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L'occhio della Favorita

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di Riccardo Carmenati, mystery

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RICCARDO CARMENATI

L’OCCHIO DELLA FAVORITA

www.0111edizioni.com

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www.ilclubdeilettori.com

L’OCCHIO DELLA FAVORITA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Riccardo Carmenati ISBN: 978-88-6307-341-6

In copertina: immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Gennaio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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In Ricordo di un piccolo Angelo, Maria, e di una stella

che brilla in cielo, Daiana.

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Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi riferimento a fatti, luoghi reali, o a persone, realmente esistenti o esistite, è puramente casuale.

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Ringraziamenti Scrivere questo romanzo è stato per me insieme una gioia e una gran sfida; una gioia perché ho portato a termine un lavoro che era cominciato per tutt’altro scopo e in tutt’altro modo, e una sfida perché scrivere un libro che abbia senso e che possa piacere soprattutto essendo un novellino è davvero una gran cosa. Alla 0111 edizioni, che ha creduto in me e ha sopportato la gran quantità di domande con cui li ho “bombardati”. Grazie di tutto. A Gregorio e Aldo Giungi e a Massimo Fabrizi per i preziosi consigli su come muovermi in questo nuovo mondo. Grazie. A mia zia Gemma, Laura Grandi e Renzo Scortichini che mi hanno dato una mano nelle prime revisioni ortografiche. Un grazie sincero. A Mario Magro, che ha curato la revisione finale del testo. Grazie per la tua gentilezza e saggezza. Alla mia famiglia, che mi è stata accanto spronandomi ad andare avanti e non fermarmi mai. Grazie di cuore. Un grazie va anche a Erica che, a suo modo, ha fatto sì che mi sedessi davanti al computer e cominciassi a scrivere. Grazie a Maria Vittoria che si è prestata gentilmente per la foto di copertina last minute e Samuele che ha scattato la foto. Grazie davvero. Un grazie particolare ad Alessia, amore mio, per aver sopportato tutte le stranezze del carattere di uno scrittore alle prime armi. Sei unica. Grazie a te, che non ci sei più, ma che nonostante non ti abbia mai conosciuto, ti sento sempre accanto a me.

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Prologo Conobbi Elena alla festa di compleanno di un mio caro amico. Da quello che avevo capito, doveva essere l’amica della sua ragazza. Era l’ultima settimana di aprile del 2011. Rimasi folgorato quel giorno. Eppure lei di me non si era minimamente accorta. Portava i capelli alla spalla o poco più lunghi, ma quella sera li aveva raccolti. Quell’acconciatura conferiva una lucentezza unica al suo volto che, corredato da un fantastico sorriso, si andava a incastonare con quegli occhi che catturavano l’attenzione di chiunque. Pensai a quella ragazza giorno e notte, mattina e pomeriggio. In qualsiasi ora e in qualsiasi luogo io mi trovassi. Stava diventando una droga per me e il sol vederla mi rendeva felice. Un suo saluto mi riempiva la giornata di buonumore. C’era un piccolo problema. Non era libera. La tecnologia, da me tanto odiata, quella volta giocò a mio favore. Parlammo molti mesi e io, in quel periodo, acquisivo sempre più la consapevolezza che mi stavo innamorando di lei. Col tempo e con le parole che mi uscivano ogni volta dal cuore stavo, lentamente e inconsciamente, facendo innamorare anche lei di me. Arrivò il giorno in cui, sempre telematicamente, ci confessammo l’uno all’altra. Il fatto che lei corrispondesse il mio sentimento mi lasciò del tutto sorpreso ed euforico. Da quel giorno, circa il dieci di settembre dello stesso anno in cui la vidi per la prima volta, le cose tra noi cambiarono. Ci volevamo, ci desideravamo, avremmo voluto vederci e passare insieme più tempo possibile. Non ci riuscivamo. Ogni volta c’era qualcosa che si metteva tra di noi. Sembrava impossibile passare anche solo un minuto con lei al mio fianco. Fino a quando l’anno successivo tornai, dopo l’ultimo esame, da Macerata ad Ancona. Ancora, però, non avevo sentito parlare dell’ordine della Rosa d’Oro.

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1 A un tratto il telefono cellulare iniziò a vibrare. Era lei. Il momento tanto sperato e sognato era prossimo a fare la sua entrata trionfale nella mia vita, a pochi passi dalla porta d’ingresso della mia abitazione. Lo squillo stava a significare che era arrivata. Mi guardai allo specchio per un’ultima volta per vedere se tutto era al suo posto, un’ultima aggiunta di profumo e scesi. Mentre mi avviavo al portone, le sue dita sfiorarono il campanello. Pochi istanti dopo mi ritrovai con la mano destra sulla maniglia ad aprire la porta di casa e del mio cuore a quell’angelo caduto dal cielo e bello come nulla c’è in questo mondo. Quel momento sembrava non essere vero, ma solo un fantastico e favoloso sogno, frutto di un desiderio che invadeva la mia mente, il mio cuore e i miei sensi da molto tempo. La paura che fosse un sogno s’infranse quando le sue braccia avvolsero il mio collo e le sue labbra sfiorarono le mie. L’istante più bello, più lungo e più desiderato della mia giovane vita. I nostri corpi rimasero vicini per più di cinque minuti, abbracciati, riscaldati dal calore che le nostre persone si trasmettevano. Poco dopo si scostò leggermente da me e guardandomi negli occhi mi ringraziò con un semplice sguardo, chiaro e trasparente, profondo e pieno di significati, lasciati alla mia libera interpretazione. L’essere entrata in casa, con quel sottofondo musicale, le aveva provocato un effetto mai provato sino a quel momento. Forse aveva trovato quello che desiderava, o forse no. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dai suoi occhi, nei quali mi ero perso, senza ritrovare un’uscita. Ancora una volta, un suo bacio mi fece tornare alla realtà da quello stato di trance-emozionale dovuta alla sua presenza. La canzone era finita da qualche minuto, ma l’atmosfera ormai aveva qualcosa di magico, oltre all’ossigeno che respiravamo. Niente sarebbe dovuto andare male. Lo avevo promesso e ripromesso più volte a me stesso. La mia indole però mi portava a rovinare sempre tutti i bei momenti che vivevo, costantemente, puntuale come il cambio della guardia al palazzo reale inglese. Mentre eravamo appiccicati, il mio inconscio ebbe la meglio. «Ho paura.» «Perché non stai zitto? Abbracciami, lasciati andare ti prego, non rovinare tutto.»

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Avrei voluto davvero tanto starmene in silenzio e aprire la bocca solo per rispondere ai suoi baci, quei baci che desideravo da molto tempo, che sognavo tutte le notti, ma che mai avevo ricevuto sino ad allora. Purtroppo in un momento così bello, senza volerlo avevo iniziato a farmi mille domande alle quali non trovavo risposta nell’immediato. Provai a fermarmi, a non pensare, ma averla tra le mie braccia ora, significava che avrei anche potuto perderla da un giorno all’altro. «Non riesco a rilassarmi, è più forte di me» dissi con tono di scusa, ormai incapace di far tacere quella voce interna. «Dai, sediamoci un po’ allora.» Ci incamminammo verso il divano che distava circa un metro dall’entrata. «Si può sapere che cos’hai? Siamo qui, e quanto abbiamo voluto questo momento solo per noi?» Quelle parole aumentavano il senso di colpa che sentivo salire dentro di me, incolpando l’altra parte, quella paranoica, che come al solito tendeva a mandare tutto a rotoli. «Non so dirti precisamente a quale gioco la mia coscienza stia giocando, ma ho dentro di me una paura che quasi definirei terrore.» «E di che cosa hai paura? Io sono qui, finalmente tra le tue braccia. non era questo che volevi? Ho sbagliato qualcosa?» «Dai piccola, tranquilla! Non fare così. Niente di tutto quello che è successo dal momento in cui tu hai messo piede in questa casa è sbagliato, anzi mi hai aperto un mondo.» «Non capisco. Di che mondo parli?» «Il tuo. Appena tu hai suonato il campanello, non ho capito più niente. Forse avrai notato la mia espressione quando ero all’entrata, ma quando ti ho vista così bella e così vicina a me un groviglio di emozioni ha iniziato a vorticare all’interno della mia testa, del mio stomaco e del mio cuore.» Presi fiato e ricominciai: «Ho desiderato e atteso a lungo questo momento. Non ho mai sognato tanto quanto quest’ultimo mese, nel quale hai fatto la tua comparsa nella mia vita. Non ci conosciamo bene, ma sappiamo già molto l’uno dell’altra. Probabilmente siamo opposti in alcune cose, simili o addirittura uguali in altre. Ogni volta che i miei occhi si posano sui tuoi, si perdono in quello sguardo che non so definire, però mi cattura, getta una rete su di me dalla quale non riesco a liberarmi.» Le mie parole furono interrotte dal suo singhiozzare accompagnato da qualche lacrima che le scendeva lentamente sul viso.

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«Ho detto qualcosa di male?» obiettai incuriosito da quella reazione che le mie parole avevano suscitato in lei. Aspettai un paio di minuti ma non sentii parole uscire dalla sua bocca. Continuavano a scivolare quelle goccioline dai suoi occhi, che ora non lasciavano penetrare niente. Io continuavo a pormi interrogativi sul perché del suo pianto. Un secondo dopo, un leggero sorriso si stampò in quel faccino tenero, che la irradiò come fanno i raggi di sole mattutini. «Allora che è successo?» chiesi cercando di trasmetterle quella sicurezza che io non riuscivo a trovare nel mondo che mi circondava. «Non lo so, quelle parole, quell’espressione, i tuoi occhi, il tuo tono di voce così pieno di calore e dolcezza…» esitò un istante poi aggiunse «mi hai fatto commuovere.» «Devo esserne felice?» «Credo proprio di sì» aggiunse con tono deciso. Un’altra lacrima le raggiunse il mento. La guardai per capire se il suo sguardo era tornato trasparente, oppure se il muro eretto nel momento del pianto stava ancora in piedi. I suoi occhi si chiusero e lentamente appoggiò la sua testa alla mia spalla. L’abbracciai. Sentivo che si stava a poco a poco abbandonando a me. Chiusi gli occhi anch’io. La sua mano iniziò a scivolare lungo la mia gamba fino a raggiungere la mia, che tenevo appoggiata sul ginocchio. Mi prese la mano, la strinse per poi portarsela al suo cuore. «Senti niente?» «No.» Si tolse il giubbetto che ancora indossava e mi ripeté la domanda. «Ora invece?» Ero talmente preso dalla sua bocca mentre pronunciava quelle parole e dai suoi occhi che non capivo quello che voleva che sentissi. A un tratto la mia mano pulsò. Dopo qualche secondo le risposi con un po’ di vergogna per non aver compreso nell’immediato le sue intenzioni. «Sì che sento. Da quanto tempo il tuo cuore batte così forte?» «Da quando ho avuto la certezza che questo incontro ci sarebbe stato.» «Quindi sono tre giorni che non smette di viaggiare a questo ritmo?» «Esatto.» «Non so che cosa dire» assunsi una espressione triste «mi sento uno scemo, ho rovinato tutto come mio solito, ma il fatto è che…» Non ebbi neanche il tempo di finire la frase che mi zittì con uno dei suoi fantastici baci. Mi appoggiò la mano sinistra al collo, avvicinandomi a lei per poi baciarmi. Io la tenevo tra le mie braccia con le mani lungo i fianchi.

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Quel bacio durò un’eternità e se avessi potuto sarei morto anche in quell’istante, avevo conosciuto il paradiso. A un tratto mi appoggiò nel divano salendo a cavalcioni sopra di me. Ogni momento che passava il mio cuore batteva sempre più forte, come se volesse fare a gara con il suo. Le mie mani ora erano appoggiate al suo fondo schiena, un altro angolo di paradiso. Quella ragazza mi aveva rapito. Entrando in casa mia mi privò di una parte di cuore, ma fui enormemente felice di concedergliela. Fino a quel momento la mia vita non aveva mai toccato livelli così alti di adrenalina e felicità. La paura che avevo provato sembrava essere svanita, cacciata lontano in modo magistrale da lei, un angelo caduto in terra, forse per salvarmi e portarmi via con sè nel suo mondo. Eravamo due anime in cerca di qualcosa che potesse completarci e in quel momento una passione travolgente ci invase. Un insieme di carezze, baci, sguardi che neanche nei migliori film d’amore si trovano, ci invase. Eravamo l’uno cosa dell’altra, finalmente noi e soltanto noi. Ci guardammo per un secondo, poi ci abbracciammo. Eravamo lì, stesi, lei accovacciata nella mia ala e io che la guardavo incessantemente. Non capii che quel momento sarebbe stato fatale per me. Credevo si fosse addormentata, invece quella vocina tornò a fare capolino alle mie orecchie. Dolce come il suono di un pianoforte e leggera come la brezza che accarezza il mare al mattino. «Che cosa stavi dicendo prima che t’interrompessi?» mi chiese dando un pizzico di pepe al tono con il quale mi rivolse la domanda. «Non mi ricordo» cercai di mentire, ma non sono mai stato un grande attore. «Non è vero, dai, dimmi tutto per favore.» «Va bene.» Feci una pausa per riorganizzare le idee e non pensare al momento in cui mi tappò la bocca e tirai fuori le mie paure, le mie incertezze, i miei timori. «Sai bene quanto ti adoro, quanto desideravo questo momento, quanto ti volevo fra le mie braccia proprio come ti trovi adesso, ma prima ho avuto la sensazione che avrei potuto perderti da un istante all’altro. Ho paura di andare avanti. Ogni giorno è diverso dall’altro e tremo al pensiero che un giorno potrai stancarti di me.» Mi guardò con aria triste e felice allo stesso tempo. Il suo sguardo questa volta penetrò nei miei occhi, perdendosi nei meandri dei pensieri che affollavano la mia testa in quel momento di triste malinconia. Non rispose. Continuava a fissarmi, forse cercando nei miei occhi un po’ di sicurezza che ora non riuscivo proprio a trasmetterle. Si accucciò tra le

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mie braccia come se non volesse più andarsene da quella posizione che tanto la rendeva sicura e protetta dal mondo. «Non voglio che questo momento finisca» disse a bassa voce. «Non finirà se nessuno di noi due lo vorrà. Basta credere in noi, risolvere i problemi che si metteranno in mezzo al nostro cammino e rimanere sempre uniti, solo così piccola mia, questo momento vivrà in eterno.» Chiuse gli occhi e si addormentò. Poco dopo appoggiai la mia testa alla sua e le mie palpebre si chiusero tuffandomi di nuovo in un mondo fatto di sogni e perfezione.

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2 Camminavo, poi correvo e di colpo mi fermavo. L’interrogativo sorgeva spontaneo. Non sapevo dove mi trovavo. Non capivo che cosa fosse. Sogno o realtà? Nel mio inconscio decisi che era una domanda superflua. Il cielo era stellato, sembrava una sera d’estate. Il rumore di una macchina mi fece fermare e girare in direzione del suono che avevo udito poco lontano. Una vecchia Fiat Uno si stava lentamente avvicinando e accostando al ciglio della strada che stavo percorrendo. Si fermò a pochi metri da me. Incuriosito mi avvicinai mentre l’autista stava tirando giù il finestrino. «Mi scusi. Sto andando bene per la casa del Signore?» Il mio viso cambiò immediatamente espressione. «Scusi me, ma non so neanche dove mi trovo. Potrebbe aiutarmi lei?» «Arrivederci» inserì la prima marcia e con uno scatto bruciante se ne andò lasciandomi ancora più interrogativi nella testa. Avrà avuto circa una cinquantina d’anni ma portati splendidamente. Capelli rasati e occhi bruni. Non riuscii a spiegarmi dove mi trovavo e chi diavolo fosse l’individuo misterioso che mi aveva posto quella strana domanda. Continuai a camminare nella direzione opposta a quella della vettura incontrata poco prima. Mi dissi che se quel signore arrivava da quella parte, significava che doveva esistere un luogo dal quale era partito. Percorsi circa un chilometro fino a trovarmi davanti a un casolare abbandonato. Sostai un minuto per rifiatare e fare il punto della situazione. Bel problema, ripetevo incessantemente tra me e me. Ripresi a camminare nella speranza di trovare una qualsiasi cosa che mi potesse dare un indizio sul dove mi trovavo e sul perché ero lì. Poco dopo vidi un signore con tanti capelli che mi fissava attendendo il mio arrivo. «Buonasera» dissi con tono gentile. «Salve a lei, probabilmente si starà ponendo innumerevoli domande vero?» «Vero, lei può aiutarmi?» «Certo. Mi segua.» Ci incamminammo lungo la strada nella stessa direzione dalla quale ero arrivato. Durante il tragitto non emise neanche un suono dalla bocca, né una parola né un respiro. Sembrava morto. Forse era meglio porsi poche

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domande, altrimenti sarei diventato pazzo nel giro di pochi secondi. Arrivammo di fronte a un ponte che ci sovrastava come Golia con Davide. Rimasi di sasso. Avanti a me, attaccato al ponte, vidi un enorme striscione, credo di circa dieci metri per cinque, con impresse queste parole. Attenzione. Nessuno è al sicuro. Nessuno dice il vero. Apri gli occhi e proteggi le persone a te care. Mentre leggevo quelle poche ma scandite righe, mi girai per chiedere spiegazioni. L’uomo che mi aveva accompagnato se n’era andato. Non c’era più. Sparito, si era volatilizzato nel giro di pochi secondi. Non capivo proprio. Inutilmente mi ponevo domande alle quali purtroppo non sapevo neanche come rispondere. Non riuscivo a trovare un nesso logico tra le parole scritte su quel cartellone e il luogo dove mi trovavo. Stava diventando un gioco troppo difficile, il traguardo non si vedeva neanche e la soluzione era assolutamente nascosta da qualche parte lì, in quello strano posto mai visto. L’uomo aveva un aspetto cupo, dei grandi occhi neri, una bocca nella quale sarebbe entrato anche un elefante, affiancata da mascelle enormi. La cosa che colpiva di più di lui erano i capelli, un’infinità, ma ben tenuti. Il resto del corpo era immenso, una muscolatura possente, mani da gigante e piedi sul numero quarantotto, a occhio e croce. Sarà stato alto circa un metro e novanta. Quelle poche parole che ci eravamo rivolti, le avevo dovute ascoltare guardando in alto dal mio modesto metro e settantacinque. Mi misi seduto su di un masso a pochi metri da lì. Ripetevo continuamente dentro di me quella frase. Cos’era, un avvertimento? Ma poi riguardante cosa? Il problema più grosso, però, era scoprire dove diamine mi trovavo e perché. Mi chiedevo come potesse non essere un sogno, ma quando si sogna le cose sembrano talmente vere che non si capisce mai se stiamo vivendo qualcosa fatto di quella polvere fantastica che crea i nostri sogni, oppure se siamo veramente noi in carne e ossa a dire, fare e vivere quel maledetto istante. Ripresi a camminare senza una meta precisa, ma si stava facendo giorno e tutto sarebbe stato più chiaro, almeno lo speravo. Alle mie spalle un chiarore stava nascendo, illuminando di sfumature rosa, gialle e arancioni quel cielo a me sconosciuto, proiettando la sua luce magica con quel sapore di brezza mattutina verso l’alto. Mi voltai e mi s’illuminò il viso di quello spettacolo mai visto nel mio mondo. Era

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un’alba nuova, diversa, non saprei spiegare bene, ma la magia che sprigionavano quei raggi di sole si sentiva ed era un’energia che non saprei se definire positiva o meno, ma gli occhi che avessero visto quella magnifica immagine sicuramente non l’avrebbero più dimenticata. Mi distesi con cautela nella prateria che affiancava la strada e mi abbandonai a me stesso. Sgombrai la mente. Nella mia testa non girava più niente, quel motore che sfornava domande a raffica si era fermato davanti alla bellezza rara che i miei occhi avevano avuto il privilegio di scrutare. Li chiusi e mi addormentai per poi risvegliarmi pochi minuti dopo. Evidentemente non avevo sonno, ma, riaperti gli occhi, la Ferrari che avevo in testa ricominciò ad alzare i giri del suo motore. Subito mi ritrovai coinvolto in un gioco mentale che mi portò una confusione tremenda, la cui soluzione era una sola: capire dov’ero, perché ero lì e cosa voleva dire lo striscione sul ponte. Si dice che si fa presto a parlare. Infatti non era difficile capire cosa serviva per cacciare quel casino, ma l’impossibile stava nel trovare qualche dato che potesse aiutare a trovare il marchingegno geniale che girava attorno a tutto quello che stava accadendo. Che cosa avevo dalla mia parte? Purtroppo niente, il mistero sembrava irrisolvibile e così rimase per parecchio tempo. Nessun indizio, nessun cartello, nulla che mi potesse aiutare a risolvere in modo definitivo quell’infame rebus creato da chissà chi. Un’aria gelida m’invase la schiena e mi fece rabbrividire per poi perdere di colpo i sensi in seguito a un colpo alla testa. Le palpebre cedettero lentamente e la vista si offuscava come un vetro che si appanna quando fuori tira un’aria gelida. L’ultima cosa che vidi fu il mio corpo avvicinarsi sempre di più a quel manto erboso ancora irradiato da quei fasci di luce incantati.

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3 Lentamente scivolava su e giù sulle mie guance. Quella mano soffice come la lana che emanava, a ogni movimento, il suo profumo. La stessa essenza che la sera prima mi aveva fatto perdere la testa. Mi sentivo come un gatto quando si prende tutte le coccole del padrone e inizia a fare le fusa. Non volevo aprire gli occhi, stavo troppo bene. Insieme all’estasi che mi provocavano quelle tiepide carezze, saliva in me la paura di aprire gli occhi per timore di capire dove mi trovavo in seguito alla botta in testa presa poco prima. Un turbinio di emozioni e paure iniziò a vorticare all’interno del mio petto, del mio cuore. La sensazione che provavo era davvero unica e insostituibile, mi sentivo un re. Contrapposto a questo senso di meraviglia, il pensiero dell’esperienza vissuta pochi istanti prima mi metteva una profonda soggezione. Iniziai a sudare freddo. Non avevo mai avuto tanta paura in vita mia di aprire gli occhi e spalancarli per vedere il mondo. Mi piaceva vivere, adoravo la vita e tutto quello che mi circondava. Credevo che nel mondo ci fosse qualcosa di speciale e nascosto che bisogna sempre ricercare per trovare la felicità; così ogni mattina, appena mi svegliavo, spalancavo la finestra e i miei occhi, per vedere e scrutare tutto quello che avevo intorno. In quel momento no, non volevo, non me la sentivo, non ne avevo la forza mentale per svegliarmi e scoprire cosa stava accadendo. Sentivo le sue mani sfiorarmi, portandosi dietro quella scia di brezza profumata che mi sconvolgeva e annebbiava i sensi a ogni suo passaggio. Le sue labbra si appoggiarono sulla mia fronte per baciarmi e un brivido mi attraversò la schiena per diramarsi in tutto il resto del corpo. Sentivo la sua mano prendere la mia e accarezzarla ripetutamente. Chissà che ore erano e da quanto lei era lì a guardarmi ma, soprattutto, lei era chi speravo che fosse? Oppure non mi trovavo neanche a casa mia e quello che mi era capitato prima era tutto vero? Soffrivo di male alla testa. Questo mi fece pensare alla botta rifilatami poco tempo prima, da non so chi, che mi aveva preso alle spalle. Da quel momento il vuoto fino a quel tocco fatato che mi fece riprendere i sensi, però con estrema cautela. Non sentivo niente, non volava una mosca. Fino a quel momento, da quando avevo riacquistato conoscenza di me stesso, non avevo sentito parlare nessuno. Solo quei piacevoli gesti avevano sfiorato il mio viso

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più e più volte, ma qualcosa dentro m’impediva di aprire gli occhi e vedere di chi si trattava. Sentii all’improvviso il suo corpo appoggiarsi al mio. Si distese accanto a me, forse rassegnata all’impossibilità di farmi aprire gli occhi, e mi abbracciò, appoggiando la testa alla mia spalla. Le sue curve perfette si erano adeguate al mio corpo in modo altrettanto sublime e potevo sentirle su di me in tutta la loro magnificenza. Averla avuta accanto a me solo qualche ora la sera precedente, prima di addormentarci insieme come due innamorati, mi era bastato per conoscere il suo corpo e notare come risplendeva di perfezione ai miei occhi e ai miei sensi, soprattutto al tatto e alla vista. La fragranza dei suoi capelli era entrata in me nel giro di pochi secondi da quando mi si era accovacciata accanto, insieme a quel favoloso profumo che continuava a inebriare il centro del mio olfatto. Ormai avevo quasi la certezza assoluta che si trattasse di lei. Quell’angelo la sera prima aveva invaso la mia vita conquistando il mio cuore appena messo piede nella città dei miei sentimenti. Aveva abbattuto quella barriera di diffidenza e paura che avevo innalzato prima che il corso dei miei giorni cambiasse radicalmente. Di conseguenza tutto quel mondo surreale era solo frutto della mia fantasia, era un sogno, oppure un incubo, non saprei dire, però sicuramente se accanto a me c’era quella creatura piovuta dal cielo, niente di tutto quello vissuto in precedenza dopo aver chiuso gli occhi vicino a lei era vero. Meglio, mi dissi, ma continuavo a non capire quel sogno; d’altronde chi comprende i propri sogni? Qualcuno dice che sono frutto della nostra volontà, altri non gli attribuiscono alcun significato, qualcun altro dice di fare sogni rivelatori o premonitori. Il mio non sapevo come diavolo catalogarlo. Per questo decisi di non far più di quel sogno un mio problema, mi ero già posto troppe domande quella notte. Il mio pensiero ricadde nuovamente su quell’anima che giaceva accanto alla mia. Non sapevo come muovermi, se aprire gli occhi o meno. Qualcosa però mi diceva che per non rischiare di rovinare tutto, come mio solito, era meglio se continuavo a tenere gli occhi chiusi e sognarla accanto a me. La sua mano scivolò fino a toccare la mia pancia. Mi strinse, sempre più forte, ancora di più, sentii mancarmi il respiro. La sentii piangere. Erano lacrime di gioia o di dolore? Esitai ad aprire gli occhi. Si era calmata, ma forse era il momento di rivedere la luce e stare accanto a quella piccola donna che sembrava aver tanto bisogno di me. Il mio occhio destro si aprì per primo e scorse subito la sua testa appoggiata al mio petto, avendo qualche difficoltà ad abituarsi alla luce. Ci misi qualche minuto per ambientare i miei occhi alla luminosità dei raggi di sole che filtravano attraverso le tende distese davanti alla

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finestra della sala di casa. Fissai la finestra per vedere come si presentava il mondo oggi. Era una tranquilla mattinata d’estate, né troppo calda né troppo fredda. Finalmente avevo la certezza assoluta che niente di ciò che era accaduto la notte prima rispondeva a realtà. Sospirai, felice di vederla accanto a me e contento di sapere che non se n’era andata e che non mi aveva abbandonato. Un sorriso si stampò sul mio viso, accarezzai il suo, come prima aveva fatto lei con me mentre dormivo. La mia mano percorreva ogni suo singolo angolo, sentivo che aveva bisogno di me, sentivo che avvertiva il bisogno di essere protetta, di trovare un rifugio sicuro nel quale ripararsi dai pericoli che il mondo le iniziava a mettere in mezzo alla strada della vita. Conoscevo così poco di quella ragazza, ma in fondo al mio cuore mi sembrava di essere stato al suo fianco fin dalla notte dei tempi. Era una sensazione strana, che mai mi aveva attraversato il corpo, la mente e i sensi. Lei era finalmente accanto a me, dopo molto tempo in cui le speranze e i sogni s’infrangevano contro un muro costruito con una sostanza che ci allontanava ogni volta che facevamo un passettino verso questo momento. Gli occhi chiusi, il respiro che andava al ritmo del mio, come il suo cuore, viaggiavamo sulla stessa linea d’onda, chissà se si rendeva conto dei miei gesti e delle mie carezze. Appoggiai le mie mani calde sulla sua schiena fredda, provocandole una smorfia di piacere sul viso, percorsi con le mie dita il suo dorso, disegnando figure, parole e immagini di fantasia. Sembrava apprezzare molto quelle carezze. Credetti che si stesse rendendo conto delle coccole che amorevolmente le stavo facendo. Si erano invertiti i ruoli, ora erano i suoi occhi che non volevano aprirsi per non rovinare l’estasi che i miei gesti d’affetto le avevano provocato. Probabilmente se avessi continuato a sfiorarla in quel modo, l’avrei mandata in uno stato di coma parecchio piacevole. Ogni volta che le mie dita si appoggiavano delicatamente sulla sua pelle sentivo in lei un brivido che la percorreva. S’irrigidiva tutta e le sue labbra insieme a tutto il resto del suo viso mutavano in un’espressione di piacere intenso, di abbandono totale dei sensi. La avvolsi tra le mie braccia. Niente mi diceva che quella ragazza, le sue curve, i suoi occhi, le sue labbra sarebbero state la mia rovina se non mi fossi giocato bene le carte che la vita mi avrebbe dato nelle prossime mani di questo subdolo gioco. Tutte le volte che la guardavo, rimanevo a bocca aperta, era troppo bella, era veramente una creatura magnifica e forse ancora non mi spiegavo come fosse arrivata lì, tra le mie braccia. Aveva i capelli castani, non molto lunghi, che le arrivavano al collo. Il suo caschetto era fantastico, le dava l’aspetto di una diva degli anni ‘30. I suoi occhi, profondi e azzurri

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come il cielo, mi catturavano ogni qual volta i miei li incrociavano, il suo naso e la sua bocca formavano un complesso perfetto che s’insinuava in quel viso in modo del tutto preciso. Non saprei dire che taglia portasse di reggiseno, ma madre natura sembrava l’avesse modellata in modo pittoresco. Le sue curve erano precise per il suo piccolo corpo. Sarà stata alta circa un metro e sessantacinque. Non faceva parte di quella categoria di ragazze che volevano essere modelle. Aveva una pancetta unica e come tutto il resto perfetto, per lei, ma soprattutto per i miei occhi. La schiena non aveva nessuna curva strana e terminava con quell’angolo di cielo che la sera prima il mio tatto aveva avuto l’onore di sfiorare. Era perfetto, lo avevo notato la prima volta che l’avevo vista, mentre passeggiava con una sua amica. Le ero dietro e il mio sguardo fu letteralmente rubato da quelle natiche disegnate con un compasso divino che ondeggiavano su e giù. Lo stile con il quale camminava le avrebbe benissimo permesso di solcare le passerelle della moda. Come tutto il resto di quel magnifico essere umano a tratti celestiale, le sue gambe erano il tratto finale con il quale un’artista può farsi i complimenti e dire di aver creato un capolavoro. Proporzionate a tutto il resto del corpo, erano lisce e vellutate, affusolate al punto che toccandole e chiudendo gli occhi si poteva fantasticare su ciò che si voleva, come fa una maga con la sua palla di vetro. Le adoravo, come adoravo lei. Lo stesso pensiero della sera prima m’invase. Sarei potuto morire anche in quel momento, stavo divinamente. Non avevo ancora guardato l’orologio, per quanto stavo bene. Erano le undici e mezzo circa e non ricordavo di aver mai dormito così in vita mia. Non sapevo come comportarmi, se mi fossi mosso l’avrei svegliata. Si era perfettamente integrata a me, sembravamo davvero un corpo solo. Continuavo ad accarezzarla, su e giù per quella valle di prosperità e splendore e non riuscivo a smettere. La sua mano, che valicava il mio petto per potermi abbracciare, si mosse. La portò sul mio viso, mi accarezzò a sua volta e poi aprì gli occhi. Non appena i miei occhi incrociarono i suoi, mi sembrò di aver fatto un tuffo in un mare cristallino Ci guardammo per qualche minuto, complici uno dell’altro senza sapere cosa dire o fare. Ognuno capiva quello che voleva dire l’altro, ma non ci azzardavamo a fare il primo passo, per paura di sbagliare o per l’incertezza di aver capito che cosa volevamo. Continuammo a guardarci l’uno negli occhi dell’altro, poi io le feci l’occhiolino e la sua bocca si aprì, con un sorriso che le arrivava fin sopra le tempie.

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«Buongiorno piccola» le dissi con tutta la dolcezza che avevo in me. «Buongiorno a te principino mio.» Quelle parole erano poche, ma bastarono per farmi accelerare i battiti cardiaci in pochi secondi. Il mio cuore era suo. Ci baciammo.

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4 «Hai dormito bene?» mi chiese. «Accanto a te non avrei potuto dormire male» mentii. «Dimmi la verità, eri agitato, hai avuto un incubo?» Sembrava che mi conoscesse da una vita, non sapevo se era meglio continuare a mentire o se raccontarle quel bizzarro sogno che aveva invaso la mia mente quella notte. Mi fissava, sperando che la mia bocca pronunciasse quelle parole che non avrei mai detto a nessuno. «Veramente?! Forse sentivo caldo, ma non ricordo di aver sognato» continuai a mentirle. «Sarà, capita di non ricordarsi i sogni che facciamo, ma questa notte tu hai pensato a qualcosa, magari inconsciamente, ma a qualcosa.» Non mi riusciva molto bene mentire, mentre per lei era alquanto facile capire le mie espressioni e i toni che usavo. Com’era possibile? Era la prima volta che stavamo assieme e una notte non può far conoscere a fondo la persona che si trova al tuo fianco. Cercai di cambiare discorso. «Che cosa vorresti fare oggi?» domandai Scosse il capo e alzò le spalle. Toccava a me inventare qualcosa. Mi dissi che vi sarei sicuramente riuscito, avevo una voglia di stupirla e conquistarla sempre più che sembrava possedermi. Le strizzai l’occhio e poi scavalcandola dolcemente mi alzai stiracchiandomi tutto. Mi sembrava di riprendermi il mio corpo. Alzandomi in piedi, avevo avuto la sensazione che durante la notte quella carne non mi fosse appartenuta. Era una sensazione strana, come se avessi vinto una forza che mi aveva controllato fino a qualche ora prima. Qualche minuto di stretching e mi diressi verso la finestra. Una leggera nebbiolina invadeva la vallata di fabbriche che si nascondevano dietro ai tetti delle case davanti alla mia. Sempre presente, si ergeva a controllo di tutto quella villa sulla collina della Baraccola. Villa Favorita. Aveva sempre attirato la mia attenzione, come l’albero immensamente alto che le stava accanto chissà da quanto tempo. Quella mattina aveva un fascino particolare. Sembrava richiamare la mia attenzione, credevo che mi stesse dicendo di guardarla ancora meglio di come facevo di solito. Era mezzogiorno e il sole splendeva proprio sopra di essa come un’enorme insegna luminosa, che con i suoi raggi indicava quello strano posto, invitando chiunque si fosse accorto di quell’enorme cartello di

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fuoco a percorrere la salita che precedeva la villa per poi provare a entrarvi. Vivevo lì da diciannove anni, e per tutto quel tempo mi ero sempre chiesto che cosa fosse quella struttura, chi ci abitasse e se avesse una storia particolare. Avevo un debole per quell’edificio, ma non mi ero mai intestardito per scoprire qualcosa di più. Non so neanche il perché, ma non mi ero mai messo a fare qualche ricerca. Non mi ero mai recato ai piedi di quel salitone enorme che portava alla soglia di quello stabile regalmente tetro e oscuro. Avvolto da un alone di mistero tenebroso e segreto, ora era lì e mi stava chiamando verso la sua direzione. «Cosa guardi in quel modo, con quegli occhi da lince?» mi chiese dolcemente e parecchio incuriosita. Quel velo tiepido di parole mi distolse dal guardare quel casolare enorme e mi fece girare verso di lei. Una forza sembrava mi trattenesse dal girarmi, era qualcosa di strano e inspiegabile. Tirai le tende e quella strana essenza che mi frenava svanì improvvisamente come la nebbia che aleggiava sulla vallata. «Niente di che, scrutavo l’orizzonte e tutto il resto.» «Lo faccio tutte le mattine appena mi sveglio» aggiunsi, prima che lei potesse controbattere alla mia seconda bugia della mattinata. «Mi piace, osservo molto, amo guardare quello che mi circonda e sapere che tutto va bene ed è tranquillo. Cerco sempre un significato nascosto in quello che mi si presenta sotto gli occhi per carpire la vera essenza delle cose» continuai, avendo la sensazione che non mi stesse ascoltando. «Profondo, maestro zen!» disse per prendermi in giro. «Non so neanche perché ti racconto queste cose, probabilmente non ti interessano neanche.» «Ti sbagli, scherzavo, stavo cercando nei tuoi occhi cosa ti provoca quella preoccupazione. Si legge chiara come l’alba che questa mattina ti ha illuminato quel bel viso mentre dormivi» replicò con sicurezza. Cercai di trovare un’espressione che non mostrasse il mio stato d’animo in modo così trasparente, ma ogni tentativo fu vano. Credo che lei provasse la stessa sensazione che avevo assaggiato quella mattina io, mentre la stringevo tra le mie braccia, nell’intento di farle indossare quel velo di protezione che avevo esclusivamente disegnato e cucito per lei. Desideravo con tutto il cuore che la mia vita appartenesse a lei e con essa anche tutto ciò che mi riguardava. Però sentivo che qualcosa mi impediva di raccontarle la mia preoccupazione, e soprattutto di parlarle di quella specie d’incantesimo che avevo subìto guardando quell’edificio maledetto.

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«Allora?» disse in tono impaziente «vuoi sputare il rospo, o continuerai in eterno a mutar faccia come un mimo?» Nella sua voce non si leggeva più quella dolcezza che aveva in precedenza, ma sembrava indispettita e non molto felice di quella mia reticenza nel raccontarle i miei dubbi. Ero certo che la mia predisposizione a rovinare le cose belle si stava nuovamente concretizzando. Non sapevo che dire e che fare. Non potevo raccontarle niente per due motivi. Non avevo la piena coscienza di ciò che mi preoccupava e una forza estranea alla mia mente mi bloccava ogni volta che decidevo di sputare quel groppo in gola non identificato. Seccato da quella situazione, mi diressi verso la cucina per preparare qualcosa da mettere sotto i denti. Il mio stomaco e il suo iniziavano a intonare un concerto di brontolii che non lasciava interpretazioni diverse da quella. Avevamo fame. «Dove vai?» mi chiese. «In cucina, a prepararti un delizioso pranzetto» risposi con un enorme sorriso che nascondeva un’altra bugia, poiché non avevo la minima idea di che cosa la mia dispensa nascondesse. Mi guardò mentre mi allontanavo e poi si mise seduta e accese la televisione. «Io non ho molta fame, non preparare molto per me.» «Faccio di testa mia, ora non nascondermi tu le cose» le dissi con tono ironico. «Chi ti ha detto che ho fame?» «Il tuo stomaco, mia cara.» Arrossì. Probabilmente credeva che non avessi sentito quella sinfonia. Mentre mi dilettavo tra pentole e fuochi, spense la scatola nera e venne in cucina da me. Si mise a sedere e iniziò a guardarmi di sottecchi. Mi sentivo osservato e a dir la verità non ero molto a mio agio. Preferii non alimentare quel fuoco che avevo acceso non parlandole di ciò che m’impensieriva. Lei si limitò a osservarmi per tutto il tempo che giocai al cuoco provetto. «Mangiamo fuori?» «Non lo so, non ne ho tanta voglia» risposi con la paura che la vista della casa mi avrebbe potuto catturare di nuovo. Gliene stavo combinando di tutti i colori e la stavo rendendo sempre più nervosa, così cedetti. «Dai, apparecchia pure in giardino.» «Grazie» un sorriso le si stampò in viso e si diresse fischiettando in giardino.

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Che cosa mi stava succedendo? Troppe strane sensazioni in troppo poco tempo. Così non vale, mi dissi. Non sono un indovino né Sherlock Holmes e questo inizia a essere un rebus un po’ troppo intricato e soprattutto alquanto inspiegabile. Il mio nervosismo era alimentato dal fatto che non era assolutamente giusto che tutto questo capitasse in quel frangente, il momento in cui finalmente la mia metà, il mio angelo, era tra le mie braccia e non aveva nessuna intenzione di andarsene. Mentre aspettavo che la pastasciutta cuocesse la raggiunsi in giardino e mi sedetti accanto a lei. Le presi la mano e la abbracciai. Teneva gli occhi chiusi e il viso era estremamente rilassato, pronto a prendersi tutte le radiazioni che la magica palla di fuoco inviava a noi. L’impressione che dava era quella che non avesse la minima voglia di stare in mia presenza e ripensare a quegli sguardi falsi che le rifilavo senza sapere neanche il perché. Pensai che volesse buttarsi alle spalle le mie stranezze, ripensare alla sera precedente e trovare la forza di non farmi più domande. Capito l’andazzo della situazione, tornai alla mia attività culinaria. L’acqua in pentola stava bollendo insieme alla pasta al suo interno; il sugo nel pentolino affianco faceva uscire un odorino che avrebbe fatto risvegliare anche l’olfatto di un morto. Era veramente ottimo e probabilmente arrivò anche in giardino tanto che, pochi secondi dopo aver scoperchiato quel pentolino, fece capolino l’essere umano più bello del mondo seguita dai miei tre gatti. Tutti e tre meticci, ma tutti e tre bellissimi. Li adoravo. Pippo, il più grande, nove anni della mia vita li ho passati con lui. Lo trovai in un cespuglio non molto lontano da casa mia e da quel momento nacque amore fraterno, dove sono io c’è lui. Manto bianco con chiazze grigie sfumate di marrone e nero e due occhi verde chiaro. Vichy, tutta bianca e beige e quegli occhietti azzurri unici nel genere felino. Lei è arrivata a me attraverso una persona molto importante, che me la diede in custodia perché non poteva tenerla. Infine c’è Leon, che è il più piccolo, ha due anni meno di Vichy e nove meno di Pippo. Grigio e marrone con tigrature nere e occhi marroni. Tra lui e Vichy non si sa chi combina più danni, mentre quel poverino del più grande sopporta tutte le loro scorribande mattutine, pomeridiane, serali e notturne. «Allora chef, abbiamo finito a districarci tra pentole e pentolini?» mi chiese felice come mai l’avevo vista quella mattina. Averla lasciata sola a bazzicare tra i suoi pensieri era stata una bella trovata probabilmente. Mi feci i complimenti, tra me e me. «Sì cara, ho quasi pronto tutto, manca un piccolo particolare…» «Quale?»

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«Bisogna apparecchiare la tavola. Dove mangiamo, per terra?» dissi con tono ironico. «Ops… è vero, me ne ero dimenticata.» «Non pensarmi troppo mi raccomando» dissi sperando di farla ridere. «Tranquillo, non lo faccio.» Mi spiazzò. Rimasi a bocca aperta. Mi aspettavo un altro tipo di risposta e invece quella diavoletta era riuscita a non farmi controbattere avendo finito le battute. “Touché” pensai. «Scherzavo, tonto» udii in lontananza, seguito da una risata. Venne da ridere anche a me. Aveva la capacità di entrarmi in testa e cacciare via tutto il resto, voleva essere il mio unico pensiero. Presi le mie creazioni e le portai in tavola, seguito come in una via crucis dai miei tre felini. Mi sedetti e iniziammo a mangiare. Sembrava affamata e soprattutto pareva apprezzare quella specialità preparata con il cuore. Come mio solito misi poco più di cinque minuti a pulire il piatto. Mi guardava sbalordita, probabilmente non aveva mai avuto l’occasione di vedermi mangiare. La guardai, ci guardammo e infine scoppiammo entrambi a ridere. C’eravamo capiti benissimo. Quella complicità, così impossibile da instaurare dopo neanche un giorno passato insieme, mi faceva impazzire e mi riempiva la testa di domande e di certezze. La certezza più bella che avevo in cuor mio era dovuta al fatto che sentivo una sintonia speciale tra di noi, una cosa probabilmente mai vissuta da entrambi e difficile da ritrovare nel mondo. Mi alzai per andare a prendere la frutta. Tornando la vidi. Era lì. Mi fissava. Rimasi immobile di fronte a quell’incantesimo. Non avevo autonomia nel muovere niente. Voleva che la guardassi e che capissi il suo enigmatico messaggio. Una voce dentro di me continuava a ripetere le stesse parole, incessantemente. “Attenzione. Apri gli occhi.”

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5 Riaprii gli occhi. Mi trovavo disteso nel mio letto. La stanza era buia ed ero completamente solo. La luce del sole ancora alto filtrava tra le scanalature della persiana e si andava a infrangere nello specchio a lato del mio letto, creando un gioco di luce paragonabile al reticolo di raggi infrarossi nei film d’azione. L’unica immagine impressa nella mia mente era ancora una volta quella casa. Accanto al mio cuscino ce n’era un altro. Su di esso, come fossilizzato, il calco di una testa. Scivolai in quel guanciale e lo riconobbi subito. Era il suo profumo. Inconfondibile, inebriante, unico. Appena sveglio non ricordavo assolutamente niente, neanche che lei era in casa mia. Non ricordavo la sera prima, non ricordavo quella mattinata, solo quella costruzione maledetta che sembrava prendersi gioco di me, e soprattutto pareva che le risultasse molto facile impossessarsi della mia mente. Quel momento fu decisivo per il mio futuro e per le decisioni che presi da quell’istante in poi. Una determinazione mai avuta mi entrò nel sangue e si espanse fino alle estremità più remote del mio corpo. Non potevo mandare in fumo il sogno della mia vita. Non potevo rischiare di cadere nella trappola dell’ignoto. Non potevo farmi prendere gioco da una casa. Non era plausibile. Qualcuno bussò alla porta. «Avanti» dissi. La maniglia si abbassò e lentamente la porta si aprì. «Ciao» mi disse, visibilmente dispiaciuta e confusa. «Scusami. Non so che cosa mi stia accadendo. Che cosa è successo?» «Hai iniziato a fissare il vuoto. Mi hai fatto paura, guardavi fisso in un punto, sembravi ipnotizzato» fece una pausa in cui la vidi visibilmente spaventata e tremante «e poi…» «Sì? Continua, ti prego devo sapere.» «…poi sei caduto e hai sbattuto la testa. Come se fino a un attimo prima tu fossi stato sorretto da qualcosa che improvvisamente ti ha lasciato cadere a peso morto.» «Come sono arrivato qua a letto?» «Ho chiamato Samuele. Per fortuna si trovava in casa ed è corso subito qui da te. Mi ha chiesto se era il caso di chiamare l’ambulanza, ma ho preferito aspettare che tu ti svegliassi.»

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«Hai fatto bene, ti ringrazio piccola mia.» «Aspetta.» «Cosa? È successo qualcos’altro?» «Sì che è successo qualcosa. Tu ora mi racconti tutto quello che ti sta passando per la testa. Devi dirmi cos’hai da ieri e quello che ti sta accadendo. Quando ho messo piede qui dentro, ho deciso di starti accanto perché sapevo bene quanto tu e io siamo fatti per stare insieme. Uniti. Quindi, ora o ti apri a me oppure puoi anche sbrigarti questa storia da solo con le tue forze.» Quella ragazza conosceva il fatto suo. Era determinata. Aveva il fuoco negli occhi, un fuoco che ardeva alimentato dalla speranza di sentire tutta la mia storia, il prima possibile. Voleva starmi accanto e tenermi la mano, aiutarmi nelle mie future decisioni e non lasciarmi più. Era più decisa che mai a farmi sputare fuori il rospo. Mi trovavo davanti a un gran bivio. Non sapevo io in prima persona che cosa stavo vivendo e che cosa stava accadendo con la casa. Sarebbe stato giusto coinvolgere anche lei in questa losca storia? Altre migliaia di interrogativi invadevano la mia mente e iniziavano a girare all’impazzata. Ora la mia testa lavorava come una centrifuga. Come potevo prendere una decisione senza aver una minima idea delle conseguenze che si sarebbe portata inevitabilmente dietro? Forse avrei dovuto iniziare a comporre il puzzle dell’enigma da solo con le mie forze, senza metterci di mezzo lei. Quando però stavo per arrivare a una decisione, veniva fuori un altro problema. Non volevo deluderla, non volevo darle più dispiaceri di quanti gliene avessi dati nei due giorni che siamo stati insieme. Sfortunatamente si erano intersecate due situazioni che richiedevano, in questo preciso momento, un ruolo da prima donna nella mia vita. La situazione iniziava a entrare in zona cesarini. Quegli occhi sembravano parlare. Sembravano implorare di aprirmi a lei e metterla a conoscenza dell’oscurità che mi circondava in quelle ultime ore. Ogni volta che i nostri sguardi s’incrociavano, un dolore acuto mi percuoteva il petto dall’interno. Quel peso era enorme da tenere dentro e non condividere soprattutto con chi pensavo avesse aderito, in futuro, a ogni cosa della mia vita. I pensieri si facevano sempre più aggrovigliati in un girotondo di idee e capovolgimenti di fronte. Niente sembrava essere la cosa più giusta da fare. Niente sembrava avere quel pizzico in più di senso. Niente di ciò che avrei fatto, avrei voluto farlo senza di lei al mio fianco. Come potevo essere così egoista? È vero, era lei in primis a volersi far coinvolgere in questa situazione, ma non era a conoscenza delle controindicazioni. E non era mia intenzione farle sapere i rischi che comportava l’entrata nel gioco. Il

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pericolo più grosso che avevo davanti ai miei occhi era semplicemente il nitido ignoto che mi si era presentato quel giorno. La Favorita sembrava volermi. L’interesse che avevo sempre avuto nei confronti di quell’edificio storico era, probabilmente, la soluzione del tutto. Forse avrei dovuto scoprire il perché di quei segni e la storia della casa.

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6 Aveva lasciato me e i miei pensieri da soli. Era uscita dalla mia camera ed era andata via da casa. Si era sentita poco importante rispetto alle considerazioni che aveva fatto della nostra storia appena sbocciata. L’essere in bilico aveva suscitato in lei un sentimento di paura e di sofferenza che ne comportò l’uscita dalle quinte. A questo punto non mi era ancora chiaro se ero rimasto solo o se potevo ancora contare sull’appoggio di una persona che volevo al mio fianco a tutti i costi da parecchio tempo. Mi alzai dal letto del tutto incredulo che ciò che era appena successo fosse la realtà delle cose. Pizzicotti e acqua gelida non servirono per svegliarmi da questo brutto sogno che aveva tutte le caratteristiche per essere l’inizio di un periodo nero e soprattutto reale. Tornai in camera da letto e uscii sul terrazzo. Aprendo la finestra, il primo pensiero che mi saltò alla mente fu quello che la villa era sempre al suo posto. Non si era spostata, magari l’avesse fatto. Con quella sua maestosità monumentale che spiccava in mezzo a quell’ingorgo di nuovo millennio, sembrava continuare a tenere il suo occhio puntato su di me. Era riuscita a scalzare Elena dal ruolo principale, che avrebbe dovuto avere, per ritagliarsi uno spazio tutto suo nella mia vita. Non sembrava dirmi niente di più del giorno prima e decisi di rientrare per riorganizzare le idee. Scesi in cucina e mi sedetti, pronto a un acceso confronto con il mio ego. Rimasi solo per almeno due ore nell’oscurità dei miei frenetici pensieri. Il tempo scorreva inesorabile e sembrava non aver intenzione di fermarsi. Le lancette dell’orologio a muro scandivano i secondi geometricamente, il forno intonava quell’orrido ticchettio che mi dava i nervi ogniqualvolta tentavo di studiare e la lavastoviglie emetteva la melodia del suo lavoro. Tutto andava avanti e niente si fermava. L’unica cosa in fase di stallo erano i miei neuroni che non riuscivano più a connettere tra essi le proprie sinapsi. Non un solo pensiero usciva compiuto dalla mia mente. Iniziavano e non trovavano una fine. L’insieme degli eventi continuava a non convincere la mia coscienza che si trattasse di vissuti reali. Le lancette segnavano il primo angolo retto dopo il mezzogiorno e io ero ancora lì inerte, senza spunto alcuno per iniziare questa battaglia. Iniziavo veramente a perdere la cognizione del tempo e dello spazio.

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Il suono del campanello mi svegliò dallo stato vegetale nel quale mi stavo andando a rifugiare. Era il mio vicino di casa, Samuele. Aveva visto Elena andar via a passo spedito qualche ora prima e stava iniziando a preoccuparsi. «Tutto bene Ottavio?» mi chiese visibilmente sollevato nel vedermi in piedi e non a terra come quando mi era venuto a soccorrere. «Diciamo di sì, ma in realtà non va bene per niente.» «Mi fai entrare? Così facciamo due parole, che è un sacco che non parliamo noi due.» Conoscevo Samuele fin da bambino quando a tre anni, ormai diciannove anni addietro, mi ero trasferito in questo quartiere. Aprii il cancello e lo accolsi con un abbraccio. Ci dirigemmo verso il divano e lo invitai ad accomodarsi. Prima di iniziare a parlare gli offrii un caffè che accettò volentieri. «Vuoi spiegarmi tu cos’è successo questa mattina? Elena non ha saputo dirmi niente di più di quello che ho potuto vedere.» Non so bene per quale motivo, ma la mia bocca si aprì e iniziò a raccontare a quel ragazzo, con cui avevo perso i rapporti qualche anno prima, tutto quello che avevo vissuto quei due giorni dal momento dell’arrivo di Elena. Ci volle un po’, prima che anche lui si rendesse conto che non ero diventato pazzo e che stavo raccontando una verità difficile da definire tale, ma che purtroppo lo era. Vidi il suo viso affascinato dal mio racconto, da quello che provavo e dalle sensazioni che con enfasi reale portavo alla sua conoscenza. Iniziò a farmi un sacco di domande alle quali non potevo dare risposte. Mi sentivo impotente e soprattutto cresceva in me la consapevolezza che quello che stavo vivendo era innanzi tutto un qualcosa di sconosciuto per primo a me. Emozioni contrastanti iniziarono a darsi battaglia dentro alla mia testa. Iniziai a sudare. «Ti senti bene Ottavio?» mi chiese preoccupato. Non riuscivo a rispondere. La mia bocca sembrava non aver più il possesso delle proprie articolazioni. La mia testa iniziava ad andare in panne. Quel motorino che aveva elaborato un’infinità di punti interrogativi stava giungendo al momentaneo capolinea. Evidentemente le ore durante le quali il mio conscio non aveva potere su di me non erano bastate per far riposare la mia mente.

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Lo stress al quale avevo sottoposto la mia testa e il mio fisico nel giro di così poco tempo stava facendo sbocciare i suoi fiori maligni. Avrei dovuto assolutamente mettere tutto sotto ghiaccio e ibernarmi per almeno qualche giorno. Non era possibile. «Ehi, stai tranquillo un secondo e distenditi. Vuoi che chiami la guardia medica o il 118? Stai sbiancando, e questa volta faccio di testa mia se cadi a terra.» Con tono deciso e militaresco sfogò quella preoccupazione che era appena nata in cuor suo per il mio stato fisico. Ero ancora bloccato e non riuscivo a rispondergli, così decisi di seguire il suo “ordine” e mi stesi sul divano. Accese il televisore e si accomodò sdraiato anche lui. Il canale 407 di Sky, History Channel, trasmetteva un documentario sull’Antica Roma. Come me, anche lui era appassionatissimo di quella parte di storia. Stranamente, talmente era alto il mio malessere, non ebbi il solito scatto di entusiasmo all’udire che alla tv si parlava della mia passione. I miei occhi si divertivano al gioco delle scale, le mie palpebre salivano e scendevano ripetutamente. Non riuscivo a prendere sonno. Che la paura di un nuovo sogno “strano” m’impedisse la pennichella rigeneratrice? Ormai in uno stato di dormiveglia continuo rimanevo steso cercando di non pensare a niente di tutto quello che avevo combinato. Elena se n’era andata e probabilmente non l’avrei rivista di nuovo tra le mie braccia per chissà quanto tempo. Il suo pensiero non voleva andarsene come d’altronde non trovava la via d’uscita quello legato all’edificio maledetto. Ero totalmente io il colpevole dell’allontanamento di quell’angelo tanto desiderato dal mio cuore? Il mio giudice interno, quella vocina chiamata coscienza, non riusciva a esprimere un verdetto finale e a mettere agli atti la pratica. Era davvero un caso difficile e nessuna delle leggi esistenti disciplinava questa triste situazione.

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7 Per questa volta, la regola del “morto un papa, se ne fa un altro” o del “chiusa una porta, si apre un portone” non faceva al caso mio. Il mio morale non era tale da poter essere risollevato con stupide frasi consolatrici. Soprattutto quello che si prospettava dinanzi a me era tutt’altro che un tranquillo prossimo futuro. Non riuscendo a dormire iniziai a pensare. Presi la decisione che alla fine avrei dovuto afferrare e fare mia. Elena avrebbe potuto aspettare, se non lo avesse fatto mi sarei messo il cuore in pace, almeno speravo. D’altronde io e lei non avremmo potuto essere felici se non avessi sistemato quella faccenda. Per farlo avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse ed Elena se n’era andata. Il mio flusso di pensiero fu interrotto dalla soluzione. «A cosa stai pensando?» disse incuriosito. Come avevo fatto a non pensarci prima? Lo avevo davanti agli occhi e aveva tutti i requisiti adatti per quello sporco ignoto lavoro. Entrambi amanti dei misteri e della storia. Com’è strano il destino. Mentre io fantasticavo sull’appoggio di Samuele, avevo dimenticato un leggero particolare: a lui non avevo chiesto niente. «A te» dissi con tono deciso. «Scusa Ottavio, non ti seguo.» «Stavo pensando a te. Ho deciso. Per avere Elena, devo necessariamente sbarazzarmi da questi pensieri. Per riuscirci devo risolvere il problema “la Favorita”. E non posso farcela da solo…» «Ah…» fece una pausa. Mi guardava, ma il suo sguardo era perso nel vuoto, forse stava elaborando la mia indiretta richiesta. «Spero proprio che non starai pensando a me…» riprese a razzo. «Esatto, amico mio» risposi con un sorriso enorme «ho bisogno di te, non posso riuscirci da solo. Devi aiutarmi. Sei l’unico a conoscenza degli eventi. E sei il solo che crederebbe a una storia simile. Sei anche talmente folle da essere disposto a farti coinvolgere in una situazione del genere.» Lo guardai impallidire. «Allora da dove potremmo iniziare?» chiesi. Ripreso il colorito, mi guardò.

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Cercava di capire se potevo essere ancora più sfacciato di così. Ancora non aveva acconsentito, e già lo avevo arruolato nell’impresa. Dopo avergli chiesto aiuto, non aspettai risposta. Avevo già dato per scontato l’esito positivo al mio quesito. Ero sicuro. Continuava a guardarmi e nel frattempo valutava quanto quella faccenda fosse conveniente per lui e per la sua carriera da medico. Era iscritto al terzo anno di medicina all’ Università Politecnica delle Marche, ad Ancona. Era uno dei migliori. Da quando eravamo piccoli, diceva che sarebbe diventato medico. Dopo l’esame di maturità, conseguito con il massimo dei voti tre anni prima, era entrato a medicina. Con la media del ventinove tentava di migliorarsi ogni esame di più. Probabilmente accettando la mia proposta sarebbe stato impegnato a trecentosessanta gradi. Forse la mia sfacciataggine era anche un po’ intrisa di egoismo. Mentre valutavo tutti i motivi per cui avrei ricevuto a pochi minuti una risposta negativa, scoppiò a ridere. Non riuscii a nascondere la mia sorpresa. Lo guardavo ridere e non capivo il perché. Non smetteva. «Sam, stai bene?» chiesi con fare preoccupato. «Sì mio caro. Sto benissimo, non bene.» «Questo benessere a cosa è dovuto? Se posso sapere.» «E c’è da chiederlo? Mi hai appena offerto quello che ho sempre voluto fare» disse sghignazzando. «Lo sapevo che non avresti resistito.» Scoppiai in una grassa risata anch’io. Passata l’euforia, mi feci più serio in viso. «Con gli esami come farai?» chiesi. «Gli esami possono aspettare, come può aspettare Elena. Non posso perdermi un’occasione simile. Credi che mi si ripresenterà mai più nella vita qualcuno che è attratto magicamente da una casa ottocentesca con una storia simile? Non penso proprio» disse, soddisfatto della sua pazza decisione. «Scusa Sam, di che storia stai parlando?» Se conosceva la storia di quella casa, avevo veramente fatto bingo. «Sinceramente non so di preciso quali avvenimenti storici nasconda dietro a quelle mura. Qualcosa d’importante deve esserci accaduto, se non ricordo male.» «Come possiamo scoprirlo? Andiamo lì e chiediamo informazioni?» «Direi proprio di no» disse con tono decisamente rassegnato.

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«Che fai? Già ti perdi d’animo? Se per te è più facile studiare il corpo umano vai pure, continuo da solo. Non ho bisogno di persone passive.» Speravo di aver suonato la carica in modo abbastanza fragoroso. Avevo centrato l’obiettivo in pieno, infatti poco dopo… «Biblioteca» mi urlò nell’orecchio destro, illuminato da un lampo di genio. «Se non mi avessi distrutto un timpano e avessi urlato “Eureka” ti avrei capito meglio» affermai con tono ironico e dolorante allo stesso tempo. FINE ANTEPRIMACONTINUA...