina, lo zucchero è il ribosio. Attraverso i pori della membrana l’RNA
fuoriesce e va nel citoplasma, i ribosomi si uniscono per tradurre l’RNA messaggero e scorrono rispetto a questo per
tradurlo e poter così formare la proteina. Ciascun codone corrisponde ad un amminoacido che si lega all’ RNA transfert
per mezzo del suo anticodone. I ribosomi formano catene polipeptidiche identiche. La traduzione avviene nel
citoplasma.
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proteine. In esso viene sintetizzato sia l’RNA ribosomiale sia le proteine che andranno a
costituire i ribosomi.
Essi non sono membranosi, ma compatti e formati da RNA e proteine. Vengono sintetizzati
nel nucleolo. Ci sono due tipi di ribosomi, i ribosomi liberi sparsi nel citoplasma e quelli
fissi nel reticolo endoplasmatico rugoso. Quelli fissi producono proteine che vengono
elaborate nel Golgi ed espulse dalla cellula, invece quelli liberi producono prevalentemente
proteine che rimangono all’interno della cellula e serviranno al metabolismo cellulare.
Quando la cellula non è in piena attività di divisione cellulare i ribosomi sono divisi in due
sub unità, piccola e grande. Solo quando inizia la sintesi delle proteine allora le due sub
unità si uniscono e formano il ribosoma completo. Vengono chiamati “fabbrica delle
proteine della cellula”.
Solo durante la divisone cellulare si può notare il centrosoma; una zona del citoplasma dove
viene diretta la formazione dei microtubuli che costituiscono una parte del citoscheletro
della cellula e nella stessa parte del centrosoma si generano anche i centrioli che sono
costituiti da microtubuli. I centrioli sono due per cellula e sono disposti ad angolo retto
l’uno rispetto all’altro. Sono i responsabili della formazione del fuso mitotico durante la
mitosi.
Nel nucleo troviamo il Dna, Trasferisce da una cellula ad un’altra l’informazione genetica.
Di come una cellula deve essere, d quali funzioni deve svolgere. Come struttura chimica il
Dna è un polimero di nucleotidi e ha una struttura tridimensionale a doppia elica, è
costituito da due filamenti uniti tra loro tramite il legame tra le basi azotate. È una sequenza
di nucleotidi, ciascuno dei quali è formato da uno zucchero ( DNA:desossiribosio; RNA
:ribosio), dal gruppo fosfato e dalla base azotata che serve proprio per il legame con la base
azotata con laterale del nucleotide che si trova nel filamento opposto. L’appaiamento tra le
basi è obbligatorio. Adenina- timina o uracile ( basi pirimidiniche), guanina- citosina (basi
puriniche). Questo appaiamento è molto importante nel processo della trascrizione del dna .
Nel dna è contenuto il codice genetico che costituisce l’informazione. Questo codice
genetico è dato dalla sequenza dei geni che si trova all’interno del dna. A loro volta i geni
sono segmenti di dna, cioè forniscono l’informazione per una catena peptidica. Le catene
polipeptidiche sono le proteine, le quali possono essere sia strutturali (proteine di
membrana ecc…) oppure le proteine strutturali , che catalizzano tutte le funzioni della
cellula. Un gene contiene circa mille paia di nucleotidi, sede di caratteri ereditari. Le diverse
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forme nelle quali possiamo vedere il dna in una cellula sono la cromatina, quando il
filamento di dna è svolto e i cromosomi, costituiti da filamenti di dna avvolti intorno agli
istoni, proteine deputate all’avvolgimento del dna affinché possa trasformarsi in cromosomi,
i quali sono indispensabili per la mitosi.
In una cellula umana somatica ci sono 46 cromosomi, omologhi a due a due. 22 coppie più
la coppia XX o XY. Quando avviene la mitosi il cromosoma si Divide in due cromatidi
fratelli, uniti per mezzo del centromero. Il dna della cellula madre si deve duplicare in una
coppia identica a se stessa da distribuire nelle due cellule figlie. Durante la mitosi i
cromatidi fratelli si dividono e uno va nella cellula figlia e l’altro cromatidio nell’altra
cellula figlia. Dal dna all’interno del nucleo l’informazione viene trasferita all’RNA che la
porta fuori dal nucleo e attraverso i ribosomi vengono formate le proteine. Un gene codifica
per una data catena polipeptidica che deve formare una certa proteina. Il gene deve aprirsi, il
doppio filamento si deve separare in due singoli. Sullo stampo di un filamento di dna si
deve formare un filamento di RNA, ad ogni base presente nel dna ce ne sarà solo una
corrispondente nel filamento di RNA. L’informazione rimane unica. La sequenza di tre
nucleotidi si chiama codone. In particolare i processi che avvengono a livello nucleare sono
la mitosi si ha la divisione di un centromero e ogni cromatidio si separa. Questa replicazione
avviene solo nel ciclo vitale della cellula, che comprende la cellula matura che si è formata
tramite la mitosi si ha la formazione di due cellule figlie, ciascuna con una coppia identica
di DNA. La fase di crescita durante la quale le cellule diventano mature per riprodursi viene
chiamata G1 e G2 e portano a produzione di tutte quelle sostanze che servono per far
diventare la cellula matura. Ta una fase G e l’altra c’è la fase S, dove si ha la duplicazione
del DNA. Alcune cellule dopo la mitosi e quindi la formazione delle due cellule figlie non si
dividono, maturano e vanno nello stadio di zero o quiescenza.
In sintesi, nella Mitosi le fasi sono:
divisione del materiale genetico.
Citodieresi: divisione della cellula. Avviene in tutte le cellule del corpo e quindi in
tutte le cellule somatiche.
All’inizio della mitosi la cromatina si addensa attorno agli istoni e costituisce i cromosomi,
tipico della profase nella quale si ha la comparsa del fuso mitotico, la scomparsa della
membrana nucleare e il nucleolo,inoltre i centrioli si distribuiscono in due poli opposti e il
tutto avviene nel nucleo .I cromatidi si ancorano al fuso mitotico e vengono disposti nella
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piastra metafisica durante La seconda fase mitotica, la metafase, in cui i cromosomi sono
perfettamente allineati. Poi durante l’anafase il centromero si divide e cromatidi fratelli si
separano 46 da una parte e 46 dall’altra, la telofase prevede la formazione della membrana
cellulare intorno al DNA che i srotola formando la cromatina e si formano le due cellule
figlie.
Nella Meiosi avviene solo nelle cellule riproduttive immature che devono diventare mature
(gameti). L’interfase comprende la fase G1, S, G2 dove si ha la replicazione del DNA e dei
centrioli responsabili della formazione del fuso mitotico, ed è precedente all’inizio della
mitosi, nella quale il DNA è sottoforma di cromatina.
Viene anche chiamata divisione riduzionale perché da una cellula immatura che ha 46
cromosomi si arriva a cellule mature che ne hanno 23, che prendono il nome di gameti.
Prevede una meiosi uno e una meiosi due. Le differenze principali tra meiosi e mitosi è il
fatto che da 46 cromosomi si giunge a 23 e nella metafase meiotica si avrebbero i
cromosomi omologhi sono appaiati perché tra le braccia di uno e dell’altro si verifica il
cosiddetto “crossing over”, cioè si ha uno scambio di materiale genetico in modo da
garantire la variazione genetica. Nella meiosi uno il numero dei cromosomi si dimezza ma i
cromatidi rimangono uniti che si dividono nella meiosi due, simile alla mitosi.
Ciglia, microvilli e flagelli, sono estroflessioni cellulari. I primi due, più piccoli mentre il
flagello si trova solo nelle cellule riproduttive maschili, ed è l’estroflessione più lunga,
rappresenta il prolungamento della membrana cellulare, con una struttura differente dalle
ciglie, le quali infatti, possiedono una struttura “9 + 2”, cioè 9 coppie di microtubuli
disposte circolarmente in periferia e due coppie centrali. Le ciglia sono un po’ più lunghe,
hanno un movimento ondeggiante che serve a trasportare sostanze che si trovano sulla
superficie cellulare, si trovano sugli epiteli delle vie respiratorie e con il loro movimento
trasportano il muco che si trova sulle cellule di questi epiteli. I flagelli servono allo
spostamento della cellula in un liquido; invece i microvilli sono delle estroflessioni della
membrana cellulare digitiformi, all’interno hanno il citoplasma e dei microfilamenti che ne
conferiscono la struttura e hanno come funzione quella di aumentare la superficie assorbente
della membrana cellulare, e si troveranno nell’epitelio dell’intestino che ha la funzione di
assorbire.
Le cellule non sono organismi a sé stanti, ma comunicano fra loro attraverso delle giunzioni,
dette appunto cellulari, che si trovano tra cellule diverse e sono di tre tipi:
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desmosomi, sono filamenti intermedi che servono ad unire le membrane cellulari di
due cellule adiacenti, sono dei ponti che creano una saldatura e si trovano nei tessuti
epiteliali tra le cellule della pelle.
giunzioni comunicanti o gap, in questo caso tra le membrane di cellule adiacenti si
formano proprio dei ponti, c’è un diretto contatto tra il citoplasma di una cellula e
quello della cellula adiacente e lo troviamo tra cellule muscolari cardiache. Esse
permettono il passaggio di piccole molecole tra le cellule adiacenti. Quasi tutte le
cellule animali che vengono in contatto tra di loro hanno regioni di giunzioni
caratterizzate da uno spazio ben definito riempito di un complesso di particelle (fig.3).
Le particelle cilindriche all'interno di questo spazio rendono questo tipo di giunzione
un canale di comunicazione cellula-cellula, in maniera che il citoplasma di una cellula
si continui con quello dell'altra. Un fine raggiunto dalle cellule per mezzo delle
giunzioni serrate è il trasferimento da cellula a cellula di molecole, in maniera che la
cellula incapace di sintetizzarle può riceverle dalla cellula vicina. Questo fenomeno è
definito come accoppiamento metabolico o cooperazione metabolica. I canali delle
giunzioni serrate si chiudono quando la concentrazione dello ione Ca2+
supera un certo
livello.
Fig.3. Giunzioni serrate. Si formano proprio dei ponti, c’è un diretto contatto tra il citoplasma di una cellula e quello della cellula adiacente e lo troviamo tra cellule muscolari cardiache. Esse permettono il passaggio di piccole
molecole tra le cellule adiacenti.
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L’ultimo tipo di giunzione cellulare è quella stretta (tight junction). In questo caso le
membrane vengono attaccate l’una all’altra e niente può passare tra una cellula e
l’altra. Si trova per esempio nell’epitelio dell’intestino perché nell’intestino le
sostanze ingerite vengono assorbite ed elaborate nella digestione, questo fa si che le
sostanze che passano nell’intestino vengano assorbite solo dalla cellula e non passino
tra una cellula e l’altra perché andrebbero perse. Le giunzioni strette sigillano le
cavità del corpo. Esse sono costituite da bande sottili che circondano completamente
la cellula e sono in contatto con un'altra cellula. La giunzione stretta è formata da una
rete di creste costituite da particelle sottostanti i microvilli. Queste creste appaiono
sulla faccia citoplasmatica della cellula. Le particelle sferiche di circa 3-4 nm di
diametro, sono di natura proteica. Le particelle proteiche determinano la fusione delle
membrane plasmatiche creando una barriera impenetrabile.
Fig.4. Mostra la giunzione stretta a livello intestinale fra i microvilli assorbenti che sigillano le cavità presenti
con file di corpuscoli proteici che creano una barriera impermeabile.
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1.2. Cenni di istologia
Iniziamo la trattazione di questo paragrafo con la definizione di tessuto, ovvero un
addensamento di cellule, simili per forma, struttura e funzioni , di cui sono formati
gli organi. Sono classificabili per gli stessi criteri della definizione, in:
Tessuto epiteliale o epitelio
Gli epiteli ricoprono le superfici esterne ed interne del corpo e sono pertanto detti epiteli
di rivestimento. L’epitelio è un tessuto formato da cellule contigue, fittamente stipate fra
loro, con interposta una scarsissima sostanza extracellulare amorfa che occupa sottili
interstizi cellulari di 15-30 nm. Esso forma lamine cellulari o amassi solidi e poggia su di
una membrana basale che lo separa dal tessuto connettivo è costituito da cellule
polarizzate, tenacemente adese fra loro ed alla sottostante membrana o lamina basale
grazie ad alcune particolari specializzazioni di membrana definite strutture di
giunzione. Gli epiteli non sono vascolarizzati. In relazione alle diverse richieste funzionali si
registrano marcate differenze di struttura fra diversi tessuti epiteliali, che possono
essere classificati in:
Epiteli semplici: costituiti da un solo strato di cellule e suddivisi, in base all’aspetto
morfologico di queste, in:
Pavimentoso semplice,
Cubico semplice,
Cilindrico semplice,
Epiteli stratificati o composti: costituiti da 2 o più strati cellulari e denominati, in
base alla morfologia delle loro cellule superficiali:
Pavimentoso pluristratificato,
Cilindrico pluristratificato.
Epiteli pavimentosi semplici
Consideriamo un caso particolare, l’endotelio, cioè un epitelio pavimentoso semplice che
riveste il lume dei vasi sanguigni; suo compito è principalmente quello di regolare il
passaggio di molecole ematiche ai tessuti circostanti il capillare sanguigno. Esso regola
dunque la cosiddetta permeabilità vascolare.
Epiteli cilindrici semplici
http://glossario.paginemediche.it/it/glossario_popup/glossario/search.aspx?text=Cellula&ispopup=1http://glossario.paginemediche.it/it/glossario_popup/glossario/search.aspx?text=Organo&ispopup=1
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Epitelio intestinale: è un epitelio cilindrico semplice che riveste il lume
dell’intestino tenue.
Esso è deputato a 2 funzioni principali: l’una assorbente, l’altra digestiva. La prima si
esplica mediante il completamento della digestione dei cibi che vengono immessi dallo
stomaco attraverso il piloro, la seconda permettendo ai prodotti finali della digestione di
passare in maniera selettiva ai vasi sanguigni e linfatici.
La struttura dell’epitelio intestinale è dunque specializzata all’assorbimento e le sue cellule,
gli enterociti, sono perciò polarizzate. La polarità degli enterociti è tale per cui il polo
superficiale o apicale, rivolto verso il lume intestinale, è specializzato all’assorbimento
dei prodotti della digestione. Il polo basale, o profondo, che si affaccia sulla sottostante
tonaca propria, intervene viceversa nel trasporto delle sostanze assorbite verso la rete
capillare sanguigna o linfatica sottostante. Alla polarità funzionale degli enterociti,
corrisponde una loro ben precisa differenziazione strutturale delle due estremità,
basale ed apicale.
All’interno di ogni apparato è presente un tessuto che interconnette due tipologie di
comunicazione fisiologiche; quella chimica svolta da ormoni e neurotrasmettitori e quella
elettrica fondata su potenziali di membrana e reti neurali; il tessuto ghiandolare.
Le ghiandole elaborano e riversano all’esterno, mediante il processo di secrezione,
sostanze
quali enzimi ormoni glico- lipidici. Nella ghiandola, il parenchima o epitelio
ghiandolare ha funzione di secrezione, mentre il tessuto connettivo interstiziale o stroma
ha funzione meccanica di sostegno, ed in esso decorrono i vasi sanguigni ed i nervi che
nutrono ed innervano le cellule connettivali e quelle epiteliali.
In base al destino che subisce il secreto, le ghiandole possono distinguersi in:
Ghiandole a secrezione esterna od esocrine,
Ghiandole a secrezione interna od endocrine.
Le ghiandole esocrine riversano il loro secreto sulla superficie esterna del corpo o in
cavità che comunque comunicano coll’esterno. Le ghiandole endocrine sono invece
sprovviste di dotti escretori e riversano i loro prodotti di secrezione, gli ormoni,
direttamente nei capillari sanguigni.
Possono essere classificate in:
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olocrine: l’intera cellula, dopo aver accumulato il prodotto di sintesi, è eliminata,
costituendo essa stessa il secreto);
apocrine: il citoplasma apicale degli elementi secernenti viene eliminato insieme al
prodotto di secrezione;
merocrine: soltanto il prodotto di secrezione, contenuto in un granulo di secrezione,
viene
riversato all’esterno con le modalità note; la modalità di secrezione merocrina è la più
comune.
Le ghiandole endocrine hanno origine dall’epitelio superficiale come cordoni di cellule che
proliferano ed invadono il tessuto connettivo. Esse, essendo prive di dotti escretori,
secernono il loro prodotto, gli ormoni, direttamente nei capillari sanguigni. Gli ormoni,
trasportati dal sangue, influenzano organi e tessuti situati a distanza.
I tessuti connettivi comprendono tessuti diversi accomunati dalla organizzazione strutturale
e/o dall’origine mesenchimale. A differenza degli epiteli, nei connettivi le cellule sono
separate fra loro da un’abbondante sostanza o matrice intercellulare, costituita da fibre e
da sostanza amorfa che contiene il liquido tissutale od interstiziale. Le fibre del tessuto
connettivo appartengono e 3 diverse categorie:
fibre collagene
fibre reticolari
fibre elastiche.
Il tessuto connettivo lasso è il tipo più diffuso di connettivo. Esso è caratterizzato
dall’abbondanza sostanza amorfa rispetto alla componente cellulare e alle fibre. Costituisce
la lamina propria delle mucose, lo stroma di tutti gli organi, le tonache dei vasi sanguigni,
avvolge le fibre muscolari e nervose, ecc.
Fig. 5. La fotografia al microscopio mostra, dopo
opportune colorazioni, tre tipologie di tessuto che si
presentano sovrapposti e nel loro insieme definiscono (in
questo caso) una porzione di apparato tegumentario.
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Nel tessuto connettivo denso le fibre predominano sulle componenti cellulare ed amorfa, e
sono raccolte in grossi fasci stipati, con decorrenza regolare o senza orientamento ordinato.
Fibre collagene ordinatamente disposte predominano nel tessuto connettivo denso regolare,
in cui le proprietà meccaniche prevalgono rispetto a quelle trofiche e di difesa. È presente
nelle strutture sottoposte a trazione, quali i tendini. Il tessuto connettivo denso
irregolare è riscontrabile nel derma, nella capsula fibrosa di molti organi, nelle guaine di
tendini, e di grossi nervi, e nel periostio. Nel tessuto connettivo denso elastico o giallo,
presente ad esempio nei legamenti gialli delle vertebre, le fibre elastiche predominano
nettamente su quelle collagene.
La cartilagine è un tessuto connettivo di sostegno costituito da cellule (condroblasti e
condrociti), fibre e matrice amorfa. È caratterizzata da solidità, flessibilità e capacità di
deformarsi. Essa forma l’abbozzo dello scheletro nello sviluppo e permane nell’adulto in un
numero limitato di sedi.
È rivestita da un connettivo fibroso denominato pericondrio ed è sprovvista di vasi e nervi.
Essa può svolgere, nelle diverse sedi e momenti, funzioni di scheletro di sostegno, di
consentire il movimento reciproco dei capi articolari, di costituire l’abbozzo delle ossa e
di consentire l’accrescimento in lunghezza delle stesse. Se ne distinguono 3 tipi:
cartilagine ialina, cartilagine elastica, cartilagine fibrosa.
La cartilagine ialina costituisce l’abbozzo dello scheletro nell’embrione e nel feto, la
cartilagine di coniugazione nell’accrescimento e riveste le superfici articolari e forma le
cartilagini costali, gli anelli tracheali, ecc. I condroblasti iniziano a secernere proteoglicani e
costituenti delle fibre, rimanendo inclusi nella matrice in cavità denominato lacune.
Quando l’attività biosintetica del
condroblasto diminuisce, la cellula assume il nome di condrocito.
La cartilagine elastica Si ritrova nell’orecchio esterno ed in poche altre sedi. È di colore
giallastro ed è composta da fitti fasci di fibre elastiche, ramificati ed anastomizzati, che
occupano quasi per intero la sostanza intercellulare, peraltro non particolarmente
abbondante.
L’ultima tipologia di cartilagine è quella fibrosa, principalmente riscontrabile nei dischi
intervertebrali, nella sinfisi pubica, nella zona d’inserzione sull’osso dei tendini. È
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sostanzialmente una forma di transizione fra il tessuto connettivo denso e la cartilagine
ialina.
Esponendo il tessuto cartilagineo, appare inopportuno non trattare, sebbene in forma
sintetica, il tessuto osseo; una forma specializzata di tessuto connettivo caratterizzata dalla
mineralizzazione della matrice cellulare.
Esso è costituito da cellule, gli osteociti, e da matrice intercellulare. L’osso deve la
sua robustezza alla matrice organica e la sua durezza alla matrice minerale. La matrice
organica è formata da fibre collagene di tipo I immerse in una matrice amorfa, che contiene
altre proteine.
La matrice minerale ha composizione simili all’idrossiapatite [Ca (PO)(OH)].
Il periostio è il tessuto che riveste superficialmente le ossa ed è rivestita da una guaina
connettivale.
L’endostio appare come una sottile lamina di cellule pavimentose che riveste tutte le cavità
interne delle ossa. Le cellule osteoprogenitrici: esse sono le cellule staminali del tessuto
osseo che permangono, anche nell’adulto, sulle superfici libere dell’osso maturo. Gli
osteoblasti sono localizzati in corrispondenza delle superfici in via di espansione delle ossa;
essi sintetizzano e secernono i componenti organici della matrice intercellulare e
regolano anche la deposizione dei sali minerali. Gli osteociti sono le cellule più numerose
dell’osso maturo; sono cellule quiescenti, accolte nelle lacune ossee e fornite di
prolungamenti citoplasmatici. Infine gli osteoclasti sono sincizi4 polinucleati forniti di
attività erosiva nei confronti della matrice ossea, accolti in fossette scavate sulla superficie
delle trabecole ossee, dette lacune di Howship. La superficie degli osteoclasti ricolta verso
l’osso presenta un orletto striato costituito da esili prolungamenti citoplasmatici. Cartilagine,
ossa ed infine il tessuto muscolare costituiscono nel loro insieme l’apparato locomotore.
Il tessuto muscolare è responsabile del movimento volontario ed involontario di organi ed
apparati. Questa funzione è svolta grazie alla proprietà delle contrattilità, caratteristica
delle sue cellule. Nei vertebrati si riconoscono 3 categorie di tessuto muscolare:
tessuto muscolare striato scheletrico,
tessuto muscolare striato cardiaco,
tessuto muscolare liscio.
4 In istologia, massa protoplasmatica multinucleata derivante dalla riunione secondaria di cellule in un primo tempo
separate.
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Il tessuto muscolare striato scheletrico Il tessuto muscolare striato scheletrico è costituito da
elementi di forma irregolarmente cilindrica, di dimensioni notevoli, denominati fibra
muscolare, che formano un sincizio polinucleato. Nel muscolo sono presenti rivestimenti
connettivali che formano l’epimisio, il perimisio e l’endomisio che si continuano nel
tendine, mediante il quale il muscolo si connette con l’osso. La fibra muscolare
presenta una evidente striatura trasversale, ed è rivestita da una membrana plasmatica che
insieme al suo rivestimento glicoproteico forma il sarcolemma. Il citoplasma, detto
sarcoplasma, contiene numerosi nuclei disposti alla periferia, numerosi apparati di Golgi
in posizione paranucleare, gocce lipidiche, particelle di glicogeno, e dal reticolo
sarcoplasmatico, che corrisponde al reticolo endoplasmatico liscio di altre cellule ed è un
sistema molto elaborato che circonda le miofibrille.
Come ultimo tessuto e a conclusione del capitolo, si descrive il sangue.
Molto spesso viene considerato un fluido piuttosto che un tessuto costituito da una
componente liquida, denominata
plasma, e da una componente corpuscolare, contenente i cosiddetti elementi figurati del
sangue5. Osso circola ininterrottamente all’interno dell’apparato cardiovascolare e
provvede a mantenere
l’omeostasi generale dell’organismo. Il plasma è la componente liquida del sangue in cui
sono disciolti i costituenti necessari per il metabolismo cellulare.
5 Gli elementi figurati del sangue sono: i globuli rossi, strutture nucleate, i globuli bianchi, e frammenti
citoplasmatici, le piastrine. I globuli rossi o eritrociti sono gli elementi del sangue specializzati nel trasporto dei
gas respiratori O e biossido di carbonio.
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2° CAPITOLO
LE LEVE E LE ARTICOLAZIONI
1.1. Componenti anatomico – funzionali dell’ articolazione
Le articolazioni sono strutture anatomiche, a volte anche complesse, che mettono in
reciproco contatto due o più ossa. Per evitare fenomeni degenerativi dovuti all’usura, nella
maggior parte dei casi si tratta di un contatto non diretto, ma mediato da tessuto fibroso o
cartilagineo e/o da liquido.
Nel corpo umano esistono moltissime articolazioni (360 circa), che si distinguono per forma
e grado di mobilità. Alcune di esse, come quelle che costituiscono la volta cranica, hanno
una possibilità di movimento nulla. La maggior parte delle articolazioni rientra tuttavia nella
categoria delle mobili caratterizzate da una struttura anatomica particolare. Esse sono
infatti costituite da diversi elementi:
– le superfici articolari di due ossa;
– lo strato di tessuto cartilagineo;
– la capsula articolare;
– la cavità articolare;
– la membrana sinoviale;
– la sinovia;
– i legamenti intrinseci.
Nel loro insieme, il compito delle articolazioni è di tenere uniti i vari segmenti ossei, in
modo tale che lo scheletro possa espletare la sua funzione di sostegno, mobilità e
protezione.
Le articolazioni si suddividono, dal punto di vista strutturale, in:
– Articolazioni fibrose: le ossa sono unite da tessuto fibroso;
– Articolazioni cartilaginee: le ossa sono legate da cartilagine;
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– Articolazioni sinoviali: le ossa sono separate da una cavità, oltre che essere legate per
mezzo di strutture.
La suddivisione più conosciuta è tuttavia quella su base funzionale. Le ossa dello scheletro
umano sono connesse infatti per mezzo di articolazioni a cui sono consentiti movimenti di
vario tipo e grado. Le articolazioni si suddividono, dal punto di vista funzionale, in:
– Articolazioni immobili o sinartrosi: legano strettamente i capi ossei, come una cerniera
lampo chiusa, tanto da impedirne i movimenti;
– Articolazioni ipomobili o anfiartrosi: legano due superfici articolari, ricoperte da
cartilagine, tramite legamenti interossei; tra le due superfici c’è un disco fibrocartilagineo
che permette soltanto determinati movimenti, che sono limitati;
– Articolazioni mobili o diartrosi: permettono un ampio range di movimento, in una o più
direzioni dello spazio (ginocchio, spalla, dita…).
Le articolazioni sono dotate di una cavità articolare e i
capi ossei sono rivestiti dalla cartilagine articolare il cui
significato è quello di rendere scorrevole il movimento
articolare.
All’interno dello spazio articolare è presente una piccola
quantità (virtuale) di liquido sinoviale, detto anche
sinovia, che lubrifica e nutre la cartilagine ed è prodotto
dalla membrana sinoviale. Quest’ultima riveste la
restante parte della cavità articolare ed è rivestita a sua volta all’esterno dalla capsula
articolare, una struttura resistente, di natura fibrosa, che avvolge le articolazioni ed è
rinforzata dai legamenti che danno stabilità all’articolazione. Anche i tendini, che
costituiscono la parte finale dei muscoli e si inseriscono sull’osso, contribuiscono al
movimento articolare di flessione, estensione, lateralità e roteazione.
Infine, altre strutture presenti solo in alcune articolazioni sono i dischi e i menischi che
fungono da ammortizzatori (es. ginocchio)
In tutti i casi, la struttura di un’articolazione ne influenza il grado di mobilità.
Esaminiamo uno alla volta gli elementi articolari coinvolti:
Le superfici articolari di due ossa; sono indispensabili per definire sia
un’articolazione, sia per definire la tipologia di essa, in funzione del movimento
http://www.noene-italia.com/ginocchio/http://www.noene-italia.com/membrana-sinoviale/http://www.noene-italia.com/ginocchio/
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possibile. Le ossa, soprattutto le estremità delle ossa più lunghe, non sono importanti
solo a livello articolare, ma hanno funzione ematopoietica, ovvero di produrre globuli
rossi nel midollo rosso situato appunto, nelle estremità ossee (epifisi). Essi vengono
poi immessi nel circolo sanguigno attraverso i canicoli (canali di Havers) che
costellano la superficie ossea. Non voglio dilungarmi troppo sull’aspetto osseo,
poiché anche se fondamentale, aprirebbe una digressione troppo estesa ai fini del
paragrafo.
Lo strato cartilagineo può essere uno strato di cartilagine ialina, nota anche
come cartilagine d'incrostazione o cartilagine articolare; è soffice, compressibile,
estensibile e deformabile.
La sua funzione è paragonabile ad un cuscinetto ammortizzatore, capace di
salvaguardare i rapporti articolari e permettere il movimento. La cartilagine articolare
è un tessuto elastico dotato di notevole resistenza alla pressione e alla trazione (è un
connettivo specializzato con funzione di sostegno). Ha un colorito bianco perlaceo e
riveste le estremità delle ossa articolari proteggendole dall'attrito. La sua funzione è
simile a quella di un cuscinetto ammortizzatore che con la sua azione salvaguardia i
normali rapporti articolari e permette il movimento.
Queste importanti caratteristiche sono permesse dalla sua particolare costituzione
chimica. All'interno della cartilagine esistono infatti delle cellule, chiamate
condrociti, che specie quando sono giovani
(condroblasti) - hanno il compito di produrre la sostanza
fondamentale.
Tale sostanza è costituita prevalentemente da acqua, da
fibre collageniche, da proteoglicani, da acido
ialuronico e da glicoproteine. Al di là dei nomi ciò che è
importante ricordare è che la cartilagine è composta da una parte fluida (che le dona
la capacità di assorbire i traumi) e da una parte solida (che ne aumenta la resistenza).
Tali fasi interagiscono tra loro per garantire un cinematismo senza attrito e
proteggere le superfici articolari dall'usura.
Il tessuto cartilagineo non è vascolarizzato in quanto privo di capillari sanguigni. La
cartilagine (ad esclusione della cartilagine ialina articolare) è circondata da uno strato
http://www.my-personaltrainer.it/cartilagine.html
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di tessuto connettivo denso (pericondrio), ricco di vasi sanguigni, che le permettono
di nutrirsi per diffusione. Il nutrimento dei condrociti per diffusione è un processo
lento e molto meno efficace della circolazione sanguigna; per questo motivo le
capacità rigenerative di questo tessuto sono bassissime. Nel nostro corpo si
distinguono comunemente tre tipi di tessuto cartilagineo con caratteristiche e
funzioni differenti:
cartilagine ialina: di color bianco-bluastro è il tipo di cartilagine più abbondante.
Nel feto costituisce gran parte dello scheletro e mano a mano che si cresce viene
quasi completamente sostituita da tessuto osseo*. Nell'adulto costituisce le cartilagini
costali, nasali, tracheali, bronchiali e laringee e ricopre le superfici articolari. La
cartilagine è rivestita da un sottile involucro di tessuto connettivo compatto chiamato
pericondrio. In prossimità delle superfici articolari tale tessuto scompare.
cartilagine elastica: di colore giallo opaco presenta particolari caratteristiche
di elasticità. Costituisce l'impalcatura del padiglione auricolare, dell'epiglottide, della
tuba di Eustacchio e di alcune cartilagini laringee.
cartilagine fibrosa: di colore biancastro è particolarmente resistente alle sollecitazioni
meccaniche. Si trova nel punto di inserzione di alcuni tendini sullo scheletro,
nei dischi intervertebrali, nei menischi di alcune articolazioni (ginocchio) e nella
sinfisi pubica.
capsula articolare. E’ la Membrana costituita da robusto tessuto connettivo che
avvolge l'articolazione come una cuffia. Contiene i capi articolari ossei, i legamenti, i
menischi e la membrana sinoviale con funzioni di stabilizzazione meccanica e di
protezione. E' innervata, In profondità si addossa allo strato fibroso della capsula la
membrana sinoviale, che può essere semplice, se costituita da un esile strato di
connettivale fibrillare con poche cellule superficiale, pochi vasi e pochi nervi, oppure
complessa, se costituita da connettivale reticolare ricco di istiociti, cellule granulose
basofile, plasmacellule, monociti, linfociti, prende un colore giallo-rosso è spesso
intercalata da grasso e può sollevarsi a formare pieghe, frange o villi. La sinoviale
esposta verso le cavità articolari è formata da pochi strati di cellule immerse nella
sostanza amorfa.
http://www.my-personaltrainer.it/fisiologia/trachea.htmlhttp://www.my-personaltrainer.it/fisiologia/bronchi-bronchioli.html
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cavità articolare. E’ lo spazio compreso tra i capi articolari e la capsula articolare, la
sua ampiezza è variabile e spesso la forma è complicata dalla presenza di recessioni
come avviene ad esempio nell’articolazione del ginocchio. Il liquido sinoviale invece
si distribuisce come un velo sottile sulle cartilagini articolari, garantendone
lubrificazione e nutrizione. Il suo volume varia in rapporto all’ampiezza della cavità
ed è arricchito dalle secrezioni delle cellule della membrana sinoviale. E’ ricco di
complessi glicoproteici, prevalentemente mucopolisaccaridi rappresentati da acido
ialuronico. E’ giallo, limpido e mucoso.
la sinovia. Produce il liquido sinoviale che ha funzione ammortizzante e nutriente,
facilita lo scorrimento tra le due superfici articolari e viene secreto dalla membrana,
detta appunto sinoviale. In sostanza, ha la stessa funzione di un lubrificante su di un
cuscinetto. La membrana sinoviale, che tappezza internamente la capsula articolare,
delimita lo spazio articolare immerso nel liquido vischioso che essa produce
(denominato, appunto, liquido sinoviale). Riveste le porzioni ossee contenute entro la
cavità articolare, ma si arresta lungo i contorni delle cartilagini di incrostazione, le
quali sono sprovviste di rivestimento (manca anche il pericondrio. La membrana
sinoviale è innervata e ricca di vasi sanguigni e linfatici (per facilitare la produzione
della sinovia ed il riassorbimento di eventuali versamenti intrarticolari).
legamenti intrinseci. I legamenti sono robuste strutture fibrose che collegano tra loro
due ossa o due parti dello stesso osso. Nel corpo umano esistono anche legamenti che
stabilizzano organi specifici come l'utero o il fegato. Queste importanti formazioni
anatomiche non vanno assolutamente confuse con i tendini, che collegano
i muscoli alle ossa o ad altre strutture di inserzione. I legamenti hanno funzione
stabilizzatrice, impediscono cioè che particolari movimenti o forze esterne derivanti
da traumi, alterino la posizione delle strutture ai quali sono collegati. Nel corpo
umano i legamenti sono disposti in modo tale da intervenire attivamente soltanto nei
gradi estremi del movimento, quando l'integrità dell'articolazione è messa in serio
pericolo. Come i tendini anche i legamenti sono formati da fibre di collagene di tipo I
che possiedono una grossa resistenza alle forze applicate in trazione. La loro
elasticità è invece ridotta: nel ginocchio, per esempio, il legamento collaterale
mediale presenta una resistenza alla rottura di ben 276 kg/cm2 ma può deformarsi
soltanto sino al 19% prima di rompersi. Si tratta inoltre di un legamento
particolarmente elastico dato che in media queste importanti strutture anatomiche si
lacerano se sottoposte ad un allungamento che supera il 6 % della loro lunghezza
http://www.my-personaltrainer.it/fisiologia/articolazioni.html
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iniziale. L'elasticità dei legamenti può comunque aumentare grazie a specifici
esercizi di stretching; non si spiegherebbe altrimenti lo straordinario grado
di mobilità articolare raggiunto dai contorsionisti.
1.a. La tavola anatomica della pagina successiva vuole fornire al lettore l’opportunità di
poter osservare i principali termini anatomici descritti in precedenza nel testo e riuscire a
collocarne con precisione la posizione all’interno dell’articolazione e poi a completarne la
descrizione attraverso la rilettura della teoria. Ciò detto, per fornire una mappa visuale che
permetta di accomodare la conoscenza finora acquisita e cristallizzarla in modo efficace.
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1.a. TAVOLA ANATOMICA RIASSUNTIVA DEL PARAGRAFO
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1.2. Storia delle macchine semplici
L’invenzione e l’uso di particolari accorgimenti tecnici per spostare e sollevare grandi pesi
dovettero sorgere molto presto nelle grandi civiltà del passato, ma purtroppo assai scarse
sono le rappresentazioni di tali strumenti che ci sono state tramandate. Non diversa sarebbe
la situazione per il mondo greco-romano, se non fosse per la disponibilità di alcune opere
giunte fino a noi, che non solo ci attestano l’utilizzazione di macchine più o meno
complesse per compiere i suddetti lavori, ma addirittura ci testimoniano l’esistenza di una
vera e propria disciplina scientifica che si occupava di spiegare le cause del loro
funzionamento.
Con i Problemi meccanici (3°sec. a.C.), riconosciuti oggi come opera non attribuibile ad
Aristotele, ma sicuramente proveniente dalla scuola peripatetica, abbiamo il primo tentativo
di ricondurre a un principio di carattere matematico unitario il funzionamento delle
macchine semplici (leva, argano, sistemi di carrucole, cuneo). Punto di partenza della
riflessione sulle macchine nel pensiero antico, questo testo non sembra però avere esercitato
un grande influsso nel corso delle epoche successive, perlomeno fino al 16° secolo. Fu
infatti in seguito al grande lavoro di recupero delle opere dell’antichità messo in opera
durante il Rinascimento, che esso divenne oggetto di studio approfondito soprattutto nella
penisola italiana, dove si trasformò in uno degli elementi portanti della rinascita della
‘meccanica’ antica.
Risultato finale di tale processo di recupero fu la nuova sistemazione teorica della disciplina
operata da Guidobaldo Dal Monte (1545-1607) nel Mechanicorum liber (1577), una
sistemazione che passava attraverso uno studio approfondito dei testi di Archimede, una
critica dettagliata della teoria dell’equilibrio nelle bilance proposta nella scientia de
ponderibus di Giordano Nemorario (13° sec.), e infine attraverso la valorizzazione del
contenuto del libro VIII delle Collezioni matematiche di Pappo di Alessandria (3° sec. d.C.),
libro che ingloba alcuni lunghi frammenti della Meccanica di Erone, un’opera trasmessaci
solo in arabo e recuperata soltanto alla fine del 19° secolo. In quest’ultimo testo si trova, tra
l’altro, la trattazione più articolata dell’ultima macchina semplice individuata dagli antichi:
la vite. L’impostazione archimedea esemplificata nel Mechanicorum liber tendeva però a
escludere dall’analisi teorica uno degli aspetti essenziali presenti nei Problemi meccanici,
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vale a dire la riflessione sul movimento e sulle diverse ‘velocità’ riscontrabili nelle singole
componenti delle macchine semplici. Pur rimanendo un elemento importante per la
comprensione del modo di operare di tali macchine, il moto di fatto non rappresentava più il
punto di riferimento fondamentale con cui affrontare la spiegazione del loro funzionamento.
Di fronte a tale indirizzo di ricerca, Galileo Galilei (1564-1642) e gli altri autori italiani del
17° sec. cercheranno invece di trovare una nuova forma di collegamento tra la ‘scienza del
moto’, allora fondata su nuove basi, e la teoria dell’equilibrio di derivazione archimedea.
Vennero così a imporsi nuovi concetti, alcuni più chiaramente definiti, per es. il concetto di
‘momento statico’, altri ancora non pienamente analizzati in tutte le loro implicazioni: si
pensi all’idea di ‘velocità virtuale’, che diverrà nel Settecento uno dei principi fondamentali
della meccanica.
Alla fine di questo lungo processo storico lo studio del funzionamento delle macchine
semplici aveva quindi di fatto perso parte della sua importanza a livello teorico, ma
rimaneva comunque propedeutico a ogni ulteriore ricerca in campo meccanico. Dal punto di
vista della storia della scienza e della tecnica esso resta invece ancora fondamentale per
comprendere la formazione, non solo della scienza moderna, ma anche del problematico
rapporto tra sapere tecnico dei ‘pratici’ e sapere scientifico dei filosofi naturali.
Le pagine che seguono cercheranno dunque di mettere in evidenza le difficoltà e la
molteplicità dei problemi affrontati in tal senso, analizzando molte delle riflessioni svolte
dai più importanti autori italiani del 16° e 17° sec. su tre di queste macchine semplici (leva,
argano e cuneo). Per motivi di spazio non verranno presi in considerazione i sistemi di
carrucole e la vite, ma va comunque ricordato che fu proprio dalla riflessione sui sistemi di
carrucole che emerse con chiarezza per la prima volta un aspetto essenziale del modo di
operare di tali macchine, espresso allora più o meno in questi termini: ciò che viene
guadagnato nella facilità di muovere un peso per un dato spazio, si perde nel tempo
impiegato per portare a termine il detto movimento.
Prima di procedere va però brevemente ricordato che tutte queste ricerche condivisero per
lungo tempo un’idea fondamentale, che postulava la necessità di una riduzione della teoria
della leva a quella della bilancia, con il conseguente problema di definire una soddisfacente
teoria dell’equilibrio. Qui, però, ci si asterrà dall’entrare nel merito di tale questione, che
causò accese polemiche tra fautori delle posizioni archimedee e seguaci della scientia de
ponderibus medievale. Una trattazione della teoria della bilancia, propedeutica a quella della
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leva, fu comunque pienamente attuata già nei Problemi meccanici dove, fin dalla prima
questione, si procedeva a un raffronto tra bilance di dimensioni differenti, anche se in questo
caso non si parlava di equilibrio, ma si svolgeva un’analisi dei movimenti dei bracci delle
bilance per riallacciarsi immediatamente alla natura ‘meravigliosa’ della figura circolare,
posta dall’autore del testo come principio di tutte le macchine. La questione, dunque,
serviva soprattutto a mostrare le potenzialità esplicative del principio sviluppato e
dimostrato all’inizio dell’opera, e cioè che ogni punto su un raggio in rotazione si muove
con velocità diverse perché in possesso di due componenti di moto, una naturale in linea
retta verso il basso, e una contronatura laterale verso il centro fisso, componente
quest’ultima che rallenta sempre di più la prima, quanto più ci si avvicina al centro.
Nei Problemi meccanici pseudoaristotelici, la potenzialità operativa della leva non
rappresenta solo una delle tante ‘questioni meccaniche’ da risolvere e spiegare, ma assume
fin dalle frasi iniziali del testo un ruolo paradigmatico: essa evidenzia il valore e l’utilità del
sapere tecnico, che permette all’uomo di superare in qualche modo alcuni dei limiti
impostigli dalla natura. La leva diviene così il primo esempio di macchina che suscita la
‘meraviglia’, cioè quello stato particolare proprio del soggetto indagatore che si pone a
ricercare le cause dei fenomeni naturali. Vera e propria chiave di volta di tutta la successiva
trattazione, la ‘meraviglia’ nasce all’inizio non tanto dalla non conoscenza della causa che
rende possibile l’operazione, quanto, piuttosto, dal risultato stesso dell’uso della macchina.
L’uomo con la leva riesce a sollevare grandi pesi, pesi che senza lo strumento non sarebbe
stato in grado di muovere, e, cosa ancora più stupefacente, «oltretutto con un peso in
aggiunta: infatti quel medesimo peso che non potrebbe essere mosso senza leva, più
agevolmente lo si muove con la leva, pur aggiungendosi anche il peso della leva stessa»
([Pseudo] Aristotele, Problemi meccanici, a cura di M.E. Bottecchia Dehò, 2000, p. 55). Era
questo un evidente sovvertimento della relazione sforzo-peso solitamente percepita
nell’esperienza, nella quale invece si rilevava come le cose di peso ‘minore’ fossero più
facili da muovere rispetto a quelle di peso ‘maggiore’.
Questo particolare approccio alla riflessione sulla leva, che caratterizza anche la
formulazione testuale della questione dedicata a questa macchina, non implica però un
allontanamento dal principio esplicativo individuato per risolvere i problemi meccanici
raccolti in quest’opera, vale a dire la figura circolare già utilizzata per spiegare le prime due
questioni del testo relative alle bilance. Sennonché in questo caso l’autore non si limita a
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considerare le due parti della leva (fulcro-peso e fulcro-potenza movente) come raggi di
cerchi di diversa dimensione, e a rilevare che «per effetto di un uguale peso si muove più
velocemente il punto sul raggio che più dista dal centro» ([Pseudo] Aristotele, Problemi
meccanici, cit., p. 77), ma cerca nello stesso tempo di stabilire un qualche rapporto tra il
peso, la potenza necessaria a muoverlo e le loro rispettive distanze dal fulcro. È questo un
elemento completamente nuovo, che non trova applicazione nelle successive questioni
dell’opera, e che va quindi attentamente analizzato se si vuole pervenire a una corretta
ricostruzione dello sviluppo storico della meccanica antica. Il termine greco che indica
questo rapporto è:
ἀντιπέπονθεν,
cioè lo stesso termine che Archimede utilizzerà nella sua opera intitolata Επιπέδων
ἰσοϱϱοπιῶν (Sui piani equiponderanti), dove nella VI proposizione del I libro dimostra che
«le grandezze commensurabili sono in equilibrio se sospese a distanze inversamente
proporzionali ai pesi».
Come considerare tale coincidenza? Dobbiamo forse inferire che l’autore pseudoaristotelico
fosse già in possesso della cosiddetta legge archimedea della leva?
Sebbene alcuni interpreti moderni incorrano in tale inferenza nelle loro traduzioni, noi
riteniamo che il rapporto qui individuato sia assai meno determinato, e che quindi la parte
finale della questione relativa alla leva inserita nei Problemi meccanici possa essere così
tradotta:
Pertanto il peso che viene mosso sta a quello che muove allo stesso modo che la distanza
alla distanza; ma sempre quanto maggiore sarà la distanza dal fulcro tanto più agevole
diverrà il movimento. La causa è quella detta precedentemente: ciò che è più distante dal
centro descrive un cerchio maggiore; cosicché ciò che muove con la medesima forza si
sposterà di più quanto più sarà lontano dal fulcro (per il testo greco si veda [Pseudo]
Aristotele, Mechanica, a cura di M.E. Bottecchia Dehò, 1982, pp. 113-14).
Non si può certamente sostenere che qui sia espresso con chiarezza il tipo di rapporto
esistente tra il peso, la potenza movente e le loro rispettive distanze dal fulcro. Vi è quindi
su questo punto una sostanziale differenza tra quanto sostenuto nei Problemi meccanici e
quanto successivamente dimostrato da Archimede. Questa diversità venne in parte
riconosciuta dai numerosi autori che studiarono e commentarono le suddette opere nel corso
del 16° secolo. Impossibilitati a trovare nella tradizione un qualche legame tra le due
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posizioni, essi spesso evitarono di approfondire questo aspetto, oppure immaginarono una
diretta successione storica, in cui da una prima ancora imprecisa conoscenza della legge
della leva, si passava successivamente a una quantificazione rigorosa basata sulla
dimostrazione geometrica. È questa di fatto l’interpretazione che diede Guidobaldo Dal
Monte, cioè l’autore che apportò il primo reale ampliamento alla teoria della leva
tramandataci dai testi dell’antichità. Per dirla con le parole di Bernardino Baldi (1553-
1617), che nella biografia di Archimede inserita nelle Vite de’ matematici riprende le
posizioni espresse da Guidobaldo nella prefazione alla parafrasi degli Equiponderanti:
ammesso dunque Archimede il principio d’Aristotile, passò oltre; né si contentò che
maggiore fosse la forza dalla parte de la leva più lunga, ma determinò quanto ella deve
essere, cioè con qual proporzione ella deve rispondere a la parte minore, accioché con la
data potenza s’equilibri il dato peso (B. Baldi, Vite inedite di matematici italiani, 1886, pp.
55-56).
Stando così le cose non può quindi stupire che la riflessione sulla leva si sviluppasse in
Guidobaldo proprio a partire dall’impostazione archimedea, e che quindi inglobasse al suo
interno anche il concetto di centro di gravità essenziale per la dimostrazione della già citata
VI proposizione del I libro degli Equiponderanti.
Sennonché il matematico pesarese andava immediatamente oltre la tradizionale analisi della
leva interfulcrata, la più comune e l’unica presa in considerazione fino ad allora,
presentando delle proposizioni riguardanti altre due specie di leva aventi questa volta il
fulcro collocato in una delle loro estremità: la prima con il peso posto tra potenza movente e
il fulcro, la seconda con la potenza movente posta tra il fulcro e il peso (quest’ultima leva
non era naturalmente di alcuna utilità pratica visto che la potenza movente avrebbe dovuto
sempre essere superiore al peso da muovere). Come si vede, si tratta di un ampliamento
fortemente caratterizzato da ragioni teoriche, che però non resta privo di importanti
applicazioni all’ambito pratico.
Così, per es., il III corollario alla seconda proposizione, che trattava della leva con il peso
posto tra fulcro e potenza movente (leva di II specie), avrebbe permesso di risolvere in
modo assai rigoroso un problema già preso in considerazione nella questione XXIX
dell’opera pseudoaristotelica, quella cioè in cui si domandava:
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Perché quando due uomini trasportano il medesimo peso con un legno, o con qualcosa di
simile, non sono ugualmente gravati a meno che il peso non sia nel mezzo, ma viene ad
essere maggiormente gravato il portatore che è più vicino al peso?
([Pseudo] Aristotele, Problemi meccanici, cit., p. 119).
Precedentemente affrontata con riferimento alla leva interfulcrata, la questione aveva infatti
posto qualche problema agli interpreti.
Completamente nuovo fu poi lo studio della variazione del rapporto peso-potenza movente
in una leva avente diverse inclinazioni e portante un peso non sospeso, ma solidale con il
suo corpo. Tale variazione derivava, secondo il matematico pesarese, dal continuo
spostamento sulla leva del piede della perpendicolare passante per il centro di gravità,
spostamento che cambiava la distanza del peso dal fulcro, e quindi poteva rendere più o
meno agevole l’azione della leva operante con una forza data (Guidobaldo Dal
Monte, Mechanicorum liber, 1577, pp. 43v-45v, 49r-55v). Particolarmente interessanti,
anche in questo caso, erano le applicazioni basate su esempi concreti, fatte questa volta da
Baldi, discepolo dello stesso Guidobaldo e del loro comune maestro Federico Commandino
(1509-1575):
Da qui dipende anche la ragione delle carriole che sono comunemente in uso, con un
duplice manubrio e una sola ruota. […] Si riduce infatti allo stesso genere di leva, nel quale
il peso è tra il fulcro e la potenza. Quanto dunque sarà minore il rapporto della parte della
leva che va dal centro di gravità allo stesso fulcro, a tutta la leva, tanto più facilmente il peso
sarà elevato (B. Baldi, In Mecanica Aristotelis problemata exercitationes, a cura di E. Nenci,
2010, p. 339).
Non altrettanto risolutiva era invece la distinzione tra le due specie di leva allorché si
affrontava la questione IV dei Problemi meccanici, in cui si equiparava il remo a una leva
avente il fulcro nello scalmo e il peso da muovere nel mare. È questo un caso assai
interessante, che fu oggetto di discussione fino all’inizio del secolo scorso (Micheli 2011,
pp. 237-38). Con la teorizzazione della leva della seconda specie fu infatti abbastanza usuale
ridurre a essa il funzionamento del remo, rimarcando come piuttosto fosse il mare a fungere
da fulcro, mentre lo scalmo, cioè la nave in cui esso era collocato, rappresentava il vero e
proprio peso da muovere. Non tutti però furono convinti della necessità di una spiegazione
basata su di una leva di specie diversa, e soprattutto alcuni autori incominciarono a riflettere
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sulla complessità dell’azione messa in atto dal vogatore, in cui era assai difficile individuare
un qualche punto che potesse fare le funzioni del fulcro immobile, visto che di fatto, sia la
nave sia l’acqua del mare si muovevano durante la voga.
Galilei fu uno di questi autori. Su richiesta nel 1593 da parte del provveditore dell’Arsenale
di Venezia, Giacomo Contarini, di valutare quale fosse la collocazione migliore dello
scalmo per ottenere la voga più efficace, il matematico pisano rispose rifacendosi alla teoria
generale della leva, sostenendo che ciò dipendeva dalla divisione del remo, ovvero dal
rapporto tra potenza movente, fulcro e peso. Al variare di tale divisione il remo di fatto
avrebbe agito con modalità diverse, o come una leva di seconda specie, o come una di
prima:
“Et perché quando il sostegno è immobile, tutta la forza si applica a muover la resistenza,
se si accomoderà il remo tanto che l’aqqua venga quasi che immobile, all’hora la forza si
impiegherà quasi tutta a muovere il vassello; et per il contrario, se il remo sarà talmente
situato che l’aqqua venga facilmente mossa dalla palmula, all’hora non si potrà far forza in
muovere la barca”
(G. Galilei, Le opere, 10° vol., 1900, p. 56).
Se in questa risposta Galilei sembra ancora muoversi in un contesto non molto distante da
quello impostato da Guidobaldo nelMechanicorum liber, assai diversa si mostra la sua
trattazione della leva nelle Meccaniche, un testo mai pubblicato in italiano durante la sua
vita, ma composto probabilmente già durante il periodo dell’insegnamento padovano.
Fortemente polemico nei confronti di coloro che ritenevano in qualche modo potersi creare
forza con le macchine, sovvertendo così l’ordine della natura, Galilei prende qui in
considerazione la leva in modo affatto differente, non partendo dalle considerazioni relative
alla bilancia, ma reinserendo nella sua analisi la velocità come elemento essenziale per la
spiegazione del funzionamento di essa. Conforme al principio naturale che nessuna
resistenza possa essere superata se non da una forza più potente di essa, Galilei determina in
primo luogo quattro cose che devono essere prese in considerazione in questo tipo di
questioni: «il peso da trasferirsi da luogo a luogo, […] la forza o potenza che deve
muoverlo, […] la distanza tra l’uno e l’altro termine del moto, […] il tempo nel quale tal
mutazione deve essere fatta» (G. Galilei, Le opere, 2° vol., 1891, p. 156). Tenendo presenti
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questi elementi, lo scienziato pisano mostra poi come in ogni macchina, e in modo
particolare nella leva, allorché si vorrà svolgere con successo l’operazione, la velocità della
forza dovrà essere di tante volte superiore alla resistenza del peso, quanto il detto peso si
trovi a essere superiore alla forza a disposizione. Impostato in questo modo il problema,
Galilei riuscì quindi a recuperare un elemento importante dell’approccio teorico presente
nei Problemi meccanici, ma nello stesso momento fu capace di offrire una quantificazione
precisa, nella forma della legge della leva archimedea, del rapporto tra le grandezze qui
prese in considerazione. Facendo ciò egli rese possibile un incontro tra le due diverse
impostazioni d’indagine provenienti dall’antichità, che trovarono una specie di sintesi nel
concetto di ‘momento’, definito come «la propensione di andare al basso cagionata, non
tanto dalla gravità del mobile, quanto dalla disposizione che abbino tra di loro diversi corpi
gravi» (G. Galilei, Le opere, 2° vol., cit., p. 159). Tale propensione in una bilancia a bracci
disuguali (equiparabile di fatto a una leva), con appesi pesi uguali, spiegava poi non solo la
rottura dell’equilibrio dalla parte del peso dotato di maggiore ‘momento’, ma poteva anche
rendere ragione della maggiore velocità di spostamento di esso, che veniva a percorrere
nello stesso tempo uno spazio maggiore rispetto al peso opposto portato verso l’alto. Alla
velocità del moto si connetteva infatti un aumento del ‘momento’ del corpo mobile, che
veniva a crescere con la stessa proporzione con cui aumentava la detta velocità.
Il lettore moderno è naturalmente portato a vedere in questi passi un implicito uso del
principio delle velocità virtuali, ma Galilei dovette avere ancora qualche dubbio rispetto a
un’eventuale generalizzazione dell’uso dell’idea di velocità in connessione con quella di
momento: per es., nel caso di bilance che si trovassero in stato di equilibrio. Come risulta da
alcuni frammenti connessi con i Discorsi e dimostrazioni (1638), ancora non sembrava
possibile superare completamente in questo caso la contrapposizione quiete-movimento,
poiché sarebbe stato assai duro il convincersi, come diceva Sagredo, che posti due gravi in
quiete, cioè «dove non sia pur moto, non che velocità maggiore di un’altra, quella
maggioranza che non è, ma ancora ha da essere, possa produrre un effetto presente» (G.
Galilei, Le opere, 8° vol., 1898, p. 438).
Lo studio del funzionamento della leva aveva quindi ormai portato a riflettere su questioni
fondamentali per lo sviluppo della scienza meccanica. Questi non furono però i soli effetti
benefici derivanti dall’indagine approfondita dedicata a questa macchina; con la trattazione
della cosiddetta leva angolare nascerà infatti in questi stessi anni un campo di ricerca teorica
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e pratica interamente originale, una vera e propria ‘nuova scienza’, quella della resistenza
dei materiali, di cui si parlerà al termine del saggio.
La teoria della leva permise di affrontare in modo rigoroso molti dei problemi relativi allo
spostamento e sollevamento di grossi carichi, prendendo come esempio un’altra macchina
semplice studiata fino dall’antichità: l’axis in peritrochio, ovvero l’asse nella ruota.
Volendo osservare un certo rigore nella presentazione delle varie spiegazioni relative al
funzionamento di questo strumento, la leva, si deve in primo luogo mettere in chiaro che
tale macchina semplice è distintamente descritta in tutte le sue parti solo all’interno del libro
VIII delle Collezioni matematiche di Pappo. Secondo tale descrizione, esso è formato da
una trave quadrata di legno con le parti finali arrotondate e ricoperte di metallo; queste
fungono da perni che vanno inseriti in due fori, rivestiti anch’essi di metallo, situati in due
sostegni verticali fissati su una piattaforma. Tale ‘asse’, collocato in posizione parallela
all’orizzonte, ha poi da una parte una ruota (disco) di legno perfettamente solidale con esso,
sulla circonferenza della quale, in numerosi fori, si inseriscono delle aste. Per quanto
riguarda il suo funzionamento, lo stesso autore rilevava come la fune sostenente il peso
andasse avvolta intorno al suddetto ‘asse’, e la potenza movente dovesse essere applicata
all’estremità delle aste innestate nella circonferenza della ruota. Questo strumento
meccanico permetteva dunque di sollevare grandi pesi con una piccola forza, e non agiva in
modo diverso dalla leva. Ma quali erano le parti della macchina da prendere in
considerazione per operare la sua riduzione alla leva?
Una prima ipotesi di lavoro era già presente nella questione XIII dei Problemi meccanici, in
cui si chiedeva perché fosse più facile causare la rotazione di un ‘asse cilindrico’
attraversato da aste, usando aste lunghe, piuttosto che corte; e analogamente perché una
medesima potenza movente fosse in grado di muovere più facilmente i verricelli aventi
‘assi’ piccoli, piuttosto che grandi. Come si vede, qui ci troviamo di fronte a strumenti
molto simili all’asse nella ruota, strumenti che vengono analizzati in due delle loro
componenti essenziali: in una macchina con asse cilindrico dato, la maggiore o minore
distanza dal centro di rotazione del punto di applicazione della forza; in una macchina con
asta di lunghezza data, la variazione del rapporto esistente tra questa e la maggiore o minore