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L’organizzazione dell’emergenza-urgenza · Emergenza territoriale, un modello da ripensare La Centrale operativa 118 L’Overcrowding e il Boarding Triage e See and treat. Le

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Rivista trimestrale di politica sociosanitaria

Ann

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XVII

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16210

L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

Modelli di collaborazione tra Aziende sanitarie pubbliche

L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

Successi e problemi irrisolti

Emergenza territoriale, un modello da ripensare

La Centrale operativa 118

L’Overcrowding e il Boarding

Triage e See and treat.

Le reti assistenziali in emergenza-urgenza

Come verificare la qualità del lavoro in PS

I codici essenziali per le diagnosi e le prestazioni di PS

La simulazione: strumento di formazione permanente

La professione infermieristica

Il medico e la sua carriera, alla luce dei primi specializzati in medicina di EU

Quale specialista abbiamo formato con la scuola di specializzazione in EU

Discussione

Contributo originale

Monografia

Tavola rotonda

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Direttore ResponsabileMariella Crocellà

Comitato di RedazioneGianni Amunni

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Segreteria amministrativa del Comitato di Redazione

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Comitato ScientificoMario Del Vecchio,

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Regionale Sanità Toscana (ARS)

Redazione, DirezioneCorrispondenza e invio contributi:

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EdizionePacini Editore Srl

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Registrazione Tribunale di Firenze n. 2582 del 17/05/1977

Questo numero è stato chiuso in redazione il 30 settembre 2016Testata iscritta presso il Registro pubblico degli Operatori della

Comunicazione (Pacini Editore Srl iscrizione n. 6269

del 29/08/2001)

210 Rivista trimestrale di politica sociosanitaria fondata da L. GambassiniFORMAS - Laboratorio Regionale per la Formazione Sanitaria

Anno XXXVII – settembre 2016

Sommario

901 Modelli di collaborazione tra Aziende sanitarie pubbliche Mario Del Vecchio, Anna Romiti

MonografiaL’organizzazione dell’emergenza-urgenzaa cura di Alessandro Rosselli, Andrea Vannucci, Valeria Di Fabrizio909 Successi e problemi irrisolti

2010-16: cosa si è realizzato in questo periodo Alessandro Rosselli913 Emergenza territoriale, un modello da ripensare Simone Magazzini916 La Centrale operativa 118 dimensionamento e funzioni Piero Paolini918 L’Overcrowding e il Boarding

Da dove iniziare per affrontare il problema più grave per il PS Germana Ruggiano922 Triage e See and treat. Evoluzione o involuzione? Sabrina Tellini, Giovanni Becattini, Marco Ruggeri925 Le reti assistenziali in emergenza-urgenza

Programmazione centrale o governo dei professionisti? Andrea Vannucci, Maria Teresa Mechi928 Come verificare la qualità del lavoro in PS

Quali gli indicatori necessari Alessio Bertini935 I codici essenziali per le diagnosi e le prestazioni di PS

La qualità del dato: come e perché Valeria Di Fabrizio939 La simulazione: strumento di formazione permanente

Esperienze, riflessioni, sviluppi Francesco Dojmi Di Delupis943 La professione infermieristica

è necessaria la specializzazione in EU? Giovanni Becattini

Tavola rotondaIl medico e la sua carriera, alla luce dei primi specializzati in medicina di EU949 Quale specialista abbiamo formato con la scuola di specializzazione in MEU Riccardo Pini 953 Discussione A. Rosselli, G. Manco, M. Mandò, M. Pratesi e G. Viviani, C. Poggioni, F.

Bulletti

PaciniE d i t o r e

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901L’organizzazione dei serviziN. 210 - 2016

AbstractNegli ultimi anni all’interno del sistema sanitario italiano, si sta assistendo a un riaccentramento (grip back) della Regione nei confronti delle Aziende sanitarie. Una delle manifestazioni più evidenti di tale fenomeno è il largo ricorso a fusioni aziendali attraverso le quali le Regioni hanno profondamente riorganizzato i propri sistemi sanitari. Accanto alle fusioni sono osserva-bili processi di collaborazione tra Aziende che, in alcuni casi, hanno preceduto le fusioni perchè spinte dalle Regioni, in altri sono stati originati dalla “proattività” dei soggetti presenti nelle Aziende. Questo lavoro propone una sintesi dei modelli di collaborazione che sono stati avviati nell’ambito delle Aziende sanitarie pubbliche italiane, evidenziandone le peculiarità.

Mario Del Vecchio, Anna RomitiUniversità degli Studi di Firenze

Modelli di collaborazione tra Aziende sanitarie pubbliche

Collaborazioni e fusioni: un quadro di riferimento La fase più recente dell’evoluzione del sistema sanitario italiano è stata caratterizzata da un’inversione di tenden-za rispetto al passato. Se prima degli anni 2000, sotto la spinta dell’ondata di riforme che ha attraversato i sistemi sanitari pubblici europei, si è assistito ad una fase di de-centramento (caratterizzata in Italia dall’aziendalizzazio-ne e managerializzazione), a partire dagli anni 2000 è possibile osservare una fase opposta caratterizzata da tendenze al “riaccentramento” o grip back. Questo fe-nomeno, presente in molti Paesi europei, si è manifestato in Italia con un nuovo protagonismo regionale (Tanese, 2011) motivato prevalentemente dalla necessità di ridurre la spesa sanitaria ma anche dall’esigenza di affrontare fenomeni di contesto che hanno avuto un impatto rilevan-te sulle organizzazioni sanitarie, quali l’aumento dell’età della popolazione e la diffusione delle nuove tecnologie (Saltman, 2008). Tale fenomeno, anche se avvenuto pro-gressivamente negli anni, si è accentuato nel 2001 per ef-fetto delle ricadute dell’Accordo Stato-Regioni, per mezzo del quale è stata attribuita alle Regioni la responsabilità finanziaria per la copertura del disavanzo. In conseguen-za di questo accordo è stato avviato un processo di ra-zionalizzazione e riorganizzazione dei SSR e un riaccen-tramento anche di livello nazionale, che si è evidenziato soprattutto a partire dai Piani di rientro nel 2007 (Del Vecchio, Cuccurullo, 2003). Una delle modalità più evidenti attraverso le quali negli

ultimi anni in Italia si è diffusa questa tendenza è senza dubbio il ricorso sempre più spinto a fusioni tra Azien-de sanitarie. I processi di fusione, iniziati nel 1995 con l’accorpamento delle 659 vecchie Usl in 228 Asl, hanno subito un’accelerazione negli ultimi anni (Carbone et al, 2015) (Tabella 1). A questo proposito può essere citato il caso emblematico della Regione Marche che nel 2003 ha costituito l’Azienda unica regionale (ASUR), mentre tra i casi più recenti possiamo ricordare quello della To-scana che è passata da 12 a 3 Aziende sanitarie locali nel 2015 e la Sardegna che ha costituito di recente l’A-zienda unica regionale. Altre Regioni stanno seguendo questi esempi anche se ad oggi non hanno ancora com-pletato le proprie riforme (es. Liguria, Veneto).Il ricorso a concentrazioni aziendali è motivato, anche in ambito sanitario, da: recupero di economie di scala, acquisizione di vantaggi competitivi da specializzazio-ne, risparmi conseguenti a centralizzazione di funzioni aziendali (Zuckerman, Kaluzny, Ricketts, 1995), anche se non sempre i documenti regionali che hanno preceduto e accompagnato le trasformazioni istituzionali articolano adeguatamente le ragioni e gli obiettivi del cambiamento.Tra i fenomeni che hanno caratterizzato le Aziende sani-tarie pubbliche degli ultimi anni, accanto ai processi di fu-sione come parte integrante di interventi più o meno com-plessivi delle Regioni, possono essere individuate anche altre dinamiche che hanno avuto un impatto importante, soprattutto dal punto di vista organizzativo-manageriale:

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902 N. 210 - 2016L’organizzazione dei servizi

Le collaborazioni interaziendali nelle Aziende pubblicheIn molti studi sul mondo delle imprese è stata riconosciuta l’importanza delle relazioni interaziendali per far fronte ai vincoli che incontra lo sviluppo dell’innovazione e il go-verno della complessità produttiva. Molte sono le motiva-zioni che sono state attribuite alla nascita delle relazioni interorganizzative. In alcuni lavori tali motivazioni sono state ricondotte a due tipologie: da una parte si ritrovano le relazioni di natura difensiva e dall’altra quelle di natu-ra proattiva (Romiti, Sarti, 2013). Sono riconducibili al primo tipo le relazioni che sono favorite dalla dinamicità del mercato e sono quindi spinte dalla necessità di condi-videre risorse per far fronte alla complessità dello stesso. Sono invece del secondo tipo le relazioni che nascono per creare nuove opportunità.La rilevanza delle partnership è stata più volte sottoline-ata anche relativamente all’ambito delle Aziende e dei sistemi pubblici. In questo caso le motivazioni che spingo-no alla creazione delle relazioni interorganizzative sono riconducibili a differenti fattori: cambiamenti nell’ambito dei bisogni, normativa, competitività tra aree territoria-li, nuovi modelli di amministrazione pubblica (Zuffada, 2000). Nel caso delle Aziende pubbliche alle logiche difensive o “egoistiche” possono essere aggiunte quelle di tipo “altruistico” ovvero tese al miglioramento di quel benessere collettivo (Van de Ven, Delbecq, Koenig, 1976) che è parte integrante della loro missione istituzionale. Aldilà delle motivazioni di contesto e di quelle specifi-che di ciascuna Azienda, uno degli obiettivi principali che le Aziende perseguono attraverso la collaborazione è prevalentemente orientato alla ricerca dell’efficienza. Nell’ambito delle Aziende pubbliche molti sono stati ne-gli ultimi anni esempi di collaborazioni orientate al mi-glioramento dell’efficienza attraverso: la condivisione di servizi, mediante la creazione di una singola piattaforma per diverse Aziende, (Walker et al., 2013), la messa in comune delle infrastrutture informatiche e delle operazio-ni di frontline, la condivisione di attività quali la gestione del personale e la finanza.Lo sviluppo delle collaborazioni richiede, insieme a una nuova divisione del lavoro all’interno delle varie strutture, la costruzione di appropriati meccanismi di governance che permettano alle Aziende coinvolte di raggiungere i fini per i quali tali relazioni sono state avviate.I meccanismi di governance delle relazioni interaziendali, così come i fattori che impattano sulla loro scelta, sono molteplici, ma un primo discrimine rilevante è tra mecca-nismi di governance formali e informali. Nel caso delle imprese, i meccanismi formali possono

i processi di collaborazione interaziendale. Anche per questi processi molti sono stati i casi di spinta regionale, ma possono essere rintracciati casi interessanti di feno-meni collaborativi che sono nati dal basso, originati cioè nell’ambito delle strategie aziendali. Tra fusioni e colla-borazioni le relazioni sono complesse. In taluni casi una collaborazione efficace potrebbe fare venire meno alcune delle ragioni alla base delle fusioni, soprattutto quelle più legate all’efficientamento produttivo ed economico. In al-tri casi le collaborazioni potrebbero essere una fase del percorso di “avvicinamento” tra Aziende per una fusione che non voglia procedere per “shock istituzionali”. In al-tri ancora, prevalentemente quelli in cui le collaborazioni avvengono attraverso l’istituzione da parte della Regione di “Aziende terze”, le due dinamiche potrebbero risultare largamente indipendenti.

Tabella 1 – Le fusioni nelle aziende sanitarie

ASL 2001 2010 2015

Piemonte 22 13 13

Valle d’Aosta 1 1 1

Lombardia 15 15 15

PA Bolzano 4 1 1

PA Trento 1 1 1

Veneto 21 21 21

Friuli VG 6 6 5

Liguria 5 5 5

Emilia Romagna 13 11 8

Toscana 12 12 12

Umbria 4 4 2

Marche 13 1 1

Lazio 12 12 12

Abruzzo 6 4 4

Molise 4 1 1

Campania 13 7 7

Puglia 12 6 6

Basilicata 5 2 2

Calabria 11 6 5

Sicilia 9 9 9

Sardegna 8 8 8

ITALIA 197 146 139Fonte: rapporto Oasi vari anni

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leanza, la composizione della partnership, il grado di differenziazione, i meccanismi di coordinamento e integrazione, il ricorso a strumenti di accountability (Mitchell, Shortell, 2000).

In questo lavoro, che rappresenta una prima analisi di uno studio ancora in corso sulla varietà di partnership presenti in sanità all’interno del sistema sanitario italiano, ci limiteremo ad analizzare tre delle dimensioni indicate. Distingueremo le partnership, oltre che sulla base delle motivazioni di contesto o soggettive che le hanno create, in base a obiettivi, composizione e meccanismi di coor-dinamento e integrazione, e più in generale meccanismi di governance. Dal punto di vista della metodologia è stato fatto ricorso alle interviste in profondità, che sono state realizzate tra giugno e luglio del corrente anno, ad alcuni direttori ge-nerali di importanti Aziende sanitarie che hanno realizza-to collaborazioni negli ultimi anni. Al fine di contattare tali soggetti è stata prima condotta un’analisi documentale volta a identificare le realtà aziendali più significative dal punto di vista della programmazione e/o implementazio-ne di accordi interaziendali.Ci sono infatti collaborazioni che sono state realizzate per effetto delle riforme regionali e collaborazioni che sono state originate nelle Aziende.

Alcuni modelli di relazioni interorganizzative in sanità Le tipologie di relazioni interorganizzative che abbiamo riscontrato a seguito dell’analisi condotta possono essere suddivise in tre categorie.Il primo tipo di collaborazione è riconducibile a casi nei quali le Aziende agiscono in maniera particolarmente co-ordinata, spesso in relazione a processi e scelte di specia-lizzazione rispetto ai servizi offerti. Si tratterebbe in que-sto caso di “alleanze di servizi”. Se piani e indicazioni regionali definiscono spesso un quadro di massima per lo sviluppo dei servizi a più elevato livello di specializzazio-ne – servizi che per loro natura richiedono investimenti, non solo finanziari ma anche di competenze, e concentra-zione dei volumi – un ampio spazio rimane comunque per l’autonomia delle Aziende e dei professionisti. È lo spazio nel quale hanno luogo i fenomeni di collaborazione e competizione, tipici del mondo professionale, che diven-tano sempre più intensi in relazione alla specializzazione dei saperi e alla necessità di integrazione delle diverse at-tività nei percorsi del paziente. In parte tali relazioni sono governate direttamente dai professionisti individualmente o su base collettiva, come avviene tramite lo sviluppo del-le “reti cliniche” (Lega, Sartirana, Tozzi, 2010), ma un

prevedere lo scambio di capitale e/o la creazione di nuove entità da parte dei membri di un network, oppure limitarsi all’utilizzo di strumenti contrattuali (Gulati, Singh, 1998). Tra i meccanismi relazionali (informali) possiamo invece citare la creazione di team e di task forces e altri meccanismi che facilitano la condivisione delle decisioni (Grandori, 1997). Anche la fiducia può essere parte di un meccanismo di governance informale (Dubini, Aldrich, 1991). Nelle relazioni interorganizzative la fiducia ripo-sta nel partner riguarda non solo aspetti inerenti la cor-rettezza del comportamento dell’altro e la condivisione degli obiettivi, ma attiene anche alla fiducia nella compe-tenza della controparte (Das, Teng, 2002). Poiché spesso la fiducia che esiste tra i partner deriva da una prece-dente esperienza comune, in questi casi le parti coinvolte hanno in genere maggior facilità a interagire con impor-tanti ripercussioni anche sui costi di coordinamento che, verosimilmente, saranno minori (Gulati, 1995). Il tema delle partnership tra Aziende pubbliche presenta, evidentemente, alcuni fattori di complessità dal punto di vista concettuale per le specificità proprie dei sistemi pub-blici. In estrema sintesi queste sono:1 La comune appartenenza al sistema pubblico che do-

vrebbe, da una parte, incentivare la collaborazione (condivisione delle finalità), ma dall’altra limita la pos-sibilità di azione di enti e Aziende

2 La prevalenza di forme di “coordinamento verticale” (per le imprese si tratterebbe di regole e meccanismi “di gruppo”), come ad esempio nel caso della sani-tà i Piani sanitari, rispetto a forme di collaborazione orizzontale (tra Aziende). Pur tenendo presente le spe-cificità, anche nell’ambito delle Aziende pubbliche è possibile articolare le collaborazioni, posizionandole in un continuum che va da quelle informali a quelle formali (Whetten, 1981). In riferimento al settore sa-nitario e alle sue caratteristiche, alcuni autori fanno riferimento a due distinte tipologie di collaborazioni: “alleanze di servizi”, in genere legate da meccanismi di governance contrattuali, finalizzate al raggiungi-mento di economie di scala o acquisizione di risorse e che coinvolgono una parte dell’organizzazione e “alleanze integrative”, che hanno un orizzonte di più lungo termine e che prevedono la realizzazione di obiettivi che implicano la realizzazione di una strate-gia comune e quindi coinvolgono tutta l’organizzazio-ne (Zuckerman, Kaluzny, Ricketts, 1995).

3 Un modello utile per distinguere e comprendere me-glio le partnership presenti in sanità propone cinque dimensioni: la natura degli obiettivi ricercati da un’al-

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bilmente la necessità di una esatta definizione contrattua-le degli obblighi reciproci.L’ambito nel quale il contracting in si è maggiormente svi-luppato in sanità è quello degli acquisti dove ha assunto quasi sempre la forma di creazione di enti specializzati (Amatucci, Mele, 2012). Le motivazioni sono prevalen-temente, anche se non esclusivamente, riconducibili alla possibilità di sfruttare un maggiore potere di mercato e di spuntare migliori condizioni. In questo caso si tratta di una forma di collaborazione imposta ma soprattutto di natura indiretta, in quanto le relazioni sono di tipo verticale e non orizzontale. Di maggiore interesse sul piano della ri-flessione sono le collaborazioni orizzontali, nelle quali le Aziende interagiscono direttamente e spesso su base pu-ramente volontaria. Tali collaborazioni possono assume-re un carattere relativamente stabile attraverso forme di specializzazione delle funzioni, come è spesso avvenuto all’interno degli accordi di programmazione sovra-azien-dale, le cosiddette Aree Vaste. Oppure possono limitarsi a collaborazioni più puntuali come avviene talvolta, per esempio, nel reclutamento del personale dove una Azien-da svolge tutte le procedure per produrre graduatorie utilizzabili anche dalle altre. Le forme di collaborazione volontaria rispetto a quelle “istituzionalmente imposte e strutturate” sembrano essere meno legate a meri obiettivi di efficientamento economico (risparmio). Le motivazioni sono in genere da ricercare o nel reperimento di risorse professionali adeguate o in una migliore qualità dei risul-tati attesi. Si tratta di collaborazioni a “bassa complessità strutturale” (i perimetri aziendali non vengono modificati o varcati), ma nelle quali è talvolta laborioso trovare le convenienze reciproche, dal momento che la retribuzione diretta dei servizi è nei fatti esclusa.Una ultima tipologia di relazioni è caratterizzata dalla condivisione di alcuni elementi propri della struttura orga-nizzativa. Come per la tipologia precedente queste forme di collaborazione possono essere il frutto di una spinta re-gionale attraverso una loro esplicita previsione nel disegno istituzionale complessivo. È il caso delle Unità complesse e Dipartimenti interaziendali previsti in alcune Regioni. La condivisione può anche essere, invece, il risultato di una spinta orizzontale. Avviene così che le Aziende talvolta, ed è la forma più semplice, concordino l’affidamento della direzione di una UO a un dirigente che ha già la respon-sabilità di una analoga unità in un’altra Azienda (posizioni a scavalco). Le motivazioni possono anche estendersi su orizzonti di collaborazione ampi, ma più spesso sono di carattere contingente (es. difficoltà a reclutare professiona-lità adeguate) e ciò giustifica il mantenimento nella struttura

ruolo significativo viene giocato dalle Aziende.In questa prospettiva le Aziende, e il loro top manage-ment, possono stimolare o ostacolare la collaborazione e il coordinamento tra professionisti e nuclei professionali appartenenti ad Aziende diverse, agendo sia in forma indiretta (clima e percezioni che orientano il comporta-mento dei professionisti) sia in forma diretta (strategie e decisioni aziendali che rispecchiano punti di vista comuni tra le Aziende coinvolte). La natura informale dei feno-meni rende difficile una loro esatta valutazione e verifi-ca, ma tra gli elementi che favoriscono l’instaurarsi di un clima di fiducia e un orientamento alla collaborazione è possibile segnalare: il contesto generale di sistema e lo stile di direzione dei livelli regionali; le relazioni per-sonali tra i componenti del top management aziendale; il grado di “consonanza politica” tra gli attori. Come è facile notare il grado di collaborazione informale che si instaura tra Aziende, top management, professionisti è difficilmente governabile, rimandando spesso a variabili di natura individuale o sociale. Eppure l’attitudine alla collaborazione è fondamentale per il funzionamento del sistema, anche per il necessario apporto che essa dà al funzionamento delle collaborazioni formali. In questo sen-so chi ha responsabilità di sistema dovrebbe favorire con azioni sistematiche la formazione di un capitale di fiducia tra i diversi attori in grado di aiutare un “coordinamento naturale” delle azioni che le Aziende intraprendono in vista del conseguimento dei loro obiettivi.

Il secondo tipo di collaborazione prevede un accordo di natura esplicita sulla base del quale alcune funzioni, ti-picamente di natura amministrativa, vengono svolte da una delle Aziende partecipanti all’accordo. Si tratta di collaborazioni che richiamano, ma non sono sovrapponi-bili, alle classiche forme di esternalizzazione dei servizi (contracting out). L’affidamento di parti, anche significati-ve, dei processi di supporto all’esterno è un fenomeno dif-fuso nel mondo delle imprese (Williamson, 1991) e trova, comunque, un limite, come tutte le relazioni contrattuali, nella definibilità dell’oggetto e nella fiducia che lega i contraenti. Quando l’esternalizzazione avviene tra sog-getti che appartengono al medesimo sistema pubblico, la denominazione normalmente utilizzata è di contracting in (Meneguzzo, 1997) e tale forma consente il superamento di alcuni limiti presenti nelle forme di esternalizzazione che avvengono in contesti di mercato. Il problema dei possibili comportamenti opportunistici o, in termini più positivi, dell’allineamento degli obiettivi perseguiti viene considerato come sostanzialmente risolto e ciò riduce visi-

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Considerazioni finaliI sistemi sanitari regionali sono attraversati da visibili spin-te centripete. Le pressioni per “mettere insieme”, allineare, creare sinergie, risparmiare, in sintesi per realizzare un maggior coordinamento che assicuri livelli più elevati di razionalità, alimentano cambiamenti che hanno per og-getto privilegiato l’assetto istituzionale e, segnatamente, il numero delle Aziende. Le fusioni aziendali, l’aumento del-le dimensioni, la riconduzione di un maggior volume di processi e obiettivi sotto una unica responsabilità vengo-no visti come l’unica, o quasi, risposta alle stringenti ne-cessità del presente. Oggetto del contributo che abbiamo proposto sono le forme di collaborazione che le Aziende sanitarie possono tra loro instaurare. Lo scopo che muove lo scritto è duplice.Da una parte ci sembra importante richiamare l’atten-zione sul fatto che non esiste solo la via della concen-trazione istituzionale per “mettere insieme processi” e allineare comportamenti. È infatti possibile, e nei fatti accade, che le Aziende decidano spontaneamente di collaborare realizzando i medesimi obiettivi, senza ri-nunciare ai vantaggi che un sistema di Aziende suffi-cientemente articolato è in grado di offrire. Nel costante pendolo che i sistemi mostrano tra accentramento e de-centramento non bisogna dimenticare che, se il primo promette efficientamento e razionalità produttiva, al se-condo sono spesso associati focalizzazione e accounta-

organizzativa delle due “caselle” originarie. Anche se non intenzionalmente perseguito, un risultato che spesso conse-gue è un allineamento delle prospettive tra le due UU.OO. e una standardizzazione dei processi operativi. Diverso è il caso in cui le Aziende decidano di prevedere un uni-co responsabile per due UU.OO. analoghe. La scelta di collaborare diventa «più strutturale» e spesso anticipa la decisione di fondere anche le Unità operative. Tutte le collaborazioni che prevedono una messa in co-mune di elementi attinenti l’assetto organizzativo si ca-ratterizzano per elevati livelli di complessità. Nel sistema pubblico e nel contesto sanitario in particolare, da una parte, molti meccanismi di gestione del personale sono ancora collegati all’assetto organizzativo, dall’altra, le regole nelle relazioni persone Azienda sono tendenzial-mente rigide e necessitano di laboriosi aggiustamenti per adattarsi a configurazioni non standard. Via via che le soluzioni si strutturano formalmente (es. UO condivisa) cresce la necessità di definire elementi solo apparente-mente secondari e burocratici come quello della valuta-zione (chi valuta e come il dirigente condiviso) o a quale sistema di salario di risultato si faccia riferimento. In altri termini, quando l’accordo prevede una messa in comune formalizzata degli assetti organizzativi, il quadro delle relazioni deve essere molto stabile e intenso.Per una sintesi dei modelli di collaborazione sopra de-scritti si veda la Tabella 2.

Tabella 2 – Sintesi delle tipologie di collaborazione osservate

Motivazioni della formazione (contesto/

soggettive)

Obiettivi Composizione (n. di organizzazioni e

individui coinvolti)

Meccanismi di governance

Collaborazione Informale

Cambiamenti nella domandaProattività professionisti/top management

Condivisione di informazioni e allineamento dei comportamenti

Basso numero di organizzazioni e individui coinvolti

Informali (es. relazioni tra professionisti/top management)

Contracting in Riduzione delle risorse a disposizione

Efficienza (collaborazioni imposte)Efficacia/qualità(collaborazioni volontarie)

Elevato (collaborazioni imposte)Basso (collaborazioni volontarie)

Formali (es. contratto)

Messa in comune di strutture organizzative

Superamento vincoli professionaliProattività professionisti/top management

Acquisizione di professionalitàGestione fasi iniziali processi di fusione

Basso (accordi bilaterali)A volte anche elevato

Formali (es. convenzioni tra aziende)

Nostra elaborazione

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906 N. 210 - 2016L’organizzazione dei servizi

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bility. Provare a tenere insieme entrambi i vantaggi non è un obiettivo da trascurare. In ogni caso, in una visione dinamica, non è, poi, detto che collaborazioni e con-centrazioni istituzionali siano opzioni alternative. Come è già stato sottolineato le collaborazioni potrebbero es-sere una fase importante del processo di fusione, perché l’esperienza ha dimostrato che la semplice ridefinizione dei perimetri istituzionali non è di per sé sufficiente a garantire coordinamento e allineamento.Dall’altra è necessario capire meglio come tali colla-borazioni possano essere articolate e quali siano le variabili critiche per un loro efficace funzionamento. Nello sforzo di migliore comprensione, che qui viene avviato, una attenzione preliminare dovrà essere presta-ta al perché nel contesto dei sistemi sanitari pubblici le collaborazioni interaziendali risultano così difficoltose. L’appartenenza a un medesimo “gruppo pubblico” do-vrebbe, infatti, rappresentare un fattore facilitante per lo sviluppo di collaborazioni, eppure non sembra che ciò avvenga in misura significativa. In questa prospettiva è possibile che pesi un “riflesso strutturalista” tipico dei sistemi pubblici (solo la struttura istituzionale conta, non esistono processi o meccanismi, ma solo esecuzioni), la mancanza di pressioni o incentivi adeguati, una scarsa dimestichezza del top management con le soluzioni col-laborative. Insieme ai perché, si tratta di sviluppare la conoscenza sul come. Una tassonomia come quella qui proposta può rappresentare un punto di partenza, ma sarà poi necessario capire quali siano le condizioni e le variabili critiche associabili a ciascuna forma di col-laborazione.Crediamo, in sintesi, che le collaborazioni inter-aziendali, seppure poco considerate, possano essere, al tempo stes-so, un utile strumento per affrontare alcuni dei problemi della sanità e un interessante argomento di ricerca: il ter-reno ideale, quindi, per uno sforzo congiunto tra opera-tori e ricercatori.

Bibliografia

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907N. 210 - 2016 L’organizzazione dei servizi

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908 N. 210 - 2016

Monografia

L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

a cura di Alessandro Rosselli, Andrea Vannucci, Valeria Di Fabrizio

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Alessandro RosselliCollaboratore scientifico dell’ARS Toscana per l’emergenza-urgenza

909L’organizzazione dell’emergenza-urgenzaN. 210 - 2016

Successi e problemi irrisolti2010-16: cosa si è realizzato in questo periodo

Abstract L’articolo, una sorta di introduzione generale a quelli successivi, passa sinteticamente in rassegna gli sviluppi e i problemi irrisolti dei PS dal punto di vista culturale,organizzativo e professionale, negli anni che hanno seguito la delibera regionale n.140 del 2008, con la quale si definiva un nuovo ruolo dei PS nel sistema sanitario regionale. La visione che sottende l’articolo, estendibile a tutta la monografia, è quella di proporre delle basi di discussione costruttiva in vista dei processi riorganizzativi dell’emergenza-urgenza che dovranno caratterizzare le nuove ASL.

Sono passati sei anni dall’ultima monografia di Salute e territorio sull’emergenza-urgenza1. Perché un’altra a di-stanza di tempo relativamente breve? I motivi che la ren-dono opportuna sono diversi:1. Alcuni sono legati alla necessità di approfondire aspetti di carattere generale che la monografia del 2010 aveva solo accennato e che invece necessitano di una riflessione a più voci per poter affrontare compiutamente il problema Pronto Soccorso (PS), ai fini del suo buon funzionamento complessivo.a) Il grande numero di accessi in PS (nel 2015 si sono registrati 4 accessi l’anno ogni 10 persone residenti), in continuo aumento, anche se non più nella misura marcata degli anni ‘90 e del primo decennio 2000 (dal 2010 al 2015 si è registrato un incremento del 2.5%). Si dibatte ovunque sugli accessi cosiddetti inappropriati e, da molte parti, sono state intraprese iniziative sulla me-dicina territoriale per cercare di ridurli.La stragrande maggioranza dei tentativi non ha prodotto i risultati auspicati2. Questo soprattutto perché le mutazioni culturali in termini di concetto di salute che si sono verifi-cati negli ultimi 20-30 anni sono difficilmente reversibili: non è più necessario solo mantenere l’integrità fisica, ma anche affrontare tutto quello che la può minacciare, o addirittura eliminare un semplice sospetto soggettivo di minaccia. E il PS, per rispondere a questi complessi e diversificati bisogni di salute, non ha alcun competitor per rapidità e completezza. Anche una qualsiasi opera di educazione pubblica deve tener conto dei mutamen-

ti verificatisi nel mondo “occidentale”. Parlare di accessi inappropriati è più facile dopo che si è arrivati a una diagnosi; molto più complesso prima,all’insorgenza della sintomatologia, sia perché è sempre più diffusa l’informa-zione che malattie gravi possono presentarsi con sintomi deboli o atipici, sia perché lo stesso sistema sanitario ha intensamente lavorato, con opera capillare di sensibiliz-zazione, sui disturbi di alcuni quadri clinici acuti (uno per tutti: il dolore toracico), per permettere il più rapido in-tervento possibile nella stragrande maggioranza dei casi in questione. Paradossalmente si è pagato un prezzo in accessi per elevare la qualità e la diffusione della risposta terapeutica, ma è un bilancio, in termini di salute prodot-ta, sicuramente positivo.Anche il sistema disincentivante degli accessi, costituito dal pagamento ticket, ha avuto risultati scarsi, sia sul pia-no della riduzione degli accessi, sia sul piano dell’introito economico. Oltretutto, data la sua soggettività (è il medi-co che decide, tramite l’assegnazione del codice colore in uscita, il pagamento o meno), si presta a diseguaglian-ze di trattamento tra un paziente e l’altro. Se vogliamo mantenere un contributo economico da parte del cittadi-no, la normativa del ticket va ripensata e resa più simile agli altri contributi per le prestazioni erogate dal SSR. È necessaria, cioè, una maggiore oggettività di criteri (ad esempio, tutti gli accessi cui non segue ricovero sono sot-toposti a un ticket contenuto). In conclusione, il problema dell’aumento degli accessi al PS è complesso, ma non bisogna arrendersi al fenomeno

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910 N. 210 - 2016L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

tivo regionale, ma lenta nell’attuazione. L’organizzazione delle nuove ASL è l’occasione più propizia.Inoltre, la realizzazione delle Centrali 112 è ancora in fase iniziale. Dall’articolo della precedente monografia non è stata fatta molta strada e poche sono ancora le nuo-ve Centrali sul territorio nazionale rispetto agli impegni presi a livello europeo.b) I PS, sull’onda della delibera 140 del 25.2.2008, han-no subito uno sviluppo straordinario, nella nostra Regione come in molte parti del territorio nazionale. Oltre i PS dei nuovi ospedali, quasi tutti gli altri PS hanno subito profon-de opere di ristrutturazione/ampiamento dei locali e di potenziamento tecnologico. L’organico è stato aumentato e molte soluzioni organizzative sono state sperimentate. Ma ancora troppo a macchia di leopardo. La storia dei singoli ospedali pesa ancora e ostacola uno sviluppo omogeneo di tutto il sistema toscano. È venuto il momento di procedere con linee comuni organizzative, dal picco-lo al grande PS. È necessario definire con chiarezza un sistema che ha solo nelle diverse potenzialità degli ospe-dali che “stanno dietro” i PS le sue diversità. Obiettivo: una rete di moderni PS con lo stesso potenziale di prima risposta, connessi fra di loro e utilizzati da una rete ter-ritoriale che mira, fin dagli inizi della sintomatologia, a inviare il paziente nel posto più idoneo, tutte le volte che è possibile. Dato che questo non sempre lo è, è importante che i collegamenti telematici e fisici tra gli ospedali siano al massimo efficienti, in modo da snellire e rendere sicura la quota di trasferimenti che sarà sempre necessaria.Nonostante un numero di accessi che non è significativa-mente aumentato negli ultimi 5-6 anni alcuni seri problemi organizzativi non hanno trovato la giusta risposta. Il prin-cipale resta il boarding 3,4, per cui si assiste ancora all’af-follarsi nei corridoi dei PS di troppi malati in attesa di ricovero (spesso i più fragili). Di fronte a un problema così grave di implicazioni per la salute dei pazienti (l’assisten-za nei PS dei pazienti che necessitano ricovero non potrà mai essere adeguata ai bisogni5, l’intero sistema deve compiere uno sforzo collettivo volto in primis a una decen-tralizzazione di tutte le urgenze dal PS. Si tratta di riper-correre, parzialmente in senso inverso, il percorso degli anni ‘90, periodo in cui, progressivamente, il PS è dive-nuto l’unica porta delle urgenze ospedaliere,generando notevoli disfunzioni. “Allargare” oggi la porta ospeda-liera significa alleggerire il PS da una serie di pazienti, conosciuti dall’ospedale e clinicamente inquadrati, che vi transitano solo per il ricovero. Senza contare i pazienti che vengono inviati al PS esclusivamente per una visita specialistica in condizioni non gravi da richiedere la con-

della continua crescita, restando su un terreno realistico e avendo in mente che la salvaguardia della mission essen-ziale del PS deve restare il principale obbiettivo. b) Il problema dell’“isolamento” del PS e dei suoi profes-sionisti all’interno dell’ospedale. La crescita del PS e del-le sue funzioni si è accompagnata inevitabilmente a una rottura dei tradizionali ritmi di funzionamento degli ospe-dali, che hanno cominciato a vedere la spinta continua al ricovero del PS come una forzatura al proprio lavoro, dalla quale ci si doveva, in qualche modo, difendere. È sorto un contrasto improduttivo fra PS e reparti di degen-za, che è stato per anni fonte di disagi, incomprensioni e anche aperti conflitti. L’idea da cui partire per sanare il contrasto è quella che comprende il PS come parte del sistema ospedaliero di cui costituisce la principale (ma non unica) porta per i ricoveri in urgenza. Senza una visione unitaria, di sistema, non riusciremo a realizzare un funzionamento pienamente soddisfacente del PS. Spe-rimentare e trovare le soluzioni organizzative per rende-re i due momenti (PS e zone di degenza) integrati, pur nel rispetto delle autonomie di competenza clinica, è la strada che dobbiamo ancora percorrere. I tentativi fatti finora, alcuni anche positivi, non si sono dimostrati nel complesso sufficienti.In tale difficile impegno il management ospedaliero ha un ruolo importante, ma, senza la collaborazione con-sapevole e attiva fra i professionisti dei diversi settori, non riusciremo a raggiungere concretamente una nuova visione del sistema di emergenza-urgenza come sistema ospedaliero integrato.

2. Altri motivi sono legati alla necessità pratica di conti-nuo mutamento che le organizzazioni sanitarie, soprattut-to nell’ambito dell’emergenza-urgenza, richiedono per il rapido trasformarsi del contesto culturale, professionale e tecnologico in cui sono inserite.a) Il “sistema 118” sta vivendo profonde trasformazioni. La delibera 1117 del 16/12/2013 ha ridotto il numero delle centrali da 12 a 6 con una tendenza esplicita a un’ulteriore riduzione, in analogia con quanto si è rea-lizzato in diverse Regioni italiane e in altri Paesi europei.Si pone il problema di una riqualificazione ulteriore del si-stema territoriale, che ha già raggiunto un buon livello di efficienza, ma che presenta ancora elementi contradditto-ri, legati anche a pastoie di carattere politico-istituzionale non risolte. Si tratta di mettere al centro prevalentemente l’efficienza del sistema puntando all’integrazione, a ini-ziare da quella professionale, di tutto il sistema emergen-ziale, integrazione peraltro già prevista sul piano norma-

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911N. 210 - 2016 L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

sulenza immediata. Non si tratta di disconoscere il nuovo ruolo che il PS ha assunto nella moderna organizzazione sanitaria, ruolo che risponde al cambiamento del livello di urgenza per-cepito dal paziente. Si tratta solo di inserire il PS in un sistema di emergenza-urgenza ospedaliera più aperto e duttile, capace, ad esempio, di rendere il suo outpatient department (ambulatori e DH) pronto a risposte che non necessitano il passaggio dal PS (il canale diretto medici-na territoriale- strutture ospedaliere è così un’utopia?).c) Si è assistito in questi ultimi anni a un ulteriore sviluppo professionale medico e infermieristico. Il periodo è sta-to contraddistinto dall’uscita dalla scuola di specializza-zione dei primi specializzati in medicina d’emergenza-urgenza (EU). È stato Il fatto più importante sul piano for-mativo, dopo che nel precedente decennio si era assistito a un grande sforzo di formazione specifica con il corso Università di Firenze-SSR- Università di Harvard, che ha interessato centinaia di medici dell’emergenza territoriale e di PS. Ad oggi poche decine di medici specializzati in EU sono stati introdotti nel sistema, mentre molti di quelli formati dal “corso Harvard” hanno lasciato il lavoro in PS, dando vita a un turnover con giovani medici che non hanno alcuna formazione specifica e che -si presume per tanti di loro-vivranno “di passaggio l’esperienza lavora-tiva in PS. Siamo di fronte al problema della formazio-ne permanente che deve vedere un impegno del sistema sanitario regionale, ormai in grado di poter contare su metodiche moderne come la simulazione e professionisti diventati esperti nell’utilizzarle. C’è infine un punto di vista importante da sottolineare: è quello che vede l’indissolubile intreccio fra i problemi di formazione, inserimento lavorativo e carriera. Senza un punto di vista unitario, che comprenda la certezza di sviluppo di una carriera lunga e faticosa, sarà difficile ancorare anche gli specialisti a un arco temporale di 40 e più anni.d) È maturata una nuova consapevolezza sulla necessità di misurare la qualità del lavoro in emergenza-urgenza. Nel decennio precedente le indagini MeS- Regione Tosca-na hanno avuto il merito di introdurre il problema. Inizial-mente subìto, poi rielaborato dai professionisti come un aspetto con il quale confrontarsi in prima persona, richie-dendo un ruolo sempre più attivo nella formulazione degli indicatori5. Per fare questo, è preliminare acquisire una nuova cultura del dato,senza la cui affidabilità, qualsiasi ipotesi di indicatori qualitativi può restare una chimera.Il lavoro dell’Agenzia regionale di sanità sui codici delle diagnosi e delle prestazioni va in questa direzione7: è un

primo mattone per la costruzione realistica e partecipata di indicatori in cui i professionisti possano pienamente riconoscersi per la valorizzazione della propria specialità e il confronto costruttivo fra di loro. In questo processo c’è la necessità di arrivare finalmente, dopo tanti anni, a un unico programma gestionale di PS, in modo da creare un sistema informatico di dati più fluido e sicuro.e) Tra gli aspetti professionali, quello degli infermieri e della loro crescita in competenza e autonomia è molto at-tuale. Il processo iniziato alla fine degli anni ‘90 ha avuto ulteriore sviluppo nell’ultimo periodo e pone la necessità di nuovi passi normativi che riconoscano anche su quel piano (sciogliendo ogni ambivalenza) i mutamenti di fatto realizzati. Il triage è stato l’epicentro di tale crescita pro-fessionale in EU. In Toscana, in particolare, si è sviluppata una cultura della metodica che ha avuto un’ importante influenza nel tentativo nazionale di arrivare a linee-guida valide su tutto il territorio. Se oggi in Toscana stiamo ri-vedendo alcuni aspetti tecnico/professionali del triage, questo è per lo sviluppo diffuso e partecipato del triage nei PS toscani: è stato utilizzato con metodica unitaria e sottoposto a verifica di qualità, fino alla critica anche nel-la sua essenza organizzativa. Sono in discussione, con la partecipazione attiva della professione infermieristica, nuove interpretazioni concrete del triage che mettono in gioco l’organizzazione complessiva del PS. Come evoluzione del triage è nato l’esperimento toscano del See and Treat8, esperimento positivo nella prima fase di attuazione,poi andato incontro a diverse difficoltà che lo hanno reso non omogeneo, come auspicato, sul territo-rio regionale. Anche questo terreno va ripreso, non solo sul piano professionale per la conferma dell’insostituibile ruolo degli infermieri anche nella gestione clinica di certi casi, ma come momento organizzativo che,se reso stabi-le, può concorrere a una maggiore efficienza di tutto il sistema PS.L’evoluzione della professione è stata tale da porre la que-stione se anche l’infermiere non debba avere una sua specializzazione, considerato che il lavoro infermieristico può esplicarsi per aree di intervento che hanno un’omo-geneità di contenuti professionali (basti pensare all’area della medicina critica e dell’emergenza-urgenza): l’infer-miere “capace di tutto” poteva andare bene quando i compiti professionali erano sostanzialmente di supporto al lavoro medico.

Tutti i problemi, qui sopra più o meno estesamente accen-nati, saranno sviluppati negli articoli della monografia, con lo spirito di vedere questa fase di ristrutturazione del-

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912 N. 210 - 2016L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

4 McHugh M, Van Dyke K, McClelland M (2011): Improving patient flow and reducing ED crowding. A guide for hospi-tals; AHRQ publication N° 11(12)-0094

5 Sun CS, Hsia RY, Weiss RE et al (2013): Effect of ED crowding on outcomes of admitted patients; Ann Emerg Med, 61(6):605-11

6 Laboratorio MeS,Istituto di management, Scuola Superiore S.Anna (2016):Il quaderno del Pronto Soccorso,a cura di Pa-nero C.,Nuti S.,Marcacci L. Rosselli A.,Ed. Polistampa,Firenze

7 ARS toscana (2016): La codifica delle diagnosi e delle pre-stazioni per i Pronto Soccorso della Toscana, cura di Rosselli A.,Di Fabrizio V.,Vannucci A., https://www.ars.toscana.it/it/pubblicazioni/e-book/i-nostri-e-book/3455-un-e-book-per-il-pronto-soccorso.html

8 Rosselli A.,Becattini G., Cappugi M., Francois C.,Ruggeri M. (2012): See&Treat. Protocolli medico-infermieristici: la sperimentazione toscana nei Pronto Soccorso; Giunti Editore,Firenze

le ASL come un’occasione da non perdere per affermare nuovi contenuti organizzativi e professionali,superando vecchi localismi e tenendo fermo lo sguardo su un oriz-zonte più vasto. Con una visione nazionale e,perché no, europea,che preveda un serrato e produttivo confronto di storie, culture e organizzazioni tra le varie realtà: aprirsi senza timori e reticenze significa usufruire e mettere a di-sposizione patrimoni che possono generare, anche nella loro sintesi, un significativo e accelerato progresso.

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913L’organizzazione dell’emergenza-urgenzaN. 210 - 2016

AbstractIl 118 della Regione Toscana è nettamente sovradimensionato se lo si confronta con altre realtà regionali evolute ed efficienti quanto la nostra. Il sovradimensionamento ha origini complesse che risalgono indietro almeno fino agli anni 80 ma oggi, con l’attuale assetto, il sistema rischia di essere diventare poco sostenibile, soprattutto sul piano del numero e del percorso formativo del personale impegnato. Tutto questo proprio adesso, all’arrivo sul mercato del lavoro dei medici specialisti in medicina e chirurgia di accettazione e d’urgenza, nei quali avevamo riposto speranze ed ambizioni per l’avvenire. Si pone perciò la necessità di rivedere l’assetto del sistema, alla luce dei nuovi indirizzi che la Regione e lo Stato hanno emanato nel corso degli anni (dalla DGRT n 24 del 2009, alla famosissima 1235, fino agli ultimi PSR della Regione Toscana ed al decreto Balduzzi), che tenga anche conto del ruolo centrale del Volontariato all’interno del sistema e ne rafforzi il contributo, permettendoci di circoscrivere l’impiego di un numero limitato di professionisti, prevalentemente a partenza dagli ospedali e ad elevato standard di formazione, ai casi in cui è davvero necessario.

Simone MagazziniDirettore Dipartimento d’emergenza e area critica Azienda USL Toscana centro

Emergenza territoriale, un modello da ripensare

Premesse storiche e criticità attualiIn Toscana oggi disponiamo di una rete di emergenza territoriale il cui dimensionamento probabilmente non ha uguali in Italia. Questa rete si è sviluppata sia per la ge-nerosa disponibilità di PET, resa possibile nel corso dei decenni grazie alla capillarità delle sedi del volontariato, sia per il crescente impegno di professionisti sanitari. All’epoca in cui questo processo si è avviato e consolida-to (fine anni ’70 - inizio anni ’90), il personale medico era costituito per lo più da specializzandi, che a quei tempi non erano retribuiti dall’Università e potevano lavorare durante il corso di specializzazione. Questi medici veni-vano assunti dalle associazioni del Volontariato, a loro volta convenzionate col sistema sanitario che, visti anche i costi molto bassi, accoglieva ogni richiesta di convenzio-ne senza eseguire troppe verifiche sulla effettiva copertu-ra del territorio. I medici impegnati erano specializzandi per lo più provenienti dalle discipline attinenti all’attività che andavano a svolgere nel sistema di emergenza, e quindi in media erano motivati e piuttosto competenti, ol-tre che facilmente reclutabili. Di solito questi medici erano anche soggetti ad un rapido ricambio, perché una volta terminata la specializzazione trovavano posto in Ospe-dale e lasciavano il 118, per loro l’emergenza territoriale

rappresentava più un momento di passaggio ed una op-portunità di formazione che una occasione per collocarsi stabilmente nel mondo del lavoro. Il sistema toscano, con queste modalità, nasceva e si svilup-pava in netto anticipo rispetto al resto della rete d’emergen-za territoriale di quasi tutto il resto d’Italia che, dobbiamo ricordarci, ha messo in piedi in maniera sistematica le Cen-trali operative e sistemi di emergenza solo dopo l’avvento della legge de Lorenzo del ’92. Poche realtà, come Udi-ne o Bologna, venivano organizzate più meno negli stessi anni del sistema toscano, già allora però queste realtà na-scevano con modalità completamente diverse e su model-li territoriali molto più snelli ed a partenza dall’ospedale. Come tutte le esperienze pionieristiche il modello toscano si basava molto sull’entusiasmo dei giovani e sulla “vision” di alcuni personaggi illuminati (a Firenze in particolare i Professori G. Bertini e G.P. Novelli), confortati da risultati sul campo assolutamente apprezzabili. Nel corso degli anni, soprattutto dopo l’avvento del nume-ro chiuso all’Università che ha ridotto il numero dei lau-reati e l’adozione della normativa europea sulle specia-lizzazioni che ha reso incompatibile ogni altra attività la-vorativa, il reclutamento e la selezione dei medici si sono progressivamente modificati, in un contesto poco chiaro

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914 N. 210 - 2016L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

In sintesi:- abbiamo una rete molto fitta di PET ma il substrato

è un Volontariato attivo e competente. Questa risorsa ci differenzia dalla gran parte d’Italia, e ci offre op-portunità anche per l’avvenire che non possiamo non cogliere,

- abbiamo molti medici sul territorio, non siamo nemme-no sempre certi di utilizzarli a pieno (specialmente in alcune aree), ma cominciamo ad avere serie difficoltà a reclutarli ed a mantenere gli standard formativi,

- abbiamo costruito la figura unica dello specialista nella medicina e chirurgia di accettazione d’urgenza, ma gestiamo come professioni separate il territorio e il Pronto Soccorso e non abbiamo realizzato alcun per-corso di carriera,

- siamo ancora troppo timidi nel coinvolgimento del per-sonale infermieristico col giusto grado di autonomia, in un settore in cui potrebbe avere un ruolo ancora più centrale.

Modalità possibili di interventoSi può ipotizzare di rendere più snello ed efficace, ed al tempo stesso sostenibile il sistema costruendo la rete di base intorno ai mezzi del Volontariato, garantendo un intervento precoce BLSD (8’ nelle aree urbane, 20’ nel resto del territorio regionale). Questa rete di base andreb-be integrata con un numero più contenuto di professionisti con elevati standard formativi, che il sistema dovrebbe mettere in campo in maniera molto mirata, utilizzando protocolli dipsatch che li attivino davvero quando serve. Il ruolo del personale infermieristico sul territorio, in que-sto contesto, dovrebbe tener conto di quello che profes-sione infermieristica è diventata in questi ultimi decenni in tema di competenze ed abilità. Questo ci permetterebbe di definire una volta per tutte che l’ambulanza infermieri-stica, in un sistema ben definito di protocolli e procedure che coprano tutta l’attività dal dispatch alla conclusione del servizio, è un mezzo di soccorso avanzato e come tale deve essere utilizzato.Bisognerà poi pensare a percorsi di integrazione di at-tività e di carriera fra 118 e PS, realizzando una reale integrazione ed un percorso professionale che veda il medico di medicina e chirurgia d’accezione e d’urgenza attivo in tutti i contesti intorno ai quali abbiamo costruito il suo percorso formativo. Col termine “integrazione” fra medici del territorio e del PS, non si intende solo indicare che le auto mediche partano tutte dai PS e che fra un servizio e l’altro il personale dell’auto medica operi in PS sui codici a bassa priorità, ma anche che il personale

e poco uniforme di selezione, formazione e carriera (cor-si di abilitazione più o meno improvvisati, medici dipen-denti e convenzionati insieme, sanatorie, ecc). A rendere ancora più articolato il sistema si è aggiunto l’impiego di personale infermieristico, che è stato negli anni progressi-vamente coinvolto sul territorio, sia con l’attivazione delle auto mediche che delle ambulanze infermieristiche. Que-sti mezzi di soccorso hanno progressivamente integrato o sostituito le ambulanze medicalizzate, nel contesto di una distribuzione sul territorio piuttosto variabile di mezzi e di relative modalità operative. Si tratta di differenze di organizzazione e di risposta anche molto diverse da un territorio all’altro, ma tutte assolutamente legittime se si considera che si operava nel contesto di Aziende USL su base provinciale e quindi in un contesto di ampia autono-mia gestionale e organizzativa. In particolare salta agli occhi la variabilità del ruolo delle ambulanze infermieristiche, probabilmente la risorsa pro-fessionale più flessibile e razionale introdotta nel’emer-genza negli ultimi anni, e soprattutto quella con le mag-giori potenzialità in tema di innovazione. Il loro impiego dove è stato attuato ha sempre dato eccellenti risultati, ed è indiscutibile che la professione infermieristica negli anni ha acquisito contenuti teorici e capacità operative asso-lutamente adeguate. Nonostante tutto questo, il modello stenta ad affermarsi, è quasi ovunque sottodimensionato, ed in alcuni sistemi semplicemente non esiste. Questa variabilità “strutturale” dei sistemi d’emergenza territoriale già adesso, ma sempre di più nei prossimi anni, dovrà fare i conti con la crescente difficoltà nel reclutamento del personale medico, soprattutto se si de-sidera assumere personale di ruolo e con un curriculum formativo adeguato. Questa affermazione può apparire quasi paradossale se si considera che in questi anni è nata la specializzazione in medicina e chirurgia di ac-cettazione e d’urgenza, e finalmente, dopo tante batta-glie, abbiamo a disposizione i professionisti che abbiamo sempre invocato per i sistemi di emergenza in ospedale e sul territorio. Il fatto è che il fabbisogno di personale, con i nostri attuali modelli di servizio in ospedale e sul territorio, prevede organici tali che gli specialisti non po-tranno mai coprire per più del 10-15% del fabbisogno e, in ogni caso, reclutare medici, anche attraverso le più ampie equipollenze, diventerà sempre più difficile. Detto tutto questo occorre precisare che complessivamen-te abbiamo ancora un sistema di emergenza efficace e ben radicato sul territorio, ma riusciremo a mantenerlo se saremo capaci di affrontare e risolvere le criticità che lo affliggono.

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915N. 210 - 2016 L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

di riferimento territoriale a cui far riscorso non solo per le rare problematiche di emergenza-urgenza, ma anche per le urgenze minori, limitando quanto più possibile il disagio di compiere lunghi spostamenti per problemi facil-mente gestibili con competenze e dotazioni di minima. In queste postazioni, destinate comunque ad un basso livello di operatività, non dovrebbero operare sempre gli stessi operatori, ma dovrebbe girare il personale medico e/o infermieristico che opera anche presso le strutture a più alto indice di utilizzo, per garantire a tutti gli operatori il mantenimento delle abilità e dell’operatività. Se queste modalità di riorganizzazione venissero applica-te su tutto il territorio regionale si opererebbe una specie di rivoluzione sul piano organizzativo, che ridurrebbe drasti-camente il numero dei dipendenti ed attribuirebbe al Volon-tariato un ruolo ancora più centrale nella rete di soccorso.

medico si alterni nei turni in auto medica ed in PS, realiz-zando progressivamente la figura del medico di medicina e chirurgia di accettazione e d’urgenza, che opera sul territorio ed in ospedale. Le modalità di costruzione di questa integrazione e le strategie di formazione per il coinvolgendo graduale del personale già in servizio (per quanto possibile), dovrebbero essere oggetto di program-mazione da parte delle Aziende.Infine, in una Regione ricca di isole, montagne ed ampie aree poco popolate e disagiate, nelle quali i volumi di attività sono molto bassi e gli ospedali ed i servizi sani-tari piuttosto lontani, si dovrebbe studiare un modo per integrare, nella figura del medico del 118, anche la mo-destissima attività della guardia medica (che in queste aree pare si voglia mantenere), magari integrata anche con l’attuale attività di PPS, offrendo ai cittadini un punto

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916 L’organizzazione dell’emergenza-urgenza N. 210 - 2016

AbstractIl sistema sanitario nazionale è in una fase di profonda trasformazione che comprende anche i sistemi di emergenza terri-toriale. In molte Regioni si sta provvedendo ad una riorganizzazione delle Centrali operative 118 ed anche in Toscana se ne prevede una sensibile riduzione nell’ordine del 50%, ma anche una riqualificazione in termini strutturali, tecnologici e di personale. Tale riorganizzazione sarà sottoposta, un volta completata, ad una attenta verifica sulla base di indicatori di efficienza e di efficacia che confermeranno, o meno, la correttezza delle scelte fatte.

La Centrale operativa 118dimensionamento e funzioniPiero PaoliniU.O. Centrale operativa 118 Pistoia

Anche il mondo della sanità sta subendo una fase di pro-fonda trasformazione frutto, in particolare, della Legge 70/2015, che di fatto ridisegna il sistema sanitario na-zionale. Pure il mondo dell’emergenza territoriale non è esente da questa riorganizzazione che riguarda i suoi due settori cardine: la Centrale operativa e le postazioni di emergenza territoriale. La Regione toscana si è da tem-po dotata di leggi (81/2012) e delibere (1235/2012, 1117/2013, 544/2014, 7/2015) che di fatto stanno ridisegnando il mondo del 118 e quindi anche le Centrali operative che in origine erano 12 e che lentamente si stanno adeguando a quanto previsto dalla delibera di Giunta 544/2014, che ne prevede a regime 6. L’obiet-tivo, naturalmente, è quello di riorganizzare il sistema dell’emergenza con l’intento primario di non abbassare il già ottimo livello di assistenza, impresa per altro non facile e non scontata, ragion per cui coloro che sono chiamati a dettare le linee di indirizzo per questa pro-fonda trasformazione, in particolare per quanto riguarda le Centrali operative, devono porsi alcune domande che sostanzialmente sono rivolte al dimensionamento ottima-le, agli standard tecnologici, alle funzioni, al personale e non ultimo, come possiamo quindi trasformare questa riorganizzazione in una opportunità. Riguardo il dimensionamento la Legge 70/2015 preve-de una centrale con un bacino di riferimento “orientati-vamente non inferiore a 600.000 abitanti” ed in questo la riorganizzazione della nostra Regione sembra rispon-dere a questo criterio a fronte però di un territorio che

presenta molte criticità e diversità legate alla differente organizzazione dei 12 sistemi territoriali, all’orografia toscana poco rappresentata dalle pianure (circa 8%) a tutto vantaggio di un territorio prevalentemente collinare e montano, con moltissime case sparse, isole e lunghe coste che di certo rendono il soccorso molto più complesso in una regione fra le più grandi d’Italia; a questo dobbiamo poi aggiungere un flusso turistico (che riguarda le città d’arte, il mare, i monti, sia durante l’estate che in inverno a causa della presenza di importanti stazioni sciistiche e quello termale) che forse non ha uguali nel panorama na-zionale. Un parametro sul quale misurare la nuova orga-nizzazione, sarà certamente quello di monitorare il tem-po che intercorre tra la chiamata alla Centrale operativa e l’arrivo del primo mezzo sul luogo dell’evento, parametro che colloca oggi la Toscana tra i primi posti in Italia, con un  tempo medio pari a 15 minuti rispetto a una media italiana di 17, e tutto questo in un contesto di non certo facile orografia del territorio.Di certo la riorganizzazione ha prodotto, da un lato, strutture di altissimo livello tecnologico che oggi le pone ai vertici nazionali in termini di tecnologia presente, ma anche di sicurezza e che di fatto, da questo punto divi-sta, rendono il soccorso più sicuro e, dall’altro, definito in modo chiaro la dotazione quali quantitativa del persona-le della Centrale, definendone al contempo anche ruoli e funzioni. È stata introdotta la figura del medico, accanto a quella storica ed insostituibile dell’infermiere e soprat-tutto è stato sancita la forte integrazione fra il mondo dei

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laico 112 con la funzione propria del nue 112, che aiu-terebbe molto nella individuazione del target anche se la chiamata giunge da un telefono cellulare ed eviterebbe alle Centrali operative 118 una quantità significativa di telefonate inappropriate. Da non sottovalutare, infine, la ricaduta sulle Centrali operative della soppressione, dalla mezzanotte alle 8 del mattino, del servizio medico di continuità assistenziale, che probabilmente avrà uno scarso impatto sull’attività territoriale del 118 in termini di interventi, ma che sicu-ramente aumenterà in modo sensibile il carico di lavoro delle Centrali 118 con un impegno ancora maggiore del-la figura del medico a causa delle richieste di consulenza telefonica e di consigli clinici. Non dobbiamo infine di-menticare che anche una maggiore diffusione sul territo-rio delle ambulanze infermieristiche e di apparati per la trasmissione degli ECG, anche sui mezzi del Volontariato, concentreranno sulle Centrali operative un maggior cari-co di lavoro che, se da una parte alzeranno l’asticella della qualità del servizio sul territorio, rischiano, all’in-terno della Centrale operativa 118, di ridurre il tempo a disposizione da dedicare al così detto “primo anello della catena della sopravvivenza”. Quindi per le considerazio-ni precedentemente esposte si può ritenere che la scelta fatta dalla Regione Toscana con la delibera di Giunta 544 del 30/06/2014 sia la scelta giusta sia in termini di razionalizzazione delle risorse, ma anche per quanto riguarda il dimensionamento delle Centrali operative, le loro caratteristiche strutturali e tecnologiche e, non ultimo, la dotazione di personale sia in termini numerici, che di professionalità e funzioni.

Bibliografia

Decreto Legge 70/2015 “Regolamento recante definizione degli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera” GU 127 del 04/06/2015.

Legge Regione Toscana 81/2012 “Misure urgenti di razionaliz-zazione della spesa sanitaria” BURT 74 del 27/12/2012

DGRT 1235 del 28/12/2012 “Indirizzi alle aziende sanitarie ed alle Aree vaste per il riordino del sistema sanitario regiona-le”.

DGRT 1117 del 16/12/2013 “Sistema di emergenza-urgenza territoriale - Riorganizzazione delle Centrali Operative 118”.

DGRT 544 del 30/06/2014 “Riorganizzazione delle Centrali Operative 118 della Regione Toscana”.

DGRT 7 del 12/01/2015 “Riorganizzazione delle Centrali Operative 118 della Regione Toscana- ulteriori disposizioni”.

professionisti sanitari e quello del Volontariato, colonna portante di tutto il sistema 118, attraverso l’inserimento dell’operatore tecnico di Centrale che già da tempo ope-rava, con ottimi risultati in alcune realtà, pur nel rispetto dei ruoli e dei compiti (per altro sanciti in modo chiaro da apposita delibera di giunta la 7/2015). Fin qui in effetti, questa riorganizzazione ha prodotto, almeno da questi punti di vista, vantaggi tangibili tuttavia una ulteriore ri-flessione dovrà essere effettuata sulla base di indicatori che la stessa delibera 544/2014 definisce in modo pun-tuale, sia in termini di percorsi assistenziali, in particola-re facendo riferimento alle patologie ricomprese nel first hour quintet, sia in termini di tempestività di intervento. Elementi di valutazione vera si dovranno basare sui dati riguardanti i survived event dei pazienti sottoposti a ma-novre rianimatorie, sui tempi door to balloon degli STE-MI, sulla centralizzazione dei pazienti politraumatizzati e, non ultimo, sugli invii ai Pronto Soccorso dei pazienti affetti da stroke, tenendo presente che su questi indicatori impatta pesantemente anche l’organizzazione territoriale e la formazione degli operatori. Non dobbiamo infatti dimenticare che la telefonata alla Centrale operativa 118 rappresenta il primo anello della catena dei soccorsi per cui grande attenzione dovrà essere riservata alla precisa individuazione dell’obiettivo, della criticità presunta, del-la patologia prevalente, della scelta del mezzo di soccor-so più idoneo e, non ultimo, alla somministrazione delle istruzioni pre-arrivo che in molti casi sono fondamentali nella catena della sopravvivenza. È qui che diventa cen-trale la figura dell’infermiere che rappresenta il vero front office di tutta la struttura e sul quale occorrerà investire soprattutto in termini di formazione e di motivazione. Un ulteriore valore aggiunto è quella della presenza del medico che ha un ruolo sostanzialmente di secondo opi-nion ma, anche e soprattutto, di gestione operativa dei percorsi assistenziali tempo dipendenti e dei rapporti con i colleghi ospedalieri. Queste sono in sintesi le ragioni che ci devono guidare in questa fase di riorganizzazio-ne cercando di coglierla come una opportunità per mi-gliorare il servizio. È difficile definire il bacino ottimale perché questo dipende da vari fattori che sono legati alle specificità delle singole Regioni, e la Toscana in questo non è seconda a nessuna, ma, forse, il parametro della Legge 70/2015 non è così lontano dalla realtà. A patto però che si completi davvero questa fase attraverso una revisione vera delle postazioni di emergenza territoriale, avendo come obiettivo soprattutto l’omogeneizzazione del servizio, e, non ultimo, l’istituzione di un call center

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918 L’organizzazione dell’emergenza-urgenza N. 210 - 2016

AbstractMolti Dipartimenti di emergenza in tutto il mondo sono costantemente sovraffollati in modo critico e questo influenza signifi-cativamente l’assistenza. Il sovraffollamento del Dipartimento di emergenza comporta infatti ritardi nell’assistenza, incremen-to della mortalità e riduzione della soddisfazione del paziente1-5. Le cause del sovraffollamento sono multifattoriali e sono solitamente classificate come legate all’“input” (accesso), “throughput” (lavorazione) e “output”(uscita)6. In questo articolo cercheremo di affrontare i vari determinanti del sovraffollamento indicati in letteratura e presenti nella nostra realtà e le pos-sibili soluzioni.

L’Overcrowding e il BoardingDa dove iniziare per affrontare il problema più grave per il PS

Germana RuggianoDirettore medicina d’urgenza, Ospedale S. Maria Annunziata, Azienda USL Toscana centro

Nel mondo anglosassone il fenomeno del sovraffollamen-to è ampiamente studiato da molti anni e suddiviso in ter-mini teorici in 2 determinanti che a seconda delle realtà hanno un impatto diverso. Questi fenomeni sono:- “Crowding” o “Overcrowding” (iperafflusso, inteso

sia come affluenza che come permanenza dei pazien-ti all’interno per attività di PS). In pratica con questo termine si intende il livello di occupazione dei PS ge-nerato dai pazienti che via via vi accedono e da quel-li che stanno compiendo l’iter diagnostico terapeutico (input e throughput).

- “Boarding”: con questo termine derivato dal trasporto aereo si intende indicare il fenomeno dell’accumulo in PS dei pazienti che hanno già completato il percorso assistenziale in PS ma, per vari motivi non possono lasciarlo (output)

Nel 2008 l’ACEP (American College of Emergency Physi-

cian) ha pubblicato un report intitolato “Emergency De-partment Crowding: High-Impact Solutions” in cui racco-mandavano delle azioni immediate per cercare di ridurre il fenomeno7. A distanza di numerosi anni vari lavori pre-senti in letteratura hanno analizzato l’applicazione di tali “high impact solutions” e il loro reale impatto8.

Il fenomeno del Crowding o overcrowding: analisi del fenomeno e possibili soluzioniIl livello di affollamento dei PS, si compone quindi di 2 principali fasi: la fase di accesso “input” (quanti pazienti arrivano, per quale motivo, con quale modalità, inviati da chi, in quali parti della giornata, ecc) e la fase di “pro-cesso” “throughput”, intendendo con quest’ultima tutto ciò che accade al paziente una volta registrato in ingresso fino al completamento del percorso clinico di PS. Quindi il fattore “input” attiene ad un eccessivo contemporaneo accesso di pazienti in PS ed il fattore “throughput” si ri-

Fattori condizionanti l’overcrowding

Fattori condizionanti l’input Fattori condizionanti il throughput

Visite non urgenti Organico inadeguato

Reingressi (frequent flyers) Ritardo dei servizi di supporto diagnostico

Epidemiologia (acc. stagionali) Appropriatezza degli esami/consulenze

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il Pronto Soccorso, che di fatto diventa solo il luogo di una lunga attesa del posto letto con relativo spreco di risorse (assistenza, terapie, la ripetizione di esami necessari per il personale del PS che non conosce il paziente ma di scarsa utilità per coloro che lo prenderanno in carico suc-cessivamente, ecc).

2) Fase di processo “throughput”Lo standard attuale (DGRT 140 2008) prevede che:- indipendentemente dal codice colore, i pazienti desti-

nati ad essere trattenuti in osservazione breve o rico-verati possano rimanere all’interno dei PS al massimo 8 ore,

- quelli destinati ad essere rinviati al domicilio possono rimanere in PS al massimo 4 ore.

Il dato regionale mostra che l’indicatore delle 4 ore vie-ne soddisfatto in una percentuale variabile dei casi, che nella nostra Regione va dal 70% al 90% con una media del’83,77% (dati Mess S. Anna 2014). In ogni caso, i principali fattori limitanti nel perseguire questo obiettivo sono:- tempi di attesa: è evidente che dove il tempo di attesa,

specialmente dei codici a minor priorità, si allunga oltre le 2 ore, il tempo residuo per arrivare alla dimis-sione in 4 ore è troppo poco per chiunque necessiti di una prestazione che vada oltre la sola visita medica,

- numero e tipo degli esami richiesti. Questo fenomeno è particolarmente rilevante quando si prevedono suc-cessioni di esami (curve enzimatiche, TC a completa-mento di Rx dubbie, ecc)

- tempi di esecuzione e refertazione degli esami da par-te dei Servizi (lab, radiologia, consulenze),

- tempi di attesa per il trasporto a domicilio (macchina privata o ambulanza).

I processi interni al PS sono stati oggetto di numerosi studi a livello internazionale, finalizzati a abbreviare i tempi di permanenza dei pazienti.Attualmente sembrano poche le soluzioni che hanno una qualche chiara evidenza scientifica di miglioramento delle performance. Tra queste è stata sperimentata nel mondo anglosassone anche la collocazione di un medico esperto in area triage per ridurre i tempi di attesa e di gestione dei pazienti all’arrivo con risultati variabili nelle diverse realtà9-12; il principale limite di questo tipo di soluzione è la carenza di risorse. La soluzione considerata più valida a livello internazionale è la creazione di percorsi omoge-nei indipendenti (FastTrack-FT degli autori anglossassoni) per i pazienti con problemi minori (area a bassa intensità che comprende anche il S&T). La dimensione di questi

ferisce ad un possibile rallentamento/inceppamento sia dei percorsi interni (legati soprattutto ad una carenza di personale) sia delle fasi del percorso diagnostico sottese alla processazione dei pazienti (diagnostica laboratoristi-co-strumentale e consulenziale).

1) Fase dell’inputComplessivamente l’analisi della fase di accesso sembra suggerire che ci sia nella popolazione la consapevolez-za di trovare comunque risposta presso il PS, anche per problemi che con la medicina di PS hanno poco a che ve-dere. La necessità di consultare il curante appare invece sempre meno percepita dagli utenti in fase di comparsa dei disturbi, come se avessero deciso che la giusta collo-cazione del contatto col curante sia alla fine del percorso, per condividere con lui i risultati e le indicazioni ricevute in PS. In altre parole, il PS per parte della popolazione è il luogo di inizio praticamente di tutti i percorsi diagnosti-co-terapeutici ritenuti anche solo soggettivamente urgenti mentre il territorio, al massimo, è la sede per il follow-up e la conclusione. Questo tipo di approccio si è evoluto nel corso degli anni, in parte incoraggiato dalle normative (modello di servizio della medicina generale e della con-tinuità assistenziale, ticket, esenzioni, recenti disposizioni regionali in tema di gestione delle liste di attesa, di rila-scio STP, ecc) ed in parte giustificato dal potenziamento dei PS (ridefinizione degli spazi, assunzione di medici di PS per i codici bianchi ecc). Ridistribuire la quota inappropriata di questa domanda non è facile. Tale processo dovrebbe passare infatti per una rimodulazione dell’offerta in altri setting di efficienza paragonabile al nostro e, comunque, richiederebbe un certo tempo per “abituare” l’utenza ai nuovi percorsi. Gli ultimi piani regionali hanno previsto un notevole potenzia-mento del territorio con le Case della salute e le aggrega-zioni del medici di medicina generale con l’obiettivo di ridurre gli accessi inappropriati al PS. Ci sono poi da considerare i pazienti cronici, con ricove-ri ripetuti per la stessa patologia (scompenso cardiaco, BPCO, diabete complicato), prevalentemente destinati all’area medica e seguiti, sul territorio, da servizi ambu-latoriali o domiciliari. Per questi pazienti un certo numero di accessi a ricovero all’anno è di fatto inevitabile, anche le più avanzate esperienze di Chronic Care Model infatti non hanno dimostrato di ridurre il numero di ospedaliz-zazioni/anno di questi pazienti. L’evoluzione clinica di questi pazienti in molti casi è graduale e progressiva e permetterebbe di organizzare il ricovero, quando davve-ro necessario, senza obbligare il paziente a passare per

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920 N. 210 - 2016L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

al ricovero in altre aree di degenza compresa l’area cri-tica.Si tratta sempre di una popolazione ad elevato assor-bimento di risorse (anziani con polipatologia, terapie domiciliari complesse, insufficienze d’organo croniche, ecc), che rimane a lungo in ambienti non idonei (spesso si utilizzano i corridoi per non inficiare la capacità di ac-coglienza dei nuovi pazienti presso le sale visita del PS). I rischi del sovraffollamento sono soprattutto per questa tipologia di pazienti: ritardo di terapia, cadute, etc.

Fattori determinanti l’output

Sovraccarico pazienti ricoverati

Ritardo nelle dimissioni

Riduzione dei posti letto

Se i fattori che abbiamo analizzato nella prima parte dell’articolo sono alla base dell’incremento della richiesta di ricovero la riduzione dei posti letto è uno dei determi-nanti principali dei problemi nell’output. Nel corso degli anni a livello nazionale ed ancor di più regionale si è assistito ad una progressiva riduzione del numero di posti letto per 1000 abitanti passando da 6,1 del 1996 al 3,7 del 2015. Tale riduzione ha reso necessaria un’ottimiz-zazione del livello di efficienza dell’occupazione dei letti disponibili con una riduzione dei tempi medi di degenza. Una soluzione, seppur parziale, al problema del Boar-ding può essere trovata solo nel momento in cui tutto l’o-spedale converge sul concetto che il problema è sistemico e non è del Pronto Soccorso (TASK force dell’ACEP sul Boarding)7. In concreto, le azioni che possono avviare a soluzione detto fenomeno sono: a) interne al PS (vedi cap. crowding) b) proprie dell’Ospedale nel suo complesso e volte a mi-

gliorare accesso e flusso dei pazienti ai /dai reparti.Uno dei punti critici nel confronto tra l’attività dell’ospeda-

accessi si colloca fra il 10 e 30% di tutti gli accessi. Inoltre nella tipologia del percorso FT devono essere compresi quei percorsi extra-PS affidati a specialisti di settore (ocu-listica, ORL ecc) ai quali vengono indirizzati dal triage una serie di casi – secondo protocolli concordati – che vengono interamente gestiti fuori dal PS. Per quanto riguarda l’efficienza dei due principali servi-zi diagnostici (laboratorio e radiologia) che negli anni è andata migliorando ma che ancora non risponde all’esi-genze del PS, nelle nostre realtà, considerati anche i costi di eventuali strutture aggiuntive, riteniamo che la strategia migliore sia quella di legare i suddetti servizi diagnostici alla struttura dipartimentale della EU, con la creazione di strutture semplici che condividano con la UO di MU gli obbiettivi temporali dei tempi di attesa e di permanenza in PS.

Il fenomeno del BoardingUna volta terminato il processo di inquadramento e stabi-lizzazione clinica il PS dovrebbe dimettere a domicilio o ricoverare il paziente presso una UO del Presidio ove ope-ra “Output”. Il tempo di permanenza presso i locali del PS dei pazienti destinati al ricovero, secondo gli standard regionali (DGRT 140 del 2008), non dovrebbe superare alle 8 ore. Solo per alcuni pazienti, che non dovrebbero comunque raggiungere il 10-15% dell’affluenza globale, potrà essere necessario un periodo di osservazione allo scopo di osservare l’evoluzione del paziente, monito-rando parametri clinici, strumentali o di laboratorio. Per questa attività, definita “osservazione breve intensiva” o “decision making unit”, sono previsti dei posti letto, con o senza monitoraggio multiparametrico, calcolati in misura dell’affluenza (1 ogni 4/6.000). Il fenomeno principale che costituisce il boarding e consi-derato a livello internazionale il principale determinante del crowding è l’attesa posto letto, prevalentemente riser-vata ai pazienti che aspettano un letto in area medica ma, non eccezionalmente, anche per i pazienti destinati

Soluzioni proposte per il Crowding

Incremento delle risorse Gestione degli accessi Ricerca operativa

Personale aggiuntivo Percorsi non urgenti (fast track, See &Treat) Misure di controllo dell’affollamento

Unità di osservazione Diversione delle ambulanze Teoria sulla gestione delle code

Progammi di Bed Management Controllo della destinazione

Unità di dimissione

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dial infarction. Ann Emerg Med. 2004; 44:577-585.

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3 Pines JM, Localio AR, Hollander JE, et al., The association between emergency department crowding and hospital per-formance on antibiotic timing for pneumonia and percuta-neous intervention for myocardial infarction. Acad Emerg Med. 2006; 13:873-878.

4 Richardson DB. Increase in patient mortality at 10 days as-sociated with emergency department overcrowding. Med J Aust. 2006; 184:213-216.

5 Pines JM, Iyer S, Disbot M, et al. The Effect of Emergency Department Crowding on Patient Satisfaction for Admitted Patients. Acad Emerg Med. 2008; 15:825-831.

6 Asplin BR, Magid DJ, Rhodes KV, et al. A conceptual model of emergency department crowding. Ann Emerg Med. 2003; 42:173-180.

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8 Shang Li et al Established and Novel Initiatives to Reduce Crowding in Emergency Departments. West J Emerg Med 2013;14(2):85-89.

9 Traub et al Emergency Department rapid medical assessment: overall effect and mechanistic consideration. J Emerg Med 2015; 48(5): 620-7.

10 White BA et al Supplemented Triage and rapid treatment (START) improves performance measures in the emergency department. J Emerg Med 2012; 42 (3): 322-8.

11 Rowe BH et al The role of triage liason physicians on mitiga-ting overcrowding in emergency departments: a systematic review. Acad Emerg Med 2011; 18 (2): 111-20.

12 Choi Y et al Triage rapid initial assessment by doctor (TRIAD) improves waiting times and processing time of the emergency department. Emerg Med J 2006; 23: 262-265.

le e quella del PS è che il PS lavora a ritmo costante 7/7 gg e 24/24 ore al giorno e l’ospedale lavora 5/7 gg e dalle ore 9 alle 17 (più o meno). È necessario che l’ospedale per acuti si riorganizzi in modo da garantire un lavoro 7/7 gg e 24/24 ore sia per quanto riguarda i servizi (radiologia e consulenze varie) che per quanto riguarda le dimissioni la domenica.Un aspetto rilevante è anche quello dei ricoveri per la chirurgia elettiva che preferenzialmente vengono eseguiti dal lunedì al mercoledì riducendo la disponibilità dei letti per le urgenze in quei giorni della settimanaAndrebbe analizzato a livello delle singole realtà il pro-cesso di dimissione, dalla decisione medica alla effettiva dimissione del paziente, andando a valutare tutte le cau-se di ritardo: chiamata dei parenti, preparazione della relazione scritta, trasporto in ambulanza. Sarebbe oppor-tuno anticipare al chiamata dell’ambulanza alla sera pri-ma o alle prime ore del mattino e la preparazione della relazione entro le 12-13.L’utilità delle “Discharge Units” intese come aree in cui viene gestito il paziente in attesa di dimissione non è uni-versalmente accettata e andrebbe valutata nelle singole realtà; sicuramente in caso di ritardi legati al trasporto in ambulanza potrebbe accelerare i tempi di liberazione del letto in reparto.A livello del sistema ospedale due devono essere i pas-saggi fondamentali:1. Estensione della funzione dei bed management ope-

rata dalle Direzioni di presidio a tutte le esigenze di ricovero e non solo a quelle del PS.

2. Introduzione, in sede di negoziazione del budget dell’obiettivo del non invio in PS dei pazienti da parte delle UO afferenti all’Ospedale.

Bibliografia1 Schull MJ, Vermeulen M, Slaughter G, et al. Emergency de-

partment crowding and thrombolysis delays in acute myocar-

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AbstractIl triage ospedaliero in Italia si rende indispensabile nel momento in cui il numero dei cittadini che si rivolgono ai Pronto Soccorso supera ampiamente la possibilità delle dotazioni organiche sanitarie di far fronte in tempi adeguati alle richieste di salute dei cittadini. La Regione Toscana ha regolamentato la formazione degli infermieri di triage attraverso la costituzione di una rete di formatori che hanno implementato una metodologia a 5 codici di priorità. Dal 2010 a questo sistema ormai collaudato si è aggiunta la sperimentazione del modello See & Treat, modello assistenziale innovativo, che riconosce all’in-fermiere, adeguatamente formato, la possibilità di seguire il paziente in tutto l’iter di Pronto Soccorso dalla presa in carico alla dimissione. Questi anni di esperienza sul triage e See & Treat hanno posto le basi perché l’intera organizzazione del Pronto Soccorso sia rivista con l’obiettivo di aumentare efficacia ed efficienza di queste strutture valorizzando al massimo i principi della medicina d’urgenza ed il contributo dei professionisti, medici ed infermieri.

Triage e See & TreatEvoluzione o involuzione?Sabrina Tellini1, Giovanni Becattini2, Marco Ruggeri31Infermiere coordinatore Dipartimento emergenza-urgenza (Macro zona sud Valdichiana senese e Amiata)2Infermiere Dirigente Azienda USL Toscana sud est 3Infermiere DEA Azienda ospedaliero universitaria Careggi

La Toscana è stata tra le prime Regioni italiane a rispon-dere in modo organizzato alle disposizioni del DPR 27/3/92 sull’introduzione della metodica di triage nei PS/DEA: si costituì un gruppo di studio composto da me-dici ed infermieri (DGRT 706/1998) che portarono alla pubblicazione della DGRT 736/2001 attraverso la quale la Toscana, unica in Italia, adottava un sistema di codifica a 5 livelli di priorità. In seguito, attraverso un costante ed impegnativo lavoro di infermieri e medici dei PS/DEA toscani (nel 2001 è stato istituito il Gruppo formatori re-gionali triage toscano), si è strutturata una rete di istruttori che ha nel tempo garantito formazione base e retraining a circa mille infermieri di triage, che in questi anni hanno valutato milioni di cittadini che si sono rivolti alle nostre strutture, facendo accoglienza e stabilendo le priorità as-sistenziali.L’attività di triage si è consolidata nel tempo, in Toscana, soprattutto dopo il processo di omogeneizzazione del si-stema, basato sugli algoritmi decisionali (approvati nel 2010), che concorrono fattivamente a perfezionare e po-tenziare la metodica di triage, permettendo una raccolta dati omogenea e ,grazie agli interventi che ogni Azienda

sanitaria e ospedaliera ha fatto sugli applicativi software, consentendo una comparazione dei dati, valida base per il calcolo degli indicatori di performance, a livello regio-nale.Nonostante i buoni risultati ottenuti dal punto di vista for-mativo e clinico-assistenziale, il triage è stato da più parti criticato, essenzialmente perché tacciato di essere “crea-tore di code”, e secondo l’accezione secondo la quale la mission del triage è volta a smistare i pazienti secondo la loro gravità clinica, senza avviare il processo di assisten-za propriamente detto, che dipende dalla presa in carico da parte del medico.Nel riaffermare l’importanza del triage nell’organizzazio-ne del PS/DEA - gli effetti dell’overcrowding a cui tutti i nostri PS/DEA sono sottoposti non permettono di rinuncia-re ad una valutazione professionale e rapida che inter-cetti le situazioni ad alto rischio evolutivo – ma le critiche sono state valutate avviando un dibattito sull’opportunità del superamento del triage tradizionale per arricchirlo di nuovi contenuti organizzativi e assistenziali.In Toscana si sono avviate numerose esperienze di diver-sa interpretazione della funzione di triage che hanno in

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nuovo personale da formare, oltre all’allestimento di turni di servizio che garantisca presenze in turno di professio-nisti con differenti abilità e competenze acquisite.Dopo aver contribuito, con alcune esperienze, alla ricer-ca di soluzioni all’affollamento delle urgenze minori nei Pronto Soccorso, la Toscana è stata la prima Regione ita-liana a farsi promotrice del modello assistenziale “See and Treat” come risposta ad una selezione di “problemi minori”, (2007).Anche in questo caso la Regione ha usufruito del contri-buto progettuale di un gruppo di medici ed infermieri: sulla base di una valutazione estesa della letteratura in-ternazionale, si è giunti ad elaborare un modello orga-nizzativo assistenziale innovativo alle nostre latitudini. Si prevede che i problemi minori siano individuati al triage e trattati, secondo protocolli clinici predefiniti, da un in-fermiere appositamente formato e certificato. Si configura così un’estensione della funzione di triage, nella quale l’infermiere si fa direttamente carico del problema, negli stessi locali del triage, o adiacenti a questo, senza inseri-re il paziente in percorsi più complessi. La novità organizzativa, accolta favorevolmente da medi-ci e infermieri dei Pronto Soccorso, ha avuto anche criti-che e contestazioni prevalentemente sulla base di posizio-ni conservatrici che, peraltro, hanno riguardato solo una minoranza del mondo medico e istituzionale. Purtroppo queste voci contrarie, hanno in qualche modo frenato la spinta regionale all’innovazione (richiedendo un nuovo stimolo), e hanno contribuito a lasciar emergere progres-sivamente le difficoltà incontrate sul campo (insufficienza di infermieri certificati, eccessivo turnover degli infermieri di PS, mancata incentivazione economica, scarso numero di protocolli….). Il risultato è stato, nel tempo, un utilizzo del percorso S&T a macchia di leopardo. Ciononostante , complessivamente, dal 2010 sono circa 60mila i pazienti trattati nei PS/DEA abilitati (21 generalisti, 2 pediatrici) con una valutazione di efficacia e soddisfazione dei pa-zienti del tutto positiva. Nel 2011 e nel 2013 il MeS ha affiancato alla tradi-zionale valutazione del PS/DEA anche una sezione di indagine apposita sul S&T, per verificare il valore aggiun-to differenziale con evidenza di un reale gradimento del modello da parte dei pazienti trattati (77.6% vs 30.3% del percorso tradizionale), dato confortato anche dal basso tasso degli insoddisfatti, (S&T 4.2% vs percorso tradizionale 12.8%). I risultati positivi del S&T sono ap-prezzabili, secondo i pazienti, anche per la qualità della comunicazione e dell’assistenza, per il rapporto paziente-personale e per le informazioni ricevute alla dimissione.

comune la ricerca di un più precoce avvio del processo assistenziale. Il triage infermieristico viene considerato quindi anche come il momento di scelta del percorso in base all’organizzazione dei singoli PS: dal triage l’infer-miere, per i percorsi a bassa complessità, può indirizzare verso il fast-track specialistico, o gestire in prima perso-na il caso (See and Treat - S&T,); per i percorsi ad alta complessità, seguendo i protocolli stabiliti con l’ equipe medica, può iniziare il percorso diagnostico-terapeutico per particolari quadri sindromici (es. dolore toracico, ipo-tizzando anche per il futuro il proseguimento del percorso direttamente in OBI).In alcune realtà, recentemente, si è introdotta in triage an-che la figura medica. Questa modalità di triage ha come finalità quella di una più precoce presa in carico medica, realizzando così una migliore performance misurabile. Si può però osservare che queste esperienze sono più simili alla definizione di un percorso a presa in carico rapida piuttosto che valutazioni di triage, quindi, oltre a distogliere un medico dalla sua attività clinica principale ( diagnosi differenziale e trattamento dei casi più critici), queste potrebbero essere meglio inserite in un PS orga-nizzato per flussi omogenei che originino dal triage. La performance assistenziale relativa all’attesa, dovrebbe es-sere misurata come relativa al tempo di “presa in carico sanitaria”, vale a dire il tempo che trascorre dalla fine del triage ai primi interventi del processo diagnostico labo-ratoristico-strumentale, spesso assicurati dall’infermiere .Ecco quindi che il triage, che nasce come valutazione del paziente per una corretta gestione delle attese, si integra con una serie di altre funzioni ed attività che lo trasfor-mano in una “cabina di regia” dei flussi sia nel DEA di II livello sia nel piccolo ospedale della costa. Ad oggi, a fronte dell’omogeneità metodologica e di formazione, persistono variabili logistiche organizzative e gestionali che differenziano la risposta sotto il profilo dell’efficienza. Gli interventi di miglioramento da fare dal punto di vista logistico e organizzativo coinvolgono gio-coforza le diverse figure professionali responsabili della gestione e dell’organizzazione: il direttore della struttura per quanto riguarda i rapporti con i medici radiologi, l’in-fermiere coordinatore che promuove, attraverso revisione permanente della qualità del triage, il reclutamento dei pazienti di S&T, e fa direttamente la revisione dei ver-bali di S&T, controllando il rispetto dell’applicazione dei protocolli e la conformità delle rilevazioni riportate dagli infermieri. Considerazioni a più ampio spettro nel contri-buto del coordinatore infermieristico riguardano anche, di concerto con l’infermiere dirigente, il reclutamento di

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mento radiologico standard nei casi in cui la letteratura indica di non farlo, perché non necessario o addirittura inutile. In questo modo potremmo assistere davvero ad un impor-tante incremento della casistica a bassa priorità, stiman-do come possibile inserire il 35-40% nel percorso S&T, li-berando tempo del medico in particolare, ma anche della struttura e del team d’emergenza da una serie di problemi minori che ostacolano i flussi della vera emergenza .Le competenze S&T degli infermieri potrebbero essere sfruttate anche fuori dall’ospedale, infatti nelle Case della salute: un infermiere con certificazione S&T, di concerto con il coordinamento AFT, potrebbe intercettare nella po-polazione di riferimento per quella struttura quei problemi suscettibili di trattamento ed intervenire prima che questi arrivino in Pronto Soccorso.L’esperienza che la Regione Toscana ha fatto con il S&T dimostra che i professionisti possono modificarsi per adat-tare le proprie risposte di salute alle mutevoli esigenze dei nostri assistiti, le organizzazioni sono chiamate a fare altrettanto, perché solo assieme si ottengono i migliori ri-sultati sugli assistiti.

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La maggiore soddisfazione dei pazienti S&T rispetto al percorso tradizionale di PS emerge anche per la qualità del servizio ricevuto e la gestione del dolore. L’insieme dei dati, a vario titolo raccolti, producono l’evi-denza che il percorso S&T assicurato dagli infermieri è si-curo, ma non è ancora efficiente sul piano organizzativo. Per sfruttare appieno le potenzialità per l’organizzazione e per gli assistiti, dovremmo ripartire dalle difficoltà incon-trate, per cercare di superarle : implementazione dell’ap-proccio S&T anche in altri centri ; facilitazione e arricchi-mento dei percorsi S&T laddove presenti; ottimizzazione delle modalità di gestione della doppia responsabilità, (doppia firma infermiere e medico), almeno finché non sarà chiarito che l’infermiere possa redigere autonoma-mente un referto di PS. Altro elemento critico da superare è la difficoltà ad avere sempre disponibile un infermiere certificato tra quelli in turno stante la situazione del nume-ro complessivo degli infermieri in servizio e di quelli cer-tificati, pertanto si ribadisce lo sforzo gestionale che non sempre gli infermieri coordinatori sono riusciti a fare; in-fine il mancato riconoscimento economico collegato alla funzione di triage e See & Treat che garantirà coerenza organizzativa ed un contributo rilevante alla motivazione. Queste azioni porterebbero al completamento organizza-tivo del modello di risposta del PS, che anche attraverso triage e See & Treat otterrebbero l’abbattimento dei tempi di attesa e di permanenza nei nostri PS, nonché al tasso degli allontanamenti spontanei.

Nel futuro quindi il triage diviene differenziato e innesca-tore di percorsi, in quelli complessi, la “presa in carico” scatta all’inizio fattivo del percorso assistenziale (primi esami laboratoristici strumentali) ovvero all’inizio delle pratiche assistenziali; in quelli semplici, ci si dispone, me-dici ed infermieri alla rapida soluzione del caso. Gli infermieri di triage sviluppano sempre più attenzione a selezionare la casistica dei diversi percorsi anche quel-la che può afferire al S&T mentre, il Gruppo dei formatori S&T produce altri protocolli, in modo da fornire a tutti i PS (grandi e piccoli) più ampi margini di intervento.Agli infermieri certificati S&T, alle organizzazioni che li ospitano, si deve chiedere un’attività sempre più aderente all’Evidence Based Practice, assumendo anche decisioni forti quali, ad esempio, la mancata richiesta dell’accerta-

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925L’organizzazione dell’emergenza-urgenzaN. 210 - 2016

AbstractCiò che più differenzia una rete clinica da un altro provider d’identiche cure sono l’approccio multidisciplinare, il coordina-mento e la continuità di cura tra i vari nodi della rete, i percorsi diagnostici terapeutici condivisi e attuati, la buona comunica-zione, l’apertura alla partecipazione dei pazienti e alle loro associazioni e ad accogliere nuovi membri nella rete, quando hanno le caratteristiche adeguate per farne parte.

Andrea Vannucci1, Maria Teresa Mechi2, 1Coordinatore Osservatorio qualità e equità, Agenzia sanitaria regionale della Toscana

2Responsabile Qualità dei servizi e reti – Direzione diritti di cittadinanza e coesione sociale – Regione To-scana

Le reti assistenziali in emergenza-urgenza

Programmazione centrale o governo dei professionisti?

L’affermarsi delle reti cliniche costituisce una delle innova-zioni più pertinenti e dirompenti nella fase di transizione, in atto in numerosi sistemi sanitari, imposta dai cambia-menti demografici, epidemiologici e dalla congiuntura economica. Il suo tratto saliente è quello della coopera-zione tra professionisti, amministratori e cittadini.Le reti cliniche nascono per migliorare l’assistenza sanita-ria, concentrando le competenze, riducendo la duplica-zione degli interventi e gli sprechi nell’offerta di servizi, favorendo la circolarità delle conoscenze. Per assicurare cure di qualità e sicurezza elevate sono indispensabili esperienze e conoscenze che, quando associate a un uso efficiente delle risorse, determinano sistemi sanitari ben funzionanti, capaci di rispondere ai bisogni dei pazienti e di essere sostenibili. Una rete di professionisti e strutture può è essere finalizza-ta sia al trasferimento di pazienti verso determinati centri che a quello del trasferimento e la condivisione della co-noscenza e dell’esperienza da questi verso la periferia. Nel pensiero attuale c’è una tendenziale preferenza a tra-sferire il know-how, tutte le volte che ciò sia tecnicamente possibile e sostenibile. Tuttavia, nei casi in cui il numero di pazienti affetti da una particolare malattia o condizione è insufficiente, oppure sono richiesti trattamenti con tec-nologie molto costose, è opportuno concentrarsi su pochi centri qualificati. Le due possibilità possono anche coesi-

stere vantaggiosamente, con centri qualificati che, oltre ad attrarre pazienti, promuovono la disseminazione di conoscenza ed esperienza, linee guida e protocolli, ricer-ca comune, sorveglianza epidemiologica e formazione che consentono un miglioramento della qualità dell’intera rete sanitaria.Le reti cliniche funzionano per la collaborazione tra attori, interdipendenti e autonomi al tempo stesso, che si scam-biano risorse di varia natura per raggiungere obiettivi co-muni. I risultati, che sono così in grado di raggiungere, consistono in: • massimizzare la capacità di adattamento del sistema

di cure (offerta) ai bisogni; • minimizzare le barriere di accesso alle cure; • sviluppare la competenza collettiva dei professionisti

sanitari.

Il cambiamento avviene secondo due direttrici principali. La prima consiste nella trasformazione dei meccanismi di coordinamento e di cooperazione tra i professionisti. La seconda, in un maggior grado di accountability, grazie alla partnership tra i professionisti e tra loro e i pazienti, per meglio rispondere all’attuale complessità delle rela-zioni di cura.Un fattore chiave per la realizzazione di una rete clinica è mettere in atto percorsi diagnostici-terapeutici-assisten-

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926 N. 210 - 2016L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

L’area che una rete clinica copre è in funzione dello scopo per la quale è istituita, dei determinanti epidemiologici, delle risorse a disposizione. Aree possibili sono quella in-teraziendale, di area vasta, regionale, ma anche interre-gionale e, dopo l’entrata in vigore della direttiva europea sull’assistenza sanitaria transfrontaliera, anche europea.Per l’area di riferimento tecnico è necessario stabilire se una rete è rivolta al trattamento di un tipo di malattia o all’erogazione di specifici interventi. La maggioranza del-le reti si rivolge a malattie o condizioni cliniche specifiche che si articolano in quattro categorie non mutualmente esclusive:• malattie rare;• malattie croniche (diabete, BPCO, demenze);• condizioni critiche (IMA, ictus, trapianti, ustioni, poli-

trauma, terapia intensiva neonatale);• malattie ad elevata prevalenza(neoplasie).

La governanceIn Toscana, in accordo con quanto richiesto specificata-mente dal recente orientamento del Ministero della salute (D.M. n°70 - 2015), è in atto la costituzione di tre reti “tempo-dipendenti”, intendendo con questa specificazio-ne che sono rivolte a eventi acuti nei quali la tempestività è un fattore chiave per il successo dell’intervento sanitario. Tali reti sono quelle dedicate alla cura delle emergenze cardiovascolari, dell’ictus e dei traumatismi maggiori. Tut-te e tre le reti hanno la caratteristica comune di compren-dere le strutture e i professionisti che operano nell’area dell’emergenza-urgenza territoriale e ospedaliera e che rivestono un ruolo fondamentale nel raggiungere risultati soddisfacenti.La scelta per la governance del sistema delle reti tempo dipendenti è stata quella di affidarla a un livello tecnico di riferimento regionale, costituito dai Direttori della pro-grammazione e i Dirigenti dei settori regionali ospedale e territorio che si avvale di esperti, specialisti in diverse discipline, per individuare le priorità d’implementazione.Il Comitato propone le priorità nell’attivazione di reti clini-che e ne definisce il sistema di monitoraggio, prendendo in considerazione i seguenti criteri di base:• indirizzi normativi;• quadro epidemiologico;• performance degli erogatori;• necessità d’attuazione di specifici programmi d’inte-

grazione;• necessità di piani di sviluppo professionali e/o tecno-

logici.

ziali (PDTA) che, condivisi tra tutti gli attori presenti nella rete, determinano comportamenti professionali codificati e cooperativi.Una volta a regime, il valore di una rete clinica, e quindi i suoi risultati consistono nella capacità di: • mostrare esperienza e conoscenza nella diagnosi, nel

controllo e nella gestione dei pazienti fornendo l’evi-denza di produrre buoni esiti;

• utilizzare approcci multidisciplinari;• offrire alti livelli di expertise in grado di produrre linee

guida per buone pratiche e per la scelta di misure di esito e indicatori per il controllo di qualità;

• dare un contributo alla ricerca;• organizzare attività di formazione.

Per ottenere tutto ciò è necessario stabilire chi fonda la rete e come si struttura (governance); qual è lo scopo e la motivazione per cui viene creata (obiettivi); che cosa fa (funzioni); che area copre, sia tecnicamente, in termini di tipo di pazienti o di procedure (scopo tecnico), che geograficamente (area geografica). Per assicurare le funzioni di una rete clinica è necessario possedere la maggior parte dei seguenti criteri:• esperienza e conoscenza appropriate per la diagnosi

delle patologie e la gestione dei pazienti, con eviden-ze di buoni esiti;

• volumi di attività sufficienti e capacità di erogare ser-vizi rilevanti per ottenere un livello qualitativo elevato;

• approccio multidisciplinare;• significativo contributo alla ricerca;• impegno nella sorveglianza epidemiologica;• impegno nell’attività di formazione;• contatti e collaborazioni con altre reti o con altri centri

nazionali ed internazionali;• contatti e collaborazioni con associazioni di pazienti,

quando presenti.

Questi criteri rimarcano che ciò che più differenzia una rete da un altro provider d’identiche cure sono la capa-cità di approccio multidisciplinare, il coordinamento e la continuità di cura tra i vari nodi della rete, i percorsi diagnostici terapeutici condivisi e attuati, la buona comu-nicazione, l’apertura alla partecipazione dei pazienti e alle loro associazioni e ad accogliere nuovi membri nella rete, quando hanno le caratteristiche adeguate per farne parte.Nella progettazione di una rete clinica così come nella sua implementazione si deve tener conto dell’area di ri-ferimento geografico e/o di quella di riferimento tecnico.

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esplicito l’obiettivo clinico della rete e l’obiettivo di salute per i cittadini” è stata, con parole simili, formulata dagli altri due gruppi.Naturalmente ci sono stati anche contributi d’idee specifi-ci e in funzione delle differenti prospettive. Ad esempio i cittadini hanno sottolineato, tra i vari punti, l’importanza che “Il coinvolgimento delle associazioni, in particolare di quelle che si dedicano a patologie d’interesse della spe-cifica rete clinica, deve essere tenuto in considerazione nella fase di progettazione, in quella di monitoraggio e in occasione di tutti i cambiamenti successivi”. Cosi come i clinici hanno puntato sul fatto che “devono essere noti i volumi di attività, la finalità clinica e le misure da utilizza-re per valutare il funzionamento, i risultati e l’impatto sulla salute dei cittadini” e i manager hanno richiamato l’atten-zione sull’importanza di “strumenti relazionali come: la definizione e la condivisione di ciò che si attende da una rete, una rete costituita da nodi in cui sia definito chi fa che cosa, privilegiando un modello flessibile in modo da evitare gabbie operative, la garanzia della chiarezza dei ruoli e delle loro interazioni, livelli di alta integrazione fra tutti i protagonisti, definizione dei livelli di responsabilità e individuazione di un responsabile dell’intero percorso”.

In conclusione, per una rete clinica efficace in termini sia di performance assistenziali, sia di apprezzamento da parte della comunità professionale che della collettività, la forma di governance richiesta supera scelte quali il dualismo storico tra istituzioni sanitarie e professionisti che operano sulla linea operativa e richiede un approc-cio che riconosce nell’alleanza tra una molteplicità di parti interessante una necessità e nella loro diversità di conoscenze e prospettive una ricchezza che si traduce in una progettazione, programmazione e implementazione destinate a migliori e più apprezzabili risultati.

Tuttavia, proprio in considerazione, di quanto già accen-nato e cioè che è la capacità di approccio multidiscipli-nare, il coordinamento e l’apertura alla partecipazione dei pazienti e alle loro associazioni che qualificano una rete clinica, è stato fatto, nella fase iniziale di costruzione del sistema delle reti cliniche, un originale ed interessan-te percorso di consenso, usando un metodo di efficacia scientificamente provata per le situazioni che richiedono una programmazione partecipata da una molteplicità di stakeholders.Sono stati individuati come i tre principali stakeholders, la cui alleanza è un fattore critico per il funzionamento di una rete clinica, la comunità dei cittadini, quella dei professionisti e quella dei manager sanitari. In tre riunioni distinte, ciascuna con rappresentanti espressivi delle tre comunità, sono stati rispettivamente chiesti e poi organiz-zati in elenco ragionato quali erano, a giudizio dei par-tecipanti, i fattori chiave per il funzionamento di una rete tempo dipendente.

I risultati dei tre incontri sono poi illustrati e commentati con il Comitato tecnico di riferimento regionale e costi-tuiscono adesso un elemento fondamentale di mission e vision delle reti cliniche.Interessante osservare come ciascuna delle tre parti in-teressate, oltre ad indicare punti chiave specifici della propria esperienza e prospettiva, abbia mostrato una condivisione d’interesse su non pochi aspetti. Ad esem-pio l’affermazione da parte del gruppo dei cittadini “ è necessario un reciproco riconoscimento del ruolo dei cit-tadini e della funzione dei sanitari per favorire scambi di conoscenza reciproca da utilizzare per finalità mol-teplici: programmazione, valutazione, miglioramento” è stata sostanzialmente espressa anche dal gruppo dei pro-fessionisti e da quello dei manager sanitari. Così come l’affermazione di questi ultimi che “È necessario rendere

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928 L’organizzazione dell’emergenza-urgenza N. 210 - 2016

AbstractNegli ultimi anni abbiamo assistito ad un notevole sviluppo dei sistemi Regionali di valutazione della performance e di controllo del rischio clinico con una sempre maggiore attenzione a perfezionare la qualità del dato estratto dal sistema in-formatico al fine di ottenere informazioni sempre più precise sulle attività svolte nei Pronto Soccorso della Regione Toscana. Il lavoro in Pronto Soccorso investe così tanti aspetti della “processo di cura” che una singola misurazione non rende conto della complessità del sistema e per questo sono richieste misure multiparametriche che tengano conto di tutti quegli aspetti che condizionano gli esiti delle cure e la percezione che gli utenti possono avere della loro esperienza nel Pronto Soccorso.Quindi a fianco alle misure di performance sono necessarie misurazioni che consentano di valutare la effettiva efficacia delle cure erogate ed altri aspetti della qualità percepita dagli utenti e dai professionisti. Ciò che si vuole è garantire ai nostri cittadini la migliore cura possibile con le risorse messe a disposizione nel rispetto dei requisiti fondamentali della Qualità delle Cure.Per ciascuno di questi requisiti è possibile trovare misure di processo e di risultati che se regolarmente raccolti e valutati con-sentono di monitorare la qualità delle cure erogate.Le varie Società Scientifiche Internazionali si sono più volte espresse su quelli che potrebbero essere indicatori adeguati al monitoraggio della qualità delle cure fornite in Pronto Soccorso ma la decisione su quali utilizzare dipende da fattori che devono essere individuati localmente, dalla disponibilità informatica del dato e dagli indirizzi che si vogliono dare ai singoli Sistemi Sanitari.

Alessio BertiniAzienda USL Toscana nord ovest – P.O. Livorno

Come verificare la qualità del lavoro in PS Quali gli indicatori necessari

La medicina d’urgenza è una specialità molto giovane che ha trovato riconoscimento in Italia solo a partire dal 2006 e ancora adesso si trova a combattere contro in-numerevoli pregiudizi nell’ambito delle organizzazioni ospedaliere nonostante la chiarezza sul suo dimensiona-mento espresso nel cosiddetto “decreto Balduzzi” del 13 Settembre 20121.Il Pronto Soccorso viene visto e percepito (spesso anche dai manager) come una fonte inesauribile di contenziosi ma ciò che dovrebbe essere chiaro per i manager azien-dali è che i risultati prodotti sono in realtà conseguenza di una meticolosa organizzazione laddove questa si realizzi o frutto delle inefficienze laddove presenti2.Le Società scientifiche nazionali ed internazionali hanno definito quali sono le competenze professionali per la pra-tica della medicina d’urgenza ed hanno consentito così di costruire un modello di Sistema di Emergenza centrato

sul Pronto Soccorso (con il supporto delle specialità Ospe-daliere) dove l’emergenza preospedaliera trasporta il pa-ziente per una valutazione dello specialista in medicina d’emergenza-urgenza e questi, con le competenze di cui è dotato e con il supporto degli altri specialisti ospedalie-ri, interviene in rapporto alle condizioni del paziente per valutare la necessità di ospedalizzazione o la dimissione a domicilio del paziente con le dovute indicazioni3,4.Questo modello di sistema di emergenza che potremmo definire “ED centered” è quello più diffuso nei Paesi in-dustrializzati (NordAmerica, Australia, Europa Italia in-clusa, Medio Oriente, Giappone, Paesi Asiatici, etc.). In questi Paesi si è sviluppato un percorso di collaborazione con i rispettivi sistemi sanitari regionali e nazionali per individuare e promuovere standard qualitativi e “indicato-ri di qualità” che potessero essere utilizzati per misurare il lavoro svolto. Contestualmente negli stessi Paesi (Italia

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929N. 210 - 2016 L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

necessario anche un profondo cambio di mentalità per i professionisti che dovranno vedere nella misurazione di questi parametri un riconoscimento delle loro capacità professionali e uno strumento per ottenere riconoscimenti sulle loro competenze e sulle loro capacità produttive14.Ciò che si vuole sia garantito è il principio di assicurare ai nostri cittadini la migliore cura possibile con le risorse messe a disposizione. Il concetto di qualità è un concetto pieno di sfaccettature che non possono essere riassunte da un singolo tipo di indicatore quali i tempi standard. Questo tipo di approccio è potenzialmente pericoloso in quanto non tenendo conto di altri aspetti altrettanto desi-derabili quali l’efficacia clinica, la percezione dell’utente e la soddisfazione degli operatori, rischia di indurre peri-colose “scorciatoie” mirate a raggiungere i singoli obietti-vi a spese di altri e significativi aspetti della qualità.La sfida ulteriore che i Dipartimenti di emergenza devono affrontare riguarda la funzione che viene loro chiesta: la definizione di situazione di emergenza o urgenza è spes-so/sempre guidata dalla percezione soggettiva e risulta quindi distante dalla definizione medica di emergenza (condizione che mette immediatamente a rischio la vita o la funzione di un organo) e di urgenza (condizione che mette a rischio la vita o la funzione di un organo nelle suc-cessive 24-72 ore) anche all’interno della stessa comunità professionale. Questo porta i Dipartimenti di emergenza a dover erogare cure efficaci e di alta qualità a tutti colo-ro che si presentano indipendentemente dal loro livello di gravità e di acuzie4,12.Perché quello che il cittadino si aspetta dal Pronto Soccor-so è più o meno questo12:• Il personale giusto: professionisti adeguatamente pre-

parati e qualificati per erogare trattamenti di emer-genza in tutti gli scenari previsti e prevedibili (malat-tia, trauma, disturbi mentali, etc.).

• L’ambiente giusto: spazi dedicati e adeguatamente dotati delle misure di sicurezza e di igiene (controllo delle infezioni) e delle attrezzature (ad es sistemi di monitoraggio e dotazione strumentale idonea) che consentano la gestione del previsto e prevedibile nu-mero e tipologia di emergenze (pazienti pediatrici, vittime d’abuso, traumi, malattie cardiorespiratorie, disabili, malattie infettive e diffusive, emergenze com-portamentali, etc.). Tutto questo nel rispetto della pri-vacy e della dignità dell’individuo

• La capacità decisionale: dal livello manageriale alla prima linea, il Pronto Soccorso si deve caratterizzare per la capacità di prendere decisioni critiche e tem-pestive.

inclusa) si osserva una sempre maggiore pressione sul sistema di emergenza in un contesto in cui le risorse ap-paiono essere sempre più limitate5-7.Il primo aspetto da chiarire è cosa si intende per “qualità del lavoro” e l’occasione è ghiotta per affrontare seppur brevemente l’argomento.Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un notevole svilup-po e perfezionamento dei sistemi regionali di valutazione della performance e di controllo del rischio clinico8,9. Inol-tre sempre maggiore attenzione si è posta a perfezionare la qualità del dato estratto dal sistema informatico al fine di ottenere informazioni sempre più precise e attendibili sul numero e sulla tempistica delle attività svolte nei Pronto Soccorso della Regione Toscana10,11. Per molti (anche addetti ai lavori) le tre cose esprimono in-teramente le dimensioni della qualità del lavoro che viene svolto nei Pronto Soccorso.In realtà non è così, gli elementi citati, seppur fondamen-tali per una valutazione qualitativa delle attività e dei servizi erogati, non rendono conto per intero della qua-lità delle cure erogate. Il paradosso sarebbe evidente se ponessimo ai nostri cittadini una semplice domanda: ma lei preferisce ricevere un’assistenza tempestiva con cure di bassa qualità oppure sarebbe disposto a concedere qualcosa alla tempestività pur di ottenere delle cure di elevata qualità (cioè di provata efficacia)? E’ chiaro che quando si parla di emergenza l’unica risposta possibile è di ottenere entrambe le cose (cioè cure tempestive e qualità adeguata) ma mentre il sistema informatico è stato potenziato negli anni in modo da poter misurare tutto ciò che interessa riguardo alla performance (tempi di attesa per i vari codici colore, percentuale di abbandoni, que-stionari di soddisfazione dell’utente, etc.) non altrettanto è stato fatto per rendere il sistema in grado di misurare la tempestività e la qualità delle cure erogate in Pronto Soc-corso (ad esempio attraverso misure di outcome).In realtà il lavoro in Pronto Soccorso investe così tanti aspetti della “processo di cura” che una singola misura-zione non rende conto della complessità del sistema e per questo sono richieste misure multiparametriche che tenga-no conto di tutti quegli aspetti che condizionano gli esiti delle cure e la percezione che gli utenti possono avere della loro esperienza nel Pronto Soccorso 6,7,12,13.Quindi a fianco alle misure di performance sono neces-sarie misurazioni che consentano di valutare la effettiva efficacia delle cure erogate ed altri aspetti della qualità percepita dagli utenti e dai professionisti. Per raggiun-gere questo obiettivo è innanzitutto necessario “dotarsi” di strumenti idonei a questo tipo di misura e poi sarà

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930 N. 210 - 2016L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

Uno degli aforismi più in voga riguardo al sistema di emergenza recita “il paziente giusto nel tempo giusto nel posto giusto”; affinché questo si realizzi si dovrebbero rispettare quelli che possiamo considerare i requisiti fon-damentali della qualità delle cure indicati dall’Istituto di medicina (Tab. 1)15.

Per ciascuno di questi requisiti è possibile trovare misu-re di processo e di risultati che se regolarmente raccolti e valutati consentono di monitorare la qualità delle cure erogate e di intervenire, secondo il principio di Deming16, sui fattori che hanno portato al fallimento dell’indicatore.Le varie Società scientifiche internazionali si sono più vol-te espresse su quelli che potrebbero essere indicatori ade-guati al monitoraggio della qualità delle cure fornite in Pronto Soccorso ma la decisione su quali utilizzare dipen-de da fattori che devono essere individuati localmente, dalla disponibilità informatica del dato e dagli indirizzi che si vogliono dare ai singoli sistemi sanitari. (Tab. 2) 17-34.Il sistema di emergenza e gli specialisti in medicina d’e-mergenza-urgenza sono sufficientemente maturi per supe-rare i limiti di un sistema di valutazione basato esclusi-vamente su misure di performance. L’implementazione di indicatori che consentano di valutare la qualità delle cure erogate e attraverso ciò di migliorare gli outcomes clinici potrà finalmente consentire il raggiungimento di risulta-ti che possano coniugare la soddisfazione dei pazienti e quella dei professionisti. Il sistema sanitario regionale deve dotarsi di organismi tecnici indipendenti che possa-no sorvegliare in autonomia la qualità delle cure erogate e provvedere, laddove richiesto, alla pianificazione degli interventi correttivi necessari.

• Il giusto percorso: esso deve garantire il riconoscimen-to precoce dei pazienti che richiedono attenzione im-mediata e assicurare indagini ed interventi tempestivi in coloro che presentano condizioni di emergenza.

• I giusti risultati: valutazione degli esiti di coloro che hanno ricevuto trattamento.

• Il giusto approccio: il paziente “al centro delle cure” richiede attenzione ed enfasi da parte degli operatori al sollievo dalla sofferenza e ad una buona comuni-cazione nei confronti dei pazienti e dei loro accom-pagnatori.

• Il giusto sistema: che garantisca continuità di cura al paziente anche dopo che esso abbia lasciato il Pron-to Soccorso. Quindi sono necessari profondi legami con la medicina territoriale.

• Il giusto supporto delle istituzioni nel valutare conti-nuamente la presenza e l’efficacia delle condizioni di cui sopra e la capacità di intervento tempestivo laddove esse vengano meno.

Quello che invece si aspettano i professionisti del Dipar-timento di emergenza è di essere trattati con rispetto dai colleghi e dai pazienti e di lavorare in un ambiente sicu-ro e non pericoloso per il proprio stato di salute. Essi si aspettano anche di essere supportati in un percorso di aggiornamento continuo rivolto a soddisfare le aspetta-tive sopramenzionate e indirizzato ad una innovazione delle cure basata sull’evidenza.Negli ultimi anni l’Agenzia regionale di sanità in collabo-razione con la SIMEU (Società italiana di medicina d’e-mergenza-urgenza) ha sviluppato progetti per migliorare la qualità delle codifiche diagnostiche in Pronto Soccorso sviluppando una “short list” delle codifiche diagnostiche estratte dalla ICD-IX e un elenco delle procedure effettuate in Pronto Soccorso dai professionisti del DEA con l’intento di semplificare le loro attività e ottenere una maggiore accuratezza nelle codifiche diagnostiche.

Tabella 1. Requisiti fondamentali della qualità delle cure

Sicurezza Non genera danno al paziente

Efficacia Le cure somministrate sono di documentata (EBM) efficacia clinica e vengono applicate solo a coloro che ne possono beneficiare

Centrata sul paziente Il trattamento proposto è rispettoso dei bisogni e delle preferenze e dei valori di ogni singolo paziente

Tempestiva Volta a ridurre al minimo le attese e ritardi che possono risultare dannosi per il paziente

Efficiente evita tutto ciò che è inutile o superfluo (in termini di risorse, di indagini, di spesa, etc.)

Equa garantisce identici livelli di cura a tutti i cittadini

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931N. 210 - 2016 L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

Tabella 2. Indicatori di qualità (Struttura, Processo, Esito) delle cure erogate

Qualità Struttura Processo Esito

Adeguatezza delle strutture

Numero di box attrezzati per i codici rossiAree dedicate per pazienti fragili (bambini, disabili, anziani disorientati, etc.)P.E.I.M.A.F

Checklist di ispezione e verifica periodica della dotazione strumentale

Verifica Periodica del PEIMAF

Esperienza del pazienteIncidenza di aggressioni allo staff

Adeguatezza e preparazione dello staff

Rispetto dei requisiti minimi di personale e di competenzaLivelli di turnover dello staff Percentuali di malattiaNumero di pazienti per unità di staff per unità di tempoNumero di pazienti in attesa di trattamento per ciascun codice colore

Tempo di attesa per la visitaTempo di permanenza nel dipartimento di emergenza (dall’arrivo alla dimissione)Percentuale di abbandoni (colore che abbandonano prima di essere visitati)

Reclami e eventi sentinella

Presenza di cultura della qualità

Presenza di Direzioni coinvolte e motivate nel controllo della qualitàCommissione per la qualità e la sicurezza all’interno della struttura amministrativaC’è considerazione per la qualità in Pronto Soccorso

Esperienza dei pazientiPeriodico controllo delle misure di qualità

Adeguato supporto informatico

E’ in essere un sistema informatico che consenta il monitoraggio continuo delle misure descritte in questa tavola

Report periodici a supporto del controllo di qualità nel DipartimentoMantenimento e sviluppo continuo dei sistemi informatici a supporto dei bisogni del DEA

Presenza di misure di processo

Tempo trascorso tra l’arrivo e la collocazione nel boxTempo alla visita medicaTempo alla somministrazione di analgesicoPercentuale di abbandoni

Esperienza del paziente%sopravvivenza/esito funzionale per i percorsi tempo dipendenti (Stroke, MI, Sepsi)Reingressi a 48-72 ore

Presenza di Blocco in Accesso ai ricoveri

Tempo trascorso in barella Percentuale di pazienti in barella che superano la soglia di attesa prevista per il ricoveroTempo trascorso tra la decisione di ricovero e il ricoveroTempo medio di permanenzaAbbandoni

Sopravvivenza per i percorsi tempo dipendenteIncidenza di infezioni acquisite in ospedaleReingressi in DEA a 7 gg

segue

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932 N. 210 - 2016L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

Qualità Struttura Processo Esito

Cure e percorsi Evidence Based

Presenza di PDTA EBAnalisi di costo-efficacia dei percorsi

Percentuale di adesione ai PDTATempo all’esecuzione di interventi critici (trombolisi, somministrazione di antibiotici)Audit clinici sull’appropriato utilizzo delle risorse

Mortalità (generale o per specifici percorsi)Reingressi a 7 gg

Percezione del paziente

Utilizzo del feedback da parte dei pazienti

Cambiamenti istituiti sulla base delle segnalazioni dei pazienti

Percezione degli operatori

Valutazione del feedback da parte degli operatoriProgramma di aggiornamento continuo per lo staff del DEA

Supporto allo staff da parte della Direzione GeneraleModifiche implementate sulla base del feedback dello staff

Qualità Struttura Processo Esito

Sicurezza Reingressi con ricovero a 48-72 ore per pazienti pediatriciReingressi con ricovero a 48-72 ore per pazienti adultiPercentuale di pazienti con cefalea riammessi per ESA nei successivi 14 gg

Gestione del dolore

Tempo alla somministrazione della prima dose di analgesico

Percorso Pediatrico

Percentuale di neonati con febbre che ricevono uno screening completo per sepsiPercentuale di neonati con sepsi che ricevono terapia antibiotica endovenosa ad ampio spettro Percentuale di pazienti pediatrici < 3 aa con croup che ricevono trattamento con steroidi

Reingressi a 48-72 ore per pazienti pediatrici

Percorso Respiratorio

Numero di pazienti con asma (nelle varie fasce d’età) che ricevono steroidi in DEA e alla dimissione

Percorso Stroke

Percentuale di pazienti con stroke ischemico acuto che ricevono la terapia trombolitica endovenosa

segue

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Qualità Struttura Processo Esito

Percorso Sepsi

Tempo alla somministrazione della terapia antibiotica per i pazienti con meningite batterica% di pazienti con shock settico che riceve terapia antibiotica ad ampio spettro entro 3 ore dall’arrivo in DEA

Qualità delle cure

Mortalità a breve termine dopo l’ingresso in PS (7 gg)

Qualità delle cure

Reingressi a 72 ore

Qualità delle cure

% di pazienti eligibili per fibrinolisi nello stroke che ricevono il trattamento entro 1 h dall’arrivo in DEA

Qualità delle cure

Tempo trascorso dall’arrivo in triage all’esecuzione coronarografia per i pazienti con STEMI

Qualità delle cure

% di pazienti con perforazione intestinale che arrivano in sala operatoria entro 3h dall’arrivo in DEA

Qualità delle cure

Tempo di esecuzione per l’Rx del gomito per i pazienti con lesione del gomito/avambraccio

Qualità delle cure

% di pazienti con sanguinamento gastrointestinale che raggiungono stabilizzazione emodinamica entro 60’ dall’arrivo (T-score)

Qualità delle cure

Tempi di completamento del processo di triage

Qualità delle cure

Tempi di esecuzione al letto del malato di una consulenza specialistica

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934 N. 210 - 2016L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

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935L’organizzazione dell’emergenza-urgenzaN. 210 - 2016

AbstractIl problema della qualità del dato è ormai dibattuto da anni e nonostante questo rappresenta sempre un tema ‘caldo’. Attraverso l’analisi delle criticità dei dati del Pronto Soccorso si ripercorre l’esperienza toscana dei codici essenziali per la codifica di diagnosi e prestazioni, come esempio di intervento di miglioramento della qualità del dato, evidenziando gli strumenti, i metodi e le strategie messe in atto.

Valeria Di FabrizioFunzionario di ricerca ARS Toscana (Osservatorio qualità ed equità)

I codici essenziali per le diagnosi e le prestazioni di PS

La qualità del dato: come e perché

Qualità del dato e sistemi di classificazioneNei sistemi sanitari odierni la misurazione e valutazione dell’attività assistenziale avviene mediante l’utilizzo delle informazioni clinico-sanitarie raccolte in modo standardiz-zato dai sistemi informativi a livello aziendale, regionale e nazionale. I sistemi di rilevazione dati così strutturati do-vrebbero garantire un certo livello di qualità del dato, sia in termini di completezza e di congruenza delle informa-zioni, sia nell’omogeneità nei comportamenti di codifica.A livello ospedaliero, ad esempio, la scheda di dimis-sione ospedaliera (SDO) rappresenta la sintesi delle in-formazioni contenute nella cartella clinica (anagrafiche, cliniche e relative alla struttura di ricovero), costituendo un flusso informativo omogeneo su tutto il territorio nazio-nale. Tale flusso informativo sanitario consente perciò di reperire informazioni affidabili circa le diagnosi e gli in-terventi grazie all’uso della classificazione internazionale delle malattie (ICD 9 CM- International Classification of Diseases, 9th revision, Clinical Modification). Anche per le attività di Pronto Soccorso (PS) è stato recentemente istituito, nell’ambito del nuovo sistema informativo ministe-riale (NSIS), un flusso informativo nazionale che prevede la raccolta di informazioni caratterizzanti i singoli accessi (informazioni circa la struttura, l’accesso e la dimissione, l’anagrafica dell’assistito, la diagnosi e le prestazioni ero-gate e la valorizzazione economica).In Toscana è attivo un flusso dati dedicato all’attività del PS (flusso “a eventi”) istituito nel 2008 ed attivo dall’anno seguente. Come tutti flussi di dati correnti, è necessario

attendere un lasso di tempo variabile dal momento in cui sono stati attivati per raggiungere un livello di comple-tezza e qualità delle informazioni in essi contenuti ade-guato alla misurazione di indicatori di interesse. Il tempo di evoluzione del flusso è funzione dell’obiettivo per cui è nato e degli interessi dei vari ‘soggetti’ coinvolti nella misurazione. Nell’esperienza regionale si stima un anno per raggiungere un livello di completezza delle principali informazioni che consentano almeno un monitoraggio di alcuni indicatori di performance legati soprattutto ad indi-catori di processo. Il grande numero di pazienti che, per diversi motivi, si presentano annualmente nei PS, dovrebbe condurre a un approfondita riflessione sull’uso e la funzione dei PS stes-si e nello stesso tempo l’analisi del dato epidemiologico (quando attendibile) dovrebbe fornire indicazioni di fon-damentale importanza sul funzionamento del sistema sani-tario in toto e di conseguenza sulla pianificazione e sulla distribuzione degli interventi migliorativi. Tale riflessione si dovrebbe basare su un’accurata ed omogenea descrizione clinico-sanitaria dei pazienti che vi affluiscono, che dovreb-be essere garantita da sistemi di codifica comuni e da cri-teri condivisi di applicazione delle codifiche diagnostiche stesse. I dati di qualità consentono di misurare indicatori validi, dove per validità si intende la capacità di misurare ciò che realmente ci si propone di misurare. Questa carat-teristica degli indicatori ricopre un ruolo estremamente im-portante soprattutto quando si tratta di indicatori di qualità legati ad aspetti clinico professionali.

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936 N. 210 - 2016L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

Anche per quanto riguarda la segnalazione delle presta-zioni effettuate sul paziente durante la sua permanenza in PS emergeva un panorama regionale molto critico, ca-ratterizzato da una forte disomogeneità di codifica per prestazioni identiche e da una percentuale estremamente variabile di accessi (tra lo 0 e il 90% nei 39 PS toscani) senza consumo di prestazioni (dati 2014).Tali risultati non sono solo la conseguenza della mancata e/o errata registrazione dell’informazione da parte dei professionisti, ma anche di deficit del sistema, quali ad esempio l’erronea trasmissione di tali informazioni ai si-stemi informativi regionali. La soluzione di tali problemi è da ricercarsi quindi in molteplici azioni di miglioramento che coinvolgono tutti gli attori che contribuiscono a va-rio titolo alla creazione del dato, dalla realizzazione di strumenti di supporto che facilitino e velocizzino la scelta appropriata dei codici ed una attenta analisi del processo sottostante alla gestione informatica dell’informazione per individuare le criticità e le opportune risoluzioni.

L’esperienza dei codici essenzialiQueste sono le premesse che hanno portato l’Agenzia regionale di sanità (Ars), supportata dalla Direzione ge-nerale diritti di cittadinanza e coesione sociale ed in col-laborazione con la Società italiana di medicina di emer-genza-urgenza (SIMEU) ad intraprendere una iniziativa che ha come obiettivo la semplificare e l’omogeneizzare dei comportamenti di codifica dei professionisti, favoren-do così l’alimentazione corretta del flusso dati dedicato all’attività di PS. A partire, quindi, dagli strumenti di classificazione dispo-nibili sono state realizzate due liste di codici essenziali, una per le diagnosi ed una per le prestazioni, il cui uso non compromette la possibilità di ricorrere agli strumenti di classificazione originari, qualora il medico lo ritenga necessario.Già altre realtà, nazionali ed internazionali (1-3) han-no fatto esperienze di questo genere, ma l’applicazione di tali strumenti non era applicabile in Toscana per più fattori: numerosità di codici ancora troppo elevata, uso di classificazioni diverse e soprattutto perché si tratta di strumenti non partecipati. Consapevoli, infatti, che fornire delle liste di codici non è sufficiente per modificare com-portamenti di codifica dei professionisti consolidati nel tempo, si è ritenuto più opportuno avviare un percorso insieme ai medici per la definizione e realizzazione delle liste, affinché si attivasse anche un meccanismo di respon-sabilizzazione degli stessi che contribuisse a garantire una maggiore efficacia dell’azione intrapresa.

Nell’ambito del progetto “Mattoni del SSN”, il Ministero della salute ha individuato per il NSIS i migliori sistemi di codifica di diagnosi e prestazioni applicabili dai servizi di emergenza-urgenza ospedaliera; da questa selezione l’ICD 9 CM è risultato lo strumento più adeguato. Inoltre, considerando che le attività di PS si collocano al confine tra assistenza territoriale e ospedaliera, il Ministero stabi-lisce che per la codifica delle prestazioni la classificazio-ne ICD 9 CM venga integrata con il nomenclatore delle prestazioni specialistiche ambulatoriali.L’utilizzo nella loro interezza di questi sistemi di classifi-cazione in un setting come quello del PS comporta una naturale compromissione della qualità del dato registrato: i tempi d’azione molto più compressi e la tipologia di prestazioni erogabili in PS, nonché la sua stessa mission, rendono impossibile raggiungere lo stesso livello di accu-ratezza diagnostica descritta in tali strumenti, appropriati invece per altri setting assistenziali. Si aggiungono poi a questi aspetti anche le difficoltà di carattere informati-co che il medico di PS deve affrontare quotidianamente, come la presenza di strumenti informatici che poco ri-spondono alle loro necessità (scarsa usabilità, rigidi, non facilmente modificabili, ecc.).I dati toscani sul PS sono disponibili dal 2010 con un livello di completezza accettabile solo per alcune infor-mazioni, ovvero quelle che hanno consentito un monito-raggio di fenomeni legati principalmente ad aspetti di processo (tempo di attesa, tempo di permanenza,…), ma risentono ancora di una scarsa completezza e qualità per quegli aspetti inizialmente considerati secondari rispetto ai precedenti. Oggi il sistema sanitario regionale sente la necessità di avere informazioni circa l’epidemiologia de-gli accessi in PS, intesa come la conoscenza delle cause degli accessi e dell’attività svolta nei PS stessi. Interesse sentito anche da coloro che hanno il compito di organiz-zare, a vari livelli, i servizi e dai professionisti che, oggi ancor più di ieri sentono il bisogno di comprendere la qualità del loro operato.

Lo scenario che si è presentato ad una prima analisi sul-la qualità della codifica delle diagnosi in PS (dati 2010-2012) si è rivelato piuttosto scoraggiante, mostrando un 12% degli accessi senza alcuna diagnosi indicata (dato mancante) ed una estrema eterogeneità nell’attribuzione dei codici ICD 9 CM. I medici di PS impiegavano pres-sappoco la metà degli oltre 14.000 codici disponibili nel sistema di classificazione, utilizzandoli in modo del tutto arbitrario. In conclusione, non era possibile avere un qua-dro definito delle patologie che afferiscono ai PS.

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937N. 210 - 2016 L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

tre indicatori di monitoraggio calcolati a livello regionale a partire dal momento in cui è stata distribuita ufficial-mente la lista ai direttori di PS. La fotografia che emerge per maggio 2014 rappresenta perciò il momento inizia-le, pre-intervento, verso cui confrontare i risultati raggiunti nel tempo. Il livello regionale di adesione alla SL ha avuto un an-damento crescente, partendo da un livello fisiologico del 63% (maggio 2014) fino ad arrivare all’87% negli ultimi mesi in studio del 2015. Confrontando i risultati raggiun-ti in un anno, agosto 2014-agosto 2015, l’adesione è incrementata di 11 punti percentuali. Da un recente ag-giornamento dei dati tale percentuale è salita ad 88,2% (luglio 2016). L’introduzione della SL sembra aver favo-rito anche la compilazione del codice di diagnosi alla dimissione del paziente. La percentuale di missing infatti è passata da 6,4% di maggio 2014 a 3,6% alla fine dell’anno, dimezzandosi poi nel corso del 2015 (1,7%). In fine, nella fase di revisione delle lista, si è proceduto anche ad una verifica di qualità della codifica su un set di 12 diagnosi scelte tra le più frequenti e/o tra quella a basso impatto epidemiologico atteso, verificando appun-to la congruenza tra codice ICD 9 CM e diagnosi testuale riportata nel flusso dati. Anche questa analisi si è rivelata importante, ha fatto emergere altri aspetti critici, di cui in parte a rapida correzione da parte dei PS ed altri invece che necessitano di azioni a medio/lungo termine.

Nel primo semestre 2016, il livello regionale di adesione alla lista ha raggiunto una sua stabilità che oscilla tra l’87 ed l’88% degli accessi. Approfondendo tale dato a livello di singolo PS, emerge un panorama piuttosto eterogeneo di diffusione della lista ed attraverso la discussione con i professionisti è emersa, ancora una volta, la difficoltà informatica nell’utilizzare correttamente la lista. Per que-sto motivo, oltre al documento elettronico statico che l’Ars aveva solitamente trasmesso per diffondere la lista, sì è recentemente realizzato un eBook(5) che i medici posso-no consultare facilmente dal loro dispositivo di telefonia mobile. Il vantaggio rispetto al precedente strumento ri-siede nella navigabilità dei codici presentati con tre or-dinamenti differenti (ordine alfabetico, di codice ICD 9 CM e secondo raggruppamenti clinico-diagnostici) e nel-la possibilità di fare ricerca di testo parziale. Inoltre, per venire incontro alle diverse necessità di consultazione ed ai diversi livelli di alfabetizzazione informatica, l’eBook è stato trasformato anche in un documento pdf navigabile e in una pagina web, consentendo così di utilizzare tale strumento anche dalle postazioni di lavoro in PS.

Le due liste sono state definite in modo sequenziale, ma sempre mediante l’applicazione di rigide metodologie di consenso che hanno visto l’impegno di gruppi di lavoro composti da professionisti rappresentativi dell’intera Re-gione, con almeno un’esperienza quinquennale in PS(4).Il piano di lavoro di Ars prevedeva, dopo la definizione dei codici essenziali, così abbiamo definito le liste, la loro validazione da parte anche dei Sistemi informativi regio-nali, la trasmissione ai vari PS, con l’auspicio di un pronto utilizzo, e la loro revisione a distanza di un anno dalla loro applicazione. Ad oggi solo i codici essenziali di dia-gnosi sono stati sottoposti a revisione, mentre i codici di prestazione sono ancora in corso di implementazione da parte dei PS.

Anche la trasmissione delle liste ai singoli PS rappresen-ta un esempio di azioni sinergiche utili a innescare e/o velocizzare un processo di cambiamento. Essa, infatti è avvenuta su due canali distinti, con mittenti e destinatari differenti, che però devono necessariamente interloquire tra di loro. Da un lato abbiamo la trasmissione prettamen-te informatica, da parte dei sistemi informativi regionali attraverso la piattaforma di interscambio dati. Dall’altro lato invece, una trasmissione più formale da parte di Ars verso i direttori di PS ed al gruppo di lavoro, affinché condividessero tali prodotti con i professionisti, sensibiliz-zandoli su l’importanza della buona codifica, e allo stes-so tempo si attivassero per l’implementazione informatica delle liste stesse.Un altro momento cardine nel processo di applicazione della lista dei codici essenziali di diagnosi è dato all’aver attivato un monitoraggio dell’uso della lista da parte dei vari PS. In particolare sono stati tenuti sotto controllo tre indicatori: % di adesione alla lista (n. accessi codificati con diagnosi appartenenti alla lista/totale accessi); % di accessi con diagnosi non appartenente alla lista (n. ac-cessi codificati con diagnosi non appartenenti alla lista/totale accessi); e % di diagnosi missing. La verifica dell’applicazione è stata condotta a cadenza mensile ed i risultati sono stati condivisi periodicamente con le varie figure professionali coinvolte in questo pro-cesso di miglioramento (medici e direttori di PS, informa-tici, referenti regionali dei sistemi informativi), attraverso incontri o invio di materiale. Sono stati inoltre trasmessi degli strumenti utili a comprendere l’attività dei singoli PS, per avviare o ricalibrare azioni locali di miglioramento (es. lista dei codici non appartenenti alla lista di diagnosi utilizzati e confronto relativo con le altre realtà).Nel grafico 1 è rappresentato proprio l’andamento dei

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938 N. 210 - 2016L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

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5 ‘Le codifiche delle diagnosi e delle prestazioni per i pronto soccorso della Toscana’ eBook Ars, documento on line

ConclusioniLa bontà del dato è un elemento imprescindibile per la misurazione di indicatori di qualità, e la’ dove sono pre-senti delle carenze informative importanti è fondamentale attivare degli interventi di miglioramento ben studiati. L’e-sempio della codifica diagnostica in PS è una esperienza, non ancora conclusa, ma decisamente incoraggiante in termini di risultati raggiunti. È forse arrivato il momento di iniziare a misurare realmente gli indicatori di qualità professionale in PS?

Bibliografia e sitografia1 Linee guida per la codifica di diagnosi e prestazioni in Pronto

soccorso, Laziosanità http://docplayer.it/4934111-Linee-

Grafico 1 – Andamento percentuale mensile dell’adesione alla lista di codici diagnostici (shortlist=SL), dell’utilizzo di codici non appartenenti alla lista (altri codici) e delle diagnosi missing. Maggio 2014 – Settembre 2015. Regione Toscana.

30,6

25,7

20,2

18,1

17,8

18,3

18,1

16,7

15,2

12,9

11,8

11,3

11,0

11,1

10,9

10,9

11,2

63,0

67,6

73,576,2

77,077,9

78,579,7

81,283,4

86,086,8

87,487,3

87,387,6

87,1

1,71,71,91,71,62,03,7 2,36,4 6,7 6,3 5,8 5,1 3,7 3,3 3,6 3,6

0

10

20

30

40

50

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80

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100

mag giu

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2014 2015

%

Altri codici SL Missing

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939L’organizzazione dell’emergenza-urgenzaN. 210 - 2016

Abstract La simulazione medica coniugando insegnamento e valutazione in un ambiente sicuro per gli operatori sanitari può portare a una diminuzione dell’errore causato dai fattori umani e a un trattamento più efficace e sicuro del paziente. Essa può porsi come uno strumento strategico e innovativo nell’ambito della formazione multidisciplinare permanente solo se sussistono le basi per l’implementazione di programmi standardizzati di alta qualità e di efficacia verificabile. Particolare attenzione deve essere rivolta alla preparazione dei facilitatori, che da tradizionali istruttori divengono veri promotori del cambiamento e attivatori di un circolo virtuoso capace di guidare i professionisti da uno stato di conoscenza e operativo a uno stato di comprensione e saper fare.

Francesco Dojmi Di Delupis Dirigente medico medicina e chirurgia di accettazione e di urgenza U.O. 118 Firenze, Azienda USL Toscana

La simulazione: strumento di formazione permanente

Esperienze, riflessioni, sviluppi

La simulazione medica è un ramo dell’educazione in me-dicina che fa la sua prima comparsa intorno agli anni 30 per ridurre gli incidenti in ambito anestesiologico. Con lo sviluppo della tecnologia e dell’informatica, la si-mulazione ha iniziato a proliferare dagli anni 80 in diver-se discipline sanitarie tra cui l’emergenza-urgenza fino a giungere a maturazione con l’avvento dei primi simulatori ad alta fedeltà intorno agli anni 90. La simulazione medica, molto sviluppata e ben organiz-zata nei Paesi anglosassoni, ben consolidata in Europa e di recente diffusione anche nel nostro Paese, deriva dall’ambito aeronautico dove è noto che l’errore accade non tanto per mancanza di conoscenza, ma soprattutto per i cosiddetti fattori umani, human factor. Lo human factor è una disciplina che studia le interazioni dell’uomo con altri individui, sistemi, risorse, strumenta-zioni e macchine durante la sua attività lavorativa per individuare e correggere comportamenti che mettano a ri-schio il risultato delle azioni con l’obiettivo di aumentare i livelli di sicurezza degli interventi e l’efficienza generale. I professionisti della sanità si muovono in un sistema com-plesso caratterizzato da un intreccio di variabili difficil-mente prevedibili: sovraffollamento, quando si devono prendere decisioni cruciali efficaci e corrette in ambienti critici e in situazioni di elevato rischio. Tutto ciò richiede non solo il miglioramento delle difese del sistema ma an-

che un lavoro continuo sulla persona e le sue conoscenze, capacità procedurali e decisionali nonché sulle interazio-ni tra queste, il suo team e l’esterno. Questo processo di continuo miglioramento delle difese è stato appannaggio da sempre della formazione continua classica ma il nu-cleo della materia è sempre stato rimandato all’esperien-za personale fatta sul campo. La simulazione può riuscire in maniera sicura per gli ope-ratori e i pazienti a prevedere e a impedire in una certa misura il ripetersi di errori umani e ad approfondire il ruolo dello human factor nella loro genesi mediante il de-briefing condotto da facilitatori esperti.

I facilitatori sono speciali istruttori che con adeguate tec-niche facilitano l’apprendimento dei discenti che a loro volta diventano partecipanti di un processo educativo di cambiamento. Il debriefing, effettuato dopo lo scenario, è una riflessione attenta, impegnata e mirata che stimola l’autoanalisi dei partecipanti mediante facilitazione, per-mette di concettualizzare l’esperienza riconoscendo gli eventi accaduti, interpretandone il significato e miglioran-do le azioni e i loro risultati. Quindi, mentre il “cuore” tecnologico della simulazione è il simulatore, il debriefing può esserne definito propria-mente il “cervello”. L’attività esperienziale garantita da un simulatore altamente tecnologico viene analizzata e riflet-

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940 N. 210 - 2016L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

vantaggio da scenari complessi e ad alta fedeltà mentre gli utenti meno esperti hanno un maggiore indice di ap-prendimento là dove vi è una bassa fedeltà. I centri di simulazione sono degli ambienti tecnologici at-trezzati dove è possibile svolgere una simulazione, essi variano molto secondo le risorse, i progetti di realizzazio-ne e gli obiettivi di educazione. Il cuore del centro è il locale dove viene condotto lo sce-nario come ad esempio una sala di rianimazione com-pleta di presidi. Adiacente ad esso è situata la regia separata da un vetro a specchio in modo da renderla invisibile durante lo scenario. In essa è presente il tecnico di simulazione con i facilitatori che controllano lo scena-rio mediante un software dedicato. Dopo lo scenario i partecipanti vengono fatti accomodare in locale dotato di sistema audio video per effettuare il debriefing potendo rivedere su un monitor la loro prestazione.

Alcune esperienze In Toscana ci sono parecchi programmi di simulazione ma molti di questi sono condotti a bassa fedeltà, non standardizzati e non tutti gli istruttori di simulazione sono addestrati nei concetti chiave come le metodologie di in-segnamento all’adulto, il crisis resource management, le teorie e le tecniche di insegnamento della simulazione, le capacità di osservazione dei rischi e le teorie avanzate di debriefing. Inoltre, per i costi d’implementazione e mantenimento di un centro di simulazione le Aziende sanitarie difficilmente possono permettersene più di uno e i grandi centri sono di appannaggio prevalente delle grandi Aziende o delle Università. Questo pone dei limiti al numero del personale che può essere formato e discrepanze nelle metodiche formati-ve non essendo ancora standardizzata la metodica di debriefing nè definita la figura del facilitatore; inoltre, spostare i partecipanti ad esercitarsi in una struttura cen-tralizzata comporta costi logistici ed organizzativi non indifferenti soprattutto per le grandi Aziende con molte strutture ed ospedali periferici. Per ovviare a questo, re-centemente si sono affiancati nel mondo e in Italia i primi programmi di simulazione in situ. La simulazione in situ è il trasferimento dell’attività di simulazione dal centro di si-mulazione all’ambiente di lavoro. Permette di rendere più efficace lo scenario agendo positivamente sulla fedeltà. Una positiva esperienza di simulazione in situ nella Regio-ne toscana è il programma di simulazione2 dell’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze. La simulazione in situ viene generalmente effettuata in ospedali dove è già presente

tuta da un “cervello” a sua volta altamente addestrato e preparato a farlo. I fatti vissuti dai partecipanti vengono indagati e analizzati durante il debriefing con l’obiettivo di far uscire i cosiddetti “frames of mind” i modelli, atteg-giamenti, mentali che hanno guidato le loro azioni. Que-sta tecnica garantisce un’elevata esperienza personale dove l’apprendimento dall’errore vissuto in un ambiente simulato, sicuro e senza rischi per gli operatori e per il paziente, non causerebbe danno ma spunto di riflessione, analisi e correzione dei comportamenti scorretti, consen-tendo in una sorta di ciclo reiterativo, la correzioni degli errori, la sperimentazione di nuovi comportamenti accele-rando la curva di apprendimento e soddisfacendo il ciclo dell’apprendimento di Kolb1. La simulazione, dà la possibilità di vivere virtualmente casi clinici già vissuti o che potrebbero verificarsi, fornendo esperienze sovrapponibili al reale. In questo senso, ampli-fica l’esperienza degli operatori aiutandoli a governare le variabili che si troveranno ad affrontare contribuendo a ridimensionare l’entità dell’apprendimento esperienziale basato sugli errori clinici reali. Essa, in più rispetto alle metodiche educative tradizionali, unisce in uno stretto binomio l’insegnamento e la valuta-zione. Il personale sanitario mentre si esercita (apprendi-mento esperienziale e analisi cognitiva) viene nel contem-po valutato (analisi di percorsi, processi e procedure) for-nendo in questo modo una fotografia sempre aggiornata del grado di sapere e saper fare.

Come e doveSi prevede in futuro, come già avvenuto in altri Paesi, una diffusione della metodica anche per il personale sanitario già attivo sul fronte lavorativo. Le previsioni di diffusione sono ancora più estese se si pensa anche alle altre disci-pline sanitarie come i tecnici e i soccorritori volontari. Esistono molte soluzioni tecnologiche per effettuare una simulazione. La scelta degli apparecchi dipende dal pro-getto educativo e dagli obiettivi di insegnamento, ma ancora prima dalle principali categorie di utilizzo. La simulazione può essere utilizzata per obiettivi diversi,ma tutte le categorie di impiego hanno in comune la scelta del simulatore: si va da soluzioni semplici a basso costo a soluzioni più impegnative dal punto di vista econo-mico. Nel caso della simulazione mediante simulatori antropomorfi il mercato offre dispositivi semplici e com-plessi, fisici e virtuali. I simulatori fisici, comprendono una serie di prodotti più o meno sofisticati. Il livello di fedeltà è ampiamente modula-bile, in generale, gli utenti più esperti traggono il massimo

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941N. 210 - 2016 L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

La peculiarità di operare in un ambiente reale permette di analizzare i veri comportamenti dei membri dei team e correggere precocemente le azioni scorrette. La formazio-ne effettuata sul team di emergenza aumenta e facilita i legami tra operatori, migliora il lavoro di squadra e stan-dardizza le procedure e la comunicazione anche durante l’handover clinico6.Consente inoltre l’implementazione di protocolli condi-visi sulla base del sapere e del saper fare e non solo l’adozione, vissuta come imposta, delle linee guida. Tali metodiche si prestano ad essere validi strumenti per sod-disfare una nuova forma di formazione permanente degli operatori sanitari. Immaginiamo le potenziali possibilità di una visione di questo tipo, un futuro prossimo in cui i team dell’emer-genza-urgenza si addestrino studiando e rafforzando i protocolli esistenti all’interno dei propri dipartimenti di emergenza durante le ore previste di formazione. Questo soddisferebbe i bisogni della formazione conti-nua portando nel contempo come valore aggiunto la di-minuzione dell’errore imputabile al fattore umano con un aumento della performance generale della persona e dei team, migliorando l’assistenza globale al paziente.

Le simulazioni multidisciplinari permettendo di esercitarsi in sicurezza in un ambiente onesto e non giudicante au-mentano la consapevolezza, la comunicazione e la fidu-cia tra i singoli membri del team favorendo i contatti con altre figure come specialisti e consulenti. Faciliterebbero inoltre l’integrazione del personale neo-assunto.

Considerazioni per il futuroA questo punto, affermata l’ottima capacità formativa potenziale dell’educazione permanente mediante simula-zione è necessario fare alcune riflessioni per far sì che si possa mirare ad un livello qualitativo elevato. Per le sue proprietà intrinseche, la simulazione funziona come un meccanismo del tutto o nulla. In altre parole non può sussistere un piano formativo di media qualità perché po-trebbe essere non solo inutile per gli operatori ma con-troproducente per l’intero sistema. È necessario mirare a piani progettuali di alta qualità basati su linee guida e standard riconosciuti.Per una riuscita efficace di un piano formativo permanen-te è necessaria la creazione di un pool standardizzato, multi e trans-disciplinare di facilitatori certificati in conti-nuo contatto ad esempio attraverso società scientifiche7, reti organizzative8, siti web9 allo scopo di evitare fram-mentazione, e dispersione di conoscenza e contenuti.

un centro fisso di simulazione ed è realizzata con l’im-piego di speciali carrelli per trasportare il materiale ed i simulatori3. Il debriefing viene svolto nelle stanze di riunio-ne. Il valore aggiunto di questa metodica è di non dover spostare il personale e potere effettuare le simulazioni, mediante rotazione, durante il normale orario di lavoro. Essa permette un miglior raggiungimento degli obiettivi di lavoro in squadra ed è un efficace metodo per identificare e risolvere problemi strutturali ambientali.Un’esperienza oltreoceano di tipo misto che ha fatto da esempio per lo sviluppo di numerosi altri programmi è quella del Boston Children’s Hospital4 che è stato il pri-mo ospedale al mondo ad ospitare spazi di simulazione all’interno dei reparti di terapia intensiva. I locali sono sta-ti attrezzati con sistemi audio video e dotati di simulatore utilizzando i presidi e i dispositivi già presenti.Questo, ha permesso un continuo addestramento del personale anche durante la normale attività lavorativa ri-sultando come una formazione “virtuale” perfettamente integrata alla vita di reparto. Nel 2013 l’Università di Firenze, la Regione Toscana e l’Harvard Medical Faculty Physicians di Boston hanno lanciato un progetto pilota per effettuare un addestramen-to in situ dei team dei dipartimenti di emergenza, il Tu-scan Mobile Simulation Program5. L’obiettivo, soddisfatto, era di sviluppare un programma pilota di formazione di alta qualità e competitivo in termine di costi attraverso la simulazione in situ ad alta fedeltà utilizzando istrutto-ri altamente formati e metodologie standardizzate per il debriefing.La simulazione mobile in situ è una estensione ed evolu-zione della simulazione in situ e prevede lo spostamento di tutta l’attrezzatura attraverso mezzi mobili, vani attrez-zati, direttamente presso il luogo dove deve avvenire la simulazione. Essa si presta per progetti in cui è necessario formare grandi numeri di personale su aree vaste ed ospe-dali periferici mantenendo i costi ridotti. Infatti il costo di acquisto e gestione delle apparecchiature è massimizzato dal continuo utilizzo e spostamento programmato di esse non essendo vincolato ad orari o problemi locali. Il pro-getto ha dimostrato il potenziale di sviluppo di un sistema che permette di coniugare nello stesso tempo una grande flessibilità formativa con un contenimento dei costi senza sacrificare la qualità.La simulazione mobile in situ, può essere utilizzata come test in tempo reale di procedure e protocolli locali e per identificare e correggere comportamenti ed errori di siste-ma talvolta nascosti, spesso fonte di rischio latente per la sicurezza del paziente e degli operatori.

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942 N. 210 - 2016L’organizzazione dell’emergenza-urgenza

do la formazione e la valutazione continua del personale potrebbe essere un beneficio non solo in termini economi-ci o di soddisfazione del capitale umano ma soprattutto per la sicurezza di cura del paziente.

Bibliografia 1 Alice Y.Kolb David A. Kolb Academy of Management Lear-

ning Education. (2005), Learning Styles and Learning Spa-ces: Enhancing Experiential Learning in Higher Education Vol. 4, No. 2, 193-212

2 http://www.meyer.it/index.php/didattica-e-formazione/simulazione-pediatrica (accesso 1 lug. 2016)

3 Weinstock PH1, Kappus LJ, Garden A, Burns JP (2009) Simu-lation at the point of care: reduced-cost, in situ training via a mobile cart. Pediatr Crit Care Med. Mar;10(2):176-81

4 http://simpeds.org/program-overview/ (accesso 1 giu. 2016)

5 Ulmann E, Kennedy M, Francesco Di Delupis FD et al. (2016) The Tuscan Mobile Simulation Program: a description of a program for the delivery of in situ simulation training Intern Emerg Med Sep;11(6):837-416

6 Francesco Dojmi Di Delupis, Paolo Pisanelli, Giovanni Di Luccio et al. (2014). Communication during handover in the pre-hospital/hospital interface in Italy: from evaluation to im-plementation of multidisciplinary training through high-fidelity simulation Intern Emerg Med Vol 9, Issue 5, pp 575-582

7 www.simmed.it (accesso 1 feb. 2016)

8 http://www.simpnet.it/ (accesso 7 sett. 2016)

9 www.simulazionemedica.com (accesso 8 sett. 2016)

10 http://nysimcenter.org/ (accesso 8 sett. 2016)

11 Rudolph, Jenny W; Simon Robert et.al.(2006) There’s No Such Thing as “Nonjudgmental” Debriefing: A Theory and Method for Debriefing with Good Judgment Simulation in Healthcare: The Journal of the Society for Simulation in He-althcare: Spring vol 1, Issue 1, pp 49 45

12 https://harvardmedsim.org/debriefing-assesment-simulation-healthcare.php (accesso 8 sett. 2016)

Un errore grave è creare una faculty improvvisata di for-matori e inviarli “sul campo di battaglia” non ancora per-fettamente sicuri e bilanciati e soprattutto vulnerabili. Questo può causare incomprensioni tra facilitatori e par-tecipanti e talvolta anche problemi sia sul piano lavorati-vo sia personale, ma soprattutto può rendere lo strumento formativo addirittura controproducente. Se da un lato è vero che la simulazione senza debriefing è come un cuo-re senza cervello, dall’altro, un “cervello debole” ossia un debriefing poco efficace può creare confusione nei parte-cipanti e anzichè aprirne la mente può innescare dubbi e debolezze con risvolti potenzialmente negativi sull’agire clinico reale. La formazione dei formatori è un processo lento e impe-gnativo. Un’interessante metodologia di formazione è quella del centro di simulazione del Bellevue Hospital di New York10 dove il passaggio tra formatori base e avan-zati avviene per gradi e livelli valutati da personale di comprovata esperienza ed è regolato non solo dal rag-giungimento delle competenze ma soprattutto dalla fre-quenza di insegnamento. Nei livelli iniziali i neo formatori entrano in possesso di qualità necessarie e sufficienti per gestire dei debriefing con metodi più superficiali di inda-gine, e man mano che la formazione prosegue accanto all’esperienza sul campo, affiancando istruttori più esper-ti, più tardi riusciranno a padroneggiare tecniche com-plesse come il Good Judgment11. Una volta sul campo, i facilitatori dovranno essere accompagnati da specifiche sessioni di re-training e testati sulla capacità di debriefing da continue valutazioni ed auto-valutazioni con strumenti di analisi come il dash rater (debriefing assessment for si-mulation in healthcare) sviluppato dal Center for medical simulation di Boston12.

In conclusione, la progettazione di iniziative educative nell’ambito della formazione sanitaria utilizzando come strumento la simulazione medica, allo stato dell’arte è fattibile e capace di sostenere le variabili di un sistema complesso come quello della formazione sanitaria per-manente. Un programma standardizzato di alta qualità, consenten-

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943L’organizzazione dell’emergenza-urgenzaN. 210 - 2016

AbstractIl DEU prevede ormai diversi ambiti di intervento, l’infermiere nel suo esercizio clinico in emergenza riconosce 12 posti di lavoro, ciascuno dei quali deve far riferimento ad un profilo di competenza specifico. Ognuno di questi profili di competenza è composto e valutato secondo le dimensioni di impegno fisico, competenze clinico assistenziali e logistiche; infatti non tutti gli infermieri possono lavorare in emergenza, specie se privi della capacità, attitudine al cambio di passo. L’ambito di eser-cizio dell’emergenza è distinto da quello della terapia Intensiva ed anche nella formazione universitaria dovrebbero essere così considerati. In emergenza è indispensabile una formazione post laurea ma non è necessario che tutti gli infermieri siano specialisti, mentre a nessuno di loro devono mancare le competenze specialistiche necessarie.

Giovanni Becattini Infermiere dirigente UOC Infermieristica ospedaliera Siena, Azienda USL Toscana sud est

La professione infermieristicaè necessaria la specializzazione in EU?

Le storie della professione infermieristica e quella dell’e-mergenza nel nostro Paese sono, per certi versi, parallele; è forse per questo che gli infermieri sono sempre stati molto attratti da questo ambito di esercizio professionale tanto nella fase territoriale che in quella ospedaliera, tan-to all’inizio della loro carriera professionale quanto in un periodo di maggior esperienza. L’atto di nascita normativo moderno dell’infermiere ita-liano, il DPR 739 del 1994, ha previsto, l’assistenza in area critica, assieme ad altri quattro, come ambito di ap-profondimento disciplinare, di pratica specialistica ed og-getto di formazione post base. Ma cosa intendiamo per area critica? E’ sinonimo di emergenza-urgenza o meno? È il mondo infermieristico che per primo nel nostro Pae-se riflette sul tema; infatti nel 1986 l’Aniarti, associazione nazionale degli infermieri di area critica, in esito da un congresso nazionale con oltre mille partecipanti, nel quale si era evidenziato come l’infermiere si trovasse a gestire problemi di criticità vitale dei malati anche al di fuori delle strutture intensive, costituì un gruppo di studio nazionale, sul tema, dell’area critica per affrontarlo con metodo. Con il supporto del CeRGAS (Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria) dell’Università Bocconi di Milano, un gruppo di circa 30 infermieri operanti nei vari ambiti intensivi delle diverse zone d’Italia produsse, tra l’altro, una prima concettualizzazione dell’area critica nella sua acce-zione di “area situazionale” del malato e di modalità orga-nizzativa funzionale ad un bisogno urgente di assistenza.

Nell’anno successivo, il 1987, si arrivò alla prima defi-nizione ufficiale: l’area critica è l’insieme delle strutture ad alta intensità assistenziale e l’insieme delle situazioni caratterizzate dalla criticità / instabilità vitale del malato e da complessità dell’approccio e dell’intervento assisten-ziale medico infermieristico. Quindi area critica come contenitore delle strutture e delle competenze dell’emergenza-urgenza ma non sinonimo. La stessa fonte nello stesso tempo definì l’infermiere di area critica come un professionista capace di garantire ovunque alla persona in situazione di potenziale o reale criticità vitale, un’assistenza sanitaria completa/globale anche attraverso l’utilizzo di strumenti e presidi a rilevan-te componente tecnologica ed informatica. L’infermiere di area critica si impegna per mantenere un elevato livello di competenza, il contenimento dei fattori di rischio, la qualità delle prestazioni e dei servizi sanitari.A questo punto abbiamo chiarito che nel nostro Paese è da sempre prevista una formazione post base per l’assistenza infermieristica in area critica; si sono però diffusi corsi di perfezionamento prima e master di primo livello poi in emer-genza-urgenza, terapia intensiva e terapia intensiva specia-listica; quindi potremmo affermare che a fronte del presup-posto normativo gli Atenei italiani hanno prevalentemente attivato corsi di formazione distinguendo due o tre ambiti di sapere all’interno dell’infermieristica in area critica. Se questo è lo stato dell’arte della formazione, vedremo più avanti quali sono le progettualità per il futuro, cosa

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gli interventi richiesti e da assicurare, per ottenere un pro-filo di competenza specifico. Un profilo nel quale preve-dere le funzioni e le attività attese ovvero le conoscenze e le abilità sottese.. Nel DEU, poi, non possono essere trascurate le competen-ze logistiche; infatti se prendiamo l’assistenza prevista da uno degli algoritmi di peri - arresto ci dobbiamo attendere che una equipe multi professionale esperta sia comunque in condizione di assicurarli, quindi sia in ambulanza che in una sala del Pronto Soccorso, ma possiamo dire che sia la stessa situazione? No, e non perché talune opzioni tera-peutiche siano precluse in questi casi ma piuttosto perché lavorare in un ambiente ostile, in contesto extra ospedalie-ro come su una ambulanza o su una eliambulanza, richie-de conoscenze, abilità, e spesso anche prestanza fisica, che niente hanno a che vedere con le competenze clinico assistenziali ma che, come queste, sono necessarie.Analogo ragionamento si potrà fare per la sala d’emer-genza del Pronto Soccorso, dove la conoscenza della composizione e disposizione dei kit per le procedure d’e-mergenza assume identico valore.Visto il metodo all’interno del quale muoversi nella defi-nizione dell’infermiere d’emergenza, muoviamo adesso i primi passi nel merito di quanto esposto. Durante il Corso di laurea in infermieristica lo studente nel corso integrato nel quale si forma, al terzo ed ultimo anno, per l’assisten-za in area critica riceve circa 120 ore di insegnamenti d’aula alle quali ne associa circa 800 di tirocinio (29/30 CFU) potendo scegliere l’emergenza o la terapia intensiva anche per quello opzionale. Tradizionalmente quando un infermiere entra nel DEU viene impostato un piano di orien-tamento e di inserimento che integra formazione d’aula, di laboratorio e sul campo con una progressione che discen-de dall’ambito di intervento nel quale se ne prevede l’im-piego. Un infermiere che dovesse lavorare nel DEU per un periodo limitato di tempo, sarebbe inserito quasi esclusiva-mente nei turni dell’osservazione breve, dopo un altrettan-to breve training di inserimento quando non direttamente attraverso l’affiancamento da parte di un infermiere tutor. In questo posto di lavoro infatti l’infermiere può mettere più facilmente a frutto gli studi e l’esperienza fatta nelle degen-ze ospedaliere sia per il tipo di posto letto che per alcune similitudini nel succedersi delle fasi diagnostico terapeutico assistenziali, mentre in qualunque altro posto di lavoro si troverebbe a fronteggiare le carenze sia in termini logistici, di percorso e clinico assistenziali.Questo rapido excursus sulla formazione di base infer-mieristica ci porta ad una prima conclusione: un infermie-re neo laureato senz’altra formazione non può ricoprire

è successo nella pratica clinica? Quali sono le organiz-zazioni delle strutture d’emergenza? Il Dipartimento di emergenza-urgenza, per come è definito dalla Legge re-gionale n. 84 del 2015, legge di riordino dell’assetto isti-tuzionale e organizzativo del sistema sanitario toscano, deve “garantire il soccorso territoriale, il Pronto Soccorso, l’osservazione, la medicina e chirurgia di accettazione e d’urgenza e il trasporto fra ospedali nelle patologie tem-po dipendenti e traumi.” Inoltre “Nelle Aziende sanitarie è attivata una apposita struttura organizzativa professio-nale, corrispondente alla funzione operativa denominata medicina e chirurgia di accettazione e di urgenza, dedi-cata in forma stabile alle attività del Pronto Soccorso e osservazione ospedaliera, soccorso sanitario territoriale, trasporto sanitario, macroemergenza”.Prendendo atto di questo aspetto organizzativo, con l’o-biettivo di valutare le competenze richieste al professionista infermiere vediamo adesso quanti e quali sono i posti di lavoro assistenziali che gli infermieri occupano nel DEU.In Centrale operativa 118 si riconoscono le postazioni di ricezione1 e quella di gestione mezzi2; in coerenza con quest’ultima possiamo assegnare in questo contesto i posti di lavoro relativi al trasferimento interospedaliero3. Nel soccorso territoriale l’infermiere lavora assieme al medico sia nell’eliambulanza4 che nelle auto mediche5, mentre opera con soccorritori volontari nelle ambulanze infermieristiche6.In Pronto Soccorso si riconoscono la postazione di tria-ge7, del See and Treat8, della sala visita9, della sala d’e-mergenza10 e poi dell’osservazione breve intensiva11 e, per dove attivata, della medicina d’urgenza12. Proseguendo quindi nella ricerca del profilo di infermiere da impegnare nel DEU, ciascuno di questi posti di lavoro deve esser valutato secondo, almeno, tre dimensioni:• impegno fisico richiesto;• competenze clinico assistenziali;• competenze logistiche.Il primo impegno di una organizzazione deve essere quello di protezione dei propri professionisti quindi, la prima dimensione da esplorare, visto anche il progressivo aumento dell’età media degli stessi ed il correlato aumen-to dei disturbi muscolo scheletrici, è quella dell’impegno fisico richiesto dal contesto operativo, dai diversi posti di lavoro. A tal fine si deve prevedere una valutazione del medico competente focalizzata e fortemente condivisa con il Servizio prevenzione e protezione.Ottenuta la mappa del rischio e dell’impegno fisico, pro-cederemo, analogamente per singolo posto di lavoro, ad analizzare la casistica gestita, i problemi degli assistiti,

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ed esito delle rianimazioni cardio polmonari effettuate, ad esempio, che si dovrebbe stabilire se e quando fare il retraining piuttosto che ad una precisa scadenza tempo-rale, ed alla stessa stregua gli interventi di sutura, intuba-zione oro tracheale, sondaggio gastrico o la gestione di casi quali l’insufficienza respiratoria acuta o la sindrome coronarica acuta, tutti censiti, monitorati, anche dal ma-nagement, e seguiti con follow up più o meno strutturati. Si deve affermare nella pratica che l’infermiere d’emer-genza sia e resti tale in virtù non solo delle competenze acquisite, ma anche, quindi, degli interventi che abitual-mente effettua e degli esiti che, monitorati, ottiene. Il li-bretto delle performance che ciascun infermiere dovrebbe alimentare è possibile grazie all’informatizzazione che da sempre caratterizza i servizi di emergenza e sarebbe strumento di particolare rilievo anche per il management e per l’organizzazione; sia per la programmazione di momenti di formazione dedicati e specifici sia per le ses-sioni di valutazione, più oggettive e puntuali.Costruire un percorso di sviluppo di competenza basato sui diversi profili collegati al posto di lavoro, consente di poter programmare l’intera carriera infermieristica all’in-terno dell’emergenza-urgenza, un elemento questo che risulterebbe gradito ad un ampia quota di infermieri e di rilevante significato per le organizzazioni che non ve-drebbero depauperato il proprio capitale di conoscenze e abilità come avviene ogni volta che un infermiere esper-to lascia l’emergenza-urgenza. Visto che il tempo è fattore decisivo nell’emergenza, vale la pena soffermarcisi. Il fattore tempo è decisivo nel soccorso, nelle manovre di emergenza, nell’attesa in Pronto Soccor-so, nella permanenza in OBI; ma considerato per i profes-sionisti si presenta come una necessità ed una opportunità. È necessario che i professionisti che operano nell’emergen-za posseggano l’attitudine a farlo, il timing innato, come i migliori ballerini, i professionisti dell’emergenza hanno co-gnizione di quando serva accelerare le operazioni e quan-do si possa prendere più spazio: su questo aspetto, che è difficilmente descrivibile ma facilmente comprensibile, si sono scontrati sul tema fior di professionisti, molto motivati, ma incapaci di assicurare quel cambio di ritmo lavorativo che è l’essenza dell’emergenza.Disporre di una carriera da completare in emergenza è allo stesso tempo una opportunità, di mantenersi motivati e di programmare il proprio percorso di sviluppo; senza voler dare prescrizioni assolute ma spunti di riflessione, potrem-mo dire che c’è un tempo per l’elisoccorso, le corse zaino in spalla, ed uno per l’attività in sala di Pronto Soccorso, uno per assicurare il 90% del tempo in attività clinica ed il

senza rischi per se stesso e per i suoi assistiti tutti i posti di lavoro dell’emergenza, anzi non ne potrà coprire che uno soltanto. Possiamo fin d’ora affermare quindi che per lavorare in emergenza è necessaria una formazione post base. Se procediamo quindi valutando quale formazione viene richiesta / offerta agli infermieri inseriti nelle strut-ture di emergenza ecco che troveremo una serie più o meno nutrita di corsi di formazione certificati da socie-tà scientifiche nazionali o internazionali: ci sono i corsi di rianimazione, di base e avanzati, quelli sul trauma, quelli sul triage, sul See and Treat, sul rischio NBCR, sul-la maxi emergenze e sulla Centrale operativa. Insomma potremmo affermare che un infermiere d’emergenza sia un collezionista di stemmi e certificati ma non possiamo adeguarci a far sì che l’ambito dell’emergenza diventi una collezione di bollini da raccogliere. Piuttosto è necessario affermare che nei dodici posti di lavoro che abbiamo elencato, si possa operare solo se in possesso delle necessarie competenze magari inqua-drate in contenitori che ne favoriscano il possesso ed il mantenimento. Potremmo affermare che sarà un infermie-re d’emergenza il professionista che potrà operare con performance ed esiti standard in ciascuno degli ambiti di intervento individuati, e per ambiti di intervento si ricono-scono almeno tre contenitori di competenza e/o situazio-nali: quello della Centrale operativa, quello del triage e See & Treat di Pronto Soccorso e quello dell’emergenza in team sia ospedaliera che territoriale. Insomma dobbiamo distinguere le postazioni dove l’in-fermiere, pur operando secondo protocolli o linee guida, agisce da solo con il suo proprio margine di autonomia operativa (CO, triage, S&T, ambulanza infermieristica) da quelli dove il lavoro viene svolto di concerto ed in pre-senza del medico (auto medica ed eliambulanza, le sale del Pronto Soccorso, OBI e medicina d’urgenza); infatti nel primo caso le competenze richieste faranno riferimen-to al pensiero critico, alla capacità decisionale autonoma e responsabile mentre nel secondo si dovranno sviluppare particolarmente quelle relative al lavoro in team. Appare opportuno richiedere che gli infermieri guadagnino com-petenze in almeno due dei tre contenitori di competenza descritti, vi lavorino con continuità, garantendo da un lato flessibilità organizzativa e dall’altro una preparazione manutenuta che sarà anche garanzia di maggior longevi-tà nell’emergenza. Richiamando i principi descritti per l’infermiere di area critica, ciascun infermiere dell’emergenza dovrebbe tene-re registrata la propria casistica con la stessa attenzione di un chirurgo specialista; infatti sarà verificando numero

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Inoltre se nelle bozze che circolano per il nuovo Contratto collettivo nazionale, si legge sulla volontà di valorizzare le competenze avanzate, nell’ottica della Legge 43 del 2006, ovvero quella che afferma che l’infermiere speciali-sta è il professionista in possesso del master di primo livel-lo, ebbene si apra una approfondita riflessione e discus-sione su quanto e come si debbano applicare nell’ambito di assistenza in emergenza.Infatti se ad oggi, per tutti questi anni, non si è riusciti a valorizzare i professionisti che scelgono questo impe-gnativo ambito di esercizio, non sarebbe accettabile per-dere anche questa occasione, ma allo stesso tempo non appare attuale, sostenibile e corretto, richiedere che per lavorare in emergenza sia requisito di accesso il master di primo livello se non la laurea magistrale.In conclusione, in attesa che il quadro generale sia più chiaro, appare necessario affermare che ciascun infer-miere che lavora in ambito di emergenza:• abbia una formazione, successiva alla laurea, arti-

colata e personalizzata che gli consenta di operare in almeno un paio dei contenitori di competenza in-dicati;

10% in formazione ed un altro dove le percentuali arrivano quasi ad invertirsi. C’è poi il tema del management: come e più che per l’infermiere clinico è aperto il dibattito sulla opportunità o meno di avere un infermiere coordinatore con esperienza di emergenza; in questo caso non abbia-mo riferimenti di letteratura e l’esperienza ci riporta casisti-che diverse con risultati simili. Certamente coordinare un gruppo di lavoro mettendo al centro le competenze, il loro sviluppo, la flessibilità operativa e la valutazione delle per-formance, non può prescindere da una decisa conoscenza di merito, sia essa appresa sul campo, sia ottenuta con per-corsi diversi, risulta fondamentale per quanto sia basilare per l’intera organizzazione.Dobbiamo osservare che se la Federazione nazionale dei Collegi IPASVI rivede ma torna a promuovere, nella nuova progettualità formativa, la specializzazione clinica in area critica, (fig.1) è necessario ribadire che al suo interno il percorso debba prevedere almeno due indirizzi, a tener distinte l’emergenza e la terapia intensiva, in altre parole l’insegnamento e le abilità sottese ad intervenire con la maschera laringea e la stecco benda e ad assistere con l’ECMO.

Figura 1 Il Modello dello sviluppo di competenza FNC IPASVI 2015

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Infine per quanto si ritiene da privilegiare la valoriz-zazione economica di funzioni operative agite piutto-sto che di singoli ruoli strutturati, laddove si verifichi la possibilità contrattuale di selezionare e nominare infer-mieri specialisti, individuarne una quota tra il 10 ed il 20% nell’area dell’emergenza potrebbe costituire un base di partenza per verificare impatto ed esiti. Perché non è necessario che tutti gli infermieri impegnati nelle strutture d’emergenza siano specialisti, ma a nessuno di loro devono mancare le competenze specialistiche necessarie.

• abbia un adeguato monitoraggio di performance ed esiti;

• disponga di un coerente sistema di valutazione e valo-rizzazione economica.

Si raccomanda inoltre che per ciascun contenitore di com-petenza, se non addirittura per singolo posto di lavoro, sia individuato un infermiere esperto di riferimento per l’intero gruppo di lavoro, in ciascun turno di servizio al-meno uno degli infermieri esperti sia sempre presente con funzione di team leader.

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Tavola rotonda

Il medico e la sua carriera, alla luce dei primi specializzati in medicina di EU

Questa tavola rotonda vuole affrontare da vari punti di vista il problema della carriera del medico  dell’emer-genza-urgenza nel contesto dello sviluppo organico e culturale della specialità. Il primo intervento espone i contenuti e la metodologia formativa a cui viene sottoposto  il medico in seguito all’entrata in vigore della Scuola di specializzazione. Successivamente i medici con diverse esperienze culturali, formative e lavorative ed i neospecialisti recentemente introdotti, questi si confrontano su possibili modalità di sviluppo del sistema e sulle prospettive di inserimento , formazione e carriera sia dei medici di medicina di emergenza-urgenza, che di quelli di altre specialità equipollenti.

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Riccardo PiniDirettore della Scuola di specializzazione in medicina di emergenza-urgenza, Dipartimento di medicina

sperimentale e clinica, Università di Firenze e Azienda ospedaliero-universitaria Careggi, Firenze

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Quale specialista abbiamo formato con la Scuola di specializzazione

in medicina di EU

Nel 2002 l’Università di Firenze, in collaborazione con l’Assessorato alla salute della Regione Toscana, l’Azienda ospedaliero-universitaria di Careggi e la Harvard Univer-sity di Boston istituì il primo percorso formativo in medici-na di emergenza-urgenza che ha rappresentato il model-lo sul quale nel 2008 è stata istituita la relativa Scuola di specializzazione1.Il modello di riferimento al quale ci ispirammo fu quello anglosassone che vede il medico di emergenza-urgenza come lo specialista in grado di affrontare tutte le condi-zioni cliniche emergenti-urgenti che possono presentarsi sia sul territorio che in Pronto Soccorso. Questo modello è chiaramente alla base anche della declaratoria riportata nella Legge istitutiva della nostra specialità che recita: “Lo specialista in medicina d’emergenza-urgenza deve avere maturato conoscenze teoriche, scientifiche e professionali nei campi del primo inquadramento diagnostico (sia intra che extraospedaliero) e il primo trattamento delle urgen-ze mediche, chirurgiche e traumatologiche; pertanto lo specialista in medicina d’emergenza-urgenza deve avere maturato le competenze professionali e scientifiche nel campo della fisiopatologia, clinica e terapia delle urgen-ze ed emergenze mediche, nonché della epidemiologia e della gestione dell’emergenza territoriale onde poter ope-rare con piena autonomia, nel rispetto dei principi etici, nel sistema integrato dell’emergenza-urgenza”2.

Questa definizione di un medico in grado di affrontare qualsiasi condizione clinica indipendentemente dall’orga-no o apparato coinvolto, dal luogo (extra o intra-ospeda-liero) o dall’età del paziente (neonato, bambino, vecchio) ha talvolta suscitato le critiche di altri specialisti che ci hanno definito dei “tuttologi” senza una vera specializza-zione. Ma la nostra peculiarità è invece il “fattore tempo”

inteso sia come gestione tempo-dipendente di qualsiasi patologia (e quindi non in sostituzione degli altri speciali-sti) che come servizio specialistico disponibile H24. Lo stesso modello di medico di emergenza-urgenza è sta-to adottato anche dalla European Society of Emergency Medicine (EuSEM) che definisce la nostra specialità: “Emergency Medicine is a medical specialty based on the knowledge and skills required for the prevention, dia-gnosis and management of the acute and urgent aspects of illness and injury affecting patients of all age groups with a full spectrum of undifferentiated physical and beha-vioral disorders. It is a specialty in which time is critical. The practice of Emergency Medicine encompasses the pre-hospital and in-hospital reception, resuscitation and management of undifferentiated urgent and emergency cases until discharge from the Emergency Department or transfer to the care of another physician. It also includes involvement in the development of pre-hospital and in-ho-spital emergency medical systems”3.

Definito quale specialista vogliamo, che percorso forma-tivo abbiamo per raggiungere questo obiettivo? Anche a questa domanda ci viene d’aiuto la Legge istitutiva della specialità che definisce non solo la durata (5 anni, così come definito anche dall’Unione Europea) e gli obiettivi formativi ma elenca anche tutte le attività cliniche che lo specializzando deve obbligatoriamente svolgere durante la specializzazione (Tabella 1). Analizzando la tabella ci si rende facilmente conto della volontà del legislatore di assicurarsi che alla fine del percorso formativo lo spe-cialista abbia raggiunto una approfondita preparazione teorico/pratica in tutti gli ambiti di pertinenza in modo da poterlo inserire attivamente nel sistema dell’emergenza-urgenza sia territoriale che ospedaliero. Da sottolineare

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seconda prova composta dal 8 stazioni in ognuna delle quali il candidato deve gestire un caso clinico dimostran-do non solo di possedere le necessarie conoscenze e abi-lità tecniche previste dal curriculum europeo ma anche le capacità non-tecniche (rapporti con gli altri professionisti, con i parenti, con le forze dell’ordine, etc.). Al momento solo pochi specialisti italiani hanno affrontato questa certi-ficazione europea (prevalentemente per la difficoltà della barriera linguistica) ma i 6 italiani che hanno ottenuto la certificazione sono tutti medici di emergenza-urgenza che hanno conseguito la specialità o lavorano nel nostro Servizio sanitario regionale.

come la nostra specialità sia al momento l’unica che pre-vede il ricorso estensivo alla simulazione per l’apprendi-mento di molte abilità tecniche e non-tecniche in modo da assicurare ottimi livelli formativi.

Ovviamente un buon curriculum non assicura automati-camente ottimi professionisti ma anche questo aspetto è stato affrontato dall’EuSEM con l’istituzione, nel 2013, dell’European Board Examination in Emergency Medici-ne (EBEEM)4. Questo esame, al momento disponibile solo in lingua inglese, si compone di una prima prova scritta rappresentata da 120 domande a scelta multipla e una

Tabella 1: Requisiti assistenziali della Scuola di specializzazione in medicina di emergenza-urgenza

Prestazioni minime per tutto il percorso formativo di uno specializzando

da distribuire in funzione del piano formativo

Avere partecipato, per almeno 3 anni, all’attività medica - compresi i turni di guardia diurni, notturni e festivi - nelle strutture di Emergenza-Accettazione - e nelle strutture collegate- identificate nell’ambito della rete formativa

3 anni

Avere redatto e firmato cartelle cliniche di pazienti delle strutture di Emergenza-Accettazione e nelle strutture collegate

300

Avere partecipato attivamente alla gestione di traumatizzati maggiori e sapere gestire il “Trauma Team”

50

Avere trascorso almeno 3 settimane all’anno in turni di emergenza territoriale 3 anni

Sapere attuare il monitoraggio elettrocardiografico, della pressione arteriosa non-cruenta e cruenta, della pressione venosa centrale, della saturazione arteriosa di ossigeno

Avere eseguito disostruzioni delle vie aeree* 10

Avere eseguito ventilazioni con pallone di Ambu* 30

Avere eseguito intubazioni oro-tracheali in urgenza* 20

Sapere praticare l’accesso chirurgico d’emergenza alle vie aeree: cricotiroidotomia*

Sapere eseguire la ventilazione invasiva e non-invasiva meccanica manuale e con ventilatori pressometrici e volumetrici*

Sapere somministrare le varie modalità di ossigenoterapia

Avere posizionato cateteri venosi centrali (giugulare interna, succlavia e femorale)*

20

Avere posizionato accessi intraossei* 10

Avere posizionato agocannule arteriose (radiale e femorale)* 10

segue

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Avere interpretato emogasanalisi arteriose, con prelievo arterioso personalmente eseguito*

100

Avere praticato toracentesi dirette ed ecoguidate, con posizionamento di aghi e tubi toracostomici*

5

Avere posizionato sondini nasograstrici, compreso il posizionamento nel paziente in coma*

20

Sapere eseguire pericardiocentesi*

Avere interpretato almeno 50 radiografie del torace, 20 radiogrammi diretti dell’addome, 50 radiogrammi ossei, 20 TC (cranio, cervicale, toracica, addominale) e 10 RMN del cranio

150

Avere praticato ed interpretato esami ecografici per le emergenze cardiache, toraciche ed addominali*

40

Avere praticato ed interpretato eco-Doppler venosi ed arteriosi* 30

Avere eseguito ed interpretato ECG 200

Avere eseguito cardioversioni* 20

Avere eseguito defibrillazioni elettriche* 20

Avere praticato massaggi cardiaci esterni con applicazione delle manovre di rianimazione*

20

Avere posizionato pace-makers esterni e saper posizionare pace-makers trans venosi*

10

Avere praticato sedazioni-analgesie per procedure 10

Avere praticato anestesie locali 20

Avere disinfettato e suturato ferite superficiali 40

Sapere realizzare fasciature, splints e gessi per immobilizzazione di fratture ossee*

Avere praticato immobilizzazioni per la profilassi delle lesioni midollari e nelle fratture del bacino*

5

Sapere eseguire la riduzione di lussazioni*

Sapere eseguire punture lombari*

Aver partecipato attivamente alla gestione di ictus in fase acuta* 20

Avere praticato cateterismi vescicali (catetere di Foley, sovrapubici)* 20

Avere esaminato pazienti con urgenze oculistiche 10

Avere praticato ed interpretato otoscopie* 10

Avere praticato tamponamenti anteriori e posteriori per il controllo dell’epistassi*

5

Avere partecipato attivamente a parti* 10

Sapere eseguire le procedure di decontaminazione (cutanea e gastrica compreso il posizionamento dei sondini nasogastrici per eseguire il lavaggio gastrico ed intestinale)*

Avere partecipato direttamente ai processi gestionali e decisionali della centrale operativa del 118

L’apprendimento delle attività professionalizzanti indicate con (*) può avvenire tramite anche simulazione per una percentuale massima del 30%.

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Medicine Initiative. Ann.Emerg.Med. 2007;50:726-732.

2 Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca: Ap-provazione della Scuola di specializzazione di “Medicina d’Emergenza-Urgenza”. 2006;G.U. 118

3 Petrino R, Bodiwala G, Meulemans A, Plunkett P, Williams D: EuSEM core curriculum for emergency medicine. European Journal of Emergency Medicine 2002;9:308-314.

4 Petrino R, Brown R, Hartel C, Lemoyne S, Pini R, Spiteri A, Pitts S, Graham CA: European Board Examination in Emer-gency Medicine (EBEEM): assessment of excellence. Europe-an Journal of Emergency Medicine 2014;21:79-80.

5. Ministero della Salute: Determinazione del numero globale di medici specialisti da formare ed assegnazione dei contratti di formazione specialistica dei medici per l’anno accademico 2015/2016. 2016;G.U. 149.

Da quanto esposto sopra, possiamo concludere che la nostra specialità si basa su un curriculum formativo di ot-timo livello e che almeno gli specializzati nelle scuole to-scane hanno una ottima preparazione. Tuttavia rimane la nota dolente del numero di contratti di specializzazione in medicina di emergenza-urgenza finanziati ogni hanno dal Ministero che risulta molto inferiore alle necessità del Servizio sanitario nazionale: anche per il 2016, a fronte di una richiesta di circa 300 contratti avanzata dalla Con-ferenza Stato-Regioni5, ne sono stati finanziati solamente 150 (119 dal Ministero e 31 dalle Regioni).

Bibliografia1 Ban KM, Pini R, Sanchez LD, Weiner SG, Anderson PD, Gri-

foni S, Ciottone GR, Edlow JA, Kelly SP, Galli L, Freitas R, Ro-sen P, Berni GC, Wolfe RE, Gensini G: The Tuscan Emergency

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Discussione

Alessandro RosselliCollaboratore scientifico ARS per l’emergenza-urgenza

Il medico di Pronto Soccorso (PS) è stato fino a tutti gli anni ‘80 considerato come un medi-co di scarsa qualificazione professionale, messo a fare un lavoro che non aveva una sua precisa dignità ospedaliera. Era considerato una specie di “vigile sanitario” con il com-pito, oltre che di curare la piccola traumatologia, di smistare i pazienti ai vari consulenti, che poi avrebbero deciso cura e destino del paziente.È stato con lo sviluppo e il cambiamento di funzione del PS degli anni ‘90 che il medico di PS ha iniziato a assumere un ruolo più importante, imponendosi come medico “a tutto tondo” anche nei processi di cura. Pur con ambivalenze e contraddizioni, si è progressiva-mente delineata una nuova figura specialistica che richiedeva una particolare formazione per affrontare efficacemente i vari problemi in emergenza e urgenza (EU). Contemporane-amente si stava affermando una nuova forma organizzativa del PS, che doveva rispondere agli accresciuti compiti che quest’ultimo stava assumendo: l’Unità operativa di medicina d’urgenza. Accanto al PS nascevano Osservazione breve intensiva (OBI) e un’area ad alta intensità, finalizzate a una migliore gestione delle urgenze e alla possibilità di decisioni di esito più complete e sicure.Le esigenze formative poste dal crearsi di una nuova figura specialistica hanno visto nel-la istituzione della Scuola di specializzazione la risposta più significativa. Nonostante la Scuola di specializzazione definisca un preciso profilo di specialista, nella pratica il medico specialista in EU non si è ancora inserito con chiarezza di compiti nel complesso dell’organizzazione ospedaliera. Questo in ragione di un non ancora risolto conflitto, da una parte con altre specialità e,dall’altra, con un mondo interno alla stessa medicina d’urgenza, ancora alle prese con un numero significativo di medici che hanno impostato la loro carriera senza la convinzione del ruolo e con carattere spesso di provvisorietà (in attesa cioè di essere inseriti nella branca specialistica che è stata prioritariamente scelta). La cultura professionale dell’EU è rispecchiata nel nome stesso della specialità: medicina d’emergenza-urgenza e NON d’urgenza. Le denominazioni hanno un loro significato pregnante. Basta pensare che nel 1997, quando fu riconosciuta la branca ospedaliera,si introdusse il compromissorio e confusionario termine di “medicina e chirurgia d’accettazio-ne e urgenza” che ha causato non pochi equivoci organizzativi e professionali. Fino a che questa cultura professionale e lo specialista che la rappresenta non si imporranno anche nel management sanitario, oltre che nel mondo medico in generale, in modo che ne venga riconosciuta la funzione precipua (non solo la capacità diagnostica nell’azione di filtro ma anche il trattamento del malato critico nelle prime fasi), non avremo mai uno specialista completo e capace di una carriera soddisfacente, alla pari degli altri specialisti.Nasce da questo clima ancora confuso la difficoltà, purtroppo già sperimentata, di intro-durre nelle Unità operative di medicina d’urgenza i nuovi specialisti in medicina d’EU. Essi costituiscono un inestimabile nuovo patrimonio nella storia della branca, perché sono i primi medici che hanno scelto questo tipo di lavoro specialistico e in tale senso sono stati formati. Dovrebbero costituire il patrimonio culturale e professionale sul quale le organizzazioni sanitarie puntano per far compiere alla medicina d’EU un ulteriore salto verso una pratica

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che si basi sui principi sopra esposti. Si tratta quindi di inserirli pienamente nell’articolata area dell’EU, dando loro fiducia e tenendo conto che la loro formazione è diversa da quel-la di tutte le altre specialità. A loro volta, i nuovi specialisti devono dare un contributo allo svolgimento del lavoro in PS, con il dovuto rispetto di quanto finora realizzato, ma nella con-vinzione che possono avere un ruolo originale e innovativo. Sono figure professionali che richiedono di per sè una nuova visione dell’organizzazione del lavoro in EU: se vogliamo-e questa è la strada da perseguire- che lo specialista esplichi la sua professionalità sia in PS che sul territorio, con rotazioni ben calibrate, non possiamo non concepire in modo diverso il lavoro territoriale: la figura medica, fondamentalmente collocata nella struttura ospedaliera, dà il suo contributo, in collaborazione con l’infermiere, in circostanze selezionate, con una rete di sicurezza territoriale basata sul personale laico adeguatamente formato.Abbiamo davanti un lungo periodo in cui coesisteranno le nuove figure specialistiche e i medici che proverranno dalla specialità “equivalenti”, oltre naturalmente i medici che costituiscono il “vecchio” e prezioso patrimonio attuale. La spinta a una rinnovata organiz-zazione del sistema di emergenza basata su un’integrazione professionale, di cui i medici specialisti in EU saranno i garanti, e che dovrà comprendere anche i nuovi assunti delle specialità equivalenti, potrà essere la base di un nuovo modo di intendere e praticare la professione. Resta quindi il problema di una formazione integrativa (riguardante i medici non specialisti in EU) e dell’aggiornamento permanente (riguardante tutti): ai Dipartimenti di emergenza(DE) il compito fondamentale di stilare e realizzare programmi di aggiorna-mento secondo i bisogni specifici della varie realtà.Gli stessi DE dovranno essere sempre più concepiti in modo da contenere nella loro strut-tura anche spazi per le metodiche di insegnamento e aggiornamento, soprattutto tramite simulazione.Ma c’è un grande problema che riguarda tutti i medici che lavorano nell’EU,in particolare quelli che hanno scelto come vocazione professionale la specialità attinente e che non avranno, a differenza degli altri specialisti, la possibilità, a un certo punto della carriera, di cambiare lavoro. Il lavoro in EU è difficile, duro e stressante. Non è pensabile che un medico passi tutta la sua carriera a fare i turni di guardia in PS o sul territorio, a trenta come a sessantacinque e più anni. È pertanto indispensabile configurare una tipologia di carriera che vada al di là delle promozioni gerarchiche di ruolo, che possono riguarda-re solo una minoranza dei medici specialisti. Mi riferisco a una struttura dipartimentale articolata tra settori di assistenza, formazione, ricerca, prevenzione, tale da accogliere, nelle varie fasi di sviluppo di carriera, tutti i professionisti. Anche lasciando, da una certo punto in poi, la “prima linea”, il medico continuerà a dedicarsi alla propria materia su altri campi a da altro punto di vista, in modo da non disperdere un patrimonio che si è formato negli anni e che risulta sempre prezioso. Un rapporto di scambio con le giovani generazioni è uno dei punti-chiave di questo alternarsi di funzioni. Non è questa la sede per affrontare i problemi economici connessi alla specificità di questo tipo di specialità (particolare usura, impossibilità a svolgere la libera professione), ma è certo che, anche su questo piano, bisognerà affrontare ai vari livelli istituzionali e sindacali la questione, con realismo e lungimiranza.

Bibliografia

Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca: Approvazione della Scuola di specializza-zione di “Medicina d’Emergenza-Urgenza”. 2006;G.U. 118.

Counselman FL.,Borenstein MA.,Chisholm CD. et al (2013): The 2013 model of the clinical practice of emergency medicine, Acad Emerg Med,21: 574-98.

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Gloriana MancoAzienda Usl Toscana Centro, Ospedale di Prato

1969: Decreto legge stabilisce che tutti i grandi ospedali siano dotati di un pronto soccor-so h24.1991: Disp n.412 in materia di Finanza pubblica dispone che il livello di assistenza deb-ba essere uniforme in tutta Italia.1992: DPM 27 marzo 1992 prevede la riorganizzazione della rete dell’emergenza (PPI, PS, DEA I livello, DEA II livello; 1996: Atto d’intesa Stato-Regioni; istituzione del numero unico nazionale di emergenza, il 118.Nel sistema territoriale (C.O. 118 e mezzi di soccorso) si arruolavano medici a contratto, dipendenti, fissi o a rotazione e medici di guardia medica, titolari, che avessero frequen-tato l’apposito corso regionale, ai sensi dell’articolo 22, comma 5 del DPR 41/1991 e quindi con contratto convenzionato a tempo indeterminato, prevalentemente addetti ai mezzi di soccorso. La responsabilità della CO118 veniva attribuita ad un dirigente di I o II livello con ‘comprovata esperienza’ nell’ area dell’ emergenza; nei PS il personale medico proveniva a rotazione dai reparti con turni di guardia, e l’attività di emergenza-urgenza era distinta in “medica” e “chirurgica” con distinzione di approccio per tipo di patologia; la responsabilità, anche essa a rotazione, veniva affidata ad un medico con una qualifica non inferiore ad aiuto e con ‘esperienza’ nel settore.1997: DPR 484/97 Nasce la disciplina medicina e chirurgia di accettazione e urgenza MCAU. Il DPR individuava i requisiti specifici per l’attribuzione di incarichi di direttori di struttura.1998: DPR 483/98 individuava la stessa disciplina di MCAU per l’accesso al ruolo di dirigenti di I livello e, per quei medici che a gennaio del 1998 fossero privi di specializ-zazione nella disciplina (CHE NON ESISTEVA) o in disciplina equipollente o affine, richie-deva i dieci anni di servizio nella disciplina; DMS 30 gennaio 1998 individua i Servizi e scuole equipollenti per la disciplina di medicina e chirurgia di accettazione e di urgenza (ben 35); DMS 31 gennaio 1998 individua le discipline affini.1999: D.Lgs. 229 (art. 8.1 bis) dispone il passaggio a rapporto d’impiego con l’inqua-dramento nel ruolo sanitario dei medici addetti alle attività di emergenza territoriale e titolari di un incarico a tempo indeterminato da almeno cinque anni, a domanda e previo giudizio di idoneità.2000: nasce la SIMEU.2006: pubblicazione dell’ordinamento della Scuola di specializzazione in medicina d’e-mergenza-urgenza sulla Gazzetta Ufficiale del 22-5-2006 (DM n.118).2009: Inizio Scuola a.a. 2009/2010 in 25 sedi universitarie in Italia per 63 posti. 2014: Anno primi specialisti 2014.2016: numero degli specialisti in Italia: 100.

Il vertiginoso incremento del ricorso della popolazione al servizio di emergenza sanitaria cui si è assistito negli ultimi 20 anni, l’elevato turnover del personale, la sempre maggiore complessità di intervento in ambito oltre che strettamente professionale, anche manageria-le, organizzativo, e sociale, sommati alla quanto mai eterogenea provenienza dei medici operanti nell’emergenza, evidenzia la necessità di una formazione specifica comune ed un approccio mirato per garantire standard di qualità, affidabilità e sicurezza. Negli ultimi 20 anni siamo stati protagonisti di iniziative formative al principio percepite all’esterno

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come “autoreferenziali”, soprattutto da parte di alcune discipline “contigue”, all’interno delle quali non mancava chi guardava al medico di emergenza come qualcosa di “inuti-le” per il sistema oppure di “minaccioso” per il ruolo di altri specialisti che si ritenevano in qualche modo emergenzisti per diritto di nascita. Sta di fatto che, grazie all’iniziativa di chi vi lavorava con passione all’interno delle Società scientifiche o semplicemente sul campo, hanno preso forma pian piano programmi formativi con corsi specifici e spesso con simulazioni e training on the job, con graduale coinvolgimento prima delle aziende, quindi delle Regioni. La Toscana, con il “Progetto Harvard” e il master universitario è stata pioniera in tal senso. Contemporaneamente la crescita delle associazioni/società scien-tifiche di categoria ha ulteriormente e notevolmente contribuito a questa affermazione e definizione di identità, iniziando a legittimare il medico di medicina e chirurgia d’accetta-zione d’urgenza in tutti i contesti.Il fabbisogno formativo, almeno a livello concettuale, è diventato palese e chiaro nelle sue articolazioni, e ad oggi non si deve più convincere nessuno sul fatto che in un Pronto Soccorso debbano operare medici di emergenza-urgenza con competenza nella gestione di situazioni TEMPO-DIPENDENTI.La nascita della Scuola di specializzazione ha avuto una forte valenza di ‘identità’ per chi sceglie di operare in emergenza e di rimanervi, oltre a rappresentare uno strumento valido per uniformare l’attività sanitaria su tutto il territorio nazionale. Controversa per taluni per i risvolti sulle prospettive di carriera, ambita per altri, la Scuola di specializzazione ad ora e fintanto che il numero delle borse messe a concorso saranno calcolate sullo storico e non sul fabbisogno, non garantisce una pianificazione adeguata. D’altra parte accanto all’esiguo numero di specialisti nella disciplina, nell’ospedale per acuti la riduzione dei posti letto ospedalieri a fronte della mole di attività che cresce a macchia d’olio nei dipartimenti di emergenza trova come naturale evoluzione il necessario accesso nella rete dell’emergenza di specialisti provenienti da discipline equipollenti. Resta dunque un problema centrale pianificarne la formazione in modo sistematico e omo-geneo che consenta di svolgere l’attività sui mezzi di soccorso, CO118, PPI, PS, OBI e medicina d’urgenza, anche nell’ottica di una integrazione di attività e di carriera.

Per caratteristiche e tempi a disposizione, un percorso formativo “compensatorio” (strano dire compensatorio per un percorso che ad oggi, per molti anni e forse per sempre si rivolge alla percentuale maggiore dei medici che accedono alla rete emergenza) non può che svolgersi nell’ambito ‘dell’apprendimento dell’adulto’ con un ‘training on the job’ sul quale vestire la graduale assunzione di competenze e ruoli nei diversi ambiti del sistema di emergenza, ben pianificato, standardizzato e programmato in ambito aziendale, condivi-so ed esteso a quello regionale, ma soprattutto elaborato ed espletato dal sistema sanitario nazionale, seppur in collaborazione con l’Università. La formazione continua del neoassunto non specialista nella disciplina dovrebbe essere poco accademica e molto pragmatica, con il supporto scientifico dell’evidenza e pratico di workshop, simulazioni e esecuzione on the job di procedure mirate.Potrebbe essere ipotizzabile, senza spreco di risorse inaccessibili, la progettazione di un sistema che preveda: incontri scientifici sfruttando le ore di aggiornamento obbligatorio (tanto spesso non utilizzate a tale scopo); un programma dettagliato e standardizzato di procedure da svolgere prevalentemente durante l’attività lavorativa, o comunque ruo-tando in quei reparti ove è possibile acquisirne le competenze; l’accostamento graduale all’attività sull’ambulanza (competenza meno scontata e semplice da acquisire di quanto a volte si creda); pianificazione dei corsi base e simulazione (ALS/ATLS/ PHTLS/PALS/ECOFAST/ECOCARDIOGRAFIA/NIMV…) da organizzare in collaborazione con l’Azien-

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da ospedaliera-università di riferimento per territorio, senza necessariamente far ricorso a corsi esterni. Altri passaggi organizzativi possibili in tema di formazione sono la possibilità di una ro-tazione dei medici tra i diversi presidi delle USL in base ai volumi di attività e quindi alle procedure eseguibili, in un contesto simile quanto avvenuto nel corso della realizzazione del progetto Harvard “formare i formatori”, l’individuazione di tutors in base all’esperien-za già acquisita che potrebbero affiancare neo assunti per periodi predefiniti di attività in tandem, (leva quest’ultima che potrebbe funzionare anche come strumento di decompres-sione per i medici esperti che spesso si sentono schiacciati dalla routine). Infine, tenuto conto che la maggior parte degli specialisti in discipline equipollenti/affini che attualmente entrano nella rete di emergenza provengono dalle scuole di medicina interna e geriatria, la cui formazione di base è sicuramente adeguata a completarsi con un tipo di formazione di questo genere, sarebbe opportuno, salvaguardando la possi-bilità di approvvigionarsi di personale, ridurre il numero di equipollenze e affinità per l’accesso ai concorsi nella disciplina alla luce delle ormai chiare competenze della spe-cialità. Questo consentirebbe la realizzazione di una formazione più fluida e adeguata agli standard richiesti.

Massimo Mandò Dir. Dipartimento emergenza-urgenza, Area Vasta Sud EstU.O.C. Centrale operativa 118 Area Vasta Sud Est

Per un sistema sanitario nazionale che cambia, con un nuovo modello ospedaliero (DM 70/2015) e delle cure primarie, anche il sistema di emergenza-urgenza deve sviluppare (Dir. 27 marzo 1992) ed adeguare la propria capacità di risposta ai bisogni di salute. Il riconoscimento a tutti i livelli del medico di emergenza-urgenza, tutor dei percorsi clini-co assistenziale in un dipartimento di emergenza-urgenza integrato, territorio-ospedale e ospedale-ospedale, permetterà di migliorare la qualità percepita, efficacia ed efficienza, nel rispetto del principio della sostenibilità.”

Il sistema di emergenza-urgenza fino a pochi anni fa era ed è ancora oggi “figlio di nessu-no”, cioè costituito da medici, convenzionati o dipendenti, di varia estrazione specialistica o addirittura privi di specializzazione, “adattati” dall’esperienza (e dalla necessità) alla gestione del paziente acuto e da modelli organizzativi e gestionali diversi nelle realtà ter-ritoriali e ospedaliere, nelle Regioni e nelle stesse Aziende, creando eterogenee risposte al soccorso sanitario.Il sistema d’emergenza-urgenza nasce in Italia con il DPR del 27/3/1992 ed a distanza di quasi 25 anni dalla sua istituzione rappresenta uno degli ambiti più critici del SSN.Nel nuovo modello di Rete ospedaliera, previsto dal DM 70/2015, il sistema di emergen-za-urgenza rappresenta una risposta al bisogno urgente 24h su 24, integrata, pur con la sua autonomia, anche con la rete della patologia cronica. L’emergenza-urgenza non inizia e finisce in un ambulatorio cosi come in una corsia o in una stanza di degenza, ma si organizza e si articola in percorsi strutturati e codificati tra il territorio e l’ospedale e oggi anche tra ospedali.È necessario un aggiornamento e una rivisitazione del servizio e del modello al fine di ren-derlo sempre più efficace, efficiente ed omogeneo su tutto il territorio nazionale, concetto

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che ancora oggi non risulta completamente applicato.Le modalità di risposta alle patologie tempo dipendenti sono anche molto diverse tra Re-gione e Regione, e la motivazione di queste differenze risiede nella diversa applicazione del DPR 29 marzo 1992, legge ormai “anziana” ma ancora non operativa in maniera omogenea, e quindi da attualizzare per affrontare le nuove e le future sfide.

Ad oggi il sistema pone alcune problematiche:• disomogeneità nella gestione di casi con medesimo percorso clinico e terapeutico;• difficoltà nella gestione del paziente dopo le prime fasi di stabilizzazione;• frequente attivazione di consulenze specialistiche e di esami nel PS;• ridotte e mancate relazioni tra i servizi territorio-ospedale e ospedale-ospedale;• disomogeneità nella gestione del rischio e di governo clinico;• non uniformi percorsi di formazione, accreditamento, sviluppo continuo della qualità,

ricerca.

I medici che lavorano nell’area dell’emergenza, sia sul territorio che in ospedale, oggi hanno tutti una diversa estrazione formativa, culturale di approccio all’emergenza. Ad oggi numerose sono in Italia le discipline e gli specialisti che a diversi livelli si interessano e garantiscono l’emergenza: basta ricordare la figura dell’anestesista-rianimatore, il car-diologo, chirurgo, ortopedico, pediatra, nefrologo, allergologo, psichiatra … Ma nessuno di questi garantisce l’emergenza-urgenza se non un medico che si dedica a tempo pieno alla presa in carico, alla gestione e trattamento dei rischi per patologie e traumi tempo-dipendenti. L’avvento quindi della Scuola di specializzazione in medicina di emergenza-urgenza nel 2008 è stato un passo essenziale per la crescita ed il rinnovamento del sistema sia in termini di appropriatezza che di sicurezza del paziente realizzando la figura del medico specialista in emergenza-urgenza in un sistema nazionale e regionale che deve affrontare nuove sfide e nuovi modelli organizzativi.È opinione che, per la complessità dell’iter formativo e a garanzia della qualità negli stan-dard assistenziali, è necessario che il professionista dell’emergenza sia omogeneamente e stabilmente inquadrato nel sistema. Da ciò consegue che il professionista dell›emergenza sarà anche legittimato a svolgere la propria attività in tutte le articolazioni organizzative e a rivestire tutte le posizioni funzionali e direttive del sistema stesso.Le varie Scuole universitarie in medicina di emergenza-urgenza ogni anno riescono a specializzare un numero ancora esiguo di medici rispetto alle necessità, tenuto anche conto delle piante organiche e dell’importante turnover che questa branca della medicina presenta; dobbiamo ricordare che ad oggi non tutte le facoltà di medicina hanno attivato il corso di specializzazione con diversità tra Regione e Regione.Ancora oggi il medico specialista in emergenza-urgenza non ha riconosciuta la sua quali-fica specifica in sede concorsuale, venendogli quindi meno il punteggio relativo al ricono-scimento del titolo accademico acquisito.Inoltre il sistema è tuttora composto per la grande maggioranza da medici non specialisti in medicina di emergenza-urgenza, ma che di fatto (occorre riconoscere) lo sono diventati con l’esperienza lavorativa e con i tanti corsi formativi specifici della materia eseguiti e verificati nelle Aziende sanitarie.La possibilità di uno sviluppo di carriera è ad oggi precluso al personale medico conven-zionato, che anche per questo motivo dovrebbe essere al più presto trasformato contrat-tualmente verso la dirigenza medica, in modo da omogeneizzare le figure e i contratti per la definitiva rifondazione del sistema di emergenza-urgenza del SSN.

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Sia l’Università che il lavoro quotidiano nelle Aziende sanitarie, quando ben organizzato all’interno di strutture coordinate a livello dipartimentale, tendono a formare e a realizzare la figura di un medico di emergenza sanitaria “unico”, di fatto il tutor di processo e di area, con esperienza territoriale consolidata e con una spiccata propensione verso il la-voro in Pronto Soccorso, fino a giungere ad una attività operativa di reparto in medicina d’urgenza. Questa figura “a tutto tondo” del medico di emergenza-urgenza rappresenta il reale e fondamentale trampolino di lancio sia per una corretta formazione medica, che per sviluppi di carriera.Le società scientifiche presenti e che si interessano di emergenza-urgenza in Italia sono e devono essere attori nella promozione e nella crescita, nel SSN e in quelli regionali, della figura del “medico di emergenza unico”, in modo da riconoscere alla sua figura il riferimento nell’area, il tutor dei percorsi clinico-assistenziali e di governo in emergenza-urgenza e promuovere il modello dipartimentale con i sui standard e di dotazioni anche di personale. (standard FIMEUC 2011).L’organizzazione dell’attività professionale, gestionale, organizzativa e di governo del medico e la progressione di carriera del DEU potrebbe essere organizzata su tre livelli strategico, intermedio e operativo.• Strategico direzionale dove stanno i direttori Dipartimento, direttori di aree funzionali

e aree omogenee questa rappresenta la regia del Dipartimento dove si dovrebbero prendere le decisioni di tutto il sistema dal personale alle linee strategiche.

• Gestionale Intermedio dove risiedono i responsabili di Unità operative complesse e semplici e i responsabili di sezione questa rappresenta la parte di controllo e di respon-sabilità del sistema dove i direttori devono mettere in pratica, promuovendo in colla-borazione con i professionisti regole, percorsi e obiettivi condivisi a livello strategico.

• Operativo dove si collocano i professional, i medici in formazione, i tutor, i professio-nisti di branca e/o di settings. Qui è l’Area dove esplode la professionalità dei medici in emergenza-urgenza, nel 118 sul territorio, nei Pronto Soccorso e osservazione, nelle medicine d’urgenza, dove gli operatori specificamente formati e addestrati a diretto contatto con il paziente e i suoi famigliari, fanno la differenza.

La qualità, l’efficienza e l’efficacia di un sistema di emergenza-urgenza, cosi come previsto dal DPR 27 marzo 1992, va di pari passo all’organizzazione, lo sviluppo e l’applicazione del modello organizzativo dipartimentale.Un dipartimento di emergenza-urgenza “chiuso”, cioè organizzato e gestito “a comparti-menti stagni” che non lavorano e non comunicano e non condividono formazione, adde-stramento, regolamenti, procedure e indicatori (118 – Pronto Soccorso – OBI – medicina d’urgenza), non è in grado di far sviluppare al medico la conoscenza e la consapevolezza completa della gestione del paziente acuto, mentre solo un Dipartimento “aperto” che dia a ciascun medico la possibilità di lavorare nei vari “settings” è in grado di determinare la crescita, professionale ed anche di carriera, di questo professionista dell’emergenza-urgenza.

Riferimenti normativo e bibliografici

Dpr 27 marzo 1992 Atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni per la determinazione dei livelli di assistenza sanitaria di emergenza pubblicato sulla G.U. n. 76 del 31/3/92.

Atto d’intesa Stato-Regioni del 17-05-1996 “Atto d’intesa tra Stato e Regioni di approvazione delle linee guida sul sistema di emergenza sanitaria in applicazione del decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1992 pubblicato su Gazzetta Ufficiale N. 114 serie generale del 17 mag-gio1996”.

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Conferenza Stato Regioni seduta del 22 maggio 2003 “ Accordo tra il Ministro della salute, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano sul documento recante: “Linee guida su formazione, aggiornamento e addestramento permanente del personale operante nel sistema di emergenza-urgenza”.

Istituzione della Scuola di specializzazione in medicina d’emergenza-urgenza, con la pubblicazione dell’ordinamento della Scuola sulla Gazzetta Ufficiale del 22-5-2006 (Decreto Ministeriale n. 118),

Standard organizzativi strutture di emergenza-urgenza (FIMEUC-SIMEU).

Criteri e standard del servizio 118 (SIS 118).

Mauro PratesiDirettore SC Medicina d’Urgenza, Ospedale di Sanata Maria Nuova,

Piazza Santa Maria Nuova 1, 50122 Firenze

Solo dopo un contrastato e ancora non sopito dibattito si è avuto nel 2008 anche in Italia l’istituzione della specialità in Medicina d’emergenza-urgenza (MEU); una specialità che è stata un riconoscimento di un cammino formativo, di competenze scientifiche, culturali, procedurale, etiche, professionali ed organizzative compiuto spontaneamente nel decennio precedente da parte dei medici che lavoravano in PS. In particolare la medicina d’Urgenza, nata in PS, ormai presentava un’articolazione organizzativa che partendo dall’emergenza extra-ospedaliera interessava il PS ma anche le nuove strutture di osservazione breve inten-siva e le sub-intensive (HDU) e in alcuni casi anche delle degenze ordinarie. Questo ricco e articolato tessuto organizzativo era stato il luogo di formazione dei medici che lavoravano in PS e dal 2008 in poi è stato il terreno di formazione dello specializzando MEU.Questa insomma era l’eredità, di cui eravamo naturalmente fieri, lasciata ai nuovi specia-listi in MEU; allo stesso tempo chi lavorava da anni in emergenza era pieno di aspettative nel poter finalmente acquisire questi specialisti.A mio parere le aspettative sono state deluse non sulla qualità di questi colleghi, ma piut-tosto sulla quantità, poiché il numero dei nuovi specialisti è nettamente insufficiente rispetto alle carenze d’organico delle MEU. Attualmente è ricoperto solo il 15% delle carenze pre-viste nel sistema d’emergenza (Donati, 2014) e questo non può incidere significativamente sulla presente disomogeneità delle competenze professionali. Se il percorso fin qui fatto per la costruzione di una MEU è stato significativo, siamo an-cora lontani dal riconoscimento da parte di tutti (cittadini, sanitari, amministratori) che il professionista dell’emergenza, anche nel nostro Paese, è lo specialista in MEU.Che cosa possiamo fare tutti noi che lavoriamo da anni nell’emergenza per raggiungere o almeno avvicinarci a questo obiettivo?È certo che l’obiettivo riassume il superamento di tutte le difficoltà e frustrazioni che incon-triamo noi sul lavoro e che i neo specializzati iniziano a percepire nell’affermazione della loro identità professionale. È interessante a questo proposito il sito internet degli specia-lizzandi (giovanimedici.com), dove nella chat degli specializzandi MEU questo disagio ricorre frequentemente.

In questi anni il mondo dell’emergenza extra-ospedaliera (118) ed intra-ospedaliero (PS e MEU) ha avuto sviluppi, obiettivi e organizzazione separati; a parte alcune lodevoli eccezioni sono stati due realtà che hanno avuto solo saltuari punti di contatto. Lo sviluppo

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delle reti sulle patologie tempo dipendenti come il politrauma, l’infarto miocardico STEMI e lo stroke ischemico da un lato e la presenza degli specialisti in MEU da l’altro sono una grande occasione per andare ad unificare organizzativamente e professionalmente in uniche unità operative queste due realtà dell’emergenza. La presenza dei giovani spe-cialisti in MEU, aiuterà sicuramente a superare le resistenze e pregiudizi presenti anche nel mondo dell’emergenza ospedaliera. Questo permetterebbe all’ emergenza-urgenza di gestire e promuovere le reti delle patologie tempo dipendente piuttosto che subirle come una sottrazione di pazienti e patologie. Gli indicatori stabiliti dalla Regione Toscana con la Delibera 140/2008 sono stati tra-sformati in obiettivi da raggiungere ad ogni costo, portando anche ad una distorsione delle cure e dell’organizzazione per riuscire a centrare gli obiettivi così intesi, che niente avevano a che fare con una moderna cultura sanitaria (Heyworth, 2011). In alcuni sistemi sanitari come quello della GB è stato posto rimedio negli anni successivi con nuovi indica-tori non solo quantitativi ma anche di qualità, ad esempio monitorando il filtro al ricovero e il trattamento su patologie come la trombosi venosa profonda e la cellulite. Nel momento in cui parliamo di inserire gli specialisti in MEU, di renderla attraente professionalmente e con una forte identità, questo problema degli indicatori mi sembra cruciale, consapevoli che gli attuali indicatori non rappresentano degnamente l’essenza del nostro lavoro (stabi-lizzazione dei pazienti acuti e filtro attraverso un attenta stratificazione).Il medico d’urgenza oltre a conoscere le patologie acute deve anche saper fare tutte quelle procedure diagnostiche e terapeutiche che permettano di diagnosticare e trattare un’emergenza medica. Coniugare il “sapere” con il “saper fare” è sicuramente una sfida impegnativa che definisce le competenze della MEU. Un medico d’urgenza con poche abilità tecniche è costretto a ricorrere a molte consulenze che determinano un ritardo delle prestazioni con potenziale danno. Ogni giorno un medico d’emergenza deve essere in grado di posizionare un accesso venoso centrale o un chest tube, eseguire un intubazione endotracheale, ridurre una lussazione, tamponare un epistassi ecc. La qualità e la quantità delle procedure erogate da un PS descrivono bene le competenze in MEU di quel servizio (J. L. Falcon-Chevere, 2013). Coniugare conoscenza ed abilità tecnica rende la MEU al-tamente attrattiva e costituisce il “core” della specialità. La qualità e quantità di procedure svolte da un PS, anche in Italia, dovrebbero diventare un indicatore di qualità importante e sostituire, almeno in parte, gli indicatori di tempo che paradossalmente premiano quelle strutture che ne fanno poche.Critical care. Uno dei compiti per cui è stata istituita la MEU è quello di trattare precoce-mente e possibilmente stabilizzare i pazienti critici. La cultura di critical care fa parte del bagaglio d’insegnamento alla scuola di specializzazione in MEU, ma deve esserlo anche per coloro che attualmente lavorano in MEU attraverso l’istituzione di corsi di certificazio-ne in critical care. La cultura di critical care deve essere vista come un continuum che inizia con le cure extra-ospedaliere, continua negli interventi di MEU in PS e culmina in terapia intensiva (TI) (David T. Huang, 2005). Una comune cultura di critical care sicuramente migliorerà l’interfaccia tra PS-TI con un erogazione più precoce delle cure.I posti letto di sub-intensiva (HDU) nelle strutture di MEU sono il luogo dove questi pazienti possono essere trattatati all’arrivo al PS (fase diagnostica e di stabilizzazione) prima di essere trasferiti nei reparti di TI.La stratificazione prognostica è un aspetto del lavoro del medico di ME che, se da un lato richiede grandi risorse culturali ed organizzative, dall’altro permette di ridurre drastica-mente i ricoveri ospedalieri a solo quei pazienti che non possono essere trattati altrimenti. Per farlo è necessario che il medico di MEU sia fornito di buone conoscenze mediche, con-

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tinuamente aggiornate; è infatti uno dei campi che negli anni ha visto un rapido evolversi grazie alla ricerca clinica e a quella farmacologica. Un esempio può essere la malattia tromboembolica venosa dove fino agli anni 2000 era obbligatorio il ricovero ospedaliero, mentre oggi non solo per la trombosi venosa profonda ma anche per l’embolia polmonare, in alcuni casi, è sicuro ed efficace il trattamento ambulatoriale. Quanto detto è vero per tante altre patologia come l’emorragia digestiva, lo scompenso cardiaco, la sepsi ecc. La stratificazione prognostica è uno del “marchi di fabbrica” dei medici di MEU è può essere valorizzata da una serie di indicatori qualitativi ad hoc.È questo un tema che si lega strettamente al precedente e allo sviluppo della MEU. Negli anni 90 le pubblicazioni scientifiche sull’emergenza-urgenza erano prodotte per il 69% in USA e solo per il 22% in Europa (quasi tutte in GB); a venti anni di distanza, la quota di pubblicazioni prodotta in Europa è nettamente aumentata (37%) grazie alla diffusione delle strutture di MEU e alla diffusione delle scuole di specializzazione (O. Mirò, 2012). Purtroppo ancora le pubblicazioni e la ricerca non sono sufficientemente sviluppate nelle nostre strutture, tanto è vero che la maggior parte degli studi di stratificazione prognostica vengono prodotti dagli specialisti di branca piuttosto che dalle MEU. La partecipazione a ricerche multicentriche e le pubblicazioni prodotte dal gruppo potrebbero anche queste diventare indicatori di qualità delle strutture di MEU. Portare a compimento il progetto per la creazione anche nel nostro sistema sanitario della figura unica dello specialista in emergenza-urgenza, è il compito dei prossimi anni e il modo migliore per inserire e valorizzare i giovani specialisti in medicina d’emergenza-urgenza.

Bibliografia

David T. Huang, T. M. (2005). Critical care medicine training and certification for emergency physi-cians. Annals of Emergency Medicine, 46:217-223.

Donati, V. (2014, marzo 4). Emergenza-urgenza: i pericoli di una specializzazione “mai nata”. I perché della mobilitazione di Roma. Sanità24.

Heyworth, J. (2011). Emergency medicine - quality indicators: the United Kingdom perspective. Ac-cademic Emergency Medicine, 18:1239-1241.

J P Wyatt, J. E. (1998). A transatlantic comparison of training in emergency medicine. J Accid Emerg Med, 15:175-180.

J. L. Falcon-Chevere, J. C. (2013). Critical Skill and Procedures in Emergency Medicine. Emergency Medicine Clinics on North America, 31(1):1-385.

O.Mirò, G. B.-P. (2012). Research in emergency medicine in Europe. European journal of Emer-gency medicine, 19(2):63-68.

R. Petrino, G. A. (2002). EuSEM core curriculum for emergency medicine. European Journal of Emer-gency medicine, 9(4):308-314.

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Federico Bulletti1, Claudio Poggioni2, Gabriele Viviani31Dirigente medico 118 Firenze2Dirigente medico 118 Firenze3Dirigente medico DEAS Careggi Firenze

Pur rappresentando un fulcro del nuovo sistema assistenziale1-4, i Dipartimenti di emergen-za accettazione (DEA) non hanno ancora oggi una organizzazione uniforme sul piano nazionale o regionale, venendosi a creare delle differenze rilevanti sul piano gestionale ed organizzativo; necessitano pertanto di una riorganizzazione strutturale e di una imple-mentazione di risorse umane con personale altamente specializzato, in grado di prendere in carico il paziente critico nella sua complessità avvalendosi, quando necessario, degli altri specialisti ma mantenendo sempre la gestione decisionale globale del malato.Anche l’emergenza pre-ospedaliera necessiterebbe di essere riformata ed uniformata a livello nazionale, poiché al momento sono presenti modelli organizzativi estremamente eterogenei nel nostro Paese, all’interno dei quali operano con modalità e responsabilità variabili vari operatori sanitari e non (soccorritori afferenti ad associazioni di Volontariato, medici provenienti da molteplici esperienze formative, infermieri, autisti ecc.).Un modello organizzativo in grado di offrire un soccorso avanzato a casi selezionati, riservando agli altri comunque il supporto di un professionista potrebbe permettere un ottimale utilizzo delle risorse. Tale organizzazione, basata su un modello di tipo anglosas-sone, prevede che nella maggior parte dei casi il mezzo che interviene sia dotato di un professionista sanitario non medico, che nella nostra realtà potrebbe essere un infermiere professionale specificatamente formato. Questo professionista è infatti in grado di gestire la maggior parte delle patologie acute secondo protocolli specifici, che dovrebbero in fu-turo essere condivisi a livello nazionale. Pochi mezzi medicalizzati (automediche) dovreb-bero essere presenti nei principali presidi ospedalieri, pronti ad intervenire a supporto dei mezzi infermieristici quando necessario, nell’esiguo numero di patologie che richiedono in intervento “stay and play” avanzato, che supera le capacità operative dell’infermiere. Il personale medico che ruota su questi mezzi dovrebbe essere personale con formazione professionale specialistica e/o con ampia e comprovata esperienza, trovandosi ad ope-rare in contesto extra-ospedaliero complesso e privo di assistenza medica specialistica di branca e con pazienti selezionati con elevato livello di criticità. I medici che ruotano sui mezzi di soccorso pre-ospedaliero avanzati dovrebbero alternare tale attività a quella ospedaliera, garantendo in tal modo una appropriata conoscenza dei percorsi intra ed extraospedalieri ed una uniforme gestione del malato.Una attenta analisi dei flussi dei pazienti a livello territoriale, dei codici di gravità asse-gnati (dispatch) e della conseguente tipologia di mezzi impiegati, ad oggi possibile grazie alla informatizzazione dei sistemi, permetterebbe un continuo miglioramento del sistema ed una ottimizzazione delle risorse disponibili.

L’organizzazione del Pronto Soccorso potrebbe seguire anch’esso un modello per intensità di cure; dovrebbe essere suddiviso in un’area ad elevata criticità ed un’area a più basso livello assistenziale. Tale suddivisione idealmente si rifletterebbe in una riorganizzazione architettonica e strutturale del PS, con strumentazione ed elettromedicali dedicati, ma so-prattutto dovrebbe prevedere una differenziazione del personale medico che opera nei vari settori. Solamente personale medico con formazione specialistica che preveda la ge-stione del paziente critico e/o con comprovata e dimostrata esperienza, compresa la mes-

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sa in pratica delle principali procedure invasive necessarie, potrebbe operare nell’area ad elevata criticità. Viceversa il personale medico privo delle skills necessarie a gestire il paziente critico, con formazione prevalentemente di natura internistica, potrebbe operare nell’area a più bassa intensità. In tale modello i medici specialisti o con comprovata esperienza nella gestione del pazien-te critico dovrebbero ruotare regolarmente tra l’area critica del Pronto Soccorso, l’area di osservazione breve intensiva ed il soccorso pre-ospedaliero (automedica), garantendo così una profonda conoscenza di tutti i settori della medicina di emergenza ed una perfet-ta integrazione in un continuum di cure che migliori l’assistenza globale al malato critico. Fondamentale al fine di questa organizzazione risulta l’istituzione del ruolo di medico coordinatore, simile al medico “consultant” presente nella realtà anglosassone. Tale figura avrebbe il compito di gestire coordinare e supervisionare l’attività del Pronto Soccorso, rendendosi disponibile a coadiuvare l’attività degli altri medici della struttura quando ri-chiesto o quando la complessità e la criticità della situazione risulti elevata. Questo modello si completerebbe infine con la strutturazione di un percorso di crescita professionale che valorizzi l’esperienza professionale maturata dal medico di emergenza-urgenza durante gli anni di servizio. Risulta infatti evidente che l’attività clinica all’interno del Dipartimento di emergenza-urgenza sia particolarmente usurante e stressante; allo sta-to attuale molti colleghi con più anni di servizio nei DEA chiedono e ottengono trasferimen-ti presso reparti di medicina interna a diversa complessità che generalmente richiedono un minor impegno in termini di stress lavorativo, turni notturni e festività. Questo comporta per il Dipartimento di emergenza-urgenza la perdita di quella professionalità ed esperienza accumulata negli anni che non può così essere messa al servizio dei medici più giovani. Sarebbe auspicabile prevedere un’evoluzione della attività lavorativa calibrata sugli anni di servizio in modo tale da ridurre progressivamente le ore di attività clinica, che potreb-bero essere impiegate prevalentemente nell’attività di medico coordinatore (“consultant”), con incremento progressivo delle ore dedicate al tutoraggio, alla formazione dei neo-specialisti ed alla ricerca scientifica. Il medico specialista in medicina di emergenza-urgenza, che ha ricevuto una formazione multidisciplinare che parte dalle nozioni internistiche per arricchirsi delle competenze di tipo intensivistico e chirurgico-traumatologico, troverebbe in questo modello la possibilità di esprimere al meglio le proprie capacità, privilegiando la visione globale del paziente critico in antitesi alla frammentazione plurispecialistica. Ciò si rifletterebbe in un miglior approccio nei confronti del paziente5, un più corretto utilizzo degli specialisti di altre bran-che e delle risorse diagnostiche e terapeutiche disponibili.Al momento attuale i medici specialisti in medicina di emergenza-urgenza, sono molto spesso impiegati e valorizzati analogamente a medici provenienti da altre specializzazio-ni equipollenti o privi di specializzazione. Inizialmente sono emerse problematiche relative all’accesso ai concorsi per la medicina d’urgenza, solamente in parte risolte (difatti tuttora non è previsto un riconoscimento uniforme della specialità in termini di punteggio). No-nostante ciò, nella nostra Regione, la maggior parte degli specialisti MEU ha iniziato da subito a lavorare presso strutture del SSN, a dimostrazione della discrepanza tra richiesta e numero di borse di specializzazione finanziate ogni anno.Tuttavia l’inserimento nell’ambiente lavorativo non è stato sempre semplice. Molti spe-cialisti infatti, come evidenziato dal questionario che abbiamo sottoposto a tutti i nuovi MEU della Toscana, sono impiegati principalmente nella valutazione di pazienti con bassa criticità (codici verdi/azzurri) o in postazioni a bassa operatività per quanto riguarda l’emergenza territoriale. Soltanto una minima percentuale viene impiegata sia in attività di Pronto Soccorso che di emergenza territoriale, valorizzando in tal modo la figura di un

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professionista polivalente che si occupa dell’emergenza in tutti i suoi campi. Questi aspetti fanno sì che ci si trovi raramente a gestire un paziente critico ed a mettere in pratica le procedure fondamentali della nostra professione, con conseguente progressiva perdita della manualità e delle skills necessarie acquisite durante la specializzazione. Anche il ruolo attribuito nella formazione (anche degli specializzandi MEU) e nella ricerca spesso risulta marginale o assente.Le motivazioni emerse dal questionario secondo le quali lo specialista in MEU non verrebbe adeguatamente valorizzato sarebbero da ricercare non solo in una organizzazione non ancora strutturata ed uniforme dei Dipartimenti di emergenza, ma anche nella difficoltà di diffusione di una idea moderna di medicina di emergenza-urgenza che basi l’assistenza anche sulle specificità professionali acquisite e non solamente sull’anzianità di servizio; il superamento della diffidenza da parte di alcuni colleghi più “anziani” porterebbe sicu-ramente ad un miglioramento dell’assistenza e ad un’utile scambio formativo e culturale.Auspichiamo che si vengano a creare le condizioni idonee affinché lo specialista MEU possa mettere a disposizione tutte le proprie qualità professionali, per contribuire al miglio-ramento del sistema d’emergenza-urgenza.

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