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Corso annuale post lauream di perfezionamento DIDATTICA DELLA FISICA L L a a F F i i s s i i c c a a a a p p p p l l i i c c a a b b i i l l e e i i n n c c a a m m p p o o b b i i o o m m e e d d i i c c a a l l e e Candidato: Prof. Simone Schiavon Anno accademico 2014/15

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  • Corso annuale post lauream di perfezionamento

    DIDATTICA DELLA FISICA

    LLLaaa FFFiiisssiiicccaaa aaappppppllliiicccaaabbbiiillleee iiinnn cccaaammmpppooo

    bbbiiiooommmeeedddiiicccaaallleee

    Candidato: Prof. Simone Schiavon

    Anno accademico 2014/15

  • Corso di Perfezionamento annuale 1500 ore Prof. Simone Schiavon

    IND

    ICE

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    INDICE

    PREFAZIO pg. 1

    1° CAPITOLO pg. 3

    NOZIONI FONDAMENTALI PER LA COMPRENSIONE DEL TESTO

    1.1 Cenni di citologia pg. 3

    1.2 Cenni di istologia pg. 13

    2° CAPITOLO pg. 19

    LE LEVE E LE ARTICOLAZIONI

    2.1 Componenti anatomico – funzionali dell’articolazione pg. 19

    2.2 Storia delle macchine semplici pg. 26

    2.3 Applicazione delle conoscenze fisiche in campo biofisico pg. 45

    3° CAPITOLO pg. 55

    APPARATO MUSCOLARE

    3.1 Costituenti anatomici principali del muscolo pg. 55

    3.2 Aspetti fisiologici correlati all’attività muscolare pg. 63

    3.3 Termini energetici correlati all’attività muscolare pg. 65

    3.4 La fisica che regola l’attività muscolare: meccanica muscolare. pg. 72

    CONCLUSIONI pg. 75

    BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA pg. 79

  • [Digitare il testo] Pagina 0

    PREFAZIONE

    La moderna conoscenza scientifica del mondo si è costruita nel tempo, attraverso un metodo

    di indagine fondato sull’osservazione dei fatti e sulla loro interpretazione, con spiegazioni e

    modelli sempre suscettibili di revisione e di riformulazione. L’osservazione dei fatti e lo

    spirito di ricerca dovrebbero caratterizzare anche un efficace metodo di sviluppo e

    innovazione che porti ad esplorare nuove frontiere e creare legami fra le molteplici

    discipline scientifiche, in modo che creino strada

    Nuove e anfora inesplorate.

    Questa tesi, nella più umile semplicità vuole sottolineare l’importanza di questo florido

    legame che ha trovato un nome alla scienza neonata: la biofisica infatti si è occupata del

    corpo degli organismi viventi in termini di macchina vicina alla perfezione, ma pur sempre

    come macchina. Quindi studiando il sangue e il flusso sanguigno usando tutti i termini della

    fisica dei fluidi, la temperatura corporea in termini di reazioni biochimiche e di

    termodinamica, le interazioni fra radiazioni ionizzanti o non ionizzanti e le parti del corpo

    viste come insieme di atomi e molecole. Tutto ciò è di indiscutibile valore ed interesse, ma

    resta ad uno strato superficiale dell’essere umano. La Nuova Fisica, o anche la Fisica del

    Corpo Energetico si occupa dell’essere umano nella sua completezza, quindi anche nei

    rapporti dell’uomo con l’ambiente esterno, con gli altri organismi viventi, ma anche della

    sua parte più profonda dove si ricercano le cause delle malattie: il corpo energetico. Questo

    è altresì collegato alla sfera delle emozioni e dei pensieri, dove spesso si trovano le cause

    profonde delle malattie. Lo studio delle conoscenze fisiche e meccano – dinamiche alla luce

    del funzionamento umano è una nuova chiave conoscitiva che permette di esplorare sotto

    una nuova luce le conoscenze fisiologiche e anatomiche che hanno trovato in passato

    risposta; non solo per dare fiato a eminenti scienziati che popolano le sale universitarie, ma

    nuova conoscenza la servizio del bene e della salute comune che dona nuove

    apparecchiature di studio e ricerca in campo medicale e fornisce soluzioni concrete ai limiti

    delle patologie che ancora ora attanagliano le coscienze dell’essere umano.

    C’è tutto un mondo legato alla fisica, alla medicina e alla biologia che ci può aiutare ad

    indagare nel grande mistero dell’uomo con nuovi strumenti intellettuali.

  • [Digitare il testo] Pagina 1

    Lo studio del movimento umano prevede la misura di variabili che descrivono la cinematica

    e la dinamica dei segmenti anatomici; ha lo scopo di raccogliere informazioni quantitative

  • [Digitare il testo] Pagina 0

    relative alla meccanica del sistema muscolo-scheletrico durante l’esecuzione dell’atto

    motorio. In particolare, è una disciplina che ha l’obiettivo di stimare le seguenti variabili: •

    il movimento assoluto del centro di massa dell’intero corpo o di una sua porzione; • il

    movimento assoluto di segmenti ossei o segmenti corporei; • il movimento relativo tra ossa

    adiacenti (cinematica articolare); • le forze e le coppie scambiate con l’ambiente; • i carichi

    risultanti trasmessi attraverso sezioni dei segmenti corporei o portate attraverso le

    articolazioni (carichi intersegmentali); • le forze e le coppie trasmesse da strutture interne

    (muscoli, tendini, legamenti, ossa); • le variazioni di energia di segmenti corporei; • il lavoro

    e la potenza muscolari. Le grandezze fisiche e biofisiche che forniscono queste

    informazioni possono essere misurate oppure stimate mediante modelli matematici morfo -

    funzionali dei tessuti, degli organi, degli apparati, o dei sistemi coinvolti nell’analisi.

    Così facendo, possono essere ottenute descrizioni quantitative delle funzioni a carico

    dell’apparato locomotore in condizioni definite “normali”, nonché in alcune delle loro

    variazioni (potenziamento o riduzione della funzione). Le variabili cinematiche sono

    ottenute tramite i sistemi di analisi del movimento, mentre le variabili dinamiche si

    ottengono indirettamente tramite la misura delle forze esterne agenti sul soggetto. Questo è

    solo un sintetico esempio delle conoscenze che si creano attraverso sinergie fra studiosi

    diversi: non esiste più colui che, competente in un campo, possa lavorare e ricercare da solo,

    ma una equipe che con abilità diverse sviluppa scienza a largo spettro, applicabile in più

    campi di scienza.

    In tutto questo percorso vengono date sintetiche “pillole” conoscitive dei campi scientifici

    trattati, poiché la preoccupazione prima dello scrivente non è stata quella di scrivere e

    redigere una tesi compilativa, ma creare un percorso disciplinare attingendo da conoscenze

    universitarie e rielaborare tutto alla luce dell’oggettiva spinta verso una divulgazione del

    sapere chiara, precisa, sintetica (quando e quanto possibile), ma soprattutto atta a realizzare

    una sinergia culturale al passo con le questioni che oggi sono campo di incertezza e

    discussione aperta.

    Le parole che hanno guidato il lavoro sono state di Dante:

    “Porta attenzione a quel ch’io ti paleso, che non fa scienza,

    sanzo lo non aver ritenuto inteso”

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    1° CAPITOLO

    NOZIONI FONDAMENTALI PER LA COMPRENSIONE DEL TESTO

    1.1. Cenni di citologia

    La cellula è il mattone di tutti gli organismi viventi, animali e vegetali. È l’unità strutturale e

    funzionale più piccola che ha delle funzioni vitali. Il corpo umano è costituito da migliaia di

    miliardi di cellule, il loro numero varia a seconda delle funzioni che devono svolgere ogni

    attività umana è il risultato di un’azione coordinata e combinata di tutte le cellule del corpo

    che sono diverse e svolgono funzioni diverse. Studieremo la citologia, quindi proprio lo

    studio e la funzione delle cellule. Gli strumenti utilizzati per osservare le cellule sono: il

    microscopio ottico, più semplice e più usato. Si considera un campione, un vetrino con una

    fetta sottile di un tessuto di 4-5 micron. Il vetrino si poggia sul tavolino del microscopio e

    viene attraversato da un fascio di luce bianca che incontra delle lenti e ci da un’immagine

    ingrandita di quello che stiamo vedendo. Un altro microscopio, più moderno è il

    microscopio elettronico a trasmissione nel quale il vetrino o campione viene attraversato da

    un fascio di elettroni che incontrano delle lenti magnetiche e non più ottiche. L’immagine è

    ancora più ingrandita e si possono osservare anche le strutture interne alla cellula.

    L’immagine risultante viene osservata su uno schermo.

    Un altro tipo di microscopio elettronico è quello a scansione che permette di osservare la

    superficie esterna della cellula tridimensionalmente, e il fascio di elettroni va a colpire la

    superficie delle cellule. Le cellule sono l’unità funzionale, strutturale, organizzativa del

    corpo umano, costituiscono tutti gli esseri viventi animali o vegetali e qualsiasi cellula può

    derivare solo dalla divisione di una cellula precedente. Questi concetti fanno parte della

    teoria cellulare. Il principio di complementarietà tra strutture funzionali della cellula ci dice

    invece che c’è una stretta relazione tra la struttura della cellula e la funzione che essa

    svolgerà. Al loro interno però presentano tutte gli stessi tipi di organuli. L’unica differenza

    potrebbe essere che un certo tipo di cellula ha un maggior numero di un tipo di organulo,

    piuttosto che di un altro tipo e questo dipende dalla funzione che deve svolgere.

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    Nel corpo si distinguono cellule riproduttive, cioè i gameti, e cellule somatiche, cioè tutte le

    altre cellule. Osservando la cellula dall’ambiente extracellulare, la prima struttura che

    vediamo è la membrana plasmatica (struttura membranosa). Essa si trova intorno alla

    cellula, delimita la cellula, le da una forma e sostegno. È costituita da un doppio strato

    fosfolipidico. I fosfolipidi sono costituiti da una testa idrofila (si scioglie nell’acqua) e due

    code idrofobe. Essi sono disposti in modo tale da avere le teste rivolte verso l’esterno e le

    code verso l’interno, formano due strati idrofili all’esterno che racchiudono uno idrofobico

    all’interno. Oltre ai fosfolipidi nel doppio strato sono presenti anche le proteine, le quali

    possono attraversare interamente la membrana, oppure occuparne solo una parte (fig.1).

    Possono essere compatte oppure avere un foro all’interno e poi altre possono avere dei

    carboidrati attaccati e cin questo caso la proteina viene chiamata glicoproteina. Se invece i

    carboidrati sono attaccati ai lipidi abbiamo i glicolipidi. Un’altra componente importante

    della membrana plasmatica è il colesterolo, inserito nello spessore della membrana; la sua

    utilità in questo caso è quello di dare fluidità alla membrana perché si tratta di una struttura

    fortemente modellabile perché contiene i componenti della cellula in modo molto elastico. Il

    modello della membrana plasmatica per questo viene detto “a mosaico fluido”.

    Fig 1.

    La figura mostra

    la disposizione

    dei componenti

    principali della

    membrana

    cellulare: in

    particolare le

    glicoproteine, il

    doppio strato

    fosfolipidico e le

    proteine carrier

    responsabili de

    trasporto

    membranario.

    Le proteine di membrana sono molto diverse e hanno diverse funzioni. La membrana

    plasmatica favorisce l’isolamento fisico, cioè contiene tutto il contenuto della cellula e lo

    isola dall’ambiente esterno, poi regola gli scambi con l’ambiente esterno, sensibilizza delle

    proteine che fungono da recettori per l’ambiente esterno, e supporta strutturalmente la

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    cellula. Tale membrana è selettivamente permeabile, cioè grazie a dei canali che vanno

    dall’esterno all’interno possono passare determinati tipi di sostanze (per es. ioni) ma non

    tutte, è la cellula che decide selettivamente quale entrano e quali no. Tutta la cellula è

    ripiena di citoplasma che viene suddiviso in citosol (parte fluida) e organuli (parte corpus

    colata). Gli organuli possono essere non membranosi e membranosi. Quelli non

    membranosi sono il citoscheletro, i ribosomi, i centrioli, le ciglie e i flagelli che

    rappresentano le estroflessioni della cellula. Tra quelli membranosi abbiamo il reticolo

    endoplasmatico, apparato del Golgi, i mitocondri, il nucleo, i lisosomi e i perossisomi. La

    struttura che conferisce robustezza, volume e resistenza alla cellula è il reticolo

    endoplasmatico che si trova in stretto contatto con il nucleo, e in alcuni punti entra in

    contatto con la membrana nucleare. In particolare è in contatto con il nucleo il reticolo

    endoplasmatico rugoso,costituito da cisterne, nel quale si trovano fissi i ribosomi sede della

    sintesi proteica e si occupa del loro trasporto nell’apparato del Golgi dove vengono

    modificate e preparate per essere espulse dalla cellula. Inoltre vi è il reticolo endoplasmatico

    liscio costituito da canali; si occupa della sintesi dei lipidi e dei carboidrati, partecipa alla

    formazione dei componenti delle membrane cellulari. L’apparato del Golgi, che come già

    espresso è costituito da cisterne appiattite, immagazzinare le proteine e le sostanze prodotte

    trasportate dalle vescicole di trasporto, per essere successivamente espulse. Da una parte

    presenta delle vescicole di trasporto che contengono le proteine che provengono dal reticolo

    endoplasmatico, le elabora e le porta fuori dalla cellula tramite le vescicole di secrezione.

    Funzionano con un endocitosi1 in quanto le vescicole di secrezione che contengono le

    proteine si avvicinano alla membrana plasmatica, si fondono, la vescicola successivamente

    si apre e porta fuori le proteine, elaborate dall’apparato del Golgi.

    La rete di tubuli e microtubuli più o meno spessi formata da proteine costituiscono nel loro

    insieme il citoscheletro, nel quale possiamo distinguere microfilamenti, filamenti intermedi

    1 Endocitosi il materiale viene introdotto nella cellula; esistono diversi tipi di endocitosi:

    Fagocitosi.

    Pinocitosi.

    Endocitosi mediata da recettori.

    Attraverso l’esocitosi invece, le cellule espellono prodotti di scarto o particolari prodotti di secrezione mediante la

    fusione di vescicole con la membrana plasmatica. L’esocitosi determina l’incorporazione della membrana della

    vescicola secretoria nella membrana plasmatica. Questo costituisce un meccanismo primario di accrescimento della

    membrana plasmatica.

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    un po’ più spessi, e tubuli. Vanno a costituire una vera e propria impalcatura. Servono infatti

    a dare un sostegno a tutto il citoplasma e creano anche un’ impalcatura per i diversi organuli

    che non sono completamente fluttuanti, ma sono mantenuti nella loro posizione dal

    citoscheletro. Inoltre ancorano la membrana cellulare al citoplasma. Sono presenti anche dei

    filamenti spessi che si ritrovano nelle cellule muscolari, i microfilamenti di actina e miosina

    che hanno uno spessore intermedio necessario per la contrazione muscolare.

    Altri corpuscoli cellulari immersi nella matrice citosol sono i:

    Lisosomi e i perossisomi. I primi, sono diversi in ogni cellula e contengono degli enzimi

    digestivi, che servono per distruggere delle sostanze che entrano nella cellula e che devono

    essere distrutte

    (per es. i batteri), vengono fagocitate nei lisosomi, i quali liberano degli enzimi che gli

    distruggono. È molto importante che la membrana di questa vescicola sia integra perché se

    malauguratamente uno di questi enzimi dovesse uscire si digerirebbe l’intera cellula. Per

    questo i lisosomi prendono il nome di sistema digestivo della cellula. Sono molto presenti

    nei globuli bianchi per la distruzione di agenti patogeni o batteri. I perossisomi invece, sono

    molto più piccoli dei lisosomi e contengono anch’essi degli enzimi e in particolare

    contengono la per ossidasi e la catalasi che sono due enzimi coinvolti nella distruzione di

    sostanze tossiche e producono inoltre perossido d’idrogeno che nella cellula viene

    trasformato nuovamente in acqua. Li troviamo soprattutto nel fegato e nel rene, organi

    deputati alla disintossicazione dell’organismo e quindi alla distruzione delle sostanze

    tossiche. Meritano un approfondimento i mitocondri, corpuscoli cellulari responsabili della

    produzione di energia cellulare tramite il processo di respirazione cellulare, di ipotetica

    derivazione endosimbiotica2. Sono costituiti da una membrana esterna e da una interna,

    fittamente ripiegata su se stessa e immersa in una sostanza detta matrice. Nella membrana

    interna sono presenti diversi enzimi che servono per le catene di reazione che producono

    ATP, che rappresenta la fonte di energia per il metabolismo della cellula, attraverso il

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    Teoria dell’endosimbiosi: secondo la quale la cellula eucariote deriverebbe da una simbiosi, avvenuta nel corso

    dell'evoluzione, tra piccole cellule procariote provviste di plastidi e una cellula più grande che le avrebbe inglobate per

    fagocitosi, stabilendo un rapporto di cooperazione. La mutata composizione atmosferica (aumento dell'ossigeno) rese

    vantaggiosa la presenza dei simbionti, capaci di catturare e convertire l'energia luminosa, i quali erano favoriti

    dall'accesso alle sostanze nutritive prodotte dalla cellula ospite. I cloroplasti e i mitocondri delle cellule eucariote

    avrebbero avuto questa origine, essendo derivati da antichi batteri in rapporto simbiotico con antiche cellule

    progenitrici.

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    processo di respirazione cellulare. Sono numerosi nel fegato e nelle cellule muscolari

    scheletriche, dove c’è una intensa attività della cellula e quindi un alto bisogno di ATP.

    Fig.2 Nel passaggio dal citoplasma al mitocondrio

    avviene un’attivazione

    importante: all’acido piruvico

    viene sottratto il suo gruppo

    carbossilico e ciò che rimane

    viene attaccato al Coenzima

    A (trasportatore) che lo

    porterà al ciclo di Krebs.

    Fondamentale per la cellula ed elemento distintivo filogenetico è la presenza di una zona

    nucleare ben definita con una parete nucleare nella quale sono numerosi i pori attraverso si

    ha il passaggio selettivo delle sostanze. All’interno del nucleo è presente il nucleolo,

    condensazione di RNA3, il nucleoplasma che è la sostanza simile al citoplasma per la

    cellula, e la cromatina che costituisce il DNA. Si trovano anche delle proteine chiamate

    istoni che servono a far si che il DNA si possa avvolgere, diventare più compatto e prendere

    la forma dei cromosomi. Dal dna si decide quali proteine debbano essere prodotte dalla

    cellula e anche quante, ed è per questo che si dice che il DNA e il nucleo controllano la

    struttura e la funzione della cellula, in quanto decidono quali e quante proteine produrre.

    Siccome contiene il DNA è responsabile dell’ereditarietà e della trasmissione

    dell’informazione genetica da una cellula all’altra, e dirige la sintesi proteica e tutte le

    attività cellulari. Il nucleolo si trova all’interno del nucleo, è costituito da RNA e da

    3 L’Rna ha un filamento unico, può formare delle anse e dei ripiegamenti nei quali si determinano i legami tra le basi

    azotate. È presente l’uracile al posto della timina, lo zucchero è il ribosio. Attraverso i pori della membrana l’RNA

    fuoriesce e va nel citoplasma, i ribosomi si uniscono per tradurre l’RNA messaggero e scorrono rispetto a questo per

    tradurlo e poter così formare la proteina. Ciascun codone corrisponde ad un amminoacido che si lega all’ RNA transfert

    per mezzo del suo anticodone. I ribosomi formano catene polipeptidiche identiche. La traduzione avviene nel

    citoplasma.

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    proteine. In esso viene sintetizzato sia l’RNA ribosomiale sia le proteine che andranno a

    costituire i ribosomi.

    Essi non sono membranosi, ma compatti e formati da RNA e proteine. Vengono sintetizzati

    nel nucleolo. Ci sono due tipi di ribosomi, i ribosomi liberi sparsi nel citoplasma e quelli

    fissi nel reticolo endoplasmatico rugoso. Quelli fissi producono proteine che vengono

    elaborate nel Golgi ed espulse dalla cellula, invece quelli liberi producono prevalentemente

    proteine che rimangono all’interno della cellula e serviranno al metabolismo cellulare.

    Quando la cellula non è in piena attività di divisione cellulare i ribosomi sono divisi in due

    sub unità, piccola e grande. Solo quando inizia la sintesi delle proteine allora le due sub

    unità si uniscono e formano il ribosoma completo. Vengono chiamati “fabbrica delle

    proteine della cellula”.

    Solo durante la divisone cellulare si può notare il centrosoma; una zona del citoplasma dove

    viene diretta la formazione dei microtubuli che costituiscono una parte del citoscheletro

    della cellula e nella stessa parte del centrosoma si generano anche i centrioli che sono

    costituiti da microtubuli. I centrioli sono due per cellula e sono disposti ad angolo retto

    l’uno rispetto all’altro. Sono i responsabili della formazione del fuso mitotico durante la

    mitosi.

    Nel nucleo troviamo il Dna, Trasferisce da una cellula ad un’altra l’informazione genetica.

    Di come una cellula deve essere, d quali funzioni deve svolgere. Come struttura chimica il

    Dna è un polimero di nucleotidi e ha una struttura tridimensionale a doppia elica, è

    costituito da due filamenti uniti tra loro tramite il legame tra le basi azotate. È una sequenza

    di nucleotidi, ciascuno dei quali è formato da uno zucchero ( DNA:desossiribosio; RNA

    :ribosio), dal gruppo fosfato e dalla base azotata che serve proprio per il legame con la base

    azotata con laterale del nucleotide che si trova nel filamento opposto. L’appaiamento tra le

    basi è obbligatorio. Adenina- timina o uracile ( basi pirimidiniche), guanina- citosina (basi

    puriniche). Questo appaiamento è molto importante nel processo della trascrizione del dna .

    Nel dna è contenuto il codice genetico che costituisce l’informazione. Questo codice

    genetico è dato dalla sequenza dei geni che si trova all’interno del dna. A loro volta i geni

    sono segmenti di dna, cioè forniscono l’informazione per una catena peptidica. Le catene

    polipeptidiche sono le proteine, le quali possono essere sia strutturali (proteine di

    membrana ecc…) oppure le proteine strutturali , che catalizzano tutte le funzioni della

    cellula. Un gene contiene circa mille paia di nucleotidi, sede di caratteri ereditari. Le diverse

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    forme nelle quali possiamo vedere il dna in una cellula sono la cromatina, quando il

    filamento di dna è svolto e i cromosomi, costituiti da filamenti di dna avvolti intorno agli

    istoni, proteine deputate all’avvolgimento del dna affinché possa trasformarsi in cromosomi,

    i quali sono indispensabili per la mitosi.

    In una cellula umana somatica ci sono 46 cromosomi, omologhi a due a due. 22 coppie più

    la coppia XX o XY. Quando avviene la mitosi il cromosoma si Divide in due cromatidi

    fratelli, uniti per mezzo del centromero. Il dna della cellula madre si deve duplicare in una

    coppia identica a se stessa da distribuire nelle due cellule figlie. Durante la mitosi i

    cromatidi fratelli si dividono e uno va nella cellula figlia e l’altro cromatidio nell’altra

    cellula figlia. Dal dna all’interno del nucleo l’informazione viene trasferita all’RNA che la

    porta fuori dal nucleo e attraverso i ribosomi vengono formate le proteine. Un gene codifica

    per una data catena polipeptidica che deve formare una certa proteina. Il gene deve aprirsi, il

    doppio filamento si deve separare in due singoli. Sullo stampo di un filamento di dna si

    deve formare un filamento di RNA, ad ogni base presente nel dna ce ne sarà solo una

    corrispondente nel filamento di RNA. L’informazione rimane unica. La sequenza di tre

    nucleotidi si chiama codone. In particolare i processi che avvengono a livello nucleare sono

    la mitosi si ha la divisione di un centromero e ogni cromatidio si separa. Questa replicazione

    avviene solo nel ciclo vitale della cellula, che comprende la cellula matura che si è formata

    tramite la mitosi si ha la formazione di due cellule figlie, ciascuna con una coppia identica

    di DNA. La fase di crescita durante la quale le cellule diventano mature per riprodursi viene

    chiamata G1 e G2 e portano a produzione di tutte quelle sostanze che servono per far

    diventare la cellula matura. Ta una fase G e l’altra c’è la fase S, dove si ha la duplicazione

    del DNA. Alcune cellule dopo la mitosi e quindi la formazione delle due cellule figlie non si

    dividono, maturano e vanno nello stadio di zero o quiescenza.

    In sintesi, nella Mitosi le fasi sono:

    divisione del materiale genetico.

    Citodieresi: divisione della cellula. Avviene in tutte le cellule del corpo e quindi in

    tutte le cellule somatiche.

    All’inizio della mitosi la cromatina si addensa attorno agli istoni e costituisce i cromosomi,

    tipico della profase nella quale si ha la comparsa del fuso mitotico, la scomparsa della

    membrana nucleare e il nucleolo,inoltre i centrioli si distribuiscono in due poli opposti e il

    tutto avviene nel nucleo .I cromatidi si ancorano al fuso mitotico e vengono disposti nella

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    piastra metafisica durante La seconda fase mitotica, la metafase, in cui i cromosomi sono

    perfettamente allineati. Poi durante l’anafase il centromero si divide e cromatidi fratelli si

    separano 46 da una parte e 46 dall’altra, la telofase prevede la formazione della membrana

    cellulare intorno al DNA che i srotola formando la cromatina e si formano le due cellule

    figlie.

    Nella Meiosi avviene solo nelle cellule riproduttive immature che devono diventare mature

    (gameti). L’interfase comprende la fase G1, S, G2 dove si ha la replicazione del DNA e dei

    centrioli responsabili della formazione del fuso mitotico, ed è precedente all’inizio della

    mitosi, nella quale il DNA è sottoforma di cromatina.

    Viene anche chiamata divisione riduzionale perché da una cellula immatura che ha 46

    cromosomi si arriva a cellule mature che ne hanno 23, che prendono il nome di gameti.

    Prevede una meiosi uno e una meiosi due. Le differenze principali tra meiosi e mitosi è il

    fatto che da 46 cromosomi si giunge a 23 e nella metafase meiotica si avrebbero i

    cromosomi omologhi sono appaiati perché tra le braccia di uno e dell’altro si verifica il

    cosiddetto “crossing over”, cioè si ha uno scambio di materiale genetico in modo da

    garantire la variazione genetica. Nella meiosi uno il numero dei cromosomi si dimezza ma i

    cromatidi rimangono uniti che si dividono nella meiosi due, simile alla mitosi.

    Ciglia, microvilli e flagelli, sono estroflessioni cellulari. I primi due, più piccoli mentre il

    flagello si trova solo nelle cellule riproduttive maschili, ed è l’estroflessione più lunga,

    rappresenta il prolungamento della membrana cellulare, con una struttura differente dalle

    ciglie, le quali infatti, possiedono una struttura “9 + 2”, cioè 9 coppie di microtubuli

    disposte circolarmente in periferia e due coppie centrali. Le ciglia sono un po’ più lunghe,

    hanno un movimento ondeggiante che serve a trasportare sostanze che si trovano sulla

    superficie cellulare, si trovano sugli epiteli delle vie respiratorie e con il loro movimento

    trasportano il muco che si trova sulle cellule di questi epiteli. I flagelli servono allo

    spostamento della cellula in un liquido; invece i microvilli sono delle estroflessioni della

    membrana cellulare digitiformi, all’interno hanno il citoplasma e dei microfilamenti che ne

    conferiscono la struttura e hanno come funzione quella di aumentare la superficie assorbente

    della membrana cellulare, e si troveranno nell’epitelio dell’intestino che ha la funzione di

    assorbire.

    Le cellule non sono organismi a sé stanti, ma comunicano fra loro attraverso delle giunzioni,

    dette appunto cellulari, che si trovano tra cellule diverse e sono di tre tipi:

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    desmosomi, sono filamenti intermedi che servono ad unire le membrane cellulari di

    due cellule adiacenti, sono dei ponti che creano una saldatura e si trovano nei tessuti

    epiteliali tra le cellule della pelle.

    giunzioni comunicanti o gap, in questo caso tra le membrane di cellule adiacenti si

    formano proprio dei ponti, c’è un diretto contatto tra il citoplasma di una cellula e

    quello della cellula adiacente e lo troviamo tra cellule muscolari cardiache. Esse

    permettono il passaggio di piccole molecole tra le cellule adiacenti. Quasi tutte le

    cellule animali che vengono in contatto tra di loro hanno regioni di giunzioni

    caratterizzate da uno spazio ben definito riempito di un complesso di particelle (fig.3).

    Le particelle cilindriche all'interno di questo spazio rendono questo tipo di giunzione

    un canale di comunicazione cellula-cellula, in maniera che il citoplasma di una cellula

    si continui con quello dell'altra. Un fine raggiunto dalle cellule per mezzo delle

    giunzioni serrate è il trasferimento da cellula a cellula di molecole, in maniera che la

    cellula incapace di sintetizzarle può riceverle dalla cellula vicina. Questo fenomeno è

    definito come accoppiamento metabolico o cooperazione metabolica. I canali delle

    giunzioni serrate si chiudono quando la concentrazione dello ione Ca2+

    supera un certo

    livello.

    Fig.3. Giunzioni serrate. Si formano proprio dei ponti, c’è un diretto contatto tra il citoplasma di una cellula e quello della cellula adiacente e lo troviamo tra cellule muscolari cardiache. Esse permettono il passaggio di piccole

    molecole tra le cellule adiacenti.

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    L’ultimo tipo di giunzione cellulare è quella stretta (tight junction). In questo caso le

    membrane vengono attaccate l’una all’altra e niente può passare tra una cellula e

    l’altra. Si trova per esempio nell’epitelio dell’intestino perché nell’intestino le

    sostanze ingerite vengono assorbite ed elaborate nella digestione, questo fa si che le

    sostanze che passano nell’intestino vengano assorbite solo dalla cellula e non passino

    tra una cellula e l’altra perché andrebbero perse. Le giunzioni strette sigillano le

    cavità del corpo. Esse sono costituite da bande sottili che circondano completamente

    la cellula e sono in contatto con un'altra cellula. La giunzione stretta è formata da una

    rete di creste costituite da particelle sottostanti i microvilli. Queste creste appaiono

    sulla faccia citoplasmatica della cellula. Le particelle sferiche di circa 3-4 nm di

    diametro, sono di natura proteica. Le particelle proteiche determinano la fusione delle

    membrane plasmatiche creando una barriera impenetrabile.

    Fig.4. Mostra la giunzione stretta a livello intestinale fra i microvilli assorbenti che sigillano le cavità presenti

    con file di corpuscoli proteici che creano una barriera impermeabile.

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    1.2. Cenni di istologia

    Iniziamo la trattazione di questo paragrafo con la definizione di tessuto, ovvero un

    addensamento di cellule, simili per forma, struttura e funzioni , di cui sono formati

    gli organi. Sono classificabili per gli stessi criteri della definizione, in:

    Tessuto epiteliale o epitelio

    Gli epiteli ricoprono le superfici esterne ed interne del corpo e sono pertanto detti epiteli

    di rivestimento. L’epitelio è un tessuto formato da cellule contigue, fittamente stipate fra

    loro, con interposta una scarsissima sostanza extracellulare amorfa che occupa sottili

    interstizi cellulari di 15-30 nm. Esso forma lamine cellulari o amassi solidi e poggia su di

    una membrana basale che lo separa dal tessuto connettivo è costituito da cellule

    polarizzate, tenacemente adese fra loro ed alla sottostante membrana o lamina basale

    grazie ad alcune particolari specializzazioni di membrana definite strutture di

    giunzione. Gli epiteli non sono vascolarizzati. In relazione alle diverse richieste funzionali si

    registrano marcate differenze di struttura fra diversi tessuti epiteliali, che possono

    essere classificati in:

    Epiteli semplici: costituiti da un solo strato di cellule e suddivisi, in base all’aspetto

    morfologico di queste, in:

    Pavimentoso semplice,

    Cubico semplice,

    Cilindrico semplice,

    Epiteli stratificati o composti: costituiti da 2 o più strati cellulari e denominati, in

    base alla morfologia delle loro cellule superficiali:

    Pavimentoso pluristratificato,

    Cilindrico pluristratificato.

    Epiteli pavimentosi semplici

    Consideriamo un caso particolare, l’endotelio, cioè un epitelio pavimentoso semplice che

    riveste il lume dei vasi sanguigni; suo compito è principalmente quello di regolare il

    passaggio di molecole ematiche ai tessuti circostanti il capillare sanguigno. Esso regola

    dunque la cosiddetta permeabilità vascolare.

    Epiteli cilindrici semplici

    http://glossario.paginemediche.it/it/glossario_popup/glossario/search.aspx?text=Cellula&ispopup=1http://glossario.paginemediche.it/it/glossario_popup/glossario/search.aspx?text=Organo&ispopup=1

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    Epitelio intestinale: è un epitelio cilindrico semplice che riveste il lume

    dell’intestino tenue.

    Esso è deputato a 2 funzioni principali: l’una assorbente, l’altra digestiva. La prima si

    esplica mediante il completamento della digestione dei cibi che vengono immessi dallo

    stomaco attraverso il piloro, la seconda permettendo ai prodotti finali della digestione di

    passare in maniera selettiva ai vasi sanguigni e linfatici.

    La struttura dell’epitelio intestinale è dunque specializzata all’assorbimento e le sue cellule,

    gli enterociti, sono perciò polarizzate. La polarità degli enterociti è tale per cui il polo

    superficiale o apicale, rivolto verso il lume intestinale, è specializzato all’assorbimento

    dei prodotti della digestione. Il polo basale, o profondo, che si affaccia sulla sottostante

    tonaca propria, intervene viceversa nel trasporto delle sostanze assorbite verso la rete

    capillare sanguigna o linfatica sottostante. Alla polarità funzionale degli enterociti,

    corrisponde una loro ben precisa differenziazione strutturale delle due estremità,

    basale ed apicale.

    All’interno di ogni apparato è presente un tessuto che interconnette due tipologie di

    comunicazione fisiologiche; quella chimica svolta da ormoni e neurotrasmettitori e quella

    elettrica fondata su potenziali di membrana e reti neurali; il tessuto ghiandolare.

    Le ghiandole elaborano e riversano all’esterno, mediante il processo di secrezione,

    sostanze

    quali enzimi ormoni glico- lipidici. Nella ghiandola, il parenchima o epitelio

    ghiandolare ha funzione di secrezione, mentre il tessuto connettivo interstiziale o stroma

    ha funzione meccanica di sostegno, ed in esso decorrono i vasi sanguigni ed i nervi che

    nutrono ed innervano le cellule connettivali e quelle epiteliali.

    In base al destino che subisce il secreto, le ghiandole possono distinguersi in:

    Ghiandole a secrezione esterna od esocrine,

    Ghiandole a secrezione interna od endocrine.

    Le ghiandole esocrine riversano il loro secreto sulla superficie esterna del corpo o in

    cavità che comunque comunicano coll’esterno. Le ghiandole endocrine sono invece

    sprovviste di dotti escretori e riversano i loro prodotti di secrezione, gli ormoni,

    direttamente nei capillari sanguigni.

    Possono essere classificate in:

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    olocrine: l’intera cellula, dopo aver accumulato il prodotto di sintesi, è eliminata,

    costituendo essa stessa il secreto);

    apocrine: il citoplasma apicale degli elementi secernenti viene eliminato insieme al

    prodotto di secrezione;

    merocrine: soltanto il prodotto di secrezione, contenuto in un granulo di secrezione,

    viene

    riversato all’esterno con le modalità note; la modalità di secrezione merocrina è la più

    comune.

    Le ghiandole endocrine hanno origine dall’epitelio superficiale come cordoni di cellule che

    proliferano ed invadono il tessuto connettivo. Esse, essendo prive di dotti escretori,

    secernono il loro prodotto, gli ormoni, direttamente nei capillari sanguigni. Gli ormoni,

    trasportati dal sangue, influenzano organi e tessuti situati a distanza.

    I tessuti connettivi comprendono tessuti diversi accomunati dalla organizzazione strutturale

    e/o dall’origine mesenchimale. A differenza degli epiteli, nei connettivi le cellule sono

    separate fra loro da un’abbondante sostanza o matrice intercellulare, costituita da fibre e

    da sostanza amorfa che contiene il liquido tissutale od interstiziale. Le fibre del tessuto

    connettivo appartengono e 3 diverse categorie:

    fibre collagene

    fibre reticolari

    fibre elastiche.

    Il tessuto connettivo lasso è il tipo più diffuso di connettivo. Esso è caratterizzato

    dall’abbondanza sostanza amorfa rispetto alla componente cellulare e alle fibre. Costituisce

    la lamina propria delle mucose, lo stroma di tutti gli organi, le tonache dei vasi sanguigni,

    avvolge le fibre muscolari e nervose, ecc.

    Fig. 5. La fotografia al microscopio mostra, dopo

    opportune colorazioni, tre tipologie di tessuto che si

    presentano sovrapposti e nel loro insieme definiscono (in

    questo caso) una porzione di apparato tegumentario.

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    Nel tessuto connettivo denso le fibre predominano sulle componenti cellulare ed amorfa, e

    sono raccolte in grossi fasci stipati, con decorrenza regolare o senza orientamento ordinato.

    Fibre collagene ordinatamente disposte predominano nel tessuto connettivo denso regolare,

    in cui le proprietà meccaniche prevalgono rispetto a quelle trofiche e di difesa. È presente

    nelle strutture sottoposte a trazione, quali i tendini. Il tessuto connettivo denso

    irregolare è riscontrabile nel derma, nella capsula fibrosa di molti organi, nelle guaine di

    tendini, e di grossi nervi, e nel periostio. Nel tessuto connettivo denso elastico o giallo,

    presente ad esempio nei legamenti gialli delle vertebre, le fibre elastiche predominano

    nettamente su quelle collagene.

    La cartilagine è un tessuto connettivo di sostegno costituito da cellule (condroblasti e

    condrociti), fibre e matrice amorfa. È caratterizzata da solidità, flessibilità e capacità di

    deformarsi. Essa forma l’abbozzo dello scheletro nello sviluppo e permane nell’adulto in un

    numero limitato di sedi.

    È rivestita da un connettivo fibroso denominato pericondrio ed è sprovvista di vasi e nervi.

    Essa può svolgere, nelle diverse sedi e momenti, funzioni di scheletro di sostegno, di

    consentire il movimento reciproco dei capi articolari, di costituire l’abbozzo delle ossa e

    di consentire l’accrescimento in lunghezza delle stesse. Se ne distinguono 3 tipi:

    cartilagine ialina, cartilagine elastica, cartilagine fibrosa.

    La cartilagine ialina costituisce l’abbozzo dello scheletro nell’embrione e nel feto, la

    cartilagine di coniugazione nell’accrescimento e riveste le superfici articolari e forma le

    cartilagini costali, gli anelli tracheali, ecc. I condroblasti iniziano a secernere proteoglicani e

    costituenti delle fibre, rimanendo inclusi nella matrice in cavità denominato lacune.

    Quando l’attività biosintetica del

    condroblasto diminuisce, la cellula assume il nome di condrocito.

    La cartilagine elastica Si ritrova nell’orecchio esterno ed in poche altre sedi. È di colore

    giallastro ed è composta da fitti fasci di fibre elastiche, ramificati ed anastomizzati, che

    occupano quasi per intero la sostanza intercellulare, peraltro non particolarmente

    abbondante.

    L’ultima tipologia di cartilagine è quella fibrosa, principalmente riscontrabile nei dischi

    intervertebrali, nella sinfisi pubica, nella zona d’inserzione sull’osso dei tendini. È

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    sostanzialmente una forma di transizione fra il tessuto connettivo denso e la cartilagine

    ialina.

    Esponendo il tessuto cartilagineo, appare inopportuno non trattare, sebbene in forma

    sintetica, il tessuto osseo; una forma specializzata di tessuto connettivo caratterizzata dalla

    mineralizzazione della matrice cellulare.

    Esso è costituito da cellule, gli osteociti, e da matrice intercellulare. L’osso deve la

    sua robustezza alla matrice organica e la sua durezza alla matrice minerale. La matrice

    organica è formata da fibre collagene di tipo I immerse in una matrice amorfa, che contiene

    altre proteine.

    La matrice minerale ha composizione simili all’idrossiapatite [Ca (PO)(OH)].

    Il periostio è il tessuto che riveste superficialmente le ossa ed è rivestita da una guaina

    connettivale.

    L’endostio appare come una sottile lamina di cellule pavimentose che riveste tutte le cavità

    interne delle ossa. Le cellule osteoprogenitrici: esse sono le cellule staminali del tessuto

    osseo che permangono, anche nell’adulto, sulle superfici libere dell’osso maturo. Gli

    osteoblasti sono localizzati in corrispondenza delle superfici in via di espansione delle ossa;

    essi sintetizzano e secernono i componenti organici della matrice intercellulare e

    regolano anche la deposizione dei sali minerali. Gli osteociti sono le cellule più numerose

    dell’osso maturo; sono cellule quiescenti, accolte nelle lacune ossee e fornite di

    prolungamenti citoplasmatici. Infine gli osteoclasti sono sincizi4 polinucleati forniti di

    attività erosiva nei confronti della matrice ossea, accolti in fossette scavate sulla superficie

    delle trabecole ossee, dette lacune di Howship. La superficie degli osteoclasti ricolta verso

    l’osso presenta un orletto striato costituito da esili prolungamenti citoplasmatici. Cartilagine,

    ossa ed infine il tessuto muscolare costituiscono nel loro insieme l’apparato locomotore.

    Il tessuto muscolare è responsabile del movimento volontario ed involontario di organi ed

    apparati. Questa funzione è svolta grazie alla proprietà delle contrattilità, caratteristica

    delle sue cellule. Nei vertebrati si riconoscono 3 categorie di tessuto muscolare:

    tessuto muscolare striato scheletrico,

    tessuto muscolare striato cardiaco,

    tessuto muscolare liscio.

    4 In istologia, massa protoplasmatica multinucleata derivante dalla riunione secondaria di cellule in un primo tempo

    separate.

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    Il tessuto muscolare striato scheletrico Il tessuto muscolare striato scheletrico è costituito da

    elementi di forma irregolarmente cilindrica, di dimensioni notevoli, denominati fibra

    muscolare, che formano un sincizio polinucleato. Nel muscolo sono presenti rivestimenti

    connettivali che formano l’epimisio, il perimisio e l’endomisio che si continuano nel

    tendine, mediante il quale il muscolo si connette con l’osso. La fibra muscolare

    presenta una evidente striatura trasversale, ed è rivestita da una membrana plasmatica che

    insieme al suo rivestimento glicoproteico forma il sarcolemma. Il citoplasma, detto

    sarcoplasma, contiene numerosi nuclei disposti alla periferia, numerosi apparati di Golgi

    in posizione paranucleare, gocce lipidiche, particelle di glicogeno, e dal reticolo

    sarcoplasmatico, che corrisponde al reticolo endoplasmatico liscio di altre cellule ed è un

    sistema molto elaborato che circonda le miofibrille.

    Come ultimo tessuto e a conclusione del capitolo, si descrive il sangue.

    Molto spesso viene considerato un fluido piuttosto che un tessuto costituito da una

    componente liquida, denominata

    plasma, e da una componente corpuscolare, contenente i cosiddetti elementi figurati del

    sangue5. Osso circola ininterrottamente all’interno dell’apparato cardiovascolare e

    provvede a mantenere

    l’omeostasi generale dell’organismo. Il plasma è la componente liquida del sangue in cui

    sono disciolti i costituenti necessari per il metabolismo cellulare.

    5 Gli elementi figurati del sangue sono: i globuli rossi, strutture nucleate, i globuli bianchi, e frammenti

    citoplasmatici, le piastrine. I globuli rossi o eritrociti sono gli elementi del sangue specializzati nel trasporto dei

    gas respiratori O e biossido di carbonio.

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    2° CAPITOLO

    LE LEVE E LE ARTICOLAZIONI

    1.1. Componenti anatomico – funzionali dell’ articolazione

    Le articolazioni sono strutture anatomiche, a volte anche complesse, che mettono in

    reciproco contatto due o più ossa. Per evitare fenomeni degenerativi dovuti all’usura, nella

    maggior parte dei casi si tratta di un contatto non diretto, ma mediato da tessuto fibroso o

    cartilagineo e/o da liquido.

    Nel corpo umano esistono moltissime articolazioni (360 circa), che si distinguono per forma

    e grado di mobilità. Alcune di esse, come quelle che costituiscono la volta cranica, hanno

    una possibilità di movimento nulla. La maggior parte delle articolazioni rientra tuttavia nella

    categoria delle mobili caratterizzate da una struttura anatomica particolare. Esse sono

    infatti costituite da diversi elementi:

    – le superfici articolari di due ossa;

    – lo strato di tessuto cartilagineo;

    – la capsula articolare;

    – la cavità articolare;

    – la membrana sinoviale;

    – la sinovia;

    – i legamenti intrinseci.

    Nel loro insieme, il compito delle articolazioni è di tenere uniti i vari segmenti ossei, in

    modo tale che lo scheletro possa espletare la sua funzione di sostegno, mobilità e

    protezione.

    Le articolazioni si suddividono, dal punto di vista strutturale, in:

    – Articolazioni fibrose: le ossa sono unite da tessuto fibroso;

    – Articolazioni cartilaginee: le ossa sono legate da cartilagine;

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    – Articolazioni sinoviali: le ossa sono separate da una cavità, oltre che essere legate per

    mezzo di strutture.

    La suddivisione più conosciuta è tuttavia quella su base funzionale. Le ossa dello scheletro

    umano sono connesse infatti per mezzo di articolazioni a cui sono consentiti movimenti di

    vario tipo e grado. Le articolazioni si suddividono, dal punto di vista funzionale, in:

    – Articolazioni immobili o sinartrosi: legano strettamente i capi ossei, come una cerniera

    lampo chiusa, tanto da impedirne i movimenti;

    – Articolazioni ipomobili o anfiartrosi: legano due superfici articolari, ricoperte da

    cartilagine, tramite legamenti interossei; tra le due superfici c’è un disco fibrocartilagineo

    che permette soltanto determinati movimenti, che sono limitati;

    – Articolazioni mobili o diartrosi: permettono un ampio range di movimento, in una o più

    direzioni dello spazio (ginocchio, spalla, dita…).

    Le articolazioni sono dotate di una cavità articolare e i

    capi ossei sono rivestiti dalla cartilagine articolare il cui

    significato è quello di rendere scorrevole il movimento

    articolare.

    All’interno dello spazio articolare è presente una piccola

    quantità (virtuale) di liquido sinoviale, detto anche

    sinovia, che lubrifica e nutre la cartilagine ed è prodotto

    dalla membrana sinoviale. Quest’ultima riveste la

    restante parte della cavità articolare ed è rivestita a sua volta all’esterno dalla capsula

    articolare, una struttura resistente, di natura fibrosa, che avvolge le articolazioni ed è

    rinforzata dai legamenti che danno stabilità all’articolazione. Anche i tendini, che

    costituiscono la parte finale dei muscoli e si inseriscono sull’osso, contribuiscono al

    movimento articolare di flessione, estensione, lateralità e roteazione.

    Infine, altre strutture presenti solo in alcune articolazioni sono i dischi e i menischi che

    fungono da ammortizzatori (es. ginocchio)

    In tutti i casi, la struttura di un’articolazione ne influenza il grado di mobilità.

    Esaminiamo uno alla volta gli elementi articolari coinvolti:

    Le superfici articolari di due ossa; sono indispensabili per definire sia

    un’articolazione, sia per definire la tipologia di essa, in funzione del movimento

    http://www.noene-italia.com/ginocchio/http://www.noene-italia.com/membrana-sinoviale/http://www.noene-italia.com/ginocchio/

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    possibile. Le ossa, soprattutto le estremità delle ossa più lunghe, non sono importanti

    solo a livello articolare, ma hanno funzione ematopoietica, ovvero di produrre globuli

    rossi nel midollo rosso situato appunto, nelle estremità ossee (epifisi). Essi vengono

    poi immessi nel circolo sanguigno attraverso i canicoli (canali di Havers) che

    costellano la superficie ossea. Non voglio dilungarmi troppo sull’aspetto osseo,

    poiché anche se fondamentale, aprirebbe una digressione troppo estesa ai fini del

    paragrafo.

    Lo strato cartilagineo può essere uno strato di cartilagine ialina, nota anche

    come cartilagine d'incrostazione o cartilagine articolare; è soffice, compressibile,

    estensibile e deformabile.

    La sua funzione è paragonabile ad un cuscinetto ammortizzatore, capace di

    salvaguardare i rapporti articolari e permettere il movimento. La cartilagine articolare

    è un tessuto elastico dotato di notevole resistenza alla pressione e alla trazione (è un

    connettivo specializzato con funzione di sostegno). Ha un colorito bianco perlaceo e

    riveste le estremità delle ossa articolari proteggendole dall'attrito. La sua funzione è

    simile a quella di un cuscinetto ammortizzatore che con la sua azione salvaguardia i

    normali rapporti articolari e permette il movimento.

    Queste importanti caratteristiche sono permesse dalla sua particolare costituzione

    chimica. All'interno della cartilagine esistono infatti delle cellule, chiamate

    condrociti, che specie quando sono giovani

    (condroblasti) - hanno il compito di produrre la sostanza

    fondamentale.

    Tale sostanza è costituita prevalentemente da acqua, da

    fibre collageniche, da proteoglicani, da acido

    ialuronico e da glicoproteine. Al di là dei nomi ciò che è

    importante ricordare è che la cartilagine è composta da una parte fluida (che le dona

    la capacità di assorbire i traumi) e da una parte solida (che ne aumenta la resistenza).

    Tali fasi interagiscono tra loro per garantire un cinematismo senza attrito e

    proteggere le superfici articolari dall'usura.

    Il tessuto cartilagineo non è vascolarizzato in quanto privo di capillari sanguigni. La

    cartilagine (ad esclusione della cartilagine ialina articolare) è circondata da uno strato

    http://www.my-personaltrainer.it/cartilagine.html

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    di tessuto connettivo denso (pericondrio), ricco di vasi sanguigni, che le permettono

    di nutrirsi per diffusione. Il nutrimento dei condrociti per diffusione è un processo

    lento e molto meno efficace della circolazione sanguigna; per questo motivo le

    capacità rigenerative di questo tessuto sono bassissime. Nel nostro corpo si

    distinguono comunemente tre tipi di tessuto cartilagineo con caratteristiche e

    funzioni differenti:

    cartilagine ialina: di color bianco-bluastro è il tipo di cartilagine più abbondante.

    Nel feto costituisce gran parte dello scheletro e mano a mano che si cresce viene

    quasi completamente sostituita da tessuto osseo*. Nell'adulto costituisce le cartilagini

    costali, nasali, tracheali, bronchiali e laringee e ricopre le superfici articolari. La

    cartilagine è rivestita da un sottile involucro di tessuto connettivo compatto chiamato

    pericondrio. In prossimità delle superfici articolari tale tessuto scompare.

    cartilagine elastica: di colore giallo opaco presenta particolari caratteristiche

    di elasticità. Costituisce l'impalcatura del padiglione auricolare, dell'epiglottide, della

    tuba di Eustacchio e di alcune cartilagini laringee.

    cartilagine fibrosa: di colore biancastro è particolarmente resistente alle sollecitazioni

    meccaniche. Si trova nel punto di inserzione di alcuni tendini sullo scheletro,

    nei dischi intervertebrali, nei menischi di alcune articolazioni (ginocchio) e nella

    sinfisi pubica.

    capsula articolare. E’ la Membrana costituita da robusto tessuto connettivo che

    avvolge l'articolazione come una cuffia. Contiene i capi articolari ossei, i legamenti, i

    menischi e la membrana sinoviale con funzioni di stabilizzazione meccanica e di

    protezione. E' innervata, In profondità si addossa allo strato fibroso della capsula la

    membrana sinoviale, che può essere semplice, se costituita da un esile strato di

    connettivale fibrillare con poche cellule superficiale, pochi vasi e pochi nervi, oppure

    complessa, se costituita da connettivale reticolare ricco di istiociti, cellule granulose

    basofile, plasmacellule, monociti, linfociti, prende un colore giallo-rosso è spesso

    intercalata da grasso e può sollevarsi a formare pieghe, frange o villi. La sinoviale

    esposta verso le cavità articolari è formata da pochi strati di cellule immerse nella

    sostanza amorfa.

    http://www.my-personaltrainer.it/fisiologia/trachea.htmlhttp://www.my-personaltrainer.it/fisiologia/bronchi-bronchioli.html

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    cavità articolare. E’ lo spazio compreso tra i capi articolari e la capsula articolare, la

    sua ampiezza è variabile e spesso la forma è complicata dalla presenza di recessioni

    come avviene ad esempio nell’articolazione del ginocchio. Il liquido sinoviale invece

    si distribuisce come un velo sottile sulle cartilagini articolari, garantendone

    lubrificazione e nutrizione. Il suo volume varia in rapporto all’ampiezza della cavità

    ed è arricchito dalle secrezioni delle cellule della membrana sinoviale. E’ ricco di

    complessi glicoproteici, prevalentemente mucopolisaccaridi rappresentati da acido

    ialuronico. E’ giallo, limpido e mucoso.

    la sinovia. Produce il liquido sinoviale che ha funzione ammortizzante e nutriente,

    facilita lo scorrimento tra le due superfici articolari e viene secreto dalla membrana,

    detta appunto sinoviale. In sostanza, ha la stessa funzione di un lubrificante su di un

    cuscinetto. La membrana sinoviale, che tappezza internamente la capsula articolare,

    delimita lo spazio articolare immerso nel liquido vischioso che essa produce

    (denominato, appunto, liquido sinoviale). Riveste le porzioni ossee contenute entro la

    cavità articolare, ma si arresta lungo i contorni delle cartilagini di incrostazione, le

    quali sono sprovviste di rivestimento (manca anche il pericondrio. La membrana

    sinoviale è innervata e ricca di vasi sanguigni e linfatici (per facilitare la produzione

    della sinovia ed il riassorbimento di eventuali versamenti intrarticolari).

    legamenti intrinseci. I legamenti sono robuste strutture fibrose che collegano tra loro

    due ossa o due parti dello stesso osso. Nel corpo umano esistono anche legamenti che

    stabilizzano organi specifici come l'utero o il fegato. Queste importanti formazioni

    anatomiche non vanno assolutamente confuse con i tendini, che collegano

    i muscoli alle ossa o ad altre strutture di inserzione. I legamenti hanno funzione

    stabilizzatrice, impediscono cioè che particolari movimenti o forze esterne derivanti

    da traumi, alterino la posizione delle strutture ai quali sono collegati. Nel corpo

    umano i legamenti sono disposti in modo tale da intervenire attivamente soltanto nei

    gradi estremi del movimento, quando l'integrità dell'articolazione è messa in serio

    pericolo. Come i tendini anche i legamenti sono formati da fibre di collagene di tipo I

    che possiedono una grossa resistenza alle forze applicate in trazione. La loro

    elasticità è invece ridotta: nel ginocchio, per esempio, il legamento collaterale

    mediale presenta una resistenza alla rottura di ben 276 kg/cm2 ma può deformarsi

    soltanto sino al 19% prima di rompersi. Si tratta inoltre di un legamento

    particolarmente elastico dato che in media queste importanti strutture anatomiche si

    lacerano se sottoposte ad un allungamento che supera il 6 % della loro lunghezza

    http://www.my-personaltrainer.it/fisiologia/articolazioni.html

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    iniziale. L'elasticità dei legamenti può comunque aumentare grazie a specifici

    esercizi di stretching; non si spiegherebbe altrimenti lo straordinario grado

    di mobilità articolare raggiunto dai contorsionisti.

    1.a. La tavola anatomica della pagina successiva vuole fornire al lettore l’opportunità di

    poter osservare i principali termini anatomici descritti in precedenza nel testo e riuscire a

    collocarne con precisione la posizione all’interno dell’articolazione e poi a completarne la

    descrizione attraverso la rilettura della teoria. Ciò detto, per fornire una mappa visuale che

    permetta di accomodare la conoscenza finora acquisita e cristallizzarla in modo efficace.

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    1.a. TAVOLA ANATOMICA RIASSUNTIVA DEL PARAGRAFO

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    1.2. Storia delle macchine semplici

    L’invenzione e l’uso di particolari accorgimenti tecnici per spostare e sollevare grandi pesi

    dovettero sorgere molto presto nelle grandi civiltà del passato, ma purtroppo assai scarse

    sono le rappresentazioni di tali strumenti che ci sono state tramandate. Non diversa sarebbe

    la situazione per il mondo greco-romano, se non fosse per la disponibilità di alcune opere

    giunte fino a noi, che non solo ci attestano l’utilizzazione di macchine più o meno

    complesse per compiere i suddetti lavori, ma addirittura ci testimoniano l’esistenza di una

    vera e propria disciplina scientifica che si occupava di spiegare le cause del loro

    funzionamento.

    Con i Problemi meccanici (3°sec. a.C.), riconosciuti oggi come opera non attribuibile ad

    Aristotele, ma sicuramente proveniente dalla scuola peripatetica, abbiamo il primo tentativo

    di ricondurre a un principio di carattere matematico unitario il funzionamento delle

    macchine semplici (leva, argano, sistemi di carrucole, cuneo). Punto di partenza della

    riflessione sulle macchine nel pensiero antico, questo testo non sembra però avere esercitato

    un grande influsso nel corso delle epoche successive, perlomeno fino al 16° secolo. Fu

    infatti in seguito al grande lavoro di recupero delle opere dell’antichità messo in opera

    durante il Rinascimento, che esso divenne oggetto di studio approfondito soprattutto nella

    penisola italiana, dove si trasformò in uno degli elementi portanti della rinascita della

    ‘meccanica’ antica.

    Risultato finale di tale processo di recupero fu la nuova sistemazione teorica della disciplina

    operata da Guidobaldo Dal Monte (1545-1607) nel Mechanicorum liber (1577), una

    sistemazione che passava attraverso uno studio approfondito dei testi di Archimede, una

    critica dettagliata della teoria dell’equilibrio nelle bilance proposta nella scientia de

    ponderibus di Giordano Nemorario (13° sec.), e infine attraverso la valorizzazione del

    contenuto del libro VIII delle Collezioni matematiche di Pappo di Alessandria (3° sec. d.C.),

    libro che ingloba alcuni lunghi frammenti della Meccanica di Erone, un’opera trasmessaci

    solo in arabo e recuperata soltanto alla fine del 19° secolo. In quest’ultimo testo si trova, tra

    l’altro, la trattazione più articolata dell’ultima macchina semplice individuata dagli antichi:

    la vite. L’impostazione archimedea esemplificata nel Mechanicorum liber tendeva però a

    escludere dall’analisi teorica uno degli aspetti essenziali presenti nei Problemi meccanici,

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    vale a dire la riflessione sul movimento e sulle diverse ‘velocità’ riscontrabili nelle singole

    componenti delle macchine semplici. Pur rimanendo un elemento importante per la

    comprensione del modo di operare di tali macchine, il moto di fatto non rappresentava più il

    punto di riferimento fondamentale con cui affrontare la spiegazione del loro funzionamento.

    Di fronte a tale indirizzo di ricerca, Galileo Galilei (1564-1642) e gli altri autori italiani del

    17° sec. cercheranno invece di trovare una nuova forma di collegamento tra la ‘scienza del

    moto’, allora fondata su nuove basi, e la teoria dell’equilibrio di derivazione archimedea.

    Vennero così a imporsi nuovi concetti, alcuni più chiaramente definiti, per es. il concetto di

    ‘momento statico’, altri ancora non pienamente analizzati in tutte le loro implicazioni: si

    pensi all’idea di ‘velocità virtuale’, che diverrà nel Settecento uno dei principi fondamentali

    della meccanica.

    Alla fine di questo lungo processo storico lo studio del funzionamento delle macchine

    semplici aveva quindi di fatto perso parte della sua importanza a livello teorico, ma

    rimaneva comunque propedeutico a ogni ulteriore ricerca in campo meccanico. Dal punto di

    vista della storia della scienza e della tecnica esso resta invece ancora fondamentale per

    comprendere la formazione, non solo della scienza moderna, ma anche del problematico

    rapporto tra sapere tecnico dei ‘pratici’ e sapere scientifico dei filosofi naturali.

    Le pagine che seguono cercheranno dunque di mettere in evidenza le difficoltà e la

    molteplicità dei problemi affrontati in tal senso, analizzando molte delle riflessioni svolte

    dai più importanti autori italiani del 16° e 17° sec. su tre di queste macchine semplici (leva,

    argano e cuneo). Per motivi di spazio non verranno presi in considerazione i sistemi di

    carrucole e la vite, ma va comunque ricordato che fu proprio dalla riflessione sui sistemi di

    carrucole che emerse con chiarezza per la prima volta un aspetto essenziale del modo di

    operare di tali macchine, espresso allora più o meno in questi termini: ciò che viene

    guadagnato nella facilità di muovere un peso per un dato spazio, si perde nel tempo

    impiegato per portare a termine il detto movimento.

    Prima di procedere va però brevemente ricordato che tutte queste ricerche condivisero per

    lungo tempo un’idea fondamentale, che postulava la necessità di una riduzione della teoria

    della leva a quella della bilancia, con il conseguente problema di definire una soddisfacente

    teoria dell’equilibrio. Qui, però, ci si asterrà dall’entrare nel merito di tale questione, che

    causò accese polemiche tra fautori delle posizioni archimedee e seguaci della scientia de

    ponderibus medievale. Una trattazione della teoria della bilancia, propedeutica a quella della

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    leva, fu comunque pienamente attuata già nei Problemi meccanici dove, fin dalla prima

    questione, si procedeva a un raffronto tra bilance di dimensioni differenti, anche se in questo

    caso non si parlava di equilibrio, ma si svolgeva un’analisi dei movimenti dei bracci delle

    bilance per riallacciarsi immediatamente alla natura ‘meravigliosa’ della figura circolare,

    posta dall’autore del testo come principio di tutte le macchine. La questione, dunque,

    serviva soprattutto a mostrare le potenzialità esplicative del principio sviluppato e

    dimostrato all’inizio dell’opera, e cioè che ogni punto su un raggio in rotazione si muove

    con velocità diverse perché in possesso di due componenti di moto, una naturale in linea

    retta verso il basso, e una contronatura laterale verso il centro fisso, componente

    quest’ultima che rallenta sempre di più la prima, quanto più ci si avvicina al centro.

    Nei Problemi meccanici pseudoaristotelici, la potenzialità operativa della leva non

    rappresenta solo una delle tante ‘questioni meccaniche’ da risolvere e spiegare, ma assume

    fin dalle frasi iniziali del testo un ruolo paradigmatico: essa evidenzia il valore e l’utilità del

    sapere tecnico, che permette all’uomo di superare in qualche modo alcuni dei limiti

    impostigli dalla natura. La leva diviene così il primo esempio di macchina che suscita la

    ‘meraviglia’, cioè quello stato particolare proprio del soggetto indagatore che si pone a

    ricercare le cause dei fenomeni naturali. Vera e propria chiave di volta di tutta la successiva

    trattazione, la ‘meraviglia’ nasce all’inizio non tanto dalla non conoscenza della causa che

    rende possibile l’operazione, quanto, piuttosto, dal risultato stesso dell’uso della macchina.

    L’uomo con la leva riesce a sollevare grandi pesi, pesi che senza lo strumento non sarebbe

    stato in grado di muovere, e, cosa ancora più stupefacente, «oltretutto con un peso in

    aggiunta: infatti quel medesimo peso che non potrebbe essere mosso senza leva, più

    agevolmente lo si muove con la leva, pur aggiungendosi anche il peso della leva stessa»

    ([Pseudo] Aristotele, Problemi meccanici, a cura di M.E. Bottecchia Dehò, 2000, p. 55). Era

    questo un evidente sovvertimento della relazione sforzo-peso solitamente percepita

    nell’esperienza, nella quale invece si rilevava come le cose di peso ‘minore’ fossero più

    facili da muovere rispetto a quelle di peso ‘maggiore’.

    Questo particolare approccio alla riflessione sulla leva, che caratterizza anche la

    formulazione testuale della questione dedicata a questa macchina, non implica però un

    allontanamento dal principio esplicativo individuato per risolvere i problemi meccanici

    raccolti in quest’opera, vale a dire la figura circolare già utilizzata per spiegare le prime due

    questioni del testo relative alle bilance. Sennonché in questo caso l’autore non si limita a

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    considerare le due parti della leva (fulcro-peso e fulcro-potenza movente) come raggi di

    cerchi di diversa dimensione, e a rilevare che «per effetto di un uguale peso si muove più

    velocemente il punto sul raggio che più dista dal centro» ([Pseudo] Aristotele, Problemi

    meccanici, cit., p. 77), ma cerca nello stesso tempo di stabilire un qualche rapporto tra il

    peso, la potenza necessaria a muoverlo e le loro rispettive distanze dal fulcro. È questo un

    elemento completamente nuovo, che non trova applicazione nelle successive questioni

    dell’opera, e che va quindi attentamente analizzato se si vuole pervenire a una corretta

    ricostruzione dello sviluppo storico della meccanica antica. Il termine greco che indica

    questo rapporto è:

    ἀντιπέπονθεν,

    cioè lo stesso termine che Archimede utilizzerà nella sua opera intitolata Επιπέδων

    ἰσοϱϱοπιῶν (Sui piani equiponderanti), dove nella VI proposizione del I libro dimostra che

    «le grandezze commensurabili sono in equilibrio se sospese a distanze inversamente

    proporzionali ai pesi».

    Come considerare tale coincidenza? Dobbiamo forse inferire che l’autore pseudoaristotelico

    fosse già in possesso della cosiddetta legge archimedea della leva?

    Sebbene alcuni interpreti moderni incorrano in tale inferenza nelle loro traduzioni, noi

    riteniamo che il rapporto qui individuato sia assai meno determinato, e che quindi la parte

    finale della questione relativa alla leva inserita nei Problemi meccanici possa essere così

    tradotta:

    Pertanto il peso che viene mosso sta a quello che muove allo stesso modo che la distanza

    alla distanza; ma sempre quanto maggiore sarà la distanza dal fulcro tanto più agevole

    diverrà il movimento. La causa è quella detta precedentemente: ciò che è più distante dal

    centro descrive un cerchio maggiore; cosicché ciò che muove con la medesima forza si

    sposterà di più quanto più sarà lontano dal fulcro (per il testo greco si veda [Pseudo]

    Aristotele, Mechanica, a cura di M.E. Bottecchia Dehò, 1982, pp. 113-14).

    Non si può certamente sostenere che qui sia espresso con chiarezza il tipo di rapporto

    esistente tra il peso, la potenza movente e le loro rispettive distanze dal fulcro. Vi è quindi

    su questo punto una sostanziale differenza tra quanto sostenuto nei Problemi meccanici e

    quanto successivamente dimostrato da Archimede. Questa diversità venne in parte

    riconosciuta dai numerosi autori che studiarono e commentarono le suddette opere nel corso

    del 16° secolo. Impossibilitati a trovare nella tradizione un qualche legame tra le due

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    posizioni, essi spesso evitarono di approfondire questo aspetto, oppure immaginarono una

    diretta successione storica, in cui da una prima ancora imprecisa conoscenza della legge

    della leva, si passava successivamente a una quantificazione rigorosa basata sulla

    dimostrazione geometrica. È questa di fatto l’interpretazione che diede Guidobaldo Dal

    Monte, cioè l’autore che apportò il primo reale ampliamento alla teoria della leva

    tramandataci dai testi dell’antichità. Per dirla con le parole di Bernardino Baldi (1553-

    1617), che nella biografia di Archimede inserita nelle Vite de’ matematici riprende le

    posizioni espresse da Guidobaldo nella prefazione alla parafrasi degli Equiponderanti:

    ammesso dunque Archimede il principio d’Aristotile, passò oltre; né si contentò che

    maggiore fosse la forza dalla parte de la leva più lunga, ma determinò quanto ella deve

    essere, cioè con qual proporzione ella deve rispondere a la parte minore, accioché con la

    data potenza s’equilibri il dato peso (B. Baldi, Vite inedite di matematici italiani, 1886, pp.

    55-56).

    Stando così le cose non può quindi stupire che la riflessione sulla leva si sviluppasse in

    Guidobaldo proprio a partire dall’impostazione archimedea, e che quindi inglobasse al suo

    interno anche il concetto di centro di gravità essenziale per la dimostrazione della già citata

    VI proposizione del I libro degli Equiponderanti.

    Sennonché il matematico pesarese andava immediatamente oltre la tradizionale analisi della

    leva interfulcrata, la più comune e l’unica presa in considerazione fino ad allora,

    presentando delle proposizioni riguardanti altre due specie di leva aventi questa volta il

    fulcro collocato in una delle loro estremità: la prima con il peso posto tra potenza movente e

    il fulcro, la seconda con la potenza movente posta tra il fulcro e il peso (quest’ultima leva

    non era naturalmente di alcuna utilità pratica visto che la potenza movente avrebbe dovuto

    sempre essere superiore al peso da muovere). Come si vede, si tratta di un ampliamento

    fortemente caratterizzato da ragioni teoriche, che però non resta privo di importanti

    applicazioni all’ambito pratico.

    Così, per es., il III corollario alla seconda proposizione, che trattava della leva con il peso

    posto tra fulcro e potenza movente (leva di II specie), avrebbe permesso di risolvere in

    modo assai rigoroso un problema già preso in considerazione nella questione XXIX

    dell’opera pseudoaristotelica, quella cioè in cui si domandava:

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    Perché quando due uomini trasportano il medesimo peso con un legno, o con qualcosa di

    simile, non sono ugualmente gravati a meno che il peso non sia nel mezzo, ma viene ad

    essere maggiormente gravato il portatore che è più vicino al peso?

    ([Pseudo] Aristotele, Problemi meccanici, cit., p. 119).

    Precedentemente affrontata con riferimento alla leva interfulcrata, la questione aveva infatti

    posto qualche problema agli interpreti.

    Completamente nuovo fu poi lo studio della variazione del rapporto peso-potenza movente

    in una leva avente diverse inclinazioni e portante un peso non sospeso, ma solidale con il

    suo corpo. Tale variazione derivava, secondo il matematico pesarese, dal continuo

    spostamento sulla leva del piede della perpendicolare passante per il centro di gravità,

    spostamento che cambiava la distanza del peso dal fulcro, e quindi poteva rendere più o

    meno agevole l’azione della leva operante con una forza data (Guidobaldo Dal

    Monte, Mechanicorum liber, 1577, pp. 43v-45v, 49r-55v). Particolarmente interessanti,

    anche in questo caso, erano le applicazioni basate su esempi concreti, fatte questa volta da

    Baldi, discepolo dello stesso Guidobaldo e del loro comune maestro Federico Commandino

    (1509-1575):

    Da qui dipende anche la ragione delle carriole che sono comunemente in uso, con un

    duplice manubrio e una sola ruota. […] Si riduce infatti allo stesso genere di leva, nel quale

    il peso è tra il fulcro e la potenza. Quanto dunque sarà minore il rapporto della parte della

    leva che va dal centro di gravità allo stesso fulcro, a tutta la leva, tanto più facilmente il peso

    sarà elevato (B. Baldi, In Mecanica Aristotelis problemata exercitationes, a cura di E. Nenci,

    2010, p. 339).

    Non altrettanto risolutiva era invece la distinzione tra le due specie di leva allorché si

    affrontava la questione IV dei Problemi meccanici, in cui si equiparava il remo a una leva

    avente il fulcro nello scalmo e il peso da muovere nel mare. È questo un caso assai

    interessante, che fu oggetto di discussione fino all’inizio del secolo scorso (Micheli 2011,

    pp. 237-38). Con la teorizzazione della leva della seconda specie fu infatti abbastanza usuale

    ridurre a essa il funzionamento del remo, rimarcando come piuttosto fosse il mare a fungere

    da fulcro, mentre lo scalmo, cioè la nave in cui esso era collocato, rappresentava il vero e

    proprio peso da muovere. Non tutti però furono convinti della necessità di una spiegazione

    basata su di una leva di specie diversa, e soprattutto alcuni autori incominciarono a riflettere

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    sulla complessità dell’azione messa in atto dal vogatore, in cui era assai difficile individuare

    un qualche punto che potesse fare le funzioni del fulcro immobile, visto che di fatto, sia la

    nave sia l’acqua del mare si muovevano durante la voga.

    Galilei fu uno di questi autori. Su richiesta nel 1593 da parte del provveditore dell’Arsenale

    di Venezia, Giacomo Contarini, di valutare quale fosse la collocazione migliore dello

    scalmo per ottenere la voga più efficace, il matematico pisano rispose rifacendosi alla teoria

    generale della leva, sostenendo che ciò dipendeva dalla divisione del remo, ovvero dal

    rapporto tra potenza movente, fulcro e peso. Al variare di tale divisione il remo di fatto

    avrebbe agito con modalità diverse, o come una leva di seconda specie, o come una di

    prima:

    “Et perché quando il sostegno è immobile, tutta la forza si applica a muover la resistenza,

    se si accomoderà il remo tanto che l’aqqua venga quasi che immobile, all’hora la forza si

    impiegherà quasi tutta a muovere il vassello; et per il contrario, se il remo sarà talmente

    situato che l’aqqua venga facilmente mossa dalla palmula, all’hora non si potrà far forza in

    muovere la barca”

    (G. Galilei, Le opere, 10° vol., 1900, p. 56).

    Se in questa risposta Galilei sembra ancora muoversi in un contesto non molto distante da

    quello impostato da Guidobaldo nelMechanicorum liber, assai diversa si mostra la sua

    trattazione della leva nelle Meccaniche, un testo mai pubblicato in italiano durante la sua

    vita, ma composto probabilmente già durante il periodo dell’insegnamento padovano.

    Fortemente polemico nei confronti di coloro che ritenevano in qualche modo potersi creare

    forza con le macchine, sovvertendo così l’ordine della natura, Galilei prende qui in

    considerazione la leva in modo affatto differente, non partendo dalle considerazioni relative

    alla bilancia, ma reinserendo nella sua analisi la velocità come elemento essenziale per la

    spiegazione del funzionamento di essa. Conforme al principio naturale che nessuna

    resistenza possa essere superata se non da una forza più potente di essa, Galilei determina in

    primo luogo quattro cose che devono essere prese in considerazione in questo tipo di

    questioni: «il peso da trasferirsi da luogo a luogo, […] la forza o potenza che deve

    muoverlo, […] la distanza tra l’uno e l’altro termine del moto, […] il tempo nel quale tal

    mutazione deve essere fatta» (G. Galilei, Le opere, 2° vol., 1891, p. 156). Tenendo presenti

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    questi elementi, lo scienziato pisano mostra poi come in ogni macchina, e in modo

    particolare nella leva, allorché si vorrà svolgere con successo l’operazione, la velocità della

    forza dovrà essere di tante volte superiore alla resistenza del peso, quanto il detto peso si

    trovi a essere superiore alla forza a disposizione. Impostato in questo modo il problema,

    Galilei riuscì quindi a recuperare un elemento importante dell’approccio teorico presente

    nei Problemi meccanici, ma nello stesso momento fu capace di offrire una quantificazione

    precisa, nella forma della legge della leva archimedea, del rapporto tra le grandezze qui

    prese in considerazione. Facendo ciò egli rese possibile un incontro tra le due diverse

    impostazioni d’indagine provenienti dall’antichità, che trovarono una specie di sintesi nel

    concetto di ‘momento’, definito come «la propensione di andare al basso cagionata, non

    tanto dalla gravità del mobile, quanto dalla disposizione che abbino tra di loro diversi corpi

    gravi» (G. Galilei, Le opere, 2° vol., cit., p. 159). Tale propensione in una bilancia a bracci

    disuguali (equiparabile di fatto a una leva), con appesi pesi uguali, spiegava poi non solo la

    rottura dell’equilibrio dalla parte del peso dotato di maggiore ‘momento’, ma poteva anche

    rendere ragione della maggiore velocità di spostamento di esso, che veniva a percorrere

    nello stesso tempo uno spazio maggiore rispetto al peso opposto portato verso l’alto. Alla

    velocità del moto si connetteva infatti un aumento del ‘momento’ del corpo mobile, che

    veniva a crescere con la stessa proporzione con cui aumentava la detta velocità.

    Il lettore moderno è naturalmente portato a vedere in questi passi un implicito uso del

    principio delle velocità virtuali, ma Galilei dovette avere ancora qualche dubbio rispetto a

    un’eventuale generalizzazione dell’uso dell’idea di velocità in connessione con quella di

    momento: per es., nel caso di bilance che si trovassero in stato di equilibrio. Come risulta da

    alcuni frammenti connessi con i Discorsi e dimostrazioni (1638), ancora non sembrava

    possibile superare completamente in questo caso la contrapposizione quiete-movimento,

    poiché sarebbe stato assai duro il convincersi, come diceva Sagredo, che posti due gravi in

    quiete, cioè «dove non sia pur moto, non che velocità maggiore di un’altra, quella

    maggioranza che non è, ma ancora ha da essere, possa produrre un effetto presente» (G.

    Galilei, Le opere, 8° vol., 1898, p. 438).

    Lo studio del funzionamento della leva aveva quindi ormai portato a riflettere su questioni

    fondamentali per lo sviluppo della scienza meccanica. Questi non furono però i soli effetti

    benefici derivanti dall’indagine approfondita dedicata a questa macchina; con la trattazione

    della cosiddetta leva angolare nascerà infatti in questi stessi anni un campo di ricerca teorica

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    e pratica interamente originale, una vera e propria ‘nuova scienza’, quella della resistenza

    dei materiali, di cui si parlerà al termine del saggio.

    La teoria della leva permise di affrontare in modo rigoroso molti dei problemi relativi allo

    spostamento e sollevamento di grossi carichi, prendendo come esempio un’altra macchina

    semplice studiata fino dall’antichità: l’axis in peritrochio, ovvero l’asse nella ruota.

    Volendo osservare un certo rigore nella presentazione delle varie spiegazioni relative al

    funzionamento di questo strumento, la leva, si deve in primo luogo mettere in chiaro che

    tale macchina semplice è distintamente descritta in tutte le sue parti solo all’interno del libro

    VIII delle Collezioni matematiche di Pappo. Secondo tale descrizione, esso è formato da

    una trave quadrata di legno con le parti finali arrotondate e ricoperte di metallo; queste

    fungono da perni che vanno inseriti in due fori, rivestiti anch’essi di metallo, situati in due

    sostegni verticali fissati su una piattaforma. Tale ‘asse’, collocato in posizione parallela

    all’orizzonte, ha poi da una parte una ruota (disco) di legno perfettamente solidale con esso,

    sulla circonferenza della quale, in numerosi fori, si inseriscono delle aste. Per quanto

    riguarda il suo funzionamento, lo stesso autore rilevava come la fune sostenente il peso

    andasse avvolta intorno al suddetto ‘asse’, e la potenza movente dovesse essere applicata

    all’estremità delle aste innestate nella circonferenza della ruota. Questo strumento

    meccanico permetteva dunque di sollevare grandi pesi con una piccola forza, e non agiva in

    modo diverso dalla leva. Ma quali erano le parti della macchina da prendere in

    considerazione per operare la sua riduzione alla leva?

    Una prima ipotesi di lavoro era già presente nella questione XIII dei Problemi meccanici, in

    cui si chiedeva perché fosse più facile causare la rotazione di un ‘asse cilindrico’

    attraversato da aste, usando aste lunghe, piuttosto che corte; e analogamente perché una

    medesima potenza movente fosse in grado di muovere più facilmente i verricelli aventi

    ‘assi’ piccoli, piuttosto che grandi. Come si vede, qui ci troviamo di fronte a strumenti

    molto simili all’asse nella ruota, strumenti che vengono analizzati in due delle loro

    componenti essenziali: in una macchina con asse cilindrico dato, la maggiore o minore

    distanza dal centro di rotazione del punto di applicazione della forza; in una macchina con

    asta di lunghezza data, la variazione del rapporto esistente tra questa e la maggiore o minore